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Italian Pages 550 [555] Year 2017
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I libri di DeriveApprodi
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© 2017 DeriveApprodi srl DeriveApprodi srl piazza Regina Margherita 27 00198 Roma tel 06 85358977 fax 06 97251992 [email protected] www.deriveapprodi.org Progetto grafico di Andrea Wöhr Immagine di copertina: Torino. Fiat Mirafiori, 1973. Sul muro di cinta della palazzina degli uffici. Foto di Dario Lanzardo (dettaglio). Per gentile concessione di Liliana Guazzo Lanzardo. ISBN 978-88-89969-177-6
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Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena
Brigate rosse Dalle fabbriche alla «campagna di primavera» Volume I
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Introduzione
L’epoca che abbiamo messo al centro della nostra indagine si è conclusa da tempo. Cominciata con l’affermazione del modo di produzione fordista, è entrata in crisi tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo, quando le economie occidentali attraversarono una fase di bassa crescita, accentuata dallo choc petrolifero, con ripercussioni negative sull’occupazione, i salari, la produttività e il profitto. Il capitale, non solo italiano, sperimentò in quegli anni strade diverse per rimettere in moto la macchina produttiva e trovò la soluzione in un complesso di scelte, come il decentramento produttivo, la progressiva deindustrializzazione, la contrazione del potere di acquisto dei salari e dei diritti dei lavoratori, che tendevano a ridurre e ingabbiare il conflitto sociale. Era la fine dell’operaio massa e fu in quel contesto che la lotta armata si sviluppò come risposta estrema a quella politica. Il libro si apre con il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani a Roma, per tornare alla nascita delle Brigate rosse nelle grandi fabbriche del Nord, proseguire con lo sviluppo della propaganda armata e affrontare il sequestro Sossi, evento importante per comprendere l’andamento del rapimento di Moro. Nel corso del libro abbiamo analizzato anche la risposta dei partiti e dello Stato, l’evoluzione delle indagini sulla lotta armata, l’opera dei nuclei diretti dal generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, il ricorso alla tortura e la situazione del mondo carcerario, radicalmente trasformata in quegli anni per l’introduzione del regime speciale. Esiste un’ampia bibliografia saggistica sulle Brigate rosse, ma non sono stati moltissimi i libri scritti da storici di professione1. Il motivo, forse, può essere sintetizzato 1 Ci si riferisce agli studi di Francesco M. Biscione, Luigi Bonate, Pino Casamassima, Giovanni Mario Ceci, Donatella Della Porta, Giorgio Galli, Agostino Giovagnoli, Miguel Gotor, Marc Lazar, Massimo Mastrogregori, Marie-Anne Matard Bonucci, Alessandro Orsini, Simone Neri Serneri, Andrea Saccoman, Vladimiro Satta, Isabelle Sommier, Ermanno Taviani, Angelo Ventura e pochi altri, che riprenderemo nel corso della trattazione. In occasione del centesimo anniversario della nascita di Moro, Massimo Mastrogregori ha pubblicato una biografia dell’uomo politico che presenta aspetti inediti: M. Mastrogregori, Moro. La biografia politica del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica, Salerno Editrice, Roma 2016. Anche Guido Formigoni si è occupato di Moro politico in Aldo Moro. Lo Statista e il suo dramma, il Mulino, Bologna 2016. In occasione del 35° anniversario della morte, l’Accademia di studi storici Aldo Moro organizzò un grande convegno sulla figura del politico che offrì, secondo Lorenzo Biondi «spunti originali di ricerca […] con dei tagli che raccontano molto non solo di Moro ma degli interessi della nuova generazione di
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nelle parole di Renato Moro, professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Roma Tre, che valutando un volume sul rapimento di Aldo Moro lo ha definito «ben documentato ma, com’è comprensibile, lontano da una piena storicizzazione della materia»2. L’affermazione, decisa e importante, denota in effetti l’esistenza di una criticità: storicizzare la vicenda delle Brigate rosse è un esercizio complesso. Eppure sono trascorsi quasi quattro decenni da quel periodo, un tempo non breve. Nel 1953, a soli otto anni dalla Liberazione, Roberto Battaglia pubblicò la prima, e ancora oggi valida, Storia della Resistenza italiana. Un altro storico, Guido Quazza, diede alla stampe nel 1966 La Resistenza italiana: appunti e documenti. A ben vedere, in rapporto è come se nel 1985 si fosse messo in dubbio la possibilità di fare storia sulla Seconda guerra mondiale. In quell’anno Paolo Spriano aveva già pubblicato da oltre un decennio la sua Storia del partito comunista, il cui ultimo volume, dedicato alla Resistenza e al Partito nuovo di Togliatti, si occupava del triennio 19431945. Parte di quanto scritto allora da Spriano è stato ridiscusso, ma ciò rappresenta la normalità in storia, non l’eccezione. Nessuno, però, ha mai sollevato dubbi sulla legittimità di quei lavori3. Anzi, proprio quell’area politica e culturale da cui proveniva Spriano, riconducibile al Partito comunista, aveva allora posizioni a volte dogmatiche sulla storia della Resistenza, incontrando in seguito ampie critiche da una forte corrente revisionista4. La stessa area culturale si è distinta in passato per aver spesso negato alla storia della lotta armata la dignità di oggetto di studio, preferendo pamphlet di saggisti costruiti su una metodologia più che dubbia. Vero è che fino al 2008 l’indagine storica sulla lotta armata in Italia è stata condizionata dalla relativa possibilità di reperire materiale d’archivio; tra il 2008 e il 2012, però, una mole importante di documentazione è stata progressivamente messa a disposizione degli studiosi grazie alle cosiddette direttive Prodi e Renzi. Le fonti prisuoi studiosi». I temi trattati vanno dalle relazioni diplomatiche con Stati Uniti, Francia, Germania ed Europa orientale al percorso verso la solidarietà nazionale, fino alle vicende interne alla Democrazia cristiana e al rapporto tra Moro e le «masse». Tra i giovani studiosi che parteciparono al convegno ricordiamo Francesco Bello, Sara Tavani, Alessandro Saraceno, Giovanni Bernardini, Paolo Acanfora, Jacopo Cellini, Francesca Zilio, Mauro Campus, Diego D’Amelia, Marialuisa Lucia Sergio, Gaetano La Nave, Laura Ciglioni, Andrea Argenio, Donatello Arimanno, Gianluca Scroccu, Guido Panvini, Ilenia Imperi, Ilaria Maria Priscilla Barzaghi, Maurizio Zinni, Lia Perrone, Tiziano Torresi, Giovanni Mario Ceci, Maria Lorenza Murtas, Michele Marchi e Daria Gabusi. Per maggiori informazioni si veda L. Biondi, Aldo Moro riscoperto dai trentenni, «Europa», 13 maggio 2013 e dove si può leggere un interessante Documento di presentazione. Per quanto riguarda la saggistica ricordiamo i volumi di Giovanni Bianconi, Eseguendo la sentenza, Einaudi, Torino 2008, di Andrea Colombo, Un affare di Stato. Il delitto Moro e la fine della Prima Repubblica, Cairo, Milano 2008 e Vincenzo Tessandori, Qui Brigate Rosse. Il racconto. Le voci, Dalai, Milano 2009. 2 Università degli Studi Roma Tre, Procedura di chiamata ad 1 posto di professore universitario di ruolo, fascia degli associati, riservata al personale esterno all’Ateneo, Dipartimento di Studi Umanistici, Verbale n. 2, 30 giugno 2016, p. 21. 3 P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, Einaudi, 5 voll., Torino 1967-1975. 4 Si veda in particolare il lavoro di C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
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marie, conservate negli archivi di Stato a Roma (Centrale e della città)5, costituiscono un corpus di primissimo piano, visti gli enti produttori che vanno dal Sismi al ministero degli Interni, dalla sala operativa dei Carabinieri al ministero degli Esteri, sebbene alcuni riscontri facciano ritenere che non tutto sia stato ancora versato6. Anche l’Archivio Storico del Senato ha reso consultabile la grandissima mole di carteggi non classificati raccolti dalle Commissioni parlamentari d’inchiesta che si sono occupate della materia (la prima, sul rapimento Moro, istituita con la legge del 23.11.1979, e la cosiddetta «Stragi», con legge del 17 maggio 1988). L’ultima Commissione parlamentare d’inchiesta, la seconda sul caso Moro, istituita con la legge n. 82 del 30 maggio 2014, sta a sua volta producendo altro materiale che può essere studiato già oggi, restando esclusa solo la parte soggetta a classifica. In storia, come in altri ambiti, il tempo non è assoluto: deve trascorrere a sufficienza da una singolarità per poterla studiare, ma nessuno sa quantificarlo con esattezza. Sono i processi, o le epoche, a formare l’oggetto di uno studio, e la loro durata è imponderabile. La si può determinare solo una volta conclusi. Scrivere una storia in corsa non è impossibile ma è certamente molto complicato. Storia e memoria Heyden White, rappresentante del linguistic turn, ha scritto che la storia è solo una costruzione testuale costantemente reinventata secondo codici di tipo letterario e che le narrazioni storiche sono finzioni verbali i cui contenuti possono essere inventati o sono frutto di ricerca, ma le cui forme sono assai più vicine alla letteratura che non alla scienza7. Claude Lanzmann ha messo in discussione la possibilità per gli strumenti tradizionali della storia (archivi e documenti) di poter giungere alla verità, contrapponendo loro il primato della testimonianza, un fattore che ha inevitabilmente posto la memoria al centro del racconto storico. Il sopravvento dell’esperienza vissuta su quella tramandata ha certamente smosso le coscienze della storiografia, favorendo lo sviluppo della storia orale, attribuendo anche una diversa attenzione agli aspetti culturali e immateriali, prima spesso trascurati. Le donne e gli uomini restavano masse anonime, semplice numero, statistica che non permetteva ai subalterni di emergere come soggetti narranti. Lavori come La formazione della classe operaia inglese di Edward P. Thompson, La storia della follia nell’età classica di Michel Fou5 L’archivio di Stato di Roma conserva gli originali di molte lettere scritte da Moro durante la prigionia, sta curando la digitalizzazione degli atti processuali sotto la direzione di Michele Di Sivo. Sulle lettere di Moro si veda, tra gli altri, M. Gotor, Lettere dalla prigionia, Einaudi, Torino 2008 e M. Mastrogregori, La lettera blu, Ediesse, Roma 2012. 6 Si vedano i carteggi in Archivio centrale dello Stato, Caso Moro, Ministero dell’Interno, Gabinetto speciale [ACS, Caso Moro, MIGS], che fanno riferimento ad altri fascicoli non presenti nel fondo. Esiste un problema di declassificazione che andrebbe affrontato nello spirito delle direttive Prodi e Renzi. 7 Hayden White, The Historical Text as Literary Artefact, J. Hopkins University Press, Baltimora 1985, passim.
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cault, La notte dei proletari di Jacques Rancière, Il Formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg, hanno ridato voce ai subalterni, ricostruendone l’universo, offrendo loro un proscenio prima negato. Tuttavia, ha osservato Enzo Traverso, quando la memoria non riesce più a fare posto alla storia, sopraggiunge un «tempo compresso» che rifiuta di farsi tempo passato8. Questa «presentificazione» del passato ha facilitato l’azione delle memorie artefatte. Prestando attenzione allo sguardo che il vicino porta sul lontano, Marc Bloch invitava a capovolgere l’idea di un presente in lotta perenne per divincolarsi dalle eredità dei tempi andati. È il passato a essere il più delle volte ostaggio di ciò che viene dopo. Se c’è oggi un’epoca prigioniera del presente, questa riguarda in modo particolare gli anni Settanta. Ancora oggi vale più che mai la lezione di Maurice Halbwachs, uno dei massimi studiosi della memoria sociale: ciò che distingue la storia dalla memoria è proprio quel processo che consente il passaggio dalla storia in me alla storia in sé. Le testimonianze, però, vanno recepite sempre come fonti problematiche e non da meno sono i carteggi conservati negli archivi: essi presentano criticità che spingono a continue domande e verifiche. Molto dipende dal metodo oltre che dalla sensibilità del ricercatore, ma è certo che senza una solida base documentale è difficile impostare un’indagine in grado di dare risultati strutturati. Come si vedrà, nel corso della nostra ricerca abbiamo analizzato i carteggi disponibili, incrociandoli con le testimonianze dell’epoca e con i racconti di alcuni protagonisti raccolti nel corso di lunghe e ripetute conversazioni. Dove coglievamo delle contraddizioni, abbiamo cercato di capirne il motivo. A volte ciò è dovuto a espedienti usati dalle forze dell’ordine per coprire una fonte, altre a veri e propri errori, altre ancora a ricordi diversi rispetto a uno stesso episodio. In ambito di memoria si tratta della normalità, essendo la memoria stessa una continua rielaborazione che tende a mantenere in vita la propria identità, collocandola in un passato che si modifica necessariamente a ogni rievocazione. Storia e metastoria Tra le posizioni di chi è convinto, come noi, che fare storia su quegli anni si possa e si debba e di chi ancora esprime forti perplessità, si è fatta strada una terza via, quella dell’indagine di tipo saggistico, che da decenni si alimenta con ipotesi dietrologicocomplottistiche e ha prodotto una vastissima bibliografia, in particolare sul caso Moro. Nel prossimo volume ricostruiremo le genesi di questa narrazione che accompagna le vicende della lotta armata fin dalle sue origini, ma incontra un fondamentale punto di svolta nel 1984, quando il Pci in crisi di strategia dopo il naufragio del compromesso storico, impresse una svolta politica sulla vicenda Moro con una mozione presentata il 9 maggio 1984 sia alla Camera che al Senato. Il Partito comu8 Enzo Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, ombre corte, Verona 2006.
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nista prese le distanze dalla relazione di maggioranza che aveva votato l’anno precedente (assieme alla Democrazia cristiana, agli indipendenti di sinistra, ai repubblicani e ai socialdemocratici), in chiusura dei lavori della prima Commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento Moro9, così come dalla sentenza del primo processo in Corte d’Assise che si era concluso nel 1983, avviando una stagione complottista che non si è ancora conclusa10. Ciò che preme sottolineare qui, per restare sul terreno della critica, è la sordità cognitiva delle narrazioni dietrologiche, impermeabili alle smentite accumulatesi nel tempo. Le teorie del complotto, a causa del loro divenire circolare, si sottraggono alla verifica della coerenza interna ed esterna delle loro asserzioni, non recepiscono mai la confutazione che, anzi, in taluni casi leggono come una dimostrazione ulteriore della cospirazione contro la verità. La logica e i principî della razionalità illuministica non funzionano di fronte a una retorica che ricorre a tecniche argomentative come il metodo dell’amalgama, la confusione di tempi e luoghi, l’uso di acquisizioni parziali, di ricostruzioni lacunose, di errori macroscopici, manipolazioni, invenzioni, correlazioni arbitrarie, affermazioni ipotetiche, false equazioni. Se non fosse così dirompente l’impatto sociale che queste teorie hanno avuto, varrebbe più di ogni altro il motto, «non ti curàr di lór, ma guarda e passa»11. Uno degli assiomi su cui si basa questa produzione pseudoscientifica consiste nel fatto che i brigatisti definiti «irriducibili»12 non abbiano mai parlato, perché nascondono chissà mai quali segreti. Si tratta di un falso. Mario Moretti, per citare un esempio, ha rilasciato una lunga intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca pubblicata poi in volume13. In passato era stato in corrispondenza con altri due giornalisti molto noti, Sergio Zavoli e Giorgio Bocca. Possediamo parte di quell’epistolario, dal cui tono si possono ricavare diverse informazioni. Nel marzo 1985, per esempio, Bocca scriveva a Moretti, riferendosi al processo Moro Ter: «Vedo che ti hanno sistemato fra gli irriducibili. Ma che senso ha 9 Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassino di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, 20 dicembre 1979-29 giugno 1983 (Legge 23 novembre 1979, n. 597) VIII Legislatura. Presidenti Biasini, Schietroma, Valiante. 10 La mozione fu presentata il 9 maggio 1984 alla Camera e al Senato dai capigruppo Chiaromonte e Napolitano, a firma rispettivamente dei senatori Pecchioli, Tedesco, Tatò e Flamigni e dei deputati Zangheri, Spagnoli, Violante, Serri, Macis e Gualandi; «In nessun modo – è scritto nel testo della mozione – si può ritenere conclusa la vicenda del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro con le formule giudiziarie già intervenute e con la stessa inchiesta parlamentare. […] Alla liberazione del prigioniero non si pervenne anche perché furono presenti nel mondo politico atteggiamenti trattativistici incompatibili con una rigorosa e penetrante azione di polizia e che anzi costituirono alibi ed incentivo per le omissioni e negligenze sopra richiamate»; ACS, MIGS, b. 11. 11 Alterazione popolare del verso dantesco Non ragioniam di lor, ma guarda e passa. D. Alighieri, Inferno, III 51. 12 Riguardo alla estraneità del termine «irriducibile» dal lessico brigatista e più in generale della lotta armata, si può leggere l’articolo di Paolo Persichetti apparso su: https://insorgenze.net/2013/02/04/irriducibili-a-cosa/. 13 Mario Moretti con Carla Mosca e Rossana Rossanda, Brigate rosse. Una storia italiana, I edizione, Anabasi, Roma 1993. Le citazioni in questo volume sono dalla seconda edizione, Baldini & Castoldi, Milano 2002.
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mettere assieme la irriducibilità di chi per sopravvivere nella galera si chiude in una sua torre rifiutando il confronto con il mondo e con la storia e chi come te ci ragiona sopra separando l’accettazione della sconfitta attuale dal ripudio della propria esperienza, delle proprie responsabili scelte? Come sempre le persone intelligenti, dunque complesse, vengono rifiutate dalle categorie schematiche. Credo che sia questo ciò che vuoi dire quando mi scrivi della inutilità di parlare a chi non vuole ascoltarti»14. E poche settimane prima: «Caro Moretti, da quando ti ho conosciuto mi fanno ridere i toni […] con cui i cronisti giudiziari parlano di te: il grande capo, taciturno e misterioso»15. Un tentativo di intervista, del tipo che poi venne fatto da Mosca e Rossanda, fu provato proprio da Bocca, che nel 1984 inviò a Moretti una serie di quesiti sulla storia delle Br, usando le risposte per il libro Noi Terroristi del 1985. Anche Mario Scialoja cercò un contatto che andasse oltre un articolo di giornale e nel gennaio 1993, dopo che Moretti aveva ottenuto il primo permesso premio, gli scrisse del suo «interessamento a una lunga intervista sia per l’Espresso, che per qualcosa di più ampio come potrebbe essere un libro pubblicato da un’importante casa editrice»16. Scrissero a Moretti anche il giornalista de «l’Europeo», Stefano Zurlo, Giuseppe Nicotri de «L’Espresso», Renzo Rotta di Rai3 e, come detto, Sergio Zavoli, con cui tra il 1989 e il 1990 realizzò una puntata della trasmissione La notte della Repubblica. Circa dieci anni più tardi, Zavoli si rivolse nuovamente a Moretti: «Oggi sto preparando […] un programma che andrà in onda a partire dal 20 gennaio ’98 con il titolo C’era una volta la prima Repubblica. Affronteremo le vicende più significative che hanno caratterizzato la vita italiana dal ’48 a oggi […]. Dunque, un’altra occasione importante per proseguire nella ricerca di verità spesso ancora taciute, per le quali Lei ha invece fornito, con scrupolo anche storico, ampi e meritevoli chiarimenti»17. Dopo le memorie e i racconti pubblicati da diversi esponenti delle Br non dissociati, la tesi che postulava il mutismo dei brigatisti ha subìto un adeguamento: il silenzio brigatista sulla supposta «dinamica reale» del sequestro Moro si sarebbe cristallizzato attorno a una versione di comodo, pattuita con lo Stato o con indefiniti settori di esso insieme a frazioni della Democrazia cristiana. Si tratta di un falso. Gli ex brigatisti hanno raccontato le loro verità. Non coincidevano, però, con quanto si sperava di leggere.
14 Archivio di Mario Moretti, lettera autografa di Giorgio Bocca a Moretti del 18 marzo 1985. 15 Ivi, lettera olografa di Giorgio Bocca a Moretti del 20 febbraio 1985. 16 Ivi, Lettera autografa di Mario Scialoja a Moretti del 21 gennaio 1993. 17 Ivi, Lettera autografa di Sergio Zavoli a Moretti del 9 gennaio 1998.
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Storia e verità Esistono, com’è noto, diversi tipi di verità: la verità storica, quella giudiziaria, quella letteraria, quella della fede. Per uno storico la verità assoluta non esiste e il risultato a cui si giunge alla fine di una ricerca è sempre relativo. Il metodo storico prevede la possibilità di un avvicinamento costante al traguardo – una visione complessa e complessiva di una vicenda – ma non permette di esaurire le possibilità di indagine, che sono intimamente legate, oltre alla sensibilità del ricercatore, alla qualità e quantità delle fonti disponibili. La storia è sempre un work in progress. Per lo storico la verità giudiziaria è meno rotonda, tanto da diventare a sua volta una fonte. Si tratta del risultato di un processo chiuso, il cui esito – scolpito nella pietra – dipende dall’interpretazione delle prove raccolte e ammesse entro un tempo finito e non più dilazionabile. L’esatto contrario di quanto avviene in campo storico, dove ogni ricerca resta aperta. In altre parole, le sentenze sono il modo in cui in un dato momento si è valutato un determinato comportamento esclusivamente in relazione a presunte violazioni di legge e per questa loro natura diventano, agli occhi dello storico, un atto non diverso da quelli acquisiti in dibattimento per giungere alla sentenza medesima. Per un certo periodo gli studiosi più accorti del caso Moro, privati di fonti archivistiche sufficienti, si sono impegnati nella rilettura degli atti processuali, sui quali hanno basato l’impianto della loro ricerca. Se si guarda al passato, esistono due grandi temi per i quali la storiografia ha attinto soprattutto dalle fonti giudiziarie: la caccia alle streghe e il Grande Terrore staliniano18. Si tratta, per questi oggetti di ricerca, delle «quasi» sole fonti disponibili, almeno fino al 1991, quando si aprirono gli archivi ex sovietici. Nel frattempo l’indagine scientifica era stata in grado di risalire ad altre importanti fonti, come la memoria pubblica e privata, ma non c’è dubbio che l’impianto principale delle ricerche è stato a lungo costituito dai verbali di quei processi, dalle prove dell’accusa e le dichiarazioni degli imputati. Ci si trova di fronte a un problema non da poco, perché se anche nel caso Moro le fonti giudiziarie sono state a lungo predominanti, qualcosa deve necessariamente accomunare queste ricerche. Non si tratta di identità morale o «comunanza di ingiustizia», o «non giustizia», tra le vittime dei processi staliniani e i loro accusatori, o le donne martoriate e l’inquisizione, perché non stiamo proponendo paralleli tra il sistema staliniano e quello italiano della prima Repubblica. Qualcosa, però, esiste. A nostro giudizio, si tratta dell’oblio al quale sono stati condannati gli imputati in tutti e tre i casi. Le donne accusate di stregoneria furono bruciate. Di loro non doveva restare traccia fisica sulla terra. Non una tomba, non un luogo dove fare visita o lasciare una testimonianza, nessun cenno di memoria. Così avvenne per le centinaia di migliaia di vittime del Grande Terrore, delle quali a lungo non si è saputo la data di morte e il luogo di sepoltura. 18 Carlo Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Einaudi, Feltrinelli, 2006 [1991].
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Quell’oblio ha toccato anche il brigatismo italiano, colpito da una damnatio memoriae oggi forse irrecuperabile. Molti brigatisti – si potrà replicare – sono ancora vivi, hanno scritto libri, rilasciato interviste, sono intervenuti addirittura in convegni pubblici. Tutto vero, ma uno alla volta e tra molte difficoltà e distinguo, anche a distanza di quarant’anni, come dimostrano le vicende che nel 2016 hanno riguardato la Scuola superiore della magistratura e un convegno di storici che doveva tenersi sempre in quell’anno a Palazzo San Macuto19. Nei fatti, non è mai esistita la possibilità di una memoria storica del brigatismo che riconsegnasse alla società un fenomeno sociale che non fu figlio illegittimo, ma parte integrante, anche se minoritaria, di uno scontro decennale di cui pochi in Italia hanno ammesso l’esistenza. Le fonti Come per ogni vicenda, le fonti necessarie a una ricostruzione che sia la più ampia possibile, sono molte e non si limitano ai ricordi dei protagonisti. Da tempo possediamo gli scritti di Moro dalla prigionia, conservati presso l’Archivio di Stato di Roma, e quelli delle Br, reperibili in molti archivi pubblici e privati, nonché in rete. La documentazione primaria è stata prodotta dagli Enti investigativi di polizia giudiziaria, come i Carabinieri, la Polizia di Stato, la Guardia di Finanza, le Procure e i Servizi di intelligence. Una parte consistente di questi atti è rimasta conservata a lungo in tre luoghi: la presidenza del Consiglio, il ministero dell’Interno e lo Stato Maggiore dell’Arma dei Carabinieri. Non è da molto, come detto, che questi atti sono a disposizione degli studiosi; riguardano in generale le Brigate rosse e la lotta armata in Italia e il caso Moro in particolare. 19 Il 2 febbraio 2016 la Scuola superiore di Magistratura decise di annullare un incontro con i giudici, al quale dovevano partecipare gli ex brigatisti Adriana Faranda e Franco Bonisoli, organizzato nell’ambito del percorso di giustizia riparativa illustrato recentemente ne Il libro dell’incontro, a cura di G. Bertagna, A. Ceretti e C. Mazzucato, Il Saggiatore, Milano 2015, con la seguente motivazione: Il Comitato direttivo della Scuola «ha preso atto delle posizioni espresse, anche con dolore, da numerosi magistrati e familiari delle vittime – sottolinea la nota – sull’inopportunità di coinvolgere nella formazione della Scuola, persone condannate per gravissimi reati di terrorismo». Questa iniziativa «è ormai inevitabilmente condizionata, nella sua attuazione dalle discussioni delle ultime ore, che hanno visto anche l’intervento del Comitato di presidente del Consiglio superiore della magistratura». «Pur dovendo precisare che l’incontro non configurava un’attività didattica dei signori Bonisoli e Faranda, ma solo la testimonianza di un percorso riparativo, i cui protagonisti sono le vittime dei reati, e pur riconfermando la volontà della Scuola di investire nella formazione della giustizia riparativa», il Comitato direttivo ha deciso – conclude il comunicato – «di annullare l’incontro, ritenendolo inopportuno»; ADN Kronos, 3 febbraio 2016, ore 16,01. Nel maggio 2016 doveva tenersi una giornata di studio sul caso Moro nei locali della Camera, a Palazzo San Macuto organizzata dal membro della Commissione parlamentare Fabio Lavagno. A pochi giorni dal suo svolgimento è stata rimandata, ufficialmente per «ragioni tecniche», in realtà per ragioni di opportunità politica. Nel gennaio 2017 la presenza di Faranda e Bonisoli alla presentazione di un libro che doveva vedere la partecipazione del presidente del Senato Pietro Grasso e del ministro della giustizia Andrea Orlando, ha suscitato diverse proteste, tra cui quella del deputato del Pd e presidente dell’associazione delle vittime del 2 Agosto 1980, Paolo Bolognesi. Alla fine Faranda e Bonisoli hanno rinunciato a intervenire.
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Il 31 marzo 2008, in concomitanza con il trentennale della vicenda, l’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato propose al presidente del Consiglio Romano Prodi di rendere accessibile a chiunque la documentazione in possesso del suo ministero. Fonti giornalistiche, studiosi e anche alcuni magistrati in quei giorni avevano ipotizzato che la grande quantità di documentazione disponibile non fosse stata resa pubblica perché coperta da segreto di Stato. L’assunto, scrisse Amato, «non corrisponde ai fatti» ed era giunto il momento di «fornire un ulteriore contributo alla ricostruzione storica di quella dolorosa vicenda […] rendendo accessibile agli studiosi e alla ricerca, la documentazione a suo tempo resa disponibile alla Magistratura e alla Commissione stragi». Amato ricordò che in passato l’amministrazione dell’Interno aveva provveduto a inviare una gran mole di atti relativi al caso Moro alle due autorità, senza alcuna opposizione del segreto di Stato. Solo per i documenti classificati Riservato e Riservatissimo, era stato chiesto il divieto di divulgazione. «Tale documentazione – proseguiva Amato – corrisponde alla totalità degli atti custoditi negli archivi della Segreteria Speciale del Gabinetto del ministro, unitamente a quelli messi a disposizione dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza e, tramite quest’ultimo, dalle Prefetture e dalle Questure, nonché di quella trasmessa dal Sisde»20. L’8 aprile dello stesso anno il presidente del Consiglio sollecitò i ministri dell’Interno, degli Esteri, della Difesa, dell’Economia e Finanze e della Giustizia ad avviare la necessaria declassifica degli atti ancora vincolati dalla segretezza, prescindendo da ogni valutazione riguardante l’applicazione immediata e diretta dell’art. 42 della legge 124/07 che prevedeva un sistema di automatica declassifica, fissandone i limiti temporali fino alla cessazione del vincolo medesimo21. I versamenti, dunque, vennero fatti in considerevole anticipo rispetto ai termini generali stabiliti dalla normativa vigente, per poi proseguire secondo le cadenze temporali previste dall’art. 41 del Codice dei Beni Culturali e del Passaggio per il versamento agli archivi di Stato degli atti di interesse storico prodotti dalle pubbliche amministrazioni. La documentazione oggetto del versamento del 2008 copre l’arco temporale 1978-1995, periodo durante il quale fu in vigore la legge n. 801 del 24 ottobre 1977 nota come Istituzione e ordinamento dei servizi di informazione per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato. Accanto ai faldoni del ministero degli Interni, costituirono oggetto di versamento anche i fascicoli provenienti dall’Archivio istituzionale che fungeva da supporto alla Segreteria del Cesis, l’organo di cui si avvaleva il presidente del Consiglio per coordinare le attività dei Servizi, per l’analisi degli elementi informativi e l’elaborazione di punti di situazione. Ogni sezione documentaria corrispondeva a un quinquennio, tempo entro il quale era uso comune chiudere 20 ACS, Caso Moro, Presidenza del Consiglio dei Ministri. Segreteria Generale SSP (1978-2010), f. 1, il ministro dell’Interno, Amato a Prodi, Roma 31 marzo 2008. 21 ACS, Caso Moro, Presidenza del Consiglio dei ministri. Dipartimento Informazione per la Sicurezza. Carte Moro. Elenco di Versamento.
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il protocollo dei fascicoli. Questi sono organizzati secondo un titolario dove il primo codice numerico di 4 cifre indica una voce e i livelli successivi, da 2 a 4 cifre, assumono significati e funzioni diverse e identificano ora una materia, ora uno specifico fascicolo. I fascicoli relativi al caso Moro appartengono prevalentemente alla voce di titolario individuata dal codice 2113 Attentati contro persone e cose e 2114 Attività giudiziaria e di Polizia22. Per quanto riguarda il ministero degli Interni e il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, invece, abbiamo un numero di protocollo aperto che indica l’oggetto degli atti raccolti. Per il caso Moro i fascicoli del ministero dell’Interno riportano il 3039, mentre la Sala operativa dell’Arma 22142 P. Il versamento degli atti dei Carabinieri all’Archivio Centrale dello Stato cominciò il 6 settembre 2012 in ottemperanza alle disposizioni impartite dal presidente del Consiglio il 23 febbraio 2011. Gli atti furono sottoposti dal Comando generale dell’Arma alle operazioni di declassifica e alla collocazione in plichi sigillati con dettagliato elenco annesso, quindi consegnati allo Stato maggiore della Difesa che si incaricò di fare il versamento finale in tre successive fasi23. Una delle figure più importanti nella lotta alle Br è stata quella del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nel corso del suo incarico come capo dell’Ufficio di Divisione dei Carabinieri per il coordinamento e la cooperazione nella lotta al terrorismo del 1978 (lo vedremo nel corso del presente volume) il generale fece impiantare nel solo primo semestre di attività 16.000 fascicoli informativi e 19.000 schede personali, che oggi non risultano consultabili, nonché eseguire 9200 servizi fotografici, di cui 7391 riferentisi a soggetti e 1451 a luoghi di interesse operativo24. Nel secondo semestre furono impiantati ulteriori 25.221 fascicoli personali e 31.947 schede su persone sospette di militanza nell’area della lotta armata e operati 1427 servizi di pedinamento con l’ausilio di 2088 militari25. Per come sono strutturati gli archivi operativi dei Carabinieri, immaginiamo che sia stato impiantato anche uno schedario alfabetico nominativo con protocollo aperto, che già da solo potrebbe darci un’idea del contenuto dell’archivio. A ciò si aggiunga la circostanza che dalla lettura della documentazio22 In ivi in allegato l’Elenco dei fascicoli. 23 ACS, Caso Moro, Stato Maggior della Difesa, II Reparto Informazioni e Sicurezza. Ufficio Sicurezza Difesa, Segreteria Speciale Principale, Verbale di versamento della documentazione relativa alla vicenda del Rapimento e dell’uccisione dell’on. Aldo Moro, f.to Il capo segreteria speciale per l’amministrazione cedente e il direttore della sala di studio per l’amministrazione ricevente, Roma 6.9.2012. 24 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 17, Ufficio del Generale di Divisione dei Carabinieri per il coordinamento e la cooperazione nella lotta al terrorismo. All’on. prof. Virginio Rognoni, Ministro dell’Interno, Relazione sui risultati conseguiti dal personale dipendente nel corso del 1^ semestre dalla costituzione della organizzazione, Roma, 13 marzo 1979, p. 42. 25 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 17, Ufficio del Generale di Divisione dei Carabinieri per il coordinamento e la cooperazione nella lotta al terrorismo. All’on. prof. Virginio Rognoni, Ministro dell’Interno, Relazione sui risultati conseguiti dal personale dipendente nel corso del 2^ semestre dalla costituzione della organizzazione (11 marzo 1979- 10 settembre 1979), Roma, 14 ottobre 1979, p. 100.
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ne disponibile si ricava chiaramente l’informazione dell’esistenza di fascicoli a oggi non versati. Tra questi il più interessante appare quello intitolato Brigate Rosse26. Negli anni che precedettero i versamenti, che riguardano anche documentazione già in possesso dei componenti della Commissione stragi, si sono diffuse molte voci su presunte omissioni, mancanze e scomparse di atti. Durante i processi Moro, per esempio, furono acquisiti i verbali anche informali redatti all’epoca del sequestro relativi alle riunioni dei tre Comitati ministeriali che si occuparono della vicenda e cioè il Comitato di Coordinamento, il Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza e il cosiddetto Comitato Tecnico, nonché tutte le informative redatte dagli organismi di sicurezza Sismi, Sisde e Ucigos27. Dei tre Comitati, due avevano sede al Viminale e uno presso la presidenza del Consiglio, il CIIS. L’allora sottosegretario agli Interni, Nicola Lettieri, che aveva di fatto presieduto le riunioni del Comitato di Coordinamento, consegnò i verbali, che molti avevano dato per dispersi, durante la sua audizione in Commissione Moro I. Delle riunioni, disse in quell’occasione, si compilava una sorta di processo verbale nel quale era riportata una sintesi dei lavori, ossia la discussione sugli avvenimenti, i comportamenti, i giudizi. Il processo verbale conteneva scritture sino al 3 aprile 1978 e, come leggiamo, «ne era stata disposta acquisizione agli atti della Commissione»28. La genesi dei versamenti dei documenti raccolti presso il ministero dell’Interno è abbastanza lunga. Il 24 gennaio 1995 su «Avvenire» venne pubblicato un articolo dal titolo Cala il segreto di Stato sul caso Moro, in cui si sosteneva che presso il Viminale esistevano documenti inediti, individuati dal senatore Sergio Flamigni, «mai consegnati al Parlamento». Si parlava, in particolare, di documenti classificati provenienti dall’Ambasciata italiana di Ankara, di una misteriosa «operazione Olmo» che riguardava l’ipotetica prigionia del presidente democristiano nelle strutture aeroportuali di Fiumicino e dei già noti piani Mike e Victor. In realtà le cose stavano in modo differente, come scrisse la Direzione Centrale di Polizia di Prevenzione del Servizio Antiterrorismo, incaricata di approfondire il contenuto dell’articolo: «le verifiche effettuate al riguardo, agli atti della Direzione centrale della Polizia di Prevenzione, non hanno consentito di trovare alcun riscontro su tali circostanze»29. L’equivoco, o la non corretta interpretazione dei fatti, erano nati il 29 novembre 1993, quando il senatore a vita Francesco Cossiga aveva rivelato l’esistenza dei piani «Mike» e «Victor». In quel contesto, egli aveva fatto sapere che presso il Gabinetto del ministro dell’Interno era stato redatto un repertorio generale di tutti gli atti, da qualunque autorità 26 ACS, Caso Moro, MIGS, passim. 27 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 C, faldone 22, Ulteriori richieste istruttorie. 28 Ivi, f. 119. 29 ACS, MIGS, b. 24, fascicolo Flamigni Sergio. Richiesta repertorio generale atti «Caso Moro», Ministero dell’Interno. Dipartimento della PS. Direzione Centrale Polizia di Prevenzione Servizio Antiterrorismo, Appunto per l’on. Sig. Ministro, Roma, 28 gennaio 1995.
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formati, concernenti il caso Moro. A distanza di qualche mese, il 13 agosto 1994, il senatore Flamigni si era rivolto al ministro dell’Interno Roberto Maroni chiedendone copia, che gli era stata inviata il 3 settembre30. Il repertorio, che non era un atto classificato, conteneva e contiene l’elenco di tutti gli atti del Caso Moro – alcuni di elevata classifica di segretezza – conservati presso il Gabinetto speciale del ministero degli Interni, che in parte sarebbero stati versati all’Archivio di Stato a partire dal 200831. Si tratta, al di là delle piste fantastiche riguardanti Ankara e il presunto piano Olmo, di un fatto di grande importanza perché Flamigni chiese, opportunamente, di poter consultare almeno una parte degli atti per motivi di studio32. La segreteria del Gabinetto del ministro fece avere a Maroni il proprio parere l’11 ottobre. Vi si legge che «gran parte dei documenti di cui al succitato repertorio recano una classifica di segretezza talora anche elevata» e, dunque, in considerazione delle disposizioni in materia di tutela del segreto di Stato, la richiesta non poteva essere soddisfatta33. Il 4 novembre Maroni comunicò a Flamigni esattamente questo: «le vigenti disposizioni in materia di tutela del segreto di Stato non consentono di dare visione di documenti classificati a fini di studio e ricerca personali», cosa diversa dal dire che su quei documenti fosse stato apposto un segreto di Stato che, in realtà, non c’è mai stato34. Com’è noto, uno dei più prolifici autori di testi sul caso Moro è stato proprio Sergio Flamigni. Grazie alla sua attività egli ha potuto organizzare il Centro di docu30 Ivi, Ministero dell’Interno, Gabinetto. Segreteria Speciale, 3039-199/4, Roma, Spedito il 3 settembre 1994 a on.le Sergio Flamigni, f.to Roberto Maroni. 31 ACS, MIGS, b. 23 C, Documenti del repertorio Moro estrapolati dal fald. 23/C classificati RR e S. inviati comm. stragi. 32 ACS, MIGS, b. 24, fascicolo Flamigni Sergio, lettera f.to Sergio Flamigni all’on. Roberto Maroni, ministro dell’Interno, prot. Roma 27 settembre 1994 94/01327/04 3039. 33 Ivi, Ministero dell’Interno, Gabinetto del ministro Segreteria Speciale, Appunto per il sig. Ministro, 11 ottobre 1994. 34 Ivi, Ministero dell’Interno, Gabinetto. Segreteria Speciale, 3039-1327/4, Roma, Spedito il 4 novembre 1994 a on.le Sergio Flamigni, f.to Roberto Maroni. ACS, Caso Moro, MIGS, b. 24, Ministero dell’Interno. Gabinetto del Ministro. Segreteria Speciale, PCM-ANS 1/R - Ediz. 1987, artt. 40 e 66, all. 6. Secondo la normativa vigente nel 1995, infatti, i documenti classificati segreto e riservatissimo potevano essere dati in visione o in consultazione solo alle persone abilitate a tali classifiche, mentre i riservati, per i quali non era richiesta abilitazione, «potevano essere dati in visione o consegna previo accertamento da parte dell’Ufficio consegnatario, che le persone interessate abbiano necessità di conoscere». In ogni caso, la consultazione doveva avvenire negli uffici dell’Ente consegnatario. Per i documenti segnati con doppia S, ossia segretissimi, serviva il permesso per questa classifica e durante la consultazione, che poteva avvenire solo nei locali dell’Ente, «non dovranno mai essere lasciati anche momentaneamente incustoditi». Da una lettera inviata all’ex presidente Francesco Cossiga, che come si è detto aveva richiesto prima di Flamigni il repertorio degli atti sul Caso Moro e alcuni documenti non classificati, si apprende, peraltro, che i repertori custoditi presso il Viminale sarebbero stati due, quello di cui si è detto e un repertorio «degli atti senza data e protocollo conservati presso l’archivio della Segreteria Speciale del ministero dell’Interno», che fu inviato a Cossiga, a Ionta e Marini, ma che oggi non risulta disponibile per gli studiosi; ACS, Caso Moro, MIGS, b. 24, Il ministro dell’Interno, 3039-2172/4, Lettera a Francesco Cossiga, Roma 14 dicembre 1993, f.to Nicola Mancino, f. 2 e ivi, Gabinetto del ministro. Segreteria Speciale, Alla procura della Repubblica di Roma, dr. Antonio Marini e Dr. Franco Ionta, 2 dicembre 1993, f.to il capo della segreteria speciale De Martino.
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mentazione Archivio Flamigni che, come si legge nella presentazione del sito, «conserva e rende accessibile per lo studio e la ricerca la vasta documentazione prodotta e acquisita dal senatore Sergio Flamigni a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso» e di cui oggi è direttrice Ilaria Moroni. L’archivio conserva 6 fondi, il Fondo Sergio Flamigni, quello Angelo La Bella, Piera Amendola, Emilia Lotti, Giuseppe Zupo e il fondo Famiglia Aldo Moro. Per il nostro discorso, hanno importanza il primo e l’ultimo. Il primo è composto da 516 buste ed è diviso in tre sezioni: Attività di partito e sindacale (20 buste); attività parlamentare (55 buste) e Commissioni di inchiesta, ricerche, pubblicazioni (230 buste). Completano il fondo altre tre sezioni, una dedicata alla Crisi del centrismo, una al Processo Ruffilli (15 buste) e una Rassegna stampa della Commissione Stragi. Come si legge sul sito del Centro, il fondo è in parte ordinato e consultabile35. Il fondo Famiglia Moro è composto da 313 buste e copre gli anni 1940-1990. La documentazione, riconosciuta di notevole interesse storico dalla Sovrintendenza archivistica per il Lazio nel 2012, conserva le carte dell’archivio della famiglia Moro ed è suddivisa in 5 sezioni: Politica (1940-1978, 159 buste), Fotografia (circa 13.000 unità), Rassegna stampa, curata dalla segreteria di Moro (circa 100 buste che coprono gli anni dal 1959 al 1978), un Carteggio di solidarietà che comprende lettere e telegrammi ricevuti dalla famiglia durante i giorni del rapimento e dopo la morte di Moro, e una sezione dedicata a Materiali audiovisivi (anni 19401978), in fase di restauro. Il 29 gennaio 2017 il fondo risultava: «in parte ordinato e consultabile»36. Il fondo Famiglia Moro si trova così diviso da quello di Aldo Moro, che era stato impiantato nel suo studio di via Savoia e che è stato acquisito nel corso degli anni dagli Archivi di Stato, come si vedrà più avanti37. Passando alle memorie, se si guarda con occhio laico a quanto prodotto fino a oggi si deve registrare una carenza da parte dei politici e dei rappresentati delle forze dell’ordine di allora38. Mentre i libri di memorie degli ex brigatisti sono molti (basti ricordare quelli di Renato Curcio, Alberto Franceschini, Mario Moretti, Barbara Balzerani, Prospero Gallinari, Vincenzo Guagliardo, Valerio Morucci, Adriana Faranda, Raffaele Fiore, Salvatore Ricciardi, Enrico Fenzi – per citarne alcuni), quelli dei politici scarseggiano. I Diari di Andreotti pubblicati nel 1981, le memorie di Giovanni 35, Fondo Sergio Flamigni consultato l’ultima volta il 29 gennaio 2017, ore 11,28. 36, Fondo Famiglia Moro. Consultato l’ultima volta il 29 gennaio 2017, ore 11,28. 37 Umberto Gentiloni Silveri ha raccolto parte delle lettere giunte alla famiglia Moro in quel periodo in Il giorno più lungo della Repubblica. Un paese ferito nelle lettere a casa Moro durante il sequestro, Mondadori, Milano 2016. Giorgio Balzoni ha rievocato gli anni di docenza universitaria di Moro in Aldo Moro il professore, Lastaria Edizioni, Roma 2016. 38 Ha osservato molti anni fa il giudice Rosario Priore: «[...] a distanza di vent’anni non sappiamo quale sia stato il vero contesto. Voglio dire soltanto che ancora non sappiamo come si siano veramente mosse le forze politiche durante i 55 giorni del sequestro, che cosa abbiano fatto durante e dopo il sequestro, quali siano stati i contatti che ha cercato la Dc, quali i rapporti messi in essere dal Partito socialista, quali le ricerche fatte dal Partito comunista sul territorio e così via»; Sergio Zavoli, C’era una volta la prima repubblica, Mondadori, Milano 2000, p. 274.
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Spadolini e di Paolo Emilio Taviani e alcuni preziosi stralci tratti dai Diari di Amintore Fanfani, pubblicati nel marzo del 2000 da «La Stampa»39, che pure hanno suscitato immancabili polemiche, sono un’eredità esigua per una vicenda come quella che stiamo per narrare. Un libro di memorie di Francesco Cossiga non contiene grosse novità, mentre di maggiore interesse risulta un volume di Corrado Belci e Giulio Bodrato40. Qualche tempo fa la Commissione Moro 2 ha acquisito alcuni documenti riservati. Si tratta di appunti e note – stando a quanto si legge sui giornali – di colloqui inediti tra Spadolini e Cossiga. Secondo Cosimo Ceccuti, responsabile della Fondazione Spadolini «ci sono molte carte segrete perché riguardanti aspetti delicati della politica. Non memorie o altro ma corrispondenza oppure, come in questo caso, resoconti sbobinati di colloqui registrati. Spadolini è morto da 21 anni ma stiamo ancora ordinando alcune carte e messo in ordine i 100.000 volumi della sua biblioteca». Ovviamente «il magistrato ha esaminato il settore delle carte secregate e, a sua discrezione, ne ha estratte alcune. La selezione è stata fatta tra le carte che erano in cassaforte»41. Tra queste troviamo una lettera di Cossiga, già nota perché acquisita dalla Commissione Stragi, che ricostruisce l’atteggiamento del Pci subito dopo la diffusione della prima missiva di Moro all’allora ministro dell’Interno, ma ci sarebbero anche appunti di Spadolini su colloqui con l’allora capo dello Stato, Giovanni Leone. Come si seppe nel 1990, dopo il secondo ritrovamento delle carte Moro in via Monte Nevoso, il presidente della Dc aveva nominato il politico repubblicano suo esecutore testamentario. La documentazione inedita sarebbe formata da alcuni bloc-notes risalenti proprio a quel periodo (18-19 e 21 ottobre 1990), che sintetizzano scambi di opinioni fino a ora non conosciuti tra i due uomini politici42. Sul fronte del Partito comunista, i diari dell’ex segretario Alessandro Natta, a lungo capogruppo del partito alla Camera e strettissimo collaboratore di Enrico Berlinguer, non sono più stati resi noti, sebbene lo stesso Natta ne avesse annunciato la pubblicazione prima di spegnersi. Di lui abbiamo solo il libro L’altra resistenza, dove racconta della sua esperienza dopo l’8 settembre, quando l’armistizio lo colse a Rodi
39 «La Stampa», 19 e 20 marzo 2000. Per il momento sono stati pubblicati dalla casa editrice Rubettino per il Senato della Repubblica i primi quattro volumi dei diari di Fanfani, che comprendono i Quaderni svizzeri (I volume), i Diari 1949-1955 (II volume), 1956-59 (III volume), 1960-1963 (IV volume). Il piano dell’opera prevede la pubblicazione di altri quattro volumi: i Diari 1964-1969 (V volume), 1970-1976 (VI volume), 1977-1980 (VII volume) e 1981-1990 (VIII volume). 40 Francesco Cossiga, La passione e la politica, a cura di Piero Testoni, Rizzoli, Milano 2000. Corrado Belci e Guido Bodrato, 1978. Moro, la Dc, il terrorismo, Morcelliana, Brescia 2006. 41 Paolo Lami, Moro. Ecco i documenti inediti, «Il Secolo d’Italia», 13 ottobre 2015. 42 Gli scritti di Moro furono ritrovati in via Monte Nevoso, a Milano, in due differenti momenti. Il primo nell’ottobre 1978 durante la perquisizione della base dopo l’arresto dei brigatisti che l’occupavano. Il secondo nell’ottobre del 2000, durante i lavori di ristrutturazione dell’appartamento, quando il muratore rimosse un pannello da dietro un mobiletto ben fissato al muro, che rivelò un’intercapedine sfuggita alla prima perquisizione. I brigatisti coinvolti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Nadia Mantovani, avevano sempre denunciato, restando inascoltati, che dalla prima perquisizione mancavano armi, denaro e documenti riconducibili a Moro.
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nelle file dell’esercito italiano. Ci restano gli interessanti volumi di Luciano Barca e Antonio Tatò, ricchi di informazioni anche molto dettagliate, ma ben altro ci si sarebbe atteso da tanti protagonisti di allora, altro che, invece, tarda a emergere43. Restano gli archivi dei partiti politici che sono ricchi di documentazione e facilitano la comprensione delle loro posizioni. Non ci si trova, però, tutto quello che ci si aspetterebbe perché molti resoconti di importanti riunioni risultano poco dettagliati, quando non sommari. Per quanto riguarda le forze dell’ordine si registrano, specialmente tra gli ex appartenenti ai nuclei del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, diversi interventi, ma una delle questioni più importanti – l’ipotizzata presenza di infiltrati tra le Br, non è mai stata chiarita. Sono passati 40 anni e resta un segreto. Il sospetto è che questi infiltrati non ci furono mai, come avremo modo di approfondire nel corso del secondo volume44. Una certa importanza la presentano i resoconti stenografici dei dibattiti parlamentari, in particolare quelli dell’ottobre 1978 sul caso Moro e del 1984 sulla presentazione da parte dei Pci della ricordata mozione. Quella che il lettore ha in mano è la prima parte di una ricerca dedicata alla storia delle Brigate rosse. Si tratta di un’opera costruita grazie al contributo di diversi studiosi, ma non è una raccolta di saggi. È un libro organico che in questo primo volume vede la partecipazione di Elisa Santalena, Marco Clementi e Paolo Persichetti. La storia delle Brigate rosse, inquadrata nel suo contesto documentale, appare molto più «storia» di quanto si possa sospettare. Di questo ci siamo occupati nel libro, cercando di restare fedeli a una ricostruzione dei fatti basata su riscontri documentali. Dove non siamo riusciti – è un auspicio e una convinzione – in futuro interverranno altri ricercatori con maggiore sensibilità e tenacia di noi. Gli autori
43 Luciano Barca, Cronache dall’interno del vertice del PCI, 3 voll., Con Togliatti e Longo; Con Berlinguer; La crisi del PCI e l’effetto domino, Rubbettino, Soveria Mandelli 2005; Antonio Tatò, Caro Berlinguer. Note e appunti riservati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer, a cura di Francesco Barbagallo, Einaudi, Torino 2003. 44 Cfr. Roberto Arlati e Michele Magosso, Le carte di Moro, perché Tobagi, Franco Angeli, Milano 2004, dove il capitano Arlati, ex componente del nucleo di Dalla Chiesa, racconta del ritrovamento delle carte di Moro nel 1978; Michele Ruggiero, Nei secoli fedele allo stato, Frilli Editore, Genova 2006, dove si narra la storia di uno dei collaboratori di Dalla Chiesa, il generale Nicolò Bozzo e il più recente Tutti gli uomini del generale. La storia inedita della lotta al terrorismo di Fabiola Paterniti, Melampo Editore, Milano 2015, dove si fa cenno al possibile infiltrato nelle Br.
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Brigate rosse Dalle fabbriche alla «campagna di primavera»
Parte prima
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Capitolo 1 Via Caetani
1.1 Il ritrovamento Il 9 maggio 1978, poco prima delle 14.00, la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del ministero degli Interni inviò un fonogramma con precedenza assoluta a tutti i prefetti della Repubblica, i commissari di governo e i questori e per conoscenza al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza: alle ore 13.50 il corpo del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, rapito 55 giorni prima dalle Brigate rosse, era stato rinvenuto in via Caetani, nel centro di Roma, a poche decine di metri dalle sedi del suo partito in piazza del Gesù e del Partito comunista italiano in una Renault 4 di colore rosso amaranto1. Secondo le ricostruzioni processuali, il corpo era stato lasciato in via Caetani tra le 8.00 e le 9.00 del mattino, parecchie ore prima del suo ritrovamento2. Uno dei brigatisti che gestì la base in cui si trovava prigioniero Moro, Germano Maccari, riferì in Commissione Stragi che i militanti della Colonna romana Bruno Seghetti e Valerio Morucci, a bordo di una Simca parteciparono in funzione di copertura al trasferimento del cadavere di Moro in via Caetani, che venne effettuato materialmente dallo stesso Maccari assieme a Mario Moretti a bordo della Renault 4 in cui venne ritrovato3. Il luogo dove fu parcheggiata la Renault era stato occupato la sera prima da Seghetti con la sua auto personale, una Renault 6 di colore verde4. A bordo della Simca la mattina del 9 maggio Seghetti e Morucci attesero l’arrivo della Renault in via di Monte Savello. La Renault da via Montalcini si diresse verso Villa Bonelli, scese in via 1 La Renault 4 era stata gestita, secondo le rivelazioni dell’ex dirigente delle Br romane e nazionali, Antonio Savasta, dalla Brigata romana universitaria da circa un mese prima del 9 maggio; cfr. ACS, Caso Moro, MIGS, b. 20, Sentenza-Ordinanza di rinvio a giudizio emessa dal giudice istruttore Rosario Priore a conclusione dell’istruttoria sul cosiddetto Moro-quater, f. 101. Durante i 55 giorni fu usata dalle Br per un’azione contro la Caserma dei Carabinieri «Talamo», a Roma Nord; Silvana Mazzocchi, Nell’anno della tigre. Storia di Adriana Faranda, Baldini & Castoldi, Milano 1994, pp. 109-110 [ora in Feltrinelli, Milano 2015]. 2 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 20, Sentenza-Ordinanza di rinvio a giudizio emessa dal giudice istruttore Rosario Priore a conclusione dell’istruttoria sul cosiddetto Moro-quater, f. 68. 3 Commissione Stragi, audizione di Germano Maccari, 21 gennaio 2000. 4 Bruno Seghetti, colloquio con gli autori.
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della Magliana fino a piazza Meucci, si immise in via Oderisi da Gubbio fino a piazzale della Radio, quindi attraversò gli archi del ponte della ferrovia che porta alla stazione di Trastevere, proseguendo per via Rolli. Qui girarono sulla destra per via degli Stradivari, passarono ponte Testaccio e sulla sinistra si immisero sul Lungotevere. Dopo ponte Sublicio e ponte Palatino, all’altezza di ponte Fabricio, sulla destra incontrarono la Simca. Insieme, da lungotevere dei Cenci svoltarono per via Arenula, quindi per via delle Botteghe oscure, poi si immisero in via Michelangelo Caetani5. Appare difficile che la macchina, come qualcuno ha ipotizzato, possa essere giunta da fuori Roma, oltre che per il contesto documentale, che indica a Roma, in via Montalcini, la prigione di Moro, anche per la notevole vigilanza dispiegata intorno alla capitale. Dal 18 marzo, infatti, Roma venne accerchiata da un notevole impianto di posti di blocco, organizzati in tre tipologie: A, B e C. I primi, sui nodi autostradali, erano 4, formati ognuno da 4 carabinieri e 20 militari d’arma. I secondi, chiamati «principali», erano 18, formati da 2 carabinieri e 10 militari. Gli ultimi, «integrativi», erano 10, con 2 carabinieri e 4 militari. I 4 posti di blocco autostradali furono dislocati in corrispondenza della barriera Maccarese-Fregene, il secondo a Roma nord per l’A1, il terzo a Roma est per l’A24 e l’ultimo a Roma sud per l’A2. I «principali» si trovavano sull’Aurelia all’altezza della stazione di Furbara, al bivio tra la Braccianese e la rotabile Furbara-Manziana, al bivio a nord della stazione di Bassano Romano sulla rotabile Manziana-Capranica, all’incrocio tra la Cassia e la rotabile Oriolo RomanoRonciglione, in via Cimina, all’incrocio di rotabili a sud-est di Fabbrica di Roma, all’incrocio tra la Flaminia e la statale 315, all’incrocio tra la statale 2 e via Braccianese, a Monterotondo Scalo in corrispondenza della Salaria, a Palombara Sabina, alla fermata S. Polo sulla via Tiburtina a circa 5 km da Tivoli, a Palestrina, al bivio tra via Larina e la rotabile Velletri-Valmontone, a Velletri, al bivio tra la statale 207 e la rotabile per Cisterna di Latina, all’incrocio tra la 148 e la rotabile per Aprilia e l’ultima tra Ostia, Anzio e Ardea. I posti di blocco integrativi coprivano a raggiera nuovamente tutte le strade di Roma in uscita ed entrata in particolare nella zona nord6. Nel dispositivo furono impiegati nell’arco delle 24 ore 36 ufficiali dei carabinieri, 162 sottuffi5 Questi i ricordi di Maccari: «Dal palazzo di via Montalcini usciamo da villa Bonelli per una strada e sbuchiamo su via della Magliana (vecchia o nuova non ricordo, ma si trattava della via principale); giriamo a sinistra verso il centro di Roma e andiamo in zona piazzale della Radio e passiamo sotto il cavalcavia verso Porta Portese e da lì prendiamo il Lungotevere fino a piazza di Monte Savello dove sappiamo che troveremo una macchina dell’organizzazione con due militanti a bordo che ci faranno da scorta nel tragitto che riteniamo più pericoloso. Dobbiamo passare, infatti, davanti alla Sinagoga, sul Lungotevere, davanti al Ministero di Grazia e Giustizia, per via delle Botteghe Oscure, fino ad arrivare in via Caetani dove l’organizzazione – come ha detto poc’anzi il Presidente – ha preventivamente messo un’altra automobile che viene spostata dal Morucci o dal Seghetti (questo non lo ricordo, ma non cambia molto). Moretti, che guida la Renault 4, si mette al posto dell’altra macchina». Commissione Stragi, audizione di G. Maccari, cit. 6 ACS, Caso Moro, Carabinieri, Sala Operativa, cit. b. 9, P. 22142, b. 10, Schema di posti di blocco per il controllo del traffico stradale da e per Roma.
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ciali e 622 militari di truppa, 90 ufficiali dello Stato maggiore dell’esercito, 30 sottufficiali e 1080 militari di truppa con 78 autoradio, 60 moto e 2 elicotteri. Il solo 18 marzo furono controllati 81.044 automezzi e 122.073 persone (di cui 4 arrestate)7. Come si vede, era molto difficile entrare in auto a Roma senza inciampare in un posto di blocco che, lo ricordiamo, aveva il compito di controllare tutte le macchine. Ciò non significa che, all’occorrenza, le Br non avrebbero cercato di forzare un blocco, ma farlo con il corpo di Moro nel portabagagli sarebbe stato davvero molto strano dopo le precauzioni messe in atto durante tutti i 55 giorni, precauzioni che permisero ai brigatisti di muoversi per Roma (portando a termine anche alcuni attentati) e lungo le linee ferroviarie nazionali per gestire il sequestro. Il dirigente della Colonna romana delle Br, Valerio Morucci, quel 9 maggio fu incaricato di comunicare la notizia alla famiglia del rapito, ma per ore non riuscì a trovare nessuno della cerchia di Moro: «Delle varie persone che potevamo contattare non se ne trova neanche una. Volevamo chiamare una persona che avesse certamente il telefono non sotto controllo per far sì che la famiglia potesse decidere cosa fare e, soprattutto, potesse arrivare prima. Questa era la volontà espressa da Moro […]. Il tempo passa e non si trova nessuno. Alla fine, si è fatto ormai mezzogiorno, si decide di provare a chiamare Tritto, benché fossimo certi che il suo telefono era controllato. Non si poteva stare molto al telefono e tutta la telefonata è in parte sovradeterminata dalla consapevolezza di non essere riusciti a fare quanto aveva chiesto Moro, dall’altra dalla brevità del tempo a disposizione».
Morucci prosegue affermando di non sapere cosa avrebbe detto a Tritto: «Cercai di impostare un tono asettico, ufficiale, per l’enormità della notizia e per la brevità del tempo a disposizione. Poi Tritto scoppia a piangere […]»8.
La telefonata fu di questo tenore: – Pronto? – È il professor Franco Tritto? – Chi parla? – Il dottor Niccolai. 7 Ivi, Appunto del 20 marzo 1978. Attività operativa dell’Arma in relazione al rapimento dell’on. Moro. 8 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 20, 9 maggio 1989, f.to Morucci. Il prof. Tritto, assieme al dott. Nicola Rana, il prof. Saverio Fortuna e Don Antonello Mennini, furono le persone con le quali Morucci intrattenne conversazioni, secondo quanto dichiarato dallo stesso nel 1985, esclusivamente per telefono; ivi, ACS, Caso Moro, MIGS, b. 20, Onorevole Flaminio Piccoli, Domande e risposte di Morucci e Faranda. Maggio 1985. Riservate, f. 24.
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– Chi Niccolai? – È lei il professor Franco Tritto? – Sì. – Ecco, mi sembrava di riconoscere la sua voce. Senta, indipendentemente dal fatto che lei abbia il telefono sotto controllo, dovrebbe portare un’ultima ambasciata alla famiglia. – Ma chi parla? – Brigate rosse. – Va bene. – Ha capito? – Sì. – Ecco, non posso stare molto al telefono. Quindi, dovrebbe dire questa cosa alla famiglia, dovrebbe andare personalmente, anche se il telefono ce l’ha sotto controllo non fa niente. Dovrebbe andare personalmente e dire questo: adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro. – Che cosa dovrei fare? – Mi sente? – No, se può ripetere, per cortesia. – No, non posso ripetere, guardi… Allora, lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani. – Via? – Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure. Va bene? – Sì. – Lì c’è una Renault 4 rossa. I primi numeri di targa sono N5. – N5. Devo telefonare io? – No, dovrebbe andare personalmente. – Non posso. – Non può? Dovrebbe per forza. – Per cortesia, no. – Mi dispiace. Ma… Cioè, se lei telefona non… verrebbe meno l’adempimento delle richieste che ci ha fatto espressamente il presidente. – Parli con mio padre, la prego.
Secondo la questura di Roma, la telefonata partì alle 12.13. Il professore aveva il telefono sotto controllo dal 9 aprile e la chiamata venne registrata. Il personale addetto all’ascolto tentò di effettuare il blocco della comunicazione per individuare il numero, ma senza esito9. Nella drammatica giornata del 9 maggio 1978 una delle prime preoccupazioni 9 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 24, Questura di Roma. DIGOS, 050714/Digos, Roma 10 maggio 1978. Alla Procura generale della Repubblica presso la Corte d’Appello.
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del ministro dell’Interno Francesco Cossiga fu quella di prevenire ogni eventuale manifestazione politica in appoggio all’azione brigatista, violenta o meno, in strada o via etere, perché avrebbe potuto avere conseguenze imprevedibili. Il passo faceva parte di un protocollo che venne attuato dopo la conferma che il corpo in via Caetani era quello di Moro. Pochi giorni prima, il 5 maggio, il ministero degli Interni aveva messo a punto due piani assieme alla Procura generale della Repubblica, nella persona del sostituto Guido Guasco, chiamati in codice Mike e Victor (a significare Moro Morto, Moro Vivo), che riguardavano il comportamento da tenere a seconda del destino dell’ostaggio, eventualmente liberato, e della sua famiglia. I piani furono inviati la sera del 5 maggio in plico riservato al capo di Stato Maggiore comando generale dei Carabinieri, al capo di Stato Maggiore comando generale della Guardia di Finanza, al questore di Roma, al comandante della Legione Carabinieri di Roma e al comandate della Legione Guardia di Finanza di Roma10. Il piano Victor sembra basarsi sulle ipotesi, i suggerimenti e le conclusioni di uno degli esperti chiamati al Viminale per studiare le carte prodotte da Moro e dai brigatisti durante il rapimento, il prof. Franco Ferracuti, che in un rapporto scritto dopo la consegna della seconda lettera di Moro al segretario della Dc, Benigno Zaccagnini [cfr. infra], aveva tracciato il modus operandi in caso di liberazione. Secondo il professore, Moro era affetto dalla sindrome di Stoccolma e si stava identificando emotivamente con i suoi rapitori, in uno sviluppo peraltro normalissimo in quelle condizioni. Una volta liberato, dopo un breve periodo «ipomaniacale di eccitamento», egli sarebbe entrato in una fase di ansia (dal secondo giorno fino a sei mesi), con «incubi, incapacità di concentrazione, probabili somatizzazioni e altri segni di ansia incontrollata». Possibile sarebbe stato anche il passaggio da ansia a depressione, con sensi di colpa e disturbi della personalità «che prendono la forma di dubbi sulla finalità dei valori della propria esistenza e sul perché si sia sopravvissuti». In quella fase Moro si sarebbe sentito alieno dal mondo, mentre le persone care e gli amici avrebbero assunto valori nuovi legati al suo vissuto in prigionia, del quale loro non potevano avere consapevolezza. Questa fase, a cui ne sarebbe potuta seguire un’altra ancora più lunga di profonda depressione, poteva durare fino a due anni, con segni di ostilità verso membri della famiglia o autorità che non avevano «fatto abbastanza il loro dovere»11. Per questo, all’atto della rimessa in libertà «un certo tipo di trattamento potrebbe minimizzare le sequele negative ante descritte», suggerendo la protezione di Moro da «incontri di gruppo frastornati ed incontrollati […] per le incontrollate dichiarazioni che egli può essere portato a fare nella prima fase». Dopo i primi contatti indispensabili con i familiari e le autorità giudiziarie, Moro «va sottoposto ad una accurata visita medica di controllo ed ai necessari prelievi di laboratorio. Ciò fatto, egli 10 Ivi, Ministero dell’Interno, DGPS, Roma, 5 maggio 1978, Appunto. 11 ACS, Caso Moro, MIGS b. 4, Annesso B all’allegato 5, Promemoria sugli aspetti medico-psicologici.
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va isolato e protetto rigidamente, assieme ad uno psichiatra-psicologo di sua fiducia, ma non a lui legato da rapporti di parentela o di lavoro». Il terapista avrebbe avuto il compito di «provocare nella vittima una abreazione [abreaction] sulle linee della tecnica usata nelle comuni nevrosi di guerra». Egli avrebbe incoraggiato Moro «a parlare liberamente della sua esperienza, narrandola nei termini che riterrà opportuni e nella sequenza che egli stesso sceglierà, mettendo in luce sentimenti e stati d’animo verso persone e istituzioni». Si trattava di un lungo lavoro che andava portato avanti in modo graduale e che prevedeva un periodo di ricovero in una clinica lontano dal mondo esterno che comunemente circondava il soggetto prima del rapimento12. Secondo il protocollo Victor, si doveva dare immediato avviso della liberazione al procuratore generale della Repubblica, Pietro Pascalino, che il 29 aprile aveva avocato l’indagine sul sequestro, e al suo sostituto Guasco13. Era necessario che il contatto con il sequestrato, infatti, avvenisse per opera della magistratura inquirente prima di qualsiasi dichiarazione a politici o alla stampa. L’ex ostaggio, quindi, sarebbe dovuto essere ricoverato presso il policlinico Gemelli o la clinica più vicina al luogo del ritrovamento. Se Moro avesse espresso il desiderio di vedere la famiglia, i suoi familiari sarebbero stati accompagnati in ospedale. Per nessuna ragione, però, doveva essere condotto a casa. Il luogo del rinvenimento doveva essere isolato per i primi accertamenti, in attesa dell’arrivo del magistrato e delle sole autorità autorizzate, ossia il presidente del Consiglio, il ministro degli Interni e le alte cariche di polizia14. Il piano Mike era più semplice e prevedeva l’avviso del Procuratore generale della Repubblica e del suo sostituto, l’intervento degli artificieri, l’isolamento immediato del luogo del rinvenimento del corpo, l’esclusione della famiglia tra coloro che vi potevano accedere, l’avviso immediato di un certo numero di personalità politiche e in12 Ibid. 13 Al riguardo Pascalino ha dichiarato: «Direi che l’avocazione è uno stato d’animo, ad un certo momento, più che un provvedimento con motivazioni giuridiche ben precise. È un provvedimento di carattere eccezionale, il che dispensa in un certo senso da una motivazione, ma una motivazione evidentemente vi è sempre, per ogni cosa che un magistrato fa. L’istruttoria procedeva in un modo piuttosto incerto perché, in sostanza, la pubblica sicurezza non è che avesse prove nei confronti di coloro che erano stati indicati e che erano conosciuti come eversori, come brigatisti e come persone che potevano avere pensato e realizzato quei crimini»; Commissione Moro 1, Audizione di Pietro Pascalino, seduta del 30 gennaio 1981, vol. 7, p. 174. 14 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 24, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della PS, Roma, 5 maggio 1978, Appunto Riservato, all. 2, Piano Viktor (ritrovamento on.le Moro vivo). Nel 1993 il senatore Francesco Cossiga denunciò alla Digos per calunnia il dott. Franco Ippolito, allora segretario dell’Associazione nazionale magistrati, perché durante una dichiarazione all’ADN Kronos gli aveva attribuito, a suo dire, il progetto di sequestro di Moro, una volta liberato; ACS, MIGS, b. 24, Denuncia in allegato ad Appunto per il sig. Ministro del Dipartimento della PS, ministero dell’Interno, Roma 2 dicembre 1993. Il magistrato aveva chiesto l’apertura di un’inchiesta per accertare «se e quali magistrati prestarono il loro consenso ad un progetto di sequestro di Aldo Moro da parte di organismi dello Stato […] Come ogni cittadino italiano, che ha creduto di vivere in uno Stato democratico di diritto, non posso che provare vergogna per il piano, degno della psichiatria stalinista, ideato o avallato dal ministro di polizia Cossiga contro i diritti fondamentali di Aldo Moro».
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quirenti, del medico legale Silvio Merlo e dell’esperto balistico Antonio Ugolini, l’instaurazione di un rigoroso servizio d’ordine di fronte alla casa e allo studio di Moro e l’avviso di tutte le polizie. Le informazioni alla stampa, all’Ansa e alla Rai dovevano essere date in forma dubitativa15. Alla notizia dell’uccisione del presidente democristiano, dunque, fu il piano Mike ad essere attuato16. Il primo agente a portarsi sul luogo fu il colonnello dei Carabinieri Antonio Cornacchia17. Alle 13.45, appena si ebbe la conferma che il corpo nell’auto era quello di Moro, vennero avvertiti il procuratore Pascalino, il medico legale Merli e il perito balistico Ugolini18. La comunicazione del ritrovamento fu inviata allo Stato Maggiore dell’Esercito, alla presidenza del Consiglio, allo Stato Maggiore della Difesa, al Sismi e al Sisde19. Alle 15.00 il capo della Sala operativa dispose la permanenza di tutti i reparti dipendenti dall’Ispescuole, trasmettendo l’ordine al Capo di Stato Maggiore, colonnello Antonio Cacciuttolo. Dopo pochi minuti vennero allertate tutte le Legioni con ordine di impedire eventuali insorgenze dell’ordine e della sicurezza, quindi, dopo pochissimi minuti, furono allertate tutte le forze armate, che cominciarono a controllare le piazze delle maggiori città20. Fu attivato un piano di sicurezza nel resto d’Italia perché si sarebbero potuti «determinare turbamenti ordine pubblico. Signorie Loro sono pertanto pregate di disporre che tutte le forze di polizia delle rispettive province siano permanentemente impegnate per vigilanza obiettivi sensibili […] per ogni esigenza immediata rigorosa tutela ordine et legalità»21. Si invitava la Polizia a prendere contatto con tutti i partiti dell’arco costituzionale, le organizzazioni sindacali e i movimenti cattolici per valutare iniziative commemorative e garantirne il regolare svolgimento, mentre dovevano «in ogni caso» essere vietate manifestazioni da parte di organizzazioni di estrema sinistra «dando precise disposizioni […] per stroncare qualsiasi tentativo azione illegale aut eversiva, anche ordinando termini legge interruzione trasmissioni cosiddette radio et televisioni libere»22. A ulteriore rafforzamento della direttiva, il ministro dell’Interno inviò ai medesimi destinatari un’altra disposizione che 15 Ivi, all. 3 e all. 24. Sarebbe stato Cossiga a telefonare al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio, al presidente della Camera, a quello del Senato, al segretario della Dc (con Gaspari, Galloni, Piccoli e Bartolomei), e a quello del Partito comunista (con Pecchioli). Per il Partito socialista si dovevano avvisare Craxi o Signorile, Romita per il Partito socialdemocratico, Zanone o Malagodi per i Liberali, Biasini e La Malfa per i Repubblicani. 16 Moro non era, tecnicamente parlando, il presidente del partito, ma dell’Assemblea nazionale dello stesso. 17 Commissione Moro 1, vol. 10, audizione del colonnello Antonio Cornacchia, 6 agosto 1982, p.141. 18 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 24, Questura di Roma. DIGOS, Appunto, Roma, 9 maggio 1978. 19 ACS, Caso Moro, Carabinieri, Sala Operativa, cit. b. 9, Comando Generale dell’Arma, Comunicazioni telefoniche della Legione Roma, trasmette T. Col. Volpe, Roma, 9 maggio 1978. 20 Ibid. 21 ACS, ministero degli Interni, Gabinetto, b. 1, protocollo 11001/145 (1), Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Divisione Ordine pubblico, teleradio precedenza assoluta su tutte le precedenze, Roma, 9 maggio 1978 N.442/3172, Notizia nefando assassinio, f.to Ministro Interno, Cossiga. 22 Ibid.
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richiedeva di non allentare le azioni di ricerca dei responsabili, ma con adeguamento alla nuova situazione «anche in relazione at esigenze ordine pubblico»23. Per scongiurare il pericolo di una bomba nell’auto con il corpo intervennero gli artificieri, anche se l’eventualità era già stata esclusa dal questore Emanuele De Francesco, che aprì lo sportello prima che venisse tagliato il portellone posteriore. Ecco cosa ricorda il questore: «Quando siamo arrivati lì, già c’era un notevole numero di persone. Come si fosse formato questo notevole numero di persone è intuibile: una parte erano passanti incuriositi da questo sbarramento di Polizia, altri sopravvenivano, come noi, perché la notizia era stata diffusa dalle agenzie di stampa e probabilmente anche dalla Rai. Fatto sta che c’era un continuo afflusso di persone, ma la macchina era ancora chiusa; cioè, dal momento in cui si viene a sapere che c’è questa macchina, al momento dell’apertura della macchina stessa, passa diverso tempo. Vidi arrivare ministri, segretari di partito, eccetera […]. Posso confermare che l’apertura dello sportello posteriore della R4 richiese notevole tempo perché il sottufficiale della direzione di artiglieria non vi riuscì. Aveva anche con sé dei mezzi poco efficienti. C’era anche timore di un’esplosione. Io, però, avevo già visto il cadavere dell’onorevole Moro attraverso lo sportello anteriore che avevo fatto aprire dal funzionario della Digos arrivato sul posto per primo, funzionario della Digos il quale non mi aveva confermato nel momento in cui aveva parlato con me via radio in Questura l’identità della salma; cosa che accertai io stesso»24.
Il corpo di Moro venne trasportato all’Istituto di medicina legale, dove fu eseguita l’autopsia25. Il 10 maggio 1978 alle 16.00 la salma fu inumata a Torrita Tiberina, dove 23 Ivi, DGPS, Divisione Ordine pubblico, dispaccio telegrafico precedenza assoluta su tutte le precedenze, Roma, 9 maggio 1978 N.442/3172, Relazione ritrovamento cadavere, f.to Cossiga. 24 Commissione Moro 1, audizione di Emanuele De Francesco, 7 novembre 1980, vol. 6, pp. 18-19. Nel 2013 l’ex artificiere Vitantonio Raso ha rivelato che l’orario del loro arrivo sarebbe dovuto essere rettificato di almeno due ore, tempo durante il quale la macchina sarebbe stata aperta alla presenza di Cossiga e pochi altri. Come ha illustrato Giovanni Bianconi sul «Corriere della Sera», Vitantonio Raso «disse che quel giorno fatidico, avvisato da una telefonata in ufficio e prelevato da una Volante della polizia, giunse in via Caetani «intorno alle ore 11, non oltre le 11.15», mentre la telefonata dei brigatisti all’assistente di Moro, nella quale si dettava l’indirizzo dov’era parcheggiata la R4 rossa, arrivò un’ora dopo, alle 12.13. Lì trovò altri investigatori, lui si avvicinò alla macchina, l’aprì di lato, guardò dentro con attenzione e circospezione. Poco dopo, aggiunse, «notai l’arrivo dell’allora ministro Cossiga, unitamente al colonnello Cornacchia dei carabinieri e al dottor Spinella della Digos», e proprio a Cossiga, Raso comunicò che «dentro la macchina c’era il corpo senza vita di Aldo Moro»; «Corriere della Sera», 30 aprile 2014. Di Raso si veda il libro di memorie La bomba umana, Seneca Edizioni, Torino 2012. La Procura di Roma aprì un’inchiesta, che portò alla messa sotto indagine di Raso per calunnia. Nella documentazione disponibile il riferimento alla presenza del milite si trova in un rapporto della Digos del 5 luglio 1978 nel quale si afferma che tra le impronte papillari rinvenute nella Renault, una era stata lasciata proprio «dal dito indice della mano sinistra del sergente maggiore artificiere Raso Vitantonio, segnalato per esclusione»; ASSR, 17_VIII leg. Doc. XXIII, 5, vol 032, p. 740, MI, DGPS, Centro nazionale di coordinamento delle operazioni di Polizia Criminale, DIGOS, Roma, 5 luglio 1978. 25 Il risultato dell’autopsia in Commissione Moro 1, vol. 45. In quella sede l’ora presunta della morte non
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la famiglia Moro tenne una cerimonia funebre privata. Le forze dell’ordine seguirono ogni istante della giornata e alla fine riferirono che «habent avuto luogo esequie onorevole Aldo Moro. Salma tumulata tomba amici famiglia locale cimitero. Dopo cerimonia religiosa, svoltasi in forma strettamente riservata, est intervenuto onorevole Amintore Fanfani che habet reso omaggio salma. Intervenute circa 500 persone. Nessun incidente. Ordine pubblico normale»26. I colleghi di partito poterono onorare la memoria del presidente soltanto tre giorni dopo, il 13, con una cerimonia in suffragio, senza la salma, nella Basilica di San Giovanni alla presenza delle più alte cariche dello Stato, del Papa, di alcune delegazioni straniere, ma non ai massimi livelli, e del corpo diplomatico. All’interno della Basilica il servizio fu garantito da 100 guardie di P.S. e da 100 carabinieri, tutti in abiti civili27. Moro dalla sua prigionia aveva rifiutato eventuali funerali di Stato e la famiglia si era premurata di far eseguire le sue volontà anche con una certa fretta, al fine di non permettere a coloro che riteneva responsabili di quella morte, di appropriarsi della memoria del loro caro. Quando fu annunciato il ritrovamento del corpo, la Dc era dunque riunita a piazza del Gesù. Il presidente del Senato, Amintore Fanfani, dal quale si attendeva la rottura della linea della fermezza, aveva incontrato la sera precedente a Palazzo Giustiniani una delegazione di socialisti per discuterne. In direzione, però, Fanfani non disse nulla di decisivo, come ricorda egli stesso: «Mentre a piazza del Gesù finisco il mio intervento, Zac[cagnini] è chiamato fuori. La seduta così si è conclusa con le mie ultime parole con le quali dicevo di votare a favore dell’o.d.g. proposto come auspicio che si facesse quanto sinora non è stato fatto. Dopo qualche minuto vado nella stanza accanto e Zac[cagnini] e Andreotti mi comunicano che in via Caetani, tra le sedi quindi del Pci e della Dc, è stata indicata per telefono una auto entro la quale c’è la salma di Moro. Invito Zac[cagnini] a tornare in sala per comunicare la notizia ai membri della direzione e commemorare brevemente Moro»28.
Come presidente del Senato, egli riunì la camera per pochi minuti, con questo breve discorso: «Presidente. (Si leva in piedi e con lui tutta l’Assemblea). Onorevoli collevenne stabilita con certezza. Si noti che le testimonianze raccolte dagli inquirenti tra i frequentatori di via Caetani concordano nel posizionare la presenza della Renault 4 già dalle 8 del mattino, escludendo che fosse stata parcheggiata lì la sera precedente; cfr. Legione Carabinieri di Roma, Reparto Operativo, 6290/420 di prot., Roma 12 maggio 1978, Alla Procura generale della Repubblica di Roma, ASSR, 11_VII leg. Doc. XIII, 5, vol. 31, pp. 321-332, estrapolato da Commissione Moro 1, vol. 31. 26 ACS, Caso Moro, Carabinieri, Sala Operativa, cit. b. 9, P. 22142, 90/6, 10 maggio 1978, f.to capitano Gemma in Torrita Tiberina. 27 Ivi, Comunicazione telefonica del comandante della Legione di Roma, 12 maggio 1978. 28 A. Fanfani, Diario, 9 maggio 1978 in «La Stampa» 19 marzo 2000. Fanfani fu l’unico politico gradito ai funerali dello statista pugliese. I Diari di Fanfani sono stati pubblicati dal Senato, ma il volume con il periodo in esame è ancora inedito.
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ghi, è giunta l’atroce notizia che Aldo Moro è stato barbaramente assassinato. Con animo profondamente commosso, il pensiero rivolto ai familiari, tolgo la seduta in segno di lutto per la grave perdita che subisce l’Italia». Il Senato sarebbe tornato a riunirsi il giorno dopo in due sedute pubbliche con il seguente ordine del giorno: «Deputato Balzamo e altri: Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza (1164) (Approvato dalla Camera dei deputati). Iniziativa Popolare – Accoglienza della vita umana e tutela sociale della maternità (1116)»29. I lavori, insomma, sarebbero proseguiti come da calendario. Le prime dichiarazioni dei politici tesero a mettere in evidenza un presunto doppio gioco delle Br, che dopo aver invocato un cambiamento di linea da parte di piazza del Gesù, uccisero l’ostaggio proprio il giorno in cui Fanfani avrebbe formalizzato l’abbandono della fermezza. Ma le Br uccisero Moro a prescindere da quello che avrebbe detto il presidente del Senato. Il perché va cercato nei due giorni precedenti e nel fatto che l’Esecutivo dell’organizzazione aveva ordinato di chiudere la vicenda già da almeno una settimana. Il 7 maggio il vice segretario del Psi, Claudio Signorile, che aveva aperto una labile finestra sul mondo della lotta armata attraverso Lanfranco Pace, ex militante di Potere operaio che alla fine del 1977 ebbe un fugace passaggio nelle Br, aveva chiamato Fanfani sollecitando un incontro. In quell’occasione l’esponente socialista lo aveva informato che «ancora c’è qualche lasso di tempo per Moro e [...] da quanto gli consta, [...] basterebbe una dichiarazione, ma una autorevole, per richiamare la volontà di compiere qualche atto consentito dal rispetto della legge, ma capace di conseguire la libertà per l’ostaggio»30. Quello stesso giorno, però, il presidente dei senatori democristiani Giuseppe Bartolomei, che sembra fosse stato incaricato proprio da Fanfani di aprire uno spiraglio, tenne un discorso a Montevarchi dal seguente tenore: «Per l’efficace difesa dell’ordinamento democratico, resta dovere indeclinabile rispettare in ogni caso la Costituzione e le leggi. Naturalmente questo dovere non impedisce la ricerca delle cose ancora possibili che risultassero utili a ridare la libertà ad Aldo Moro. In questo quadro la Dc ha sollecitato il governo ad esaminare la praticabilità delle varie iniziative prospettate per la liberazione di Moro»31.
Era un ragionamento molto vago, quasi incomprensibile, che può anche dire molto se si hanno le chiavi per leggerlo (un minimo di spostamento c’era stato) ma che in quella situazione significava tutt’altro che un’apertura alle Br. Si trattava di «esaminare» le varie iniziative, dunque, soprattutto quella dei socialisti, per capirne la praticabilità senza però derogare al rispetto della Costituzione e delle leggi. Non era un cedimento, ma la possibilità di seguire (a piccoli passi per non rompere l’alleanza con il 29 Senato della Repubblica, 264 seduta, 9 maggio 1978, resoconto stenografico, p. 11339. 30 A. Fanfani, Diario, cit., 7 maggio 1978. 31 «Il Popolo», 8 maggio 1978.
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Pci e provocare una crisi di governo) l’iniziativa socialista verso la cosiddetta «soluzione umanitaria», avversata come vedremo da Botteghe Oscure. Agli occhi dei brigatisti il discorso di Bartolomei apparve come l’ultima possibilità, interpretata molto negativamente quella sera stessa in via Chiabrera 74 nel corso della riunione che precedette l’uccisione di Moro. A causa della vaghezza, fu ritenuto il definitivo rifiuto al dialogo. Peraltro, le parole dell’esponente democristiano erano la riproposizione di concetti già espressi dalla Dc, in particolare in una nota del 3 maggio, alla quale il governo aveva risposto il giorno dopo anteponendo a ogni iniziativa il dolore dei familiari delle vittime, sentimento dietro al quale ci si riparò allora e negli anni a venire ogni qual volta si sarebbe avvicinata, seppur in maniera vaga, la possibilità di una chiusura politica di quegli anni32. Secondo Agostino Giovagnoli, gli elementi a disposizione degli storici fanno ritenere che «difficilmente Bartolomei abbia voluto comunicare l’imminenza di un’apertura di Fanfani e della Dc nel senso di un cedimento»33. Lo stesso 8 maggio, dopo la diffusione del discorso di Bartolomei, Fanfani aveva definito «tenue» la possibilità che il prigioniero potesse uscire vivo dalla vicenda, mentre il «Corriere della Sera» del 9 maggio aveva addirittura titolato: «Fanfani reclama più decisione nella lotta alle Br», riportando nelle pagine interne il seguente stralcio: «[la definizione di un quadro strategico di lotta ai terroristi] indica ciò che, nel rispetto della Costituzione e delle leggi può essere fatto senza cedimenti, ma anche senza negligenza, in difesa della vita e della libertà di ogni cittadino e quindi anche di Moro»34. A ben vedere, in questo caso si trattava addirittura di una chiusura. Per meglio comprendere le dinamiche della decisione finale è necessario tenere a mente quello che si può definire il Comunicato n. 10 delle Br, ossia la telefonata di Mario Moretti alla famiglia Moro, avvenuta il 30 aprile 1978 alle ore 16.32. La cosa fu rilevante. Giulio Andreotti, per esempio, annotò nel suo diario: «Pomeriggio drammatico. Zaccagnini mi dice che Giovanni Moro ha ricevuto una telefonata delle Br, se entro tre ore lo stesso Zaccagnini non si dichiara disposto alla trattativa sarà la fine. Chiedo a Parlato conferma (il telefono è sotto controllo per ordine dei giudici) e mi dice che non si è parlato delle tre ore»35.
Nelle Br la discussione sui tempi della conclusione si era protratta per giorni. Venne avviata una consultazione capillare all’interno della organizzazione: tutte le colonne, le brigate territoriali, servizi e di fabbrica furono interpellate. Emerse una posizione 32 «Il Popolo», 4 maggio 1978. 33 A. Giovagnoli, Il caso Moro, il Mulino, Bologna 2005, pp. 248-249. Anche Lanfranco Pace e Franco Piperno commentarono in seguito le parole di Bartolomei. Il primo le bollò come un «non segnale», mentre Piperno disse: «Quel messaggio era incomprensibile anche per me»; cfr. V. Satta, Odissea nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso la documentazione della Commissione Stragi, EdUP, Roma 2003, p. 74. 34 A. Fanfani, Diario, cit., 8 maggio 1978. 35 G. Andreotti, op. cit., p. 217.
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molto chiara: senza liberazione dei detenuti Moro sarebbe stato giustiziato. Furono valutate eventuali proposte di liberazione parziale e secondo le testimonianze di Morucci e Faranda, Moretti cercò di mediare tra questa posizione, riassunta dall’Esecutivo, che spingeva per chiudere presto, e quella dei due militanti della Colonna romana che erano orientati per prendere ancora tempo. Si assunse così la responsabilità della telefonata: «Decido per un ultimo tentativo», rievoca Moretti «non c’è tempo per consultare l’Esecutivo ma so che cosa pensano i compagni [...]. Morucci, Faranda e Barbara [Balzerani] mi si mettono intorno e mi coprono mentre chiamo casa Moro da un telefono pubblico in un sottopassaggio della Stazione Termini […]. Vorrei non volerlo fare, vorrei essere altrove. Riesco soltanto a dir[e] in modo chiaro che c’è ancora la possibilità che non si esegua la sentenza. Mi sono risentito in quel nastro, ho un tono concitato e inutilmente perentorio [...]. Metto giù il telefono, ci defiliamo, io torno in via Montalcini e comincia l’attesa più lunga e più inutile della mia vita»36.
La drammatica telefonata fu raccolta dalla moglie di Moro e non da una figlia come credeva Moretti, il quale parlò in questi termini: «Io sono uno di quelli che hanno a che fare con suo padre. Le devo fare un’ultima comunicazione. Questa telefonata è per puro scrupolo. Siete stati un po’ ingannati e state ragionando sull’equivoco [...]. Finora avete fatto soltanto cose che non servono assolutamente a niente. Ma crediamo che i giochi siano fatti e abbiamo già preso una decisione. Nelle prossime ore non possiamo fare altro che eseguire ciò che abbiamo detto nel comunicato numero 8. Quindi chiediamo solo questo: che sia possibile l’intervento di Zaccagnini, immediato e chiarificatore in questo senso. Se ciò non avviene, rendetevi conto che non potremo fare altro che questo. Mi ha capito esattamente? Ecco, è possibile solo questo. [...] Il problema è politico e a questo punto deve intervenire la Dc. Abbiamo insistito moltissimo su questo, è l’unica maniera in cui si può arrivare a una trattativa. Se questo non avviene [...] solo un intervento diretto, immediato, chiarificatore, preciso di Zaccagnini può modificare la situazione»37.
Queste, in pratica, furono le ultime parole delle Br. Moretti chiese un intervento del segretario della Dc «diretto, immediato, chiarificatore, preciso». Non altro, quindi, non più. Lo stesso ex brigatista ha dichiarato che in un certo senso era stato Moro stesso a suggerire quel contatto diretto. Disse che «i miei familiari si sono lasciati guidare da cattivi consiglieri. Telefonate a mia moglie, ditele che chieda a Zaccagnini 36 M. Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, con Rossana Rossanda e Carla Mosca, Baldini & Castoldi, Milano 1988, p. 166. Con lo stesso titolo ora ristampato per Mondadori. 37 La trascrizione dell’intercettazione si trova in ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 C, faldone 18, telefonata in partenza dal 484529 (Stazione Termini), f. 40. Roma 30 aprile 1978.
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un gesto esplicito della direzione democristiana». Sarebbe bastato un piccolo atto, prosegue Moretti, «purché fosse chiaramente nel senso dell’assunzione di responsabilità nel problema dei prigionieri politici»38. La telefonata, in pratica, intendeva facilitare il lavoro della Dc, non chiedendo più alcuno scambio di prigionieri, ma allo stesso tempo significava che le eventuali parole di Zaccagnini sarebbero state l’ultima possibilità di tirare fuori Moro vivo. Dopo la telefonata i familiari dello statista diffusero un comunicato drammatico, una sorta di appello che riportava, in pratica, le parole delle Br, riprendendo anche i toni di una missiva dell’ostaggio: «La famiglia di Aldo Moro, dopo tanti giorni di attesa angosciosa, rivolge un pressante appello alla Dc affinché essa assuma con coraggio le proprie responsabilità per la liberazione del suo presidente. La famiglia ritiene che l’atteggiamento della Dc sia del tutto insufficiente a salvare la vita di Aldo Moro. Sappia la delegazione democristiana, sappiano gli onorevoli Zaccagnini, Piccoli, Bartolomei, Galloni e Gaspari che con il loro comportamento di immobilità e di rifiuto di ogni iniziativa proveniente da diverse parti ratificano la condanna a morte di Aldo Moro. Se questi cinque uomini non vogliono assumere la responsabilità di dichiararsi disponibili alla trattativa, convochino almeno il Consiglio nazionale della Dc, come formalmente richiesto dal suo presidente. La nostra coscienza non può più tacere di fronte all’atteggiamento della Dc. Crediamo, con questo appello, di interpretare anche la volontà del nostro congiunto. Egli non riesce ad esprimerla direttamente senza essere dichiarato sostanzialmente pazzo dalla quasi totalità del mondo politico e in prima linea dalla Dc e da gruppi ad essa paralleli di sedicenti «amici» e «conoscenti» di Aldo Moro».
L’appello si concludeva con le parole già espresse dall’uomo politico dalla sua prigionia: «Per evitare una lunga stagione di dolore e di morte, non serve negare la dura realtà: occorre invece affrontarla con lucido coraggio». Secondo Morucci, le cui dichiarazioni sono mutate nel corso degli anni, la telefonata del 30 ebbe motivazioni differenti da quelle che abbiamo individuato39. Il 30 aprile, disse l’ex brigatista romano «il problema delle Br non è certamente evitare l’uccisione di Moro, come Moretti afferma nella telefonata, ma piuttosto quello di trovare un altro modo per vincere comunque la partita», ossia liberare alcuni militanti. Dopo i 38 «L’Espresso», 2 dicembre 1984. Valerio Morucci ha chiarito in cosa dovesse consistere questa assunzione di responsabilità: «In ipotesi, la Dc avrebbe potuto fare una pubblica dichiarazione di questo tenore: una organizzazione rivoluzionaria chiamata Brigate rosse ha nelle sue mani il leader del nostro partito. Per la sua salvezza, essa ci chiede di trattare la liberazione di alcuni prigionieri politici. Insomma, qualcosa del genere»; Commissione Stragi, Audizione di Valerio Morucci, 18 giugno 1997. 39 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 20, Onorevole Flaminio Piccoli, Domande e risposte di Morucci e Faranda. Maggio 1985. Riservate, ff. 16-17.
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ripetuti «No» del governo, però, si pensò che la Dc avesse più libertà di manovra e che un suo coinvolgimento diretto potesse fornire una risposta in tempi più stretti40. La mancanza di una replica chiara, però, venne interpretata come «fumo agli occhi» e non come il segnale del lento manifestarsi di una dialettica interna tra gruppi di potere articolati e in concorrenza o, a seconda delle situazioni, delle opportunità e delle convenienze, pronti anche alla collaborazione41. Un altro protagonista del sequestro, Prospero Gallinari, ha dato una terza lettura di quella telefonata: «C’è stata una cosa che detta così può sembrare una cosa folle, che dimostra il livello umano di una persona come Mario Moretti: la telefonata tra lui e la famiglia di Moro. È un uomo che rappresenta un esecutivo, un’organizzazione, una decisione: erano tantissimi giorni che dicevamo «siamo arrivati alla fine, non possiamo liberare Moro perché ci si rigirerebbe contro», perché l’esperienza Sossi era stata chiara, fu liberato sulla parola ma poi la storia ci ha dimostrato come andò. Noi ci siamo trovati in una situazione in cui c’era una decisione già presa. Ebbene fu giocata un’altra carta, la carta umana [...]. Se qualcuno l’ha ascoltato è stato un atto umanissimo, di un brigatista che cercava fino all’ultimo di salvarlo dicendo: «Signora intervenga lei, siamo al capolinea»42.
La telefonata del 30 aprile è importante non solo per capire le dinamiche interne alla Br, ma per un altro motivo; grazie a essa apprendiamo che la situazione precipitò alla fine di aprile e non prima (per esempio dopo il falso comunicato del 18 aprile), cosa che ci induce a pensare che la gestione dell’azione fosse divenuta problematica a causa del lungo tempo trascorso senza segnali da parte del governo o della Dc, e non per interventi esterni, come supposto da qualcuno. Zaccagnini dichiarò in seguito, in tono giustificativo, che la Dc si era spinta «fino al limite di ciò che si poteva fare, nel rispetto però dello Stato e, soprattutto, non potendo accettare quello che mi pare fosse il prezzo che si pretendeva da noi, dare una dignità alle Brigate rosse. Mi chiedo ancora se si poteva fare qualcosa di più, ma con questa distinzione: fra ciò che si poteva e si doveva fare per liberare Moro, e ciò che non si poteva concedere perché non era nella facoltà di un partito o di altri»43.
Andreotti disse che l’unico modo per salvare Moro «sarebbe stato quello di riuscire a trovare dove [...] veniva tenuto [...] perché l’unica offerta avuta dai terroristi fu quella 40 Ibid. 41 Ivi, f. 18. 42 Dichiarazione riportata in A. Sofri, L’ombra di Moro, Sellerio, Palermo 1991, pp. 122-123. 43 S. Zavoli, La notte della Repubblica, Mondadori, Milano 1995, pp. 341-342.
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dei «tredici» che dovevano essere liberati ed era assolutamente impossibile accedere a una idea di questo genere»44. Come ha affermato Zaccagnini, la stima e «la venerazione» che egli aveva per Moro furono sacrificati in nome di un principio, che rappresentò per molti un limite invalicabile. Le Br lo capirono e giudicarono la direzione Dc del 9 maggio tardiva. La loro fu una decisione politica e simbolica, il modo per colpire, attraverso l’ostaggio, tutto il vertice Dc riunito a piazza del Gesù. Fu come se avessero voluto dire: «Avete voluto Moro senza una trattativa? Eccolo»45. Quel 30 aprile, non appena venne informato della telefonata delle Br a casa Moro, Fanfani chiamò Zaccagnini «per esortarlo a esaminare la novità e decidere il da fare». La questione era stata compresa nei giusti termini dal presidente del Senato, il quale, però, si trovò di fronte a un rinvio «burocratico» di qualunque decisione. Secondo quanto ricorda nel suo diario, infatti, il segretario della Dc rispose che Andreotti l’aveva consigliato «di accertare prima l’autenticità della telefonata»46. La Dc era paralizzata e se Bettino Craxi proseguiva nell’incerto tentativo umanitario, il Pci mantenne l’originaria intransigenza nel timore, espresso da Enrico Berlinguer e Alessandro Natta ad Andreotti, che il governo avrebbe potuto compiere azioni «destabilizzanti»47. Il 3 maggio, quindi, fu diffusa la nota governativa che riconfermava la fermezza, attribuibile ad Andreotti: «L’invito al Governo rivolto dalla Dc di approfondire il contenuto della soluzione umanitaria adombrata dal Psi, avrà un seguito in una riunione del Comitato interministeriale per la sicurezza che avrà luogo nei prossimi giorni. Si osserva tuttavia fin d’ora che è nota la linea del governo di non ipotizzare la benché minima deroga alle leggi dello Stato e di non dimenticare il dovere morale del rispetto del dolore delle famiglie che piangono le tragiche conseguenze dell’operato criminoso degli eversori».
Questa importante dichiarazione segnò un’ulteriore cesura verso le Br e un nuovo passo in direzione del tragico epilogo, quando era ormai chiaro che i brigatisti non avrebbero liberato Moro senza una contropartita. Si potrebbe obiettare che la telefonata del 30 aprile teoricamente era la prova che le Br continuavano ad arretrare nelle richieste pur di ottenere qualcosa, e non era escluso che presto si sarebbero accontentate di ancora meno, ma si tratta di un ragionamento senza controprova e in qualche 44 Ivi, p. 356. 45 Nei giorni successivi il ritrovamento del corpo di Moro le forze dell’ordine ricevettero diverse segnalazioni riguardanti la presenza di una Renault 4 in varie parti dell’Italia alla vigilia del 9 maggio, segnalazioni che furono verificate e ritenute inattendibili. ACS, Caso Moro, Carabinieri, Sala Operativa, cit. b. 9, Comando Generale dell’Arma, Roma, Trasmissioni radiotelevisive. Gli accertamenti sull’auto, invece, permisero di stabilire che la targa (N 57686) apparteneva a un’Alfetta dell’Alitalia di Roma che nel 1977 era stata trasferita a Capodichino e lì ritargata, ivi, Appunto della Terza Divisione, Napoli 17 maggio 1978. 46 A. Fanfani, Diario, cit., 1 maggio 1978. 47 G. Andreotti, op. cit., p. 218.
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modo opportunistico. Stando alla lettera delle parole di Moretti alla signora Moro, per le Br il tempo era orami scaduto e la vicenda si sarebbe conclusa entro breve. La richiesta del 30 aprile segnò il limite oltre il quale le Br non sarebbero andate. A parziale giustificazione della posizione del governo è stato detto che il comunicato del 3 maggio rispondeva anche a necessità più stringenti, essendo stato minacciato un suicidio in piazza da parte di una vedova degli agenti della scorta di Moro in caso di recesso dalla fermezza48, tanto che Sciascia scrisse: «in Italia la famiglia spiega tutto, giustifica tutti, è tutto. [...] E dunque per sopravanzare le ragioni della famiglia Moro, per annientarle – poiché in quanto famiglia di ragioni ne ha – non c’è niente di meglio che servirle un certo numero di famiglie già in lutto, e quanto meno le cinque di coloro che facevano scorta all’onorevole Moro. Una [...] libera traduzione della nota, e più realistica, suonerebbe dunque così: «Il governo, altrimenti impotente, può mostrare la sua forza, e in qualche modo attenuare le critiche e i risentimenti che alla sua impotenza si rivolgono, soltanto lasciando che le Brigate rosse procedano a una soluzione egualitaria del caso Moro. Se poi l’Innominato che le comanda sarà, per le preghiere del Santo Padre, toccato dalla Grazia come l’Innominato del Manzoni, il governo non potrà che dirsi lieto della restituzione alla famiglia dell’onorevole Moro»»49.
In realtà, nessuna delle due vedove di via Fani, la signora Leonardi e la signora Ricci, ha mai confermato la notizia data da Antonio Padellaro sul «Corriere della Sera» del 4 maggio. Ascoltata dalla Commissione Moro 1, rispondendo a una domanda proprio di Sciascia, la signora Maria Ricci ha affermato che «si è trattato di una grande montatura. Personalmente io, con due bambini piccoli, pur nel trauma e nel dolore, non ho mai pensato di dire una cosa del genere; tanto meno ciò è stato detto da qualche parente»50.
In linea con la posizione del governo, le forze dell’ordine organizzarono grandi rastrellamenti ad Arezzo il 4 maggio, a San Felice Circeo (Latina) e zone collinari circostanti il 6 e l’8 in provincia di Terni, tutti senza esito51. Dopo la telefonata del 30 aprile, Moretti, Faranda e Morucci ebbero altri incontri, il 3 maggio in piazza Barberini e l’8 in via Chiabrera, nella base occupata dalla coppia, ma non si fu in grado di dilazionare oltre un certo tempo l’esecuzione della sentenza. 48 G. Andreotti, op. cit., p. 220 e F. Cossiga, La passione e la politica, con Piero Testoni, Rizzoli, Milano 2000, p. 213. 49 L. Sciascia, L’affaire Moro, Adelphi, Milano 1978, p. 121. 50 Commissione Moro 1, vol. 5, 30 settembre 1980, audizione di Maria Ricci, p. 213. 51 ACS, Caso Moro, Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, Sala Operativa, p. 22142, b. 10, 3 maggio 1978 e 4 maggio 1978. Prec. ass. dest Fr Romani. Precedenza assoluta su tutte le precedenze.
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Secondo i ricordi di Morucci, una liberazione di Moro senza contropartita avrebbe potuto far prevalere nel movimento rivoluzionario le posizioni dell’Autonomia, che vedeva nella lotta armata un semplice supporto alla violenza rivoluzionaria diffusa e non il suo asse strategico, in grado di proporre un’alternativa di potere52. Seghetti e con lui molti ex che parteciparono agli eventi, hanno affermato che le scelte non furono prese in negativo e che alcuni obiettivi minimi dell’azione erano stati raggiunti. L’8 maggio si verificò che non esisteva alcun segnale da parte della Dc e che, ricorda Morucci, «questa cosa doveva essersi già conclusa e la si stava anzi tirando troppo per le lunghe»53. L’espressione trova riscontro nei ricordi di Moretti, che sui lavori della Direzione Dc del 9 maggio ha dichiarato: «[...] in quella sede non sarebbe successo nulla. In cinquantacinque giorni c’era stato il tempo di fare un’infinità di cose e non le hanno fatte. Tutto, ma proprio tutto, ci dice che la partita è chiusa. Anche Moro lo sa»54.
52 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 20, Onorevole Flaminio Piccoli, Domande e risposte di Morucci e Faranda. Maggio 1985. Riservate, f. 23. 53 Commissione Stragi, Audizione di Valerio Morucci, cit. 54 M. Moretti, Brigate rosse, cit., p. 166. Per alcuni particolari si veda G. Bianconi, Eseguendo la sentenza, Einaudi, Torino 2008 e A. Colombo, Un affare di Stato, Cairo editore, Milano 2008.
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Capitolo 2 Le Brigate rosse in fabbrica
2.1 Le origini All’inizio degli anni Sessanta del Ventesimo secolo si assistette in Italia alle prime due grandi manifestazioni di autonomia della classe operaia nel dopoguerra. Ci si riferisce ai fatti del «luglio 60» a Genova, dove la popolazione guidata dai portuali insorse contro la decisione del governo Tambroni di autorizzare nella città, medaglia d’oro della Resistenza, lo svolgimento del congresso del Msi, e a quelli di «piazza Statuto a Torino» nel luglio del 1961, quando per tre giorni, in un susseguirsi di scontri durissimi tra manifestanti e forze di polizia, la sede della Uil fu accerchiata dai lavoratori che protestavano contro l’accordo separato firmato dal sindacato con la direzione della Fiat per tentare di sabotare lo sciopero che aveva bloccato l’intera città. Questi due episodi restarono abbastanza isolati nel corso degli anni Sessanta, ma simbolicamente segnarono l’apertura dei cicli di lotte sociali e politiche che condussero al lungo decennio degli anni Settanta e che rappresentarono l’affacciarsi sulla scena delle generazioni operaie migrate dal Meridione che si andavano insediando nel nuovo tessuto sociale metropolitano delle periferie del triangolo industriale. I giovani dalle «magliette a strisce» e i nuovi «operai di linea», carichi di una forte rabbia sociale, si sarebbero mossi in cerca di una nuova prospettiva di vita sotto l’influenza di nuove culture giovanili. Stavano per nascere forme di lotta dal basso che sorpresero e scavalcarono le organizzazioni tradizionali del movimento operaio e della sinistra storica. La rivolta di Valdagno1 annunciò che il ’68 italiano non sarebbe stato solo studentesco e l’anno successivo, innescato dalla battaglia di Corso Traiano a Torino, cominciò «l’autunno caldo». Il 3 luglio 1969 una manifestazione autonoma di operai della Fiat e di altre fabbriche torinesi a sostegno del blocco degli affitti prese il via dai cancelli di Mirafiori al grido di «Vogliamo tutto»2. Attaccato dalla polizia, il corteo 1 Il 19 aprile 1968 uno sciopero indetto dalle maestranze delle officine tessili Marzabotto di Valdagno, sulle colline vicentine, contro i nuovi ritmi produttivi e la minaccia di 400 licenziamenti, si trasformò in una rivolta che si allargò al paese e portò all’abbattimento della statua del fondatore della fabbrica, il conte Gaetano Marzotto, da parte di studenti delle medie inferiori. Alla fine si contarono 42 fermi. 2 Slogan che ispirò il romanzo di Nanni Balestrini, Vogliamo tutto. Pubblicato per la prima volta nel 1971,
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diede il via a una lunga serie di scontri fino a notte inoltrata mentre in Corso Traiano furono innalzate barricate. Mentre si muovevano le fabbriche, il forte movimento studentesco di quel periodo sviluppò decine di esperienze, come quella della Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento. Qui la lotta, ossia l’occupazione dell’Università, si era rivelata sterile e isolata all’interno della città e alla fine del 1968 Renato Curcio, la sua compagna Margherita Cagol, Mauro Rostagno e altri si spostarono a Verona, dove avevano dei contatti con il Centro d’informazione (Cdi) che dal 1962 curava il bollettino «Lavoro Politico» di cui era direttore Walter Peruzzi. Grazie alla collaborazione di Curcio e Rostagno, il bollettino migliorò qualitativamente e ospitò una serie di articoli sulla Rivoluzione culturale cinese, non tralasciando di seguire le vicende della guerra in Vietnam. Contemporaneamente, quasi tutta la redazione entrò nel Partito comunista d’Italia, di ispirazione maoista, che si sarebbe scisso poco dopo in due linee, una detta «nera» (che si divise ancora in seguito) e l’altra «rossa». Curcio e Cagol aderirono alla fazione rossa, ma il futuro dirigente delle Br ne fu espulso nell’agosto del 1969 per «avventurismo politico e frazionismo organizzato» insieme a Peruzzi e un altro «trentino», Duccio Berio. Dopo questi avvenimenti negativi, Curcio e Cagol si trasferirono a Milano, dove entrarono in contatto con alcuni esponenti delle lotte nelle grandi fabbriche. Qui conobbero, tra gli altri, Pierluigi Zuffada, Pietro Morlacchi, Maurizio Ferrari, Mario Moretti, Maria Carla Brioschi, Alberto Franceschini e Tonino Loris Paroli, tutti futuri brigatisti. Nel corso degli anni Sessanta il capitalismo italiano aveva vissuto una fase di espansione e di crescita favorita da una certa pace sociale garantita da governi più aperti alla mediazione politica rispetto al passato. Le principali imprese italiane adottarono una politica di concentrazione produttiva e finanziaria e di espansione in un contesto internazionale favorevole, cercando di cogliere le opportunità offerte dall’allargamento dei mercati e dalla conseguente possibilità di insediamento produttivo. Cominciò un profondo cambiamento tecnologico, di strategie e scenari che in qualche modo venne colto dalle maestranze. Lo scontro sociale che ne seguì fu lungo e violento e all’interno di questo contesto, insieme ad altre formazioni della nuova sinistra rivoluzionaria come Lotta continua e Potere operaio, nacquero anche le Brigate rosse. La crescita produttiva aveva portato le aziende a pretendere forti aumenti dei ritmi di lavoro mentre l’inflazione, usata dai governi come sostegno indiretto alla competitività, se da un lato favoriva gli investimenti dall’altro comportava una sostanziale stagnazione dei livelli salariali reali. Lo sviluppo, come accennato, favorì anche nuove emigrazioni dalle regioni depresse del paese verso le aree industriali e un sostanziale narra la storia di Alfonso Natella, un operaio arrivato dal Sud nella Fiat in ebollizione, la sua scoperta della metropoli, della violenza e dell’oppressione capitalistica, della comunità proletaria che si forma, della rivolta che serpeggia e poi esplode.
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ringiovanimento del proletariato industriale, con il conseguente aumento delle tensioni sociali. Secondo un’analisi diffusa all’epoca tra gli ambienti operai, la modernizzazione della società italiana avrebbe portato a un arretramento degli spazi di libertà e dei diritti dei lavoratori e sarebbe stata gestita da governi di centrosinistra, che meglio di altre formule avrebbe consentito al capitale di scaricare l’onere maggiore del processo sui produttori. A una sostanziale stagnazione dei livelli salariali reali e del livello dell’occupazione si sarebbero affiancati altri fenomeni, come la parcellizzazione delle mansioni, che avrebbe provocato un ricambio veloce degli effettivi e lo svecchiamento della forza lavoro. Il sindacato ufficiale cercava di controllare le tensioni, ma molti si erano convinti che la Cgil avrebbe perduto la propria autonomia per muoversi in maniera sempre più subordinata allo schieramento governativo, al quale si sarebbe presto avvicinato il Pci. Nacquero comitati di agitazione composti dai lavoratori più combattivi, a prescindere dalla loro appartenenza a una organizzazione sindacale, e comprendenti comitati di sciopero elettivi che affiancavano le Commissioni interne3. In tale contesto, già nel 1965 alla Sit-Siemens si costituì il primo nucleo di quello che in altre fabbriche milanesi, prima fra tutte la Pirelli, divenne il Comitato unitario di base (Cub). Inoltre, quando nel 1968 si aprì la vertenza contrattuale dei metalmeccanici, accanto alla Fiom milanese si organizzarono anche alcuni impiegati che, avendo militato nel Pci, nel sindacato e nella Commissione interna, erano riusciti a guadagnare la fiducia di molti compagni. Essi formarono un comitato di sciopero composto dalla Commissione interna e da una quarantina di delegati di reparto e in breve questo nucleo diede vita al primo Cub, nella logica del superamento della delega nelle lotte sindacali. In altre parole, il Cub venne visto come un sindacato di base in grado di fare pressione su quello ufficiale, ma anche come un organismo capace di aprirsi alla società e, in particolare, al mondo studentesco4. L’esperienza del Cub della Pirelli e di altre fabbriche e degli omologhi Gruppi di studio della Sit-Siemens e Ibm trovò una sintesi politico-organizzativa quando l’8 settembre 1969 a Milano fu fondato, sempre nell’ambito delle lotte operaie, il Collettivo politico metropolitano (Cpm) allo scopo di coordinare l’azione dei Cub e dei Gruppi di studio anche fuori dalla fabbrica, per la propaganda e la trasformazione delle singole lotte in uno scontro più ampio. Milano, dunque, fu il centro di questo movimento spontaneo dal basso che catalizzò persone provenienti da esperienze diverse. Così accanto al primo Cub alla Nerofumo Pirelli, il cui leader era Raffaele De Mori ma nel quale erano entrati anche persone come Corrado Simioni e Renato Curcio5, troviamo il Gruppo di studio Ibm, quello della Sit-Siemens di piazza Zavattari (il cui leader era Gaio Di Sil3 Volantino dal titolo Che cos’è il Comitato Unitario di Base Operai-Studenti, Che cos’è il Cub?, Trento, 15 luglio 1968 in www.nelvento.net/archivio/68/autonomia/cub.htm. 4 Cub: origine, sviluppo e prospettive, Milano, giugno 1968. Vedi in www.nelvento.net/archivio/68/avangop/cub.htm. 5 Corrado Simioni, nato a Dolo (Venezia) il 10 dicembre 1934, già studente della Bocconi, dal 1964 lavorò in
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vestro e che ebbe tra i militanti Corrado Alunni), ma anche gli studenti lavoratori di ispirazione cattolica aderenti alla Fiom milanese che si trovavano su posizioni particolarmente radicali e che erano guidati dall’allora segretario della Fim-Cisl Sandro Antoniazzi; tra questi si possono ricordare i futuri brigatisti Maurizio Ferrari, Arialdo Lintrami e Giorgio Semeria, oltre a elementi di sinistra provenienti da esperienze diverse, come il gruppo di Borgomanero, nel Novarese, comprendente Alfredo Buonavita, Antonio Savino, Giovanna Legoratto ed Enrico Levati e i cosiddetti «reggiani», sui quali è necessario soffermarsi brevemente. Alcuni giovani che avrebbero aderito al Cpm provenivano da Reggio Emilia e avevano militato all’interno della Federazione giovanile comunista, dalla quale si erano allontanati a partire dal gennaio 1969, quando Alberto Franceschini, membro della direzione, ne era uscito insieme a una ventina di compagni, mentre il giovanissimo Prospero Gallinari ne era stato espulso. Il gruppo si organizzò in un «Collettivo politico operai e studenti», che divenne subito noto con il nome di «Gruppo dell’appartamento», dal luogo delle riunioni in via Emilia a San Pietro 25. Tra i suoi membri, tutti giovanissimi e di estrazione proletaria, c’erano Fabrizio Pelli, Tonino Paroli e Lauro Azzolini. Franceschini veniva da una famiglia antifascista molto nota, mentre Roberto Ognibene era l’unico che apparteneva a uno strato sociale più agiato. Il gruppo non raccolse che insuccessi e alcuni preferirono rientrare nella Fgci. Chi rimase «nell’appartamento» instaurò rapporti con il Cpm e la redazione di «Sinistra proletaria», fino a quando una parte entrò direttamente nel collettivo milanese. L’adesione alle nascenti Brigate rosse, però, non fu immediata ed è ipotizzabile che fino al 1970 i membri dell’appartamento emiliano operarono come gruppo locale non organico alle Br, mantenendo contatti con Simioni e Franco Troiano in uno dei gruppetti in cui si divise il Cpm, senza impegnarsi in azioni di rilievo. Terminata l’esperienza, a partire dal 1971 molti lasciarono Reggio Emilia per trasferirsi definitivamente a Milano, dove entrarono nelle Br. Franceschini fu il primo a farlo, nel febbraio di quell’anno, poi, alcuni mesi dopo, partirono Pelli, Ognibene, Gallinari, Paroli e Azzolini. Come ha scritto Alessandro Silj, dunque, «l’importanza relativa di Reggio [Emilia] rispetto ad altri centri d’influenza brigatista non va esagerata», in quanto Milano, Torino e Genova diedero all’organizzazione molti più militanti6. Franceschini divenne uno dei maggiori dirigenti delle Br e gestì il sequestro del giudice Mario Sossi; è probabile che, come nel caso di Curcio con l’Università di Trento, tale circostanza abbia contribuito, quasi con un automatismo, ad attribuire ai reggiani tout court un ruolo Mondadori. Dal settembre 1970 si era reso irreperibile. Fu colpito da mandato di cattura nel maggio 1974 per associazione sovversiva dal Tribunale di Milano ma gli venne revocato il 24 giugno 1976. Sarebbe entrato anni dopo in una seconda inchiesta, ma anche in questo caso fu assolto da tutte le accuse. Su di lui esiste un fascicolo al Sisde, ACS, Caso Moro, MIGS b. 5, Profilo sui terroristi, ff. 70 e 76. 6 Alessandro Silj, Mai più senza fucile! Alle origini dei Nap e delle Br, Vallecchi, Firenze 1977, p. 16.
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maggiore di quello che, in effetti, ebbero rispetto alle avanguardie di fabbrica, specialmente nel periodo iniziale di attività del brigatismo. Tornando alle città industriali, il 1969 fu un anno di scioperi. Già gli eccidi dei braccianti di Avola e di Battipaglia avevano provocato una serie di proteste alla Fiat, dove era alta la percentuale di operai meridionali7, e dopo un periodo di relativa calma gli scioperi ripresero in primavera8. Come ha scritto A. Cazzullo, «il bilancio del ’69 alla Fiat è un bollettino di guerra: 20 milioni di ore di sciopero, 277.000 veicoli perduti»9. L’attività del Cpm, allora, si inserì nella doppia dialettica sindacato-imprenditori e sindacato-Cub nella vertenza per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Furono organizzati altri sindacati di base, tra cui si ricorda quello della Ducati, che riuscì a proclamare uno sciopero vittorioso contro il licenziamento di alcuni elementi particolarmente attivi nella lotta. A settembre si registrarono nuovi scioperi a Mirafiori, dove 7000 lavoratori furono posti in cassa integrazione mentre la direzione della Fiat sospese quasi 20.000 operai. La lotta si intensificò anche alla Pirelli, dove il Cub acquistò una funzione di primaria importanza. Il 10 ottobre 1969 si svolsero in tutta Italia grandi manifestazioni dei metalmeccanici che chiedevano il rinnovo del contratto. A Torino scioperarono 250.000 lavoratori e in tutti gli stabilimenti della Fiat si tennero assemblee. La polizia intervenne con cariche davanti a Mirafiori. Gli scioperi si estesero a Genova e a Milano, dove il 15 si svolse una protesta a livello provinciale, mentre scesero in lotta anche gli edili, i postelegrafonici e i ferrovieri. A Milano, Torino e Roma, inoltre, diverse iniziative per l’occupazione delle case sfitte furono sostenute dal basso. Proprio a Genova nacque una delle prime, farraginose organizzazioni combattenti. Nel 1969 Mario Rossi, Augusto Viel, Rinaldo Fiorani e Silvio Malagoli fondarono un gruppo clandestino di ispirazione marxista, noto con il nome di 22 Ottobre e che si sarebbe presto manifestato con una serie di azioni incendiarie contro le proprietà di alcuni imprenditori genovesi10. Esso mostrò quasi immediatamente la propria inadeguatezza organizzativa, tanto che per organizzare il sequestro del rampol7 Il 2 dicembre 1968 ad Avola (Siracusa) i braccianti scesero in piazza contro le gabbie salariali. La polizia sparò sui dimostranti uccidendo Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona. Il 9 aprile 1969 a Battipaglia la popolazione scese in piazza per protestare contro la chiusura di due aziende storiche, la manifattura di tabacchi e lo zuccherificio. Nel corso degli scontri la polizia sparò sulla folla uccidendo Carmine Citro di 19 anni e Teresa Ricciardi di 30. 8 Secondo l’Istat al termine dell’autunno caldo si contarono 7.507.000 scioperanti con oltre 300.000.000 ore di sciopero. In seguito l’Italia sarebbe stato il paese occidentale con gli indici di conflittualità più alti. Dal 1973 al 1975 la media delle ore di sciopero annuale sarebbe stata superiore ai 150.000.000, picco che verrà toccato nuovamente nel 1979; Giovanni de Witt, Le fabbriche ed il mondo. L’Olivetti industriale nella competizione globale (1950-1990), Franco Angeli, Milano 2005, p. 161. 9 A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978. Storia critica di Lotta Continua, Mondadori, Milano 1998, pp. 75-76. 10 Secondo Paolo Piano il nome deriva dalla data di un biglietto ferroviario per Genova emesso a Ivrea il 22
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lo di una ricca famiglia genovese, Sergio Gadolla, nell’ottobre del 1970 sarebbero entrati nella banda alcuni personaggi dal passato lontano dagli ideali marxisti, come l’ex missino Diego Vandelli, o Gianfranco Astara e Adolfo Sanguineti, che in seguito avrebbero denunciato i loro compagni, contribuendo alle pesanti condanne comminate in sede di giudizio11. Scioperi e occupazioni continuarono in tutto il triangolo industriale, nonostante le ripetute provocazioni e lo scoppio di alcuni ordigni, come quello alla Camera del lavoro di Piacenza all’inizio di novembre. Gli operai ruppero con il tradizionale moderatismo salariale delle organizzazioni confederali, rivendicando la fine del cottimo, l’abbassamento dei ritmi di lavoro, il superamento delle differenze salariali (aumenti uguali per tutti), delle gabbie salariali (che prevedevano salari inferiori nel Meridione), l’adozione di misure contro i lavori più nocivi e le mansioni più pericolose, soprattutto lo sganciamento del legame tra salario e produttività («salario come variabile indipendente»). Per ottenere questi obiettivi diedero vita a nuove forme di coordinamento (le assemblee di fabbrica divennero i nuovi luoghi di decisione e discussione) e di lotta, di massa e a volte anche clandestine. Si moltiplicarono nuove modalità di sciopero, per esempio a «gatto selvaggio», con l’obiettivo di provocare il massimo danno al padrone con il minimo costo per gli operai. Scioperi a «singhiozzo» e a «scacchiera» furono in grado di intasare e interrompere il flusso della linea di produzione e il ricorso a cortei interni nei luoghi di lavoro consentì di mutare il rapporto di forza con le gerarchie dell’azienda, che in questo modo perdeva la capacità di esercitare rappresaglie disciplinari. I picchetti esterni ai cancelli d’ingresso, il ricorso al sabotaggio della produzione o delle merci e alla violenza contro le gerarchie di comando della fabbrica, i capi reparto, la sorveglianza, i quadri e dirigenti, rientrarono in questa nuova logica. Le azioni potevano andare dalle semplici minacce alle gogne, ai pestaggi, fino all’incendio delle automobili. Il 12 dicembre 1969, però, la strage di piazza Fontana, «la madre di tutte le stragi» com’è stata definita in passato, colpì l’intero movimento e aprì una nuova stagione nella storia del Paese. Dopo un primo momento di sorpresa e paura, l’estrema sinistra cominciò ad armarsi. Mentre per alcuni (i Gruppi di azione partigiana – Gap – di Giangiacomo Feltrinelli, ad esempio) si trattava inizialmente di non farsi trovare impreparati di fronte ottobre 1969 e ritrovato in casa di Rossi durante una perquisizione; cfr. P. Piano, La «banda 22 ottobre». Agli albori della lotta armata in Italia, DeriveApprodi, Roma 2008. 11 La 22 Ottobre fu liquidata in seguito agli arresti per una rapina all’Istituto autonomo case popolari di Genova (era il 26 marzo 1971), nel corso della quale fu colpito a morte il fattorino Alessandro Floris, che era appena stato in banca a prelevare gli stipendi e, armato, a sua volta aveva reagito. Il processo si svolse dall’ottobre 1972 al marzo 1973, si concluse con pesanti condanne per Rossi e gli altri e la pubblica accusa fu sostenuta dal sostituto procuratore della Repubblica Mario Sossi. Si veda anche il primo libro di P. Piano, «22 ottobre: un progetto di lotta armata (1969-1971), Annexia, Genova 2005.
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al rischio, ritenuto incombente, di un golpe di estrema destra (l’Italia di quegli anni era circondata su entrambi i versanti da regimi dittatoriali, il Portogallo di Salazar e la Spagna franchista da una parte, la Grecia dei colonnelli dall’altra), altri come Lotta continua, Potere operaio e Brigate rosse, ritenevano che il proletariato dovesse abbandonare le posizioni attendiste e agire direttamente contro il capitale e la reazione. Come ha mostrato nel suo saggio Gabriele Donato, l’idea della lotta armata circolava già in gruppi come Lotta continua, Potere operaio e Avanguardia operaia, ma fu solo dopo il 12 dicembre che cominciò a concretizzarsi, sebbene in forma ancora del tutto estemporanea12. Nella primavera del 1970 si svolse il primo comizio volante del brigatismo italiano nello storico quartiere Lorenteggio di Milano, organizzato da Curcio e Morlacchi ma, ovviamente, nessuno se ne accorse. La riflessione all’interno del Cpm dopo la strage di Milano aveva prodotto importanti cambiamenti e la sintesi delle nuove istanze di lotta fu trovata in occasione del convegno svoltosi alla fine di dicembre a Chiavari, in provincia di Genova, presso un pensionato di nome Stella Maris, dove si decise di mutare la denominazione del Cpm in Sinistra proletaria, dal nome del ciclostilato del collettivo, usato peraltro anche nel Reggiano. Il documento finale (il cosiddetto libretto giallo, intitolato Lotta sociale e organizzazione nella metropoli) auspicava la creazione di nuclei armati in grado di intervenire nella lotta sociale metropolitana in vista di un «processo rivoluzionario» di lunga durata per un’alternativa politico-militare al potere. La lotta armata era vista come la via principale della lotta di classe, che doveva partire dalle metropoli dove esistevano le condizioni per il passaggio al comunismo. Se la città costituiva il cuore del sistema, ne era anche il suo punto debole e rappresentava il luogo nel quale le contraddizioni e il «caos organizzato» della società tardo-capitalista apparivano più evidenti: «La città è oggi il cuore del sistema, il centro organizzatore dello sfruttamento economico-politico, la vetrina in cui viene esposto “il punto più alto”, il modello che dovrebbe motivare l’integrazione proletaria. Ma è anche il punto più debole del sistema: dove le contraddizioni appaiono più acute, dove il caos organizzato che caratterizza la società tardocapitalista appare più evidente, dove le spaccature politiche fendono verticalmente l’intero tessuto sociale. È su questo terreno che il proletariato moderno emerge più impetuosamente, dove acquista coscienza della sua unità. È qui, nel suo cuore, che il sistema va colpito. La città deve diventare per l’avversario, per gli uomini che esercitano oggi un potere sempre più ostile ed estraneo all’interesse delle masse, un terreno infido: ogni loro gesto può essere controllato, ogni arbitrio denunciato, ogni collusione tra potere economico e potere politico messa allo scoperto»13.
La strage di piazza Fontana portò all’immediata firma dell’accordo tra sindacati e im12 Gabriele Donato, «La Lotta è armata». Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia (1969-1972), DeriveApprodi, Roma 2014. 13 Lotta sociale e organizzazione nella metropoli; in www.autoprol.org.
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prenditori per il rinnovo del contratto. La ristrutturazione nelle grandi fabbriche del nord ne ebbe giovamento e la Pirelli fu la prima a mostrarlo. Vennero chiusi alcuni reparti, licenziati elementi fortemente sindacalizzati e modificata la produzione, e mentre gli operai risposero occupando la Bicocca, il materiale giunse dalla Spagna, annullando gli effetti della protesta, ma convincendo nello stesso tempo le maestranze che le normali opzioni di lotta, anche estreme come il blocco delle merci, non erano più sufficienti a modificare i rapporti di forza. La nascente Brigata rossa milanese cercò di trovare uno spazio politico in questo contesto. Il primo periodo di caotica attività fu caratterizzato da una serie di piccole azioni locali, come incendi dolosi di auto di dirigenti di fabbrica rivendicati attraverso volantini14. Emblematico in questo senso è il volantino pubblicato nell’ottobre 1970 sul secondo e ultimo numero di «Sinistra proletaria» dal titolo evocativo L’autunno rosso è già cominciato, dove si dava conto delle azioni. Si trattava di una delle prime volte in cui nella storia della lotta di classe in Italia si rivendicava a nome di un’organizzazione la volontà di azioni ostili contro il padronato e ciò rappresentò un elemento peculiare del brigatismo, una soluzione di continuità rispetto al passato. In tal modo si dava possibilità alle maestranze di fare riferimento a un’organizzazione che agiva all’interno della fabbrica, dove si sarebbe sviluppata la lotta armata. L’informazione italiana ha sempre definito deliranti i Comunicati e le rivendicazioni delle Brigate rosse15. In realtà, una delle caratteristiche principali dei documenti politici delle Br consisteva nella loro chiarezza al punto da renderli, in moltissimi casi, anticipazioni delle loro azioni. Le Br, in altre parole, scrissero sempre quello che avrebbero compiuto, tanto che molti nomi di dirigenti d’azienda, di politici o funzionari statali oggetto poi di attentati comparvero prima nei loro documenti in modo esplicito o in riferimento alla funzione svolta. Una lettura attenta dei fogli politici dei brigatisti, che fu eseguita in particolare dai nuclei antiterrorismo, permette di inquadrare la loro storia all’interno di quella più generale del conflitto di classe. L’azione armata, infatti, rappresentava «il momento di massima concentrazione della politica, quello cui si arriva dopo un lungo lavoro nelle istanze di movimento e da cui si riparte per un passo successivo», in quanto le Br «volevano essere un nucleo, un sostegno per un’aggregazione che sarebbe stata più grande di loro e avrebbe trovato forme sue» 16. Si tratta della propaganda armata, uno dei punti strategici del brigatismo. Secondo Moretti, più della riflessione su carta furono le azioni a definire il percorso delle Br, in quanto la pratica rivoluzionaria trovò un riscontro oggettivo nelle conseguenze di un’azione più che di un foglio 14 ASSR, Fondo Commissione Stragi, Moro_XI_XIII_9.7a.3.7.3.2.pdf, 9.7a.3.7.3.3.pdf e 9.7a.3.7.3.4.pdf. 15 Uno degli esempi più recenti è costituito dalla presentazione di un evento del 16 marzo 2016 al Liceo Scientifico G. Da Procida di Salerno e presente in rete. Si intitola Terrorismo, sulle tracce di una memoria sommersa – Il passato ai confini del presente. Proprio a commento del passo di apertura del volantino del 1970 si legge: «Sono le frasi farneticanti contenute nel volantino che nella primavera del 1970 compare a Milano […]». 16 M. Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 45.
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teorico. Ciò è vero nella misura in cui, nelle Br, teoria e pratica furono strettamente legate per i motivi già ricordati: un volantino spiegava le ragioni di un attentato e indicava i successivi obiettivi. È possibile dividere tutta la documentazione delle Br in «Risoluzioni strategiche», «comunicati» e «rivendicazioni». Le prime costituiscono l’evoluzione del programma politico, della strategia e della tattica. Le ultime servivano a spiegare il significato politico di un attentato, mentre i Comunicati venivano usati durante azioni prolungate nel tempo, come un sequestro, generalmente per comunicare con i simpatizzanti, spiegare l’evoluzione della vicenda e della sua gestione, informare sulle reazioni della controparte, avanzare eventuali richieste. Durante i processi, infine, i brigatisti che non accettarono di rispondere alle domande dei giudici usarono i Comunicati per esporre l’evoluzione della propria posizione17. Il primo periodo del brigatismo si concluse molto velocemente. Dopo la scoperta della base di via Boiardo a Milano (2 maggio 1972), gli innumerevoli arresti e lo smantellamento quasi totale dell’organizzazione, praticamente tutti i militanti rimasti liberi entrarono in clandestinità. Nella notte del 14 marzo precedente a Segrate era morto l’editore Giangiacomo Feltrinelli, nome di battaglia Osvaldo, mentre stava preparando un ordigno esplosivo che doveva far saltare un traliccio dell’alta tensione. La tragica scomparsa aveva messo fine alla breve storia dei Gap, fondati due anni prima, quasi a segnare la chiusura della prima fase embrionale della lotta armata. 2.2 La rifondazione del brigatismo «Mi ritrovo isolato dagli altri compagni, finiti in galera o fuggiti, senza una base in cui rifugiarmi, senza altro che gli abiti che ho addosso, senza sapere dove passare la notte». È Mario Moretti che racconta di un destino comune ai brigatisti che evitarono di essere arrestati il 22 maggio 197218. Dopo alcune notti trascorse a casa di un suo collega della Sit-Siemens che non faceva parte delle Br, Moretti raggiunse Morlacchi, Curcio, Cagol e Franceschini in una cascina del Lodigiano, su indicazione di Pietro Bertolazzi. I brigatisti rimasti in libertà affrontarono per la prima volta in modo nuovo il problema dell’organizzazione in ogni suo ambito, dalla compartimentazione al lavoro logistico: nelle Br erano già transitate decine di persone, ma quel tipo di struttura aperta col tempo si era dimostrata inadeguata. Lo Stato aveva risposto alle azioni di propaganda armata mostrando la sua capacità investigativa e se le Brigate rosse vole17 Al dicembre 1982 le «Risoluzioni strategiche» erano state 18, più 12 documenti politici minori assimilabili alle prime. Molteplici, invece, i Comunicati e le rivendicazioni. Del periodo di lotta alla fabbrica Pirelli sono rimasti 7 Comunicati che rappresentano i primi documenti originali delle Br, firmati «Brigata Rossa». Si veda ASSR, Fondo Commissione Stragi, Moro_XI_XIII_9.7a.3.7.1.pdf. 18 Avanguardia operaia definì le Br dopo gli arresti del 1972: «piccoli gruppi che pretendono di sostituirsi
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vano continuare a esistere dovevano trovare la quadratura del cerchio dal punto di vista organizzativo. I brigatisti, in altre parole, dovevano diventare rivoluzionari di professione. Fu allora che nacque l’«Organizzazione» poi da tutti conosciuta, divisa in Colonne e in Brigate compartimentate in modo da non compromettere, nel caso di arresto, l’intero gruppo. Ogni militante clandestino (o «regolare», come si sarebbe chiamato) cominciò a percepire un salario corrispondente a quello di un metalmeccanico; sarebbe venuto a conoscenza dell’indirizzo di un solo appartamento-base, oltre quello da lui occupato, mentre le armi cominciarono a essere acquistate all’estero, Svizzera o Lichtenstein, in armerie italiane con documenti falsi, o rubate. In tal modo si evitò il traffico clandestino, gestito dalla malavita o, secondo i sospetti dei brigatisti, dai servizi di intelligence. La clandestinità divenne la condizione indispensabile alla sopravvivenza dell’organizzazione; anzi, secondo le stesse Br, favoriva l’azione dei militanti all’interno dell’autonomia operaia, del mondo operaio in autogestione, potendo assumere forme politiche legali a seconda della bisogna: «operare a partire dalla clandestinità – concludeva un documento dei brigatisti – consente un vantaggio tattico decisivo sul nemico di classe che vive invece esposto nei suoi uomini e nelle installazioni»19. Per sei mesi le Br non compirono alcuna azione contro obiettivi politici, portando a termine soltanto una serie di rapine per l’autofinanziamento (chiamate «espropri»). Può sembrare strano che poche persone, peraltro clandestine, riuscissero a rivitalizzare un’organizzazione decimata dagli arresti, ma furono favorite dal contesto sociale. Il 17 maggio del 1972, per esempio, era stato ucciso, a Milano a pochi passi dalla propria abitazione, il commissario di polizia Luigi Calabresi che aveva svolto un ruolo di primo piano nelle indagini sulla strage di piazza Fontana, e in particolare sul fermo del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, trattenuto oltre ogni termine di legge nei locali della questura. Pinelli precipitò in circostanze mai definitivamente chiarite da una finestra dell’ufficio in cui era interrogato. Quello che fu il primo omicidio politico di sinistra realizzato negli anni Settanta, e che venne ritenuto dalle Br una rappresaglia di tipo «giustizialista» strategicamente inadeguata, mostrò quanto fosse radicata in una determinata area politica la tendenza verso l’uso della violenza e la lotta armata20. alle masse, e in particolare alla classe operaia, nell’adottare forme violente di lotta» ma che sono destinati a restare «inevitabilmente in balia di provocatori e spie»; «Avanguardia Operaia», n. 8 (1972), in Soccorso Rosso (a cura di), Brigate rosse: che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto, Feltrinelli, Milano 1976, p. 118. 19 Ivi, p. 125. Con l’espressione «autonomia operaia» (o «proletaria», come si legge in alcuni documenti delle Br) deve intendersi un concetto politico che descrive i comportamenti della classe operaia quando si mostra capace di agire indipendentemente, o in contrasto, dalle indicazioni dei sindacati tradizionali e dei partiti politici. Non coincide, perciò, con l’Autonomia operaia intesa come area politica organizzata che ebbe tra i suoi teorici e dirigenti Toni Negri. Nel libro la differenza è marcata con l’uso di minuscola/maiuscola. 20 Dopo una lunga e tortuosa vicenda processuale iniziata nel 1988 con la confessione di Leonardo Mari-
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Se molti erano stati gli arresti (si deve sottolineare, comunque, che la legge italiana vigente costrinse gli inquirenti a rilasciare diversi militanti nel giro di pochi mesi), tutta l’ampia schiera dei simpatizzanti nelle fabbriche non era stata intaccata. Inoltre, le Br non nascevano da una forzatura teoretica, bensì come naturale espressione, sebbene minoritaria, dell’offensiva operaia che in quegli anni non aveva ancora raggiunto l’apice, se si pensa che l’esperienza dei «fazzoletti rossi» alla Fiat era ancora da venire. Su quelle basi non fu difficile rivitalizzare la colonna a Milano, dove esisteva un’area di consenso. Allo stesso tempo non fu arduo trovare terreno fertile anche a Torino, dove prima del 2 maggio le Br erano state più volte cercate da un gruppo di operai di Mirafiori. Mentre Curcio, Cagol e Ferrari si incaricarono di mettere in piedi una colonna a Torino, Franceschini, Moretti e Morlacchi riorganizzarono quella di Milano partendo dai quartieri di Lambrate, Quarto Oggiaro, Giambellino e dalle principali fabbriche: nuovamente la Pirelli, la Siemens, quindi l’Alfa Romeo, dove c’era una fortissima Assemblea autonoma nata quando i Cub e i Gds stavano tramontando, e che rimase rilevante per tutti gli anni Settanta. Qui non venne formata una vera Brigata ma tre operai dell’Alfa di Quarto Oggiaro e un ampio numero di simpatizzanti lavorarono a stretto contatto con le Br. A Torino i contatti principali furono presi a Mirafiori e in quei mesi un dirigente sindacale, detto il «Gatto», si rilevò molto importante sia per le sue qualità politiche e organizzative, sia per il suo ascendente verso alcuni colleghi, che entrarono nelle Br, seguendolo21. Partendo dalla Fiat, le Br cercarono di crescere all’interno delle altre fabbriche maggiori e si diffusero alla Pininfarina, alla Singer e alla Lancia; le loro azioni più importanti, però, si inserirono all’interno della lotta alla Fiat. 2.3 Le prime azioni alla Fiat La vertenza che avrebbe condotto gli operai della Fiat a occupare Mirafiori e dare vita al movimento dei «fazzoletti rossi» cominciò nel settembre 1972, quando nel corso di uno sciopero generale dinanzi alla fabbrica si registrarono gravi scontri tra dimostranti e forze di polizia. Nelle settimane seguenti ci furono altri episodi di violenza nel tentativo di forzare i picchetti da parte di elementi esterni alla fabbrica (presumibilmente per ordine dell’azienda), fino a quando, dopo un tentativo operato il 22 novembre da un manipolo di missini di entrare a Rivalta, la sinistra extraparlamentare non organizzò una grande manifestazione. Essa si svolse a Torino il 25 novembre ma no, la magistratura ha ritenuto che l’omicidio Calabresi fu deciso dai vertici di Lotta continua, organizzato da Giorgio Pietrostefani con l’avallo di Adriano Sofri (che ha sempre negato), dirigenti all’epoca del gruppo, e realizzato materialmente da Ovidio Bompressi e Leonardo Marino. Sulla morte di Giuseppe Pinelli, il sostituto procuratore Gerardo D’Ambrosio archiviò la vicenda adottando la tesi della morte accidentale provocata da un «malore attivo». 21 Il «Gatto» sarebbe poi uscito dall’organizzazione per motivi personali. Conversazione degli autori con Mario Moretti il 18 marzo 2008.
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fu repressa violentemente da polizia e carabinieri, che alla fine lasciarono sull’asfalto 30 feriti mentre 11 persone furono arrestate. Fu in quel contesto che nelle Br entrarono uomini che sarebbero diventati importanti in seguito, come gli operai Fiat Cristoforo Piancone, Luca Nicolotti e Angelo Basone, dirigente della sezione Fiat del Pci, oltre a Rocco Micaletto, che lavorava nell’indotto; essi contribuirono alla nascita della colonna piemontese, permettendo alle Br di riprendere l’iniziativa. Il 26 novembre vennero incendiate 9 automobili di missini implicati nella repressione e l’azione fu rivendicata con un volantino: «Dove vogliono arrivare i nostri padroni? È semplice: ad una nuova dittatura. Per far questa però debbono strangolare la lotta di massa dentro la fabbrica, dividere la classe operaia, impedire i cortei interni e i picchetti, in poche parole, infliggere una sconfitta politica agli operai metalmeccanici […]. A questo progetto noi dobbiamo reagire, dobbiamo cioè darci una organizzazione che ci consenta di passare all’azione nella fabbrica e nel quartiere. Ora tutti sanno che in mezzo a noi nelle officine, nei reparti, alle linee lavora sotterraneo da molti mesi un esercito di carogne che con i suoi miserabili servizi rende possibile alla Fiat identificare e colpire chi propaganda lo sciopero, chi tira le lotte, chi è in testa dei cortei, chi fa picchetti».
Venivano indicati come possibili obiettivi gli uomini della Cisnal, della Federacli, di Iniziativa Sindacale, del Sida e della Uilmd, che dovevano essere «duramente colpiti, battuti, dispersi»22. I brigatisti cominciarono a schedare gli elementi della destra estrema che lavoravano in Fiat, seguendoli e annotando abitudini e comportamenti, redigendo dettagliati rapporti che comprendevano il curriculum politico e la funzione svolta in Fiat. L’azione contro i nove missini provocò un’inversione di comportamento negli operai, che dopo alcuni giorni organizzarono un corteo interno che si concluse con minacce nei confronti dei capireparto. Le violenze successive (il 6 dicembre furono assaliti due capi dell’officina 71 della Mirafiori e il 13 picchiati due «crumiri»), però, provocarono 5 nuovi licenziamenti e 800 denunce contro altrettanti lavoratori, accusati, tra l’altro, di sequestro di persona. La federazione dei metalmeccanici (Flm23) e la Fiat firmarono un verbale di intesa con il quale, accanto al reintegro dei licenziati, si prendevano le distanze dagli estremismi e si invitavano gli operai a isolare ogni incitamento. «L’Unità» e «il manifesto» salutarono l’accordo come una vittoria, mentre le Br, denunciandone il carattere opportunistico, il 17 dicembre distrussero altre sei auto di tre membri del Sida, di 2 «guardioni» e di un missino. Il volantino di rivendicazione osservava che «capi – fascisti – Sida – guardioni sono un fucile puntato contro la classe operaia – spazziamoli da Mirafiori e Ri22 Soccorso Rosso, Brigate rosse, cit., p. 129; V. Tessandori, Brigate rosse. Imputazione: banda armata. Cronaca e documenti delle Brigate rosse, Milano 2000, pp. 97-98; «Controinformazione», n. 0, cit., pp. 53-54. 23 L’Flm era la sigla del sindacato unitario metalmeccanici, che unificava in quel momento la Cgil, la Cisl e la Uil di categoria.
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valta – inseguiamoli nei loro quartieri. Facciamogli sentire tutto il gusto del nostro potere». Dopo aver ricordato un episodio legato alla repressione fascista del 1922 che era costato la vita a molti operai24, le Br chiedevano se fosse ancora possibile continuare a lottare senza un’organizzazione: «Compagni, se vogliamo usare ancora la forza di massa dei cortei, dei picchetti e degli scioperi, per impedire la restaurazione dei vecchi livelli di sfruttamento […] i nemici dell’unità operaia dobbiamo ridurli al silenzio, dobbiamo colpirli duramente, con metodo, nelle persone e nelle cose, dobbiamo cacciarli dalle fabbriche e inseguirli nei quartieri, non dobbiamo concedergli un minimo di tregua».
Il simbolo delle Br, la stella a cinque punte, divenne progressivamente l’icona della ribellione e della vendetta. In alcune fabbriche la si disegnava nei bagni e sull’apice di ogni punta si scriveva il nome di uno dei capireparto con cui si voleva regolare il conto, con grave preoccupazione dei sindacalisti di Cgil, Cisl e Uil. Il clima, in breve tempo, divenne molto pesante e accanto alla dirigenza Fiat anche la sinistra parlamentare cominciò a prendere provvedimenti nei confronti degli «estremisti». Secondo il giornalista Giorgio Bocca i responsabili del Pci riscoprirono le loro tradizioni poliziesche, cominciando a schedare gli elementi più esagitati, a denunciare alla polizia i sospetti terroristi o proponendo dei questionari in cui le maestranze venivano incitate a denunciare i simpatizzanti delle Br25. Fu allora, in effetti, che il Partito comunista cominciò una stretta collaborazione con le forze dell’ordine. Dalla Federazione di Torino, che aveva preparato le schede di cui parla Bocca, giungevano a Roma relazioni allarmate su quanto stava accadendo in fabbrica, ma inizialmente fu molto difficile inserirsi attraverso quella che lo storico inglese Edward Thompson aveva chiamato «l’opacità operaia», in quanto la solidarietà all’interno della fabbrica era molto alta. L’opacità operaia è stata per decenni oggetto di approfonditi studi sociologici. L’attenzione degli studiosi si è rivolta alla comprensione dei meccanismi che portano i ceti subalterni a frapporre una sorta di schermo protettivo, dietro al quale riescono a dare vita e riprodurre una cultura resistente, oppositiva, solidale e autonoma, il più delle volte ritenuta illegittima e pericolosa dai ceti dominanti che esercitano il monopolio della legalità. L’opacità è dunque la condizione essenziale per tutelare la libertà e sottrarsi ai valori legittimi espressi e imposti dai ceti dominanti. In Italia in quegli anni l’opacità operaia entrò nel mirino delle inchieste giudiziarie condotte dalla magistratura contro la lotta armata sorta nelle fabbriche. Soprattutto divenne un «problema politico» per le forze 24 Si tratta della Strage di Torino. Tra il 18 e il 20 dicembre 1922 le squadre d’azione torinesi guidate dall’ex ufficiale dei bersaglieri Piero Brandimarte, diedero l’assalto alla Camera del Lavoro incendiando il Circolo dei Ferrovieri, quello intitolato a Karl Marx e devastando la sede de «l’Ordine Nuovo». Gli attacchi provocarono 11 morti e più di 30 feriti. 25 Giorgio Bocca, Noi terroristi: 12 anni di lotta armata, Garzanti, Milano 1985, p. 150.
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sindacali e il Partito comunista che concentrarono contro di essa ogni tipo di sforzo. Sgretolare l’opacità operaia, fidelizzando la classe lavoratrice alla cultura della legalità istituzionale, fu l’obiettivo portato avanti non solo con mezzi ideologici ma anche ricorrendo alla delazione organizzata e all’infiltrazione26. Ricorda Giuliano Ferrara, allora dirigente della Federazione torinese del Pci: «Ero nell’organizzazione di fabbrica del Pci di Torino. Ero responsabile della Fiat Mirafiori che era la più grossa organizzazione operaia in Italia del Pci e che portammo a oltre duemila iscritti. Era molto interna al mondo operaio. Aveva un’influenza decisiva sugli orientamenti dell’apparato nazionale dei metalmeccanici che a sua volta era la punta di lancia e comunque uno dei settori fondamentali della vita del sindacalismo italiano. A metà degli anni ’70 ero lì e osservavo bene quello che succedeva dentro la fabbrica. Conoscevo l’apparato sindacale e seguivo con occhio reattivo anche perché venivo da Roma, da un ambiente borghese e perché il mio metro di giudizio non era quello della tradizione operaia. Ero un militante e dirigente ma anche un intellettuale, un giovane che si era formato attraverso l’osservazione di ciò che vedeva, ma non ero certamente l’espressione di quella tradizione»27.
Tutto ciò gli permise di comprendere presto quanto stesse avvenendo nelle fabbriche, ossia quanto la lotta armata vi fosse radicata, sebbene, come riconosce lo stesso Ferrara, all’inizio ci fu una sottovalutazione: «Da una parte non si voleva credere e così si nascondeva il problema dentro il concetto di opacità operaia, dall’altro non si era in grado di riconoscerlo liquidando come provocatoria qualunque forma di estrinsecazione della autonomia operaia al di fuori del partito e del sindacato. Gli operai estremisti erano così dei provocatori – c’era un difetto intellettuale nel vedere il fenomeno – e si bollavano come fascisti rossi».
Però, prosegue, «Non c’è stato mai alcun tipo di indulgenza da parte del Pci. Parlo dell’apparato del Pci che nel ’72 aveva eletto Enrico Berlinguer segretario del partito […]. Quando il terrorismo si è strutturato e organizzato in Brigate rosse con i volantini di rivendicazione, i rapimenti, gli omicidi, le gambizzazioni, gli incendi nelle fabbriche, quando si è passati a questo livello, il cuore del vecchio Pci è diventato un organismo di combattimento, antiterroristico e schierato dalla parte dello Stato»28. 26 Edward Palmer Thompson, The making of the working class, 1963, in it. Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano 1969. Da questo genere di ricerche hanno preso avvio i Subaltern Studies, che si occupano delle culture oppresse, cancellate, perseguitate. 27 Intervista a Giuliano Ferrara in 30 anni di Br, a cura di Annalisa Spiezie, Roma 2001, pp. 49-57. 28 Ibid.
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2.4 L’organizzazione L’organizzazione delle Brigate rosse non nacque prima teoricamente e poi nella pratica, ma nella prassi quotidiana, in un lavoro contemporaneamente pratico e teorico e ciò costituì un fenomeno originale nel panorama europeo. Tra il 1972 e il 1973 non esisteva una vera struttura di direzione centralizzata, ma un coordinamento tra le colonne di Milano e di Torino, chiamato «il Nazionale», composto da Curcio, Cagol, Franceschini, Moretti e Morlacchi, che in realtà molto «nazionale» non era, non fosse altro perché vi si incontravano solo i rappresentanti di due colonne in gestazione. Per una struttura più complessa si sarebbe dovuto attendere il 1974, quando fu decisa la creazione dei «Fronti»: quello delle fabbriche, il logistico e della controrivoluzione. Anche in questo caso, però, la teoria venne dopo la prassi, formalizzando quello che la pratica aveva già creato. I Fronti, in altre parole, non nacquero in quanto teorizzazione rivoluzionaria, ma scaturirono dal bisogno di risolvere problemi precisi attraverso organismi che fossero contemporaneamente strutture organizzate e settori di intervento. Se ne parlò per la prima volta durante una riunione del Nazionale svoltasi a Montecatini nell’autunno del 1973, quando si pose il problema di come sistematizzare la grande quantità di informazioni raccolte. Fu formato un gruppo coordinato da Franceschini e Cagol, che sarebbe diventato il «Fronte della controrivoluzione» appena a ridosso del sequestro di Mario Sossi. Sempre nella riunione di Montecatini fu deciso di formare un coordinamento per le Brigate di fabbrica in grado di definire la linea politica da adottare nelle varie realtà con l’apporto di una quindicina di dirigenti di Brigata, che sarebbe poi diventato il «Fronte delle fabbriche». Anche la formazione del Fronte logistico derivò dall’esigenza, sentita dopo l’azione contro Mario Sossi a Genova, di approntare nuove basi, laboratori per la falsificazione di documenti e targhe, tipografie o reperire armi per un’organizzazione in crescita sia dal punto di vista numerico che degli obiettivi politico-militari. L’11 gennaio 1973 fu portata a termine la prima azione dell’anno: nove brigatisti occuparono la sede provinciale della Cisnal di Torino devastandola e malmenando i presenti; nel volantino diffuso subito dopo si affermava che l’iniziativa si inseriva nel contesto dell’attività di antifascismo e protesta contro il congresso del Movimento sociale italiano, che si doveva tenere a Roma a metà gennaio. Pochi giorni dopo, il 15 gennaio le Br penetrarono a Milano nei locali dell’Unione cristiana imprenditori di azienda (Ucid) in via Bigli, dove erano presenti il segretario Giulio Barana e Claudio Massazza. Questi furono rinchiusi in bagno, quindi vennero requisiti l’archivio degli iscritti e le loro schede riservate, un taccuino con indirizzi e una lettera intestata a Luigi Gedda, fondatore dell’Unione. Nel volantino rivendicativo si spiegava che l’Unione serviva da organo di coordinamento tra i funzionari di fabbrica democristiani dell’Alfa, della Sit-Siemens e di altre fabbriche. Si accusava il governo Andre57
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otti29 di essere il responsabile della reazione contro la classe operaia, dell’aumento dei prezzi e della disoccupazione e degli attacchi contro i picchetti da parte della polizia e dei fascisti: «Con questa azione – si diceva ancora – vogliamo dimostrare come la Dc non sia soltanto lo strumento che per 30 anni ha sorretto fedelmente il potere dei padroni ma sia essa stessa una mostruosa macchina di oppressione e di sfruttamento. Infatti oltre ai fascisti assassini di Almirante operano, ugualmente pericolosi, i fascisti in camicia bianca di Andreotti: coloro che in fabbrica ci controllano, ci schedano, ci licenziano, che fuori parlano di libertà e di democrazia, ma che in realtà organizzano la più spietata repressione antioperaia. Contro tutti questi nemici i proletari hanno cominciato a organizzarsi per resistere, riaffermando che risponderanno al sopruso con la giustizia proletaria, alla violenza del padroni con la lotta rivoluzionaria degli sfruttati»30.
La tensione sociale in quel mese salì progressivamente: il 22 gennaio lo stabilimento Lancia di Chivasso fu occupato dagli operai ma la polizia caricò i picchetti provocando il ferimento di tre scioperanti. Il giorno seguente a Milano la polizia attaccò un gruppo di studenti davanti alla Bocconi provocando il ferimento mortale di Roberto Franceschi. La cervellotica versione ufficiale, avallata dal ministro degli interni Mariano Rumor, parlava di reazione da parte di un agente perché colto da raptus o da paura in quanto una bottiglia incendiaria caduta sul telone della sua jeep lo aveva incendiato, propagando il fuoco fino al suo berretto. Una manifestazione di protesta si svolse il 27 gennaio a Torino e fu dispersa dalla polizia, mentre la magistratura spiccò 25 mandati di cattura. Infine, il 2 febbraio, come rappresaglia a uno sciopero indetto per la rottura delle trattative sul rinnovo del contratto tra la Fiat e i sindacati, l’azienda torinese sospese 5000 operai e dopo un corteo interno altri vennero licenziati. In questo clima drammatico, il 12 febbraio le Br sequestrarono a Torino il sindacalista della Cisnal Bruno Labate. Si trattò del loro primo, breve rapimento e indicò la scelta dell’organizzazione di operare un salto di qualità nelle forme di lotta secondo lo slogan «mordi e fuggi», che per qualche tempo divenne la sintesi del suo modo di agire. Dopo averlo trattenuto nel corso della notte, Labate venne rasato e rilasciato incatenato e seminudo di fronte all’ingresso di Mirafiori il mattino successivo31. Ciò, secondo Curcio, accadde di fronte a decine di operai, che non lo soccorsero32. Nel volantino di rivendicazione le Br scrissero che Labate era membro di uno pseudosindacato 29 Si tratta del secondo governo Andreotti costituito nel giugno 1972 dopo le elezioni politiche e formato da Dc, Pli e Psdi. Sarebbe rimasto in carica fino al giugno del 1973. 30 Soccorso Rosso, Brigate rosse, cit., pp. 151-152. 31 Il ricorso a questo tipo di gogna era tradizione nella sinistra rivoluzionaria italiana, dalla Volante rossa nel secondo dopoguerra ai Gap di Feltrinelli. 32 Renato Curcio, A viso aperto. Vita e memorie del fondatore delle Br, Mondadori, Milano 1993, p. 80.
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(la Cisnal, appunto) mantenuto nelle fabbriche per dividere la classe operaia, organizzare il crumiraggio, svolgere aggressioni e provocazioni. Il sequestro, dunque, si inserì nel contesto della lotta contro l’infiltrazione di personale assunto con accordi tra Fiat e Cisnal. Le Br presero atto della condanna delle forze politiche contro la violenza, ma riaffermarono la legittimità delle loro azioni: «Lo abbiamo rimesso in libertà rapato e senza braghe per dimostrare a un tempo l’assoluto ribrezzo che incutono i fascisti e la necessità di colpirli ovunque, duramente con ogni mezzo fino alla completa liberazione delle nostre città. Guerra al fascismo di Almirante e Andreotti! Lotta armata per il comunismo»33.
Sebbene l’azione fosse stata breve e si fosse conclusa nel giro di poche ore, fu importante perché significò che la Colonna di Torino era ormai in grado di compiere atti di una certa importanza in un contesto se non di complicità all’interno della Fiat, quanto meno di tolleranza degli operai per gli atti di violenza. Nei giorni successivi la Colonna torinese diffuse a Mirafiori un opuscolo intitolato Guerra ai fascisti nelle fabbriche torinesi, in cui fu riportata parte dell’interrogatorio a cui i brigatisti avevano sottoposto Labate. Secondo quanto leggiamo, il sindacalista aveva ammesso che una serie di accordi con la dirigenza Fiat erano passati attraverso il Msi tramite il deputato Tullio Abelli, che aveva trasmesso all’ufficio del personale le domande di assunzione di elementi politicamente fedeli. Oltre a quelli di picchiatori, autori in passato di pestaggi in Fiat, Labate aveva fatto anche il nome di un dirigente che sarebbe presto divenuto un nuovo bersaglio, il direttore del personale FiatAuto Ettore Amerio, ritenuto uno dei maggiori responsabili della politica anticomunista dell’azienda torinese. Nel complesso, dalle parole del sindacalista si aveva la sensazione che alla Fiat lavorasse un nucleo ben coordinato di persone che operava allo scopo di individuare e quindi licenziare gli operai più politicizzati34. Poco più di due settimane dopo il sequestro di Labate, il 28 febbraio, si aprì alla Fiat un intenso periodo di lotta per il rinnovo del contratto che sarebbe durato fino alla firma del 2 aprile35. Nel corso dell’occupazione di Mirafiori nacque il movimento cosiddetto dei «fazzoletti rossi», dalle caratteristiche spontanee ma il cui livello di autonomia organizzativa e di consapevolezza di classe sorprese tutte le organizzazioni politiche rivoluzionarie che intervenivano nelle fabbriche. Molti attivisti sindacali o del movimento transitarono all’interno delle Br, ma il numero complessivo dei militanti alla fine non crebbe di molto: la Colonna torinese nuotava nella protesta e quella che cresceva era la sua influenza all’interno della fabbrica. Fu in quel contesto del 33 Soccorso Rosso, Brigate rosse, cit., pp. 134 e segg. 34 Ibid.; anche in V. Tessandori, Brigate rosse. cit., pp. 104-109 e «Controinformazione» n. 0, cit., p. 63. 35 Per la vicenda si veda I giorni della Fiat. Fatti e immagini di una lotta operaia, a cura della sede torinese di Lotta continua, Torino 1973.
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tutto nuovo che le Colonne milanese e torinese si riunirono per la prima volta nel ricordato Nazionale di Montecatini, dove furono presenti molti operai che avevano cercato l’organizzazione al fine di discutere insieme una strategia36. Nel corso della lotta dei «fazzoletti rossi» venne diffusa una nuova riflessione teorica dell’organizzazione, redatta in gennaio sotto forma di autointervista37. In essa la situazione politica italiana era definita preoccupante e si prevedeva una decisa stagione di involuzione democratica che sarebbe potuta concludersi con una riedizione della dittatura fascista. All’accusa di essere dei terroristi si rispondeva che «il terrorismo nel nostro paese ed in questa fase dello scontro è una componente della politica condotta dal fronte padronale a partire dalla strage di piazza Fontana per determinare un arresto generale del movimento operaio [...]. Il nostro impegno nelle fabbriche e nei quartieri è stato fin dall’inizio quello di organizzare l’autonomia proletaria per la resistenza alla controrivoluzione in atto e alla liquidazione delle spinte rivoluzionarie».
Tutto questo, si diceva, non aveva nulla a che vedere con il terrorismo. Parlando di organizzare in armi l’autonomia proletaria, le Br dissero che l’azione armata era vista come il momento culminante del lavoro politico all’interno dell’avanguardia proletaria e si erano convinte che «per andare avanti sulla strada della lotta armata è ormai necessario svolgere un lavoro di unificazione politica di tutte le avanguardie politico-militari che si muovono nella stessa prospettiva».
Per la prima volta si parlava esplicitamente del Partito comunista italiano in toni meno accesi che nel passato: esso non doveva più essere oggetto di attacchi verbali, in quanto sarebbe stata la storia a deciderne la crisi e il passaggio dei suoi militanti rivoluzionari nel partito combattente che si andava organizzando. Nella sinistra rivoluzionaria le Br individuavano tre tendenze fondamentali: la prima era definita «liquidazionista» perché dava per scontata la sconfitta politica della classe operaia e si preparava a un lavoro di partito per gestire il riflusso nel 36 L’occupazione di Mirafiori cominciò il 29 marzo 1973. Il contratto dei metalmeccanici era alle battute finali. Gli operai bloccarono le merci, organizzarono staffette, si impossessarono dei telefoni interni. Decine di vedette a cavalcioni dei muri controllavano che nessuno tentasse di uscire. Il 30 marzo i picchetti assediarono la palazzina degli impiegati e lasciarono passare a ritirare le buste-paga solo chi scioperava. I giovani più arrabbiati avevano il volto coperto da fazzoletti rossi. Il 9 aprile si giunse all’accordo: inquadramento unico, 16.000 lire d’aumento per tutti, quarta settimana di ferie pagate, 150 ore. La fabbrica è di fatto in mano agli operai. L’assenteismo arriva a punte del 25 per cento: in alcuni giorni un operaio su quattro resta a casa. La produzione ne risente: gli impianti lavorano al 70 per cento del potenziale; da 9,16 auto per dipendente nel ’68 si passa a 8,11 nel ’73. 37 Brigate Rosse, in «Potere Operaio», 44, 11 marzo 1973 e Soccorso Rosso, Brigate rosse, cit., pp. 144-149.
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lungo periodo di crisi; la seconda era definita centrista in quanto, pur non dando per certa la sconfitta, si impegnava in una serie di battaglie non coordinate vivendo alla giornata. La terza era quella della resistenza, che non dava per scontata alcuna sconfitta e che si muoveva sul terreno della guerra di classe rivoluzionaria. All’interno di tale visione il discorso delle Br si faceva unitario e tendeva a unificare le forze, sia quelle che, a loro dire, componevano il campo della resistenza e che dal 1945 in Italia si trovavano ai margini delle linee ufficiali del movimento operaio, sia quelle che erano nate nel recente contesto di lotta. Dopo la fine a Torino dell’esperienza dei «fazzoletti rossi» con la firma del rinnovo del contratto all’inizio di aprile, le Br tornarono a concentrarsi su Milano in un clima sempre più pesante dovuto alla crisi petrolifera che stava investendo la penisola, più esposta di altri paesi alle conseguenze dell’aumento dei prezzi delle materie energetiche a causa della strutturale dipendenza dall’estero. All’inizio di maggio, seguendo la strategia indicata nei documenti, con la Brigata della Sit-Siemens le Br formarono i «Nuclei operai di resistenza armata» (Nora) che avrebbero condotto una serie di azioni contro dirigenti di azienda e sedi della polizia di Milano e provincia (il 2 maggio, il 24 luglio, il 12 dicembre 1973 e il 28 gennaio 1974), tutte rivendicate. Nelle intenzioni dei brigatisti i Nora dovevano essere articolazioni di Brigata non clandestine che dovevano sfruttare le potenzialità rivoluzionarie all’interno delle fabbriche senza l’ingresso diretto nell’organizzazione dei militanti; era, se si vuole, una risposta al «come organizzare una tendenza di massa», che però le Br non furono capaci di gestire in modo articolato. I Nora, infatti, vennero sostenuti dall’organizzazione, ma nel medio termine non si riuscì a integrarli in modo costruttivo. I membri dei Nora, quindi, o lasciarono quell’esperienza o entrarono direttamente nelle Br. Moretti ricorda il particolare in questo modo: «Alle grandi potenzialità che sentiamo attorno non sappiamo dare che una risposta formale, organizzativa. Non siamo mai stati capaci di alimentare un circuito che non restasse schiacciato fra la clandestinità e la marginalità, senza incidenza effettiva»38.
Parallelamente ai Nora, i brigatisti continuarono l’azione di propaganda armata e scelsero come obiettivo un dirigente dell’Alfa Romeo, Michele Mincuzzi, la cui scheda individuale era stata trovata nel corso dell’azione contro l’Ucid del 15 gennaio 1973. Egli fu sequestrato il 28 giugno di quell’anno a Milano e, condotto in campagna, sottoposto a un processo. Venne rilasciato con al collo un cartello con slogan simili a quelli usati contro Macchiarini39. Nel volantino di rivendicazione l’uomo fu definito un gerarca in camicia bianca, un «maestro degli aguzzini che impongono i ritmi e i 38 M. Moretti, Brigate rosse, cit., p. 55. 39 «Mincuzzi Michele dirigente fascista dell’Alfa Romeo processato dalle Brigate Rosse. Niente resterà im-
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tempi infernali ai quali siamo sottoposti in fabbrica» che «impartisce i suoi insegnamenti fascisti anche ai dirigenti di altre fabbriche» perché aveva tenuto dei seminari presso l’Ucid. Dopo una serie di minacce contro altri dirigenti dell’azienda, le Br si rivolgevano alla base operaia, esortandola a controllare i nemici e a punirli ogni qualvolta si fossero resi responsabili di iniziative antioperaie40. Dopo il rilascio di Mincuzzi si aprì un dibattito tra i gruppi politici della sinistra rivoluzionaria sull’azione specifica e più in generale sull’efficacia della lotta armata: Avanguardia operaia e Lotta continua presero le distanze dalla guerriglia. L’Assemblea autonoma dell’Alfa Romeo, attraverso il suo giornale «Senza Padroni» osservò che la maggioranza degli operai nelle fabbriche aveva apprezzato l’azione come «momento di rivalsa contro le prepotenze del sistema in generale e contro lo stesso Mincuzzi per fatti accaduti nel corso delle lotte contrattuali e durante i cortei interni»41. Anche Potere operaio difese l’operato delle Br, ma in quei giorni visse la sua ultima travagliata stagione che si concluse con lo scioglimento alla fine del 1974, dopo che al congresso di Rosolina del giugno 1973 l’organizzazione aveva manifestato ampi segnali di crisi. La fine di Potere operaio coincise con un periodo di effervescenza organizzativa, complessa, articolata, ricca di sperimentazioni e dove gruppi appena nati vissero, spesso, un’esistenza effimera per poi confluire verso altri o dividersi di nuovo per ricomporsi in nuove formazioni. Questo magma sovversivo diede vita a una eruzione di sigle simili e che sovente non ebbero seguito. Si delinearono diverse tendenze politico-culturali come quella che fece capo ai Comitati comunisti per il potere operaio e al numero unico della rivista «Linea di condotta» e che aveva tra i punti di riferimento Oreste Scalzone. In Veneto si registrarono differenti posizioni: dai militanti guidati da Toni Negri, che avrebbero rilanciato la testata «Rosso» assieme ai lombardi del Gruppo Gramsci, all’Assemblea autonoma di Porto Marghera fino ai giovani raccolti nei Collettivi politici veneti. Come la rottura di una diga, la disgregazione di Potere operaio travolgerà anche Lotta continua, che sarebbe durata fino al 1976 (il giornale proseguirà le pubblicazioni fino alla metà degli anni Ottanta) ma che nel corso del 1974 avrebbe subìto una scissione per la fuoriuscita della «corrente» di Sesto san Giovanni (circa 120 militanti). Nei primi mesi del 1975, una parte della «corrente» guidata da Enrico Baglioni e Roberto Rosso e la frazione con a capo Piero Del Giudice, insieme ai Comitati comunisti di Scalzone, avviarono il progetto di Senza tregua che più tardi, originerà tre componenti: Prima linea, le Unità comuniste combattenti e i Comitati comunisti rivoluzionari. La componente romana dei Comitati comunisti raccolta nel punito. Colpiscine uno per educarne cento. Tutto il potere al popolo armato. Per il comunismo»; Nell’occasione Moretti, autore della scritta, anziché una stella a cinque punte disegnò per errore la cosiddetta stella di David, a sei punte. 40 Soccorso Rosso, Brigate rosse, cit. pp. 156-157. 41 «Senza Padroni», maggio 1973. Le Br, a dire di Moretti, osservarono uno stretto rapporto con questo gruppo; cfr. M. Moretti, Brigate rosse, cit., p. 41.
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Comitato comunista Centocelle (Cococe), insieme alla componente torinese, avrebbe fondato le Formazioni armate comuniste per poi ulteriormente scindersi: una parte confluì nelle Unità comuniste combattenti, mentre la restante avrebbe contribuito a costruire la colonna romana delle Brigate rosse. Nel biennio 1975-76 le esperienze dei Comitati comunisti e di Senza tregua saranno tra le più prolifiche sul piano politicomilitare, con una forte presenza operaia nelle fabbriche dell’hinterland milanese e territoriale anche in altre città (Torino, Firenze, Bologna, Roma, Napoli, Bergamo e Brescia), e azioni significative come il ferimento, la mattina del 19 giugno 1975, davanti alla porta 8 di Fiat Rivalta del vice capo officina Paolo Fossat, o quello di Valerio De Marco l’11 novembre 1975, direttore del personale della Leyland, di Heinrich Dietrich Herker, direttore tecnico della Philco, il 26 marzo 1976, del ginecologo Fulvio Nori il 31 marzo 1976, accusato di praticare aborti clandestini, quello di Matteo Palmieri, capo dei sorveglianti della Magneti Marelli, il 2 aprile, fino all’omicidio di Enrico Pedenovi, consigliere provinciale del Msi, ucciso per rappresaglia dopo l’assassinio a coltellate da parte di estremisti di destra di Gaetano Amoroso42. 2.5 Il sequestro Amerio Il 10 dicembre 1973, dopo alcuni mesi di silenzio, le Brigate rosse rapirono a Torino il capo del personale del gruppo automobili della Fiat, Ettore Amerio, chiamato in causa, come si è detto, dal loro precedente ostaggio, il sindacalista Labate. Si trattava, come ha osservato Bocca, di «uno di quei dirigenti che si alzano ogni mattino alle 6.30, un ruscone come dicono a Torino, uno che passa la vita in azienda. Esce alle 7.20: in tasca ha un sacchetto di caffè macinato per farselo sul fornelletto che tiene in ufficio»43.
42 La sera del 27 aprile 1976, a ridosso del primo anniversario della morte di Sergio Ramelli, militante del Fronte della gioventù ucciso a colpi di chiave inglese da alcuni componenti del servizio d’ordine di Avanguardia operaia, i neofascisti cercano la vendetta. Dalla sezione del Msi di via Guerini a Milano un gruppo esce per tendere un agguato a dei militanti del comitato antifascista di Porta Venezia. Gaetano Amoroso, studente-lavoratore, che aveva militato nel Pc-ml viene accoltellato a morte e altri due giovani rimangono feriti. Per l’aggressione verranno arrestati Gianluca Folli, Marco Meroni, Angelo Croce, Luigi Fraschini, Antonio Pietropaolo, Danilo Terenghi, Walter Cagnani, Claudio Forcati e Gilberto Cavallini. Due giorni dopo per rappresaglia venne ucciso da militanti dell’area milanese di Senza Tregua, il consigliere provinciale missino, Enrico Pedenovi. A Sezze romano, in provincia di Latina, il 20 maggio successivo al termine di un comizio fortemente contestato dalla popolazione, il deputato missino Sandro Saccucci mostrò una pistola. Dopo il suo allontanamento, un suo simpatizzante sparò colpendo a morte il militante della Fgci Luigi Di Rosa e ferendo Antonio Spirito di Lotta Continua. 43 G. Bocca, Noi terroristi. Dodici anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i protagonisti, Milano, Garzanti, 1985, p. 64.
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Un gran lavoratore, dunque, un uomo dedito all’azienda, a cui probabilmente doveva tutto. Le cose, però, poste così non chiariscono nessuno dei motivi per i quali Amerio divenne la vittima del primo sequestro lungo del brigatismo italiano. Dopo l’esperienza dei «fazzoletti rossi» della primavera del 1973 la Fiat aveva licenziato alla spicciolata circa 300 persone, mentre aveva aperto una nuova trattativa con il sindacato che non escludeva l’uso della cassa integrazione. L’11 dicembre doveva riprendere il dialogo tra le parti e fu allo scopo di influenzarlo, o fermarlo, che le Brigate rosse decisero l’azione che doveva essere intesa come il simbolo di un nuovo contropotere. Nel volantino di rivendicazione fatto ritrovare in una cabina telefonica di piazza Statuto, la piazza teatro degli scontri del 1962, si diceva che il rilascio di Amerio era condizionato dall’esito positivo delle trattative per la piattaforma dei dipendenti Fiat. Si affermava che Amerio era detenuto in un carcere del popolo e che le indagini della polizia potevano metterne a repentaglio l’incolumità. Il periodo di detenzione del prigioniero, inoltre, sarebbe dipeso da tre fattori: la fine di quella che era definita una «manovra antioperaia», ossia la minaccia della cassa integrazione e di una crisi, che secondo le Br era stata creata artificiosamente dalla stessa azienda torinese; l’andamento degli interrogatori e la revoca dei licenziamenti, usati come arma di ricatto per «piegare la resistenza operaia alle incessanti manovre di intensificazione del lavoro». La seconda parte del volantino si rivolgeva, come di norma, direttamente ai lavoratori: «Compagni – esordiva – quando la paura si afferma tra le grandi masse il padrone ha già vinto metà della guerra». Secondo le Br, l’Italia non stava attraversando una semplice crisi economica; si trattava di una crisi strutturale che colpiva la capacità di sfruttamento dei padroni, già scossa dalle lotte degli ultimi anni. Era allora possibile vincere la lotta e quindi non si doveva rinunciare a combatterla, cercando di approfondire la crisi del regime e trasformarla nei primi momenti del potere operaio armato. Noi, scrissero «dobbiamo accettare la guerra. Perché non combattere quando è possibile vincere? Quello che noi pensiamo è che da questa crisi non se ne esce con un compromesso» ma, al contrario, «siamo convinti che è necessario proseguire sulla strada maestra tracciata dalle lotte operaie degli ultimi cinque anni e cioè: non concedere tregue che consentano alla borghesia di riorganizzarsi; operare nel senso di approfondire la crisi di regime; trasformare questa crisi in primi momenti di potere proletario armato, di lotta armata per il comunismo. Compromesso storico o potere proletario armato: questa è la scelta che i compagni oggi devono fare, perché le vie di mezzo sono state bruciate. Una divisione si impone in seno al movimento operaio, ma è da questa divisione che nasce l’unità del fronte rivoluzionario che noi ricerchiamo»44.
In questo volantino cominciarono a prendere forma quelle che negli anni successivi 44 «Controinformazione», 1-2, 1974.
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avrebbero costituito le principali linee del brigatismo: il rifiuto di ogni ipotesi di compromesso storico e l’obiettivo della creazione di una forte opposizione armata di sinistra alternativa al Pci e circoscritta alla classe operaia, dalla quale partire per conquistare il resto delle masse all’idea della rivoluzione. Dopo quasi vent’anni Franceschini ebbe modo di ripercorrere le finalità di allora: «Il sequestro di Amerio lo concepimmo, oltre che come il nostro modo di partecipare alla lotta per il contratto, anche come il primo concreto passo della nostra strategia di attacco al compromesso storico. “Rinascita”, in quei mesi, pubblicava gli articoli di Enrico Berlinguer e secondo noi l’accordo tra comunisti e democristiani che andava delineandosi non avrebbe potuto che provocare una spaccatura nella classe operaia. Era il momento che aspettavamo e di cui dovevamo approfittare per diventare solido punto di riferimento per chi vedeva nel “compromesso” la definitiva rinuncia alla rivoluzione, alla lotta per la presa del potere»45.
Un secondo volantino, lasciato nella medesima cabina telefonica del primo, informava il movimento che Amerio stava collaborando e che l’interrogatorio aveva confermato l’esistenza di una «centrale di spionaggio Fiat», il carattere persecutorio dei licenziamenti e la pratica sistematica degli accertamenti sul colore politico di chi fa domanda di assunzione46. Il maggiore quotidiano italiano, il «Corriere della Sera», l’11 dicembre definì la vicenda un «assurdo, feroce ricatto» e mise in dubbio il colore politico dei rapitori; il giorno dopo addirittura inserì il rapimento in un contesto di delinquenza comune, mettendolo in relazione con altri casi in quel momento ancora aperti (Tony Carello e Luigi Rossi di Montelera): «C’è chi pesca nel torbido, c’è chi tenta di aggiungere alla crisi economica una crisi ben più grave». Le «fantomatiche Brigate rosse» vogliono apparire di sinistra, ma «giovano solo all’estrema destra», e mentre esse accusano tutti di fascismo, «praticano il peggior fascismo che si veda in Italia dopo la caduta di Salò, parlano di lotta di classe ma danneggiano soltanto chi lavora». Si trattava, insomma, di «brigate di provocatori», di forze «sedicenti politiche che violano le regole del gioco», di «delinquenti comuni, che tentano di nascondersi dietro l’ideologia, sia pure l’ideologia farneticante delle Brigate rosse»47. I sindacati condannarono il rapimento. La Flm notò come «in un momento parti45 A. Franceschini, Mara, Renato e io, Mondadori, Milano 1991, p.79. 46 «Controinformazione», 1-2, cit. Si veda anche Bianca Guidetti Serra, Le schedature Fiat. Cronaca di un processo e altre cronache, Torino 1984. Il 5 agosto 1971 il pretore Raffaele Guariniello, accompagnato da un cancelliere e da un ufficiale giudiziario si era presentato in via Giocosa, a Torino, dove si trova il palazzo della Fiat e tra lo sbigottimento dei funzionari e impiegati presenti sul posto sequestrò 354.077 schede personali che documentavano una ventennale attività di spionaggio con l’evidente scopo di valutare le posizioni politiche (oltre che la vita privata) dei dipendenti. 47 Quel giorno il «Corriere della Sera» dedicò al quarto anniversario della strage di piazza Fontana un articolo di poche decine di righe.
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colarmente delicato delle trattative avviate con la Fiat un fatto del genere rappresentava una provocazione di chiara marca fascista», augurandosi l’individuazione dei responsabili. La Cgil, la Cisl e la Uil affermarono che «tali azioni non hanno mai fatto parte né fanno parte del terreno di scontro e di lotta dei lavoratori. Sono atti che ci danneggiano e che condanniamo apertamente, non soltanto perché contraddicono le tradizioni del movimento operaio, ma anche perché sono finalizzati contro gli operai stessi, in quanto tendono a deviare gli obiettivi del confronto e dello scontro sul terreno della provocazione e del ricatto»48.
La Federazione sindacale unitaria diffuse un comunicato di condanna, affermando che «pronta e decisa sarà la risposta delle organizzazione sindacali e dei lavoratori a tutti coloro che volessero ritentare la strategia della tensione analogamente a quanto messo in atto a partire dal dicembre 1969», mentre «ribadisce ancora la propria linea rivendicativa e il terreno di scontro decisi nella recente assemblea dei delegati e delle strutture di base, strategia che troverà puntuale concreta conferma nei contenuti e nell’azione di sciopero generale provinciale deciso per mercoledì». Anche per il segretario generale della Cgil, Luciano Lama, si trattava di un’azione che non aveva nulla a che vedere con il movimento sindacale, e concludeva, evidentemente conoscendo il vero colore delle Br: «Chiunque si mette contro la legge, da qualunque parte pretenda di essere, deve essere colpito e punito»49. Secondo la dirigenza della Fiat, il sequestro di Ettore Amerio era un’ultima, gravissima azione intimidatoria e ricattatoria «nell’ambito della spirale di criminale violenza che tende a minare, di fatto, le istituzioni democratiche e con esse la libertà e i diritti individuali»; i dirigenti dell’azienda torinese esprimevano la loro più viva solidarietà al collega, «vittima di gruppi eversivi che mirano a imporre un clima di intimidazione, strumentalizzato a screditare il ruolo e le funzioni della classe dirigente; esternano il loro più amaro sdegno e la loro più viva preoccupazione per il ripetersi di fenomeni criminosi che hanno il chiaro obiettivo di distruggere i principî di una civile convivenza e di scatenare l’odio di classe; richiedono l’attuazione immediata da parte dei poteri dello Stato di iniziative e provvedimenti che stronchino quel clima di violenza che rende precario lo svolgimento dell’attività lavorativa ed esaspera artificiosamente stati di tensione; dichiarano la loro ferma decisione a procedere con tutti i mezzi legali a loro disposizione alla difesa della loro libertà e integrità personale e alla tutela della dignità della categoria»50. 48 «Corriere della Sera», 11 dicembre 1973. 49 V. Tessandori, Brigate rosse, cit., pp. 124-125. 50 Ivi, p. 125.
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Di altro tenore fu la posizione della sinistra extraparlamentare; per il giornale «Lotta Continua», ad esempio, era difficile ascoltare commenti pietistici sul conto del rapito da parte degli operai. Dalle agenzie si era diffusa la notizia che Amerio fosse malato di cuore, ma il foglio ironizzò, chiedendosi come mai si scoprisse solo in certi momenti che la classe dirigente italiana fosse tutta malaticcia e si chiedeva perché quelle stesse malattie non avevano impedito in passato di comminare trasferimenti punitivi e minacce di licenziamento. Ora, concludeva, era il turno di Amerio «di avere paura e nessuno ci avrebbe pianto sopra, se non i suoi colleghi di sfruttamento»51. Mentre tenevano Amerio prigioniero, il 12 dicembre, quarto anniversario della strage di piazza Fontana, le Br compirono due azioni «di propaganda» a poche ore di distanza una dall’altra52. Alle 13.00 davanti ai cancelli della Sit-Siemens di piazzale Lotto fu abbandonata una Fiat 500 con montati sul portapacchi due altoparlanti che diffondevano parole esortanti alla lotta nelle fabbriche e all’unione contro lo sfruttamento della classe operaia; alle 17.00 si ripeté un episodio analogo di fronte ai cancelli della Breda. La Flm di Sesto San Giovanni parlò subito di azione provocatoria e il Consiglio di fabbrica della Sit-Siemens di pura e semplice marca fascista, che non aveva nulla a che vedere con il movimento operaio53. Il 13 dicembre i familiari di Amerio chiesero il silenzio stampa con un breve comunicato riportato sui maggiori quotidiani italiani; in un nuovo volantino le Br ripeterono che la detenzione dell’ostaggio dipendeva da due fattori, la cassa integrazione e il comportamento della stampa «di Agnelli», che metteva in dubbio il colore politico dei brigatisti proprio quando dall’interrogatorio risultava evidente l’esistenza di «una centrale di spionaggio Fiat» che faceva capo al rappresentante al tavolo delle trattative con i sindacati, il dott. Cuttica. Amerio, dicevano inoltre i brigatisti, aveva confermato le assunzioni di operai missini per mezzo del cavalier Negri, nome già fatto da Labate durante il precedente interrogatorio54. Le Br non erano ancora entrate nella logica dell’uccisione di un ostaggio, né erano pronte per un sequestro molto lungo. Giocavano, quindi, sulla novità della loro azione, sulla sorpresa e sulla paura che essa avrebbe instillato in molti dirigenti della Fiat, verso i quali si ponevano come controparte. Accanto a queste considerazioni, che indicano come l’ostaggio non sarebbe stato tenuto prigioniero per molti giorni, contribuì alla rapida conclusione della vicenda un attacco di fedain palestinesi a Fiumicino il 17 dicembre contro un aereo della Pan Am e poi della Lufthansa, che costò la vita a 34 persone: la tensione nel paese salì repentinamente e per stemperare l’eccitazione ge51 «Lotta Continua», 11 dicembre 1973. 52 Quel 12 dicembre, lo si deve sottolineare, le forze dell’ordine individuarono il garage nel quale era stato eseguito il trasbordo di Amerio. In seguito, il 17 dicembre vennero arrestati Antonio Savino e la moglie Giovanna Legoratto, entrambi militanti Br, presto rilasciati in libertà provvisoria. 53 «Corriere della Sera», 13 dicembre 1973. 54 «Corriere della Sera», 15 dicembre 1973.
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nerale le Br diffusero un nuovo volantino nel quale affermarono che Amerio aveva collaborato pienamente, annunciandone il rilascio. Giustificarono politicamente la liberazione del dirigente Fiat affermando di non volere portare all’estremo la battaglia, cosa indispensabile per una vittoria finale in una guerra di lunga durata, riuscendo a liberarsi di un peso che in quel momento rischiava di diventare insostenibile55. Amerio fu liberato il 18 dicembre56 e il Comunicato che ne accompagnava il rilascio si rivolgeva direttamente al movimento: «Compagni, otto giorni fa imprigionando Amerio sottolineavamo una cosa soprattutto: non siamo noi che dobbiamo avere paura. Al contrario, dobbiamo armarci e accettare la guerra perché vincere è possibile [...]. Non siamo che all’inizio. Siamo nella fase di apertura di una profonda crisi di regime, che soprattutto è crisi politica dello Stato e che tira verso una rottura istituzionale. Verso un mutamento reazionario dell’intero quadro politico»57.
L’azione, ricordò Moretti, ebbe un grande effetto perché si trattò di un gesto di enorme insubordinazione; gli operai «non ci sono abituati, e tanto meno i sindacati e i partiti» e se la conseguenza «è che la pressione poliziesca si fa molto meno approssimativa», anche la risposta operaia fu entusiasta: «ci cercano, affluiscono». La lotta armata «è ancora da cominciare, il terreno è inesplorato, nessuno sa dove la guerriglia potrà portarci, quel che non riusciamo a fare oggi lo faremo domani, l’importante è stare nella grande ondata e farla crescere»58.
Proprio allo scopo di crescere, del resto, già nei mesi precedenti le Br avevano cercato di insediarsi nel Veneto, in particolare al Petrolchimico di Marghera, a Mestre, ai Cantieri Navali Breda e negli ambienti universitari di Padova, dove erano stati inviati Fabrizio Pelli, detto «Bicio», Roberto Ognibene e Giorgio Semeria. Entrati in contatto con Carlo Picchiura, Susanna Ronconi e Nadia Mantovani, diedero luogo alla prima intelaiatura di quello che sarebbe divenuto il Comitato territoriale veneto, formato da alcuni militanti tra Mestre, Padova, Treviso e Venezia. Sempre quell’anno, nelle Marche, furono strette delle relazioni anche con gli esponenti dei Proletari armati in lotta e fu data vita a un Comitato marchigiano delle Brigate rosse. Il 1974 si aprì, secondo le vecchie abitudini, con l’incendio, il 16 gennaio, dell’auto di Valentino Spataro, direttore della Sit-Siemens, e proseguì una settimana più tardi 55 Soccorso Rosso, Brigate rosse, cit., p. 175. 56 In una prima intervista il dirigente affermò che i suoi rapitori erano stati gentili e che lo avevano trattato bene, «quasi con cortesia»; «Corriere della Sera», 19 dicembre 1973. 57 «Controinformazione», n. 1-2, cit. 58 M. Moretti, Brigate rosse, cit., pp. 55-56.
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con quello dell’auto del direttore del personale della Pirelli-Bicocca, Busti59. Il 13 febbraio, poi, furono incendiate le auto di alcuni dirigenti del Petrolchimico di Marghera e il 3 marzo, nel corso di un’incursione alla sede provinciale Cisnal di Mestre, furono portati via documenti e schedari. In quel frangente rimase ferito Giorgio Ferro, colpito da un brigatista con il calcio della pistola mentre provava una reazione, quindi, dopo poche ore, fu diffusa la rivendicazione alla redazione veneziana dell’Ansa nella quale si affermava lo scopo della perquisizione: «Reperire tutte le informazioni utili a identificare [...] tutti i fascisti che si sono infiltrati nelle fabbriche della zona con lo scopo di sabotare la lotta dei lavoratori, organizzando il crumiraggio, provocando i compagni [...]».
Essi erano definiti come uno degli strumenti della ristrutturazione in atto, responsabile della disoccupazione e del calo del valore reale dei salari. Si faceva quindi esplicito riferimento al pericolo che in Italia si attuasse un colpo di Stato simile a quello dell’11 settembre 1973 costato al Cile la democrazia (in questo non si era lontani dai timori berlingueriani) e si esortava la classe operaia a costituire dentro e fuori dalle fabbriche nuclei di resistenza armata60. Quindi, il 27 marzo si registrò l’incendio dell’auto del dirigente della Singer di Leinì, Agostino Belsito, definito «un fascista da poco in Singer» ma che «ha già tramato tanto contro la lotta e la sua unità da farsi ben conoscere da tutti gli operai», mentre il 9 marzo era stata bruciata quella di Giuseppe Lunghi, dirigente della Breda-Fucine di Sesto San Giovanni: «Chi è Lunghi lo sappiamo tutti: come capo della produzione è il principale responsabile dei ritmi, della nocività, dell’organizzazione del lavoro. È altrettanto famoso per i suoi atteggiamenti repressivi [...]. Scopo dell’azione non era quello di vendicare i torti che da anni subiamo, ma quello di colpire colui che gestendo per conto del padrone il potere nella fabbrica, si è assunto la sua parte di responsabilità. Inoltre, avvertire tutti coloro che svolgono analoghe funzioni, traendone più o meno grossi benefici sulla pelle della classe operaia: costoro, se hanno potuto nascondersi dietro il paternalismo, la falsa dialettica democratica e il fatto che, in ultima analisi, sono soltanto dei servi, d’ora in poi saranno attentamente sorvegliati, giudicati e puniti»61.
Nonostante questa serie di azioni contro dirigenti di fabbrica e azienda, la firma del contratto dei metalmeccanici, che aveva concluso l’esperienza dei «fazzoletti rossi», aveva contribuito a mettere in crisi la lotta nelle fabbriche delle Br. Si era compreso, in59 La rivendicazione riguardava anche l’azione contro l’auto di un altro dirigente della Sit-Siemens, Ferrari, avvenuta il 7 dicembre dell’anno precedente. 60 V. Tessandori, Brigate rosse, cit., p. 140. 61 Ivi, p. 141.
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fatti, che le decisione venivano prese in luoghi diversi da quelli dello scontro sindacale e che fosse necessario cercare di colpire un obiettivo diverso, più significativo del semplice dirigente locale. Curcio sostenne che si dovesse attaccare lo Stato nei suoi gangli nascosti al fine di metterlo in crisi e poterlo sovvertire. Nacque, allora, la frase che sarebbe divenuta famosa: «Colpire il cuore dello Stato», per sintetizzare la capacità dell’autonomia della classe operaia di crescere e diventare soggetto capace di scontrarsi con lo Stato sul piano politico e militare. In altre parole, l’antagonismo sociale poteva reggere il confronto solo dandosi una struttura organizzativa solida e armata in grado di portare lo scontro fuori dalla fabbrica, alzandone contemporaneamente il livello62. Il passaggio dalla fabbrica all’attacco allo Stato fu teorizzato in un opuscolo dell’aprile del 1974 dal titolo Contro il neogollismo portare l’attacco al cuore dello Stato, dove l’organizzazione parlò per la prima volta di superamento della democrazia borghese. In quegli stessi giorni le Br misero in pratica con estrema decisione il primo «attacco al cuore dello Stato» attraverso il sequestro del giudice genovese Mario Sossi, che aveva rappresentato la pubblica accusa a Genova nel processo contro la 22 Ottobre63. Egli fu rapito il 18 aprile 1974, anniversario della condanna all’ergastolo di uno dei fondatori della banda, Mario Rossi, proprio nel capoluogo ligure in un momento storico particolare, poche settimane prima del voto sul divorzio64. Se ne riparlerà nel corso del volume, quando si vedrà anche il contenuto dell’opuscolo sul «Neogollismo». 2.6 Le indagini Come hanno sempre sostenuto i rappresentati delle forze investigative, le conoscenze dei servizi italiani sul fenomeno brigatista non erano poche e crebbero in relazione alla gravità degli attentati e alla conseguente maggiore attività di indagine. Già nel 1971 un appunto del Sid con oggetto «Brigate Rosse» raccontava la parabola di Curcio e Duccio Berio da Trento a Milano, la fondazione del Collettivo politico metropolitano, il tentativo di entrare nel Cub della Pirelli e la nascita delle Br dentro la fabbrica. Il Collettivo, si legge, «nacque come nucleo agente e come strumento tecnico-pratico all’interno del movimento generale del proletariato […] come fazione politica costituita da “militanti attivi” impegnati a svolgere un lavoro ideologicamente omogeneo all’interno di situazioni sociali e nel più generale tessuto metropolitano». 62 Si veda R. Curcio, A viso aperto, cit., p. 84 e M. Moretti, Brigate rosse, cit., pp. 55-63. 63 Gruppo comunista, fondato da Mario Rossi e Augusto Viel. Il processo si svolse nel 1973. Si veda Paolo Piano, La banda 22 Ottobre, cit. 64 Per quanto riguarda le modalità dell’azione si veda M. Moretti, Brigate rosse, p. 63 e segg. e A. Franceschini, Mara, Renato ed io, cit., pp. 90 e segg.
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Le Brigate rosse, dopo la loro comparsa nell’autunno 1970, apparivano come «un’appendice del Collettivo», composte da tre o quattro elementi clandestini, «quasi tutti artificieri», incaricati di portare a termine attentati contro i beni e il personale direttivo dell’azienda in cui lavoravano65. Così l’attività si dispiegò dentro la Pirelli attraverso la distribuzione di volantini e incitamenti alle maestranze a compiere atti di sabotaggio e a redigere un elenco di proscrizione di dirigenti da colpire. In questo periodo, l’attentato più importante è considerato quello del 25 gennaio 1971 sulla pista di collaudo della Pirelli a Lainate, dove furono dati alle fiamme diversi autocarri in prova. I presunti maggiori attivisti furono individuati in Renato Curcio, Enrico Castellani, Margherita Cagol, Alberto Franceschini e Raffaele De Mori66. Il materiale propagandistico e di lavoro rinvenuto fino ad allora indicava tra gli obiettivi del gruppo il personale delle forze di polizia, le strutture amministrative dello Stato, le forze politiche di destra, ritenute assieme a parte di quelle militari come probabili attori di un colpo di Stato. Per quanto emerso fino a quel momento, le Br potevano «essere considerate effettivamente nuclei operativi, su un piano di clandestinità, che trovano ispirazione e origine nell’estremismo più eversivo di sinistra ed i cui esponenti per la loro sostanziale autonomia si rendono ancor più pericolosi e meno individuabili».
In conclusione, nel 1971 le Br erano considerate un fenomeno «eversivo localizzato, che compendia e integra, sebbene in modo maggiormente violento, quel clima rivoluzionario instaurato da tempo nel paese a opera di organizzazioni estremiste tramite l’uso di strumenti di lotta e di propaganda esaltanti il sovvertimento delle istituzioni sociali ed economiche della vita nazionale»67.
Un anno dopo, nel giugno 1972, dopo la morte di Feltrinelli, gli arresti di maggio a Milano e il sequestro Macchiarini, le Br avevano cercato di assumere una «posizione primaria nello schieramento estremista» con un ruolo di «avanguardia nel terrorismo». Le Br erano considerate pericolose, organizzate e fornite di armi ed esplosivo, collegate al gruppo di Feltrinelli, del quale si sospettava qualcosa di più di un semplice appoggio esterno. Gli arresti di maggio avevano chiaramente inferto un duro colpo all’organizzazione, «tuttavia, l’attiva presenza di movimenti extraparlamentari che tuttora propagandano la violenta distruzione del sistema […] induce a non escludere l’eventualità che in un prossimo futuro le «Brigate Rosse» si ricostituiscano sotto diversa denominazione, dando vita a nuovi gravi episodi di terrorismo»68. Tra i 65 ACS, Caso Moro, MIGS b. 4, SID, 7 aprile 1971, Appunto. Oggetto: Brigate Rosse, 7 aprile 1971. 66 Ibid. 67 Ibid. 68 Ivi, 28 giugno 1972, Appunto. Oggetto: «Brigate Rosse».
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militanti individuati dalle forze di intelligence troviamo i nomi di Curcio, Cagol, Moretti, Semeria e Franceschini (chiamato Alfredo), Italo Saugo, Enrico Levati e Pietro Morlacchi, ma anche dei meno noti Claudia Bellosta, Anna Maria Bianchi, Francesco Bocchini, Angela Bolaffi, Carmen Cerutti, Enea Fanelli, Umberto Farioli, Maria Grazia Grena e Gloria Pescarolo69. Un mese più tardi un nuovo appunto del Sid veniva dedicato alle strutture organizzative di Br, Gap e Superclan di Simioni grazie a elementi informativi di recente acquisizione, come si legge nella presentazione. Per le Br, si era certi della loro articolazione in Colonne e nuclei operativi. L’idea era di una organizzazione semi segreta, con il capo Colonna conosciuto da pochi militanti e i nuclei operativi «in numero da 5 a 10 e composti ciascuno da 3 a 7 elementi». Un apparato logistico si occupava dei documenti contraffatti, della gestione delle basi, del reperimento di armi ed esplosivi. Le Colonne, scrivevano in modo errato, erano almeno cinque, di cui due a Milano, una a Lodi, una a Torino e una a Roma. Le indagini successive alla morte di Feltrinelli avevano portato alla neutralizzazione di una colonna milanese; quella di Torino era in fase di organizzazione, mentre quella di Roma era autonoma «non mantenendo contatti con i similari organismi dell’Italia settentrionale». I militanti delle Br provenivano quasi esclusivamente da Potere operaio, dal PC d’Italia, dal Cpm e negli ultimi tempi da Lotta continua. Vi erano state anche adesioni singole dal Pci, dal Pdup e di ex partigiani. Le armi (sostanzialmente corte) provenivano in prevalenza dal mercato nazionale, mediante acquisti e sottrazioni, mentre il materiale esplosivo era rubato in cantieri stradali e in cave. Dei Gap, fondati da Feltrinelli e da ex partigiani, si insisteva sul carattere «agile […] e cellulare» della struttura organizzativa, con sede a Genova, Chiavari e Trento, mentre i milanesi e i padovani dopo la morte di Feltrinelli erano confluiti nelle Br. La previsione era che la collaborazione con le Br si sarebbe estesa in futuro. Interessante appare l’informativa sul Superclan, la prima che abbiamo trovato tra le carte del Viminale. Si trattava di un’organizzazione ultra clandestina, «costituita in imprecisata località dell’Italia settentrionale». I suoi militanti avevano «aspetto e abbigliamento borghesi e mantengono atteggiamento che non richiami l’attenzione, mimetizzandosi nella collettività cittadina». Operavano in forma indipendente dalle altre organizzazioni, ma fino a quel momento non risultava che avessero svolto in concreto alcuna attività eversiva70. Ma mentre del Superclan si persero le tracce, visto 69 Ivi, Elenco alfabetico degli attivisti delle «Brigate Rosse». 70 Ivi, 13 luglio 1972. Appunto. Gruppi clandestini rivoluzionari Brigate Rosse; Gap; Superclan. Si tratta del cosiddetto Superclan. Sul Superclan e la scuola di lingue che alcuni dei suoi fondatori avrebbero poi aperto a Parigi negli anni Settanta indagò il Sisde dopo la fine della vicenda Moro. Fu «l’Unità» a parlare per prima della questione con un articolo del 19 aprile 1979 nel quale si ipotizzava che Toni Negri sarebbe stato al vertice di una organizzazione terroristica con ramificazioni internazionali. In un articolo del 25 aprile 1979 «l’Unità» indicò nell’Hyperion la base francese delle Br. Il giudice Carlo Mastelloni condusse un’inchiesta e un processo contro alcune persone riconducibili alla scuola di lingue, ma nel 1990 Giovanni Mulinaris,
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che non avrebbe compiuto azioni di rilievo, sulle Br e i Gap giunsero ulteriori informazioni71. Secondo fonti fiduciarie del servizio i due gruppi, proseguendo l’attività eversiva, si erano resi protagonisti di furti in armerie, avevano sperimentato la costruzione di ordigni artigianali, pianificato reati contro il patrimonio allo scopo di autofinanziarsi, intensificato, in particolare tramite i Gap, i contatti con ex partigiani ed erano in procinto di tentare la liberazione di detenuti politici. Per le rapine le Br rubavano automobili in mediocri condizioni a cui fornivano documenti falsi appartenenti ad auto rottamate, da affiancare a seconde auto più potenti, lasciate a qualche chilometro dal punto di azione72. Dopo un inizio difficile, si legge in un’altra relazione del 1974, le Br erano cresciute divenendo molto più consistenti ed affiancando ai gruppi originari di Milano e Torino altri elementi di Roma, Genova e zone dell’Italia settentrionale. Per quanto riguarda l’organizzazione, si ripetevano le informazioni di due anni prima, ma rispetto al passato era aumentata la loro capacità di fuoco, che si deduceva dai seguenti elementi: «Importanza e delicatezza degli obiettivi, in costante aumento; accuratezza delle operazioni; facilità con la quale, mediante la commissione di fatti delittuosi, possono venire in possesso di notevoli mezzi finanziari; collusione con ambienti nei quali gli obiettivi prescelti vivono e lavorano e, infine, perfetta conoscenza delle possibilità e limitazioni delle Forze di Polizia».
I brigatisti non erano molti, non più di una settantina di persone, ma capaci di provvedere a tutte le incombenze di una vita clandestina, dai documenti agli alloggi, alla Duccio Berio e Corrado Simioni, accusati di banda armata, furono assolti a Venezia. Sempre in ACS, Caso Moro, MIGS b. 5, Roma, 7 novembre 1980, quesito n. 19 e 20, f.to Rognoni, si dice che Hyperion aveva avuto una rappresentanza a Roma e Milano nella prima metà del 1978. In entrambi i casi, però, si tratta di abitazioni private, una gestita da tale Carlo Fortunato a Roma in via Nicotera e una in via Albani a Milano, nell’abitazione dei coniugi Giuseppe Sacchi e Dimma Vezzani. Il Sisde ha ripetutamente smentito il coinvolgimento di Hyperion in azioni di terrorismo; cfr. ACS, Caso Moro, MIGS b. 5, prot. 04/19365/R71, Al comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza, Roma, 19 ottobre 1979, dove si ripercorre la storia della scuola di lingue e dei suoi soci. Per ulteriori approfondimenti si veda anche la busta 14, che contiene molto materiale su Berio, Mulinaris e Simioni e il tentativo della magistratura italiana di raccogliere prove contro di loro, prove che si limitarono a dichiarazioni di «pentiti» senza ulteriore riscontro. 71 L’unica azione di rilievo in cui il Superclan venne coinvolto fu l’attentato contro l’Ambasciata statunitense ad Atene il 2 settembre 1970, nel corso del quale morirono Maria Elena Angeloni e il cipriota Georgios Christou Tsdikouris. Il piano, organizzato dalla squadra Aris di Atene del Settore Delta del Fronte Patriottico, prevedeva l’utilizzazione di una donna e ci si era rivolti a Mara Cagol, che però aveva rifiutato. Ciò costituì l’inizio di una frattura che nel volgere di pochi mesi condusse Simioni, Troiano, Berio e altri ad abbandonare Sinistra proletaria per cercare una strada diversa sulla base esclusiva del Superclan, al quale aderirono anche Gallinari e Vanni Mulinaris. Ciò segnò la fine del primo comitato di coordinamento di Sinistra proletaria. 72 ACS, Caso Moro, MIGS b. 4, SID, 7 aprile 1971, Appunto. Oggetto: Brigate Rosse, cit., 19 settembre 1972. Gruppi clandestini rivoluzionari Brigate Rosse e GAP.
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elaborazione e stampa di fogli propagandistici e rivendicativi, nonché alla loro capillare distribuzione73. L’elenco dei militanti annesso comprendeva 61 nominativi di cui si conosceva la data di nascita e la residenza. Quasi tutti provenivano da Milano74. Dopo gli arresti di Curcio e Franceschini del settembre 1974, il Sid inviò un nuovo appunto sulle Br all’allora ministro degli Interni, Luigi Gui, nel quale si affermava che nuove notizie avevano permesso di delineare con maggiore precisione quelle che erano le attuali strutture organizzative del gruppo. Le forze dell’ordine erano state sorprese dall’escalation delle Br, che si era concretizzata con il sequestro del magistrato Mario Sossi, ma avevano risposto immediatamente con la creazione di un «Nucleo Speciale di Polizia Giudiziaria» presso la I Brigata dei carabinieri di Torino «al fine di sviluppare un’adeguata azione risolutiva nei confronti dei gruppi eversivi, soprattutto nel triangolo industriale»75. Le indagini, coordinate dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, partirono subito e nel giro di pochi mesi i suoi uomini, servendosi di Silvio Girotto, noto come «Frate Mitra» per i suoi trascorsi in America Latina, che agì da contatto, riuscirono ad arrestare due dei più importanti dirigenti delle Br, Curcio e Franceschini. Dopo questi successi, il gruppo di Dalla Chiesa venne momentaneamente sospeso (sarebbe stato riattivato nell’agosto 1978), perché nel 1975 si scelse di organizzare una Sezione anticrimine a livello centrale e delle Sezioni speciali locali inserite nei Nuclei investigativi di Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova, Padova, Bologna, Firenze, Bari, Catanzaro e Catania, in modo da coprire tutto il territorio nazionale. La clandestinità, di cui il Sid capì l’importanza come elemento strategico, era stata decisa nel 1972, «dapprima come espressione tattica e difensiva, poi come condizione indispensabile per la sopravvivenza di un’organizzazione politico-militare operante “all’interno delle metropoli imperialiste”». Essa, quindi, era stata realizzata «in modo da permettere al militante di operare – ad un tempo – nella organizzazione e nel movimento, muovendosi secondo le linee politiche che il movimento assume nella legalità». L’elemento offensivo era rafforzato dal fatto che consentiva un vantaggio tattico sul nemico di classe «che è costretto a esporre le proprie istituzioni». La clandestinità era un elemento costitutivo della «guerra di movimento» del gruppo, che voleva costringere la borghesia alla difesa di un numero di obiettivi sempre maggiore, esteso e vario. Per questo il gruppo teneva in conto due dettami fondamentali: «alta mobilità con capacità di mutare i fronti dell’attacco per non offrire bersagli fissi; agilità delle strutture logistiche». Capacità offensive e volontà di restare legate alle masse in modo da sviluppare un’azione di guerriglia «riflettente i bisogni politici delle avanguardie» e facendo assumere alle Br «un’effettiva dimensione di potere rivoluzionario locale». Accanto alla clandestinità, un 73 Ivi, Annesso 5. Brigate Rosse. 74 Tra essi troviamo Simioni, Troiano, Berio e Italo Saugo. 75 ACS, Caso Moro, CC, B. 5, Appunto del 30 maggio 1980, p. 3.
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altro elemento strategico era la compartimentazione, che si basava sui seguenti criteri: «evitare che ognuno conosca gli altri e che tutti conoscano tutto; ciascuno deve sapere soltanto ciò che riguarda il proprio lavoro». Il terzo elemento, nuovo rispetto al recente passato era costituito dai Fronti. Introdotti da poco tempo, essi operavano all’interno delle grandi fabbriche «per creare centri di potere rivoluzionario, conquistare avamposti strategici e perfezionare l’apparato d’informazione», nella lotta «alla controrivoluzione, orientando qualsiasi espressione di autonomia operaia», e, infine, nel settore logistico «per potenziare la struttura con vari strumenti e mezzi: documenti militari, armamenti, istruzione militare e industriale, assistenza medica, legale e di latitanza». Il quarto elemento nuovo era costituito dalla divisione delle forze in «regolari» e «irregolari». Le informazioni erano giuste solo parzialmente. Infatti, la differenza non era tanto nell’impegno nella rivoluzione, uguale per tutti, quanto nella possibilità o meno di restare ancora presenti con un volto «legale» all’interno della società. Per il Sid, invece, le prime erano composte da quadri «impegnati direttamente nella lotta armata e operanti nella più assoluta clandestinità», mentre le seconde si articolavano in Brigate e Cellule e non potevano far parte delle Colonne, dei Fronti o del Comitato esecutivo, cosa non vera. La Direzione strategica era divenuta più complessa rispetto al passato per la crescita dell’organizzazione e si ipotizzava la nascita di un altro organo, il «Consiglio rivoluzionario», con il compito di emanare le leggi rivoluzionarie, giudicare e punire gli elementi controrivoluzionari e nominare un Comitato esecutivo per il governo delle Br. La cosa era completamente errata e non sarebbe mai esistito un organo del genere. Per il futuro i brigatisti si erano dati come compito quello di liberare i loro compagni detenuti «e allestire un controprocesso» in concomitanza con il processo alle Brigate Rosse. Si trattava dell’organizzazione di un rapimento, segnalato dal Sid come prossimo, anche se non era stata ancora prescelta la persona76. L’appunto fu costruito su notizie riferite da una «fonte manovrata da Centro C.S. di Padova», che appare discretamente informata, sebbene non interna alle Br a causa di molti errori riguardanti la struttura. Secondo lo schema annesso al rapporto, la struttura delle Br era composta da una Direzione strategica divisa in un Consiglio rivoluzionario e un nucleo storico che indicava il Comitato esecutivo. Questo a sua volta dirigeva le forze regolari strutturate in Fronti, Brigate e Colonne e le irregolari, divise in Brigate e Cellule. In realtà, le forze regolari e irregolari erano strutturate in Colonne e Brigate, i cui elementi lavoravano in raccordo nei Fronti (della controrivoluzione, logistico e delle grandi fabbriche). Ogni Colonna aveva una direzione che operava a livello locale, mentre l’Esecutivo vagliava gli obiettivi e gli scopi politici delle azioni proposte dalle varie Colonne. La Direzione strategica, che era un organo numericamente 76 ACS, Caso Moro, MIGS b. 4, Sid, 04/14899/R/1, Roma, 21 maggio 1975, All’Onorevole Luigi Gui, Ministro dell’Interno, Roma. L’appunto fu mandato anche al Capo di Stato Maggiore della Difesa, al Comandante Generale dell’Arma, al ministro della Difesa e all’Ispettorato Generale per l’Azione contro il Terrorismo.
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ampio, costituiva la guida politica dell’organizzazione, incaricata di redigere i documenti nazionali, come le Risoluzioni della direzione strategica. Il 1975 fu un anno di intensa attività investigativa e le acquisizioni si moltiplicarono. In agosto il Sid inviò a Gui un nuovo dettagliato rapporto, con una sintesi dell’attività brigatista divisa in periodi: dal 1970 al febbraio 1972, dalla metà del 1972 all’autunno 1974 e dall’autunno 1974 all’estate del 1975. Più che a un’apice dell’azione brigatista si assiste a una escalation che non si arresta con il sequestro Sossi, ma prosegue nel periodo successivo con la liberazione di Curcio dal carcere di Casale Monferrato, il sequestro di Vittorio Vallarino Gancia e la morte di Margherita Cagol il 5 giugno 1975 durante un conflitto a fuoco con i carabinieri che avevano scoperto il luogo di detenzione dell’imprenditore piemontese. La struttura dell’organizzazione venne individuata meglio rispetto a prima: si dava ancora per certa la presenza di un Consiglio rivoluzionario, ma la composizione e il ruolo dei Fronti erano stati compresi più a fondo. Erano ancora presenti i «nuclei» intesi come «unità di intervento» assieme alle Colonne nelle singole azioni che venivano «costituiti a secondo delle reali esigenze dell’azione stessa», mentre la parola viene usata dalle Br per indicare il gruppo di persone autrici di un’azione nei volantini di rivendicazione, senza che questi «nuclei» avessero una funzione attiva oltre il tempo dell’attentato. Secondo il Sid, in agosto le forze regolari non superavano gli 80 elementi, quasi il doppio degli irregolari (in realtà era vero l’inverso, sebbene non possiamo dare numeri precisi in questo caso), che erano definiti «culturalmente e politicamente molto preparati e si ritiene che occupino posti di responsabilità in apparati pubblici e privati». L’area contigua alle Br, quella dei simpatizzanti, degli aspiranti brigatisti o semplicemente di appartenenti al movimento che per forza di cosa avevano rapporti con elementi dell’organizzazione, era definita dei «fiancheggiatori» appartenenti o «iscritti a movimenti extraparlamentari di sinistra, che il più delle volte non sanno chi e a che scopo servano le azioni eseguite». Si diceva, infine, che i brigatisti Pelli e Franceschini per sottrarsi agli ordini di cattura, avevano trovato rifugio in Cecoslovacchia, cosa da sempre smentita dagli interessati, anche perché Franceschini all’epoca del suo arresto non era neanche ricercato e, dunque, non aveva bisogno di nascondersi. Si dice che alcuni contatti con organizzazioni dell’Europa centrale (si pensò alla Raf), fossero stati dimostrati dai ritrovamenti di armi ed esplosivi, opuscoli e documenti riconducibili a elementi sovversivi austriaci, svizzeri e tedeschi, ma i rapporti con la lotta armata italiana non erano definiti solidi77. In questo contesto, si pensò che la persona che potesse agire eventualmente da tramite fosse Petra Krause, dirigente di spicco dell’AKO svizzero (su cui avremo modo di ritornare) ma per qualsiasi «ipotesi estera» riguardante il «terrorismo» di sinistra italiano «le indagini degli organi di Poli77 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 4, il capo del Sid 04/26824/R/1, Roma 5 agosto 1975 all’on. Luigi Gui, ministro dell’Interno, Roma. L’attività delle Brigate Rosse.
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zia, dell’SdS prima e del Sisde poi» e del Sid prima e del Sismi poi, non avevano approdato a «nulla di concreto»78. Anni dopo il Sisde smentì anche le notizie, rilanciate da quotidiani italiani nel 1980, riguardanti i campi di addestramento in Cecoslovacchia a Karlovy Vary e Doupov, in quanto «tale circostanza non trova riscontro negli atti esistenti» e «nulla di specifico risulta agli atti»79. In sostanza, concludeva il Servizio, «nessuno può dubitare che estremisti o terroristi di vari Paesi cerchino di porre in comune, con gli scritti o attraverso convegni più o meno clandestini […] le reciproche esperienze di lotta contro l’imperialismo», così come era provato che in nome della «solidarietà militante» ci fosse stato un supporto logistico tra gruppi appartenenti a Paesi diversi, ma restava del tutto «episodica» l’utilizzazione di armi di provenienza sospetta e, in particolare, di «due fucili mitragliatori Kalashikov, una o due pistole Nagant e i due missili terra-aria sequestrati ad Ortona per i quali, tuttavia, resta dubbio se fossero destinati al teatro italiano»80. Il Sisde si pose il problema del concetto di «terrorismo» e della differenza tra «terrorista», «eversore», «atto di terrorismo», «atti compiuti da terroristi» e «atti di terrorismo», non dimenticando che alcuni elementi considerati terroristi erano stati ribattezzati «patrioti» o «padri della patria». L’esempio portato riguardava Menahem Begin, all’epoca primo ministro israeliano, già dirigente del gruppo Irgun, autore nel 1946 di un clamoroso attentato al King David Hotel di Gerusalemme nel corso del quale persero la vita 91 persone81. Il Servizio definì «atto di terrorismo» un’azione che presentasse in tutto o in parte le seguenti caratteristiche: illegalità e violenza; movente politico; presenza di un bersaglio primario e di un bersaglio secondario; il soggetto attivo era costituito da individui che operavano in condizione di clandestinità o di copertura; scopo dichiarato, provocare «terrore» in settori quanto più vasti possibile della società e, contestualmente, avere la massima visibilità possibile sui mezzi di informazione. L’eversione era definita come «l’insieme delle attività illegali, politicamente motivate, spesso ma non necessariamente violente […] poste in essere da individui che sovente agiscono ai margini della legalità». Il terrorismo era considerato come uno degli strumenti «utilizzati dagli eversori per raggiungere i loro fini» al punto che ogni atto di terrorismo viene indicato come «atto di sovversione». Dunque, se tutti i terroristi 78 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 A, faldone 5, SISDE, Appunto, Pretese interferenze straniere nel terrorismo italiano, 1980. 79 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 A, faldone 5, SISDE, 1/11228, Al signor capo di gabinetto dell’on/le sig. ministro dell’Interno, Roma, 4 giugno 1980, f. 4, f.to il direttore Giulio Grassini, Roma 3 gennaio 1980. 80 Ivi, f. 6. Il 7 novembre 1979 a Ortona furono arrestati Daniele Pifano, leader del collettivo di via dei Volsci, Giorgio Baumgartner e Giuseppe Luciano Nieri, mentre trasportavano i due missili e qualche giorno dopo fu arrestato anche il referente in Italia del FPLP Abu Anzeh Saleh. Qualcuno ha voluto vedere un collegamento tra questa vicenda e la strage di Bologna, che sarebbe stata una ritorsione per la violazione del «Lodo Moro». La sproporzione tra le due vicende ci induce a escludere la circostanza, a prescindere dal fatto che fino a oggi l’ipotesi si è sempre rivelata priva di fondamento documentale. 81 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 5, Sisde, Origini del terrorismo italiano, passim.
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erano eversori, non era necessariamente vero il contrario. L’attività delle Br rientrava in quello che il Sisde chiama «terrorismo strategico», ossia l’attività di gruppi che agiscono «secondo linee di progettualità operativa e politica nel contesto di una pianificazione eversiva di respiro strategico». L’indice di rivendicazione delle azioni armate, altissimo nelle Br, per il Sisde era inversamente proporzionale alla «spontaneità del fenomeno […] e direttamente proporzionale alla capacità di organizzazione e programmazione operativa dei gruppi armati». Per quanto riguardava l’area sociale e la struttura di quello che era definito il «partito armato» (dunque non solo le Br ma tutta l’area della sinistra rivoluzionaria), i dati in possesso del Servizio indicavano una predominanza maschile (circa l’85%) e di laureati (circa il 54%), contro il 23% di diplomati e il 21% in possesso della licenza media. Per quanto atteneva l’estrazione sociale dei singoli, si registrava una prevalenza dell’elemento operaio e piccolo borghese (60% ma sono messe insieme due figure diverse). L’analisi generazionale portava a concludere che una delle concause del fenomeno era stata «la rapida e disordinata urbanizzazione, collegata a una crescita industriale geograficamente localizzata in taluni “poli” e il conseguente sviluppo di aree urbane depresse». In altre parole, la «necessità di adattarsi a nuovi modelli culturali non può non aver provocato nei […] figli della prima generazione di emigrati forti tensioni emotive che non raramente hanno trovato razionalizzazione e canalizzazione in ambito politico-ideologico»82. La lotta armata era l’evoluzione, «e non una variante impazzita di una serie complessa e articolata di fenomeni che affondano le loro radici in cause economiche, politiche e sociali». All’inizio il fenomeno di aggregazione era avvenuto per piccoli gruppi, come l’area dell’autonomia o il cosiddetto movimento, che nel periodo 1965-1968 coniugarono il marxismo classico all’underground e ai temi della libertà personale e sessuale. Probabilmente, continuava il Sisde, su questo terreno si era manifestata l’influenza «delle elaborazioni teoriche formulate […] da soggetti appartenenti alle classi medie e di livello culturale medio alto, sia […] [la] nuova realtà sociale instauratasi a seguito delle tensioni e rivendicazioni dell’autunno caldo del ’69». In una seconda fase si formarono i collettivi politici che preludono a una terza fase («pre rivoluzionaria o rivoluzionaria») in cui i gruppi o singoli individui erano confluiti nella rivolta armata. Le maggiori formazioni, come le Br, mediante la diversificazione degli obiettivi, l’innalzamento del livello dello scontro, l’escalation qualitativa e quantitativa degli attentati, l’accurata preparazione degli stessi ecc. perseguivano i seguenti scopi: «esasperare i grandi temi della lotta politica e sindacale» come le multinazionali e il capitalismo di Stato, la disoccupazione, il lavoro nero, la nocività sul lavoro, il problema della casa, gli ospedali e le carceri; «manifestare con forza organizzativa e operativa tale da costruire un polo di attrazione per le minori organizzazioni eversive (area del terrorismo indotto e diffuso)»; infine, «costringere […] i simpatizzanti dei vari movimenti estremisti alla aggre82 Ibid.
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gazione sotto l’etichetta vincente» delle Br83. In tale contesto, la clandestinità era divenuta sicuramente un elemento strategico della lotta armata e, se in alcuni casi la cosiddetta «repressione» aveva agito come una sorta di deterrente, in altri aveva costituito il motivo di un’ulteriore spinta verso una scelta definitiva. Le aree in cui il sovversivismo di sinistra trovò maggiore alimentazione erano quelle della fabbrica, il tradizionale terreno di scontro politico (e le statistiche in mano al Sisde indicavano che uno degli obiettivi principali degli attacchi era costituito proprio dal settore industriale); quelle dell’università, che grazie alle tradizionali autonomie, agli ampi spazi di discussione e alle abitudini assembleari consentivano «il massimo possibile di indottrinamento, coesione, manipolazione verticistica e “motivazioni” allo scontro armato». D’altronde le università, si notava, erano spesso dislocate in città industriali «sicché le stesse divengono un polo di riferimento obbligato per le più diverse componenti violente ed eversive». La terza era l’area del proletariato urbano, la più vasta, diffusa e difficile da controllare. Qui collettivi, comitati e circoli erano ampiamente diffusi senza grandi differenze geografiche, con una ovvia concentrazione maggiore nei poli urbani e industrializzati. Grande peso veniva dato alla decisione di Potere operaio di sciogliersi nel movimento per «esasperare in ogni modo il malcontento giovanile per condurre, dall’interno di realtà spesso disomogenee, una lotta capillare al sistema»84. La capacità attiva di Autonomia operaia di «egemonizzarela piazza e di aggregare sempre nuovi strati è ancora notevole, pur essendosi nel complesso alquanto ridotta rispetto al recente passato a causa della inchiesta giudiziaria» del 7 aprile 1979, con la quale erano finiti in carcere o costretti all’espatrio i più importanti dirigenti. In questo quadro, la tattica dell’innalzamento del livello dello scontro era «soprattutto diretta nei confronti del proletariato urbano». La quarta area, che si profilava allora era quella chiamata «del sottosviluppo», ossia, per usare un termine più vicino a quello dei brigatisti, del sottoproletariato urbano o marginale. Il Sisde aveva colto il fatto che «lo sfondamento della barriera del Sud», pur inquadrabile nell’ambito di talune esigenze propagandistiche, presentava «notevoli motivazioni pratiche». Una «pseudo coscienza meridionalista del Partito Armato consentirebbe allo stesso da un lato la strumentalizzazione di alcune situazioni socio-politiche locali favorevoli al ribellismo e, dall’altro, potrebbe favorire la diffusione e la ricezioni delle tesi più estremistiche e violente in seno agli immigrati meridionali e/o di recente inurbazione».
Collegata a quest’ultima troviamo quella «dell’emarginazione penale», che sarebbe confluita nella breve parabola del Partito guerriglia. Essa comprendeva i delinquenti 83 Ivi, f. 13. 84 Ivi, f. 18.
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comuni che, a contatto con i politici, aderivano alle tesi del Partito armato; i familiari dei medesimi e soggetti diversi che «mossi da impulsi ideologici […] ne condividono le scelte eversive», con riferimento presumibilmente agli avvocati. Questo perché, per il Sisde, ogni detenuto, ogni soggetto ai margini della legge, «soprattutto se giovane, è portatore in realtà di una carica di antagonismo che, dalla sfera privata e sociale, può facilmente espandersi alla sfera politica»85. In conclusione il Sisde affermava che le cause del «terrorismo di sinistra» fossero «soprattutto endogene» e che i suoi appartenenti provenissero dalle fila comuniste e anche dei cattolici progressisti «animati da smania di agire a ogni costo e dal bisogno di svolte radicali». Chi erano questi giovani? Come esempio viene preso Renato Curcio, di cui si riporta una breve biografia. Di padre contadino, cattolico praticante, aveva frequentato la facoltà di sociologia di Trento. Convinto che solo un partito di puri rivoluzionari di professione avrebbe potuto vincere lo scontro tra capitale e lavoro, fece del «proletariato» «una categoria dello spirito» più di «una realtà complessa […] in continuo mutamento», bisognosa di «pastori e di avanguardie». Con i suoi si proclama «combattente del proletariato», senza avere dietro di sé, come Lenin, le grandi forze del proletariato industriale e agendo dunque più per un atto di volontà che per una condizione immanente alla storia.
85 Ivi, f. 22.
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Capitolo 3 Le Brigate rosse in carcere
3.1 Il processo guerriglia Agli arresti del 1974 di Curcio e Franceschini ne seguirono altri importanti nel corso del 1975, tra cui il secondo dello stesso Curcio, nel frattempo evaso dal carcere di Casale Monferrato. Alla fine un numeroso gruppo di brigatisti, definito «nucleo storico», si ritrovò in prigione e a processo. E se il progetto di rapire un importante leader politico democristiano era nato prima dell’apertura del processo di Torino del maggio 1976, il sequestro di Aldo Moro divenne inevitabilmente l’occasione per dare vita al controprocesso alla Democrazia cristiana, nel momento in cui si tenevano le udienze contro il nucleo storico. Quando, nel maggio 1976, si aprì a Torino il dibattimento, i brigatisti alla sbarra cercarono di trasformare il processo in «processo guerriglia»1 nella prospettiva di trasformare l’aula di giustizia in una tribuna rivoluzionaria all’interno di una grande azione di denuncia e propaganda. L’obiettivo era quello di trasferire il confronto dal piano giudiziario a quello storico-sociale, dalla legalità alla legittimità. La difesa d’attacco era il proseguimento dell’offensiva politica. Dei 23 rinviati in giudizio, solo 11 erano detenuti: Pietro Bassi, Pietro Bertolazzi, Alfredo Buonavita, Renato Curcio, Valerio De Ponti, Paolo Maurizio Ferrari, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari, Arialdo Lintrami, Roberto Ognibene e Tonino Paroli. Essi, nel corso della prima udienza lessero un Comunicato con il quale chiarirono «al movimento rivoluzionario» che la decisione di presentarsi in aula era prettamente politica e doveva servire a denunciare l’uso controrivoluzionario che la borghesia intendeva fare della «giustizia». Si accusava il tribunale di Torino di voler colpire la lotta armata per il comunismo processando la rivoluzione proletaria. Gli imputati si proclamarono militanti delle Brigate rosse e combattenti comunisti e si assunsero collettivamente la responsabilità di ogni iniziativa passata e futura dell’organizzazione. I difensori, in tale vi1 La formula del «processo guerriglia» non aggiungeva molto di nuovo alle precedenti formule del «processo rottura» coniate nell’Ottocento dai primi militanti rivoluzionari blanquisti e poi rese famose a metà del Novecento dal collegio dei militanti dell’Fln durante la guerra d’Algeria; J. Vèrges. De la stratégie judiciaire, Editions de Minuit, 1968.
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sione, servivano solo a portare a termine il processo al comunismo e veniva revocato loro il mandato. Nel caso fossero stati nominati avvocati d’ufficio i brigatisti rifiutavano in anticipo ogni collaborazione. La seconda parte del documento si riferiva allo «Stato imperialista delle multinazionali» come allo strumento con il quale la borghesia avrebbe imposto un rigido controllo sulla società distruggendo ogni resistenza per superare le contraddizioni strutturali che il capitalismo stava vivendo. Lo Stato nato dalla Resistenza andava verso la dissoluzione e l’accordo tra la Democrazia cristiana e il Pci non era in grado di evitarne la deriva «neogollista», perché la scelta riformista significava l’accettazione del neoliberismo e la rinuncia a una politica in favore del proletariato. La dirigenza del Pci – gli «agenti riformisti» – era accusata di voler modificare la coscienza di classe e svigorirne il potenziale rivoluzionario prospettando falsi obiettivi, come il compromesso storico. Al di là delle velleità di cui si ammantava, il compromesso storico non poteva che rappresentare una soluzione tutta interna alla controrivoluzione e «nel migliore dei casi sarà un proiettile di gomma nel fucile degli sbirri». Se lo Stato era lo strumento della controrivoluzione, dunque, lo si doveva disarticolare nei suoi centri vitali, portando l’attacco ai suoi apparati coercitivi (tribunali, prigioni – «lager di Stato» – centrali politiche che li dirigevano), che diventavano il primo obiettivo. Il processo, in ultima analisi, era uno dei momenti del confronto «politico militare» tra proletariato e borghesia2. Un secondo documento più breve, il Comunicato n. 2, considerava gli avvocati che avessero accettato la nomina della Corte come «collaborazionisti di questo Tribunale speciale». Li si invitava a rinunciare all’incarico mentre si sarebbero assunti tutte le responsabilità della scelta contraria di fronte al movimento rivoluzionario3. I difensori di fiducia Giannino Guiso, Corrado Costa, Paolo Rosati, Edoardo Arnaldi e Edoardo Di Giovanni, appena revocati, aderirono alle richieste dei brigatisti denunciando la presenza di un muro di incomunicabilità tra la Corte e gli imputati: «È un processo politico e lo dimostra lo stato d’assedio in cui si trova questo tribunale e questa città. Noi avvocati abbiamo denunciato l’inopportunità di celebrare il processo in un clima pre-elettorale4. Non siamo stati ascoltati. Oggi il processo è contro questi imputati. Domani i giudici potranno essere a loro volta giudicati: la storia cambia i ruoli. Chiediamo alla corte di non essere nominati difensori d’ufficio»5. 2 Il documento recava le firme di Buonavita, Bassi, Curcio, Franceschini, Ferrari, Bertolazzi, Lintrami, Paroli, Ognibene e Gallinari; in Emilio R. Papa, Il processo alle Brigate rosse, Giapichelli, Torino 1979, pp.19-23. 3 Ivi, p. 23. 4 In giugno si sarebbero svolte le elezioni politiche che avrebbero determinato una netta avanzata del Partito comunista italiano. Era una conferma indiretta, dopo quella del referendum del 1974, che il brigatismo non incideva, con le sue azioni, sui risultati elettorali italiani o, almeno, non in modo sfavorevole alla sinistra. 5 Emilio R. Papa, Il processo alle Brigate rosse, cit., pp. 24-25.
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Il 17 maggio 1976, primo giorno del processo, dunque, segnò un successo per il brigatismo, sebbene il presidente della corte d’assise, Guido Barbaro, non potendo contravvenire alle regole, nominò 10 difensori d’ufficio. Il processo, oltre a segnare un nuovo capitolo nella guerra del (e al) brigatismo, fu importante anche per un altro motivo in quanto si riconosceva da parte della magistratura il carattere politico del fenomeno, definito ancora in quei mesi sui giornali, e anche negli anni seguenti da molte forze politiche, specialmente di sinistra, come «sedicente rosso». I rapporti di polizia e carabinieri, e le indagini della magistratura, parlavano diversamente: almeno dal 1972, e sicuramente a partire dal 1974, si riconosceva il carattere politico dell’organizzazione delle Brigate rosse; in nessun caso, si affermava, nelle azioni dei brigatisti erano stati riscontrati «lineamenti di criminalità comune»; i sequestri di persona non avevano avuto scopo estorsivo e gli incendi dolosi non mostravano il carattere di una vendetta privata. Lo scopo delle azioni brigatiste, in sintesi, era quello di «combattere lo Stato democratico e costituzionale quale è oggi, con il fine di dare tutto il potere al popolo armato attraverso il mezzo della guerra di classe». Neanche le rapine attribuite all’organizzazione potevano essere considerate semplici crimini finalizzati all’arricchimento personale, in quanto fungevano da «metodo di autofinanziamento», secondo quanto si poteva leggere nei manuali di guerriglia di Marighella e Mario Rossi, lì citati6. A Torino, per tornare al 1976, gli avvocati nominati difensori di ufficio rifiutarono l’incarico adducendo come motivazione generale «l’arbitriarietà del criterio della designazione», congiunta ad altre di carattere più personale (dagli impegni già presi, al sentirsi parti offese dalle dichiarazioni lette in aula da Ferrari a nome dell’organizzazione durante la prima udienza). Di fronte a quella chiusura la Corte fu costretta a nominare nuovi difensori nelle persone di Fulvio Croce (un civilista presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati e procuratori di Torino) e l’avvocato Pierangelo Accatino per il solo Rocco Micaletto, ancora latitante. Croce accettò l’incarico e delegò alla difesa 8 avvocati (di cui 5 civilisti) consiglieri dell’ordine. A questa nuova nomina i brigatisti risposero con due Comunicati, dei quali il n. 4 appare più articolato. Vi si notava come in un processo politico la funzione degli avvocati fosse quella di tentare di stabilire un terreno di mediazione tra rivoluzione e controrivoluzione, cosa che veniva rifiutata, mentre la dichiarazione contenuta nel primo Comunicato aveva capovolto i ruoli e gli imputati erano diventati (autonominandosi) pubblici ministeri. Qualunque avvocato difensore, e per questo definito «difensore di regime», avrebbe sostenuto le argomentazioni dei giudici-imputati. Era un nemico della rivoluzione e sarebbe stato combattuto come tale7. L’atteggiamento dei brigatisti finalizzato a provocare il fallimento del processo ver6 Ivi, pp. 25-29. 7 Emilio R. Papa, Il processo alle Brigate rosse, pp. 41-42.
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teva su due questioni non del tutto irragionevoli. La prima riguardava la possibilità per un imputato di potersi difendere da solo, prevista da alcuni ordinamenti, ma non da quello italiano. La seconda, più generale, riguardava la natura di quel processo, la legittimità di un procedimento «spettacolo» nel corso del quale si pretendeva di giudicare un gruppo di imputati per reati loro attribuibili solo per associazione, dopo che se ne erano assunti la responsabilità politica. L’avvocato Papa nel suo documentato volume nota che la questione sollevata dai brigatisti era di primaria importanza, non solo da un punto di vista politico o di diritto tecnico, ma anche da quello del rapporto tra imputato (cittadino) e istituzioni. Si chiede Papa: «In nome di chi o di che cosa un avvocato può difendere in un processo penale? In nome delle istituzioni e contro l’imputato? Per amore alle istituzioni e in odio all’imputato? Nella logica delle istituzioni e sfidando l’imputato? Se le istituzioni impongono all’avvocato una rappresentanza meramente formale dell’imputato […] violano con ciò il diritto alla difesa, patrimonio esclusivo della libertà di coscienza dell’individuo. Consentendo una tale iniquità, civile, politica, dietro l’alibi di un falso tecnicismo giuridico, non si difendono le istituzioni democratiche. Anzi, si evoca, seppur involontariamente lo Stato-Moloch»8.
Lo Stato italiano mostrava sempre la medesima faccia, che escludeva ogni dialogo e la conseguente possibilità di una risposta articolata, tale da combattere il fenomeno della lotta armata senza smarrire le proprie caratteristiche. Lo Stato, insomma, privilegiando la sola risposta repressiva in senso militare, finì in parte per mutare il proprio profilo istituzionale e giuridico. Secondo gli articoli 21, 24 e 6 lettera C della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della salvaguardia delle libertà fondamentali9, un imputato aveva il diritto di difendersi da solo durante un processo. Come fecero rilevare gli avvocati consiglieri dell’ordine di Torino delegati dal presidente Croce, che cercarono fin dall’inizio una via d’uscita giuridica dall’intricata situazione nella quale si erano trovati coinvolti, gli articoli del codice italiano di procedura penale che vietavano tale diritto erano da considerarsi illegittimi. Erano, inoltre, anticostituzionali, in quanto violavano la lettera dell’articolo 21 della legge fondamentale, per il quale «tutti hanno diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione», cosa per gli imputati impossibile da fare attraverso un difensore imposto contro la loro volontà10. Questo documento fu scritto nel corso della prima settimana di giugno, ma quando venne 8 Ivi, p. 59. 9 La «Convenzione» fu firmata il 4 novembre 1950 e ratificata dal parlamento italiano il 4 agosto 1955. 10 Il documento, firmato dagli 8 consiglieri delegati dal presidente dell’Ordine di Torino, Croce, è riportato in Emilio R. Papa, Il processo alle Brigate rosse, pp. 136-142.
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presentato alla Corte, il 9 del mese, le Brigate rosse avevano appena portato a termine il loro primo agguato mortale pianificato. L’8 giugno 197611 due nuclei della Colonna genovese assassinarono il magistrato Francesco Coco e i due uomini di scorta, il brigadiere Giovanni Saponara e l’appuntato dei carabinieri Antioco Deiana. I primi due furono uccisi sulla scalinata di Santa Brigida, Deiana fu colpito negli stessi istanti in via Balbi, dove era rimasto al volante dell’auto di servizio. L’azione chiuse il conto con il rapimento Sossi, che le Br avevano liberato sulla parola. Inoltre, con questa azione le Br cercarono di imporsi come l’organizzazione guida che dettava i tempi e il livello dello scontro con lo Stato colpendo un obiettivo inviso a molti militanti extraparlamentari. All’interno dell’organizzazione si era ormai compiuto un processo che si sarebbe rivelato irreversibile: se lo Stato «processava la rivoluzione» le Brigate rosse rilanciavano. L’omicidio di Coco e della sua scorta segnò un salto nella pratica brigatista della propaganda armata, che continuò comunque nel dialogo costante con le lotte avanzate del proletariato urbano e di fabbrica. La rivendicazione dell’omicidio di Coco e dei suoi agenti assunse forme più rigide e meno compromissorie rispetto al passato. Si diceva che il tribunale del popolo aveva deciso di porre fine «al bieco operato» del magistrato e dopo l’esecuzione della sentenza «gli aguzzini del popolo possono stare sicuri che se il proletariato ha una pazienza infinita ha anche una memoria prodigiosa, e che alla fine niente resterà impunito». Coco era definito un «feroce nemico del proletariato» e se ne ripercorreva l’attività, tutta incentrata nella persecuzione della classe lavoratrice. Lo si accusava di aver insabbiato l’indagine sul crollo di una palazzina in via Digione a Genova, che nel settembre 1970 aveva provocato la morte di 18 persone, di aver archiviato le denunce provenienti da alcuni detenuti nel carcere di Marassi sui pestaggi subiti nell’ottobre 1971, di aver preparato e attuato in accordo con Mario Sossi l’attacco contro la 22 Ottobre al fine di distruggere ogni tentativo di sviluppare la lotta armata per il comunismo, adoperandosi con «la consueta ferocia» e usando in chiave militare tutti gli organi dello Stato, con il risultato di «quattro ergastoli e alcuni secoli di galera per tutti i compagni». Ci si rivolgeva al movimento autonomo, al quale si spiegava il significato politico dell’azione: «Compagni, nel tentativo di arginare la sua crisi la borghesia ha scelto la linea della crescente militarizzazione dello Stato»; da tempo, si diceva, era cominciato il rafforzamento dell’apparato coercitivo con la creazione di gruppi e forze speciali all’interno di polizia e carabinieri, che «scorrazzano come bande di assassini». I militanti proletari venivano processati da nuovi tribunali speciali, mentre nelle carceri si 11 L’attentato doveva avvenire in maggio, due settimane prima, ma fu rinviato in quanto Coco si trovava in congedo a Bari. L’allora ministro degli Interni Francesco Cossiga successivamente ha ricordato che avrebbe voluto recarsi a Genova appena saputo del delitto, ma che venne fermato da Aldo Moro, all’epoca presidente del Consiglio di un governo monocolore democristiano che si appoggiava sull’astensione di Pri e Pli, il quale lo sconsigliò di farsi modificare l’agenda dal terrorismo; «Corriere della Sera», 18 maggio 2004.
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procedeva al tentativo di distruzione fisica dei detenuti. Nella lettura per cui la borghesia aveva già stabilito che lo Stato italiano andava rifondato secondo la prospettiva delle multinazionali, le elezioni politiche del 20 giugno 1976 avrebbero deciso solo chi avrebbe realizzato il progetto. Si invitavano tutti a disertare le urne, definite una «linea avventuristica e suicida» in un contesto nel quale l’unica alternativa valida era la lotta armata per il comunismo. Per quanto riguardava il processo di Torino, il volantino ripeteva che gli imputati erano da considerarsi prigionieri politici e si chiedeva per loro il trattamento stabilito dalla convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra. Il non rispetto di quelle norme sarebbe stato giudicato un crimine e si sarebbe risposto con la rappresaglia e la «giustizia proletaria». Veniva infine ricordata Mara Cagol a un anno dalla sua morte alla cascina Spiotta. Il 9 giugno 1976, giorno in cui fu presentata la memoria di eccezione dei difensori d’ufficio, Prospero Gallinari provò a leggere un Comunicato di rivendicazione dell’assassinio rivolgendosi alla Corte: «Ieri, 8 giugno 1976 nuclei armati delle Brigate rosse hanno giustiziato il boia di Stato Francesco Coco». Gallinari non riuscì a proseguire per l’intervento dei carabinieri; il documento diceva che l’azione dava corpo alla linea strategica dell’attacco al cuore dello Stato, mentre si criticava il Pci per non aver reagito ai ricordati assassinii di Milano e Sezze, a conferma del suo ruolo revisionista. L’azione contro Coco, che sviluppava e concludeva quella di due anni prima contro Sossi, non voleva essere una rappresaglia, ma doveva aprire «una nuova fase della guerra di classe» che puntava a disarticolare l’apparato dello Stato colpendone la dirigenza controrivoluzionaria. Gli agenti di scorta uccisi erano definiti «mercenari» e «sgherri» e si invitavano gli altri «mercenari» che non ne volevano condividere la sorte a «cambiare mestiere». «Oggi, insieme a Coco, siete stati giudicati anche voi, egregie eccellenze», e con ciò era dimostrato che il processo alla rivoluzione proletaria era impossibile12. Dopo il tentativo di lettura del Comunicato da parte di Gallinari la Corte respinse l’eccezione presentata dagli avvocati affermando che «la difesa tecnica» non precludeva, ma «affiancava» quella personale. Il difensore tecnico, inoltre, era chiamato a svolgere una funzione di garanzia processuale, ponendosi come mezzo di controllo e di verifica. Il processo fu rinviato al 16 settembre in attesa della decisione della Cassazione su un conflitto di competenza territoriale con Milano. In quei mesi di interruzione Fulvio Croce promosse l’idea di una «leggina», come la definì in una missiva al presidente del Consiglio nazionale forense e deputato Aldo Casalinuovo, che permettesse agli imputati che lo desideravano di difendersi da soli13, mentre diffuse ai colleghi torinesi una lettera-circolare nella quale, dopo aver esposto i fatti, chiedeva un giudizio sulla questione, ossia se «un avvocato d’ufficio possa in co12 Processo di Torino, Comunicato n. 6. Interamente consultabile in http://www.sebbenchesiamodonne.it/comunicato-n-6-sulluccisione-difrancesco-coco/. 13 La missiva, del 16 giugno 1976, si trova in Emilio R. Papa, Il processo alle Brigate rosse, cit., pp. 53-54. Dello
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scienza curare la difesa di un imputato il quale con piena consapevolezza rifiuta di essere assistito», andando dunque contro la volontà dell’imputato stesso14. Croce tentò di dimostrare alla Corte l’incompatibilità della difesa da parte degli avvocati delegati con le minacce che i brigatisti avevano formulato contro di loro nel corso dell’udienza del 9 giugno. Quindi denunciò alla Procura della repubblica di Bologna, per minacce gravi e tentata violenza privata, Gallinari e gli altri imputati. Sul fronte delle indagini il 30 luglio fu ritrovata la borsa di Adriana Garizio, assistente volontaria di architettura al Politecnico di Torino, che conteneva alcuni documenti brigatisti. Ulteriori indagini fecero rinvenire documenti e lucidi delle fognature delle Carceri Nuove di Torino e subito si pensò a un piano per far evadere i brigatisti sotto processo; di conseguenza le misure di sicurezza furono accresciute. Per l’omicidio di Coco e degli uomini della sua scorta, intanto, ci si concentrò sui nomi di Giuliano Naria e Rocco Micaletto, sospettati di essere militanti della Colonna genovese. Secondo alcune testimonianze, in particolare, Naria, che era noto in città come militante della sinistra extraparlamentare, era stato riconosciuto come l’assassino di Deiana. Fu arrestato il 27 luglio 1976 assieme a Rossella Simone, che sarebbe divenuta sua moglie in carcere, in Val d’Aosta, ma non per l’omicidio di Deiana, bensì per il sequestro di alcune ore del capo del personale dell’Ansaldo meccanica Vincenzo Casabona, avvenuto l’anno prima15. Naria si dichiarò militante comunista ma non prigioniero politico e scelse di difendersi16. Il comportamento di Naria, la sua smentita di essere un brigatista, provocò nell’opinione pubblica una divisione tra innocentisti e colpevolisti, perché le prove contro di lui erano molto deboli e le testimonianze contraddittorie. Oltre alla decisione personale del sospetto brigatista genovese di difendersi secondo le regole di un normale processo, altre circostanze favorirono la conclusione della sua vicenda processuale con il proscioglimento per l’omicidio di Coco e per l’appartenenza alle Brigate rosse, sebbene dopo molti anni di carcerazione preventiva all’interno del circuito delle carceri speciali (la sentenza di secondo grado è dell’aprile 1985). La sua storia personale era quella di un operaio politicizzato molto conosciuto all’interno dei gruppi genovesi per aver militato dalla fine degli anni Sessanta nel Partito marxista-leninista d’Italia e poi in Lotta continua. Da quando le Br erano comparse a Genova, gli organi inquirenti non riuscivano a dare una svolta alle indagini e stesso tenore, una missiva indirizzata quello stesso giorno a Carlo Fornatio, presidente dell’Unione delle Curie in ivi, pp. 147-148. 14 Il testo della lettera, così come l’analisi delle risposte, in ivi, pp. 55-60. 15 Naria era stato licenziato dall’Ansaldo nel 1975 per «assenteismo» e circolava la voce, essendo stato Casabona responsabile del suo licenziamento, che si fosse trattato di una vendetta personale. In realtà Naria era stato più volte minacciato di licenziamento per la sua attività politica, ma il sindacato, tranne l’ultima volta, era riuscito sempre a tutelarlo. Casabona non identificò Naria tra i suoi rapitori (che erano comunque incappucciati) e questi fu prosciolto in istruttoria. 16 In seguito fece la stessa cosa anche Piero Morlacchi.
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si aveva quindi il sospetto che avessero bisogno di un nome a ogni costo; ben presto risultò che le indagini erano state condotte in modo poco professionale17, per non dire dei maggiori testimoni contro Naria, due delinquenti abituali facilmente ricattabili18. La procura di Torino, poi, quando all’inizio di luglio ricevette per competenza l’inchiesta, emanò dieci comunicazioni giudiziarie, rivelatesi in seguito inconsistenti19. A tutto questo si aggiunga che quando Naria fu arrestato, come detto, il mandato di cattura si riferiva al sequestro Casabona e non all’uccisione di Coco e della sua scorta, cosa che agli occhi dei più attenti poteva avere solo un significato: gli indizi contro Naria per gli omicidi non erano solidi. Il mandato di cattura per l’omicidio Coco sarebbe stato spiccato solo il 6 ottobre e avrebbe contenuto motivazioni deboli. Grazie alla modifica dell’articolo 272 del codice di procedura penale, operato con il decreto legge del 15 dicembre 1979 che prolungava i termini di durata massima della custodia preventiva di un terzo per i reati di terrorismo, Naria rimase in carcere mentre il processo si aprì solo nel marzo del 1980, quattro anni dopo l’arresto. Le Br non smentirono mai l’appartenenza di Naria all’organizzazione, come invece avvenne in altri casi in cui furono accusati degli innocenti. Preferirono tacere, attendendo lo sviluppo del caso giudiziario che, sebbene aprisse una contraddizione all’interno della loro strategia processuale generale, non era tale da provocare problemi non risolvibili con un minimo di apertura. Per il clamore provocato dal processo di Torino e da vicende come quelle di Naria, sulla stampa italiana si cominciò a dibattere la questione della difesa penale del brigatismo. Ne aveva parlato per prima «La Stampa» con un intervento del vicedirettore, Carlo Casalegno. Egli sosteneva che i brigatisti erano processati per reati di criminalità comune e per costituzione di banda armata, non per le loro idee. A questo articolo erano seguiti uno scritto di A.C. Jemolo, che riteneva doversi procedere comunque con la difesa tecnica, la sola in grado di garantire l’imputato, e uno di Alessandro Galante Garrone, che cercava di comprendere le ragioni di entrambe le parti20. Il già citato Papa fu tra coloro che sostennero la tesi dell’autodifesa e con un articolo pubblicato su «La Gazzetta del Popolo» ricordava la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, soffermandosi sul principio che doveva ispirare uno Stato di diritto: «rendere giustizia» e non «imporre all’individuo una spe17 Un primo identikit poco somigliante a Naria, per esempio, era stato sostituito dopo un paio di giorni con uno molto somigliante, perché ricavato da una sua foto. Circolarono anche i nomi di Lauro Azzolini e di Antonio Savino. 18 Si trattava del cittadino jugoslavo Zoran Grbelja, detto Tony lo slavo, in seguito arrestato per reati contro il patrimonio, e Elio Leonardi, di cui si diceva fosse un contrabbandiere conosciuto nel giro con il nome di «infame» in quanto confidente della polizia. 19 Il 10 luglio il «Secolo XIX» commentava: «Le 10 persone raggiunte da comunicazione giudiziaria sono state identificate attraverso la consultazione delle centinaia di foto che il nucleo di Dalla Chiesa ha raccolto. Con questo schedario i CC hanno battuto palmo a palmo via Balbi, utilizzando testimonianze incrociate». 20 «La Stampa», 11, 14 e 18 agosto 1976.
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cifica forma d’esercizio del suo diritto di difesa, negandogli l’autodifesa», per concludere che il diritto alla difesa doveva considerarsi sacro, inviolabile e irrinunciabile21. Il dibattito era nato in concomitanza con la decisione della Corte di Cassazione dell’11 agosto 1976 con la quale era stato deciso che il processo sarebbe continuato a Torino. Il 6 settembre la Corte d’Assise di Torino rinviò nuovamente il dibattimento, mentre la Corte di Assise di Napoli il 29 novembre dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata da Croce, in quanto «l’assistenza del difensore tecnico si risolve in ogni caso in un vantaggio per l’imputato in quanto il primo svolge quella funzione di controllo della osservanza delle norme processuali, che il secondo [l’imputato] normalmente non esperto di diritto, non potrebbe pienamente svolgere»22; inoltre tale difesa era esplicata anche per la salvaguardia «di interessi pubblici» in quanto l’imputato «è nel giudizio portatore non solo del proprio personale interesse alla difesa, bensì anche dell’interesse della società alla tutela dei beni supremi quali la giustizia e la libertà». Quindi il diritto alla difesa, sancito dall’articolo 24 della Costituzione «costituisce per lui anche un obbligo». In relazione agli articoli della Convenzione europea, poi, affermava che era posta con essi una «norma di carattere programmatico, contenente una affermazione di principio senza specifici precetti, la quale non rappresenta come tale una modifica legislativa delle norme contenute nel vigente codice di rito, né si pone in contrasto con esse, giacché non sancisce affatto l’esistenza di un diritto primario all’autodifesa dell’imputato […] ma solo la parificazione del diritto dell’imputato di difendersi personalmente con quello di farsi assistere o addirittura rappresentare da un difensore di fiducia o d’ufficio»23.
Il 4 aprile 1977 il tribunale di Bologna respinse le istanze dell’ordine degli avvocati torinesi, in quanto le minacce subite dai difensori non erano né gravi, né credibili e dunque non perseguibili d’ufficio. Il 26 aprile, quindi, i termini della carcerazione preventiva furono nuovamente modificati in senso restrittivo: tutti i brigatisti in carcere in attesa di giudizio, compresi quelli già sotto processo, non avrebbero avuto la possibilità di usufruire della legge cosiddetta Valpreda24. Ciò si era reso necessario a causa dei continui rinvii subiti dal processo, che aprivano la possibilità per molti imputati di lasciare il carcere. Con queste decisioni ci si lasciò dietro l’ultima possibilità di compromesso e le Br risposero con un nuovo omicidio. 21 «Gazzetta del Popolo», 18 agosto 1976. 22 Erano le motivazioni di Jemolo su «La Stampa». 23 Emilio R. Papa, Il processo alle Brigate rosse, pp. 149-151. 24 L’anarchico Pietro Valpreda era stato ingiustamente accusato della strage di piazza Fontana. La sua liberazione fu possibile grazie al varo di una legge, la cosiddetta «legge Valpreda» (legge n. 773 del 15 dicembre 1972) che, recependo le richieste provenienti dalla fortissima mobilitazione dei movimenti sociali dell’epoca (il Manifesto lo candidò nelle liste per le elezioni politiche del 1972), introdusse limiti alle misure cautelari anche nei casi di reati gravi come quello di strage.
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Due giorni dopo il decreto, infatti, un nucleo dell’organizzazione uccise Fulvio Croce, portando a termine un’azione dal significato controverso e che inizialmente era stata ipotizzata in forma non cruenta25. La rivendicazione parlava dello Stato imperialista delle multinazionali, del processo di Torino e dell’azione controrivoluzionaria espletata con la difesa tecnica degli imputati. La «corporazione» degli avvocati torinesi veniva descritta come una delle più reazionarie d’Italia, formata da molti «fascisti», dei quali venivano elencati i nomi. Si forniva anche una valutazione negativa del movimento del ’77, definito spontaneistico. Le forze rivoluzionarie dovevano riunificarsi attraverso una strategia politico-militare in grado di condurre alla fondazione del partito combattente26. In realtà, lo si è visto, Croce stava lavorando affinché venisse varata una «leggina» che di fatto andava nella direzione delle rivendicazioni espresse dai detenuti sul diritto di autodifesa. L’avvocato, però, non incontrò mai i detenuti in carcere per spiegare la sua posizione e tantomeno fece loro conoscere per iscritto, o tramite un avvocato, il lavoro condotto dietro le quinte. Queste non seppero mai cosa stesse realmente facendo e, al contrario, ciò che appariva visibile ai loro occhi era un atto ostile: la denuncia promossa nei loro confronti per minacce e violenza privata davanti al tribunale di Bologna. Il delitto sconvolse l’intera regione, sebbene non più di mille persone prendessero parte ai funerali. Il presidente della Giunta regionale Aldo Viglione chiese un incontro urgente con il ministro dell’Interno Cossiga e con quello di Grazia e Giustizia Bonifacio, mentre il presidente del Consiglio regionale, Dino Sanlorenzo, chiese al Parlamento nuovi provvedimenti legislativi in grado di garantire lo svolgimento del processo. Le forze politiche piemontesi, infine, si appellarono alla cittadinanza affinché non si lasciasse intimorire e chi ne fosse stato chiamato assolvesse con senso civico alle funzioni di giudice popolare27. La paura di una rappresaglia da parte delle Br era alta ed era difficilissimo trovare cittadini disposti a indossare la fascia tricolore di giudici popolari. Sulla scrivania di Guido Barbaro, il presidente della Corte d’Assise, si accumularono i certificati medici28 e il 3 maggio, alla riapertura del processo, il presidente constatò che solo 4 degli 8 giudici popolari avevano accettato di entrare nel collegio; quello stesso giorno i brigatisti imputati diffusero il Comunicato n. 7, nel quale si affermava che 25 Tra gli altri parteciparono all’azione Lorenzo Betassa e Angela Vai; per la vicenda di quest’ultima si veda Giovanni Bianconi, Mi dichiaro prigioniero politico, Einaudi, Torino 2003, pp. 47-90. 26 In Emilio R. Papa, Il processo alle Brigate rosse, cit., pp. 165-166. 27 Si veda «la Gazzetta del Popolo», 30 aprile 1977. 28 Si deve ricordare che tra gli altri, Leonardo Sciascia ed Eugenio Montale giustificarono quanti si erano rifiutati di accettare il ruolo di giurati al processo perché lo Stato non era in grado di garantirne la sicurezza. Sciascia, in particolare, ebbe modo di affermare che non valesse la pena lottare per la sopravvivenza del regime. Si veda un commento di Giorgio Amendola al riguardo su «L’Espresso», 5 giugno 1977 ora anche in «L’Espresso 50 anni», cit., vol. III pp. 239-241.
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«il primo degli avvocati di regime, Fulvio Croce, che si era assunto in prima persona questo compito infame, è stato giustiziato. Le vostre reazioni isteriche, l’accorrere affannoso di ministri, magistrati, sbirri, giornalisti, a sostegno dell’ordine degli avvocati, esiguo baluardo della legalità dello Stato, dimostra nel modo più palese che, se ogni avvocato è l’altra faccia del giudice, l’avvocato di regime deve andare ben oltre la collaborazione, diventa di fatto parte organica e attiva della controrivoluzione»29.
Constatata l’impossibilità di comporre il Collegio, la Corte rinviò a tempo indeterminato il processo, mentre la magistratura cercò una risposta compatta all’uccisione di Croce. Il Consiglio superiore della magistratura chiese al governo l’assunzione del seguente decreto legge sospensivo della custodia cautelare in casi di terrorismo: «I termini massimi della custodia preventiva sono sospesi in caso di impossibilità di regolare svolgimento del giudizio e, nei procedimenti avanti la Corte d’assise, anche in caso di impossibilità di formazione del collegio, sempre che tali impossibilità derivino da fatti di eccezionale gravità ovvero dal comportamento dell’imputato o del difensore tendente a impedire lo svolgimento del giudizio»30.
Il Consiglio nazionale forense espresse la solidarietà ai colleghi piemontesi, mentre l’Unione delle curie dichiarò il 30 aprile che i suoi componenti, rappresentanti degli ordini forensi distrettuali, avrebbero offerto la propria disponibilità a collaborare nello svolgimento degli incarichi di difensori d’ufficio nel processo contro le Br. 3.2 Il regime differenziato Il processo alle Br era in rapporto non solo alla lotta armata, ma anche alla storia carceraria. L’esperienza italiana della violenza politica, tra le più lunghe d’Europa, ha reso difficile affrontare in modo sereno la questione carceraria negli anni Settanta e Ottanta. Il tema produce rimozione ed è frequentemente liquidato con la condanna di quanti hanno «meritato» il trattamento carcerario subìto. La questione della prigione «disumana» stenta ad essere compresa, soprattutto quando riguarda militanti di formazioni armate di sinistra, impedendo di affrontare gli aspetti disumanizzanti del carcere. Gli archivi delle carceri, specie le carceri speciali, sono chiusi a doppia mandata, impedendo così di scrivere una storia della differenziazione più completa, come anche quella dei militanti che hanno abitato quel circuito31. Tra gli avvenimenti principali, che avranno un ruolo determinante nelle scelte penitenziarie che stiamo per analizzare, si devono ricordare il rapimento del giudice Sossi, 29 Emilio R. Papa, Il processo alle Brigate rosse, cit., p. 43. 30 Ivi, p. 182. 31 Christian De Vito, Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia 1943-2007, Laterza, Roma-Bari 2009.
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la strage di piazza della Loggia, la bomba sul treno Italicus, l’arresto dei fondatori delle Br Curcio e Franceschini e, successivamente, quelli di Roberto Ognibene, Prospero Gallinari e Alfredo Buonavita, oltre alla morte dei nappisti Luca Mantini e Giuseppe Romeo. Fu nel 1974 che lo Stato intese mettere a punto la strategia di separazione carceraria, che doveva consistere nella divisione dei rivoltosi dalla massa dei «comuni» più restii a lottare, ed è interessante notare che tra i fautori di quella iniziativa ci fosse anche Francesco Coco e che lo stesso procuratore si oppose a una possibile riforma carceraria che andasse in altra direzione, chiedendo la «restaurazione negli istituti penitenziari di un regime rigido e repressivo»32. Solo tre anni più tardi, quando vennero scelti i detenuti da inviare nelle carceri «speciali», il giudice di sorveglianza del Tribunale di Firenze Alessandro Margara, di tutt’altro avviso rispetto a Coco, parlò di «una scelta abbastanza rozza e soprattutto incontrollata»33. Anche all’interno delle carceri italiane il ’68 aveva avuto ripercussioni importanti, segnando l’inizio di un periodo di lotta cominciato nella prigione torinese Le Nuove l’11 aprile 196934. Lo scontro, tanto generoso quanto accanito e che portò alla ribalta personaggi come Sante Notarnicola35 o Giorgio Panizzari36, nel 1974 stava gradualmente affievolendosi, perché non aveva portato i frutti sperati, ossia una riforma carceraria attesa dal secondo dopoguerra, inasprendo invece la crescente repressione e criminalizzazione dei detenuti. Se l’Amministrazione penitenziaria non esitava a utilizzare metodi violenti contro i rivoltosi37, dal 1974 rispose con l’uso di armi da fuoco alla maggiore intensità delle lotte nelle carceri. Venne proposto un coordinamento delle forze dell’ordine per organizzare una repressione sistematica, come attestato da una lettera confidenziale del 26 agosto 1973 inviata dal Ministro degli Interni Taviani al capo di Stato Maggiore della Difesa, ammiraglio Eugenio Henke38, e pubblicata su «il manifesto» poco dopo, rivelando le intenzioni delle autorità di im32 La citazione è tratta da una nota del segretario della D.G.II.PP. al Ministero di Grazia e Giustizia, e si riferisce a una nota del Procuratore Generale di Genova Francesco Coco, il quale consigliava di «risalire la china con un’attenta e severa rimeditazione e revisione degli indirizzi seguiti». ASR, Fondo Altavista, B.125, f. Riunione nello studio del sig. Direttore Generale per il giorno 7 giugno 1974 (situazione stabilimenti penitenziari), prot.n.30/74 Riservata della Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Genova, 7 giugno 1974, avente per oggetto Situazione delle Carceri, all’on. le Ministro Guardasigilli – Gabinetto e alla Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. 33 Conversazione con il giudice Alessandro Margara, 27 luglio 2010. 34 La prima rivolta in cui i detenuti comuni si batterono per migliorare le loro condizioni di vita è dell’11 aprile 1969, presso il carcere torinese Le Nuove. A questo proposito: Aldo Ricci, Giulio Salierno, Il carcere in Italia. Inchiesta sui carcerati, i carceri e l’ideologia carceraria, Einaudi, Torino, pp. 409-422. 35 Sante Notarnicola, L’evasione impossibile, Feltrinelli, Milano, 1972; Sante Notarnicola, L’anima e il muro, Odradek, Roma 2013. 36 Giorgio Panizzari, Libero per interposto ergastolo. Carcere minorile, riformatorio, manicomio criminale, carcere speciale: dentro le gabbie della Repubblica, Kaos Edizioni, Milano 1990. 37 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.56, f.3, fonogramma n.15 S 14 del Ministro di Grazia e Giustizia a tutti gli Ispettori Distrettuali, ricevuto dall’Ispettorato Distrettuale per adulti di Bologna 8 giugno 1972. 38 Roberto Pesenti, Le stragi del SID. I generali sotto accusa, Mazzotta, Milano 1974, pp. 25-26.
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piegare alcune unità delle Forze armate per affiancare gli agenti di custodia e le Forze di polizia39. Parallelamente la repressione toccò anche quei militanti che, fuori dal carcere, sostenevano il movimento dei detenuti: prime tra tutte Irene Invernizzi di Lotta continua e Franca Rame di Soccorso rosso40. Nel 1972 Invernizzi, uno dei pilastri della Commissione carceri di Lotta continua, fu accusata dal sostituto procuratore della Repubblica di Genova Mario Sossi di «associazione sovversiva e istigazione a delinquere». Secondo Sossi esisteva un piano eversivo che univa la Commissione carceri di Lc ai militanti della 22 Ottobre attraverso le corrispondenze che la militante intratteneva con Mario Rossi41. Si trattava di ipotesi, teoremi, che non trovarono riscontro ma che portarono al fermo della Invernizzi. La militante subì due perquisizioni domiciliari in cui le vennero sequestrate tutte le lettere scambiate coi detenuti comuni che le erano servite per redigere la tesi di laurea dalla quale venne tratto il famoso libro Il Carcere come scuola di rivoluzione42. Venne inoltre orchestrata una campagna stampa finalizzata a colpire la Commissione carceri di Lc e, al tempo stesso, il movimento dei detenuti a cui faceva riferimento43. In quel 1972 Invernizzi era stata interrogata anche dai giudici milanesi che indagavano sulla morte di Feltrinelli e sulle rivolte del carcere di San Vittore. Il giudice Colato asseriva che non dovevano essere sottovalutate né la tesi di laurea della Invernizzi e né i suoi scambi epistolari con i detenuti, in quanto rivelavano che nelle carceri italiane vi era «un abbozzo di organizzazione diretta a scardinare certe istituzioni»44. La volontà della magistratura era criminalizzare il lavoro della donna, che documentava le condizioni del carcere, ma che non aveva certo lo scopo di rovesciarne l’ordinamento. I magistrati, infatti, erano convinti che i detenuti comuni non fossero in grado di organizzare una vera rivolta politica e ancor meno di redigere piattaforme 39 «Lotta Continua», A.II, n.204, 5 settembre 1974, p. 1. 40 Nasce in modo informale (ispirandosi alla vecchia sigla del «Soccorso rosso internazionale» legato alla Internazionale comunista), attorno al collettivo teatrale La Comune di Dario Fo e Franca Rame nell’autunno del 1968, quando alla fine degli spettacoli venivano raccolti fondi per le fabbriche occupate, per sostenere compagni incarcerati nel corso delle lotte antifasciste e antimperialiste a livello nazionale e internazionale. Nel 1972 assunse la denominazione di «Soccorso rosso militante», «per rispondere in modo adeguato alle crescenti esigenze di sostegno legale ed economico». L’intervento venne esteso anche ai detenuti «comuni» che prendevano parte alle lotte carcerarie, C. G. De Vito, Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia, cit., p. 63. 41 Paolo Piano, op. cit.; AA.VV., La mappa perduta, Sensibili alle Foglie, Roma, 1995, p. 41-47; AA.VV., Le parole scritte, Sensibili alle Foglie, Roma 1996, p. 28-31. 42 FPII, documento intitolato Procura della Repubblica di Genova del 27 marzo 1972. Per gentile concessione di Christian De Vito. 43 Genova: cinque chili di documenti, «Corriere della Sera», 27 marzo 1972; Indiziata di reticenza l’“amica dei carcerati”, «La Provincia pavese», 29 marzo 1972; È diventato scottante il problema della riforma carceraria, «La Domenica del Corriere», 12 settembre 1972; La “bella di Mortara” preparava una rivolta con Rossi e Cavallero?, «La Stampa», 3 ottobre 1972; Pavia, la ragazza dello scandalo, «Il Secolo XIX», 12 novembre 1972. Vedi anche Irene Invernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione, prefazione di N. Bobbio, Giulio Einaudi editore, Torino 1973, p. 319-320. 44 Carceri: gridano congiura per la paura della lotta, «Lotta Continua», 14 aprile 1972.
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rivendicative o progetti di legge se non tramite l’aiuto di un esperto «esterno». Dopo un’ennesima rivolta a San Vittore, il direttore del carcere Corbo dichiarò che la situazione era stata strumentalizzata e, soprattutto, preparata all’esterno, ribadendo l’idea dell’impossibilità organizzativa dentro le mura detentive. Un processo contro Irene Invernizzi non ebbe mai luogo, ma la militante fu arrestata e accusata anche per il suo legame con i membri della «banda Cavallero»45. In modo analogo, anche Soccorso rosso militante avrebbe subìto varie misure repressive e costanti provocazioni che avrebbero raggiunto l’apice con lo stupro di Franca Rame, nel marzo 197346. Se la magistratura non aveva del tutto torto a pensare che stava nascendo proprio in seno al carcere un’organizzazione che aveva lo scopo di sovvertirne l’ordine, scelse obiettivi sbagliati: Lotta continua e Soccorso rosso non avrebbero mai approvato la scelta della lotta armata. Se prima la prigione era stata un luogo di rivolta nel quale battersi per ottenere migliori condizioni detentive secondo la tradizione della Commissione carceri di Lotta continua, dal 1974 e fino alla metà degli anni Ottanta divenne un terreno di lotta tra militanti di gruppi armati e istituzioni e più i primi popoleranno il circuito detentivo, più il mondo carcerario diventerà l’emblema dello scontro contro una legalità democratica che per loro era fondata solo apparentemente sul «diritto». Il carcere, che costituiva un luogo di lotta marginale rispetto le grandi lotte studentesche e operaie, divenne così uno dei centri della contestazione e lo Stato ne fece il terreno di nuove sperimentazioni: quello della repressione, delle leggi emergenziali e delle leggi premiali che regolamenteranno l’universo carcerario fino all’approvazione della Legge Gozzini nel 1986. 3.3 Le Murate e Alessandria Durante la notte del 23 febbraio 1974 alcuni detenuti della prigione fiorentina delle Murate si organizzarono per chiedere, una volta di più, la riforma dei codici e del regolamento penitenziario e il miglioramento delle condizioni di vita all’interno di un carcere fatiscente47. Come risposta furono accerchiati dalla polizia che, lanciando lacrimogeni, li obbligò a rifugiarsi sui tetti, com’era usuale fare all’epoca. Il periodo delle rivolte carcerarie rappresentò un momento di liberazione e di richiesta di rinnovamento: i detenuti uscivano dal buio delle celle in segno di protesta sfondando i tetti delle vecchie carceri, proprio come gli operai uscivano dalle fabbri45 Si tratta della banda guidata da Pietro Cavallero di cui faceva parte anche Sante Notarnicola, sgominata a Milano nel 1967. 46 Archivio del collettivo teatrale Fo-Rame, Soccorso Rosso, B.8, documento che inizia con «Cara compagna Franca», dell’11 marzo 1973. Vedi anche Milano – Sequestrata e percossa Franca Rame, in pieno centro e sotto gli occhi della polizia, «Lotta Continua», 11 marzo 1973. 47 Per leggere delle testimonianze dirette della rivolta, vedi Valerio Lucarelli, Vorrei che il futuro fosse oggi. Nuclei Armati Proletari: ribellione, rivolta e lotta armata, Edizioni L’Ancora, Milano, 2010, p. 51.
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che per pretendere migliori condizioni lavorative o come gli studenti abbandonavano scuole e aule universitarie. Nelle prigioni i corpi e i volti dei prigionieri erano sconosciuti, ma salendo sui tetti i detenuti diventavano visibili e protagonisti delle loro lotte. Dall’alto parlavano alla folla raccontando il loro disagio ed esponendo manifesti rivendicativi. In un primo tempo la folla spettatrice di questa «ascesa al cielo» era composta essenzialmente dalle loro famiglie e dagli abitanti dei centri storici in cui si trovavano le carceri, ma progressivamente, quando riuscirono a conquistare le prime pagine dei giornali, la società iniziò a interessarsi a loro. Restarono sui tetti fino a quel tragico 23 febbraio 1974, giorno in cui furono colpiti da varie raffiche di mitra che ferirono otto detenuti e uccisero Giancarlo Del Padrone. A causa della sproporzione tra la protesta e la repressione, la prigione di Firenze venne paragonata a quella newyorkese di Attica, dove nel 1971 fu compiuto un eccidio di detenuti48. Ma pochi mesi dopo, ad Alessandria, la risposta delle autorità fu ancora più dura49. In quel carcere piemontese la rivolta – sulla quale esiste un’ampia bibliografia – cominciò pochi giorni prima del referendum sul divorzio del maggio 1974 e, mentre le Br avevano sotto sequestro il magistrato Mario Sossi. La repressione causò la morte di sette persone – due detenuti, due guardie e tre civili: un medico, un insegnante e un’assistente sociale. Senza entrare nel merito della ricostruzione dei fatti, già ampiamente presente in altri studi50, vogliamo approfondire il ruolo del generale Dalla Chiesa, che di quella repressione fu il protagonista. Mentre lo scontro tra i movimenti della sinistra rivoluzionaria e lo Stato si faceva più intenso, il generale si era convinto che la repressione, senza inchieste dirette finalizzate a scoprire i legami tra gruppi della sinistra parlamentare e la lotta armata (legami che dava per certi), non sarebbe bastata. Prima di allora la sinistra rivoluzionaria era letta come un problema di ordine pubblico che riguardava solo i luoghi 48 La rivolta dei detenuti di Attica, negli Stati Uniti, del 13 settembre 1971 è uno degli eventi maggiori della storia carceraria statunitense. I detenuti rivendicarono i loro diritti (docce, possibilità di studiare, un salario minimo, migliori cure mediche, il diritto di riunirsi per pregare) ma dopo cinque giorni furono oggetto di un assalto dalla forze speciali che uccisero 43 uomini e ne ferirono 200. Tra le vittime ci fu George Jackson, uno dei leader delle Black Panthers. 49 Archivio del collettivo teatrale Fo-Rame, Soccorso Rosso, B.38, f. «In ordine cronologico», sf. «1973-1974, documento intitolato Firenze come Attica. Documento-protesta dei detenuti della Casa Penale di S. Teresa, febbraio 1974. Per gentile concessione di Christian De Vito. 50 Avanguardia operaia, Lotta continua, Pdup (sezioni di Alessandria), La strage nel carcere, CELUD, Torino 1974; Comitato 10 maggio, nel Carcere di Alessandria, Alessandria, 1975; Valerio Lucarelli, Vorrei che il futuro..., pp. 52-53. Sei morti, quindici feriti, «La Stampa», 11 maggio 1974; Come si è giunti alla strage, «La Stampa», 12 maggio 1974; Chi ha dato le armi ai detenuti?, «La Stampa», 14 maggio 1974; Massacrati gli ostaggi Abbattuti i tre rivoltosi, «Il Resto del Carlino», 11 maggio 1974; Lo Stato ha scelto la soluzione di forza: due detenuti uccisi e un numero imprecisato di feriti ne sono il bilancio provvisorio. Un massacro di Stato, «Lotta Continua», 14 maggio 1974; Alessandria: una verità ufficiale che fa acqua da tutte le parti, «Lotta Continua», 14 maggio 1974; Romano Canosa, Il sistema carcerario e la rivolta dei detenuti, «Quaderni Piacentini», a. XV, n. 60-61, 1976, pp. 95-116.
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delle manifestazioni e dei confronti violenti. In seguito si comprese quanto fosse necessario agire in modo più generale, con competenze operative a livello nazionale per cercare di colpire intere aree di antagonismo sociale. Mentre quel processo stava per mettersi in atto, la rivolta di Alessandria mise in prima linea il generale Dalla Chiesa, il Procuratore della Repubblica di Torino Carlo Reviglio della Veneria e il ministro degli Interni Taviani. Alla fine Reviglio della Veneria parlò della repressione di Alessandria come di «un’azione meravigliosa, condotta magistralmente dai carabinieri»,51 mentre per la sinistra rivoluzionaria si trattò di un massacro passato poi nella memoria come la «strage di Alessandria». Il fatto che in quel momento le Br avessero sotto sequestro Mario Sossi probabilmente contribuì all’inasprimento della repressione. Il clima politico e sociale era critico e la volontà di lanciare un segnale forte al movimento dei detenuti si fece pressante. L’azione congiunta di Dalla Chiesa e di Reviglio della Veneria fu ufficialmente motivata dalla necessità di opporsi a una fantomatica organizzazione che operava per sovvertire l’ordine carcerario e che prendeva il nome di «Arancia Meccanica»52. Pur non esistendo a oggi alcuna documentazione che ne dimostri l’esistenza, l’ipotesi servì a giustificare la repressione carceraria durante l’intero 197453. Il Guardasigilli Mario Zagari, in un’intervista accordata dopo la strage, nominò per primo questa organizzazione54. Durante una riunione tra direttori e Direzione penitenziaria il responsabile dell’Ufficio III parlò di una serie di violente rivolte avvenute a inizio giugno 1974 nelle carceri di Marassi, San Vittore e Noto come avvenimenti facenti parte di un unico programma eversivo di gruppi come Arancia Meccanica e Lotta continua55. Fu la criminalizzazione della protesta. Lotta continua denunciò il fatto che una simile ipotesi serviva a porre sullo stesso piano il movimento di lotta dei detenuti e la strage di Alessandria, giustificando l’azione poliziesca di Dalla Chiesa «con un vastissimo attacco allo Stato di fronte al quale [si fanno] passare in secondo piano anche [sette] morti; e, naturalmente, [si vuole] seminare confusione»56. La cosa serviva anche ad accantonare pro51 La strage nel carcere, a cura delle sezioni di Alessandria di Avanguardia operaia, Lotta continua, Pdup, Torino, 1975, pp. 9-103. 52 Ibid., p. 75-78. 53 Irene Invernizzi, Riforma carceraria, repressione e lotte dei detenuti, in AA.VV., Ordine pubblico e criminalità, Mazzotta, Milano 1975, p.189 dove si legge anche: «Altra perla fu la montatura parecchie volte ritentata del fantomatico piano Arancia Meccanica, parto assolutamente fantastico della mente fertile di qualche funzionario del ministero di Grazia e Giustizia». 54 Atti Parlamentari dell’Assemblea – Camera dei Deputati, VI legislatura, Roma, Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo, vol. XVIII, seduta del 1 ottobre 1974, p.17741. 55 ASR, Fondo Altavista, B.125, f. «Riunione 07.06.74 alle 17h30 – Situazione stabilimenti penitenziari», prot.n.23822/2-7 del Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena – Ufficio Segreteria – Rep.I, 14 giugno 1974, avente per oggetto «Situazione generale stabilimenti penitenziari», ai sigg. magistrati Direttori degli Uffici II, III, IV e VIII. Il gruppo Arancia Meccanica: responsabile delle sommosse?, «La Stampa», 12 maggio 1974; Rivolta di Alessandria: guidata dall’esterno?, «La Stampa», 17 maggio 1974. 56 Alessandria: una verità ufficiale che fa acqua da tutte le parti, «Lotta Continua», 14 maggio 1974.
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gressivamente l’Amministrazione penitenziaria per far posto alle unità del generale Dalla Chiesa che dal 1977 furono incaricate della sicurezza carceraria. Poco a poco, infatti, i direttori degli istituti di pena furono messi da parte a favore di una militarizzazione più ampia, un vero e proprio regime speciale che interessò le prigioni italiane. Nel maggio 1974 si giunse a una «normalizzazione repressiva» nelle carceri in seguito a una circolare del direttore dell’Ufficio III dell’amministrazione penitenziaria che parlava del «ridimensionamento delle concessioni e […] del ritorno al regime delle celle chiuse»57, rimettendo così in discussione le conquiste dei cinque anni precedenti di lotte fatte dai detenuti comuni. Verrà raccomandato, inoltre, di destinare alcuni stabilimenti, o sezioni di essi, ad accogliere i detenuti più tenaci, ripristinando la «rigida osservanza delle norme del vigente Regolamento Penitenziario, e, a tale scopo, i rispettivi organici del personale di custodia dovrebbero essere adeguatamente potenziati»58. Si trattò dei primi segnali di quello che divenne il doppio circuito carcerario che avrebbe separato i detenuti comuni organizzatori delle rivolte dal resto della popolazione carceraria59. Dal novembre 1974 l’Ufficio Studi e Ricerche della direzione penitenziaria si concentrò sulla messa a punto di una metodologia per la classificazione operativa dei detenuti in cui si parlò esplicitamente del «problema del detenuto in rapporto alle esigenze di sicurezza del carcere e non […] alle sue possibilità soggettive […] di rieducazione»60. Quella categoria doveva non solo essere esclusa dai benefici della Riforma penitenziaria che sarebbe stata varata solo pochi mesi dopo, ma allontanata fisicamente dal resto della popolazione carceraria in modo da non influenzarla. L’Amministrazione penitenziaria si convinse che il solo modo di mettere termine alla stagione di lotte sarebbe stato isolare i rivoltosi, differenziandoli. In quello stesso documento si parlava già di caratteristiche strutturali che permettessero una maggiore sorveglianza dei detenuti e di sistemi elettronici di controllo, oltre che della creazione o ristrutturazione di prigioni, soprattutto quelle che si trovavano più lontane dai grandi centri urbani. Lo scopo era la «restaurazione negli istituti penitenziari di un regime rigido e repressivo»61 come risposta al movimento dei detenuti del quinquennio 19691973. Tutto ciò avvenne prima che i Nap (Nuclei armati proletari) sviluppassero la loro azione all’interno del sistema e che la quantità dei militanti appartenenti alle organiz57 ASR, Fondo Altavista, B.125, f. «Riunione 07.06.74 17h30, Situazione stabilimenti penitenziari», prot.n.23822/2-7 del Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena – Ufficio Segreteria – Rep.I, 14 giugno 1974, avente per oggetto «Situazione generale stabilimenti penitenziari». 58 Christian De Vito, Camosci e girachiavi, cit., p. 77. 59 I primi carceri a essere presi in considerazione saranno quelli di Palermo, dell’Asinara, di Porto Azzurro e di Volterra. 60 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.100 f.7, n.642987.3/1.43 del Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena – Ufficio studi e ricerche, 15 novembre 1974, avente per oggetto «Ricerca di una metodologia per una classificazione operativa dei detenuti». 61 La citazione è tratta da una nota del segretario della D.G.II.PP. al Ministro di Grazia e Giustizia e si riferisce a una precedente nota del Procuratore Generale di Genova Coco che consigliava di «risalire la china con
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zazioni armate cominciasse a costituire un problema specifico. Dal punto di vista storico quindi, l’anno 1974 aprì una nuova fase nella quale furono teorizzate le linee di condotta repressive poi poste in essere a partire dal 1977. Dagli eventi delle Murate e di Alessandria la parte più politicizzata dei detenuti comuni rifiutò il concetto di rivolta come era concepito fino ad allora: non si trattò più di cercare compromessi sulla via del riformismo, di chiedere miglioramenti della vita quotidiana o una riforma dei codici perché era impossibile scendere a patti con uno Stato ormai visto come il principale nemico. Da quel momento cambiò radicalmente la prospettiva e il principio divenne: «il carcere si abbatte, non si cambia». 3.4 Il braccio armato dei detenuti: i Nuclei armati proletari Non si può parlare di carcere e lotta armata senza riferirsi ai Nuclei armati proletari62. La loro azione, infatti, può essere riassunta con lo slogan: «Rivolta generale nelle carceri e lotta armata dei nuclei all’esterno».63 È per la centralità che diedero al mondo carcerario, e per il legame che instaurarono con le Br fino a una fusione all’interno del «circuito dei Camosci», che dedichiamo loro un approfondimento. L’aspirazione principale del gruppo era quella di creare una società libera dalle prigioni, e, come affermarono in uno dei primi Comunicati, si erano «costituiti in clandestinità all’esterno delle carceri per continuare la lotta dei detenuti contro i lager dello Stato borghese e la sua giustizia». Fu un gruppo di militanti fuoriusciti da Lotta continua, convinti dell’ineluttabilità del ricorso alla violenza e alla lotta armata, a fondare i Nap, a Napoli nel 1974; diversamente dai brigatisti, appartenenti al ceto operaio, i nappisti provenivano dal proletariato extra-legale e dal bacino degli ex detenuti comuni politicizzatisi in carcere64. Luca Mantini, studente e militante di Lotta contiun’attenta e severa rimeditazione e revisione degli indirizzi seguiti». ASR, Fondo Altavista, B.125, f. «Riunione nello studio del sig. Direttore Generale per il giorno 7 giugno 1974 (situazione stabilimenti penitenziari)», prot.n.30/74 Riservata della Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Genova, 7 giugno 1974, avente per oggetto «Situazione delle Carceri», all’on. le Ministro Guardasigilli – Gabinetto e alla Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. Per gentile concessione di Christian De Vito. 62 Per una bibliografia completa dei Nap: Alessandro Silj, Mai più senza fucile, cit; Rossella Ferrigno, Nuclei Armati Proletari: carceri, protesta, lotta armata, La Città del Sole, Napoli 2008; Valerio Lucarelli, Vorrei che il futuro fosse oggi. Nuclei Armati Proletari: ribellione, rivolta e lotta armata, L’Ancora, Milano 2010; Soccorso Rosso, I NAP, Collettivo Editoriale Libri Rossi, Milano 1976; AA.VV., Criminalizzazione e Lotta Armata, Collettivo Editoriale Libri Rossi, Milano, 1976, pp. 99-143; AA.VV., Processo alla rivoluzione. La parola ai NAP, Collettivo Editoriale Libri Rossi, Milano 1978; Pasquale Abatangelo, Domenico Delli Veneri, Giorgio Panizzari, Elementi sulla fase iniziale e sullo sviluppo della lotta armata in Italia, «Controinformazione», nn. 11-12, luglio 1978, pp. 96-102; «Controinformazione», nn. 13-14, marzo 1979, pp. 96-99; Dichiarazione al processo ai Nuclei Armati Proletari, «Controinformazione», n. 17, gennaio 1980, pp. 92-96; AA.VV., La mappa perduta, cit., pp. 65-73; AA.VV., Le parole scritte, Sensibili alle foglie, 1996, pp. 230-243. 63 AA.VV., Criminalizzazione e Lotta Armata, cit. 64 Tra i militanti più noti: Fiorentino Conti, Sergio Romeo, i fratelli Luca e Annamaria Mantini, Nicola Pellecchia, Claudio Carbone, Pietro Sofia, Giovanni Gentile Schiavone, i fratelli Pasquale e Nicola Abatangelo
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nua arrestato nel 1972 per i disordini di Prato contro un’iniziativa del Msi, fondò alle Murate il Collettivo politico da cui nacque il nucleo fiorentino dei Nap65. A Perugia, invece, furono le «Pantere Rosse» ad aprire la strada al nappismo. La prima azione dei Nap contro l’universo carcerario ebbe luogo il primo ottobre 1974 davanti alle prigioni di Napoli66, Milano67 e Roma68, dove diffusero un breve messaggio che invitava i detenuti a trasformare le lotte carcerarie in lotta armata all’esterno delle prigioni. Era il tentativo di porsi come rappresentanti di tutte le rivendicazioni dei detenuti, a cui doveva unirsi il proletariato, in continuità con il percorso iniziato nel 1969 a Le Nuove di Torino69. Tra tutte le azioni compiute dai Nap ci limiteremo a trattare quelle riguardanti il settore carcerario, tralasciandone altre importanti, come la rapina alla banca di piazza Alberti di Firenze il 29 ottobre 1974 in cui trovarono la morte Luca Mantini e Sergio Romeo. Il 6 maggio 1975 i Nap compirono a Roma la loro azione più clamorosa: il sequestro del giudice di Cassazione Giuseppe Di Gennaro, che lavorava da tempo al Ministero di Grazia e Giustizia come consigliere della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione di Pena70 (D.G.II.PP)71. A capo dell’Ufficio studi, egli aveva collaborato a tutti i progetti di riforma penale e penitenziaria e tutti i ministri della Giustizia, da Guido Gonella a Oronzo Reale, si erano serviti delle sue competenze72. Quando il 9 maggio 1975 – prima ricorrenza della strage di Alessandria – i Nap rivendicarono il sequestro del giudice con una telefonata alla famiglia, tre militanti incarcerati a Viterbo – Martino Zichitella, Giorgio Panizzari e Pietro Sofia – tentarono di Domenico Delli Veneri, Giorgio Panizzari, Maria Pia Vianale, Franca Salerno, Antonio Lo Muscio. 65 Alessandro Silj, Mai più senza fucile, cit., p. 101. 66 ASR, f. Altavista, b. 124 Casa Circondariale Poggioreale, F. «Napoli Casa Circondariale» – Telegramma n.1974.A.4 P.S. della Prefettura di Napoli, 4 ottobre 1974, al Ministero Interni – Gabinetto e Sicurezza, al Ministero Grazia e Giustizia; per conoscenza alle Prefettura della Repubblica. 67 A San Vittore il dispositivo è difettoso. A questo proposito: Un arresto e due ordini di cattura per la bomba davanti a San Vittore, «Corriere della sera», 31 ottobre 1974, p. 8. 68 L’esplosione davanti a Rebibbia avrà luogo l’indomani, il 2 ottobre. 69 AA.VV., Nuclei Armati Proletari, cit., p. 67. Rossella Ferrigno, Nuclei armati proletari, cit., p. 86. 70 Al ministero aveva collaborato prima con Pietro Manca e quindi dal 1973 con il successore Giuseppe Altavista. Del primo si veda la voce Istituti di prevenzione e di pena, in Enciclopedia del diritto, vol. XXIII, Giuffrè, Milano 1973. 71 Di Gennaro era stato pubblico ministero in processi di risonanza nazionale, tra l’altro nel processo contro Pier Paolo Pasolini accusato di vilipendio alla religione per il film La ricotta. Per quanto riguarda le sue pubblicazioni nel periodo precedente al sequestro, vedi: Ministero di Grazia e Giustizia, Una strategia differenziata per la difesa sociale dal delitto. Riunione internazionale di studio organizzata dal Ministero di Grazia e Giustizia con la collaborazione dell’Istituto della Ricerca delle Nazioni Unite per la Difesa Sociale (UNSDRI). Roma, 2-3 febbraio 1974 Sala della Promoteca del Campidoglio, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1974. 72 Nel 1973 era stata decisiva l’attività svolta da Di Gennaro in Commissione Giustizia del Senato per aggiornare e migliorare il testo del nuovo ordinamento penitenziario, bloccato però dalla Camera già l’anno seguente, come vedremo. Su suo suggerimento i senatori inserirono nel progetto la sospensione della pena per chi dava prova di buona condotta: una specie di probation anglosassone.
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evadere. Scoperti, si barricarono in una stanza del carcere con un ostaggio. Per la liberazione di Di Gennaro i Nap chiesero la diffusione radiofonica di un comunicato, il trasferimento dei detenuti in un carcere del Nord Italia e l’assenza di rappresaglie. Le richieste furono accolte e Di Gennaro fu rilasciato l’11 maggio. Se l’operazione di Dalla Chiesa ad Alessandria aveva indebolito il movimento dei detenuti, il rapimento di Di Gennaro ne riaccese le speranze. L’episodio di Viterbo divenne centrale per alcuni mesi non solo per la sua importanza politica immediata, ma perché dimostrò la rilevanza strategica di un legame tra avanguardie interne ed esterne alle carceri73. I nappisti detenuti organizzarono spedizioni punitive contro detenuti dell’estrema destra74, legittimarono l’uso delle armi per difendersi dai trasferimenti disciplinari o dalla violenza delle guardie ed elaborarono piani di evasione da portare a termine grazie all’uso di esplosivo fornito dall’esterno75. Un ulteriore punto che unì l’interno e l’esterno fu quello di fornire informazioni su possibili obiettivi che riguardano le future azioni contro le prigioni76, pratica ripresa in seguito anche dalle Br77. Il 15 giugno Di Gennaro provò a illustrare il quadro all’interno del quale doveva essere inserito il suo rapimento78. Secondo il giudice, la prigione era diventata una scuola di rivoluzione, un luogo in cui una parte dei detenuti erano detenuti politici. Davanti all’inconsistenza di un vero impegno da parte delle istituzioni per riformare i codici, i detenuti si schieravano con chiunque proponesse loro un’occasione per uscire dall’anonimato e dall’isolamento. Fino al 1973 le proteste sfociavano in rifiuti di rientrare nelle celle dopo l’ora d’aria, scioperi della fame o in vere rivolte. Tra il 1969 e la fine del 1973 le lotte si erano concentrate su obiettivi volti a migliorare le condizioni di vita attraverso una politica razionale che spingesse verso la riforma dei codici79. Dal 1974, a causa della criminalizzazione del movimento, nelle prigioni 73 AA.VV., Le parole scritte, cit., p. 234-239. 74 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.101 f.1, prot.n.5772 della Direzione della Casa di Reclusione di Volterra, 24 aprile 1975, avente per oggetto Detenuti F.G., H.J., L.L., P.P., U.N. e L.C. 75 Per citarne solo alcune: ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, 012, 93, B. 69. 1973. Carteggio detenuti. Firenze, f 1 Detenuti. 1973. Prot.n.2719Bis.3.6 della Direzione della Casa di Reclusione di Firenze, in data 6 dicembre 1973, avente per oggetto ‘Piano per un tentativo di evasione da parte dei detenuti: Barone Enrico, Aversa Gesuino, Piantamore Giorgio, Abatangelo Pasquale, Abatangelo Nicola’; ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, 012, 95, Busta 113. 1976. Firenze. Fascicolo 1. Detenuti. 1976. Firenze. Prot.n.9170.3.8.S della Direzione della Casa Circondariale di Firenze, in data 5 maggio 1976, avente per oggetto ‘Detenuto Sofia Pietro’. Cfr. anche ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.103 f.1, prot.n.2433.3.6 della Direzione degli Stabilimenti Carcerari di Spoleto, 23 marzo 1975, avente per oggetto «Pacco postale diretto al detenuto G.T.». 76 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.106 f.1, prot.n.4564 della Direzione della Casa Circondariale Maschile di Perugia, 12 maggio 1976, avente per oggetto «Detenuti R.F. e N.B.». 77 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.103 f.3, prot.n.7688 della Direzione della Casa Penale di Pianosa, 11 maggio 1975, avente per oggetto «Segnalazione movimenti detenuti Pianosa». 78 Lei è condannato a 20 anni di ribellione, colloquio con Giuseppe Di Gennaro, «L’Espresso», 15 giugno 1975, p. 24-26. 79 Lotta di classe nelle prigioni: l’esperienza delle “Nuove” di Torino, «Quaderni Piacentini», n. 43, anno X, 1971, p. 89-96.
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regnò un vuoto politico che spinse i detenuti a prendere coscienza di essersi battuti invano pagando un prezzo altissimo fatto di percosse, letti di contenzione, trasferimenti disciplinari sulle isole, sentenze durissime, come nel caso dei 33 detenuti delle Nuove che avevano partecipato alla rivolta del 1969 e che furono condannati complessivamente a trecento anni di detenzione. In quella situazione che spinse i detenuti ad azioni senza speranza, davanti alle prigioni di San Vittore, Rebibba e Poggioreale esplosero gli altoparlanti dei Nap incitanti alla ribellione, e molti si convinsero che quella proposta fosse l’unica possibile. In una seconda intervista rilasciata pochi giorni dopo, Di Gennaro fece un parallelo tra Nap e Br. Ripeté che i Nap erano un gruppo di emarginati spinti ai limiti della società e motivati a lottare dalle condizioni di vita del carcere italiano, mentre le Br scaturivano dalla società che combattevano. Per i primi, il carcere amplificava il conflitto e dopo «il primo tragico shock della carcerazione», gli emarginati avrebbero avuto la sensazione «di appartenere a un gruppo. In un certo senso, si socializza assumendo, più o meno in modo cosciente, il comportamento della minoranza perseguitata»80. I Nap, però, avevano una struttura orizzontale e variabile, che li rendeva più vulnerabili dei brigatisti, che all’epoca erano già fortemente compartimentati. Ma quella vulnerabilità era generata anche dalla disperazione di alcune loro azioni, spesso senza via d’uscita, caratteristiche di chi riteneva di non avere nulla da perdere81. Sebbene deboli organizzativamente i Nap furono visti come una forte minaccia dalle autorità che accelerarono il processo di chiusura delle carceri al mondo esterno e nel biennio 1974-1975 vararono la prima legislazione emergenziale. Ciò segnò la disgregazione del movimento dei detenuti, che non avrebbe più raggiunto i livelli dei primi anni Settanta. Quanto ai Nap, finirono per aderire quasi in blocco alla lotta armata di stampo brigatista. 3.5 Riforma e controriforma Il fenomeno dell’aumento esponenziale della criminalità comune82, ma soprattutto la progressione della lotta armata influenzarono il dibattito parlamentare sulla tanto attesa riforma penitenziaria. Oltre allo stragismo, il sequestro del giudice Sossi, i fatti di Alessandria e le azioni dei Nap inquietarono sia le istituzioni che l’opinione pubblica, vittima di un allarmismo emotivo portato avanti soprattutto dalla stampa che si scagliò sempre più contro il settore carcerario. Si venne così a creare un clima di emergenza propizio non solo ai provvedimenti eccezionali, ma 80 Ecco quello che la polizia non dice, «Il Mondo», 19 giugno 1975. 81 Ibid. 82 Ministero di Grazia e Giustizia – Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Libro bianco. I dati essenziali del sistema penitenziario italiano in cifre, Roma, 1993.
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alla rinunzia volontaria da parte dei cittadini di una parte di libertà come prezzo da pagare per «ripristinare l’ordine»83. In questo clima, la Commissione giustizia della Camera84 che esaminò il progetto di riforma, redatto dal Senato nel 1973, visse una situazione di estrema tensione dovuta, da un lato, alla necessità di riformare un carcere ormai anacronistico, dall’altro, di trovare un giusto equilibrio tra la necessità di far fronte alla criminalità senza farsi accusare di lassismo nei riguardi dell’eversione. Lo stesso ministro di Grazia e Giustizia Zagari parlò della necessità di «una riforma che serve per affrontare il problema della criminalità»85 e che escludeva quindi la soluzione dei problemi dei detenuti. La vicenda contrastata che portò alla riforma del 1975 iniziò durante la VI legislatura, il 4 aprile 1973, quando riprese la discussione già iniziata nel 1969 attraverso un’indagine conoscitiva dei più importanti centri penitenziari italiani ed esteri. Il ministro Zagari sostenne la necessità di aprire il carcere al mondo esterno, facendo suoi argomenti concreti (dalla Commissione vitto dei detenuti alla questione della sessualità e degli affetti) riassunti in un testo innovatore che prevedeva, tra l’altro, l’introduzione della probation e del regime di semilibertà86. Il progetto di riforma approvato dal Senato venne totalmente modificato dalla Camera appena un anno dopo: la spinta riformatrice si era già esaurita. Dopo Le Murate e Alessandria, la riforma venne vista da buona parte dei deputati come uno strumento di disgregazione dell’ordine pubblico e di rinuncia alle fondamentali esigenze di difesa sociale, cosa che ne provocò il ridimensionamento87. L’emendamento del deputato comunista Livio Stefanelli, che voleva uniformare le retribuzioni dei detenuti con quelle dei lavoratori liberi fu respinta, così come tutte le misure alternative alla detenzione che erano state proposte88. Per confermare l’orientamento afflittivo della pena venne soppressa anche la parte riguardante la possibilità di concedere autorizzazioni di uscita previa buona condotta che dovevano attenuare il problema della sessualità in prigione ma anche favorire il reinserimento sociale in modo graduale89. Inoltre, fu soppressa la sospensione dell’esecuzione della pena in caso di sopravvenuta infermità psichica del detenuto. Durante l’ultima 83 «Il Corriere della Sera», 4 maggio 1975. 84 La IV Commissione permanente (Giustizia) della Camera si occupa del progetto di legge n. 2624 tra l’aprile e l’agosto del 1974. 85 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, VI legislatura (1972-1976), Resoconti stenografici delle sedute della IV Commissione permanente (giustizia), seduta del 17 aprile 1974, p. 575. Le sedute possono essere consultate su: http://www.camera.it/_dati/leg06/lavori/stencomm/04/Leg/Serie010/1974/0417/stenografico.pdf. 86 Ministero di Grazia e Giustizia, Opinioni sul «Probation». Indagine sugli orientamenti degli operatori penitenziari. Quaderni dell’Ufficio Studi e Ricerche della Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena, Tipografia delle Mantellate, Roma, 1974. 87 Su ciò ha pesato anche l’emanazione del decreto legge numero 99 del 4 aprile 1974 nel quale erano aumentati i termini massimi della carcerazione preventiva. 88 Bollettino delle Giunte e delle Commissioni Parlamentari, 11 giugno 1974, pp. 5-6. 89 Ivi, 7 agosto 1974, pp. 8-10.
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seduta della Commissione venne anche introdotto il famoso articolo 9090 che permetteva al ministro di Grazia e Giustizia di sospendere, teoricamente in modo temporaneo, l’applicazione della riforma carceraria in occasione di «gravi ed eccezionali motivi di sicurezza », formula eccessivamente generica come fecero notare i deputati comunisti che, a onor del vero, non vi si opposero91. Come vedremo in seguito, quest’articolo avrà un peso considerevole quando si tratterà di sospendere la riforma e i suoi benefici per fronteggiare il fenomeno eversivo. Il progetto di legge n. 2624 fu dibattuto in un emiciclo praticamente vuoto, segno dell’ormai totale disinteresse del mondo politico per la riforma carceraria, dopo l’intervento di alcuni deputati del Partito liberale per i quali «un trattamento penitenziario troppo blando avrebbe potuto trasformare la vita dei reclusi in un piacevole soggiorno, dove vitto e alloggio sono assicurati»92. Secondo il Msi, invece, si doveva redigere un testo d’emergenza per mettere fine alle rivolte93. Dal 22 maggio 1975, il disegno di legge tornò in Commissione Giustizia del Senato dove Mino Martinazzoli avrebbe parlato di «protervia repressiva della Camera»94, che aveva mutilato il testo del 1973. I senatori finirono con il cedere alla necessità di approvare velocemente il regolamento non opponendosi alle modifiche95. La legge n. 354 del 26 luglio 1975 fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 9 agosto 1975 dopo ventotto anni di studi e lavori parlamentari (1947-1975), spesi finendo per non soddisfare nessuno: né i parlamentari, né i giuristi e ancor meno i detenuti che continueranno a pagare le spese di un carcere controriformato. Seppur amputata, la riforma presentò alcuni passi in avanti rispetto alla legislazione precedente, in particolare per ciò che concerne l’umanizzazione della pena, gli strumenti rieducativi e le misure alternative alla detenzione, sebbene si trattasse del risultato ambiguo di una procedura parlamentare in cui tutte le forze politiche avevano cercato mediazioni che inevitabilmente portarono in secondo piano i problemi reali dei detenuti96. La nuova legge conteneva solo miglioramenti marginali, senza una vera incidenza nel rinnovo del sistema carcerario, dove la prigione restò un’istituzione totale, chiusa e autoritaria. Anche la creazione del regime di semilibertà (art. 48) per i con90 Art. 90, Esigenze di sicurezza: «Quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza, il Ministro per la grazia e giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza». 91 Bollettino delle Giunte e delle Commissioni Parlamentari, 7 agosto 1974, p. 7. 92 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, VI legislatura, Resoconti delle discussioni, 1974, seduta del 2 ottobre 1974, p. 1778; Christian De Vito, Camosci…, p. 84. 93 Ivi, p. 17736. 94 Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, VI legislatura (1972-1976), seduta del 18 giugno 1975, p. 1258. 95 Ivi, seduta del 17 luglio 1975, pp. 22365-22406. 96 Un’analisi dettagliata della legge può essere letta in Gianbattista Lazagna, Il Carcere. Analisi del sistema repressivo e carcerario. La nuova legge penitenziaria commentata, Feltrinelli, Milano 1975.
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dannati a pene inferiori a due anni e mezzo e il cui scopo era quello di svuotare le carceri sovraffollate da ben un quarto dei detenuti venne stravolta, perché applicata esclusivamente per i detenuti che non avevano partecipato a rivolte all’interno del carcere. Il divieto di usare la forza da parte delle guardie, così come la soppressione delle celle punitive e del letto di contenzione sono fatti importanti solo in via teorica perché l’articolo 41 che li vietava era lo stesso che li giustificava in caso di assoluta necessità97. Si pensi, poi, ai trasferimenti punitivi che provocavano spesso la soppressione dei colloqui con i familiari e con gli avvocati: l’articolo 40 del progetto di legge prevedeva il consenso dell’autorità giudiziaria, ma venne soppresso su richiesta del governo, cosicché nessuna norma regolamentò il potere arbitrario di trasferire da una prigione all’altra i detenuti. I margini di discrezionalità della direzione carceraria divennero ancora più ampi di prima, basti citare la concessione della durata dell’ora d’aria e dei colloqui (art. 10 e art. 18) o quello dell’individualizzazione del trattamento detentivo (art. 13). La riforma creò nei detenuti attese legittime, che sarebbero state presto deluse a causa della mancanza di personale e di strutture adeguate, senza contare la crescente repressione e le leggi emergenziali approvate in modo quasi simultaneo. Come aspettarsi che il Parlamento attuasse una riforma illuminata mentre, allo stesso tempo, votava la Legge Reale?98 Nello spazio di pochi mesi si sarebbe passati da una riforma a una controriforma, quando il potere politico strumentalizzò le evasioni dalle prigioni per dare vita al circuito differenziato. Con questo pretesto e con quello della recrudescenza della criminalità, soprattutto di tipo eversivo, la politica penitenziaria rimase un semplice problema di ordine pubblico. I benefici di questa riforma furono percepiti dai detenuti come il frutto di anni di lotta e di riflessione, che fece prendere loro coscienza di essere i protagonisti dell’universo carcerario. Nell’analizzarla molti mostrarono una profondissima conoscenza dei codici e delle leggi, di cui spesso furono la fonte d’ispirazione99. Il punto sul quale si focalizzarono maggiormente fu la nuova legislazione in materia di autorizzazioni e di misure alternative alla detenzione, ma i funzionari dell’amministrazione penitenziaria e i magistrati di sorveglianza furono spesso impotenti nell’applicazione della riforma stessa a causa di carenze strutturali che li costrinsero a rifiutare le legit97 Articolo 41: «Impiego della forza fisica e uso dei mezzi di coercizione. «Non è consentito l’impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti e degli internati se non sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti […]. Non può essere usato alcun mezzo di coercizione fisica che non sia espressamente previsto dal regolamento e, comunque, non vi si può far ricorso a fini disciplinari ma solo al fine di evitare danni a persone o cose o di garantire la incolumità dello stesso soggetto. L’uso deve essere limitato al tempo strettamente necessario e deve essere costantemente controllato dal sanitario». 98 Legge n. 152 del 22 maggio 1975, Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico. 99 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.110, f.1, sf.2, prot.n.17969 della Direzione della Casa Circondariale di Pisa, 20 agosto 1976, avente per oggetto Manifestazione detenuti 19.8.1976.
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time richieste dei detenuti100. La mancanza di spazio era uno dei problemi principali, se si pensi che nel 1975 in Italia c’erano 32.000 detenuti per una capacità totale di 27.000 posti101. Un mutamento radicale a breve o medio termine non era immaginabile ed è anche per questa ragione che i detenuti si trovarono di fronte a una scelta politica forte da compiere, per tentare di portare a termine il progetto per il quale si battevano da anni102. In quella situazione trovarono punti di riferimento in due poli opposti: il primo era rappresentato dalla «Lega Nonviolenta dei Detenuti» creata dal Partito Radicale nel 1975, che rivendicava diritti e aveva aperto un dialogo con le istituzioni per un’applicazione quanto più immediata della riforma. Il secondo nelle organizzazioni di lotta armata, principalmente Nap e, in seguito, Brigate rosse. 3.6 La giunzione carceraria tra detenuti comuni e militanti della lotta armata Le vecchie forme di lotta, come le rivolte il cui scopo era distruggere le carceri, non furono assopite ma trovarono nuova linfa nel rivendicare la necessità di una rapida applicazione della riforma. Quasi nessuna prigione fu esente da quel fenomeno, fomentato soprattutto da quei detenuti che avevano subìto trasferimenti a causa della loro militanza e che sempre più rappresentarono l’ossatura delle sommosse. I Nap, poi, furono il frutto – estremo e armato – di quel movimento, al punto che, quando nel carcere di Viterbo esplose l’ennesima rivolta, il guardasigilli Zagari parlò del gruppo armato come di un fenomeno naturale, visto lo stato in cui versavano le prigioni italiane, in ciò concordando con quanto espresso da Di Gennaro dopo la sua liberazione103. Gli organi dello Stato, insomma, avevano coscienza profonda della situazione delle carceri e del fenomeno di avvicinamento, sempre più preoccupante, tra militanti armati e detenuti comuni. Nel 1976 il sistema carcerario appariva sull’orlo del baratro. Alle rivolte, sempre più violente104, ai sequestri di guardie e regolamenti di conti tra gruppi, si susseguivano i suicidi, gli scioperi della fame, le automutilazioni105. In quel contesto la violenza politica trovò un sostegno importante. Dal 1968 si era diffusa una vasta letteratura sul ruolo rivoluzionario del carcere che affermava la politicità intrinseca dello status 100 ASR, Fondo Altavista, B.98, f. ‘C.C. Regina Coeli Roma’, sf. «Casa Circondariale Regina Coeli 1976», prot.n.27123/5.3 del Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena – Ufficio Segreteria Rep.I, 6 ottobre 1976, avente per oggetto «Casa Circondariale Roma Regina Coeli». 101 Dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. 102 ASR, Fondo Altavista, B.125, f. «Appunto per l’On. Ministro sulla situazione penitenziaria», prot. s.n. del Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena, 17 febbraio 1976, avente per oggetto «Appunto per l’On.le Ministro Guardasigilli». 103 Qui radio-carcere: questa estate sarà caldissima, «L’Espresso», 25 maggio 1975. 104 Nel corso del 1976 si sono verificate 34 sommosse, 14 in più rispetto alle 20 verificatesi nel 1975 secondo le fonti della Direzione Generale della P.S. 105 «Carcere Informazione», A. I, n. 1, p. 7.
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di detenuto106. Tutto ciò contribuì alla crescita dei Nap e al rispetto per i brigatisti che, col tempo, entrarono a far parte del loro universo. Nelle loro azioni, infatti, i comuni videro una valida alternativa per uscire dall’isolamento di una condizione divenuta inaccettabile. Per i movimenti eversivi, d’altronde, il carcere rappresentava un luogo di reclutamento e il simbolo di uno Stato da abbattere, e fu per quello scopo che entrarono principalmente in contatto coi detenuti comuni. Ci limiteremo qui a pochi esempi trovati negli archivi delle carceri toscane e che riguardano uno dei fondatori delle Br, Renato Curcio. Nel 1976 il direttore del carcere di Pisa chiese al ministero di Grazia e Giustizia l’allontanamento di alcuni detenuti perché sostenitori del brigatista «la cui strategia è vasta e potenzialmente pericolosa se non gli si crea attorno il vuoto»107. Il direttore aggiunse, per ribadire la pericolosità del soggetto, l’impossibilità di gestirlo in un carcere non ancora predisposto con le norme di sicurezza, e che il brigatista «non si impegna in prima persona nel creare situazioni torbide in cui poter pescare, ma si avvale dell’opera dei braccianti dei disordini, scegliendoli negli elementi più facinorosi»108. In un fonogramma all’Ufficio III dell’Amministrazione carceraria si parla di Curcio dicendo che «ha tirato fuori gli artigli della sua subdola proliferazione in danno di una serenità che prima regnava in questo Istituto. Il Curcio è elemento scaltro e subdolo poiché sa lanciare il sasso e nascondere la mano. I suoi fedeli galoppini sono stati trasferiti ma altri ne troverà nelle ore di passeggio, ore uniche che trascorre in compagnia»109. Questi commenti sono illuminanti rispetto ai rapporti intrattenuti da alcuni militanti della lotta armata coi detenuti comuni e sono il sintomo di un percorso che si concluse con la creazione di una struttura consona alla separazione carceraria. Il 27 maggio 1974 fu arrestato a Firenze Paolo Maurizio Ferrari, uno dei fondatori delle Br e uno dei pochi, in seguito, che avrebbe scontato interamente la pena, 30 anni, senza usufruire di un solo giorno di permesso110. L’8 settembre dello stesso anno furono presi Curcio e Franceschini. Sarebbe venuto il turno di Roberto Ognibene, il 15 ottobre, e quello di Alberto Buonavita e Prospero Gallinari il 5 novembre. Nel 106 Romano Canosa, Il sistema carcerario e la rivolta dei detenuti, «Quaderni Piacentini», n. 60-61, A. XV, ottobre 1976, pp. 95-114. 107 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, 012, 93, B. 110. F. 1. Detenuti. 1976. Firenze, Prot.n.21107 della Direzione della Casa Circondariale di Pisa, in data 19 ottobre 1976. 108 Ibid. 109 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, 012, 93. B. 110. 1976. Pisa. Fonogramma n. 489 da Direzione Casa Circondariale Pisa at Ministero Giustizia Direzione Generale Carceri Ufficio III Roma, in data 29 luglio 1976. 110 Inizialmente condannato a 12 anni di reclusione in seguito al sequestro Sossi, sarà nuovamente condannato durante la detenzione a 30 anni come risultato di cumulo, per ritrovare la libertà nel 2004. Di lui ricordiamo una Lettera ai compagni dal carcere di Cuneo, cit. in http://www.bibliotecamarxista.org/soccorso%20rosso/capitolo%2016.htm.
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1975 fu arrestato anche Piero Morlacchi. Poco a poco i brigatisti «storici» fecero il loro ingresso nell’universo carcerario, che avrebbero popolato in modo massiccio negli anni a venire, riorientando il senso della lotta armata, che dovette cercare delle risposte anche alla questione carceraria. Nel 1974-75 l’atteggiamento da tenere in carcere era regolato da alcuni punti precisi: quando un militante veniva imprigionato doveva occuparsi di preparare la propria evasione per reintegrare il gruppo e provare a battere lo Stato anche sul terreno carcerario. Qualora non fosse riuscito a evadere, doveva fare di tutto per facilitare le lotte dei militanti fuori evitando di collaborare con l’amministrazione carceraria111, impegnandosi nello studio, redigendo documenti rivendicativi delle azioni portate a termine all’esterno e continuare a lottare, con ogni mezzo, per la sua liberazione. Il prigioniero perdeva anche ogni responsabilità politica occupata fuori, ma contribuiva a formare una «brigata di campo». L’applicazione di questi principi divenne sempre più difficile man mano che gli arresti aumentavano. Sempre più isolati nel circuito dei Camosci, i detenuti si diedero dei ruoli, arrivando a pretendere la gestione della lotta armata anche dell’organizzazione esterna. All’inizio della storia carceraria, i brigatisti erano alla ricerca di una via d’uscita personale, come testimoniano i documenti già citati che riguardano Curcio: la ragione principale che li spingeva a entrare in contatto coi detenuti comuni era creare disordine o – nella migliore delle ipotesi – evadere112. I detenuti comuni, del resto, li conoscevano ancor prima che facessero il loro ingresso in prigione, come dichiarerà Gallinari, in seguito al soggiorno nel carcere di Alessandria, riassumendo in modo calzante la situazione precedente all’apertura del circuito dei Camosci: «Non sono un disperso perché la nostra storia fuori dal carcere, ma ancora più il comportamento dei compagni che mi hanno preceduto in galera, assegna nei fatti una identità forte a ogni prigioniero delle Brigate rosse. Una identità che non è necessariamente da condividere, ma sicuramente da rispettare […]. La strage [di Alessandria], si era verificata in un altro reparto del carcere, ma il peso dei fatti era ancora enorme tra i detenuti, e la rabbia pure. Una rabbia che poteva vedere nelle Brigate rosse una sorta di punto di riferimento […]. Le Brigate rosse hanno dalla loro parte la forza. Se volessero, potrebbero usarla per incidere sulla questione del carcere, e di conseguenza sulla loro stessa condizione di vita. Ma questo risulterà vero solo in parte. L’organizzazione inserirà nel suo programma il problema del carcere. I suoi militanti detenuti guideranno dozzine e dozzine di lotte all’interno delle galere, e i suoi nuclei esterni colpiranno duramente gli apparati del Ministero di Grazia e Giustizia. Ma, nel complesso, le Brigate rosse 111 «In carcere i brigatisti, o presunti tali, si comportano con dignità, secondo le regole comuniste. Si rifiutano di rispondere durante gli interrogatori, e si appellano alla Convenzione di Ginevra, ritenendosi prigionieri di “una guerra che è stata dichiarata dalla borghesia”». Testo tratto dalla dichiarazione di Roberto Ognibene alla Corte che lo condannerà a 28 anni di reclusione. 112 Romano Canosa, Ancora sulla questione carceraria, «Quaderni Piacentini», n. 62-63, A. XVI, aprile 1977.
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metteranno sempre il baricentro della loro attività su un progetto generale riferito agli operai delle grandi fabbriche e rivolto contro lo Stato […]. Ciò non toglie che, alla fine del ’74, la grande vicenda dei rapporti fra detenuti comuni e detenuti politici, una vicenda unica in Europa e tutta da studiare, stia iniziando a decollare. Tra i dannati della terra cresce l’aspettativa. E cresce il rispetto verso i rivoluzionari che, armi in pugno, hanno smesso di far chiacchiere»113.
La direzione carceraria si rese conto di quell’avvicinamento in seguito alle passate esperienze dei contatti tra detenuti comuni e gruppi extraparlamentari. Quegli incontri si sarebbero svolti durante i primi grandi «processi-guerriglia»: quelli contro i Nap, a Firenze e Napoli114, e quello al nucleo storico brigatista a Torino115. Attraverso quei processi il mondo carcerario si interesserò sempre più ai militanti della lotta armata, anche in ragione della loro presenza fisica nelle prigioni contigue ai tribunali. Il braccio di ferro tra i gruppi armati e lo Stato non li avrebbe lasciati indifferenti e, da dentro, solidarizzarono coi militanti organizzando sommosse o, più semplicemente, seguendoli nel rifiuto di rientrare dall’ora d’aria116. Nel 1974-76 l’assenza di una prospettiva politica all’interno della prigione fece sì che lo scopo principale dei brigatisti restasse l’evasione117. Da questo tipo d’approccio, che rifiutava in parte di decifrare l’universo carcerario e i suoi complessi meccanismi, derivò l’idea di modificare i rapporti di forza interni ai penitenziari nei quali erano reclusi. Tutto ciò si concretizzò con l’ingresso di armi o materiale esplosivo118, non solo allo scopo di evadere ma anche per sequestrare agenti penitenziari qualora l’evasione non fosse andata a buon fine e si fosse dovuto contrattare una resa119. 113 Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli, Bompiani, Milano 2008, pp. 122-123. 114 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.109, f.1, prot.n.24408.3.8 della Direzione della Casa Circondariale di Firenze, 24 novembre 1976, avente per oggetto «Protesta dei detenuti»; ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.111, f.1, fonogramma n.10857/2977751 Riservato da Ministero Giustizia Ufficio Terzo Roma at Ispettori Distrettuali Firenze Roma Messina et Palermo, 15 ottobre 1976, ore 11.40. 115 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.121, f.1, fonogramma n.1388 Riservato da Ministero Giustizia Direz. Gen. Carceri Ufficio III Roma at Signori Ispettori Distrettuali Loro Sedi, 27 aprile 1977; ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.121, f.1, prot.Cat.A.4/77.Gab.Riservato della Questura di Firenze, 27 aprile 1977, avente per oggetto «Carceri di Firenze – vigilanza». 116 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, 012, 95.B. 121. 1977. 3/8. Fonogramma Riservato n.1388 da Ministero Giustizia Direz. Gen. Carceri Ufficio III Roma at Signori Ispettori Distrettuali Loro Sedi, in data 27 aprile 1977. 117 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.142, f.1, prot.n.3978 della Direzione della Casa di Reclusione Maschile di Perugia, 15 aprile 1977, avente per oggetto «Tentativo di evasione con sequestro di Agenti». 118 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.121, f.1, circolare n.225/111, prot.n.4356 dell’Ufficio dell’Ispettore Distrettuale degli Istituti di Prevenzione e di Pena per adulti – Distretto della Corte di Appello di Firenze, 4 marzo 1977, avente per oggetto «Introduzione armi e seghetti negli istituti penitenziari». 119 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.123, f.1, fonogramma n.304/77 da Direzione Casa Reclusione Spoleto at Ministero Giustizia Direzione Generale Carceri Uff.3 Roma, 19 luglio 1977; ASR, Fondo Altavista, B.124, f. «Napoli Casa Circondariale – Sequestro di un agente», Ministero dell’Interno – Direzione Generale della Pubblica Sicurezza – Servizio Ordine Pubblico e Stranieri – Divisione Ordine Pubblico – Sezione II, 2 marzo 1976.
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Dall’esterno l’organizzazione preparò alcune azioni simboliche come, ad esempio, lanci di molotov contro il carcere120 o raffiche di mitragliatrice contro le sentinelle121. Dal 1977, come vedremo, si sarebbe trattato anche di attaccare agenti, ispettori, consiglieri dell’amministrazione penitenziaria attraverso sequestri, gambizzazioni o esecuzioni122, tutte azioni che furono teorizzate come momenti di disarticolazione del sistema penitenziario, ma che nei fatti riuscirono solo parzialmente nel loro obiettivo, limitando una pressione repressiva che altrimenti sarebbe stata senza freni. Riguardo alle evasioni, è interessante soffermarsi su quella di Renato Curcio123 che il 18 febbraio 1975 riuscì a fuggire dalla prigione di Casale Monferrato in cui era stato trasferito da Novara perché l’amministrazione penitenziaria pensava di poterlo sorvegliare meglio. All’operazione parteciparono sua moglie, Mara Cagol, e un commando formato da Moretti, Tonino Paroli, Pierluigi Zuffada e Rocco Micaletto124. Sul successo di quest’azione, Reviglio della Veneria dirà: «Bisogna onestamente riconoscere che hanno compiuto una brillante azione con successo [...]. In questo momento hanno vinto loro: purtroppo»125. Il comunista Giancarlo Pajetta, intervistato da Mario Scialoja, pensò invece a qualcosa di diverso, affermando che il nodo della questione era soprattutto capire chi avesse mandato Curcio in un carcere mandamentale in cui non era stato custodito a dovere126. L’evasione di Curcio suscitò generiche polemiche sulla gestione delle carceri. Al Viminale si accusò il giovane Gian Carlo Caselli, che aveva trasferito il brigatista a Casale, prigione aperta e sperimentale in cui i detenuti non avevano obblighi orari e circolavano liberamente127, ma la magistratura negò ogni responsabilità spiegando che la ragione di quella scelta era dovuta alla necessità di separare Curcio dagli altri detenuti delle Br128. Mentre l’evasione riempiva le prime pagine dei giornali, le Br redassero un comunicatonel quale l’azione veniva celebrata come una vittoria politica del mondo operaio 120 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.123, f.4, fonogramma n.268/77 da Direzione Casa Reclusione Spoleto at Ministero Giustizia Ufficio III Roma at Ispettorato Distrettuale II.PP. Firenze, 30 giugno 1977. 121 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.95, f.1, prot.n.2682.3.8 della Direzione delle Carceri Giudiziarie Centrali di Firenze, 17 febbraio 1975, avente per oggetto «Attentato con arma da fuoco contro la sentinella n. 2 da parte di sconosciuti». 122 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, 012, 93, b. 103. 1975. Firenze. «Piano di sequestro e uccisione di agente da parte di detenuti di estrema sinistra» Prot.n.511.3.6 della Direzione degli Istituti Carcerari di Spoleto, in data 17 gennaio 1976, avente per oggetto «Invio copia rapporto registro riservati». 24 dicembre 1975. 123 A questo proposito, Vincenzo Tessandori, in «La Stampa», 19 febbraio 1975. 124 Mario Moretti, Rossana Rossanda, Brigate rosse. Una storia italiana, Baldini & Castoldi, Milano, 2004 [1994] p. 80. 125 «Corriere della Sera», 19 febbraio 1975. 126 Ma chi ha detto che i politici sono uguali ai comuni? Colloquio con Giancarlo Pajetta, «L’Espresso», 25 maggio 1975. 127 «Corriere della Sera», 19 febbraio 1975. 128. Il giorno dell’evasione nel carcere si trovavano 45 detenuti e 17 agenti di custodia. «Corriere della Sera», 20 febbraio 1975.
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e non dei detenuti o della lotta contro l’incarcerazione129. Prospero Gallinari, invece, avrebbe commentato il successo in una visione più ampia di liberazione dei detenuti: «Un’azione clamorosa non solo perché è uscito Curcio, uno dei massimi dirigenti delle Brigate Rosse, ma anche perché è stata praticata per la prima volta la parola d’ordine della liberazione dei prigionieri politici, punto cardinale per l’identità di una organizzazione combattente»130.
Dopo quell’evasione, non sarebbero state rare le note o gli scambi epistolari tra direttori carcerari e istituzioni sui piani di evasioni da parte delle Brigate rosse che portarono a intensificare le norme di sicurezza e la responsabilizzazione del personale di custodia per vigilare ed evitare aggressioni dall’esterno131. Nel 1975 le Br diffusero la prima Risoluzione della direzione strategica132 in cui la liberazione di Curcio venne inquadrata all’interno della necessità, per ogni organizzazione armata, di combattere il sistema penitenziario. «L’assalto al carcere di Casale per la liberazione di un compagno è un’azione di propaganda armata nel senso che: – ha prodotto una disarticolazione profonda nello Stato; ribaltamento 129 «Il 18 febbraio un nucleo armato delle Br ha assaltato e occupato il carcere di Casale Monferrato liberando il compagno Renato Curcio. Questa operazione si inquadra nella guerra di resistenza al fascio di forze della controrivoluzione che oggi nel nostro paese sta attuando un vero e proprio «golpe bianco» seguendo le istruzioni dei superpadroni imperialisti Ford e Kissinger. Queste forze usando il paravento dell’antifascismo democratico tentano di far credere che il grosso pericolo al quale si va incontro sia la ricaduta nel fascismo tradizionale. Per questa via esse ricattano le sinistre mentre attuano il vero fascismo imperialista. Siamo giunti cioè al punto in cui la drammatica crisi di egemonia della borghesia sul proletariato sfocia nell’uso terroristico dell’intero apparato di coercizione dello Stato. La campagna costruita ad arte e scatenata negli ultimi mesi in principal modo dalla Dc sull’ordine pubblico lo dimostra. Le caratteristiche fondamentali di questo attacco controrivoluzionario sono due: 1) la volontà di ridurre ad una funzione neocorporativa il movimento sindacale e la sinistra; 2) la pratica di annientamento per via militare di ogni focolaio di resistenza. La crisi di regime non evolve dunque verso la catastrofica dissoluzione delle istituzioni, ma al contrario gli elementi di dissoluzione sono gli anticorpi di una ristrutturazione efficientistica e militare dell’intero apparato statale. Il terreno di resistenza alla controrivoluzione si pone così come terreno principale per lo sviluppo della lotta operaia. Il movimento operaio ha infatti di fronte a sé il problema di trasformare l’egemonia politica che già oggi esercita in tutti i campi, in un’effettiva pratica di potere e cioè deve porre all’ordine del giorno la necessità della rottura storica con la Dc e della sconfitta della strategia del compromesso storico. Deve porre in primo piano la questione del potere, della dittatura del proletariato. Compito dell’avanguardia rivoluzionaria oggi e quello di combattere, a partire dalle fabbriche, il golpismo bianco in tutte le sue manifestazioni, battere nello stesso tempo la repressione armata dello Stato e il neocorporativismo dell’accordo sindacale. La liberazione dei detenuti politici fa parte di questo programma. Liberiamo e organizziamo tutte le forze rivoluzionarie per la resistenza al golpe bianco. Lotta armata per il comunismo. Brigate rosse». 130 P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit., pp. 124-125. 131 AST, Fondo Casa Circondariale di Torino – Le Nuove, b.6183-6185, Ordine di servizio della Casa di Reclusione di Alessandria, n. 361, 19 novembre 1975, avente per oggetto «Nota Questura Alessandria n.A.4/1975 del 19/11/1975» documento intitolato «BR piano per attacco ad un carcere per liberazione detenuto imprecisato». 132 http://www.bibliotecamarxista.org/autori/brigate%20rosse.htm.
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della campagna di propaganda con cui si tentava di darci per “spacciati”; vanificazione di progetti democristiani di un “processo esemplare” sotto le elezioni; accentuazione delle contraddizioni tra magistratura e CC, tra magistratura di Milano e di Torino, tra alti e bassi gradi della magistratura, tra Dc e altre forze politiche, e via elencando; – ha battuto la pista al movimento di resistenza nei due sensi: di aver realizzato una parola d’ordine del programma rivoluzionario (liberazione dei prigionieri politici) e perciò aver creato un clima di fiducia nella massa dei prigionieri politici oltre che tra le avanguardie rivoluzionarie; aver esplorato un nuovo terreno di scontro ed aver tratto indicazioni ed esperienze che nei prossimi tempi risulteranno decisive; – ha creato le premesse reali per organizzare l’avanguardia rivoluzionaria rinchiusa nelle carceri del regime su un programma rivoluzionario di attacco allo Stato»133.
Dopo questa azione, le masse incarcerate non poterono che dar fiducia a questi nuovi rivoluzionari che si battevano per i propri compagni, sperando in una liberazione di massa una volta aderito al progetto rivoluzionario. Se per i Nap la prigione costituiva l’architrave della loro politica, il background brigatista era composto da militanti che non erano ancora mai stati incarcerati. I brigatisti vedono la prigione come un passaggio possibile, se non obbligato, nella lotta contro lo Stato ma si pongono meno la questione di migliorare le condizioni delle carceri perché ai loro occhi rappresentano la repressione e, in quanto tali, diventa imperativo abbatterle. Nel 1976 il fenomeno delle evasioni conobbe un’evoluzione considerevole sia in termini quantitativi che qualitativi134, in parte grazie agli effetti della riforma: beneficiando di permessi sempre più frequenti, un certo numero di detenuti non fece ritorno in prigione. A questo si aggiunse una cronica mancanza di personale di sorveglianza rispetto alla crescente quantità di detenuti che rese le prigioni italiane meno sicure. Nel 1974 evasero o non fecero ritorno in carcere in seguito a un permesso 211 persone, salite a 286 nel 1975 e a 378 nel 1976 e 447 nel 1977, prima della creazione del sistema differenziato135. Da quel momento si registrò un’inversione, fino a un minimo di 49 evasioni nel 1988136. Tra le fughe più eclatanti ci furono quelle di alcuni nappisti dal carcere di Lecce e quella dal carcere di Treviso realizzate attraverso l’unione di brigatisti e detenuti co133 Brigate Rosse, Risoluzione della Direzione Strategica, aprile 1975. 134 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.111, f.1, prot.n.1533 dell’Ufficio dell’Ispettore Distrettuale degli Istituti di Prevenzione e di Pena per adulti – Distretto delle Corti di Appello di Firenze, 25 gennaio 1976, avente per oggetto «Elenco nominativo dei detenuti evasi dal 1972 al 1976 dagli istituti carcerari compresi nel Distretti della Corte di Appello di Firenze». 135 C. de Vito, Camosci, cit., p. 90. Il dato tuttavia confonde due realtà qualitativamente diverse: l’evasione è cosa ben diversa da un mancato rientro e riguarda fasce di popolazione reclusa molto diverse tra loro. 136 N. Amato, Oltre le sbarre, Mondadori, Milano 1990, p. 59.
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muni e a cui partecipò anche Gallinari137. A ciò si aggiunga una nuova recrudescenza della lotta armata. Secondo le statistiche della Direzione Generale di Ps del dicembre 1976, dal primo gennaio al 30 novembre 1976 furono commessi 1198 attentati contro i 628 dell’anno precedente, più di cento al mese, che sarebbero arrivati a 155 nel primo bimestre del 1977. In quanto alle sommosse, nel corso del 1976 se ne verificano 34 rispetto alle 20 del 1975138. 3.7 Lo stato d’eccezione carcerario Già dagli avvenimenti di Firenze e Alessandria del 1974 il movimento dei detenuti comuni stentò a organizzarsi di fronte alla crescente repressione e alla mancanza di una strategia coerente. Le istituzioni, che compresero il pericolo rappresentato dalla presenza dei militanti della lotta armata in carcere, misero in moto un’organizzazione basata sulla sicurezza che ebbe la meglio sulle istanze più riformatrici e che avrebbe portato a un blocco totale dell’applicazione della riforma penitenziaria. Ciò accadde non solo nell’intento di isolare le tendenze più pericolose, ma perché i direttori delle carceri non furono più in grado di gestire i continui disordini causati dalla presenza di brigatisti e dalle rivolte dei comuni. Non avendo mezzi per risolvere questa situazione, chiesero costantemente al ministero di applicare l’articolo 90, ossia sospendere la riforma139. La realizzazione di una politica di sicurezza si rese necessaria anche per proteggere l’istituzione, vittima di numerosi attacchi armati il cui scopo era la liberazione dei militanti140. A causa di tutti questi fattori nacque l’idea di una più stretta collaborazione con le forze dell’ordine che andasse al di là dei casi eccezionali, come le traduzioni per recarsi a un processo o in caso di rivolta o evasioni141. Se tra il 1969 e il 1973 i detenuti politicizzati venivano trasferiti per evitare che le rivolte si diffondessero a macchia d’olio, con un risultato del tutto controproducente visto che la circolazione dei rivol137 P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit., pp.116-121, pp. 124-131, pp. 139-149. 138 ACS, Ministero dell’Interno – Gabinetto del ministro. Quinquennio 1976-1980. Criminalità statistiche della D.G.P.S., b. 66, f. 11001/114/2. 139 ASR, Fondo Altavista, f. 5/3 Torino Casa Circondariale – Prot.n.296500 del Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e Pena – Ufficio III, 3 settembre 1976, avente per oggetto «Casa Circondariale di Torino»; appunto per l’On.le Ministro Guardasigilli e per l’On.le Sottosegretario di Stato Dell’Andro. 140 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.135, f.1, fonogramma n.602 da Ispettorato Distrettuale II.PP. at Istituti Carcerari Loro Sedi, 20 luglio 1977; ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.121, f.1, circolare n.225/117 Riservata, prot.n.7520 dell’Ufficio dell’Ispettore Distrettuale degli Istituti di Prevenzione e di Pena per adulti – Distretto della Corte di Appello di Firenze, 26 aprile 1977, avente per oggetto «Sicurezza istituti – segnalazione». 141 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.100, f.15, circolare n.225/80 prot.n.4636 dell’Ufficio dell’Ispettore Distrettuale degli Istituti di Prevenzione e di Pena – Distretti delle Corti d’Appello di Firenze e Perugia, 21 marzo 1975, avente per oggetto «Servizio di sicurezza interna ed esterna, di vigilanza e di custodia».
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tosi non faceva altro che spingere altri detenuti a organizzare nuove sommosse, tra il 1975 e l’aprile 1977 l’amministrazione avrebbe applicato quella stessa tecnica della traduzione per evitare le evasioni, con un risultato opposto142. Era fondamentale impedire l’entrata in carcere di oggetti contundenti e di armi e il sistema delle perquisizioni venne modificato in senso più restrittivo143, come anche quello dei controlli rigorosi dei pacchi mandati dai familiari, che avrebbero potuto contenere esplosivi od oggetti pericolosi144. Per le stesse ragioni furono limitati i colloqui, compresi quelli coi difensori, soprattutto per i militanti delle organizzazioni armate che si videro spesso rifiutare il permesso di incontrare i loro cari se non sotto stretta sorveglianza e con la possibilità del personale di ascoltare e trascrivere i colloqui145. Attraverso la circolare 2258/4713 del ministero di Grazia e Giustizia inviata nel settembre 1975 alla Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena furono definite le nuove caratteristiche strutturali dei locali, dove si dovevano installare grandi tavoli fissati in terra con una barriera divisoria in plexiglas alta trenta centimetri, che impedisse il contatto tra detenuti e familiari o detenuti e avvocati146. A queste nuove norme si aggiunse la necessità di trovare una soluzione al problema dell’obsolescenza delle prigioni, il che determinò numerose ristrutturazioni che puntarono ad aumentare il livello di sicurezza dei penitenziari. Non si trattò più semplicemente di sorvegliare in modo rigoroso i detenuti più pericolosi, ma di costruire nuovi posti di guardia e raddoppiare i muri di cinta, aumentare l’illuminazione notturna e installare porte magnetiche e recinti, citofoni e serrature per controllare in modo più accurato l’intera popolazione carceraria. Furono rinforzati i soffitti con il cemento armato per impedire che i detenuti salissero sui tetti durante le rivolte, soluzione suggerita dai direttori dei penitenziari147. Nel febbraio 1977 Giorgio Bocca riassunse perfettamente il nodo del problema carcerario, che si era inasprito con la stretta sulla sicurezza del governo: «Si rifiutano come impolitiche le amnistie, le clemenze. Così le carceri scoppiano per la trop142 P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit., p. 126. 143 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.124, f.2, prot. n. 19585.3.8 della Direzione della Casa Circondariale «Murate» di Firenze, 30 agosto 1977, avente per oggetto «Perquisizione generale della Casa Circondariale di Firenze, avvenuta il 26/8/1977». 144 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.121, f.3, circolare n.225/109, prot. n. 2147 dell’Ufficio dell’Ispettore Distrettuale degli Istituti di Prevenzione e di Pena per adulti – Distretto della Corte d’Appello di Firenze, 2 febbraio 1977, avente per oggetto «Sicurezza negli istituti penitenziari – intensificazione vigilanza controllo involucri, pacchi introdotti nello stabilimento per conto dei detenuti». 145ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.121, f.1, fonogramma n.2/23/77 da Procura Repubblica Firenze at Ispettorato Distrettuale II.PP. Firenze e Procuratori Repubblica Distretto, 3 gennaio 1977. 146 Circolare n.2258/4713, prot. n. 504173/1.3.10 del Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena – Ufficio VIII, 18 settembre 1975, avente per oggetto «Locali ad uso colloqui detenuti e familiari». 147 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.121, f.18.
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pa gente che ci vive in condizioni bestiali e che per questo, ogni tanto si ribella. Dando un nuovo motivo, un nuovo alimento alla campagna politica per la mano forte, per le autoblindo dei fedeli carabinieri. I carcerati sono l’ultima ruota del carro»148.
In quel contesto di grande dinamismo, che portò a modifiche strutturali nel rapporto tra carcere e reo, nella circolare 2401/4855 della D.G.II.PP. del marzo 1977149 si impose una restrizione sempre più forte delle libertà conquistate dai detenuti con la riforma del 1975, alla quale si opposero molti direttori, rimasti però inascoltati150. Tre mesi dopo, nel giugno 1977, il Guardasigilli Bonifacio inviò una nuova circolare nella quale evocava il carattere del tutto eccezionale della situazione e la necessità di un ritorno all’ordine151. A ciò si aggiunse la legge n. 450 del 20 luglio 1977 redatta per fare fronte al numero crescente di evasioni, che limitò le concessioni dei permessi che da quel momento sarebbero stati accordati in via del tutto speciale solo per «eventi familiari di particolare gravità»152. Si trattò della definitiva sepoltura del reinserimento dei detenuti nella società voluto dalla riforma del 1975. La gestione politica del carcere e dell’«urgenza terrorismo» fu ormai inevitabile e ci si avviò verso un sistema differenziato, che sarebbe stato delineato nel decreto ministeriale BonifacioLattanzio-Cossiga, ministri della Giustizia, della Difesa e degli Interni, del 4 maggio 1977, che attribuì il ruolo di «coordinatore dei servizi di sicurezza esterna degli istituti di prevenzione e di pena» all’Arma dei Carabinieri153. Nel decreto non si menzionava chiaramente l’istituzione delle carceri speciali e si parlava solo di una soluzione tecnica e della necessità della sorveglianza esterna delle carceri da affidare ai Carabinieri, come di una soluzione temporanea, dovuta alla mancanza di sicurezza nelle strutture esistenti. Una seconda circolare del ministro Bonifacio del 12 maggio 1977 indirizzata all’Amministrazione penitenziaria dichiarò che il compito dell’Ufficiale generale, ossia di Dalla Chiesa e dei suoi collaboratori, era visitare vari istituti penitenziari per raccogliere informazioni riguardanti la sicurezza, l’ordine e la disciplina154. Dalla Chiesa venne accompagnato dal magistrato Pasquale Buondonno, responsabile 148 «la Repubblica», 13 febbraio 1977. 149 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.121, f.8, circolare n.2401/4855, prot. n. 322057/13 del Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena – Ufficio III, 16 marzo 1977, avente per oggetto «Ordine e sicurezza negli istituti di prevenzione e di pena». 150 Paolo Pozzesi, Volete un carcere o un lager?, «Paese Sera», 13 novembre 1975. 151 Circolare n.2429/4882, prot. n. 324323/1-1 del Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena – Ufficio III, 10 giugno 1977, avente per oggetto «Situazione degli istituti di prevenzione e di pena. Aspetti operativi per assicurare l’ordine e la disciplina negli stabilimenti». 152 Si veda, a questo proposito, l’intervista al ministro Bonifacio: Perché nelle carceri italiane si entra e si esce come in albergo, «Corriere della Sera», 5 gennaio 1977. 153 «Rassegna di Studi Penitenziari», A.XXVII, n. 3, maggio-giugno 1977, pp. 445-446. 154 Circolare n.2419/4873, prot.n.28730/5-1-3 del Ministero di Giustizia – Direzione Generale per gli Isti-
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dell’Ufficio XII della D.G.II.PP e incaricato delle prigioni di massima sicurezza. Questa collaborazione sarebbe stata interrotta dopo pochi mesi dal magistrato, non senza polemiche perché secondo «Paese Sera» Buondonno non avrebbe più voluto incarnare «il braccio repressivo della legge», visto che non gli era consentito svolgere l’altra parte del programma carcerario, cioè quello dell’umanizzazione della pena155. Al di là di quelle polemiche, si comprendeva la complessità e la tensione dell’operazione. Lo scopo di queste visite era ormai chiaro: preparare la creazione di sezioni di massima sicurezza. Il 20 maggio 1977 Dalla Chiesa inviò una circolare a tutti i direttori dove chiese nuovi dettagli sulle norme di sicurezza. Lo scopo era quello di raccogliere informazioni su carenze strutturali la «cui scarsa entità potrebbe essere immediatamente superata con interventi in economia fino at conseguire sicurezza auspicata»156. Il valore delle informazioni permise un censimento completo per identificare i luoghi più sicuri da trasformare in sezioni di massima sicurezza157. La designazione dei primi penitenziari che sarebbero stati trasformati in prigioni speciali avvenne a giugno: in una lettera di Bonifacio al direttore generale Altavista, si parla di una riunione tenutasi il 7 giugno 1977 nella quale «sono state determinate le opere strettamente necessarie per garantire la massima sicurezza degli istituti di Cuneo, Trani, Fossombrone, Favignana e Asinara»158. Allo stesso tempo l’attività dei responsabili dell’Amministrazione penitenziaria e di Dalla Chiesa si focalizzò sull’identificazione dei detenuti da trasferire: si trattava di un passaggio chiave che rivelava la natura tecnica e politica di tutta l’operazione. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, i detenuti indicati non erano solo quelli facenti parte della lotta armata o della destra neofascista, ma anche quei detenuti comuni che presentavano «una particolare pericolosità in relazione ai delitti attuti di Prevenzione e di Pena – Ufficio Segreteria – Rep. I, 12 maggio 1977, avente per oggetto «Sicurezza esterna degli Istituti Penitenziari». 155 «Paese Sera», 6 gennaio 1978. 156 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.121, f.9, messaggio urgente intestato «Legione Carabinieri di Firenze», prot. n. 19214 dall’Ispettorato Distrettuale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena per adulti – Distretti delle Corti di Appello di Firenze e Perugia, 21 maggio 1977. 157 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.121, f.9, prot. n. 17/R.3.8 della Direzione della Casa Circondariale di Lucca, 25 maggio 1977, avente per oggetto «Notizie richieste circa sicurezza interna ed esterna Istituti», al Generale dei Carabinieri Coordinatore dei Servizi di Sicurezza per gli Ist. di Prev. e Pena presso il Ministero di Grazia e Giustizia. 158 Cinque fortezze da cui non si evade, «Il Corriere della Sera», 22 agosto 1977. ASR, Fondo Altavista, B.125, prot. n. 44/25/1 del Ministro di Grazia e Giustizia, 8 giugno 1977, al Signor Direttore Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena – Sede. Tra gli aspetti di cui l’Ufficio XII della D.G.II.PP. si occupa, c’è anche il mobilio delle sezioni di massima sicurezza. A questo proposito: ASR, Fondo Altavista, B.125, prot. n. 790480/AGP del Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena – Ufficio XII, 29 novembre 1977, avente per oggetto «Arredamento per le sezioni di grande sorveglianza (rif.492537.2/1 del 22/11/77)».
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tribuitigli e al comportamento carcerario»159. Si trattava, spesso, di detenuti implicati in rivolte, evasioni o sequestro di agenti carcerari. A differenza del caso tedesco, in cui gli speciali erano stati costruiti per rinchiudervi i detenuti della Raf, in Italia la scelta era più ampia e lo scopo era multiplo: colpire i politici, isolare i recidivi pericolosi, evitare nuove evasioni. Si trattava della soluzione più semplice (rinchiudere i pericolosi in stabilimenti sottomessi a regole ferree e lasciare i detenuti inoffensivi nelle prigioni del circuito regolare) e con un minor costo rispetto all’ipotesi della ristrutturazione di tutte le prigioni, visto che alla fine si trattava di modificare la sicurezza in un numero esiguo di penitenziari preesistenti160. Il fatto in sé, inoltre, poteva avere una funzione dissuasiva per i detenuti comuni, costituendo un messaggio chiaro per chi avesse voluto scegliere la strada della lotta armata. La doppia operazione legata all’antiterrorismo e alle esigenze di sicurezza rivoluzionerà per sempre il sistema penitenziario italiano. Una parte minoritaria della magistratura vi si opporrà, proponendo in alternativa l’applicazione letterale della riforma del 1975 e un suo eventuale miglioramento. A questo proposito Carlo Galante Garrone scriveva: «Che cosa non si deve fare? In breve non si deve adottare alcuna misura eccezionale. L’ordinamento penitenziario non deve essere toccato se non per migliorarlo […]. Non si devono fare campi di concentramento, e cioè carceri speciali, veri e propri ghetti per detenuti speciali. Diventerebbe fatale una discriminazione fra detenuti e detenuti per ragioni anche ideologiche, e questo non si può consentire. Non si deve applicare il famigerato articolo 90 che consente di sospendere le garanzie stabilite dall’ordinamento penitenziario. Sarebbe come se alla fine della Costituzione della Repubblica italiana fosse scritto: le norme della Costituzione valgono se e fino a quando il governo non ne sospenderà l’applicazione. Ci vuole tanto a capire che l’ordinamento penitenziario è la Costituzione dei detenuti?»161.
3.8 Le carceri speciali Il 1977 segnò contemporaneamente l’apice della seconda ondata di scontro sociale e generazionale dopo il 1968 e l’inizio della repressione e del riflusso. Fu l’anno dei moti a Bologna, della chiusura di Radio Alice, dell’arresto di Franco Berardi, dei redattori della rivista «Controinformazione», degli avvocati Saverio Senese, Sergio Spazzali e delle uccisioni – da parte delle forze di polizia – di Francesco Lorusso, Giorgiana Masi e del nappista Antonio Lo Muscio. Nel settore carcerario il 1977 rap159 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.121, f.10, prot. n. 15401.3.6 della Direzione della Casa di Reclusione di Porto Azzurro, 1 luglio 1977, avente per oggetto «Trasmissione elenchi detenuti pericolosi». 160 Dal carcere delle Murate di Firenze, «Carcere Informazione», n. 5, marzo 1977, pp. 10-11. 161 Cosa fare e cosa non fare: un intervento del senatore Carlo Galante Garrone, «Carcere Informazione», n. 5, marzo 1977, p. 2.
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presentò l’anno del perfezionamento della repressione e della cancellazione, con un colpo di spugna e in nome della sicurezza nazionale, dei diritti dei detenuti. Per i militanti della lotta armata incarcerati fu un anno cruciale che diventò motore di nuove e sempre più numerose iniziative contro il sistema carcerario. Resi sicuri i primi reparti speciali, la questione che si pose fu la scelta dei detenuti che dovevano essere rinchiusi «a totale discrezione dell’amministrazione carceraria»162. La supervisione di un giudice di sorveglianza, normalmente adibito a questa funzione dopo la riforma del 1975, fu inesistente, fatto che incitò a scelte arbitrarie e discutibili portate avanti dall’Amministrazione penitenziaria e dal mondo politico. L’articolo 280 prevedeva già che i detenuti più pericolosi fossero trasferiti in «case di rigore», come, ad esempio, quella di Volterra, ma solo in seguito alla decisione del giudice di sorveglianza, non certo dell’amministrazione. Una mancanza di chiarezza e di controllo nei criteri, di fondamento giuridico di questi penitenziari basati non su una legislazione, ma su disposizioni amministrative tipiche della situazione d’eccezione, circolari, decreti interministeriali o decreti legge che non verranno mai convertiti caratterizzò la gestione delle carceri speciali anche perché, con la nascita di questo tipo di stabilimento, il sistema carcerario entrò di fatto in un funzionamento a due velocità e la funzione, anche ideologica, del carcere speciale consistette proprio nel tracciare una linea di demarcazione tra due gruppi di prigionieri: i recuperabili e gli irrecuperabili. L’operazione, che aveva le caratteristiche di una deportazione, cominciò in piena estate. Tra il 18 e il 26 luglio furono prelevati centinaia di detenuti che vennero differenziati nelle prigioni di Favignana, Asinara, Cuneo, Fossombrone e Trani usando migliaia di uomini, mezzi terrestri, aerei (elicotteri Chinook) e navali e gli aeroporti Nato di Pisa, Salerno e Civitavecchia. A operazione conclusa il Guardasigilli Bonifacio dichiarò che la distinzione tra i reclusi era stata fatta secondo il grado di pericolosità e il comportamento durante la detenzione aggiungendo, come giustificazione, che all’interno vigeva «un trattamento ispirato ai principi della riforma», e che erano state adottate solo misure per prevenire evasioni e azioni delittuose163. Anzi, tutto ciò produceva un chiaro vantaggio per la maggior parte dei comuni, finalmente liberi dalla violenza di pochi che ne comprometteva il reinserimento sociale. Le cinque prigioni che inaugurarono il cosiddetto circuito dei Camosci avevano in comune alcuni elementi fondamentali che confermano la volontà del mondo politico e dell’Amministrazione penitenziaria di dare una maggiore uniformità al sistema, sebbene ognuna presentasse particolarità soprattutto dovute alla sua ubicazione164. A Cuneo la struttura sorgeva a due chilometri dalla città in una zona isolata e non esistevano mezzi pubblici che conducessero al carcere. Tre jeep dei carabinieri 162 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.121, f.10, fonogramma riservato n.2153/325244 del Ministero Giustizia Ufficio III Roma at Signori Ispettori Distrettuali Adulti Loro Sedi, 25 giugno 1977. 163 «Controinformazione», n. 11-12. 164 Salvatore Verde, Massima sicurezza, cit
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percorrevano ininterrottamente le mura perimetrali e cellule fotoelettriche a raggi infrarossi erano montate su ogni garitta. All’interno, il rapporto tra guardie carcerarie e detenuti era di uno a uno, l’isolamento totale raggiungeva le 21 ore al giorno e i colloqui con i parenti si svolgevano attraverso vetri antiproiettile e con il citofono. A Fossombrone il carcere si trovava all’interno del centro abitato, ma il passaggio nelle sue vicinanze era interdetto, mentre per quelli che abitavano nei pressi venne previsto un sistema di passi. Tre jeep dei carabinieri controllavano le mura perimetrali e ai posti di blocco erano presenti unità cinofile; anche qui il rapporto tra le guardie e i detenuti era di uno a uno, l’isolamento totale di 21 ore e i colloqui avvenivano solo attraverso i vetri antiproiettile e i citofoni. Non era possibile cucinare né si potevano tenere in cella oggetti personali. Il carcere di Trani si trovava fuori dal centro abitato, era controllato da ronde di carabinieri simili agli altri due e il recinto esterno era munito di corrente elettrica protettiva. Il numero degli agenti di custodia era superiore a quello dei detenuti, i corridoi e i cortili erano muniti di telecamere, i colloqui protetti dai vetri antiproiettile, agenti e carabinieri giravano costantemente all’interno del carcere con unità cinofile, non era possibile tenere in cella oggetti personali e l’isolamento era di 22 ore su 24. A Favignana, un’isola al largo di Trapani, il carcere si trovava nel fossato che circonda il castello ed era chiamato «il fosso»; le celle erano state scavate nel tufo, 7-10 metri sotto al livello stradale, e il controllo era esteso a tutta l’isola e alle acque costiere. Erano previste 6 ore d’aria al giorno (molte di più che negli altri speciali) e la condizione dei detenuti era complessivamente migliore. L’Asinara, un’isola della Sardegna settentrionale, era ritenuta il simbolo degli speciali in quanto interamente adibita a colonia penale. Gli edifici con le celle erano dislocati in tre zone diverse: Cala d’Oliva e Fornelli per i «politici» e Cala Reale per i mafiosi. A Cala d’Oliva le celle rettangolari erano larghe 4 metri per 2,6 e ospitavano quattro detenuti. Era vietato comunicare con le celle vicine e le ore d’aria erano limitate a 2 al giorno, due celle per volta in un cortile di 12 metri per 5 chiuso da tutti i lati e coperto in alto da una rete metallica. A Fornelli le celle erano più ampie, ma l’ora e mezza d’aria era permessa solo cella per cella. La spesa veniva consentita allo spaccio per comprare sigarette, acqua, uova e caffè, mentre non si poteva acquistare pasta, carne o pane. La doccia veniva fatta una volta alla settimana, ma era proibita biancheria personale, sostituita con la divisa carceraria. Non esisteva assistenza medica e anche per avere delle medicine era necessario compilare «la domandina», il modulo che serve ancora oggi per comunicare qualsiasi tipo di richiesta alla direzione del carcere. La corrispondenza venne censurata, trattenuta a piacere della direzione, spesso non inoltrata. Infine, era molto complicato ottenere colloqui, che si svolgevano sempre a discrezione delle autorità165. La popolazione che abitava in quelle carceri nel 1977 era ancora eterogenea. Lo Stato, infatti, non aveva organizzato la distribuzione dei dete165 Maria Rita Prette, Il Carcere Speciale, Sensibili alle Foglie, Roma 2006.
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nuti secondo un preciso progetto, come farà all’inizio del decennio successivo. Allora il quadro generale della popolazione differenziata si complicò, specie quando vennero integrate al circuito speciale le carceri di Novara, Termini Imerese, Nuoro e la sezione «Agrippa» del carcere dell’isola di Pianosa166. Il 16 luglio 1977 un appunto riservato dell’Ufficio III per i direttori delle prigioni di Cuneo, Asinara, Fossombrone, Trani e Favignana fornì alcune direttive «per l’organizzazione interna degli istituti»167. Si trattava di un documento in cui erano elencate le disposizioni in materia di colloqui, corrispondenza, ore d’aria e consegna dei pacchi ed era la prova della regolamentazione minuziosissima che disciplinava ogni aspetto della quotidianità dei detenuti differenziati e dell’intenzione di separarli dal mondo esterno: non a caso, uno dei luoghi più spesso citati dai militanti quando descrivono il vissuto nelle carceri speciali è la sala colloqui168. Quello spazio era centrale perché rappresentava l’unica possibilità di apertura al mondo esterno ed era proprio lì che l’amministrazione innalzò maggiormente il livello di sicurezza, concretizzato con le pareti in plexiglas e i citofoni attraverso i quali le guardie potevano ascoltare le conversazioni169. Per queste ragioni la sala colloqui divenne uno degli obiettivi simbolici più frequentemente sabotati durante le proteste e le rivolte dei differenziati170. Normalmente il prigioniero veniva tradotto nel carcere più lontano rispetto alla propria città d’origine e quando era trasferito per un processo o in seguito a una rivolta, gli venivano messi ai polsi gli «schiavettoni», manette di ferro a vite particolarmente ingombranti e pesanti, di foggia ottocentesca. Quanto alle famiglie, furono obbligate a percorrere centinaia di chilometri a rischio di sentirsi dire, arrivando a destinazione, che il loro congiunto era appena stato trasferito all’altro capo della Penisola o che era stato privato del colloquio in seguito al suo comportamento in carcere o, semplicemente, per evitare di mostrare i segni delle percosse subite171. Quando 166 ASR, Fondo Altavista, B.125, prot. n. 29586/5-3 del Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena – Segreteria – Rep. I, 21 dicembre 1977, avente per oggetto «Estensione delle disposizioni di cui al decreto interministeriale 4.5.1977 agli Istituti di Pianosa e Nuoro». Sulla sezione Agrippa vedi: ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.135, f.2, fonogramma n.26117 da Direzione Casa Reclusione Pianosa-Isola at Ministero Giustizia Ufficio Terzo Roma at Ispettorato Distrettuale II.PP. Adulti Firenze, 24 dicembre 1977. 167 ASR, Fondo Altavista, B.125, fuori fascicolo, documento intitolato «Promemoria riservato», inviato dall’Ufficio III alle Direzioni delle carceri di Cuneo, Asinara, Fossombrone, Trani e Favignana il 16 luglio 1977. 168 «Dal carcere di Trani», Carcere Informazione, n. 9-10, luglio-agosto 1977, p. 13. 169 ASF, Direzione degli Stabilimenti di Pena, B.121, f.531764/1.3.10 Riservata del Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena – Ufficio VIII, 20 maggio 1977, avente per oggetto «Sicurezza sale colloqui». 170 A questo proposito Dichiarazione di Notarnicola letta durante il processo per la distruzione dei citofoni a Badu e Carros, «Senza Galere», n. 1, novembre 1978, p. 11 e Radio Sherwood, Camminando sotto il cielo di notte: intervista a Sante Notarnicola, Calusca editrice, Padova, 1993, p. 20. 171 Arrigo Cavallina, Sulle carceri speciali in Italia, in Stefano Mistura, La fabbrica della tortura, Giorgio Bertani editore, Verona 1978, pp. 89-90.
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i colloqui venivano concessi, i familiari erano sottoposti a perquisizioni degradanti, bambini compresi172. Carlo Franceschini, padre del brigatista Alberto, avrebbe detto, parlando dei tentativi di incontrare suo figlio: «Per me si è trattato del terzo tentativo. I primi due tentativi […] si sono risolti con due viaggi a vuoto […]. Insomma, per riuscire a vedere mio figlio ho dovuto percorrere oltre 4000 km in un mese con una spesa di 200 mila lire. La mia pensione è di 170.000 lire […]. Ci negano non soltanto i permessi, ma anche ogni tipo di informazione. Ogni carcere ha le sue regole, ogni carcere è una repubblica […]. Ci si sente costantemente umiliati, trattati a grida e spinte quasi fossimo dei criminali noi stessi»173.
Le misure di sicurezza per evitare le rivolte e le evasioni erano palesemente un pretesto per creare strutture il cui scopo era non solo isolare, ma annichilire i militanti in modo progressivo, privandoli oltre che dell’ossigeno politico anche dei più semplici rapporti umani, dell’affetto, della difesa, della coscienza della loro stessa dignità di uomini, prima ancora che militanti. Lo Stato decise di punirli in modo esemplare, al punto che le condizioni di vita all’interno del circuito differenziato furono ben più dure di quelle previste dal codice Rocco. Allora più che mai la prigione diventò un’arma politica le cui regole erano decise da un cerchio ristretto di persone per gestire un fenomeno che doveva essere sradicato. Per i militanti, la creazione delle prigioni speciali evocò gli avvenimenti della Repubblica Federale Tedesca. Curcio, tra i primi brigatisti a essere mandato all’Asinara, fece il seguente parallelo: «Presto affiorò anche la consapevolezza che noi in carcere potevamo correre un grande rischio. I fatti di Stammheim erano avvenuti da pochi mesi. Andreas Baader, Karl Raspe, Gudrun Ensslin, li avevo incontrati a Milano alcune volte; la loro morte in carcere pesava nei nostri pensieri come un macigno»174.
I militanti della Raf erano stati imprigionati in un modernissimo penitenziario a Stammheim, Stoccarda, all’interno del quale era stato creato un tribunale speciale 172 Prospero Gallinari, Linda Santilli, Dall’altra parte. L’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici, Feltrinelli, Milano 1995. Anna Maria Becagli, moglie del nappista Pasquale Abatangelo a questo proposito ci dirà: «Con l’introduzione dell’articolo 90 i colloqui si sono ridotti a uno al mese, tassativamente col vetro con perquisizioni personali, nel senso che dovevamo spogliarci completamente, fare flessioni. I pacchi non si dovevano portare o non più di 3 kg di roba, con liste limitative e moltissimi controlli. Le perquisizioni erano molto pesanti, specie quelle dei bambini. I bambini non venivano spogliati ma perquisiti sì». 173 Parlano i genitori dei BR all’Asinara: anche noi siamo trattati come pezzenti e criminali, «la Repubblica», 11 settembre 1977. 174 Renato Curcio, A viso aperto, cit., pp.150-151 e Dal carcere di Trani, «Carcere Informazione», n. 9-10, luglio-agosto 1977, p. 13.
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dove vennero processati per due anni. Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1977, mentre a Mogadiscio si svolgeva l’epilogo di un dirottamento aereo in appoggio all’azione contro il capo degli industriali tedeschi Hans Martin Schleyer175, a Stammheim furono ritrovati i corpi senza vita dei capi dell’organizzazione: Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan Carl Raspe. Quanto a Ulrike Meinhof, era stata trovata morta il 9 maggio 1976 nella stessa prigione176. La causa dei decessi, attribuiti dalle autorità a un suicidio collettivo, non è stata del tutto chiarita177. In Italia quell’avvenimento aprì un dibattito nell’opinione pubblica sulle similitudini e le divergenze tra i due paesi riguardo i circuiti differenziati. La questione verteva sulla «germanizzazione» dello Stato italiano, ovvero su un’involuzione autoritaria che alcuni non stentarono a definire «nuovo fascismo»178. Per loro la regressione passava attraverso l’approvazione di una legislazione speciale che puntava alla repressione delle organizzazioni armate tramite la differenziazione nel settore carcerario. La prigione tedesca di Stammheim diventò l’emblema di quella tendenza, un luogo simbolico che rappresentò una repressione razionalizzata, scientifica, moderna, che si basava su tecniche psicologiche d’avanguardia come l’isolamento sensoriale del detenuto179, a cui lo psichiatra Alberto Manacorda avrebbe dato il nome di «tortura pulita» durante il convegno tenutosi a Napoli il 19 febbraio 1977 dal titolo: «Germania e germanizzazione»180. 175 Presidente della Confindustria tedesca, ex nazista e membro delle SS, nelle quali raggiunse il grado di Untersturmführer (sottotenente). Cfr. infra, Parte seconda, 3.5. 176 AA. VV., La mort d’Ulrike Meinhof. Rapport de la Commission internationale d’enquête, François Maspero, Paris 1979. 177 Assassinio socialdemocratico nella Repubblica Federale Tedesca, «Senza Galere», n. 1, 1977, p. 2; V. Benati, La notte che salvò la democrazia: Stammheim-Mogadiscio, ottobre 1977: la grande stampa informa e commenta, Nuovo Impegno, Firenze 1977; R. De Castro, Sabbia su Stammheim, Studio Forma, Torino 1979. 178 AA.VV., Dossier Germania. Nuovo fascismo?, quaderno n. 2 di «Controinformazione», supplemento a «Controinformazione», n. 15, 1979; G. Cappelli, «Processo politico in Germania: l’assassinio di Ulrike Meinhof», AA.VV., Criminalizzazione e lotta armata, pp.153-157. Una “democrazia speciale”: il caso italiano, «Corrispondenza Internazionale», n. 11, dicembre 1978. 179 Giulio Maccacaro, La tortura dell’estrema solitudine, «Medicina Democratica», n. 6, giugno 1977, p. 24. 180 Alberto Manacorda era membro di Psichiatria Democratica. Alberto Manacorda, Le tecniche della distruzione: l’isolamento sensoriale nella prassi giudiziaria in Germania, in AA.VV., Germania e «germanizzazione». Atti del Convegno di Napoli, Tullio Pironti, Napoli 1977, pp. 73-78. Il modello di Stammheim risale a quello del carcere statunitense di Marion. A questo proposito, Da Marion nasce Stammheim da Stammheim nasce l’Asinara, «Carcere Informazione», n. 18, gennaio 1979, pp. 5-11 e Marion. Lavaggio del cervello, condizionamento psicologico, terapie da incubo. Le prove del “Nuovo Mondo” su cavie umane in un carcere americano, «Controinformazione», n. 13-14, marzo 1979, pp. 59-67. Gli organizzatori del convegno, tutti membri del Comitato Internazionale per la Difesa dei Detenuti Politici in Europa, avevano subìto varie ritorsioni in seguito al loro impegno. Il 2 maggio 1977, infatti, mentre il materiale per dare alle stampe gli atti del convegno era pronto, alcuni funzionari fecero irruzione nello studio dell’avvocato Saverio Senese e sequestrarono il manoscritto senza verbalizzarlo; AA. VV., Germania e «germanizzazione». Atti del Convegno di Napoli, Tullio Pironti, Napoli 1977, pp.11-12.
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Nacquero allora molti comitati e collettivi il cui scopo era denunciare le condizioni dei detenuti speciali. Su di loro si abbatté una forte repressione, sia che si fosse trattato di militanti politici181, che di avvocati, famiglie di detenuti o semplici cittadini. Quanto ai genitori dei differenziati, ci sembra interessante citare il caso di Ermes Ognibene, padre di Roberto, brigatista della prima ora. Alla domanda se le carceri speciali fossero o meno dei lager alla tedesca, rispose: «Non diciamo sciocchezze. Non ci potrebbe essere nulla di più italiano: lo Stato arrogante con i deboli, e debole con i forti»182.
181 Franca Rame, Alberto Buonoconto… non dirmi degli archi parlami delle tue galere…, F.R. Edizioni, Milano 1984. 182 «la Repubblica», 11 settembre 1977.
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Capitolo 4 Obiettivo Aldo Moro
4.1 Le Risoluzioni strategiche del 1975 e 1978 Come visto nel capitolo precedente, Curcio era stato liberato dal carcere di Casale Monferrato grazie a un’azione a sorpresa delle Br. La riorganizzazione del gruppo armato condusse Mara Cagol a dirigere la Colonna di Torino, Curcio tornò a quella di Milano e Moretti fu spostato a Roma per cercare di mettere in piedi una Colonna. Ciò rispondeva alla nuova strategia, illustrata nel volantino diffuso dopo la liberazione di Curcio, che segnò un’evoluzione rispetto ai precedenti documenti: la classe operaia doveva voltare le spalle al Pci per indirizzare le potenzialità dell’autonomia verso una strategia finalizzata alla presa del potere (che coincideva con la pratica della lotta armata), partendo dai luoghi di lavoro – le fabbriche – per uscire nella società. Il brigatismo si pose tre traguardi fondamentali, rimasti poi una costante: la liberazione dei militanti prigionieri, l’offensiva all’interno delle fabbriche per promuovere l’autonomia operaia e l’attacco allo Stato, in particolare alla Democrazia cristiana. La nuova sintesi politica fu definita grazie al contributo di Curcio e diffusa nell’aprile del 1975 nella Risoluzione della direzione strategica, punto di convergenza fra la tendenza dei brigatisti che vedevano al centro la lotta nelle fabbriche e quella di Curcio che privilegiava l’attacco allo Stato. La Risoluzione partiva dal concetto che il capitale stava attraversando la crisi maggiore dalla fine della Seconda guerra mondiale, determinata da varie cause: a livello economico il problema energetico e la sovrapproduzione, mentre a livello politico e militare era stata determinante la sconfitta statunitense in Vietnam. Per evitare il rischio di una dissoluzione del sistema, il capitale era costretto ad autoriformarsi, scoraggiando contestualmente ogni tentativo delle classi subalterne di approfittare del suo momentaneo stato di debolezza. I governi, soprattutto in quei paesi dove l’antagonismo sociale era maggiore, avevano represso le velleità di trasformazione in senso socialista della società, giungendo alla creazione di vere dittature, come in Cile e in Cile. Gli Stati Uniti, dove il capitale aveva raggiunto il suo massimo sviluppo attraverso le multinazionali, stavano preparando lo scardinamento degli equilibri di Yalta e si apprestavano a giocare la partita finale, realizzando una «controrivoluzione 123
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globale imperialista», che comportava principalmente la ristrutturazione dei modelli economici di base. I vari governi, sotto la guida di Washington, si sarebbero divisi i mercati e per questo le strutture istituzionali di molti paesi, inadeguate a questa nuova politica perché troppo democratiche, dovevano essere riformate in senso autoritario. La sovrastruttura incaricata della realizzazione di questi piani fu chiamata dalle Br «Stato imperialista delle multinazionali» [Sim], una novità rispetto alle forme classiche di Stato nazionale1. In precedenza lo Stato aveva sempre svolto una funzione di mediazione tra le classi sociali. Con lo Sim, invece, quel ruolo passava direttamente al capitale, che lo svolgeva esclusivamente a proprio vantaggio. Le multinazionali avrebbero condotto alla dissoluzione dello Stato sociale a favore di una nuova istituzione corrispondente esclusivamente ai loro interessi globali. Nel corso della realizzazione di questo piano, il lavoro a livello locale sarebbe divenuto meno stabile, la mobilità aumentata, rendendo precaria un’alta percentuale di manodopera, mentre in termini assoluti sarebbe cresciuto il numero dei disoccupati in quanto molti di loro non sarebbero più stati assorbiti con l’emigrazione interna, fenomeno ormai in esaurimento nei paesi a capitalismo avanzato. In Italia la Democrazia cristiana era l’asse portante di questo progetto, l’elemento di «continua mediazione dialettica fra gli interessi dei vari gruppi capitalisti». La Dc si proponeva di costruire un «più vasto e articolato blocco storico apertamente reazionario e controrivoluzionario, funzionale alla costruzione dello Stato imperialista», cercando una spaccatura verticale con le forze rivoluzionarie per garantire il rafforzamento delle strutture militari in senso antiguerriglia, la creazione di una magistratura di regime anche attraverso l’inasprimento delle leggi repressive e l’istituzione di una repubblica presidenziale. Quello che era stato prima chiamato «progetto neogollista», fu inserito in una prospettiva più ampia, nella quale la classe operaia sarebbe stata sacrificata in vista di una ridefinizione degli obiettivi per gli anni Ottanta e Novanta del secolo, incorporata «dentro il capitale e dentro lo Stato», in una logica per la quale «salvare il padrone» avrebbe significato anche salvare se stessa: «per salvare il padrone [la classe operaia] deve salvare lo Stato; per salvare lo Stato deve assumersi i costi economici della riconversione produttiva e i sacrifici della ristrutturazione imperialista». Si trattava, a dire 1 Per la «lettura» dei mutamenti in corso come preludio allo «Stato imperialista delle multinazionali» [Sim] fu molto importante la conoscenza del rapporto alla Trilateral preparato da Michel Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki La crisi della democrazia: rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, prefazione di Giovanni Agnelli, introduzione di Zbignew Brzezinski, Franco Angeli, Milano 1975. Una delle tesi del libro è quella che fa della «governabilità» un momento peculiare delle democrazie, che sacrificherebbero alla nuova esigenza alcune libertà del passato. In anni più recenti la necessità della lotta internazionale al terrorismo ha portato a estreme conseguenze il ragionamento grazie al pensiero dei cosiddetti «neocon».
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dei brigatisti, «di una logica miserabile e vale la pena di tenerne conto solo perché essa è fatta propria dai vertici sindacali e da quelli del Partito comunista», per i quali non esisteva più antagonismo tra l’imperialismo, il socialimperialismo dell’Urss e la rivoluzione, tutte cose ritenute «contraddizioni in via di soluzione pacifica e civile». Le Brigate rosse accusavano il Pci di essersi allontanato dal marxismo e dal leninismo, di aver abbandonato l’analisi di classe e negato il carattere imperialista, antinazionale e antipopolare della Democrazia cristiana, «cervello di tutte le spinte reazionarie e fasciste che si registrano con intensità sempre crescente nel paese». Il compromesso storico veniva inteso come un tentativo di gestire la transizione con una formula che «non corrisponde a un bisogno politico di classe ma più riduttivamente a un tornaconto opportunista di uno strato di classe che dal rafforzamento del sistema imperialista realizza alcuni miserabili vantaggi». Di fronte a ciò lo scopo delle Br diventava «unificare e rovesciare ogni manifestazione parziale dell’antagonismo proletario in un attacco convergente al cuore dello Stato». Posto come obiettivo ultimo la presa del potere, quello «intermedio» era individuato nel collasso e nella «crisi definitiva del regime democristiano, premessa necessaria per una svolta storica per il comunismo». Dato che la crisi politica del regime era considerata ancora lontana e la presa di coscienza delle forze rivoluzionarie non tale da poter suggerire il passaggio a una nuova fase, le Br intendevano rimanere sul piano della propaganda armata nella quale la guerriglia urbana avrebbe giocato un ruolo decisivo, in quanto colpiva direttamente il nemico sul suo terreno e permetteva di costruire il movimento di resistenza e dell’autonomia operaia. In questo modo si rispondeva direttamente a quanti vedevano possibile il processo opposto, ossia che dalla presa di coscienza dell’autonomia scaturisse quasi naturalmente l’avanguardia armata. Le assemblee autonome, secondo le Br, non erano più adeguate, perché incapaci di uscire dai limiti legali o semi-legali che si erano date, ossia di accettare la clandestinità come elemento strategico della guerra rivoluzionaria. In una visione che trascendeva la tradizione terzinternazionalista, nella quale un partito politico clandestino si muniva di un braccio armato, le Br identificarono pensiero e azione in un’unica realtà politica e militare chiamata Partito combattente. Il compito che si prospettava non era più organizzare il movimento di massa sul terreno della lotta armata, come si era pensato negli anni precedenti da parte di settori dell’Autonomia, ma «radicare all’interno della coscienza politica della classe operaia la necessità storica della lotta armata stessa». La propaganda armata, quindi, andava intesa non come una forma di lotta tra varie possibili, ma proprio come la parte iniziale di quella guerra civile che secondo le Br sarebbe stata l’epilogo della lotta contro lo Stato. Sul piano concreto le Br indicavano come prossimi obiettivi il progetto politico che sintetizzarono nella formula «cuore dello Stato»: il «patto corporativo» tra Confindustria, sindacati e governo (asse portante della ristrutturazione capitalistica), le strutture politico-militari (carabinieri, polizia) e gli organi principali della repressio125
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ne come la magistratura e le carceri, oltre a quei settori del giornalismo che a dire del documento si distinguevano particolarmente nella «guerra psicologica». Si doveva colpire la Dc, definita «il nemico principale», il «partito organico della borghesia, della classe dominante e dell’imperialismo», il centro politico della reazione, motore della controrivoluzione globale e «forma portante del fascismo moderno: il fascismo imperialista». Per questo la Dc, definita l’anima nera del regime che «da trent’anni opprime le masse operaie popolari del paese», andava «liquidata, abbattuta e dispersa», come era avvenuto nel ’45 con il regime fascista2. Dopo questa svolta teorica, tra la fine del 1975 e il principio del 1976 le Br si diedero una più precisa struttura organizzativa al fine di coordinare il lavoro dei militanti delle Brigate di fabbrica e di quartiere e le Colonne con i Fronti di combattimento. Partendo da un documento intitolato Liquidare la prima fase e diffuso nella pubblicazione clandestina «Lotta armata per il comunismo», ci si interrogava sul perché l’organizzazione avesse subìto tante sconfitte, trovando la risposta proprio nella mancanza di una «pratica dell’organizzazione». Con l’azione Sossi, si diceva, era terminata la prima fase della guerriglia, caratterizzata da una forza compatta ma solo relativamente organizzata. Se fino ad allora le Br erano state combattute per le loro azioni, dunque «per ciò che facevano», da Sossi in poi lo erano «per il fatto di esistere». I brigatisti, insomma, avevano intuito che le indagini su di loro erano state unificate sotto il comando di un’unica struttura o che «il nemico parte da un’unica inchiesta centralizzata sull’organizzazione e ne ricerca basi e uomini indipendentemente da responsabilità accertate, prove di colpevolezza eccetera». Proprio per parare il colpo portato con questa controffensiva si doveva giungere a una nuova struttura organizzativa3. Le Br avevano redatto un documento intitolato Norme di comportamento e stili di lavoro che riguardavano gli aspetti concreti della vita del militante, in particolare di quello regolare, ossia clandestino. È interessante per il lettore riportare quello che i brigatisti intendessero per clandestinità, perché spesso è stata intesa come sinonimo di cospirazione, cosa del tutto errata. La clandestinità era considerata una condizione indispensabile per la sopravvivenza di una organizzazione politico-militare che operava all’interno delle metropoli; tale condizione, però, non impediva ai militanti di agire apertamente all’interno dell’area dell’autonomia operaia attraverso forme di impegno legale. La clandestinità era importante anche da un punto di vista tattico in quanto consentiva di assumere un vantaggio sulla controparte, che era costretta a vivere esposta nei suoi uomini e nelle istallazioni. Per quanto riguardava le norme specifiche di sicurezza, esse dovevano accompagnare ogni passo del militante. Ad esempio, non si doveva an2 Risoluzione della direzione strategica delle Brigate rosse, aprile 1975, in «Controinformazione», n. 7/8, cit., pp. 144-150; in parte pubblicata su Soccorso Rosso, Brigate rosse, cit., pp. 270 e segg. Ampi stralci della Risoluzione apparvero su «L’Espresso», n. 41, 12 ottobre 1975 e su «Gente», n. 40, 6 ottobre 1975. 3 Romano Cantore, Carlo Rossella, Chiara Valentini, Dall’interno della guerriglia, Mondadori, Milano 1978, p. 103.
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dare a un appuntamento o svolgere attività come un volantinaggio senza che qualcun altro dell’organizzazione ne fosse al corrente; i nuovi contatti dovevano essere discussi con i responsabili di Colonna e regolati secondo un modo prestabilito. Inizialmente si doveva far saltare di proposito un appuntamento con un nuovo contatto per poter osservare la zona, che doveva essere studiata e conosciuta nei minimi particolari. Ogni militante aveva i suoi luoghi di riferimento, ma era necessario evitare di ripetere gli appuntamenti negli stessi posti, tra i quali andavano evitati i parchi pubblici, i luoghi in genere molto affollati, vicini a banche o istituzioni controllate dalle forze dell’ordine. I militanti clandestini non dovevano conservare appunti riguardanti l’organizzazione ma memorizzare tutto ciò che dovevano conoscere. Non si dovevano conservare agendine con numeri di telefono e nomi o indirizzi. Si doveva partire sempre dall’ipotesi che tutti i telefoni fossero controllati e quindi limitarne l’uso a brevi comunicazioni. Per quanto concerneva le automobili, tutto doveva essere sempre in regola: i documenti della macchina andavano accuratamente controllati tenendo presenti le varie scadenze dei bolli, della patente ecc. L’abitacolo doveva apparire ordinario senza, per esempio, giornali, volantini o cartacce in vista. Ogni sera si doveva togliere l’eventuale radio o altro che potesse attirare l’attenzione dei ladri. L’auto non poteva essere prestata se non in casi urgenti o eccezionali. Muovendosi in città si dovevano evitare le occasioni di litigio e si consigliava di guidare con prudenza e rispetto del codice stradale, ma anche guardando spesso lo specchietto retrovisore per capire se si era seguiti. Si consigliava di fare giri viziosi appositamente studiati per verificare in modo certo di non essere pedinati e non si doveva parcheggiare nelle vicinanze delle basi. L’abitazione, che era un bene dell’organizzazione e che veniva affidata in dotazione al militante, doveva essere gestita secondo regole precise, inderogabili e uguali per tutti. Ogni casa doveva essere frequentata esclusivamente dai militanti che la abitavano e conosciuta solo da un altro membro dell’organizzazione o della Colonna precedentemente designato, che ci si poteva recare per ragioni di particolare necessità. La strada doveva presentare caratteristiche tali da prestarsi a un facile controllo da parte del militante, dunque essere abbastanza isolata, lontana da bar, luoghi pubblici di vario genere, negozi, istituti e magazzini. Abitando una casa in clandestinità ci si doveva creare una figura sociale ben definita. Se ci si presentava ai vicini come operaio, professore o rappresentante, si dovevano rispettare gli orari previsti da quelle professioni, nel corso dei quali il militante avrebbe svolto il proprio lavoro fuori casa. Ogni militante doveva vestire in modo ordinario, decoroso ed essere in ordine nella persona, con barba fatta e capelli tagliati. Era consigliato spostarsi con non più di due documenti, la patente e una carta d’identità e con il materiale solo strettamente necessario al lavoro che si stava conducendo. Ogni militante doveva avere sempre con sé l’arma in dotazione. Non è vero, come spesso si crede, che non si potessero tenere rapporti con i familiari, ritenuti comunque un punto debole della clandestinità, ma essi andavano regolamentati ed era sconsigliabile averli nei periodi vicini a un’azione 127
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nella quale si era impegnati. I rapporti con il mondo politico legale erano ritenuti importanti ma si raccomandava di non partecipare a manifestazioni di piazza. In quella fase della storia brigatista i militanti regolari, dunque totalmente clandestini, non raggiunsero le quaranta unità, mentre maggiore era il numero di quelli «irregolari», che vivevano ancora con il proprio nome. A partire dalla metà del 1975 la Direzione strategica, che era diventata il maggiore organismo politico dell’organizzazione, si sarebbe riunita due o tre volte l’anno con la partecipazione di non più di tre brigatisti per Colonna. Quando Curcio fu nuovamente arrestato, nel maggio del 1976, l’elaborazione teorica delle Br si spostò necessariamente dentro al carcere a causa delle sue capacità di sintesi politica. La nuova Risoluzione della direzione strategica del febbraio 1978, così, fu il risultato di un incessante lavoro comunicativo tra l’organizzazione libera e quella in carcere e venne redatta tra la fine del 1977 e l’inizio del 1978. Diffusa in Italia con il Comunicato n. 4 del rapimento Moro (4 aprile 1978), si tratta di uno dei documenti più importanti prodotti dalle Br, nel quale si riprendono, ampliandoli, gli argomenti della Risoluzione del 1975. A suo modo costituisce il manifesto politico della Campagna di primavera4. Si partiva dall’ipotesi che il capitale fosse immerso in una crisi strutturale derivante dalla sopraggiunta difficoltà a ricavare plusvalore dagli investimenti nella produzione. Ciò lo costringeva a una riorganizzazione strutturale della produzione, a creare un allargamento dei mercati e la contemporanea distruzione della sovrapproduzione. Questa ristrutturazione implicava un mutamento profondo nella gestione del potere in quanto il capitale nazionale sarebbe stato progressivamente soppiantato dal capitale monopolistico multinazionale, i grandi gruppi monopolistici anonimi che avrebbero influenzato le decisioni politiche degli esecutivi, non più espressione della volontà popolare ma strumenti nelle mani della finanza internazionale. In altre parole, non era più solo il mercato a venire internazionalizzato, ma lo stesso capitale, il quale stava diventando globale nelle sue strutture produttive e nei rapporti di proprietà in un processo che determinava il predominio della «borghesia imperialista» considerata «l’espressione di classe del capitale monopolistico multinazionale». In ogni paese a capitalismo avanzato l’articolazione locale della borghesia imperialista avrebbe sostituito la borghesia nazionale, inadeguata ai nuovi compiti. La lotta armata nelle aree metropolitane si trasformava in «guerra di liberazione antimperialistica» e la «controrivoluzione», che avrebbe avuto un carattere internazionale, sarebbe stata guidata a livello dei singoli Stati dalla «articolazione locale della borghesia imperialista». Le principali caratteristiche dello Stato imperialista delle multinazionali erano la «formazione di un personale politico imperialista», la «rigida centralizzazione delle 4 Secondo Mario Moretti, questo doumento è «la sintesi del dibattito di alcuni anni e della nostra lettura della situazione italiana» al punto che non ci fu azione, in seguito, «che non abbia questo punto di riferimento»; M. Moretti, Brigate rosse, pp. 111-112.
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strutture statali sotto il controllo dell’esecutivo», il «riformismo» – l’inizio di una stagione di concertazione tra le parti sociali – e la «controrivoluzione preventiva», ossia la repressione violenta di ogni forma di resistenza alla ristrutturazione. Al fine di interrompere questo processo si indicava la strada della rivoluzione in un solo paese, l’Italia, considerata l’anello debole del fronte imperialista. L’Italia era stata integrata nel sistema multinazionale a partire dalla fine degli anni Cinquanta ed era diventata una delle cinghie di trasmissione degli interessi economici e strategici globali dell’imperialismo dominante. Era, però, anche «l’ultima provincia dell’impero», la «pattumiera d’Europa», quell’area alla quale «la divisione internazionale assegna una funzione tutt’altro che esaltante: pagare con il lavoro supersfruttato e con la disoccupazione selvaggia del nostro proletariato una quota rilevante dei costi della crisi generale del sistema [...]. Fare quei lavori sporchi–pesanti–nocivi–inquinanti–assassini che nessuno, proprio nessuno, vuole più fare». Il personale politico legato ai circoli imperialistici multinazionali si era concentrato nella Democrazia cristiana, la «forza centrale e strategica della gestione imperialista dello Stato», e lo scontro in atto al suo interno, quella «crisi di identità che la Dc sta attraversando, in modo particolare dal giugno 1975»5, era interpretato come uno scontro tra dirigenti legati al capitale nazionale e multinazionale. Alla Dc il capitale multinazionale avrebbe richiesto di «funzionare da polo politico nazionale della controrivoluzione», compito che poteva svolgere dopo un rinnovamento generale per guidare la riconversione dello Stato-nazione in anello della catena imperialista. Il potenziamento dell’apparato politico, quindi, doveva servire a condurre una guerra preventiva controrivoluzionaria, mentre lo Stato diventava soggetto attivo, perdendo ogni parvenza di terzietà: anziché esserne espressione, avrebbe gestito i partiti. Il ruolo del Parlamento sarebbe stato sempre più svilito a favore dell’esecutivo, controllato direttamente dal personale politico imperialista. Il carattere «globale, totalizzante e totalitario di questo dominio» creava una frattura tra gli apparati dello Stato e la società civile che poteva essere ricomposta solo attraverso un confronto drammatico. Al fine di evitarlo lo Sim cercava di coniugare due strumenti, il riformismo e «l’annientamento». Attraverso il riformismo si bloccava l’iniziativa dal basso, la lotta proletaria, «per recuperarla, rinserrandola poi all’interno del suo sviluppo; contemporaneamente, pacificate le retrovie», si sarebbe passato «all’annientamento di quella parte di proletariato che [il capitale] non può comprare né rinserrare nel suo sviluppo». Quindi «il riformismo non è mai separato dall’annientamento. Non è un’altra cosa. Il riformismo non è una politica della classe operaia, ma una politica dello Stato imperialista contro il proletariato metropolitano». Lo Sim, quindi, 5 Ci si riferisce all’elezione di Benigno Zaccagnini alla segreteria del partito avvenuta in luglio, poco dopo le elezioni amministrative.
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«si presenta come una struttura riformistico-repressiva altamente integrata e centralizzata. Da una parte abbiamo gli strumenti pacifici il cui scopo è assicurare il consenso delle masse: partiti istituzionali, sindacati, mass-media. Dall’altra gli strumenti militari il cui fine è l’annientamento: nuclei speciali, tribunali speciali, carceri speciali […] forze per la repressione generalizzata. Entrambi sono parti coesistenti e funzionali della stessa politica. Entrambi sono forme di uno stesso Stato».
L’unica soluzione per tentare di fermare questo processo era la lotta armata; non quella «terzinternazionalista» e la strategia dell’insurrezione «al momento opportuno», ma una sua versione più moderna, finalizzata allo scoppio di una guerra rivoluzionaria. Nel paragrafo intitolato Lo Stato imperialista delle multinazionali non è né fascista né socialdemocratico si ripercorrevano le fasi che avevano guidato il capitale nel corso della storia, identificando fascismo e socialdemocrazia con due opposti che fino a quel momento si erano esclusi. Con lo Sim, invece, «la sostanza di queste due forme politiche coesiste, dando luogo a un regime originale che perciò non è né fascista né socialdemocratico, ma rappresenta un superamento dialettico di entrambi». Analizzando la politica del Pci ci si chiedeva se la socialdemocrazia rappresentasse la via d’uscita alla crisi imperialistica e se il Pci si accingesse a fare il suo ingresso nell’area di governo. Il Pci era considerato un partito riformista che poteva essere temporaneamente ospitato all’interno del governo, ma le condizioni oggettive non permettevano alla sua politica revisionista di influire sui cambiamenti. Rispetto al passato, infatti, quando nelle socialdemocrazie storiche una parte della classe operaia aveva collaborato con la borghesia per gestire la crescita economica, la crisi dell’accumulazione aveva messo in crisi l’alleanza: «che cosa, infatti, possono concedere i capitalisti all’operaio professionale in cambio della sua collaborazione se non la cassa integrazione, licenziamenti, aumento dello sfruttamento e progressiva ma costante riduzione del potere d’acquisto dei salari? E comunque, al di là delle contropartite materiali, in quale ipotesi di sviluppo possono essere coinvolte, anche soltanto ideologicamente, quelle fasce di aristocrazie operaie [la burocrazia sindacale] che hanno ormai esaurito il loro potenziale progressista dal punto di vista del capitale?». Il Pci, insomma, sarebbe rimasto imprigionato nella sua politica e da progressista la sua funzione sarebbe diventata conservatrice, «finalizzata com’è a esercitare un rigido controllo sul mercato del lavoro e a organizzare il consenso attorno a un progetto di sviluppo economico e sociale che […] costringerà sempre di più i revisionisti a ricorrere a strumenti coercitivi e a imporre forzatamente il consenso anziché a sollecitarlo e a interpretarlo». Il Pci era destinato a un inevitabile tramonto, causato dalla sua politica «poliziesca» e «razionalizzatrice»: i riformisti erano già al servizio dello Sim e grazie alla loro mediazione «la militarizzazione si estende dalla fabbrica al quartiere, ai rapporti interpersonali, alle famiglie, in una catena di rapporti sociali gerarchizzati e violenti, dominati dalle leggi di una società repres130
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siva che l’imperialismo vorrebbe sempre più simile a un lager di milioni di produttori». Il Pci, in definitiva, era un partito opportunista e traditore delle aspirazioni di emancipazione della classe operaia ed era, dunque, alternativo al progetto brigatista. Confindustria, l’organizzazione degli imprenditori italiani, era considerata «l’asse portante dell’iniziativa imperialista nella ristrutturazione dell’apparato economico» e «il centro di iniziativa padronale», incaricata di elaborare «le linee politiche della ristrutturazione imperialista nel settore economico per poi proporle al governo e ai sindacati», vera «mente tecnica e garante politico al servizio delle multinazionali». Le forze produttive sarebbero state piegate agli interessi delle multinazionali attraverso la meccanizzazione e la robotizzazione del ciclo produttivo, lo sviluppo di nuovi settori a tecnologia avanzata, come il nucleare, la chimica e l’informatica, l’insediamento di sistemi di produzione automatizzati e lo sviluppo del settore bellico. Confindustria aveva il compito di formare il nuovo personale dirigente, «adeguato a gestire» il nuovo processo come «diretta articolazione degli organi dell’imperialismo». Per concludere, i due principali nemici della classe operaia erano la Dc, «asse portante dell’iniziativa globale dell’imperialismo nel nostro paese», e Confindustria, «asse portante dell’iniziativa imperialista nella ristrutturazione dell’apparato economico». Colpire il Pci, invece, non era decisivo per scardinare la ristrutturazione. Sulla base di queste considerazioni prendeva forma un punto importante del documento: secondo le Br, infatti, lo Stato si rifiutava, proprio per la sua natura controrivoluzionaria, di «negare alla violenza proletaria qualsiasi valenza politica». La negazione della valenza politica della lotta armata permetteva di criminalizzare il «guerrigliero urbano» che, «avendo la pretesa di considerarsi in guerra contro lo Stato», era sottoposto a un «trattamento speciale»: essere un criminale speciale diventava «sinonimo di criminale assoluto o anche anarco-nichilista, terrorista. Ma se questi erano i termini preferiti dagli specialisti della guerra psicologica, la figura politica che essi connotano per gli apparati di repressione è molto meno indeterminata: si tratta del nemico interno», contro il quale si adottava un «trattamento differenziato» al fine di liquidarne l’identità politica, che pur gli veniva negata. La necessità di arginare la lotta armata aveva portato lo Stato a ristrutturare quelli che erano chiamati i «corpi antiguerriglia» ponendo i nuovi organismi, Sismi e Sisde, sotto il controllo dell’esecutivo e nominandone a capo due generali dei carabinieri (Giuseppe Santovito e Giulio Grassini): «dal momento che lo scontro di classe assume i connotati della guerra, anche le funzioni dello Stato si integrano e la distinzione tra politico e militare si risolve in unità». Lo Stato si stava fornendo anche di nuovi e sofisticati meccanismi di sorveglianza che avrebbero presto trasformato la società in un grande «regime di libertà vigilata». Si denunciava il controllo nei centri di produzione, la schedatura delle avanguardie, degli studenti e dei loro organismi nonché del personale degli impianti strategici civili e della popolazione limitrofa. Si stava procedendo anche a una riorganizzazione della magistratura, che doveva esse131
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re posta sotto il controllo dell’esecutivo. Si ricordava, a mo’ di esempio, l’intervento del Consiglio superiore della magistratura in occasione del processo di Torino dopo l’omicidio di Croce; «il massimo organo della magistratura assume l’iniziativa della sospensione dei termini di carcerazione preventiva: il governo apparentemente si muove in un secondo tempo ratificando con un decreto legge la decisione dei giudici. Formalmente è l’esaltazione dello Stato di diritto, ma in realtà è la massima espressione di dipendenza dalle direttive dell’Esecutivo». La ristrutturazione del sistema carcerario e la «mobilitazione reazionaria delle masse attraverso i mass-media» rappresentavano gli ultimi tasselli dell’apparato e della strategia controrivoluzionari. Le carceri speciali, chiamate «campi di concentramento» «si legano direttamente, tanto sul piano dei contenuti politici che su quello degli obiettivi militari, alle strutture di concentramento per i compagni della Raf in Germania ed a quelle per i militanti dell’Ira in Inghilterra» ed erano organiche alla ristrutturazione imperialista, «che oltre a neutralizzare i comunisti catturati li trasforma in ostaggi». L’uso della definizione «Campi di concentramento», insieme ad altre molto diffuse in quegli anni, come «lager di Stato», «lager di Regime» o «kampo»6, venne contestata da Primo Levi in uno scambio di opinioni con Sante Notarnicola. Per Levi il significato della parola lager non era estensibile ad esperienze diverse dalla Shoah: «Caro Notarnicola, […] Tu mi conosci quanto basta per sapere che io non sono d’accordo né con l’introduzione del volume né con la premessa. La tua dedica mi ha toccato, e te ne ringrazio, ma non posso accettare l’equiparazione del carcere coi Lager. So bene (e i tuoi versi ne rendono tremendamente l’angoscia) quanto sia duro essere privati della libertà, ma in Lager questa era l’ultima delle sofferenze, percepibile solo nelle poche ore di tregua: prima venivano la fame, il freddo, la fatica, l’isolamento, la morte intorno. In Lager, solo ad Auschwitz, morivano 10.000 persone al giorno, e queste non avevano commesso altra colpa se non quella di esistere. Il Lager non era una punizione: non c’era traccia di giustizia, neppure di quella giustizia borghese che tu, a ragione o a torto, rifiuti, e che certo, nel tuo caso, non sa riconoscere quanto tu sia migliore delle tue teorie, e quanto sproporzionata la misura della pena a quella della colpa. Detto questo, devo subito aggiungere che le tue poesie (alcune, come sai, le conoscevo già) sono belle, quasi tutte: alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che, nel loro insieme, costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè, che è poeta solo chi ha sofferto o soffre, e che perciò la poesia costa cara. L’altra, quella non sofferta, di cui ho piene le tasche, è gratis. Memorabile fra tutte, addirittura miracolosa per concisione e intensità, è Posto di guardia. Ti ringrazio per avermele mandate: le rileggerò, le farò leggere e ci penserò sopra. Pensaci sopra anche tu: forse lo scrivere è il tuo destino e (in molti sensi) la tua liberazione»7. 6 Cfr. B. Guidetti Serra, Contro l’ergastolo. Il processo alla banda Cavallero, Edizioni dell’Asino, Roma 2010, p. 37. 7 Lettera del 5 settembre 1979, S. Notarnicola in L’anima e il muro, Odradek 2013, introduzione di D. Orlandi,
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Tornando al documento, le Br, dopo aver ripercorso a grandi linee la propria storia annunciarono un innalzamento del livello e della qualità dello scontro. Ciò, e questo è un punto importante, «non significa che non esistono più mediazioni adottabili», bensì che queste, qualora se ne prospettasse l’esigenza, andrebbero «viste in rapporto dialettico con la necessità di incidere militarmente per poter incidere politicamente». In altre parole, sarebbe stata possibile una mediazione con la controparte in modo proporzionale alla misura dei successi politici provocati dalle azioni militari. Le Br non si ritenevano ancora un partito combattente, ma un’avanguardia armata che lavorava all’interno del proletariato metropolitano per la sua costruzione, sebbene agissero da partito in quanto nucleo strategico e punto di riferimento essenziale del mondo rivoluzionario. Questo, in sintesi, era il contenuto della Risoluzione che avrebbe segnato la storia del brigatismo e, attraverso l’imminente rapimento di Moro, anche della Repubblica italiana. È difficile dire come fu accolta nella sinistra rivoluzionaria, ma l’impressione che si ha, leggendo anche quelli che sarebbero stati i commenti al sequestro di Moro, è che i gruppi e le organizzazioni legali e semilegali presero posizione per marcare la propria distanza dalle Br. Anche secondo una rivista vicina alle Br come «Controinformazione» il documento era «ipotecato da una macroscopica dose di volontarismo» e arbitrio e la sua caratteristica principale stava nel «passaggio continuo, indebito, dall’universale al particolare, dal concreto all’astratto, senza mai delimitare storicamente i vari ambiti di analisi, senza mai curare il nesso effettuale (e dialettico) dei reciproci rapporti». In altre parole, le Br non analizzavano la realtà, ma la fondavano (o rifondavano) a loro piacere; si trattava, peraltro, di una realtà molto rigida, cancellando il metodo marxiano, distruggendo il metodo dialettico e fossilizzando il sistema: avevano «ripristinato l’hegelismo nel marxismo», ritenendo «con buona dose di presunzione, di aver così scoperto la strategia politico-militare degli anni ’80». Avendo dimenticato l’analisi economica – i bisogni materiali della classe operaia – si erano concentrate solo sullo scontro venturo per giungere a una conclusione limitata, a un’alternativa acritica: «o il leviatano imperialista, o il proletariato rivoluzionario» tanto che l’analisi delle classi e della struttura di potere sembravano, «più che descrizioni di processi» delle «schede perforate». Ci si trovava, insomma, di fronte a un determinismo che poneva su un piano uguale e contrario «esecutivo» e «Partito comunista combattente» in una mistica «straniera all’intelligenza e ai bisogni pratici del proletariato, che è anche fonte di fascinazione»; sembrava, concludeva l’articolo, di sentire Robespierre, il suo messaggio enfatizzato dal presagio della sconfitta: «Tutto è cambiato nell’ordine fisico: tutto deve cambiare nell’ordine morale e politico. La prima parte della rivoluzio«Il secolo breve di Sante Notarnicola», p. 19. La vicenda viene trattata più diffusamente in D. Orlandi, Consummatum est. Primo Levi e Sante Notarnicola, «Letteratura&Società», n. 43, 2013; anche in http://www.tecalibri.info/N/NOTARNICOLA-S_anima.htm. Per le poesie di S. Notarnicola, Con quest’anima inquieta, Collettivo Senza Galere, 1979; La nostalgia e la memoria, Giuseppe Maj editore, 1986.
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ne del mondo è già stata compiuta; ora deve compiersi l’altra metà. La ragione dell’uomo rassomiglia ancora al globo ove egli abita: la metà è immersa nelle tenebre, quando l’altra metà è illuminata»8. 4.2 Perché Moro Dopo quasi un trentennio Pio Marconi, docente di sociologia politica a Roma, ha analizzato alcuni documenti prodotti dalle Br, tra cui la Risoluzione del 1978. A suo giudizio il concetto dello Sim, sottoposto nel passato a critiche profonde e in questa formula spesso identificato come prova «della natura delirante della analisi e della progettazione brigatista», era tutt’altro che farneticante. Le Br diedero prova di comprendere i sintomi della trasformazione delle società industriali tanto che alcuni elementi attribuiti allo Sim sarebbero diventati «patrimonio comune» e avrebbero suscitato «riflessioni anche in quegli ambienti che definivano delirio il ragionare brigatista». Marconi si riferisce al ruolo prioritario dell’esecutivo, al «decisionismo» come semplificazione della politica, alla funzione crescente dei tecnici nella gestione della cosa pubblica, all’arretramento dei diritti civili, all’impegno diretto di importanti imprenditori in politica, alla perdita di sovranità degli Stati in seguito alla globalizzazione9. Quale che ne sia il giudizio, grazie a questo documento è possibile sintetizzare le finalità del brigatismo e riprendere il concetto di «portare l’attacco allo Stato». Gli obiettivi dell’organizzazione, infatti, si erano col tempo modificati e accanto ai dirigenti di fabbrica e ai fascisti, la «guerra», divenuta molto più ampia che all’inizio dell’esperienza, prevedeva nuovi fronti che comprendevano gli uomini e le strutture dei tribunali e delle carceri speciali, le strutture di intelligenza delegate alla lotta contro il brigatismo, la stampa «di regime», strumento della guerra psicologica, i politici e tutto il personale economico-militare espressione del teorizzato Sim. Accanto a ciò si lavorava per organizzare il potere proletario armato e riunire il movimento rivoluzionario per la costituzione del Partito comunista combattente. La Dc costituiva l’obiettivo principale dell’organizzazione e tutta la vicenda cominciata il 16 marzo 1978 ne è la riprova. Moro fu rapito anzitutto perché uomo di spicco della Dc e il suo assassinio appare conseguente a una visione strategica che prevedeva, oltre all’attacco alla Dc, il conseguimento di un risultato concreto in cambio della vita dell’ostaggio, che mancò. Né il sequestro né l’omicidio di Moro erano in contrasto con quanto dichiarato dalle Br nel loro più importante documento teorico e se lo Stato, come è stato spesso scritto e ripetuto, non poteva cedere al ricatto, la li8 «Controinformazione», 11/12, 1978. 9 Pio Marconi, Il sequestro Moro. Una strategia allo specchio, in «Gnosis», rivista italiana di intelligence, n. 3 anno 2005, pp. 27-28.
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berazione di Moro senza contropartita avrebbe significato la crisi della propaganda armata. I brigatisti avevano sequestrato l’uomo più importante d’Italia e lasciandolo libero senza condizioni – ripetendo la conclusione della vicenda Sossi – avrebbero avallato la vittoria dello Stato. Fu il corso del sequestro a determinarne l’esito e la chiusura delle forze politiche pose i brigatisti di fronte al dilemma: uccidere l’ostaggio o liberarlo senza condizioni. Forse le Br non furono in grado di adeguare la propria strategia al fatto nuovo rappresentato dall’atteggiamento di Moro e dal contenuto delle sue lettere, una novità politica rilevante che modificava la dinamica e la qualità della vicenda. D’altro canto, se l’obiettivo massimo, ovvero la liberazione dei detenuti, non venne raggiunto, l’obiettivo minimo di scompaginare la Democrazia cristiana attaccando la politica di solidarietà con il Pci per i militanti delle Br era stato raggiunto. Sul piano tattico, inoltre, le Br videro crescere le proprie file mentre la lotta armata diventò l’orizzonte su cui si avviarono altri pezzi di movimento. Le Br, infine, ottennero un riconoscimento internazionale che si tradusse a partire dal 1979 in un rapporto con un pezzo di al-Fatha. Certamente la posizione assunta da Moro lascia aperta l’ipotesi, forse solo suggestiva, di un esito diverso: resta lecita la domanda se non fosse stato più disarticolante l’ostaggio liberato anziché ucciso. Piperno, per esempio, ha osservato che la liberazione di Moro avrebbe dato un colpo durissimo alle posizioni emergenzialistiche e che avrebbe aperto una nuova stagione di lotta. Il tema è probabilmente insolubile perché manca una verifica; oltretutto oggi sappiamo dell’esistenza del piano Victor e non possiamo valutare se e quanto avrebbe funzionato come deterrente sull’ormai ex presidente della Dc. Tuttavia, questa ipotesi non è facilmente liquidabile affermando che la liberazione dell’ostaggio avrebbe dimostrato il fallimento della propaganda armata a vantaggio delle tesi dell’Autonomia. Secondo Bruno Seghetti la scelta di uccidere Moro non fu dettata dal timore che vecchie posizioni dell’Autonomia (le teorie del «braccio armato» e della «cerniera»), potessero avere nuovo vigore da una sua eventuale liberazione senza condizioni, ma per la convinzione che alcuni obiettivi fossero comunque stati raggiunti; liberarlo in assenza di una contropartita politica avrebbe significato fare un passo indietro nel campo della lotta armata10. Da parte di governo e partiti l’unica via percorsa in quei 55 giorni fu la reiterazione di due ossimori di cui parleremo: la «fermezza flessibile» e la «tacita trattativa». Queste espressioni di per sé non affermavano molto ma rappresentarono le uniche due posizioni articolate delle istituzioni in risposta a quei drammatici eventi. Certo, se dopo la telefonata del 30 aprile la Dc avesse «detto quella parola», per le Br si sarebbero aperte prospettive politiche di ben altra portata che la semplice liberazione di uno, due, o addirittura 13 compagni. Esse, infatti, avrebbero potuto chiedere al gover10 Conversazione degli autori con Bruno Seghetti.
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no italiano la liberazione di moltissimi prigionieri, mettendosi a un tavolo di trattativa e costringendo l’esecutivo a scendere a patti. La Dc si sarebbe spaccata, l’alleanza con il Pci sarebbe saltata, Moro ne sarebbe uscito politicamente finito e l’incombenza del semestre bianco e l’elezione del successore di Leone avrebbero costituito due elementi ulteriori di instabilità. Il 30 aprile, dunque, le Br non chiesero poco alla famiglia Moro e alla Dc che, viste le premesse, non poteva che rifiutare. Subito dopo la diffusione dell’ottavo Comunicato il Sisde fece un’analisi della situazione, inquadrando la questione in termini opposti ai nostri. Scrisse, infatti, che «se fino alla settimana scorsa la perdita dell’on. Moro, per quanto dolorosa, poteva avere conseguenze politiche in fondo limitate», in quel momento avrebbe avuto effetti molto destabilizzanti, perché avrebbe posto le Br al centro dell’Autonomia, con prevedibile confluenza nelle sue fila di nuovi militanti. Contestualmente, la morte di Moro avrebbe probabilmente posto in crisi l’accordo di maggioranza tra i due maggiori partiti italiani, sebbene non si potesse prevedere con certezza l’esito della strategia. Certamente, scrivevano al Sisde, le Br avrebbero rifiutato ogni appello alla liberazione del presidente di carattere esclusivamente umanitario, come si leggeva nel Comunicato numero 7 («il problema del quale deve rispondere la DC è politico e non di umanità…»), e nell’ottavo in relazione all’appello del papa e del segretario generale dell’Onu. Lo stesso Moro aveva scritto nella lettera a Zaccagnini del 24 aprile di «vaghe indiscrezioni dell’on. Bodrato con accenti di generico carattere umanitario», con evidente presa di distanza. L’analisi del Servizio si soffermava anche sulle dichiarazioni degli avvocati dei brigatisti sotto processo a Torino, Giuliano Spazzali e Giannino Guiso11, che nel suggerire la linea da seguire per aprire un dialogo, sembravano restare indietro rispetto alle successive parole delle Br. Il Sisde notò anche che l’interlocutore delle Br era divenuta la Dc e non il governo, perché «il processo a Moro è un atto del processo alla Dc […] perché la Dc ha tutto il vantaggio di farsi parte dirigente di un progetto che vedrebbe, in fondo, una frattura ed un ridimensionamento del Pci»12. Il Servizio aveva colto nel segno: la Br conducevano un gioco politico da una posizione rigida, ferma sul destino dei militanti in carcere o, in secondo ordine, del rapporto tra l’organizzazione armata e lo Stato italiano. In tale ottica, il Pci doveva essere messo in un angolo, mentre la Dc doveva assumere l’iniziativa politica di compiere le mosse per liberare il proprio presidente. In un documento redatto dopo la conclusione della vicenda dal ministero dell’Interno, si tentò di ricostruire le tappe di avvicinamento all’obiettivo Moro, che coincideva con l’attacco più alto portato alla Democrazia cristiana. Queste erano i primi in11 Per quanto riguarda le dichiarazioni degli avvocati delle Br si vedano «La Stampa», 28 aprile 1978 sull’iniziativa di Bettino Craxi, il «Corriere della Sera» del 26 aprile sulle parole di Waldheim e le parole di Giannino Guiso su «la Repubblica» del 21 («sia Moro il mediatore») e 22 aprile («se la Dc risponde ci sarà una tregua»). 12 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 13, Gestione e obiettivi delle Brigate Rosse relativamente al caso Moro (Sisde).
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cendi del dicembre 1976 di auto di esponenti del partito di maggioranza, il primo ferimento di un dirigente del partito nel 1977, la definizione teorica dell’obiettivo nello stesso anno e poi la sua definitiva chiarificazione nella Risoluzione della direzione strategica del febbraio 1978. La Dc, come si leggeva nel Bollettino n. 4 del novembre 1977, andava liquidata e dispersa perché asse portante della ristrutturazione capitalistica e della controrivoluzione imperialista, ossia di quel progetto politico sintetizzato nella formula «cuore dello Stato». In questo senso, l’operazione Moro, ed è un passaggio da sottolineare viste le polemiche successive sulle presunte rivelazioni di Moro e i silenzi delle Br, «può offrire soltanto alcuni elementi non essenziali di novità», tranne che per il controprocesso, da inquadrare in contrapposizione con quello di Torino contro il nucleo storico. Si riprendeva l’impostazione del novembre sullo Stato imperialista delle multinazionali, sottolineando la decadenza, la debolezza e il velleitarismo della Dc, facendo dell’attacco al partito di piazza del Gesù una fase fondamentale della più generale offensiva contro il progetto politico di ristrutturazione delle multinazionali. Concludere la vicenda con l’uccisione di Moro significava considerare i partiti di sinistra complici della Dc e incapaci di opporsi al suo disegno egemonico, e riproporre la lotta armata come unica pratica «che abbia la possibilità reale di affrontare e risolvere la contraddizione antagonistica che oppone proletariato metropolitano e borghesia imperialista», come scritto nel terzo Comunicato. In tal senso, l’uccisione di Moro, sempre secondo il documento, va inquadrata anche nel tentativo di egemonizzare la lotta armata in Italia attraverso la costruzione del Partito comunista combattente13. Un primo tentativo, fallito, era stato l’accordo con i Nuclei armati proletari del 1976. Nel corso del 1977 la crescita del movimento aveva costretto le Br a ritirare le accuse di spontaneismo e qualunquismo rivolte contro le esperienze non organizzate di violenza diffusa, fino all’ipotesi di un nuovo rapporto, indicato nella Risoluzione del febbraio 1978, tra movimento, avanguardie armate e il teorizzato Partito comunista combattente. In questo senso il rapimento Moro, secondo gli analisti, aveva dimostrato una non comune efficienza operativa e capacità di gestione politica tali da rendere vincente l’ipotesi brigatista rispetto al resto del movimento. Ne era prova non secondaria la capacità di usufruire per un tempo non breve di un accesso praticamente illimitato a tutti i mezzi di comunicazione di massa. Non era quindi casuale il fatto che su 9 Comunicati, almeno 6 (i numeri 2,3,4,5,8 e 9) erano stati destinati alla propaganda della loro ideologia, né che i brigatisti avessero rifiutato la strada proposta dal Partito socialista, che rischiava di aprire un dialogo diverso con l’area dell’Autonomia sconfessando allo stesso tempo la tesi delle Br. Per ciò che riguardava la liberazione dei brigatisti detenuti, gli analisti si soffer13 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 24, faldone 13, Gli obiettivi dell’Operazione Moro nelle dichiarazioni delle Brigate rosse.
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mavano sullo spazio dedicato a quel problema nei Comunicati, rilevando che fu esiguo, strumentale e propagandistico. Non era quello il vero obiettivo dell’operazione, individuato nei primi due punti – processo alla Dc e costruzione del partito combattente – sebbene non si potesse sottovalutare come «la maggior parte dei crimini più efferati compiuti dalle Br hanno sempre una qualche attinenza» con il problema dei prigionieri: Sossi, Coco, Croce, Palma14. Era in quel contesto che aveva un senso la richiesta del riconoscimento politico, perché solo dopo quel passaggio le organizzazioni sovversive erano legittimate a chiedere qualcosa allo Stato: «sicché l’unico terreno di colloquio praticabile può essere solo quello della liberazione dei prigionieri perché idoneo a riconoscere allo Stato il solo ruolo di persecutore»15. Secondo il documento, però, l’ampiezza dei temi trattati non doveva trarre in inganno. Le Br, infatti, non si erano munite di un vero programma politico e il loro agire nel complesso appariva rivolto verso la determinazione di linee di condotta o di obiettivi parziali e strumentali. In altri termini, la loro ideologia restava una scatola vuota, che probabilmente non sarebbe mai stata riempita dalla loro visione «gruppuscolare della lotta politica […] in cui trovano più spazio […] problemi teorici sostanzialmente formali, di metodo cioè, e non di contenuto»16. Si tratta di un’analisi lucida di quella che era la strategia brigatista, se vista dall’esterno. Mancavano riferimenti più precisi alla dialettica interna del movimento e del «mondo» brigatista, ma è un fatto che il partito combattente non venne mai fondato. Quella delle Br fu, più che una teoria, una pratica politica della lotta armata, con tutti i limiti di tale approccio, anche se non mancarono lavori teorici interessanti come il lungo saggio di Andrea Coi, Prospero Gallinari, Francesco Piccioni e Bruno Seghetti dal titolo Politica e rivoluzione, nel quale vennero discusse e criticate le tesi di Gocce di sole nella città degli Spettri di Curcio e Franceschini e analizzati i motivi della sconfitta17. Le Br non hanno mai ritenuto il potere democristiano come una rappresentazione monolitica della formula «cuore dello Stato». Con questa formula non si intendeva un luogo fisico o una persona, ma la strategia politica del capitale in fase di ristrutturazione che di volta in volta si manifestava attraverso una corrente democristiana, un governo o un’alleanza. Era la strategia delle Br «finalizzata alla riunificazione delle forze rivoluzionarie, per dare respiro strategico all’antagonismo armato espresso su obbiettivi diversificati»18. In quel contesto Moro non era «il 14 Ivi, f. 10. 15 Ibid. 16 Ivi, f. 11. 17 Angelo Coi, Prospero Gallinari, Francesco Piccioni, Bruno Seghetti, Politica e rivoluzione, Milano, G. Maj ed., 1983 e Renato Curcio, Alberto Franceschini, Gocce di sole nella città degli spettri, Roma 1982. Si tratta del contrasto tra i fautori delle Br Partito comunista combattente, i primi, e quelli del Partito guerriglia, i secondi. 18 Conversazione con Bruno Seghetti.
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cuore dello Stato», ma rappresentava uno degli uomini di maggiore esperienza che in quel momento contribuivano alla realizzazione della politica imperialista. Colpendolo non si credeva, ovviamente, di far fallire il tentativo, ma di metterlo in crisi. Vincere del tutto quella partita voleva dire liberare i detenuti, cosa che non riuscì, ma alcuni obiettivi le Br li avevano comunque raggiunti: lo Stato aveva vissuto un grave periodo di crisi, la funzione riformista del Pci era stata messa in discussione, dentro la Democrazia cristiana si erano aperte gravi fratture politiche e nulla sarebbe stato più come prima. Le Br, infine, si erano affermate come forza rivoluzionaria anche a livello internazionale. Nel 1985 Morucci e Faranda spiegarono, da ex militanti, il perché fosse stato scelto proprio Moro, rispondendo ad alcune domande dell’on. Flaminio Piccoli, all’epoca presidente del Consiglio nazionale della Dc, e riconfermando le linee principali della Risoluzione del 1978. Si voleva dimostrare alle avanguardie che era possibile organizzare nuclei clandestini armati efficienti in un territorio fortemente presidiato, fino a colpire l’obiettivo più alto, esaltando la potenziale superiorità della guerriglia nei confronti dell’apparato militare dello Stato borghese19. Per questo, la formulazione della lista dei detenuti da liberare fu approntata tenendo conto di tutte le esperienze armate esistite fino a quel momento in Italia, dalla 22 Ottobre al nappismo. Ci si poneva, insomma, da un lato al di fuori e oltre una guerra privata delle Br con lo Stato e dall’altro si cercava di far apparire come acquisita l’egemonia politica delle stesse sull’area della sovversione. Quando le Br giunsero a Roma alla fine del 1975 per tentare di mettere in piedi una Colonna, non avevano ancora operato alcun omicidio pianificato, mentre erano stati portati a termine rapimenti di persona con la convinzione che fosse la forma più efficace di attacco allo Stato. Questa idea rimase anche dopo l’omicidio del procuratore Coco a Genova nel 1976 e la serie di uccisioni del 1977. Al contrario dell’omicidio, visto come una forma di attacco tattica, punitiva e giustizialista, si riteneva che un sequestro potesse dare respiro strategico e agibilità politica grazie al suo protrarsi nel tempo, ai molteplici interessi messi in discussione e alla inevitabile attenzione mediatica. Su questo ragionamento si sviluppò in parte la Colonna romana, al punto che le prime indagini sulle abitudini di Moro furono svolte nel 1976 da brigatisti non di Roma, lì trasferitisi apposta, come la Brioschi e Bonisoli. La Colonna, però, crebbe in modo non previsto per la notevole affluenza di militanti, acquisendo connotazioni e attese politiche proprie, ponendo la questione del sequestro di un dirigente democristiano nazionale accanto ad altre più propriamente locali. Il progetto del sequestro (siamo tra il 1976 e il 1977), «continua ad essere seguito collateralmente all’attività centrale della Colonna, finalizzata in quella fase alla costituzione di Brigate territoriali e di un appa19 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 20, Onorevole Flaminio Piccoli, Domande e risposte di Morucci e Faranda. Maggio 1985. Riservate, f. 3.
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rato in grado di compiere azioni di medio livello operativo»20. Nel corso della primavera del 1977 le indagini si concentrarono su Andreotti, Fanfani e Cossiga. Nel frattempo, le colonne di Milano, Torino, Genova e della stessa capitale operarono una serie di attentati contro obiettivi democristiani locali. Quando l’Esecutivo decise di passare alla fase operativa del sequestro di un’alta personalità democristiana, nell’ottobre 1977 la direzione della Colonna romana, formata da Gallinari, Morucci, Faranda, Seghetti e Balzerani, si riunì a Velletri con Moretti in rappresentanza dell’Esecutivo. L’obiettivo fu individuato in Aldo Moro, il cui rapimento venne concepito, stando alle parole di Morucci, «come attacco diretto contro la Dc sia tramite l’impatto stesso del sequestro, sia tramite le rivelazioni che si credeva avrebbe potuto fare l’on. Moro sulle dipendenze internazionali e gli scopi antiproletari […] della Democrazia cristiana»21. In quella fase c’era piena identificazione della Dc con lo Stato e con gli interessi della borghesia italiana e internazionale, mentre gli altri partiti erano visti in funzione subordinata in quanto espressione di linee e interessi non in grado di entrare direttamente all’interno della strategia complessiva del paese. Questa semplificazione portò le Br a credere che con Moro nelle loro mani la crisi della Dc sarebbe degenerata in una crisi sistemica e che il loro ostaggio avrebbe potuto raccontare i meccanismi del funzionamento dello Sim, facendo i nomi dei referenti locali della controrivoluzione mondiale e delle menti della ristrutturazione capitalistica. Non si trattò di un attacco diretto all’idea di compromesso storico o, comunque, all’idea di una alleanza tra i maggiori partiti popolari italiani, perché nella visione delle Br solo la Dc era in grado di garantire la continuità dello Stato capitalistico e attaccandola si sarebbe riusciti a scardinarne la struttura e conseguentemente le alleanze politiche contingenti, viste non più che come semplici tatticismi strumentali. Un altro elemento da tenere presente è che la vicenda Moro, certamente la più grande dal punto di vista politico nella storia delle Br, fu gestita politicamente attraverso l’Esecutivo, ma a livello pratico l’azione fu pianificata, studiata, realizzata e gestita dalla Colonna romana, che all’epoca era composta da una Direzione, Brigate territoriali e Brigate di fronte di colonna. Le Brigate territoriali erano quelle di Torre Spaccata (Padula, Pancelli, Cacciotti e S. Petrella), la Brigata servizi (Ricciardi, Iannelli e Capuano), una in costituzione al Tiburtino, la Brigata universitaria (Savasta, Libera, Spadaccini e Piunti), quella di Centocelle (Arreni, Savasta e Perrotta) e Primavalle (Pera)22. I Fronti di colonna erano il Logistico (Piccioni, Petrella M. e Novelli) e quello della Controrivoluzione (Faranda, Casimirri, Algranati e Loiacono). Esistevano poi due strutture nazionali con base a Roma, la Tipografia, gestita da Moretti, Triaca e Marini e la Propaganda, gestita da Moretti, Marini e Mariani. Dei dirigenti di Colonna, tutti tranne la 20 Ivi, f. 5. 21 Ivi, ff. 6-7. 22 Il romano di Primavalle Eugenio Pio Ghignoni fu condannato all’ergastolo nella sentenza di primo grado
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Faranda furono presenti in via Fani, assieme al Fronte della controrivoluzione al completo. A loro si aggiunsero due brigatisti provenienti da Torino e Milano, tra cui un secondo dirigente dell’Esecutivo. La Colonna romana gestì, ovviamente, anche le basi, compresa quella di via Montalcini che funse da prigione e che era conosciuta dal logistico e, in particolare, da Morucci. Si trattava delle basi di via Gradoli, scoperta il 18 aprile, di quella di via Chiabrera, abitata da Morucci e Faranda, di Borgo Pio gestita da Seghetti, la più vicina a via Fani e dove furono portate le armi la mattina del 16 marzo dopo l’agguato, via Montalcini e via Palombini, abitata da Mariani e Marini23. Contrariamente a quanto si è ritenuto nelle inchieste giudiziarie e nella pubblicistica, la base che ebbe un ruolo centrale durante il sequestro di Moro non fu quella di via Gradoli 96 ma quella di via Chiabrera 74. La base venne affittata nel 1976, inizialmente come luogo dove sistemare un ciclostile ed alcune macchine da scrivere, senza che il rumore delle tastiere destasse sospetti, e svolgere le riunioni della direzione di Colonna. Morucci e Faranda vi si stabilirono nel 1977, quando dovettero lasciare la base di via Gradoli a Moretti e Balzerani, a loro volta costretti a sgomberare velocemente l’appartamento situato nel quartiere di Monteverde nuovo dopo che la macchina che aveva in uso Moretti, con targa e documenti duplicati e numerosi volantini delle Br al suo interno, era stata rubata nella zona. Durante il sequestro si tennero in via Chiabrera riunioni decisive, come quella dell’8 maggio dove si decisero le modalità dell’esecuzione di Moro e del trasporto del suo corpo in via Caetani24. Nel maggio del 1977 gli inquirenti rinvennero un documento intitolato Valutazione sull’attuale fase del fronte della controrivoluzione – settore carceri, magistratura, antiguerriglia che trattava alcuni dei temi divenuti poi centrali durante il rapimento25. Vi si legge che la lotta di classe sviluppatasi negli ultimi tempi aveva portato lo Stato imperialista delle multinazionali «ad accelerare la realizzazione pratica dello Stato di Polizia», che a dire dei brigatisti si era concretizzato nella proposta di rafforzare i poteri del presidente del Consiglio in fatto di controllo dei Servizi di Sicurezza (il riferimento è alla riforma dei Servizi). In particolare, il Consiglio interministeriale, che poi avrebbe del Moro ter (12 ottobre 1988); la sua pena fu ridotta a 15 anni nella sentenza d’appello (6 marzo 1992), ma poi annullata il 10 maggio 1993 dalla Prima Corte di Cassazione, presidente Armando Valente. 23 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 20, Memoriale Morucci, f. 163. L’importanza della Colonna romana per l’azione Moro fu compresa dai giudici, che nel 1984 istruirono un nuovo processo, noto come Moro Ter, che si concluse nel 1988 e che si può dividere, nei contenuti, in tre parti: la ricostruzione storica dell’attività delle Br nella capitale; l’esame degli attentati compiuti tra il 1977 e il 1982 e, infine, il vaglio delle posizioni processuali degli imputati; si veda ivi, Sisde, Istruttoria Moro-ter. Presentazione e sintesi. Roma, 9 settembre 1984. La prima versione del Memoriale, che in realtà è un volume che contiene anche estratti da processi e interrogatori anche di altri ex brigatisti, è stata scritta nel luglio 1984 e sembra che fosse consegnata nel 1986 all’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, come si legge nel foglio che lo accompagna tra le carte d’archivio: ACS, Caso Moro, MIGS, b. 20, «Ministero dell’Interno. Gabinetto del ministro. Solo per lei signor Presidente. È tutto agli atti processuali, solo che qui ci sono i nomi. Riservato. 1986». 24 Bruno Seghetti, colloquio con gli autori. 25 ACS, Caso Moro, F16, V3, f. 5622, Documento sulla lotta di classe datato maggio 1977.
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svolto un ruolo durante il sequestro Moro, serviva alla centralizzazione di quelli che sono chiamati «gli apparati repressivi dello Stato», ossia le Forze armate, i Servizi e la sorveglianza delle carceri, allo scopo di «superare tutte le contraddizioni particolaristiche esistenti tra i vari bracci armati e più in generale di superare le carenze esistenti negli uomini del potere a livello periferico». Per le Br, durante il passaggio da uno Stato di diritto a uno di Polizia le forze dell’ordine dovevano essere riformate, perché nate e sviluppatisi in un contesto di relativa pace sociale, non più attuale e non più percorribile. La necessità di una repressione della classe proletaria in lotta era contestuale alla ristrutturazione capitalistica in corso e aveva nella magistratura «l’unico organo in grado oggi di garantire una qualsiasi legittimità allo Stato di Polizia» in modo «costituzionalmente legittimo». Da qui la crescente influenza del Consiglio superiore della magistratura, rappresentato nel Consiglio interministeriale in modo indiretto attraverso il ministero di Grazia e Giustizia. Si poteva parlare di «centralità» del Csm all’interno della magistratura grazie a due innovazioni che lo riguardavano: l’immissione di tecnici «che ne garantiscono la capacità e la funzionalità» e la parallela «copertura democratica» realizzata attraverso un nuovo metodo di elezioni in modo da rappresentare nell’organo di autogoverno dei giudici tutte le correnti della magistratura. Il documento procede facendo un’analisi delle varie correnti del Csm, che riconduce quasi interamente alla Dc, comprese quelle apparentemente più democratiche, ma in realtà funzionali alla ristrutturazione poliziesca dello Stato. Riassumendo, il governo era visto come «l’istanza che ha il totale potere decisionale e che ha di fatto l’intero controllo diretto su tutti gli apparati dello Stato». Al Csm era affidata una funzione «di pressione e di copertura costituzionale rispetto alle decisioni prese dall’Esecutivo, oltre naturalmente a mantenere il suo potere di controllo sulla magistratura»26. Mentre altrove l’analisi delle Br seppe anticipare, come abbiamo visto, alcune tendenze che avrebbero investito il sistema capitalistico mondiale, in questo caso le Br non compresero che il peso accresciuto attribuito al Csm segnava l’avvio della crisi dell’Esecutivo, piuttosto che una consolidazione della sua egemonia. Esso conteneva in embrione quel processo di autonomizzazione della magistratura dalla sfera politica che si manifesterà in forma acuta nel corso degli anni Novanta, dopo un decennio di supplenza in cui la magistratura venne delegata ad affrontare e risolvere il problema della lotta armata e della sovversione sociale. Da questa crisi dell’equilibrio dei poteri trasse un fondamentale vantaggio la sfera economica con il venir meno dei corpi intermedi che esercitavano la mediazione politico-istituzionale. Nei documenti teorici elaborati dalle Br sulla politica italiana tra il 1977 e il 1978 troviamo le seguenti costanti: l’incidenza del capitale internazionale sintetizzato nelle multinazionali, che avrebbe mutato la struttura dello Stato, il ruolo del governo in appoggio a questi cambiamenti e quello dei partiti, insufficiente ad arginarlo o, ad26 Ibid.
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dirittura, complice. In particolare si doveva colpire la Dc, la sua funzione coercitiva e antagonistica rispetto alla classe operaia e alle sue esigenze. Il vero problema, l’ostacolo primario che impediva al proletariato il raggiungimento dei propri obiettivi di emancipazione era la Dc di Andreotti, Fanfani e Moro. Per fermare la ristrutturazione si doveva colpire un uomo simbolo, uno dei referenti dello Stato imperialista delle multinazionali in modo da aprire contraddizioni all’interno dello schieramento politico27. Non si doveva ucciderlo, ma rapirlo, in quanto solo attraverso un’azione di lunga durata era sperabile mettere in crisi il sistema. Tutto ciò trovò la sua sintesi pratica il 16 marzo 1978.
27 Si veda il reperto 140F4 citato nella Sentenza del processo Moro primo, p. 749.
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Capitolo 5 La solidarietà nazionale
5.1 Aldo Moro e la solidarietà nazionale Colpendo Moro, oltre a controprocessare la Democrazia cristiana, le Br intervennero all’interno di una importante stagione politica che in Italia si era aperta quasi due decenni prima. Dalla fine degli anni Cinquanta, infatti, l’asse politico italiano si spostò a sinistra, prima attraverso i governi di centro-sinistra e poi, dopo un intervallo di un decennio, grazie alla formula della «non sfiducia». All’interno del suo partito Moro era stato il maggiore mediatore e proprio nelle settimane precedenti il rapimento era riuscito a convincere i suoi ad accettare un patto di governo con il Pci, che sarebbe entrato nella maggioranza. Moro, nato nel 1916, era entrato in politica giovanissimo, diventando a 23 anni presidente nazionale della Fuci1. Nel corso della guerra lavorò con i cattolici democratici e collaborò con monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, già assistente ecclesiastico nazionale della Fuci dal 1925 al 1933 e poi sostituto alla segreteria di Stato vaticana. Trovatosi nella parte d’Italia occupata dagli Alleati dopo l’8 settembre 1943 (il cosiddetto «Regno del Sud»), con la Democrazia cristiana preparò il primo Congresso dei partiti antifascisti, che si tenne il 28 e 29 gennaio 1944 a Bari. Nel corso del 1945, già noto docente di Diritto all’università di Bari, diresse quella che sarebbe diventata una importante rivista del movimento dei laureati di Azione cattolica, la «Studium». A 29 anni fu eletto all’Assemblea costituente ed entrò a far parte della commissione dei 75, lavorando nella prima sottocommissione sui diritti e doveri dei cittadini assieme, tra gli altri, a Giuseppe Dossetti, Nilde Iotti, Giorgio La Pira, Riccardo Lombardi e Palmiro Togliatti, e collocandosi nel gruppo detto poi dei «professorini cattolici» (Dossetti, La Pira, Giuseppe Lazzati e Fanfani). Eletto nel 1948 alla Camera dei deputati, nello stesso anno entrò per la prima volta in un governo, il V di Alcide De Gasperi, in qualità di sottosegretario agli Esteri con delega per l’emigrazione, ma ne uscì nel 1950 per contrasti con lo stesso presidente del 1 Per l’attività politica giovanile di Moro si veda il recente M. Mastrogregori, Moro, Salerno Editrice, Roma 2016, pp. 35 e segg.
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Consiglio. Dopo la fine della stagione dei governi centristi, naufragata anche a causa del fallimento della legge di riforma elettorale2, Moro prese parte a diversi esecutivi in qualità di ministro, finché nel 1959 divenne segretario della Democrazia cristiana come espressione della maggioranza dorotea. Dalla segreteria, che occupò fino al 1964, contribuì all’inizio di una nuova stagione politica attraverso l’allargamento dell’area di governo a sinistra. Nell’aprile del 1960, dopo essere rimasto imbrigliato nel governo presieduto da Ferdinando Tambroni eletto con il voto determinante del Movimento sociale italiano, Moro appoggiò il tentativo di Fanfani di varare una nuova maggioranza con i socialisti a causa della contingenza che faceva del Psi un tassello fondamentale nel mosaico politico grazie alla sua ascesa elettorale. Le resistenze del mondo cattolico e della Santa Sede costrinsero Fanfani a rinunciare all’incarico3. Un piccolo passo verso la realizzazione del progetto fu compiuto nel luglio di quello stesso anno con la nascita del III governo Fanfani, detto anche delle «convergenze democratiche», formato dalla Dc con l’appoggio esterno di liberali e socialdemocratici e l’astensione dei socialisti4. A causa del nuovo orientamento politico della Dc, Moro, che ne era segretario, subì numerosi attacchi da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Fece molto discutere, per esempio, una lettera aperta del cardinale Giuseppe Siri nel gennaio 1961, nella quale l’alto prelato accusava il politico pugliese di tradimento dopo la nascita a Milano della prima giunta di centro-sinistra. Alla fine del mese Moro inviò a Papa Giovanni XXIII un documento riservato con il quale respingeva le accuse e spiegava la sua politica, difendendo l’autonomia della Democrazia cristiana. Un anno più tardi ripeté il gesto, analizzando per il pontefice la situazione politica italiana e affermando che la collaborazione con i socialisti fosse l’unica via per salvare l’Italia dal comunismo. Nel corso dell’VIII Congresso nazionale della Dc, che si svolse all’inizio del 1962, Moro avocò al suo partito la responsabilità di guidare il paese, invitando il Partito socialista ad aprire una stagione di riforme, congelate negli anni del centrismo dalla contrapposizione con il Pci. Moro non fu il teorico del centro-sinistra, ma l’uomo che si incaricò di portare unito il suo partito oltre quel passaggio. Nel corso dell’VIII Congresso nazionale del partito, disse che non era in discussione l’alleanza politica, ossia la vera partecipazione dei so2 Si tratta della cosiddetta «legge truffa», presentata dal ministro degli Interni Mario Scelba nell’ottobre del 1952. Prevedeva un premio di maggioranza del 65% di deputati per la coalizione che superava il 50,1% dei voti. Il premio era molto consistente e si assestava sul limitare della forza necessaria (66%) a modificare la Costituzione. Moro era stato relatore sulla legge alla Camera per la Dc, eccependo solo sulla consistenza del premio; cfr. I Legislatura, Camera dei deputati, A. Moro, Sulle modifiche al testo unico delle leggi per l’elezione della camera dei deputati, 8 dicembre 1952, in A. Moro, Discorsi parlamentari, a cura di Emilia Lamaro, 2 voll., Roma 1996, I, p. 206. 3 Fanfani, Diari, Senato della Repubblica, Rubettino, vol. 4, 1960-1963, 19, 20 e 22 aprile 1960. 4 Sarebbe passato alla storia con il nome di governo delle «convergenze parallele», locuzione attribuita a Moro, ma in realtà ideata dalla stampa.
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cialisti a una maggioranza parlamentare, perché tanti erano ancora i motivi di dissenso tra i due partiti. Si trattava «dell’appoggio del Psi a un’azione politica e di governo nella quale esso riscontri l’esistenza di alcuni punti interessanti sul piano programmatico e per i quali valga la pena di assumere un atteggiamento non negativo»5. Due anni più tardi, nel corso del successivo Congresso nazionale della Dc, Moro affermò che il partito si era mosso nella direzione giusta, creando una maggioranza nuova e «qualificata nel senso della storia». Chi poteva negare, si chiedeva, «che la storia cammini nel senso del riconoscimento sempre più vasto di diritti e poteri a tutti gli uomini? Chi può negare che sia in corso nel mondo una vasta e tormentata evoluzione che vuol dare valore e potere ad ogni uomo?»6. Fu in questa temperie che il III governo Fanfani fu sostituito da un nuovo esecutivo, sempre guidato da Fanfani, che si avvalse dell’appoggio esterno del Psi. Si trattava del primo governo di centro-sinistra programmatico, che dopo una lunga gestazione aprì la strada a una nuova stagione politica7. Il nuovo corso, che già tante conseguenze aveva avuto nei rapporti con la Santa sede, sollevò diverse questioni anche in politica estera. I socialisti, infatti, erano stati i fedeli alleati dei comunisti nella dura prova elettorale del 1948 e Pietro Nenni era notoriamente legato a Togliatti dagli anni Trenta, quando i due si erano ritrovati a combattere in Spagna con le Brigate internazionali. Gli Stati Uniti, in particolare, avrebbero potuto guardare con una certa apprensione ai cambiamenti italiani, ma in quell’occasione mostrarono comprensione. Secondo un documento del 3 gennaio 1963 controfirmato da Arthur Schlesinger, in seguito stretto collaboratore del segretario di Stato Henry Kissinger8, il centro-sinistra funzionava, sebbene apparisse una formula precaria. Washington auspicava addirittura un maggiore coinvolgimento del Psi negli affari di governo, in modo da renderlo più responsabile nel panorama politico italiano. Se ciò fosse accaduto, si ritenevano probabili importanti modifiche dello spettro politico, come l’uscita di un piccolo numero di socialisti di sinistra dal partito e il ritorno della componente socialdemocratica nello stesso. Tutto ciò, si concludeva, avrebbe finito per favorire un ulteriore isolamento del Pci, che proprio in quegli anni era ancora alle prese con il suo passato stalinista dopo aver appoggiato la repressione della rivolta ungherese del 19569. 5 Aldo Moro, Relazione introduttiva all’VIII Congresso nazionale della Democrazia cristiana, Napoli, 27 gennaio 1962, in Aldo Moro, La democrazia incompiuta: attori e questioni della politica italiana, 1943-1978, a cura di Andrea Ambrogetti, introduzione di Giovanni Moro, Roma 1999, pp. 124-125. 6 Aldo Moro, Intervento al IX Congresso nazionale della Democrazia cristiana, Roma, 16 settembre 1962, in ivi, p. 128. 7 Si veda Giuseppe Tamburrano, Moro e il suo tempo, in Aldo Moro. Stato e società, a cura di Annalisa Cicerchia, Atti del convegno internazionale, Roma 9-12 novembre 1988, p. 62. 8 Due sono i libri di memorie di Kissinger, Gli anni della Casa Bianca, Sugarco, Milano 1980, che riguarda gli anni 1969-1973 e Anni di Crisi, Sugarco, Milano 1982, che riguardano gli anni 1973-1974. Interessanti anche i testi contenuti in Punti fermi: scritti scelti 1977-1980, Mondadori, Milano 1980. 9 P. Mastrolilli, M. Molinari, L’Italia vista dalla Cia. 1948-2004, Editori Laterza, Bari 2005, p. 39. Per il dibattito
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Le previsioni statunitensi si rivelarono esatte: nell’ottobre del 1963, nel corso del XXXV Congresso nazionale, che decise la partecipazione diretta del partito al governo, il Psi subì una scissione a sinistra (rientrata dopo pochi anni) e si aprì la strada al primo governo organico di centro-sinistra, guidato da Moro dal dicembre 1963 al giugno 196410. Il governo durò poco, ma Moro ebbe il reincarico e il suo secondo esecutivo, che si formò in giorni critici per la democrazia italiana, insidiata dalla soluzione autoritaria prevista dal «Piano Solo», fu più longevo (luglio 1964-gennaio 1966)11. La situazione economica era però talmente compromessa che Moro fu costretto a rivedere i «due tempi» degasperiani, paragonando la ricostruzione del dopoguerra al risanamento economico e procrastinando a tempi migliori le riforme strutturali di cui aveva parlato in precedenza. Egli guidò un terzo governo, dal febbraio 1966 alla primavera del 1968, ma subì una sconfitta alle elezioni del maggio di quell’anno, quando il centro-sinistra registrò un arretramento. Gli italiani si mostrarono più conservatori dei governanti e chiusero innovazioni ed esperimenti politici per un decennio, quando fu il Pci a segnare una grande avanzata elettorale. All’opposizione dentro il suo partito e in aperta polemica con la nuova maggioranza centrista, nel corso del Consiglio nazionale autunnale del 1968 Moro pronunciò un discorso importante, passato alla storia come il Discorso sui tempi nuovi, che rappresentò la prima apertura teorica verso le forze sociali emergenti e la rivendicazione di una posiziona autonoma nel partito. Era l’inizio di una riflessione sull’incapacità dello Stato e dei partiti di interpretare i processi di liberazione e autodeterminazione dei popoli e sulla necessità di ridefinire i meccanismi dei rapporti tra individuo e Stato, ma ciò gli provocò un forte isolamento politico e al IX Congresso nazionale della Dc (giugno 1969) formò una propria corrente che raccolse il 10% dei voti12. Nei primi anni Settanta, nonostante non fosse più in maggioranza nel partito, per la consueta suddivisione di cariche e incarichi vigente nella Dc Moro prese parte ai governi centristi in qualità di ministro degli Esteri, carica che ricoprì con una certa continuità fino al 1974. Nel novembre di quell’anno, al termine di una lunga crisi politica, riuscì a tornare a capo dell’esecutivo con due governi molto distanti dalla precedente esperienza, un bicolore con il Partito repubblicano italiano (il Moro-La Malfa) e un monocolore democristiano. Quell’esecutivo, sostenuto dall’appoggio esterno del Psi, era per sua natura un governo di passaggio e fu soprannominato da alcuni osservatori «il ponte verso l’ignoto»13. all’interno del Pci sugli anni del Grande terrore in Urss cfr. Il Pci e lo stalinismo. Un dibattito del 1961, a cura di Maria Luisa Righi, Editori Riuniti, Roma 2007. Vi si riporta integralmente la discussione del 1961 al Comitato Centrale su Stalin. 10 Si trattava di un quadripartito con la partecipazione di Dc, Psi, Pri e Psdi. 11 Cfr. V. Satta, I nemici della Repubblica, Rizzoli, Milano 2016. 12 Ne facevano parte, tra gli altri, Tina Anselmi, Corrado Belci, Leopoldo Elia, Luigi Gui, Tommaso Morlino, Nerino Rossi e Benigno Zaccagnini. 13 Cadde dopo l’annuncio del segretario socialista, Francesco De Martino, del disimpegno del suo partito
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Il quinto e ultimo governo presieduto da Moro, un monocolore democristiano nato il 2 febbraio 1976, giunse fuori tempo massimo e cercò disperatamente di mantenere in vita una stagione politica chiusa, tanto che durò solo 79 giorni. La sua composizione risentì delle conseguenze dello scandalo Lockheed, nel quale era stato coinvolto il ministro degli Interni, il moroteo Gui, e dell’attesa per l’esito di due Congressi nazionali, quello democristiano e quello socialista, previsti per marzo14. Proprio durante il proprio Congresso nazionale, la Dc mostrò di voler cambiare passo aprendo a una nuova proposta politica, detta del confronto, e confermando alla segreteria il moroteo Benigno Zaccagnini, dopo che questi era stato designato dal Consiglio nazionale nel luglio 1975. Tra paure e reciproche accuse a causa di nuove rivelazioni provenienti dagli Stati Uniti si andò alle elezioni politiche generali, che si svolsero il 20 giugno 1976, dopo le dimissioni del governo Moro, presentate a Leone il 30 aprile15. 5.2 Gli alleati La paura per un’ascesa comunista preoccupò gli alleati dell’Italia. I comunisti italiani avevano compiuto un’importante svolta politica dopo il colpo di Stato dell’11 settembre 1973 contro il governo di Salvador Allende. Partendo da un’ipotesi tutta da dimostrare, ossia che al Pci non sarebbe stato consentito governare l’Italia neanche se avesse raggiunto la maggioranza assoluta dei consensi, la dirigenza comunista pro-
dalla maggioranza parlamentare per «equilibri più avanzati». Cfr. C. Belci e G. Bodrato, 1978. Moro, la Dc, il terrorismo, Morcelliana, Brescia 2006, pp. 96-97. 14 Si veda http://library.biosestate.edu/special/church/church.hm. Lo scandalo Lockheed era nato dalle rivelazioni della Commissione di inchiesta statunitense guidata dal senatore Frank Church, secondo le quali la compagnia Lockheed aveva pagato tangenti in molti paesi per vendere la produzione bellica agli eserciti nazionali. Per quanto riguardava l’Italia, si trattava di tangenti per l’acquisto di 14 aerei C-130 comprati dal governo italiano tra il 1972 e il 1974, di aerei F-104S e di carri armati Leopard. Accanto a Gui fu coinvolto anche il ministro della Difesa Mario Tanassi mentre, sempre secondo le rivelazioni statunitensi, dietro alcuni nomi in codice (Antelope Coobler e Pun) si nascondeva un ex presidente del consiglio. A complicare ulteriormente le cose, lo scandalo si intrecciava con un’altra questione che riguardava la Cia e che aveva sfiorato anche il nome dell’ex presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Secondo le rivelazioni di una seconda Commissione di inchiesta guidata da Otis Pike, infatti, politici, partiti e i servizi italiani avrebbero ricevuto finanziamenti irregolari dalla Cia per attività propagandistiche. Cfr. www.spartacus.schoolnet.co.uk/jfkpikeo.htm. Pochi giorni dopo il varo del V governo Moro, furono spiccati due mandati di arresto contro Ovidio Lefebvre d’Ovidio e Maria Fava. Il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, amico di vecchia data di Antonio Lefebvre d’Ovidio, fratello del primo, fu coinvolto nello scandalo. Il paese, con un presidente e un ex presidente della Repubblica sotto i riflettori, si trovò sull’orlo di una gravissima crisi mentre Moro, che doveva governarla, non trovò di meglio che nominare una commissione di tre saggi, Antonio Papaldo, Ferdinando Carbone e Corrado San Giorgio, che dovevano studiare una strada per uscirne. 15 Il nome in codice «Antelope», secondo le rivelazioni americane, indicava un presidente del Consiglio negli anni dal 1965 al 1970, coinvolgendo dunque, oltre a Moro (1963-1968), il governo cosiddetto balneare di Giovanni Leone (giugno-novembre 1968) e quello di Mariano Rumor (dicembre 1968-luglio 1970). I tre smentirono ogni coinvolgimento e il 29 aprile l’ambasciatore statunitense notò che, nel farlo, avevano dato l’impressione di ritenersi colpevoli a vicenda; C. Belci e G. Bodrato, 1978. Moro, la Dc, il terrorismo, cit., p. 71.
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pose una politica di risanamento economico, di difesa delle istituzioni democratiche e, quindi, di compromesso con le forze dell’arco costituzionale. La gravità dei problemi, secondo Enrico Berlinguer, che espose le sue riflessioni in una serie di articoli pubblicati nell’autunno del 1973 su «Rinascita», la presunta minaccia di avventure reazionarie e la necessità di aprire una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e progresso democratico indicavano la strada del compromesso, definito «storico», proprio tra le forze che rappresentavano la grande maggioranza del popolo italiano. Il referendum sul divorzio del 1974, che le aveva divise, non avrebbe incrinato questa idea, questa strategia per il Paese intero, come scrisse lo stesso Berlinguer, derivata – per usare le parole di Paul Ginsburg – da un assillo di salvaguardare la democrazia italiana e aiutarla a crescere, tanto che nella relazione al XIV Congresso nazionale del Pci del 1975 il segretario di Botteghe Oscure continuava a definirla idonea «ad affrontare e risolvere correttamente e positivamente i problemi più pressanti del paese»16. La svolta trovò un riscontro positivo nell’elettorato e alle elezioni regionali del 1975 il Pci raccolse il 33,4% dei consensi, contro il 35,3% della Dc, riuscendo a conquistare la guida di importanti regioni. Nel gennaio del 1976 il segretario di Stato americano Kissinger scrisse all’allora presidente dell’Internazionale socialista, Willy Brandt: «Ho il dovere di esprimere la mia forte preoccupazione per la situazione che si è venuta a creare. La natura politica della Nato sarebbe destinata a cambiare se uno o più tra i paesi dell’Alleanza dovessero formare dei governi con una partecipazione comunista, diretta o indiretta che sia. L’emergere dell’Urss come grande potenza nello scenario mondiale continua a essere motivo di inquietudine. Il ruolo della Nato, così come la nostra immutata posizione militare in Europa, è indispensabile e cruciale. La mia ansia consiste nel fatto che questi punti di forza saranno messi in pericolo nel momento in cui i partiti comunisti raggiungeranno posizioni influenti nell’Europa occidentale»17.
Il primo marzo 1976, l’ambasciata statunitense a Roma rafforzò la sensazione di instabilità, informando il segretario di Stato che in Italia gli scandali avevano gettato una luce negativa sopra le più importanti forze politiche non comuniste, screditando nel contempo l’immagine della democrazia americana come modello. La vicenda 16 Su Berlinguer, tra le tante biografie, cfr. Giuseppe Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, prefazione di Eugenio Scalfari, Laterza, Bari-Roma 2004, e la raccolta di interventi Antologia di scritti e discorsi (1969-1984), a cura di Graziella Falconi, Roma 1984. Sul compromesso storico segnaliamo Luciano Gruppi, Il compromesso storico, Editori Riuniti, Roma 1977. Silvio Pons in Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006, analizza la parabola dell’eurocomunismo. Moro, nel rispondere alle interrogazioni parlamentari sul colpo di Stato cileno, espresse preoccupazione per una vicenda che violava i principî democratici e rischiava di mettere in discussione l’ordine internazionale; cfr. VI Legislatura, Camera dei deputati, A. Moro, Sul colpo di Stato in Cile, 26 settembre 1973, in A. Moro, Discorsi parlamentari, cit., pp. 1460-1464. 17 «la Repubblica», 13 gennaio 2008.
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Lockheed era vista come la dimostrazione che la corruzione fosse presente nel sistema a tutti i livelli, cosa per la quale erano attribuite le responsabilità maggiori alla Democrazia cristiana, al potere da trent’anni, e ai suoi alleati statunitensi18. Il 25 marzo fu il ministero della Difesa britannica a scrivere al Foreign Office che «la presenza del Pci nel governo italiano e conseguentemente l’accresciuta minaccia di sovversione comunista potrebbero collocare l’Alleanza e l’Occidente dinanzi alla necessità di prendere una decisione grave» perché l’arrivo al potere dei comunisti avrebbe potuto provocare un indebolimento dell’impegno degli Usa in Europa e far insorgere tensioni gravi fra gli americani e i membri europei della Nato su come trattare l’Italia. Secondo gli analisti inglesi, l’eurocomunismo di Berlinguer costituiva una vera e propria «eresia revisionista» e il suo sbocco governativo avrebbe portato il dibattito teorico della «chiesa» marxista sul terreno della politica reale. D’altro canto i sovietici, che avevano molte ragioni per temere il «contagio» di un «comunismo alternativo», «avrebbero tratto dei vantaggi su un piano più immediatamente geopolitico e militare specie in relazione all’indebolimento della Nato». Quando fu chiaro che l’Italia stava andando verso elezioni politiche anticipate, il rischio di una vittoria dei comunisti fu preso in considerazione dagli analisti anglosassoni che crearono vari scenari. Il 6 maggio 1976, per esempio, il Planning Staff del Foreign Office elaborò uno studio intitolato Italy and the communists: options for the West. Tra le diverse opzioni, una riguardava l’eventuale sostegno a un colpo di Stato. Si tratta, è bene sottolinearlo, di uno studio di fattibilità che prende in esame molte varianti e che considera un colpo di Stato (idea definita «attraente» per prevenirne l’ascesa al potere del Pci), «irrealistico» a causa della forza, dell’influenza e dell’incardinamento dei comunisti all’interno della società, fatto che avrebbe potuto determinare una lunga e sanguinosa guerra civile o una svolta a destra. Ma «un regime autoritario in Italia risulterebbe difficilmente più accettabile di un governo a partecipazione comunista»19. Il problema, nel caso di ingresso comunista nel governo, non riguardava in senso stretto gli equilibri sanciti dalla Seconda guerra mondiale, ma le conseguenze per la Nato, i cui piani, per la prima volta, sarebbero stati a disposizione di politici legati a Mosca. L’ambasciatore inglese presso la Nato, John Killick, scrisse a Londra che la presenza di ministri comunisti nel governo italiano «porterebbe a un immediato problema di sicurezza nell’Alleanza. Qualunque informazione in mano ai comunisti dovrà essere automaticamente considerata a rischio. I comunisti al potere altro non sono che l’estensione di una minaccia contro la quale la Nato si batte. Dunque, è preferibile una netta amputazione [dell’Italia] piuttosto che una paralisi interna»20. Qui, addirittura, si ipotizza la perdita dell’alleato italiano, piuttosto che rischiare la condivisione di segreti militari con Botteghe Oscure. 18 P. Mastrolilli, M. Molinari, op. cit., pp. 64–67. 19 Documenti pubblicati su «la Repubblica», 13 gennaio 2008. 20 Ibid.
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Gli alleati si erano quasi rassegnati a un crollo democristiano. L’ambasciatore britannico a Roma, sir Guy Millard, dopo aver disegnato le conseguenze catastrofiche per l’Europa in caso di ingresso del Pci al governo, concludeva che non restava molto da fare per tenere i comunisti all’opposizione: «È un peccato che la difesa dell’Italia dal comunismo sia nelle mani di un partito così carente come la Dc»21. Millard si incontrò in quelle settimane con l’ambasciatore statunitense a Roma, John Volpe, scambiando impressioni sulla classe dirigente democristiana. Arnaldo Forlani, appena sconfitto da Zaccagnini all’ultimo congresso democristiano22, era considerato «una brava persona», ma un po’ debole. Zaccagnini era ben visto, mentre la stima per Moro non era piena: «Qualche volta – sostenne Millard – sembra piuttosto ambiguo sul compromesso storico». Secondo Volpe egli era «un pessimista, troppo incline a ritenerlo inevitabile». Perché, secondo la tradizione democristiana, piuttosto che perdere il potere piazza del Gesù lo avrebbe spartito con i comunisti23. Il 13 aprile un gruppo di specialisti del Western European Department del Foreign Office elaborò un dossier per stabilire la strategia operativa anticomunista, graduandone le mosse a seconda dello scenario. La prima parte era dedicata a come impedire l’ingresso del Pci al governo attraverso il finanziamento degli altri partiti, campagne stampa sul pericolo rosso, attacco alla credibilità di Botteghe Oscure, moniti ai sovietici. Nella seconda parte il documento offriva soluzioni pratiche nel caso di riuscita da parte del Pci. Cinque erano gli scenari possibili e cinque le opzioni di intervento. La linea più morbida era definita Business as usual e prevedeva di «continuare le relazioni come se nulla fosse cambiato». Seguivano «misure di ordine pratico-amministrativo» per la salvaguardia dei segreti e dei processi decisionali dell’Alleanza atlantica, quindi una «persuasione di tipo economico» che si sarebbe tradotta in una serie di pressioni anche all’interno della Comunità europea e del Fondo monetario internazionale. La quarta opzione si intitolava: Subversive or military intervention against the Pci. Essa copriva una serie di possibilità, dalle operazioni di basso profilo al supporto attivo delle forze democratiche (finanziario o di altro tipo) con «l’obiettivo di dirigere un intervento a sostegno di un colpo di Stato incoraggiato dall’esterno». I vantaggi stavano nel fatto che si sarebbe potuto rimuovere il Pci dal governo; gli svantaggi, però, erano visti nelle immense difficoltà pratiche per portare a compimento l’operazione; vista la situazione italiana, «è estremamente improbabile che un’operazione coperta rimanga segreta a lungo. La sua rivelazione può danneggiare gli interessi dell’occidente e aiutare il Pci a giustificare in maniera più decisa il suo controllo sulla macchina del governo. Inoltre, la pubblica opinione dei paesi occidentali potrebbe prenderla male col risultato di creare tensioni all’interno della 21 Ibid. 22 Gli analisti ne davano la vittoria per certa, grazie all’appoggio di Flaminio Piccoli, Andreotti e Fanfani. 23 Documenti pubblicati su «la Repubblica», 13 gennaio 2008.
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Nato, soprattutto fra Usa e alleati europei, nel caso gli americani assumano il comando dell’iniziativa». Se, dunque, l’intervento esterno poteva servire a rimuovere il Pci dal potere, «la situazione politica italiana rimarrebbe instabile, rafforzando così l’influenza comunista e quella dell’Urss sul lungo periodo». La quinta e ultima opzione era forse la più traumatica, in quanto prevedeva la già ipotizzata espulsione dell’Italia dalla Nato. In tal modo i segreti dell’alleanza sarebbero stati tutelati, ma al prezzo di perdere le importanti basi militari nel paese, mettendo in crisi la strategia militare sul fianco meridionale dello scacchiere europeo. Addirittura, la Grecia e la Turchia avrebbero potuto chiedersi se fosse stato ancora produttivo continuare a far parte dell’alleanza e forse sarebbe stata compromessa la capacità americana di intervenire in Medio Oriente. In pratica, il ritiro dell’Italia dalla Nato era escluso in quanto si sarebbe trasformato in una «sconfitta dell’Occidente di fronte al mondo intero»24. A un mese dal voto, l’addetto militare dell’ambasciata britannica a Roma, il colonnello Madsen, inviò a Londra una nota sulla reazione delle forze armate italiane in caso di partecipazione comunista al governo. In essa si diceva che gli ufficiali delle Forze armate erano per la maggior parte di destra o di estrema destra. Tuttavia, i soldati di leva riflettevano le inclinazioni politiche tipiche dell’Italia attuale e, dunque, il Pci avrebbe potuto contare sul sostegno di un terzo delle Forze armate. Un’eccezione importante era costituita dai Carabinieri, 86.000 uomini tra i quali il Pci non aveva appoggi anche se, si sottolineava, essi erano tradizionalmente leali al governo, qualunque ne fosse il colore politico. Rispetto all’ipotesi di un esecutivo con i comunisti, il colonnello sosteneva che il sentimento degli ufficiali era generalmente di preoccupazione, ma che era anche difficile individuare nelle Forze armate un nucleo abbastanza forte o influente da promuovere un golpe. Al tempo stesso il colonnello Madsen segnalava che «nei piani di ristrutturazione, le forze armate italiane hanno di recente rafforzato le formazioni territoriali e quelle dei parà con l’obiettivo di condurre operazioni di salvaguardia della sicurezza nazionale, nel caso venga meno l’ordine pubblico»25. Tra piani di fattibilità, peraltro presto scartati, e prospettive di medio termine, la situazione rimase incerta fino alle elezioni, mentre da parte comunista ci fu una risposta neanche troppo indiretta a quanto correva nei corridoi dell’Alleanza, quando a cinque giorni dalle elezioni Berlinguer rilasciò al «Corriere della Sera» un’intervista nella quale definì la Nato una buona protezione dietro la quale costruire un socialismo democratico26.
24 Ibid. 25 Ibid. 26 «Corriere della Sera», 15 giugno 1976.
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5.3 La non sfiducia Le elezioni del 20 giugno 1976 passarono come una tempesta temuta, ma non scoppiata: il crollo democristiano venne evitato e se il Pci salì al 34,4% con un balzo di più di 7 punti, la Dc crebbe dello 0,05, tenendo al 38,7%; il Psi, pur non arretrando, perse quattro deputati e quattro senatori. Moro prese atto della vittoria comunista, ma il suo partito non aveva perso. Più che un’attuazione ideologica della carta costituzionale che coinvolgesse nel governo il Pci, egli era interessato a riaffermare la centralità democristiana attraverso una serie di inevitabili ma prudenti alleanze a sinistra. Si trattava di un passaggio stretto, che prevedeva il costante lavoro di mediazione all’interno della Dc, che in maggioranza non voleva alleanze a sinistra del Psi. In altre parole, le elezioni del 1976 furono interpretate da Moro come il fattore in grado di aprire ispo facto una nuova fase politica. Egli era pronto a condividere alcuni temi berlingueriani, come l’austerità e la questione morale, ma il passaggio di fase, se poteva diventare strategico per i comunisti, per Moro era dettato soprattutto dalla contingenza elettorale. Riprendendo l’idea degasperiana dei due tempi, Moro pensava che si fosse aperta una terza fase nella storia del paese: la Dc era «costretta al governo», ma meno che nel passato. In un momento in cui il Pci stava maturando tutte le potenzialità per diventare partito di governo, la funzione della Dc sarebbe stata quella di dare una risposta politica a tale prospettiva, nel senso di un confronto aperto con le spinte sociali che avevano portato così in alto i comunisti. Pochi giorni dopo le elezioni, quando ancora non era chiara l’evoluzione della situazione, si riunì a Portorico il vertice delle sette potenze più industrializzate del mondo. In Italia il governo era dimissionario e a rappresentarlo furono inviati Moro e Mariano Rumor27. I quattro grandi, l’americano Gerald Ford, l’inglese James Callaghan, il tedesco Helmut Schmidt e il francese Giscard d’Estaing, si incontrarono domenica 27 giugno al Dorado Beach Hotel per un pranzo di lavoro e, come ricorda Alan Campbell, ambasciatore britannico a Roma durante il sequestro Moro, «quando arrivano per il lunch, ai due sfortunati ministri italiani [ fu] impedito di entrare». Nel corso del pranzo, infatti, si discusse anche di Italia e pur riconoscendo che gli italiani dovevano decidere da soli la propria politica, i quattro capi di Stato e di governo si dissero d’accordo per fare il possibile affinché i comunisti continuassero a restare fuori dal governo. Su proposta del presidente francese, l’8 luglio si tenne a Parigi una riunione segreta con l’incarico di stilare una bozza di programma che gli italiani 27 Sulle elezioni del 1976 cfr. anche Rodolfo Brancoli, Gli Usa e il Pci. Le personalità della politica e della cultura americana di fronte al «rischio Italia» dopo il 15 giugno, Milano 1976. Vi si raccoglie una serie di interviste con personalità della politica e della cultura statunitense sulla situazione italiana alla luce dei risultati elettorali del giugno 1976. In maggioranza ci si dice concordi nel ritenere la presenza comunista nell’area di governo un fatto che non avrebbe mutato i rapporti internazionali o la posizione dell’Italia all’interno dell’Alleanza atlantica.
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avrebbero dovuto accettare in cambio di un sostanzioso aiuto finanziario. Vi presero parte il segretario generale aggiunto della Presidenza della Repubblica francese Yves Cannac, il consigliere del Dipartimento di Stato e braccio destro di Kissinger, Helmut Sonnenfeldt, l’alto funzionario del ministero degli Esteri di Bonn Gunther Van Well e il sottosegretario del Foreign Office Reginald Hibbert. Le delegazioni produssero una bozza d’intenti intitolata Democracy in Italy, che risulta estremamente interessante. I quattro grandi dell’Occidente erano sollevati del fatto che «malgrado gli ulteriori progressi del Pci», le recenti elezioni avevano consentito «di mantenere in vita la democrazia in Italia». Era però giunto il momento «di mettere fine a questa deriva». Secondo il documento, il nuovo governo (formato da un piccolo gruppo di uomini di prestigio) doveva essere guidato dalla Dc senza l’apporto di voti comunisti o fascisti. Per Democracy in Italy, il programma di governo doveva toccare la riforma dell’amministrazione pubblica, della giustizia, la sicurezza, l’economia e la politica estera. Serviva un piano a medio termine per il risanamento della finanza pubblica e la riduzione dell’evasione fiscale. Si indicava la necessità di tentare un accordo tra imprenditori e sindacati (quella che poi sarà chiamata «concertazione»). Il paragrafo intitolato The Christian democratic party, quindi, scendeva nei particolari di un rinnovamento del partito di piazza del Gesù perché per battere il Pci, la Dc avrebbe dovuto mutare la sua immagine di partito tollerante della «prevaricazione e del sotterfugio», liberarsi «delle pecore nere», mettere «ordine in casa propria», svecchiarsi e arruolare giovani, assicurando maggiore spazio alle donne, ai lavoratori e ai sindacati. Il suo compito era anche quello di mettere in discussione l’egemonia culturale del Pci, «riconquistando l’intellighenzia, le università e i media». Il giorno dopo, 9 luglio, l’ambasciatore inglese a Washington telegrafò a Londra: «Kissinger approva il documento Democracy in Italy»28. L’Italia non era ancora pronta a un coinvolgimento diretto dei comunisti nella maggioranza di governo e la stagione politica che avrebbe portato al IV governo Andreotti ebbe inizio con il governo cosiddetto della «non sfiducia», un monocolore democristiano guidato da Andreotti e sostenuto dall’astensione benevola dei maggiori partiti italiani, comunisti inclusi. La formula, tradotta in inglese con non no-confidence, non fu vista negativamente a Washington. Gli statunitensi pensavano che la presidenza del Pci di due commissioni parlamentari, Bilancio al Senato e Finanze alla Camera, avrebbe garantito una maggiore efficienza in materia di miglioramenti sociali e lotta all’evasione fiscale29. Il III governo Andreotti, quindi, era accreditato di un programma economico razionale e realizzabile proprio per la presenza dei comunisti anche se, qualora si fosse giunti a un successo anche parziale, si dava come probabile la richiesta 28 Documentazione in «la Repubblica», 13 gennaio 2008. 29 P. Mastrolilli, M. Molinari, op. cit., p. 99. Si trattava della prima volta che il Pci ebbe tale responsabilità e «la Repubblica» poté scrivere, il 27 luglio 1976, che «la sinistra entra per la prima volta nelle istituzioni».
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di Berlinguer di un maggiore coinvolgimento. La «non sfiducia» era stimata dagli americani come una formula transitoria verso un approdo politico più duraturo30. Il 10 settembre 1976 Kissinger chiese al suo ambasciatore a Roma di vedere Andreotti per chiarire alcuni importanti punti: si doveva sottolineare che da parte americana non esisteva alcun tipo di pregiudiziale negativa nei confronti del suo governo al quale, al contrario, gli Stati Uniti ribadivano il proprio appoggio e auguravano di realizzare il programma «purché assicurino che le forze politiche non democratiche non entrino al governo»31. Gli Stati Uniti speravano in un rinnovamento della classe dirigente democristiana e la strategia di Washington per l’Italia, non lontana dal contenuto di Democracy in Italy, consisteva in una serie di obiettivi di media scadenza che si possono così riassumere: rafforzamento della Dc, incoraggiando il rinnovamento del partito; indebolimento del Pci attraverso una propaganda adatta a dimostrarne la natura autoritaria e non democratica; rivalutazione del ruolo del Psi, che attraverso il nuovo segretario, Bettino Craxi, doveva comprendere che sarebbe stata più costruttiva per il Paese una collaborazione con la Dc e non un’alleanza con i comunisti32. Questi obiettivi non prevedevano svolte autoritarie ma si inserivano nel contesto di una dialettica democratica tra i partiti laici e la Dc. Nel corso del 1977 si vide che il governo Andreotti non avrebbe raggiunto gli obiettivi economici e alla fine di quell’anno l’idea di una diversa assunzione di responsabilità portò i comunisti a ritirare la «non sfiducia», costringendolo il presidente del Consiglio a presentare le dimissioni (era il 16 gennaio 1978). Dopo tre giorni lo stesso Andreotti ricevette dal presidente Leone l’incarico di formare un governo di solidarietà nazionale, una formula nuova che portava il Pci dentro la maggioranza. Gli statunitensi manifestarono una certa sorpresa. Appena sei giorni prima delle dimissioni di Andreotti, il 10 gennaio 1978, la Cia aveva sintetizzato l’esperienza del governo di non no-confidence affermando che procedeva nella giusta direzione. Notava che «i comunisti hanno operato come parafulmine del governo nei confronti dei sindacati e garantito un sostegno fondamentale in Parlamento su questioni chiave, mentre continuano a rafforzare l’impressione di allontanarsi dall’ortodossia». Secondo le previsioni, però, il Pci avrebbe potuto aspirare a entrare nel governo solo dopo il passaggio dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, prevista in autunno, e nuove elezioni parlamentari, ipotizzabili per il 197933. Due giorni più tardi, però, il 12 gennaio, il Dipartimento di Stato statunitense rilasciò una dichiarazione sull’eurocomunismo che ebbe molta eco in Italia e che rappresentò il punto di maggiore attrito tra l’amministrazione statunitense e il governo italiano. Nella dichiarazione si affermava che i recenti avvenimenti italiani avevano aumentato la preoccu30 P. Mastrolilli, M. Molinari, op. cit., in particolare p. 128. 31 Ivi, pp. 73–74. 32 Ivi, pp. 82-83. 33 Ivi, pp. 129-130.
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pazione americana; gli alleati degli Usa erano tutti Stati sovrani, in grado di assumere in piena autonomia le loro decisioni, ma Washington credeva di «avere l’obbligo di esprimere sinceramente e con chiarezza» le proprie opinioni. I leader dell’amministrazione statunitense, si proseguiva, avevano manifestato in diverse occasioni la loro posizione contraria a un ingresso dei comunisti nei governi dei paesi amici, e si sperava nella capacità dei partiti democratici di interpretare nel modo migliore le aspirazioni della loro nazione. Gli Usa e l’Italia, chiudeva la nota, avevano in comune profondi valori e interessi che, si credeva, non erano condivisi dai comunisti. Ci si augurava che «quando la democrazia deve affrontare sfide difficili [allora] i suoi leader devono dimostrare fermezza nel resistere alle tentazioni di trovare soluzioni tra le forze non democratiche»34. Come si era giunti a quella dichiarazione, che irritò anche Moro, tanto da indurlo a scrivere un articolo di risposta per «Il Giorno»? Nel novembre del 1977, di fronte ai segnali che annunciavano una crisi di governo, l’ambasciatore Gardner aveva avviato un’intensa attività per sondare gli umori della Dc e capire le intenzioni delle altre forze politiche. Il 5 novembre aveva visto Moro: «Mi disse – ricorda Gardner – che democristiani e comunisti si trovavano in una posizione “scomoda”, e che ci sarebbero forse voluti due anni prima di arrivare a una chiarificazione. Il trucco stava nel conservare il fragile equilibrio esistente senza dover ricorrere a nuove elezioni, che avrebbero potuto avere risultati negativi. Ciò significava trovare espedienti per “soddisfare” le pressioni dei comunisti, che pretendevano ulteriori concessioni»35.
All’ordine del giorno c’era la grave situazione economico-sociale del Paese, con un alto numero di disoccupati, un forte deficit pubblico e un livello di conflittualità politico-sociale che non aveva eguali nel resto d’Europa. Scrive Gardner: «I mesi autunnali del 1977 furono contrassegnati da un’ondata di scioperi e di dimostrazioni sindacali, culminate nella manifestazione degli operai metalmeccanici svoltasi il 2 dicembre»36
e transitata, con un chiaro intento polemico verso la strategia del compromesso storico, sotto la sede del Pci, in via delle Botteghe oscure37. Seghetti ricorda che le Br furono presenti all’interno del corteo dei metalmeccanici, dove alcune Brigate romane diffusero volantini dell’organizzazione. L’Autonomia romana, invece, si era data ap34 La dichiarazione in Richard N. Gardner, Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma 1977-1981, Mondadori, Milano 2004, pp. 201-202. 35 Ivi, p. 97. 36 Ivi, p. 168. 37 L’episodio fu immortalato dal disegnatore Giorgio Forattini che raffigurò un Berlinguer imborghesito
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puntamento all’Università, ma rimase dentro la cittadella universitaria, bloccata dalle forze di polizia, che impedirono ai militanti di andare incontro al corteo. Questo errore politico segnò, secondo Seghetti, la fine dell’esperienza del ’77, sancendo la crisi politica dell’Autonomia che nel corso del sequestro Moro non sarebbe più stata in grado di proporre alternative, contrariamente a quanto sostenuto nel Memoriale da Morucci38. Nelle sue memorie l’ambasciatore statunitense sottolinea l’incapacità del governo italiano di fronte «alla diffusione del terrorismo; anzi, le Brigate rosse e gli altri gruppi si facevano sempre più audaci nei loro attacchi ai simboli dello «Stato borghese», come funzionari di polizia, i giudici, gli uomini d’affari, i giornalisti, e i politici della Dc. Nel 1977 ci furono in tutto 1806 casi di violenza politica, ossia una media di cinque attentati al giorno, la maggior parte dei quali a Roma, Milano, Torino e in altre città dell’Italia settentrionale»39. Nel corso dell’incontro, racconta Gardner, Moro fece riferimento proprio a questa situazione per giustificare la necessità di coinvolgere il partito comunista: «Il terrorismo – disse – rappresentato dalla Brigate rosse, era in quel momento il principale pericolo per il futuro politico dell’Italia, e un’incontrollata escalation del disordine pubblico avrebbe potuto rendere impossibile opporsi alla richiesta di una partecipazione del Pci nel governo alla scopo di porre fine alla violenza».
La situazione politica, aggiunse il leader Dc, «era altrettanto scomoda per i comunisti di quanto lo era per i democristiani. Il Pci, non più in grado di sfruttare vantaggi di un partito di opposizione, cominciava a incontrare difficoltà e a temere la possibilità di una futura perdita di voti. Tenendo i comunisti a metà strada, un po’ dentro e un po’ fuori, sarebbe stato possibile logorarli»40.
Nei quattro incontri che Moro ebbe con l’ambasciatore statunitense, il presidente democristiano aveva scelto con cura gli argomenti per rassicurare gli Stati Uniti sulle intenzioni della Dc. Spiegò che da parte democristiana non c’era mai stata la volontà di condividere il potere con i comunisti, ma che la situazione economico-sociale e la forza elettorale che avevano raggiunto imponevano delle concessioni. Non potendo andare a elezioni anticipate, che avrebbero rischiato di rafforzare ulteriormente il Pci, bisognava mantenere le redini del governo aprendo ai comunisti l’ingresso nella seduto sulla sua poltrona in pantofole e vestaglia mentre sorseggiava un tè infastidito dall’eco dei clamori della piazza; «la Repubblica», 2 dicembre 1977. 38 Conversazione degli autori con Bruno Seghetti. 39 R. N. Gardner, op. cit., p. 168. 40 Ivi, p. 169.
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maggioranza e coinvolgendoli nella elaborazione di un programma di governo senza concedere loro alcun ministero. Una strategia ormai chiara e storicamente accertata nelle sue linee principali, che era rivolta a impegnare il Pci nella difesa dello Stato avvalendosi della sua capacità di fare da argine contro la protesta sociale. Gli sforzi di Moro e di altri leader democristiani non fecero breccia nell’ambasciatore, che così descrisse la strategia esposta da Moro nel colloquio del 21 dicembre: «La soluzione migliore stava in una risoluta contrattazione. All’inizio la Dc avrebbe assunto una posizione piuttosto rigida, ma alla fine avrebbe dovuto offrire qualcosa per soddisfare le fondamentali esigenze del Pci per un cambiamento concreto. L’offerta sarebbe stata probabilmente nei termini della formula da lui stesso precedentemente delineata, che inseriva il Pci nella maggioranza parlamentare. Di fatto, questo avrebbe significato semplicemente due cose: 1) il Pci, invece, di astenersi come faceva in quel momento, avrebbe votato a favore del nuovo governo; 2) il Pci avrebbe partecipato con altri partiti di maggioranza all’elaborazione dei programmi di governo»41.
Interessante è la risposta che Moro offrì a Gardner quando questi gli chiese in che modo gli Stati Uniti avrebbero potuto rendersi utili: «Una presa di posizione più forte da parte degli Usa rappresentava un atout che bisognava conservare nel caso che la Dc fosse stata costretta a indire elezioni anticipate».
Era un modo per scongiurare un intervento a gamba tesa degli americani durante la delicata fase delle trattative, cosa che avrebbe ulteriormente irrigidito il Pci col rischio di fornire argomenti a suo vantaggio nel corso di una possibile campagna elettorale. Un consiglio che in modo più diretto – tanto da essere recepito da Gardner come «un inquietante colloquio» – diede anche Fanfani all’ambasciatore il 6 dicembre precedente: «Nelle delicate circostanze del momento, non sarebbe stato utile al suo partito se gli Stati Uniti avessero mantenuto una posizione fortemente anticomunista nelle loro dichiarazioni pubbliche»42.
La pedagogia democristiana non sembrò scalfire le convinzioni di Gardner che il 12 dicembre aveva già informato Andreotti della posizione del suo governo rispetto alla crisi: Washington rimaneva contro la partecipazione del Pci al governo e auspicava che l’influenza esercitata dai comunisti sull’esecutivo fosse la più limitata possibile. 41 Ivi, pp. 186-187. 42 Ivi, p. 177.
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Andreotti, scrive Gardner, «fu senza dubbio colto di sorpresa. Mi ringraziò della franchezza, ma disse con altrettanta chiarezza che non poteva essere interamente d’accordo con la mia diagnosi della situazione»43. Nei suoi Diari anche Andreotti ricorda l’incontro: «Ho risposto che una interpretazione dei fatti italiani in chiave di involuzione antidemocratica non ha alcun fondamento. Non so chi abbia dato elementi diversi, dopo i miei franchi colloqui con Carter. E mi sembra assurdo che non si dia invece l’enfasi necessaria all’importantissimo voto sulla politica estera che si è avuto alla Camera. Non vorrei che queste “preoccupazioni” fossero importate in Usa da qualche italiano»44.
Pochi giorni dopo Andreotti fece il punto con il presidente del partito: «Moro teme che vi siano forti pressioni sul Pci perché non proceda sulla via dell’autonomia dai condizionamenti internazionali. Dice che gli americani non hanno capito che questa è la vera via verso l’equilibrio europeo e che non si tratta di pressapochismi e di pasticci. Si è incontrato anche con Gardner»45.
Il ciclo di incontri terminò il 21 dicembre, quando l’ambasciatore vide, oltre a Moro, anche i segretari del Pri, Ugo La Malfa, e del Psi, Bettino Craxi. Durante il pranzo a Villa Taverna, La Malfa espose il punto di vista del mondo industriale italiano di fronte alla necessità «di adottare impopolari politiche di austerità che la classe operaia avrebbe accettato soltanto se il Pci se ne fosse assunto la diretta responsabilità. E il Pci non si sarebbe assunto una simile responsabilità senza ricevere qualcosa in cambio».
Per il leader repubblicano si sarebbe trattato di un «rischio calcolato»46. Sulla posizione degli industriali lo stesso Gardner riporta quanto gli avrebbe riferito l’economista Paolo Savona: «Al momento del mio arrivo in Italia all’inizio del 1977, la maggioranza della Confindustria era a favore del compromesso storico»47. 43 Ivi, p. 173. 44 G. Andreotti, Diari, cit., p. 159. Andreotti aveva incontrato Carter alla Casa Bianca il 27 luglio 1977, spiegando l’importanza del coinvolgimento del Pci seppur sotto forma di astensione nel sostegno del suo governo; ivi, pp. 137-141. 45 R. N. Gardner, op. cit., p.163. 46 Ivi, pp. 184-185. 47 Ivi, p. 280.
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Il 1978 si aprì con un apparente arretramento della situazione politica. Il 3 gennaio l’ambasciata Usa inviò a Washington un telegramma urgente con la richiesta di una dichiarazione presidenziale sulla situazione politica italiana, nella quale gli Stati Uniti avrebbero dovuto ribadire la loro contrarietà alla partecipazione dei comunisti al governo italiano. Il 12 gennaio, come si è visto, sarebbe stato il portavoce del Dipartimento di Stato, e non direttamente la Casa Bianca come auspicato inizialmente, a rilasciare la dichiarazione riferita ai governi occidentali in generale, nella quale pur ribadendo che «i nostri alleati in Europa occidentale sono nazioni sovrane […] vorremmo che l’influenza dei comunisti diminuisse»48.
La genesi di questa posizione, la cui paternità è stata rivendicata con forza da Gardner, fu piuttosto laboriosa e non priva di divergenze, come lasciò intendere un’analisi apparsa pochi giorni prima sul «New York Times» nella quale si riferiva che alcuni funzionari statunitensi stavano invocando un «pubblico avvertimento all’Italia sulle possibili conseguenze della concessione di un ruolo più concreto al Pci» e che ciò aveva «aperto un dibattito all’interno dell’amministrazione, nel quale chi si opponeva alla proposta sosteneva che un’iniziativa di questo genere sarebbe stata un ritorno alle politiche di Kissinger»49. Il fatto stesso che l’ambasciatore, contro il suo stesso parere, venne richiamato a Washington per consultazioni50, dimostra come la decisione di intervenire fu estremamente complessa. Carter approvò la dichiarazione, ma a condizione «che non vi dovesse essere alcuna “interferenza” nella politica italiana»51. Sul piano concreto la sortita americana non modificò il corso degli eventi. Non impedì la decisione di accogliere il Pci nella maggioranza di governo, come largamente anticipato da Moro allo stesso Gardner nelle settimane precedenti, e sollevò una serie di giudizi in genere molto negativi in patria. A fornire una chiave di lettura della dichiarazione del 12 gennaio fu Gardner stesso: nelle sue memorie sostenne di aver sollecitato con forza quell’intervento per correggere un’interpretazione errata rispetto all’apertura ai comunisti. In fondo si trattava di un passaggio epocale e a soste48 Ivi, pp. 201-202. La richiesta inoltrata da Gardner il 3 gennaio era in realtà molto più esplicita e netta del contenuto della dichiarazione che verrà letta il 12 gennaio: «We believe that the time has for USG to consider additional causes of action in effort to arrest drift toward communist party (Pci) participation in Italian government. As complement to my recent representations in Rome to government and party leaders, I recommend that you take advantage of your presence in Brussels to make statement which leaves no doubt in minds of Italian politicians and public that the US firmly opposes further accommodation which Pci»; cit. in M. Molinari, Governo ombra: I documenti segreti degli USA sull’Italia degli anni di piombo, Rizzoli, Milano 2012, p. 245. 49 R. N. Gardner, op. cit., p. 196. 50 Ivi, pp. 195-196. 51 Ivi, p. 200.
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gno delle sue parole rivelò un retroscena: il 18 dicembre, in occasione di una cena a casa di Fanfani questi gli rivelò che tra Moro e Andreotti c’era «un rapporto di totale sfiducia» e che il presidente della Dc gli aveva proposto che uno di loro si recasse a Washington per vedere il presidente Carter «allo scopo di stabilire i limiti accettabili per ulteriori concessioni al Pci». Di fronte alla reazione negativa dell’ambasciatore, Fanfani aggiunse che Moro in ogni caso aveva «richiesto di chiarire la posizione del governo Usa circa l’ingresso del Pci nella maggioranza parlamentare e l’inclusione di tecnici vicini al Pci nel governo»52. Il colloquio venne interpretato da Gardner come un’iniziativa personale di Fanfani e l’impressione gli venne confermata anni dopo da Aldo Rizzo, che gli mostrò un’intervista a Fanfani del 13 dicembre 1977, mai pubblicata, in cui il dirigente democristiano annunciava la sua candidatura alla guida di un governo di emergenza che avrebbe incluso anche i comunisti53. Della manovra di Fanfani c’è traccia anche nei Diari di Andreotti, che il 30 gennaio 1978 annotava: «Ottone mi ha detto che Moro non vedrebbe male un governo di emergenza presieduto da Fanfani (che lo gradirebbe); forse – è sempre Ottone a dirlo – con una possibilità di appoggio l’anno venturo, dopo Leone. A me Moro sembra impegnato nella linea che sta apertamente sviluppando e non in manovre di alcun genere; ma se Fanfani fosse il prezzo da pagare per la linea, nessuna obiezione da parte mia. Nei gruppi però non vedo un orientamento in tal senso: molti vengono a consigliarmi di lasciare che sia il partito a far proposte, non bruciandomi io. Sono discorsi che non mi commuovono».
Ancora il 10 febbraio scriveva: «Debbo turarmi gli orecchi per non sentire le notizie di tante pianificazioni: l’ultima è di Fanfani come tecnico istituzionale al governo e La Malfa al Quirinale»54.
L’obiettivo di scalzare Andreotti, guadagnandosi i favori del Pci, va letto nella logica, tutta democristiana, della lotta per la conquista del Quirinale. Gardner lasciò intendere di aver operato una forzatura di fronte alle manovre poco chiare non solo di Fanfani, ma anche di altri dirigenti democristiani che nelle loro dichiarazioni chiamavano strumentalmente in causa l’appoggio degli Stati Uniti per sostenere che questi avrebbero accettato qualsiasi soluzione, compreso il coinvolgimento diretto dei comunisti55. Quando Moro prese visione della nota americana, come detto, preparò un articolo per «il Giorno», non pubblicato dopo i chiarimenti tra le parti, dove si legge che 52 Ivi, pp. 178-179. 53 Ivi, pp. 179-180. 54 G. Andreotti, Diari, cit., p. 182. 55 R. N. Gardner, op. cit., p. 191. Gardner cita una dichiarazione di Galloni di fine dicembre e una di Forlani del 4 gennaio 1978.
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«i giudizi espressi nei giorni scorsi da parte americana sugli sviluppi della politica italiana e la possibilità di accesso dei comunisti al governo del nostro paese hanno destato vivaci polemiche ed introdotto qualche nuova ragione di tensione. Conviene però essere molto obiettivi nel guardare all’insieme di questa vicenda. È comprensibile e giusto, si osserva, che un paese indichi ad un altro, amico ed alleato, proprio in considerazione del particolare vincolo che li unisce, i pericoli che vede emergere all’orizzonte e le conseguenze che, in determinate circostanze, possono verificarsi. Queste valutazioni, in quanto riguardino l’opinione pubblica in generale e si esprimano per canali appropriati, sono ineccepibili».
Una democrazia doveva essere in grado di accettare e riassorbire la polemica, per giunta in una materia così delicata e importante, ma in questo caso le valutazioni erano state formulate senza la necessaria discrezione. In tale caso «fattori esterni incidono in un dibattito in corso nelle sedi competenti ed influenzano o almeno c’è sospetto che influenzino le decisioni. In queste circostanze la non interferenza si risolve nella rinuncia a concreti impedimenti; del tutto naturale, del resto, in una grande potenza che è anche una grande democrazia. Siffatti giudizi dunque potrebbero turbare ed impacciare i sinceri amici dell’America i quali sono tanti, forse più che non si pensi, nel nostro paese».
La Dc non doveva fare la conta dei favorevoli e dei contrari a una certa evoluzione politica, ma «decidere, sulla base della nostra conoscenza, in piena autonomia […] con grande equilibrio e senso di responsabilità». Escludeva «una sorta di generale alleanza politica con il Partito comunista, della quale mancano le condizioni». Esisteva, però, uno spazio nel quale, guardando agli interessi del paese, «in una situazione che è indiscutibilmente eccezionale […] è possibile raggiungere una positiva concordia sui programmi ed un grado di intesa tra le forze politiche e sociali, i quali consentano, con una soluzione equilibrata ed adatta al momento, di far fronte all’emergenza e di sperimentare un costruttivo rapporto tra partiti molto differenziati, che la realtà della situazione obbliga a non ignorarsi e a non paralizzarsi, provocando con ciò la paralisi, e forse peggio, dell’Italia».
Era su queste considerazioni e su questa «leale trattativa», che si giocava l’esito della crisi «con la possibilità di scongiurare eventi traumatici». Se ne doveva cogliere il significato politico e «fare appello alla prudenza, all’intelligenza, allo spirito aperto di coloro sui quali ricadono le massime responsabilità»56. Su queste basi, il 2 febbraio Gardner incontrò per la quarta e ultima volta Moro. La sua strategia non era mutata: 56 A. Moro, A noi tocca decidere in piena autonomia, in A. Moro, La democrazia incompiuta, cit., pp. 144-145.
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«Riteneva – scrive l’ambasciatore Usa – che fosse necessario guadagnare altro tempo. Ci sarebbe voluto almeno un anno per creare un clima elettorale in cui il Pci avrebbe subìto una pesante sconfitta e la Dc una netta vittoria. Il trucco stava nel trovare un modo per tenere il Pci in una maggioranza parlamentare senza farlo entrare nel Consiglio dei ministri»57.
Stavolta la posizione dell’ambasciata statunitense fu molto diversa: «raccomandai ora al Dipartimento di Stato di fare in modo che il governo statunitense avviasse concretamente la “strategia della cooperazione”». In una nota personale a Vance del 27 gennaio 1978, l’ambasciatore chiese «una pausa per fare il punto della situazione», invitando a «sostenere il processo di riforma e rinnovamento senza offendere la sovranità del Paese o suscitare l’impressione di paternalismo»58. Per Moro la questione legata alla dichiarazione statunitense del 12 gennaio si era probabilmente chiusa qui. Del resto non conteneva minacce di ritorsione e poneva l’accento sulle ragioni dei comunisti, piuttosto che su quelle degli Stati Uniti. Essa rappresentò, tra l’altro, il massimo di invadenza in questo periodo così difficile per l’Italia tanto da restare, nelle settimane successive, come il punto di riferimento per ulteriori dichiarazioni da parte di Villa Taverna. Da quanto ricorda Gardner (e come si vedrà in seguito), la dirigenza del Pci non aveva dato alcun segno di cambiamento dopo il 12 gennaio e rimaneva impaziente «come prima di approfondire ulteriormente i contatti con noi», mentre gli Stati Uniti avevano come scopo di questa loro politica «di aperto scetticismo sugli obiettivi e sui valori del Pci» quello «di spingere i comunisti a più profondi cambiamenti e ad alzare il prezzo ideologico che dovranno pagare per ottenere ulteriori concessioni da parte della Dc e dell’Occidente»59. Gli Usa, insomma, non stavano ostacolando con ogni mezzo l’avvicinamento del Pci all’area di governo, ma preparando una politica adeguata alla realizzazione di una tale eventualità. Il responsabile dell’Italian Desk, Brunson McKinley, preparò per la fine di febbraio un rapporto nel quale si consigliava, nel caso il Pci fosse entrato nel governo italiano, di richiedere a quel partito un esplicito e pubblico impegno per il mantenimento delle basi statunitense in Italia e per la Nato; si sarebbe dovuto evitare di mostrare solidarietà politica, economica o militare, come manovre congiunte, visite di Stato, esaminare i documenti riservati della Nato prima di farli conoscere ai comunisti, e «se interrogati», si dovevano avvertire tutti gli investitori che il giudizio sull’affidabilità del Paese era per il momento sospeso e rimandato «fino a quando fosse stato chiaro quali politiche avrebbe seguito effettivamente il nuovo governo». Si doveva nel contempo «evitare qualsiasi iniziativa che potesse apparire come una punizione nei confronti dell’Italia, aspettando nello stesso tempo di vedere se il Pci sarebbe riuscito a rispettare gli 57 Richard N. Gardner, op. cit., p. 213. 58 Ivi, p. 214-215. 59 Ivi, pp. 216-218.
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standard richiesti a un alleato»60. In questa ottica, Gardner fu autorizzato ad allargare i suoi contatti con i rappresentanti del Pci e, sia prima sia dopo il rapimento di Moro incontrò riservatamente Emanuele Macaluso, Ugo Pecchioli e Giorgio Napolitano che, come si vedrà, avrebbe compiuto un importante viaggio negli Stati Uniti proprio durante i 55 giorni61. 5.4 La solidarietà nazionale A prescindere dai possibili veti statunitensi e degli altri paesi della Nato, gli ostacoli interni a un ingresso del Pci nel governo erano molti e non lasciavano prevedere un simile esito con facilità anche se l’Italia non fosse stata legata al suo sistema di alleanze. La Democrazia cristiana non era per nulla unita su questo punto62 e il mondo imprenditoriale non giudicava positivamente un impegno diretto dei comunisti nell’esecutivo. Come esempio si può ricordare un’intervista rilasciata da Gianni Agnelli a «la Repubblica» nella quale il presidente uscente della Confindustria dichiarava la sua insoddisfazione per la situazione politica, ma non riteneva il Pci ancora adatto a guidare il paese, non avendo sciolto molti nodi, tra cui il ruolo degli imprenditori in un sistema economico riformato63. L’appoggio esterno, la partecipazione alle trattative sul nome di ministri e sottosegretari, così come la presidenza di alcune commissioni parlamentari erano ormai dati di fatto, ma la presenza di ministri comunisti sarebbe stata tutt’altra cosa. Si poteva prospettare, al limite, la presenza di ministri tecnici d’area, ma anche questo passaggio presentava non poche difficoltà. Lo stesso Partito comunista non era del tutto compatto sulla partecipazione a un governo con i democristiani, a una grosse Koalition che mandasse all’opposizione i socialisti, provocando una grave rottura che lasciava spazi aperti a sinistra. Certo, l’eurocomunismo di Berlinguer ipotizzava la costruzione di un socialismo democratico lontano dai condizionamenti sovietici e in un contesto atlantico e questa ipotesi apriva prospettive che facevano intravedere alla fine del percorso una nuova democrazia dell’alternanza, cioè una seconda Repubblica basata su una formula politica diversa da quella dei primi trent’anni, ma le resistenze erano molte, né la formulazione dell’eurocomunismo, poco compresa dai più, era stata in grado di provocare entusiastiche adesioni nella base. In tale contesto Moro si convinse che non si dovesse aprire ai Pci se non nella misura e per il tempo necessari a rafforzare il quadro politico generale e il ruolo centrale della Dc, e che per fare ciò fosse necessario portare tutto il partito verso la soluzione della solidarietà nazionale attraverso un accordo programmatico-parlamentare con 60 Ivi, p. 28. 61 Ivi, p. 245. 62 Nota è l’opposizione al progetto del cosiddetto «gruppo dei cento». 63 «la Repubblica», 27 aprile 1976.
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Botteghe Oscure, che sarebbe entrata nella maggioranza, restando però fuori dall’esecutivo. Nel corso del suo discorso ai gruppi parlamentari del 28 febbraio 197864, Moro ricostruì le fasi che dal 1976 avevano portato il paese a questa situazione e trattandosi di un discorso esemplare, vale la pena esaminarlo65. Moro partì da dati oggettivi («le cose che [sono] dinanzi a noi») ed è esclusivamente sui fatti che impostò il suo ragionamento; la situazione era nuova, inconsueta e non permetteva di essere risolta attraverso gli strumenti del passato. Essa, inoltre, non era causata da un vizio o da una causa non individuabile, ma nasceva direttamente dalle elezioni politiche del 1976, venute dopo un importante referendum che aveva «sconvolto la geografia politica italiana»66, dopo regionali che avevano visto una grande affermazione comunista e dopo la dichiarazione del Psi di ritenere chiusa l’esperienza del centro-sinistra. Se era vero che la Dc era uscita vincitrice da quel confronto elettorale, era altresì indubbio che i vincitori erano stati due, in quanto anche il Pci aveva ottenuto un grande successo «e due vincitori in una sola battaglia creano certamente dei problemi». A causa della sconfitta dei partiti laici e al non aumento del Psi (peraltro contrario, come detto, all’alleanza con la Dc), proprio il partito che per trent’anni era stato capace di governare da solo, o aggregando intorno a sé maggioranze di un certo tipo, non era più in grado proseguire quella strada. Si poteva rispondere con nuove elezioni, ma per rispetto del paese il partito era stato unito almeno nell’evitare questa soluzione. Restava la ricerca di nuove vie, praticabili grazie a un fatto nuovo. Infatti, non solo i partiti che in passato avevano governato il paese, ma anche il Pci aveva manifestato un atteggiamento non ostile nei confronti della Dc. Si poteva, allora, lavorare all’interno di uno spazio che Moro chiama «quadro del confronto», ossia del dialogo tra due forze alternative che potevano avere qualche punto di convergenza. Da questo quadro di confronto era nata la formula della «non sfiducia», ma rispetto a quella situazione, che andava bene nel 1976, le cose si erano aggravate in quanto il paese non era uscito dalla crisi. I problemi erano divenuti «molto più grandi; hanno bisogno di una misura, di un limite», ossia, era necessario porre con chiarezza il limite invalicabile oltre il quale la Dc non poteva andare – e questo fu individuato nella diretta partecipazione dei comunisti al governo – ma all’interno del quale si po64 Un discorso, a dire di Pio Marconi, che merita di entrare nelle antologie scolastiche e nei testi di sociologia e di scienza della politica; P. Marconi, L’allargamento della partecipazione, in Aldo Moro. Stato e società, cit., p. 131. Per il decennale del discorso tenuto da Moro ai gruppi parlamentari è stato organizzato un convegno in Senato i cui atti sono stati pubblicati in Aldo Moro. A dieci anni dal suo discorso ai gruppi parlamentari dc, Roma 1988. 65 Nel Memoriale Moro ricorderà che quel dibattito: «è stato molto ampio ed in qualche punto oscuro nella sua portata e nelle sue conseguenze». Molte furono le «contese di gruppi i quali rivendicavano cifre di aderenti tra loro incompatibili, timori di certi per la partecipazione al governo, incertezze sul programma, perduranti difficoltà sui punti politici»; Commissione stragi, II, numerazione tematica 3, pp. 210-233. 66 Si riferisce al referendum sul divorzio.
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tevano e dovevano percorrere tutte le strade. Perciò, pragmaticamente, era necessario guardare alla situazione e alle alternative, ovvero chiedersi quali fossero i rischi reali. E il rischio principale che Moro individuò era quello di «passare la mano», ossia di vedere al governo un’alleanza che escludeva la Dc. Non era possibile una piena solidarietà con il Pci, un suo impegno diretto in un governo di emergenza, ma le condizioni del Paese imponevano la necessità di interrompere il meccanismo della maggioranza e dell’opposizione, in quanto la logica dell’opposizione avrebbe bloccato qualsiasi iniziativa. L’emergenza indicava «una sorta di tregua» perché «oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità», da svolgere nell’unità del partito, che costituiva uno di quei valori fondamentali ai quali Moro si era richiamato nel suo discorso: «Camminiamo insieme – concludeva – perché l’avvenire appartiene in larga misura ancora a noi»67. Le preoccupazioni di Moro, insomma, riguardavano l’unità della Dc, che non era per nulla scontata, ma soprattutto il futuro, strettamente connesso con l’esisto del proseguimento di una strada difficile, con riferimento al ruolo del Pci. La posta in gioco era chiara (nuova centralità democristiana o alternanza) e tutto sarebbe dipeso, dopo l’esperienza della solidarietà nazionale, dall’esito di un nuovo passaggio elettorale. Se il Pci avesse perso voti la Dc avrebbe riguadagnato la propria centralità; in caso contrario, si sarebbe dovuta trovare una nuova formula per il governo del Paese. L’idea di Moro non coincideva con il compromesso storico, che nella visione di Berlinguer costituiva un accordo tra capitale e lavoro all’interno di un quadro internazionale fermo al 1948. Secondo Moro, invece, la «società consociativa» poteva essere un avanzamento verso la libertà in altri paesi con una storia diversa da quella dell’Europa occidentale; per l’Italia, invece, avrebbe costituito un arretramento68. Il 2 dicembre 1974 nel corso del discorso programmatico del suo IV governo, (il bicolore democristiano-repubblicano, quel «ponte verso l’ignoto» cui si è già fatto cenno), egli aveva parlato della proposta berlingueriana come di una nuova anomalia nel caso italiano, un «deformante aggiungersi» della componente comunista alle altre già impegnate a governare il paese. Il fatto stesso, affermò Moro, che di fronte alle Camere si sarebbe presentato un governo Dc-Pri, significava il rifiuto di tale proposta. Ciò, però, non indicava la ricusazione del confronto con i comunisti, che veniva stimolato affinché dall’opposizione si partecipasse pienamente alle questioni cruciali che la crescita del paese proponeva; «di questo confronto, dai limpidi contorni e che può approdare anche all’accettazione, con67 Discorso ai gruppi parlamentari democristiani, 28 febbraio 1978. 68 Moro si riferiva probabilmente ai governi formati dai diversi partiti antifascisti e chiamati «democrazie popolari» che negli anni tra il 1944 e il 1948 governarono i paesi in seguito divenuti parte del blocco socialista. Un’esperienza non molto dissimile, seppure con le dovute differenze, era stata vissuta anche dall’Italia fino al 1947; in questo caso, però, non tutti i partiti antifascisti avevano sempre preso parte ai governi.
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corde nella maggioranza, in tutto od in parte, di emendamenti e proposte dell’opposizione, non solo non abbiamo timore, ma anzi lo ricerchiamo come una sorta di verifica, comunque si risolva la comparazione, della giustezza della tesi che in buona fede abbiamo professato e portato avanti»69.
Si trattava del chiarimento dei ruoli, che il compromesso storico, invece, spaginava. Solo nella chiara distinzione di quei ruoli, a dire di Moro, era possibile un dialogo. Il suo rapimento bastò a mettere in crisi questo disegno, perché gli uomini che fuori pretesero di continuarla non lo compresero e lo ridussero di contenuto. Con la sua morte, poi, scomparve il punto di equilibrio che Moro rappresentava nel suo partito e la politica nel breve volgere di pochi mesi subì un’involuzione che condusse verso nuove prospettive, riportando nuovamente i comunisti lontano dalla responsabilità di governo. Come si può osservare, gli Stati Uniti sembrarono cedere all’idea di un compromesso di rilievo tra Pci e Dc e impararono ad apprezzare la figura di Moro come quella del maggiore politico del Paese, l’unico in grado di garantire l’accordo, ovvero, l’unico dotato delle capacità necessarie a coinvolgere i comunisti nel governo senza una loro diretta partecipazione all’esecutivo. Questo era il fine di Moro, più volte sottolineato da lui stesso, e questo avevano accettato gli statunitensi, non vedendo altra via d’uscita da una situazione grave, sia dal punto di vista economico che sociale. Aldo Moro era tutt’altro che inviso agli statunitensi, anzi, si può affermare che fosse davvero uno dei politici italiani più stimati a Washington e in quel momento storico il più «necessario» alla logica di Yalta, avendola saputa rileggere alla luce dei cambiamenti intercorsi in trent’anni di vita democratica italiana. Nei rapporti della Cia del 1978 Moro fu sempre apprezzato per le sue capacità di mediazione nei rapporti tra i due maggiori partiti italiani, e di questa sua dote si enfatizzò la mancanza proprio nella drammatica situazione del suo rapimento. Un anonimo analista della Cia si spingeva a osservare che il rapimento di Moro avrebbe potuto avere conseguenze drammatiche sulla stessa Dc, sulla sua coesione interna e sulla sua «capacità di restare la maggiore forza politica italiana». Nello stesso rapporto si ribadiva il giudizio positivo sul tentativo di riforma economica del III governo Andreotti, in buona parte però fallito, e non si dava un giudizio negativo sull’operato di Moro nel corso della crisi di governo, dove era stato capace di riportare su binari stabili l’accordo programmatico tra Dc e Pci. Moro, si legge «la principale figura della politica italiana, era arrivato alla conclusione che la collaboraSulle democrazie popolari si rimanda al primo di tre volumi di François Fejto˝ dedicati ai paesi socialisti dal titolo Storia delle democrazie popolari, Firenze 1955. Interessante, anche perché contiene un confronto con la situazione italiana, è il lavoro di Bruno Arcidiacono, Alle origini della divisione europea. Armistizi e commissioni di controllo alleate in Europa orientale 1944-1946, Firenze 1993. 69 VI Legislatura, Senato della Repubblica, A. Moro, Discorso programmatico per la fiducia al governo Dc-Pri, 2 dicembre 1974, in A. Moro, Discorsi parlamentari, II, cit., p. 1491.
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zione tra Dc e Pci fosse l’unica via d’uscita per il dilemma del paese», ma le condizioni necessarie a una tale svolta si erano realizzate soltanto durante il III governo Andreotti. Infatti il suo rapimento aveva rimesso in movimento il quadro politico e «i suoi oppositori nella Democrazia cristiana puntarono i piedi» 70. Ciò non significava, però, che quel tipo di politica fosse stata un fallimento. Le conseguenze indirette del rapimento di Aldo Moro, tra cui la capacità dimostrata dal Psi di sganciarsi dalla solidarietà con i comunisti per praticare una politica autonoma, fortemente caratterizzata dalla ricerca di un nuovo ruolo nel paese, così come le dimissioni di Leone e l’ascesa al Colle di un presidente laico nella persona di Sandro Pertini, portarono alle elezioni del 1979 in un clima completamente differente da quanto previsto dagli statunitensi allora, un clima nel quale la collaborazione tra Dc e Pci era giunta ormai alla fine.
70 P. Mastrolilli, M. Molinari, op. cit., pp. 109-111.
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Capitolo 6 Via Fani
6.1 La pianificazione Era ancora l’alba quando a Roma, il 16 marzo del 1978, un gruppo di dieci brigatisti si immerse nel traffico per raggiungere il luogo dell’appuntamento. Si trattava di un contadino, un tecnico, un assistente di sostegno, un artigiano, uno studente, due disoccupati, un commerciante e due operai. Appartenevano alle Colonne di Roma, Milano, Torino ed erano intenzionati a compiere un’azione armata senza precedenti: il rapimento di Aldo Moro come massima esemplificazione dell’«attacco al cuore dello Stato». L’appuntamento era a un incrocio tra via Mario Fani e via Stresa. Il piano prevedeva l’annientamento della scorta di Moro composta da tre poliziotti e due carabinieri: gli agenti Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e il caposcorta Francesco Zizzi, il maresciallo Oreste Leonardi e l’appuntato Domenico Ricci1. Tutto era stato meticolosamente pianificato in mesi e mesi di preparazione. Quel commando di dieci militanti, di età compresa tra i 20 e i 32 anni, diede prova di una notevole determinazione nel condurre a termine un’operazione che segnò la storia del Paese, un’operazione il cui investimento economico, per paradosso, non superò le 700.000 lire, appena l’equivalente di tre salari di allora di un operaio metalmeccanico2. Una brigatista posizionata nella parte alta di via Fani avrebbe dovuto segnalare l’arrivo del convoglio di Moro alzando un mazzo di fiori. Di conseguenza un brigati1 Il maresciallo Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, gli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera morirono in via Fani. Il capo scorta Francesco Zizzi fu ricoverato in ospedale gravemente ferito, ma spirò alle 12.35 al Policlinico Gemelli. Si veda il referto medico in Commissione Moro 1, vol. 30, p. 327, f.to Giuliano Pelosi. Mario Moretti, Bruno Seghetti e Barbara Balzerani hanno ricostruito con gli autori del libro i momenti del sequestro nel corso di una serie di conversazioni tra il 2010 e il 2016. 2 Valerio Morucci, Memoriale Morucci, ACS, MIGS, busta 20, p. 34: «Il costo dell’azione di via Fani, escluso il costo dell’appartamento di via Montalcini, già in dotazione delle Brigate rosse, può farsi ammontare a circa 700.000 lire. Esso risulta in parte dal biglietto, ritrovato in via Gradoli intestato a Fritz. In quel biglietto sono riportate le spese effettuate per le sirene, le tronchesi, le borse, gli impermeabili, i berretti e il resto necessari all’azione». Fritz era il nome convenzionale per indicare Moro tra coloro che si occuparono del sequestro.
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sta si sarebbe immediatamente mosso con la sua auto per posizionarsi davanti all’automobile che trasportava Moro e a quella della scorta che seguiva. Allo stop con via Stresa si sarebbe normalmente fermato. In quel momento quattro brigatisti divisi in due sottonuclei sarebbero entrati in azione sparando di sorpresa per eliminare gli agenti che proteggevano Moro. Mentre una brigatista tra via Stresa e via Fani doveva bloccare l’accesso al luogo dell’assalto (il «cancelletto inferiore»), un altro brigatista doveva entrare a marcia indietro da via Stresa in via Fani per caricare l’ostaggio. Gli ultimi due dovevano chiudere via Fani nella parte alta, operando il cosiddetto «cancelletto superiore», per tenere lontano dall’azione chiunque fosse sopraggiunto. I sottonuclei del gruppo di fuoco avevano compiti prestabiliti: il primo doveva colpire i carabinieri che accompagnavano Moro, il maresciallo Leonardi, ritenuto pericoloso per la sua esperienza, e l’autista, l’appuntato Ricci. Il secondo sottonucleo doveva attaccare la scorta della Pubblica sicurezza che occupava la seconda auto (Zizzi, Iozzino e Rivera). Contemporaneamente, il conducente della macchina ferma allo stop sarebbe sceso per rinforzare il «cancelletto inferiore». Alla fine della sparatoria i brigatisti avrebbero prelevato Moro e lasciato immediatamente la zona su tre auto dirette in una stessa direzione. La macchina ferma allo stop sarebbe stata abbandonata all’incrocio della sparatoria assieme a una quinta vettura dell’organizzazione, che serviva come riserva, parcheggiata poco più avanti su via Stresa. 6.2 L’attacco 16 marzo, Roma, via Fani, ore 9.00. Quando «Marzia» (nome di battaglia di Rita Algranati) vide giungere le due macchine con Moro e la scorta (una Fiat 131 e un’Alfa Romeo), segnalò ai suoi compagni l’arrivo dell’obiettivo con il gesto convenuto – il movimento di un mazzo di fiori – e lasciò la sua postazione su una Vespa 50. «Maurizio» (Mario Moretti) si immise con la sua auto (una Fiat 128 Giardinetta con targa Corpo diplomatico) nella careggiata, ponendosi alla testa del convoglio di Moro nel frattempo sopraggiunto. Scendendo lungo via Fani si trovò davanti una Fiat 500 che procedeva lentamente. Prima che le macchine del convoglio, abituate a viaggiare a velocità sostenuta, decidessero di superare entrambi, «Maurizio» effettuò la manovra di sorpasso e lo stesso fecero le due auto di Stato. Quel gesto forse facilitò la riuscita dell’azione: la naturalezza di quel sorpasso ingannò la scorta, fugando il sospetto sulla vera funzione che avrebbe svolto qualche attimo dopo. L’effetto sorpresa fu determinante3. Giunto allo stop «Maurizio» si fermò, così come fecero la Fiat 131 e l’Alfa Romeo. Immediatamente i quattro brigatisti in attesa, «Matteo» (Valerio Morucci), «Marcello» (Raffaele Fiore), «Giuseppe» (Prospero Gallinari) e «Luigi» (Fran3 Le commissioni parlamentari d’inchiesta, compresa l’ultima, per spiegare il successo dell’attacco brigatista hanno a nostro giudizio sopravvalutato l’effetto del volume di fuoco proveniente da uno dei quattro
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co Bonisoli) aprirono il fuoco, mentre la brigatista addetta al «cancelletto inferiore», «Sara» (Barbara Balzerani) fermava con il mitra una Fiat 500 appena sopraggiunta dalla parte bassa di via Fani guidata, lo si seppe poi, dal poliziotto Giovanni Intrevado, in quel momento fuori servizio. Contemporaneamente, sulla parte alta della via veniva formato il «cancelletto superiore»: «Camillo» (Alessio Casimirri) e «Otello» (Alvaro Loiacono) – che si era calato un sottocasco del tipo «mephisto» sul volto perché in passato era stato arrestato e il suo viso era fotosegnalato – bloccavano con una Fiat 128 ogni accesso armati di un fucile M1 Winchester. I primi spari colpirono l’autista dell’Alfetta che fece un balzo in avanti andando a tamponare la 131. L’appuntato Ricci, alla guida della 131, cominciò a suonare all’auto di «Maurizio» ferma davanti alla sua affinché ripartisse. Nel frattempo il mitra che doveva sparare a Ricci si inceppò,4 così come si inceppò anche l’altro che pochi istanti prima aveva ucciso il maresciallo Leonardi. Ricci ebbe il tempo di tentare una disperata manovra per portare in sicurezza la macchina, cercando di passare alla destra della 128. Per ostacolare quel tentativo «Maurizio», invece di scendere dall’auto come previsto per rafforzare il «cancelletto inferiore», rimase sull’auto premendo il piede sul freno e impedendo così alla 131 di forzare la morsa nella quale era finita. Poi anche Ricci venne raggiunto da alcuni colpi. Nel frattempo si inceppò anche un terzo mitra che stava sparando contro l’Alfetta e ciò permise a un componente della scorta, l’agente Iozzino, probabilmente già ferito, di scendere e tentare una reazione. Sparò verso un brigatista, ma venne ripetutamente colpito e cadde5. Quando gli spari cessarono, «Maurizio» scese dalla 128 e prelevò Moro dalla 131 (secondo il piano doveva essere «Matteo» a farlo) trasferendolo poi nell’auto giunta in retromarcia da via Stresa guidata da «Claudio» (Bruno Seghetti)6. Da quel momento cominciò la seconda fase dell’operazione, la fuga, la cui pianificazione era stata affidata alla Colonna romana che elaborò un itinerario fuori dalle mitra, l’ultimo in alto, nonostante l’imprecisione dei colpi da esso sparati. La circostanza, è stato ipotizzato, dimostrerebbe la presenza nel commando di un tiratore professionista, un «superkiller», la cui identità di volta in volta è stata attribuita ai Servizi, alla criminalità organizzata o alla Raf (Rote Armee Fraktion) tedesca. Il fatto che nella fase conclusiva dell’attacco, quando i primi tre brigatisti avevano cessato il fuoco, il quarto componente del sottonucleo superiore abbia aggirato il retro dell’Alfetta, portandosi sulla parte destra di via Fani, dove ha continuato a esplodere colpi con la sua pistola, ha fatto ipotizzare anche la presenza di un quinto sparatore addirittura «addestrato al tiro incrociato». Al contrario, elementi quali l’effetto sorpresa, il camuffamento della Fiat 128 Giardinetta con targa diplomatica che ha bloccato lo stop, la mimetizzazione dei quattro uomini del nucleo di fuoco sono stati sottovalutati. 4 R. Fiore, L’ultimo brigatista, con A. Grandi, Rizzoli, Milano 2007, p. 121. 5 Una chiazza di sangue venne rinvenuta sul sedile occupato dall’agente. 6 Conversazione degli autori con Mario Moretti tra il 2010 e il 2014. Un disegno dell’azione di via Fani realizzato da Moretti è agli atti della seconda Commissione di inchiesta sul Caso Moro; risale al 2006. Altri tre militanti ebbero un ruolo fondamentale nel sequestro: «Alexandra», (Adriana Faranda), che oltre alle fasi preparatorie, all’«inchiesta» e al logistico, fu insieme a Morucci la «postina» che recapitò i Comunicati dell’organizzazione e le lettere di Moro; «Camilla» (Anna Laura Braghetti), intestataria dell’appartamento di via Montalcini 8 nel quale venne imprigionato Moro nei 55 giorni del sequestro e «Gulliver» (Germano
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vie principali, su strade normalmente chiuse al traffico. Lo stesso criterio, peraltro, aveva ispirato una prima ipotesi di via di fuga, quando si pensava di sequestrare Moro all’interno della chiesa di Santa Chiara, in piazza dei Giochi Delfici. Lo sganciamento sarebbe dovuto avvenire percorrendo via Riccardo Zandonai, una via chiusa da un condominio con due cancelli e una zona interna carrabile, che avrebbe permesso alle auto del commando di scomparire dalla vista, arrivando dopo il secondo cancello fino all’imbocco con via della Camilluccia, «a circa cinquanta metri dal largo tra il Cimitero Francese e via dei Colli della Farnesina», e da qui arrivare successivamente in via Trionfale, percorrendo un itinerario opposto a quello, ritenuto prevedibile, di eventuali inseguitori7. In seguito quel piano, «al quale era molto affezionato Morucci»8, venne scartato perché il rischio di innescare un conflitto a fuoco in una zona che vedeva la presenza di una scuola elementare venne considerato troppo alto. Il punto stradale successivamente scelto per l’azione, l’incrocio tra via Fani e via Stresa, era conosciuto da due militanti della Colonna romana presenti la mattina del 16 marzo 1978 che avevano avuto modo di studiarlo poco meno di quattro anni prima in occasione di una inchiesta condotta contro Pino Rauti, figura di spicco della destra neofascista della capitale. Nel giugno del 1974 un gruppo di militanti provenienti da Potere operaio romano e che avviava i primi passi verso la lotta armata, meditava di compiere un attentato contro Rauti. L’azione era stata concepita come rappresaglia per la strage compiuta il 28 maggio precedente in piazza della Loggia a Brescia, nel corso di una manifestazione antifascista indetta dai sindacati e dal locale Comitato antifascista, che costò la vita ad 8 persone e ne ferì 1029. L’esponente missino abitava in via Stresa, a ridosso dell’incrocio con via Fani, tanto che il 16 marzo 1978 fu tra i primi a telefonare al centralino della questura per dare l’allarme: alle 9.15 dichiarò di aver sentito alMaccari), il «quarto uomo» che prese parte alla logistica del sequestro, presidiò l’appartamento durante i 55 giorni interpretando il ruolo di marito della Braghetti, e prese parte alla esecuzione del presidente Dc nel garage dell’abitazione. 7 Ecco il racconto dettagliato del piano fatto da Valerio Morucci, Memoriale, op. cit., p. 22: «La macchina con Moro e quella di appoggio avrebbe dovuto percorrere via Zandonai che è una strada senza uscita (o meglio che ha un fondo cieco dopo una o due traverse laterali). In fondo a via Zandonai c’è un complesso residenziale con una porta metallica a scorrimento elettrico che consentiva il passaggio all’interno del complesso e lo sbocco successivo in via della Camilluccia, a circa cinquanta metri dal largo tra il Cimitero Francese e via dei Colli della Farnesina. Per l’accesso al residence era stata fatta una chiave falsa, ricavata da una chiave di lucchetto del telefono. La chiave serviva ad aprire la porta automatica del residence. Una volta superato, con le due auto, l’ingresso del residence dalla parte di via Zandonai, il cancello si sarebbe richiuso automaticamente impedendo il passaggio degli inseguitori, e si sarebbe arrivati (una volta usciti dall’altro cancello del residence), percorrendo via della Camilluccia, in via Trionfale; in una direzione opposta a quella prevedibile (da parte di eventuali inseguitori, e che sarebbe dovuta logicamente essere) via Zandonai, via del Nuoto, via Nemea, proseguendo fino a ponte Milvio». 8 Barbara Balzerani, colloquio con gli autori. 9 Colloquio con Bruno Seghetti, 3 maggio 2016. Si tratta di quell’area politica che nei mesi successivi avrebbe dato vita a sigle come Fac (Formazioni armate comuniste) e Lapp (Lotta armata per il potere proletario) che operavano all’ombra del Comitato comunista centocelle (Cococe).
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cune raffiche di mitra e visto due uomini in divisa da ufficiali dell’aeronautica e una Fiat 132 blu allontanarsi dal luogo dell’agguato10. Osservando i movimenti di Rauti, il gruppo aveva notato che quando lasciava la propria abitazione percorreva via Stresa nel breve tratto che si immette su via della Camilluccia, dove a causa di uno stop la sua automobile era costretta a sostare. Di fronte allo stop, sul lato opposto della via, era fissato un grosso cartellone pubblicitario dietro al quale uno del gruppo si sarebbe appostato con un fucile di precisione Sig Sauer. L’attacco, preparato nei minimi dettagli, era giunto fino alla fase operativa ma il giorno previsto, arrivato sul luogo di raduno nel quartiere Prati, il responsabile militare del commando informò gli altri componenti che l’azione era stata annullata. Non sappiamo quanto l’inchiesta del 1974 abbia significato nell’economia del piano per rapire Moro, ma è un fatto che gli esponenti della Colonna romana erano già pratici della zona. Nel pomeriggio del 15 marzo 1978 vennero disposte lungo la via di fuga prescelta le vetture necessarie per effettuare il cambio macchine, più i due furgoni previsti per i trasbordi del rapito. Il furgoncino 850 Fiat color beige con doppio portellone laterale (per fare fronte a ogni evenienza e caricare il rapito da ambo i lati), pensato per il primo trasbordo da effettuare in piazza Madonna del Cenacolo, fu rubato da Bruno Seghetti in piazza dell’Orologio (Morucci nel suo Memoriale parla di piazza San Cosimato, luogo dove invece fu lasciato dopo l’azione). Tale furgone venne parcheggiato in via Bitossi, angolo via Bernardini, strada che taglia trasversalmente via dei Massimi. Si tratta di un quadrante tuttora estremamente appartato e tranquillo con circolazione prevalentemente locale. La Citroën Dyane azzurra che doveva aprire la strada al furgoncino Fiat 850 con a bordo Moro fu parcheggiata sul lato sinistro di via dei Massimi, dopo l’incrocio con via Bitossi. Il furgone previsto per il secondo trasbordo, probabilmente un Fiat 238 di colore chiaro, fu parcheggiato nella seconda parte della via di fuga, in zona Valle Aurelia, in uno slargo tra le vie Moricca, via Gaudino e via Vitelli. Anche le due Fiat 128 furono lasciate in via Fani nel pomeriggio precedente l’azione, ciò perché si sarebbe corso il rischio di non poterle mettere nella giusta posizione la mattina successiva11. La sera del 15 marzo furono distribuiti i giubbotti antiproiettile, i soprabiti da pilota, le mostrine, i berretti e le armi12. Seghetti e Fiore si recarono sotto l’abitazione del fioraio Antonio Spiriticchio, in via Brunetti 42, per squarciare le gomme del suo fur10 In una interrogazione parlamentare, la n. 3-02549, depositata il 17 marzo 1978 presso la Camera dei deputati, Pino Rauti riferiva di essere stato testimone oculare dopo la sparatoria della ««fuga» di un’auto ad altissima velocità lungo via Stresa, auto sulla quale poi – come subito dopo si è appreso – era stato «caricato» l’onorevole Moro», per poi lamentare la difficoltà riscontrata nel riuscire a mettersi in contatto con il 113 e la sala operativa della questura, intasate dalle numerose chiamate che pervenivano in quel momento. 11 Sulla Fiat 128 blu Valerio Morucci fornisce una versione diversa, come si può leggere più avanti, V. Morucci, Memoriale, cit., p. 27. 12 Ivi, p. 28, «Ogni componente del nucleo arrivò in via Fani munito dell’arma da fuoco personale e del mitra.
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gone Ford Transit e impedirgli così di essere presente in via Fani, nei pressi dell’angolo con via Stresa al momento dell’azione. La Braghetti, che attendeva nella base di via Montalcini che sarebbe diventata la prigione di Moro, ha scritto che non le era stato comunicato alcun piano di riserva: «[…] sapevo solo che dovevo restare a casa, e tenermi pronta. Però avevo intuito che, nel caso di un esito parzialmente disastroso per noi, qualcuno, Valerio Morucci o Bruno Seghetti, avrebbe caricato Moro su una macchina e l’avrebbe portato in un altro appartamento dell’organizzazione, meno sicuro del nostro ma comunque “coperto” abbastanza per reggere un giorno e una notte. La mattina dopo avrebbero recuperato me in ufficio, dove mi era stato detto di tornare in qualunque circostanza, e Moro sarebbe infine arrivato dove ora si trovava. Una volta nascosto Moro, un compagno dell’esecutivo brigatista sarebbe arrivato a riempire i posti rimasti vacanti»13.
In effetti, un piano del genere esisteva. La base era quella di via Chiabrera 74, l’appartamento dove durante il sequestro si tennero tutte le riunioni di Colonna14. I brigatisti giunsero in via Fani per strade diverse. L’Autobianchi A112 con cui Morucci e Bonisoli si recarono sul posto fu presa dopo un cambio macchina nella zona retrostante il mercato di via Andrea Doria, dove erano giunti partendo dalla base di via Chiabrera a bordo di una 12715. La A112, lasciata senza persone a bordo, serviva come mezzo di riserva nel caso fosse sorto un problema con le altre autovetture previste per lo sganciamento. La Fiat 128 Giardinetta bianca con targa diplomatica fu portata da Moretti e Balzerani intorno alle 7.0016. Usciti dalla base di via Gradoli passarono davanti all’abitazione di Moro per accertarsi che la scorta fosse sul posto, quindi l’auto venne parcheggiata con Moretti alla guida «sulla destra di via Fani subito dopo via Sangemini, venendo da via Trionfale e con il muso dell’auto in direzione dell’incrocio con via Stresa»17. Da quel Ai due irregolari partecipanti all’azione le armi furono consegnate la mattina stessa del 16 marzo (da Seghetti)». Versione confermata anche dagli altri componenti dell’azione. 13 Anna Laura Braghetti con Paola Tavella in, Il prigioniero, Feltrinelli 2003 (prima edizione Mondadori 1998), pp. 8-9. 14 Colloquio di Bruno Seghetti con gli autori. 15 Si veda in particolare la ricostruzione di Valerio Morucci: «Ci siamo spostati con la 127 bianca, che era in mia dotazione, con targa e documenti duplicati da un’auto appartenente ai servizi commerciali della Sip. I primi numeri di targa erano R2… Con questa auto arrivammo nella zona retrostante il mercato di via Andrea Doria. Qui lasciata la 127, prendemmo la A 112 con la quale ci recammo direttamente in via Stresa»; V. Morucci, op. cit., p. 27. 16 Valerio Morucci riferisce una versione contrastante corretta da Balzerani: «Il n. 1 (Moretti) arrivò in via Fani con la Fiat 128 blu assieme a Barbara Balzerani e risalì a piedi, senza fare alcun cenno e senza dare a vedere di conoscere gli altri, tutta via Fani controllando che tutti i componenti del nucleo fossero presenti»; Valerio Morucci, Memoriale, p. 27. 17 Barbara Balzerani, colloquio con gli autori.
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punto di osservazione l’ingresso in via Fani è visibile perché dopo via Sangemini la strada va in discesa. Sulla Fiat 132 blu che avrebbe portato via Moro giunsero Seghetti e Fiore provenienti dalla base di Borgo Pio. L’auto era stata rubata nei giorni precedenti tra via Cola di Rienzo e via Crescenzio. Fiore scese prima e Seghetti posizionò la 132 in via Stresa sull’angolo sinistro, a qualche metro dall’incrocio di via Fani, di fronte al bar Olivetti, con la posizione di guida rivolta verso l’alto di via Stresa, pronto a portarsi con una manovra di retromarcia accanto alla Fiat 130 di Moro. Dopo le prime raffiche riuscì a vedere Morucci intento a disinceppare il mitra e l’autista della Fiat 130 che tentava con ripetute manovre di trovare un varco, quindi scorse la raffica mortale18. La Fiat 128 bianca con Casimirri al volante e Loiacono al suo fianco era posizionata sul lato destro di via Fani, poco più avanti della Fiat 128 targata Corpo diplomatico, con la direzione di guida rivolta verso il basso della via in modo da poter attivare la posizione di «cancelletto superiore» al momento dell’attacco19. I due erano irregolari e arrivarono separatamente sul luogo con i mezzi pubblici. La Fiat 128 blu si trovava sul lato destro di via Fani, nella parte bassa, in prossimità dello stop «superato l’incrocio con via Stresa e in direzione contraria, con il muso dell’auto rivolto verso la direzione di provenienza delle auto di Moro»20. Al suo interno c’era la Balzerani, pronta a uscire appena scattata l’azione per attivare il «cancelletto inferiore». Anche Gallinari arrivò sul posto con i mezzi pubblici. Da rilevare che per l’attacco e il primo allontanamento furono impiegate solo autovetture italiane di marca Fiat, più una eventuale di scorta modello Autobianchi. Dal momento del trasbordo in piazza Madonna del Cenacolo le vetture impiegate nel proseguimento dell’operazione, fatta eccezione per i furgoni che non erano in via Fani, sarebbero state solo modelli francesi: una Citroën Dyane e una Ami 8. La cosa fu pensata per depistare possibili segnalazioni di testimoni. 6.3 La via di fuga Come detto, in principio la via di fuga doveva servire a portarsi fuori dagli assi di circolazione principali, scomparendo dalla scena. La caratteristica essenziale dell’itinerario scelto fu proprio quello: allontanarsi immediatamente dai probabili percorsi della polizia percorrendo vie interne, secondarie, strade private utilizzate unicamente da residenti in zone isolate, poco frequentate, libere dal traffico, prive di semafori. L’intero itinerario era concepito in modo tale da aggirare e praticamente non incontrare un solo semaforo, specialmente nella prima parte. 18 Dichiarazioni di Bruno Seghetti agli autori. 19 Dichiarazioni di Bruno Seghetti agli autori. Una ricostruzione analoga viene fatta da Valerio Morucci, Memoriale, p. 29. 20 Dichiarazioni di Bruno Seghetti agli autori.
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Nel Memoriale Morucci spiegò che «il percorso tra via Fani e via dei Colli Portuensi era stato studiato, a vari spezzoni, da tutti i componenti della direzione di Colonna. L’ultimo tratto di questo tragitto era noto solo ai tre brigatisti che lo avrebbero percorso il 16 marzo (cioè io, Moretti, Seghetti)»21.
La grande conoscenza del territorio dove si situavano i quartieri attraversati dal percorso di fuga era dovuta anche al vissuto di alcuni dei partecipanti all’azione: nella zona della Balduina aveva sede il «Nido verde», dove aveva prestato la sua attività lavorativa Barbara Balzerani; il quartiere Aurelio, le zone del Casaletto, del Trullo e Portuense erano conosciuti molto bene da Valerio Morucci e Alessio Casimirri, che in via Maddalena Raineri, una traversa di via del Casaletto, aveva un negozio di Caccia e pesca. Una volta lasciata via Fani, il convoglio brigatista svoltò a sinistra risalendo via Stresa. La disposizione della colonna non seguì il piano originario per un ritardo nella partenza della Fiat 128 blu che doveva fare da battistrada. Ad aprirla fino alla sommità di via Stresa fu quindi la Fiat 132 condotta da Seghetti, con Moretti accanto e Fiore sul sedile posteriore che teneva bloccato Moro. Seguiva la Fiat 128 bianca guidata da Casimirri, che aveva raccolto Gallinari, mentre Loiacono, posto sul sedile posteriore mantenne la funzione di copertura armata. Chiudeva il convoglio la 128 blu con Morucci alla guida, Bonisoli accanto e Balzerani dietro22. Dopo aver passato uno slargo alla sommità di via Stresa, ossia piazza Monte Gaudio, dove uno stop regolava l’accesso in via Trionfale (oggi è presente un semaforo), le macchine percorsero via Trionfale fino a largo Cervinia, in direzione centro. Qui la Fiat 128 blu riprese la guida del convoglio. È questo l’unico tratto dell’itinerario di fuga, circa 450 metri, che presentava dei rischi perché il convoglio era costretto a passare davanti al bivio con via Fani nella parte alta. Avrebbero potuto facilmente sopraggiungere dal centro, in senso contrario, vetture delle forze di polizia che invece di fare la via più breve, ovvero proseguire su via della Camilluccia per raggiungere l’incrocio con via Fani da via Stresa, preferivano girare per piazza Igea (oggi piazza Walter Rossi), via Igea, largo Cervinia e via Trionfale con svolta a destra nella parte superiore di via Fani. Circostanza che si avverò, come ha ricordato Gallinari: «Incrociamo una macchina della polizia che viene in senso contrario a sirene spiegate con la paletta di fuori. Sicuramente è partito l’allarme, ma loro stanno andando in via Fani, noi invece stiamo venendo via»23. 21 Valerio Morucci, Memoriale, p. 40. Morucci dimentica di citare Gallinari accanto a Moretti sul furgone Fiat 850 che trasportava Moro. Lo vedremo. 22 Ivi, pp. 131-132. 23 Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit., p. 185. La stessa scena viene descritta da Fiore, op. cit., p. 122.
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In quel breve tratto di strada oggi sono presenti due semafori, di cui uno pedonale, all’epoca assenti. L’ultimo tratto di via Trionfale, che dopo largo Cervinia va in leggera discesa (oggi è presente un semaforo pedonale), diventa senso unico in direzione centro. Da quel momento in poi il convoglio è sicuro di non incrociare più volanti o altri mezzi di polizia. Da largo Cervinia la Colonna compie ancora 650 metri e svolta a destra, in via Carlo Belli, una strada privata. L’immissione in via Belli è brusca e nascosta rispetto al senso di marcia di via Trionfale. Bisogna conoscere l’esistenza di questa via per compiere correttamente una manovra che presenta una curva a gomito molto stretta con un muro che si para improvvisamente innanzi (oggi l’ingresso è facilitato da una rampa che anticipa di poche decine di metri l’imbocco dell’epoca e che segna l’inizio di via Alfredo Durante). La Fiat 128 blu che apre il convoglio si allarga troppo e si trova il muro di fronte. Viene superata dalla Fiat 130 e dall’altra Fiat 128 bianca per ritrovarsi nuovamente in coda24. Via Belli è una strada privata, all’epoca sterrata, circondata dalla campagna e situata in una sommità che domina Balduina, Medaglie d’Oro e Trionfale. Dopo aver compiuto appena 1 km e 750 metri da via Fani, le tre vetture erano scomparse, inghiottite da una zona che pochi conoscevano. In fondo a via Belli il convoglio fu obbligato a svoltare a sinistra, dove inizia via Casale De Bustis. Oggi via Belli ha una sbarra quasi all’inizio e via De Bustis, che costeggia una struttura dell’Acea, delle barriere che ne chiudono l’accesso. Allora, invece, la via era bloccata da una catenella che venne tranciata da Moretti sceso dalla Fiat 132 (ognuna delle tre autovetture era dotata di una tronchese proprio perché non si sapeva chi potesse passare per primo). Balzerani scese dalla Fiat 128 blu che chiudeva il convoglio per riposizionare la catenella al suo posto, circostanza che coincide con il racconto di una testimone residente in via Luigi Gherzi, Anna Angelini De Luca, che dalla finestra scorse il movimento25. Via De Bustis si immette in linea retta in via dei Massimi, strada tranquilla che sul lato destro è chiusa dalla parte finale della Valle Aurelia, a ridosso del Policlinico Gemelli. Sono presenti solo una serie di abitazioni e ville che costeggiano la valle. Sul lato sinistro della via si immette solo una traversa, via Bitossi. Via dei Massimi termina poi in via Serranti che a destra è chiusa e si sviluppa solo sulla sinistra per poche decine di metri fino a immettersi in piazza Madonna del Cenacolo. In via dei Massimi il convoglio cominciò a organizzarsi per il trasbordo: la Fiat 132, sorpassata via Bitossi, si arrestò poco più avanti; Seghetti scese, lasciò il volante a Moretti e prese la guida della Dyane mettendosi al seguito della 132 che percorse tutta via dei Massimi e girò a sinistra per via Serranti. La Fiat 128 blu in coda al corteo si fermò all’altezza di via Bitossi, Morucci 24 Colloquio di Seghetti con gli autori. La circostanza, riportata sul Memoriale Morucci, è stata confermata da Seghetti, che era alla guida della 132: «La 128 blu che guidava il gruppo fu superata dalle altre per un errore di manovra all’imbocco di via Belli»; Valerio Morucci, Memoriale, p. 36. 25 Camera dei deputati, Senato della Repubblica, Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, VIII legislatura, p. 33.
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lasciò la guida a Bonisoli che seguì il resto del corteo, ora composto da quattro vetture, e si diresse lungo via Bitossi con le borse di Moro. Qui, all’angolo con via Bernardini, una parallela di via dei Massimi che confluisce anch’essa in via Serranti, Morucci salì sul furgone Fiat 850 e si avviò verso piazza Madonna del Cenacolo passando per via Pietro Bernardini, svoltando a sinistra su via Serranti. Tutti e cinque i mezzi percorsero via Serranti fino a immettersi in piazza Madonna del Cenacolo, scelta perché all’epoca era deserta e fuori zona rispetto agli assi principali che sarebbero stati percorsi in quel momento dalle vetture della polizia. 6.4 Il primo trasbordo In piazza Madonna del Cenacolo il convoglio si separò. La Fiat 132 arrivò per prima, compì un giro a semicerchio per collocarsi sul lato opposto di via Serranti, con l’avantreno in direzione di via Balduina lato in salita, verso via Ambrosio (piazza Madonna del Cenacolo è tagliata perpendicolarmente da via Balduina e su un lato da via Serranti). In questo settore della piazza non vi sono vie di accesso che possono disturbare, ma solo uno slargo protetto da un muro che separa una collina (oggi vi è un cancello che dà accesso a un convento di suore). Le due Fiat 128 fecero lo stesso giro per arrestarsi vicino alla 132; dalla berlina bianca scese Gallinari per prendere posto sul furgone Fiat 85026. Quindi i due mezzi ripresero la marcia per immettersi verso la parte alta di via Balduina, svoltare subito a destra in via Ambrosio e dirigersi verso via Licinio Calvo. La Dyane si collocò dietro al furgoncino Fiat 850 per coprire il trasbordo di Moro. Morucci descrive così la manovra: «Queste macchine sono state portate nella rientranza sul lato destro della piazza, in direzione di via Ambrosio, il 132 davanti alla Dyane. Subito dopo, è giunto l’autofurgone guidato da me, proveniente da via Bitossi-via Bernardini. In piazza Madonna del Cenacolo mi sono disposto a fianco della 132, nello stesso senso di marcia, dalla parte sinistra dell’auto, quella dove era stato spostato Moro. Tra l’autofurgone e la 132 c’era un metro e mezzo di distanza. Il trasbordo è stato eseguito dal bierre n. 1 (Moretti) e dal bierre n. 7 (Fiore) sceso dalla 132. Io mi sono posto nello spazio tra il furgone e la 132, nella parte anteriore dei veicoli. Il n. 7 e il n. 1 (Fiore e Moretti) hanno caricato Moro, che era ricoperto con un plaid, dallo sportello laterale del furgone, nell’interno del furgone e da lì dentro una cassa di legno, fatta costruire appositamente e lì disposta»27. 26 Moretti ha sostenuto di essere solo: «lo guido io. Nel furgone non c’è nessun altro, sarebbe inutile, se veniamo intercettati non c’è rimedio, l’azione in un modo o nell’altro si conclude»; M. Moretti, Brigate rosse, cit. p. 131. Moretti evita di fare il nome di Gallinari, a cui per altro nel 1993 veniva ancora attribuita l’uccisione di Moro, per proteggerlo. La presenza di Gallinari sul furgone 850 che trasporta Moro è confermata anche da R. Fiore, op. cit., p. 122. 27 Valerio Morucci, Memoriale, cit, p. 37. Le modalità del trasbordo in piazza Madonna del Cenacolo sono state confermate anche da Bruno Seghetti in una ricostruzione fatta sul posto con uno degli autori.
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Prosegue sempre Morucci: «Per evitare che l’operazione di trasbordo potesse essere percepita da eventuali passanti, la Dyane fu posta posteriormente alla 132 ed al furgone, tra i due veicoli, in modo da coprire lo spazio tra questi esistente. Per impedire ulteriormente la vista ai passanti e agli inquilini degli stabili della piazza, io mi posi tra il furgone e la 132 sul lato anteriore. Da questa parte la percezione del trasbordo era impedita anche dallo sportello aperto della 132»28.
Spostato Moro, Moretti prese la guida del furgoncino Fiat 850 con Gallinari accanto mentre anche Morucci salì sulla Dyane condotta da Seghetti, che fece da battistrada. Fiore prese il volante della 132 per lasciarla in via Licinio Calvo. Dal momento della fuga in via Fani non erano trascorsi più di 5 minuti. Moro era già nel furgoncino diretto verso la base di via Montalcini. Intorno alle 9.10 i brigatisti avevano completato il cambio macchine. 6.5 Abbandonare le vetture dell’azione Le due Fiat 128, salita via Balduina per un breve tratto, svoltarono a destra per via Ambrosio. Alla fine della via girarono a sinistra per via Festo Avieno. Un percorso più lungo venne compiuto poco dopo da Raffaele Fiore sulla Fiat 132. Imboccata via Festo Avieno le due Fiat 128 presero la prima a destra, via Licinio Calvo. La Fiat 128 bianca guidata da Casimirri venne «regolarmente posteggiata e chiusa a chiave» sul lato destro della via, all’altezza del civico 23. Risalendo la strada da via Festo Avenio è la prima, poiché la numerazione parte da via Lucilio a scendere. La macchina era stata rubata il 23 febbraio 1978 dietro l’Ara Pacis, nei pressi della Passeggiata di Ripetta, dove all’epoca c’era un parcheggio custodito, uno dei luoghi privilegiati dai brigatisti della Colonna romana per il furto delle autovetture, che di solito venivano lasciate con le chiavi inserite29. La Fiat 128 blu condotta da Bonisoli con Balzerani fu parcheggiata sempre sul lato destro, all’altezza del civico 25/27 (all’incirca a metà della via). Le armi lunghe, raccolte in due borse, vennero portate via30. La macchina, rubata il 22 febbraio 1978, fu ritrovata solo il 19 marzo. La Fiat 132 con alla guida Fiore fu lasciata sul lato destro della via, all’altezza del civico 1, in prossimità di via Lucilio con l’avantreno in direzione di Festo Avenio. Era stata rubata il 23 febbraio nel quartiere Prati31. Posteggiate le auto, gli occupanti si diressero a piedi in fondo alla strada, traversarono la via perpendicolare, via Lucilio, scesero le scalette che conducono in via Prisciano, che percorsero verso destra, per immettersi in viale Medaglie d’Oro e rag28 Ivi, p. 37. 29 Bruno Seghetti, colloquio con gli autori. 30 Barbara Balzerani, colloquio con gli autori. 31 Bruno Seghetti, colloquio con gli autori.
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giungere, poco più avanti, piazzale delle Medaglie d’Oro. Qui si diressero in un bar della piazza dove Bonisoli e Fiore si liberano nella toilette dei soprabiti (da cui erano già state tolte le mostrine quando erano in macchina) e dei giubbotti antiproiettile che, raccolti in un borsone, furono presi in consegna dalla Balzerani. Con un autobus di linea si diressero verso piazzale degli Eroi da dove Bonisoli e Fiore proseguirono verso la stazione Termini per salire sul primo treno che li avrebbe condotti a Milano e Torino. Gli altri con le borse cariche di armi, giubbotti e impermeabili, si avviarono a piedi verso la zona del mercato di via Andrea Doria. Nelle strade retrostanti depositarono le borse con le armi nella Fiat 127 bianca lasciata al mattino da Morucci e si separarono. Balzerani portò con sé i giubbotti e gli impermeabili e raggiunse a piedi la base di Borgo Pio in attesa del rientro di Seghetti32. 6.6 Seconda fase: cambiare quadrante della città Il convoglio composto dalla Dyane, che faceva da battistrada, e dal furgoncino Fiat 850 che trasportava Moro si avviò lungo la discesa di via Balduina iniziando il tortuoso itinerario studiato per raggiungere senza pericoli il parcheggio coperto in via dei Colli Portuensi. Dopo circa 850 metri entrò in via Ugo De Carolis (mentre la Balduina svolta a sinistra) che percorse per circa 500 metri fino a largo Damiano Chiesa, dove girò a destra per via Damiano Chiesa. Qui i due automezzi si immisero in una via del tutto secondaria e appartata, via Mario Fascetti. Dopo appena 1500 metri dalla partenza, tutti in discesa, il convoglio sparì in un vero e proprio dedalo di stradine private che costeggiano Valle Aurelia consentendogli di cambiare in tutta sicurezza quadrante cittadino. Tra le tante ipotesi, le forze di polizia avrebbero ritenuto possibile che le vetture in fuga avessero percorso per intero via Damiano Chiesa, traversando la Valle Aurelia per portarsi nella zona della Pineta Sacchetti, dove furono effettuati numerosi controlli e posti di blocco e gli elicotteri batterono a volo radente. Intorno alle 19.00 di quello stesso giorno, inoltre, venne ritrovata nei pressi di Forte Braschi una Fiat 128 bianca che per molte ore sarebbe stata considerata uno dei mezzi impiegati dai brigatisti per dileguarsi33. Via Mario Fascetti è una strada privata con dossi, oggi addirittura chiusa in fondo ma che all’epoca conduceva in via Papiniano, dove il convoglio svoltò a destra. Via Papiniano è una strada chiusa a sinistra dall’enorme muro di sostegno della Ferrovia Roma-Viterbo che la spezza in due, e a destra dal verde della Valle Aurelia, dove 32 Barbara Balzerani, colloquio con gli autori. Morucci racconta nel Memoriale che «I bierre provenienti da altre colonne (cioè Fiore e Bonisoli) si sono liberati in una toilette di un bar di piazza delle Medaglie d’Oro dei giubbotti antiproiettile, degli impermeabili, cui erano state tolte in auto le mostrine che erano applicate con automatici, e delle borse con i mitra, consegnando tutto agli altri della colonna romana lì ripiegati (cioè Balzerani, Casimirri e Loiacono. Mentre Gallinari si era subito allontanato per raggiungere via Montalcini»). 33 Un lancio Ansa delle 19.03 del 16 marzo riferisce che «una delle auto presumibilmente usate dal commando, una 128 bianca, è stata ritrovata vicino a Forte Braschi». La notizia verrà smentita il giorno seguente.
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va a morire. Una vera isola. Pochi metri in leggera discesa e la Dyane, insieme al furgoncino Fiat 850, svoltarono a sinistra, in via Proba Metronia, che costeggia Valle Aurelia sulla destra. Il convoglio la percorse fino all’altezza di una piccolissima viuzza, una sorta di vicolo che si scorge a fatica sulla destra, via Armando Di Tullio. A prima vista sembra una strada pedonale tanto è stretta. Qui Dyane e furgoncino 850 quasi si toccano, si spingono. Questa via angusta immette in una seconda strada, via Cesare De Fabritiis, una ennesima chiave di volta. Il convoglio la prende svoltando a destra. Deve compiere un giro con una curva a gomito verso sinistra per giungere nell’ultimo tratto con forte pendenza. Si tratta di un’altra strada privata, frequentata solo dai residenti, che piomba nel cuore di Valle Aurelia in una vecchia strada selciata, via di Valle Aurelia appunto. Via De Fabritiis, come detto, oggi è chiusa con un muretto di cemento che consente il passaggio solo ai pedoni. Allora permise il passaggio ai brigatisti che varcarono una cerniera che dava accesso a tutt’altra zona della città. Scesi in via di Valle Aurelia, i due automezzi si diressero a sinistra, in direzione del vecchio borghetto, oggi sostituito da enormi torri. Avrebbero potuto continuare dritti fino all’imbocco con via Ubaldo degli Ubaldi, per svoltare a destra e risalirla, ma avrebbero incontrato un semaforo all’incrocio con viale di Valle Aurelia. La borgata di Valle Aurelia era stata individuata come luogo ideale per effettuare il secondo trasbordo, precauzione per allontanare ulteriormente ogni traccia. Così il convoglio, percorsa quasi tutta via di Valle Aurelia, svoltò a destra nel suo ultimo tratto (oggi percorribile solo nel senso contrario) per via Giuseppe Bonaccorsi. Risalita la via, proseguì dritto, traversando l’attuale viale di Valle Aurelia per immettersi in via Aurelio Bacciarini (oggi una simile manovra non è più possibile poiché al centro del viale c’è un parcheggio. La si deve aggirare con un percorso a U). In fondo a via Bacciarini svoltarono a sinistra per via Umberto Moricca: qui era parcheggiato il furgone chiaro. 6.7 Il secondo trasbordo non serve più Da via Moricca passarono in via Giovan Battista Gandino, quindi a sinistra per via Girolamo Vitelli. Videro il secondo furgone, ma decisero di proseguire. L’azione era andata meglio del previsto e preferirono non perdere altro tempo. «Oltrepassiamo – racconta Moretti – senza fermarci il luogo dove avevamo messo una macchina per un cambio di emergenza qualora non fosse riuscita la prima operazione di trasbordo: è pericolosissima l’eventualità che sia stato notato il furgone col quale ci avviciniamo alla base, perché una segnalazione anche a distanza di giorni consente di circoscrivere la zona in cui ci troviamo»34. 34 Mario Moretti, Brigate rosse, p. 131.
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Saranno i membri della Colonna romana che hanno partecipato all’azione – spiega ancora Moretti – a occuparsi dello spostamento del mezzo in un altro quartiere per evitare che, nel caso fosse stato scoperto, potesse indirizzare le forze dell’ordine verso il quadrante di città dove i brigatisti erano passati35. Percorsa tutta via Vitelli i fuggitivi incrociarono via Baldo degli Ubaldi, una strada di scorrimento a due corsie separate, evitando in questo modo il semaforo. Raggiunta piazza Irnerio il convoglio svoltò verso sinistra (allora era una manovra possibile, oggi i semafori regolano il traffico) per immettersi su via Aurelia. Anche in questo caso l’itinerario prescelto realizzò un aggiramento attraverso un percorso di vie interne che consentì di evitare il semaforo e la postazione fissa dei vigili urbani situata all’imbocco con la circonvallazione Aurelia. Percorso un breve tratto di via Aurelia, le due vetture svoltarono a destra su via Altieri, passando davanti a via Palombini, strada privata dove era situata una base dell’organizzazione tenuta da Gabriella Mariani e Antonio Marini, che sarebbe stata scoperta il 17 maggio successivo. Dopo la salita di via Altieri, il convoglio giunse a largo San Pio V da dove svoltò a destra, immettendosi in via Madonna del Riposo (oggi percorribile solo in senso contrario). Alla fine della strada la Dyane e il furgoncino giunsero in piazza Carpegna dove svoltarono a sinistra e quindi in via di Torre Rossa. Si tratta ancora di una via isolata dove vi sono molte residenze di Opere religiose e che è circondata da mura antiche che corrono lungo un tratto della villa Carpegna. Percorsi 500 metri, svoltarono su via Aurelia antica, sempre una strada appartata protetta da mura. Poche centinaia di metri e si immisero in via della Nocetta, all’epoca percorribile nei due sensi. Qui svoltarono a destra e si immisero in via del Casaletto. La via attraversava allora la circonvallazione Gianicolense (oggi occorre fare una piccola deviazione per aggirare il capolinea del Tram 8) e proseguiva sempre circondata da vecchie mura, dietro le quali sorgono residence e istituti religiosi che sul lato destro si affacciano sulla Valle dei Casali. 6.8 L’arrivo alla Standa dei Colli Portuensi: l’ultimo trasbordo Quasi al termine di via del Casaletto il convoglio svoltò sulla sinistra per via Antonio Balboni, una strada in discesa breve e stretta che si immette in via Tommaso Vallauri. Dopo aver nuovamente svoltato a destra, seguirono la via che si fa ripida nell’ultimo tratto e presero via Belotti, una strada ancora più scoscesa che dà su Isacco Newton, all’epoca senza uscita. A destra c’era un muro di terra, dietro un canneto oltre il quale scorreva la vecchia via Portuense che attraversava la Valle dei Casali perdendosi nella zona fluviale del Tevere prossima alla Magliana. In via Newton il convoglio si immise sulla corsia di sinistra e dopo pochi metri giunse davanti alla rampa che conduceva 35 Mario Moretti, conversazione con gli autori.
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nel parcheggio coperto della Standa, oggi Conad-Oviesse. Qui la Dyane si accostò al marciapiede mentre il furgoncino Fiat 850 entrò all’interno dove trovò la Ami 8 Breck con «Gulliver» (Germano Maccari) in attesa. Racconta Gallinari: «Al parcheggio sotto il supermercato c’è l’ultimo passaggio. Un luogo dove è normale vedere persone alle prese con buste e pacchi anche di grandi dimensioni. Nessuno si meraviglia di una macchina nel cui baule alcuni giovani stanno caricando una cassa. Il mio tragitto è concluso, l’ultimo tratto spetta ai padroni di casa»36.
Caricata la cassa, Moretti prese la guida della Ami con Maccari accanto. I due si avviarono verso la base di via Montalcini 8, interno 1, distante poco meno di due chilometri, dove ad attenderli c’era «Camilla», Anna Laura Braghetti37. Gallinari raggiunse via Montalcini a piedi. Morucci prese la guida del furgoncino Fiat 850 seguito dalla Dyane con Seghetti a bordo. L’allontanamento dai Colli Portuensi avvenne percorrendo largo Morelli e viale dei Colli Portuensi fino all’altezza di via Clelia Garofolini, dove i due mezzi svoltarono a destra traversando la circonvallazione Gianicolense per immettersi in via Luigi Zambardelli, piazza Vincenzo Ceresi, via Pio Foà (dove c’era la tipografia romana delle Br), via Vitellia, piazza di Porta san Pancrazio, via di san Pancrazio e via Giacinto Carini, per poi prendere via delle mura Gianicolensi, via Giuseppe Garibaldi, via Goffredo Mameli, via Emilio Morosini, svoltare a sinistra per via Roma Libera e fermarsi in piazza San Cosimato. Qui in un primo momento venne lasciato l’autofurgone mentre la Dyane fu abbandonata nei pressi. Resisi conto che nella piazza c’era un mercato rionale, il furgoncino Fiat 850 fu spostato. Risalita via Luciano Manara viene nuovamente parcheggiato davanti alla fontana del Prigione38. Dei due mezzi non si avrebbe avuto più alcuna notizia. Prima di separarsi Seghetti e Morucci si diressero verso viale Trastevere per effettuare la telefonata di rivendicazione da una cabina pubblica. Alle ore 10.10 Morucci dettò alla redazione centrale dell’Ansa il seguente messaggio: «Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Democrazia cristiana, Moro, ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate rosse»39.
36 P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, p. 185. 37 A. L. Braghetti, Il prigioniero, cit., p. 1, racconta in questo modo l’arrivo della Ami 8 con Moro nella cassa davanti al civico 8 di via Montalcini: «Passeggiavo avanti e indietro per un breve tratto di marciapiede. Quando l’auto si avvicinò vidi Mario alla guida, Germano seduto accanto a lui. Prospero li seguiva a piedi». 38 Ricostruzione di Bruno Seghetti con gli autori, maggio-settembre 2016. 39 S. Zavoli, La notte della Repubblica, Mondadori, Milano 1992, pp. 273-274.
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6.9 Il recupero delle armi L’azione non si concluse con l’ingresso di Moro nell’appartamento di via Montalcini. Si dovevano recuperare le armi lasciate all’interno della Fiat 127 parcheggiata nelle vie retrostanti il mercato Trionfale. L’episodio è stato già anticipato nel 1998 da Barbara Balzerani in Compagna Luna: «Intanto però, per lei quel 16 marzo doveva ancora finire. C’erano delle armi da recuperare in una zona limitrofa a quella di via Fani. Ma c’era anche un vero e proprio coprifuoco. In giro, solo polizia e altoparlanti che chiamavano allo sciopero generale contro l’”odioso attentato alla democrazia”. Non era ancora ricercata dalla polizia e poteva farlo con minori rischi di altri. Mentre si avviava, andata e ritorno attraverso un provvidenziale mercato, con un carrellino cingolante della spesa e l’aria da massaia più innocua, pensava a quanti stavano brindando e benedicendoli. Era sempre successo, figuriamoci stavolta»40. Rientrato nella base di Borgo Pio, Seghetti trovò Balzerani ad attenderlo. I due si portarono a piedi, muniti del carrello della spesa, verso il mercato Trionfale, distante non più di quindici minuti. Giunti alla macchina recuperarono le borse con le armi, che nascosero nel carrello. Poiché le ruote cigolavano rumorosamente rischiando di attirare l’attenzione, come ricorda Balzerani, acquistarono degli ortaggi per cercare di confondere l’attenzione di eventuali curiosi, rientrando indenni alla base di Borgo Pio41. L’azione era conclusa.
40B. Balzerani, Compagna Luna, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 71-72. 41 Barbara Balzerani e Bruno Seghetti, colloquio con gli autori.
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Capitolo 7 L’attività investigativa
7.1 Le prime testimonianze raccolte in via Fani Alle 9.00 del 16 marzo la Sala operativa della questura diede l’allarme perché in via Fani si erano uditi degli spari. Lo riferisce Marco Di Berardino, responsabile dell’autoradio del Commissariato di Monte Mario che giunse sul posto quando le tre vetture del commando brigatista stavano risalendo via Stresa. L’allarme era scattato mentre l’operazione era ancora in corso1. La volante arrivò in via Fani in pochissimi minuti scendendo per il breve tratto di via Stresa proveniente da via Bitossi, dove stava svolgendo un servizio di tutela sotto l’abitazione di un magistrato da accompagnare in tribunale. Appena giunti sul posto, i poliziotti soccorsero gli uomini della scorta e si accorsero che uno dei passeggeri dell’Alfetta, il vice brigadiere di polizia Francesco Zizzi, era ancora vivo. L’agente Nunzio Sapuppo chiamò l’ambulanza via radio, che giunse intorno alle 9.302. Mentre gran parte dei testimoni prendeva coraggio e iniziava ad avvicinarsi ai corpi riversi all’interno delle vetture colpite, uno di loro si precipitò verso i poliziotti della volante per raccontare di aver visto una moto seguire la Fiat 132 che portava via Moro. Si trattava dell’ingegner Alessandro Marini, un teste che assumerà un ruolo centrale ma, come vedremo più avanti, molto controverso, nella ricostruzione processuale della dinamica dell’assalto brigatista e anche nella successiva pubblicistica3. In quel frangente Marini fu l’unico ad aver notato la pre1 Si veda G. Armeni, Il primo mistero del caso Moro, Tralerighe Libri, Roma 2015, p. 51, dove si riporta che 6 persone chiamarono la polizia ad azione ancora in corso. 2 Questura di Roma, Relazione di Servizio, 16 marzo 1978, in Atti Commissione Moro 1, vol. 29, pp. 10431044. L’ambulanza giunse al Policlinico Gemelli alle ore 9.45. 3 L’eventuale presenza o passaggio di una moto Honda in via Fani al momento del rapimento di Aldo Moro alimenta da decenni una intensa pubblicistica e nel 2012 è tornata d’attualità dopo una campagna ripresa dai media. Un clamore che ha provocato prima l’apertura di una nuova inchiesta, successivamente la sua avocazione e poi la richiesta di archiviazione formulata dal pg Luigi Ciampoli l’11 novembre 2014 (il «Garantista», 1 marzo 2015). Successivamente il gip, Donatella Pavone, accogliendo il ricorso dell’allora procuratore generale di Roma Antonio Marini, decise la riapertura delle indagini. Se il PG Marini si è sempre detto convinto della presenza della motocicletta e che a bordo vi fossero due brigatisti rimasti impuniti, il 3 marzo 2015 l’ex Pm Franco Ionta di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta Moro 2 ha manifestato grandi perplessità sulla circostanza in esame.
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senza di un mezzo a due ruote di colore blu. Tuttavia, non riferì che il passeggero posteriore sparò una raffica di mitra nella sua direzione. Antonio Buttazzo, ex agente di Ps e autista della società Italstat che depose il 17 marzo, nonostante si fosse messo all’inseguimento del convoglio brigatista con Moro a bordo, riuscendo a tenerne il passo lungo via Stresa e via Trionfale fino a piazza Monte Gaudio, dove lo aveva perso, non notò alcuna moto4. Tutti i mezzi impiegati durante l’azione, come si è visto, furono abbandonati dopo un breve tragitto e poi furono rinvenuti nei giorni successivi. Della moto non è mai stata trovata traccia e resta difficile immaginare che due militanti delle Br a cavallo della eventuale motocicletta abbiano attraversato la città su un mezzo segnalato, senza mai effettuare un cambio5. Oltre Marini, delle decine di testimoni che assistettero quella mattina alle diverse fasi del rapimento, solo due raccontarono della presenza di una motocicletta: lo studente in medicina Luca Moschini, che prima dell’inizio della sparatoria notò, passando con la sua Fiat 500 per l’incrocio proveniente da via Stresa, due avieri con il cappotto e il berretto in capo fermi sul marciapiede antistante il bar Olivetti «con accanto una moto giapponese di colore bordò metallizzato, mi sembra che sia una Honda o 125 oppure 350 [dunque non di grossa cilindrata]»6. Non vide armi e non sentì sparare. Successivamente il poliziotto del reparto celere Giovanni Intrevado, che rese testimonianza il 5 aprile 1978, collocò il passaggio della motocicletta ad azione conclusa7, senza mai fare cenno a colpi di arma da fuoco esplosi dal mezzo. Nessuno dei tre vide la stessa scena e Moschini descrisse una moto di diverso colore, mentre Intrevado nella sua Fiat 500 e Marini sul ciclomotore, che pure erano fermi allo stop, non si accorsero uno dell’altro. Il comandante della volante raccolse altre notizie ascoltando la ventina di persone che si trovavano nei pressi delle auto. Alla fine nella sua relazione scrisse che quattro malviventi vestiti da avieri avevano fatto fuoco sull’auto di Moro e su quella di scorta sequestrando il presidente democristiano e scappando su una 128 blu targata Roma M 53995. Inoltre, sul posto era stata notata una moto Honda blu, che poi si era «dilegua[ta] per via Stresa in direzione di piazza Monte Gaudio»8. 4 Commissione Moro 1, vol. 30, pp. 34-39. Questura di Roma, DIGOS, Sequestro in persona dell’on.le Aldo Moro e omicidio dei cinque militari di scorta. Alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, Roma 17 marzo 1978, f.to il vice questore aggiunto Spinella. 5 Nessuno dei partecipanti all’azione di via Fani ha mai parlato di una moto come di un mezzo dell’organizzazione. 6 Testimonianza di Luca Moschini in Gianremo Armeni, op.cit., p. 74. 7 Procura della repubblica di Roma, verbale di istruzione sommaria davanti al pm Luciano Infelisi, 5 aprile 1978, in ASSR, Atti della Commissione Stragi – «Filone caso Moro», XI-XIII, sottoserie n. 7, UA9D3. 8 Questura di Roma. Commissariato di Monte Mario. Relazione di Servizio, Al sig. Dirigente dell’Ufficio di PS, sede, Roma 16 marzo 1978, f.to Marco Di Berardino, Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla strage di via Fani e sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, Allegato alla relazione. Documenti, Atti giudiziari. Processo Moro, Volume 30, Roma 1988, p. 40.
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Queste prime informazioni furono inviate alla centrale operativa che diramò a tutte le volanti l’avviso di ricerca. Gianremo Armeni ha ricostruito nel dettaglio la catena informativa percorsa dalla notizia che indicava la presenza di una moto Honda. Il brogliaccio della centrale operativa e il successivo rapporto dei due agenti, che riprendeva le parole di Marini9, finì in una relazione di sintesi che il questore De Francesco inviò in quelle prime ore alle massime autorità dello Stato. Nel testo si citava il passaggio di una moto con due brigatisti a bordo senza riferirne la fonte10. Da quel momento il mezzo sarà sempre attribuito all’organizzazione in ogni sede processuale11. Il 17 marzo la Digos redasse una relazione per la Procura della Repubblica, e anche in questo caso si confermò che l’allarme era scattato «verso le 9.00 della mattina», ad azione non ancora conclusa, e che le volanti della zona intervennero immediatamente. Secondo la testimonianza di Renato Di Leva, uno dei due agenti di polizia fuori servizio che si trovarono nei pressi di via Fani (l’altro è il già citato Giovanni Intrevado), egli giunse sul luogo del rapimento accodandosi alla prima volante, quella di Di Bernardino, mentre «una Fiat 128 di colore blu ministeriale, con a bordo 3 o 4 persone vestite con la uniforme, mi sembra dell’Aeronautica Militare […] a forte velocità […] ha imboccato via Stresa procedendo nel prosieguo di questa verso l’alto»12. Sul posto intervennero auto dei Carabinieri e della Digos e furono avviate subito le indagini sotto la direzione del Sostituto procuratore di Roma, Luciano Infelisi. Si alzarono in volo gli elicotteri e la zona venne isolata da posti di blocco13. 7.2 Il posizionamento dei brigatisti davanti al bar Olivetti I numerosi testimoni ascoltati riferirono di aver incrociato gli elementi del nucleo brigatista mentre si dirigevano a piedi verso l’incrocio tra via Stresa e via Fani nei minuti che precedettero la sparatoria. Carmelo Destito li aveva visti avvicinarsi intorno alle 8.50 da via Sangemini. Giunti in via Fani, si erano appostati di fronte al Bar Olivetti, disponendosi a coppie, posizione nella quale erano stati notati intorno alle 9.00 da Feliciano Serrao dalla sua abitazione. Egli seppe indicare anche il particolare 9 Dalla relazione di servizio dell’agente Di Berardino: «Ho appreso che sul posto era stata notata una moto Honda blu […]. Tali notizie, che ho appreso dal teste Marini Alessandro […], le ho riferite via radio alla sala operativa». Commissione Moro 1, vol. 30, p. 40. 10 Gianremo Armeni, Questi fantasmi, cit., pp. 86-87. 11 Nel 2002 uno dei consulenti della commissione Stragi, Silvio Bonfigli, trovò la relazione del questore e la pubblicò in un libro scritto insieme a Jacopo Sce, Il delitto infinito. Ultime notizie sul sequestro Moro, Kaos edizioni, Roma 2002, p. 61. Come sottolinea Gianremo Armeni, «quello che per i due autori sarebbe il documento in grado di avvalorare la circostanza, in realtà è soltanto l’ultimo anello di una catena informativa e non la fonte originaria o integrativa della notizia»; G. Armeni, op. cit., p. 86. 12 Commissione Moro 1, cit., vol. 30, Questura di Roma, Relazione di Servizio, Al sig. Dirigente la Digos, Sede, Al comando servizi tecnici sezione motociclisti, Roma 16 marzo 1978. 13 Il Di Leva è stato audito dalla Commissione di inchiesta Moro 2 il 21 aprile 2016.
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che uno dei quattro aveva i capelli rossi. Si trattava con ogni probabilità di Bonisoli, il giovanissimo brigatista detto «Rossino» per il colore dei capelli, riconosciuto con certezza, sempre intorno alle 8.50, da una testimone, Erminia Basilischi, rimasta anonima in quei giorni, che pochi minuti prima della sparatoria gli aveva chiesto notizie su una linea aerea poiché l’aveva visto in uniforme da pilota civile14. Il Bar Olivetti, dove peraltro erano presenti delle fioriere prospicienti il marciapiede, era un esercizio commerciale fermo da tempo (come vedremo meglio più avanti), individuato anche per questo come un luogo ideale per attendere il convoglio che trasportava Moro senza suscitare sospetti e da qui sferrare l’attacco inaspettato. Tra le 8.50 e le 9.00 i brigatisti vennero avvistati da Maria Luisa Alliney, Annalia Valentini, Carmela Bosco, Anna Giacovazzo, Umberto Ponzani e Lorenzo Vecchione, mentre si portavano verso l’incrocio provenendo da via Stresa o sostavano sul marciapiede antistante il bar. Edoardo Alberucci, poco prima delle 9.00, notò addirittura la 128 chiara con due giovani all’interno, quella che presumibilmente svolse la funzione di «cancelletto superiore», parcheggiata sul lato destro di via Fani, all’altezza di via Madesimo. La maggioranza dei testimoni è concorde nell’indicare due cose: che i giovani fermi di fronte al bar Olivetti erano persone che si facevano notare con il loro atteggiamento e vestiario, per cui se ne deduce che fosse la prima volta che provavano l’agguato, come detto ripetutamente anche dai brigatisti nel corso degli anni, e che erano giunti alla spicciolata pochi minuti prima. Molti si sono chiesti come mai i brigatisti fossero così certi che Moro sarebbe passato di lì quel giorno. La risposta ce la offrono ancora una volta i primi testimoni, come Paolo Pistolesi: «Verso le 9, come tutte le mattine [sottolineatura dell’autore], ho visto transitare per via Fani in direzione della Camilluccia, ad elevata velocità, la vettura dell’on.le Moro seguita da quella della scorta. Li ho riconosciuti, perché, come ho detto, li vedo tutte le mattine»15.
7.3 La sparatoria Moltissimi testimoni hanno assistito alla sparatoria o udito i colpi16. Anche se da po14 Legione Carabinieri di Roma, Nucleo Investigativo, 6292/32, Roma 23 marzo 1978, verbale di conversazione avuta con il parroco della chiesa di San Francesco di Monte Mario, Quirino Di Santo, in Commissione Moro 1, vol. 30, p. 270. All’inizio il sacerdote non rivelò il nome della fedele. Il 18 ottobre 1979, ascoltati congiuntamente davanti al giudice istruttore Ferdinando Imposimato, confermarono quanto riferito dal prelato in precedenza. 15 Testimonianza di Paolo Pistolesi, cit. Altre testimonianze simili, tra cui quella dell’agente della scorta Rocco Gentiluomo, non in servizio la mattina del 16 marzo, sono riportate in Gianremo Armeni, op. cit., pp. 58-60. 16 Si tratta di Antonio Caliò Marincola, Giovanna Conti, Pietro Lalli, Chiara Lattari, Giorgio Pellegrini, Mariangela Ravenni, Giuseppe Samperi, Sergio Vincenzi, in Gianremo Armeni, op. cit., pp. 158-170.
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sizioni diverse, in strada o dalle finestre dei palazzi prospicenti l’incrocio, tutti hanno riportato una descrizione convergente dell’attacco che coincide con le ricostruzioni fatte dai brigatisti: i colpi singoli iniziali, poi le raffiche esplose dai quattro uomini in uniforme da pilota, la rottura col calcio del mitra del vetro anteriore sinistro della 130, Moro che viene estratto dalla sua automobile e fatto salire sulla 132 blu giunta in retromarcia, lo stridore delle gomme delle due 128 che si allontanano. Nessuno di questi, tranne Marini e più tardi Intrevado, menziona il passaggio di una moto. Significativa la testimonianza della signora Eufemia Evadini che esclude sparatori collocati sul marciapiede destro17. Durante l’agguato si trovò a non più di dieci metri di distanza. Ascoltata il 19 marzo, affermò che «sul marciapiede destro della strada non c’era nessuno. Il mio sguardo si è allora concentrato sul lato sinistro della strada, ove, dall’altra parte delle macchine, ho notato un gruppo di uomini, che al momento mi sono parsi non meno di 7 o 8, che mi sono parsi in divisa da poliziotti che impugnavano delle armi, dei “fucili corti” che sparavano contro le macchine ferme, dal lato sinistro».
Trovato riparo, sentì il figlio del giornalaio urlare «portano via Moro»: «Finiti gli spari, mi sono riaffacciata e ho visto che, effettivamente, l’onorevole Moro veniva trascinato via dalla macchina da due o tre persone, due che lo tenevano ai lati e, forse, uno che lo spingeva da dietro. Comunque, quelli che lo trascinavano via erano in divisa. Lo hanno spinto verso un’autovettura, che non ricordo bene dove si trovasse, se a fianco delle auto ferme o poco più avanti; comunque era una macchina bianca, che […] è partita, ad elevata velocità dirigendosi in via Stresa in direzione della Trionfale».
La signora Eufemia non vide passare una moto né, cosa più importante, sentì sparare dopo che Moro era stato introdotto a forza nella macchina dei brigatisti18. Studiando le testimonianze di quella mattina, Armeni ha svolto un accurato lavoro, soffermandosi anche sulla memoria acustica dei testimoni e facendo riemergere la traccia coerente del «fragore degli spari» e del momento preciso in cui essi terminarono19. 17 Come detto, la presenza di un quinto sparatore, un «superkiller esperto di tiro incrociato», posizionato sul marciapiede destro di via Fani dietro un’Austin Morris parcheggiata su quel lato che sarebbe venuto a dare man forte ai brigatisti, è stata ripetutamente riproposta dalla pubblicistica e da diversi membri delle Commissioni parlamentari di inchiesta. L’ipotesi, presa in considerazione anche durante i lavori della Commissione Moro 2, è stata però smentita dalla relazione del Servizio centrale antiterrorismo della Direzione centrale di prevenzione nr. 224/SCA Div. 1/Sez. 3/9175/15, Audizione della dott.ssa Laura Tintisona et altri del 10 giugno 2015, con allegata la Relazione della polizia scientifica «Ricostruzione della dinamica della strage di via Mario Fani del 16 marzo 1978». 18 Commissione Moro 1, Questura di Roma, DIGOS, testimonianza di Evadini Eufemia, vol. 42, p. 591. 19 Gianremo Armeni, op. cit., pp. 149-172.
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In sintesi ne viene fuori che quasi tutti udirono all’improvviso tre o quattro colpi distinti, quindi una raffica, un vetro infranto e poi altre raffiche. Cessati gli spari, tutti i testimoni si sono affacciati alle finestre se in casa, alzati da terra se accucciati, sollevato la testa se in piedi in qualche cantone, e hanno visto partire le macchine dei brigatisti. Il tutto non è durato più di novanta secondi. A questo punto giunsero la volante di Di Bernardino e l’agente fuori servizio Renato Di Leva, che si precipitò verso i colleghi appena colpiti e soccorse Zizzi in mezzo a un discreto numero di persone che via via vennero allontanate. In quel medesimo istante Bruno Barbaro, che era rimasto nascosto per alcuni minuti, coprì il volto di Iozzino con un giornale rinvenuto nell’Alfetta di scorta e vide arrivare un’auto civetta che inchiodò nella parte alta di via Fani. Ne scese un uomo in borghese con una paletta che intimò a Barbaro di lasciare la scena del crimine20. Giunse l’ambulanza (siamo quindi alle 9.30) che caricò Zizzi e si diresse al policlinico Gemelli, dove venne portato anche il Di Leva da una volante. 7.4 Il «super teste» Marini, il parabrezza senza buchi e la moto fantasma Nella sua prima deposizione, raccolta il 16 marzo alle ore 10.15 nei locali della Digos, Alessandro Marini raccontò di aver assistito alla scena dell’assalto brigatista dallo stop situato nella parte bassa di via Fani all’incrocio con via Stresa, dove si era fermato con il suo motorino Boxer alle 9.00 precise. Come riferito da molti altri testimoni, anch’egli descrisse l’attacco di quattro uomini, precisò con dovizia di particolari la divisa bicolore che indossavano, giacca blu e pantaloni grigi, ricordò che dopo la rottura del finestrino di un’auto da parte di uno degli assalitori iniziò una furiosa sparatoria, che durò non più di 30 secondi. Caricato un uomo di una certa età su una macchina scura sopraggiunta nel frattempo – proseguì sempre Marini – il commando prese la fuga «seguit[o] da una Honda di grossa cilindrata di colore blu, a bordo della quale c’erano due individui, dei quali quello seduto sul sedile posteriore, col passamontagna scuro ha esploso vari colpi di mitra nella mia direzione, praticamente ad altezza d’uomo, perdendo proprio nell’incrocio un caricatore che è finito per terra»21.
Il 5 aprile, 20 giorni dopo, aggiornò le sue dichiarazioni con una nuova circostanza: «[…] quello dietro che teneva un mitra di piccole dimensioni nella mano sinistra, […] sparò 20 Commissione di inchiesta Moro 2, Audizione della dott.ssa Laura Tintisona, et altri, p. 9. 21 Commissione Moro 1, vol. 30, pp. 45-46, anche in ASSR, Commissione Stragi – «Filone caso Moro», XIXIII, sottoserie n. 7, UA9D2. L’unico caricatore ritrovato in via Fani accanto al berretto da aviere è quello del mitra impugnato da Raffaele Fiore che si inceppò per due volte, anche dopo il cambio di caricatore, come attestano le perizie balistiche e conferma lo stesso Fiore, L’ultimo brigatista, cit., p. 121.
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nella mia direzione, tanto che un proiettile colpì il parabrezza del mio motorino; il mitra si inceppò, cadde un caricatore […]»22.
Questa rivelazione tardiva spiega anche perché la polizia scientifica, che operava la mattina del 16 marzo in via Fani, non effettuò il sequestro sul posto del parabrezza per potervi espletare le necessarie perizie. Esami che, come vedremo tra poco, non vennero mai realizzati. Il ciclomotore rimase incustodito in via Fani sul marciapiede antistante il bar Olivetti23 fino al momento del suo recupero da parte dello stesso Marini. Nel corso delle sue 12 deposizioni, 11 in sede giudiziaria e l’ultima di fronte ai consulenti della Commissione Moro 2, il «supertestimone» non sempre ha mantenuto la stessa versione cambiando anche il colore della moto da blu a «verde scuro»24, invertendo più volte la posizione dei motociclisti, uno con il passamontagna e l’altro senza, a cavallo della Honda25 e alla fine mettendo in dubbio che qualcuno gli avesse sparato26. Un brigatista con passamontagna, che sappiamo era presente in via Fani, fu visto anche da Paolo Pistolesi, figlio del gestore dell’edicola di via Fani. Secondo questi, l’uomo armato travisato con un passamontagna 22 Commissione Moro 1, vol. 41, p. 402. 23 Oltre alle foto riprese dalla polizia scientifica, numerose immagini raffiguranti via Fani la mattina del 16 marzo 1978, nelle quali è possibile riconoscere il ciclomotore di Alessandro Marini parcheggiato sul marciapiede, dietro l’Alfa Sud beige della Digos, accanto al muretto che separa il bar Olivetti dalla strada, sono reperibili sul web. Si veda in particolare https://insorgenze.net/2015/04/25/ecco-la-prova-che-nessunosparo-al-motorino-di-marini-in-via-fani/. 24 Dichiarazione resa il 29 gennaio 1979 davanti al giudice istruttore Achille Gallucci: «Ripeto che fu colpito il parabrezza della mia motocicletta da uno degli uomini del commando e, precisamente, da quello che era seduto dietro di una motocicletta verde scuro». Commissione Moro 1, vol. 42, p. 98. 25 Gianremo Armeni ricostruisce in dettaglio l’altalena delle dichiarazioni di Marini. Il supertestimone nella prima deposizione riferisce che a condurre la moto Honda c’era un uomo a viso scoperto, con le guance molto scavate, aspetto che ricordava l’attore Eduardo De Filippo; nel sedile posteriore prendeva posto invece un uomo con il viso travisato da un passamontagna con un mitra nella mano sinistra da cui fece partire una raffica nella sua direzione. Successivamente Marini alterna la posizione dei due alla guida della moto. Non si capisce più a questo punto chi avrebbe sparato e come: se l’uomo col passamontagna conduceva l’Honda come poteva tenere in mano anche un mitra? Le contraddizioni presenti nella ricostruzione di Marini non terminano qui: il passeggero posteriore con il passamontagna avrebbe impiegato il braccio sinistro per esplodere i colpi di mitra diretti contro di lui. Marini però, stando a quanto dichiara, si sarebbe dovuto trovare sul lato basso di via Fani, quindi a destra della moto al momento del suo passaggio. Una posizione incompatibile con l’impiego del braccio sinistro da parte dello sparatore che avrebbe dovuto compiere una torsione improbabile per riuscire a dare una direzione perpendicolare alla raffica, G. Armeni, op. cit. p. 115. 26 Ivi, pp. 179-183. Sentito nel corso del Processo Moro 1, udienza del 6 luglio 1982, alla domanda del Presidente Santiapichi: «A lei chi sparò? Quelli della Honda?», il teste Marini rispose: «Posso ipotizzare che venisse da una direzione piuttosto che da un’altra, da un’arma piuttosto che da un’altra. Mi sono trovato lì». Commissione Moro 1, vol. 42, p. 48. Nella deposizione del 17 maggio 1994, davanti al pubblico ministero Antonio Marini (suo omonimo), ammise anche di non essere «più sicuro che uno dei due individui a bordo della moto Honda avesse un passamontagna così come ho dichiarato alla Digos al momento del fatto», ASSR, Commissione Stragi – «Filone caso Moro», XI-XIII, sottoserie n. 7, UA9D1.
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«nero con una striscia rossa al centro […] del tipo da motociclista […] si è rivolto verso di me e, impugnando sempre il mitra, ha fatto cenno di allontanarmi, quindi ha abbassato il mitra nella mia direzione. A quel punto io mi sono buttato dietro una macchina e ho sentito, senza vedere, una raffica»27.
Pistolesi, però, non vide o non sentì passare alcuna moto, pur essendosi rialzato mentre le macchine dei brigatisti stavano lasciando via Fani. Neanche Marincola Caliò, che da casa sua ebbe modo di osservare tutta la scena dall’inizio della sparatoria al prelevamento di Moro e alla fuga, ricorda una moto28. Anche Giuseppe Samperi, gestore del distributore di via Fani, ebbe un incontro ravvicinato con i brigatisti: «Appena avvicinatomi a detta autovettura due persone di cui una donna e un uomo hanno gridato al mio indirizzo: «Se ne vada via, se ne vada via» […]. Ho cercato di temporeggiare prima di andar via ma le stesse persone di cui sopra mi hanno ancora ribadito ad alta voce di andar via»29. Nessuno ha sparato verso di lui, né il Samperi menzionò una moto, che non è stata vista dai molti altri testimoni sentiti nella immediatezza degli eventi. Il 26 settembre 1978, interrogato nuovamente dal giudice istruttore Ferdinando Imposimato, Marini tornò sull’episodio affermando che i colpi esplosi dalla moto avevano rotto la parte superiore del parabrezza. Dichiarò inoltre di conservare a casa «i frammenti del parabrezza che mantengo a disposizione della giustizia»30. Nel corso della deposizione aggiunse anche una nuova mappa dell’agguato che raddoppiava i membri del commando ma non indicava la presenza del «cancelletto inferiore». Mancava la donna armata che pure altri testimoni avevano chiaramente indicato31. In sede processuale ribadì di non aver mai visto la bierre che presidiava l’incrocio tra via Fani e via Stresa32. Nemmeno la Balzerani, da parte sua, ricorda di aver visto un ciclomotore fermo di fronte a sé quella mattina, mentre ha perfettamente memoria della 500 di Intrevado33. Il giorno dopo, 27 settembre 1978, la Digos prese in consegna il reperto, due 27 Commissione Moro 1, vol. 30, p. 48, Questura di Roma, DIGOS, Deposizione di Paolo Pistolesi, Roma 16 marzo 1978. Armeni non riporta il fatto che Pistolesi abbia sentito una raffica, come deposto il 16 marzo, dopo essersi chinato, cfr. Questi fantasmi, cit., pp. 166-167. Effettivamente, nelle dichiarazioni successive, per esempio quella di fronte al giudice istruttore Maria Luisa Carnevale del 18 maggio 1978, che sono quelle che riporta Armeni, Pistolesi non dice più di aver udito una raffica dopo essersi nascosto. 28 Testimonianza di Marincola Caliò, Roma 16 marzo 1978, ivi, p. 50. 29 Testimonianza di Giuseppe Samperi, Roma 16 marzo 1978, ivi, p. 54. 30 Commissione Moro 1, vol. 42, p. 98 e ASSR, Commissione Stragi – «Filone caso Moro», XI-XIII, sottoserie n. 7, UA9D4. 31 Dichiarazione dei testi Antonio Caliò Mariconda, Giovanna Conti, Giovanni Intrevado, Pietro Lalli, Giuseppe Samperi, Commissione Moro 1, vol. 41, pp. 414, 421 e 485; vol. 30, pp. 23 e 52, riportate in Gianremo Armeni, op. cit., pp. 173-175. 32 Ivi, pp. 176-178. 33 Barbara Balzerani, colloquio con gli autori.
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frammenti del vecchio parabrezza che Marini sostenne di aver conservato (gettando gli altri) dopo averlo sostituito34. Il 29 settembre, senza che fosse mai stato periziato, venne spedito dal giudice istruttore Imposimato presso l’ufficio corpi di reato per restarvi fino alla sua distruzione, il 9 ottobre 1997. Soltanto il 31 marzo 1994 e il successivo 17 maggio, la magistratura si accorse della sua esistenza. Il reperto fu prelevato per non più di 24 ore quando il pm Antonio Marini lo sottopose, nel corso di un interrogatorio, in visione al suo ex proprietario35. Questi, riconoscendolo, ribaltò completamente la precedente versione dei fatti rivelando che non furono i colpi esplosi dalla Honda a danneggiarlo, ma una caduta del ciclomotore dal cavalletto nei giorni precedenti il 16 marzo: «Riconosco nei due pezzi di parabrezza che mi vengono mostrati, di cui al reperto nr. 95191, il parabrezza che era montato sul mio motorino il giorno 16 marzo 1978. Ricordo in modo particolare lo scotch che io stesso ho apposto al parabrezza che nei giorni precedenti era caduto dal cavalletto incrinandosi. Prima di sostituirlo ho messo momentaneamente questo scotch per tenerlo unito. Ricordo che quel giorno, in via Fani, il parabrezza si è infranto cadendo a terra proprio dividendosi in questi due pezzi che ho successivamente consegnato alla polizia»36.
Non ha riscontro, dunque, la relazione del senatore Luigi Granelli, membro della Commissione stragi, che il 23 febbraio 1994 scrisse di una perizia che avrebbe «stabilito una ulteriore circostanza […] il parabrezza del motorino di Alessandro Marini […] è risultato effettivamente infranto da un proiettile»37. Anche in questo caso, come nel già citato riferimento alla Honda presente nella relazione del questore De Francesco, un’asserzione priva di riscontro divenne nella pubblicistica successiva un dato condiviso, nonostante non sia mai stata svolta alcuna perizia specifica sul parabrezza e le perizie balistiche realizzate [infra] non abbiamo mai riferito di colpi esplosi in di34 «Pur avendo dato notizia nella mia testimonianza del fatto, solamente oggi mi viene richiesto detto parabrezza, pertanto avendolo sostituito, consegno i rimanenti pezzi», Commissione Moro 1, vol. 33, p. 806. 35 Gianremo Armeni, op. cit., pp. 132-138 ricostruisce dettagliatamente il percorso del parabrezza, l’acquisizione da parte dell’ufficio corpi di reato del 30 settembre 1978, la sua permanenza, l’uscita e il rientro su richiesta del pm Antonio Marini che interrogò il teste Alessandro Marini (31 marzo 1994-1 aprile 1994; 17 maggio 1994 –18 maggio 1994), e la distruzione finale. 36 ASSR, Commissione Stragi – «Caso Moro», XI-XIII, sottoserie n. 7, UA9D1. In realtà, come mostrano le immagini del ciclomotore parcheggiato in via Fani, il parabrezza non si era affatto infranto quella mattina ma era ancora montato sul mezzo con un vistoso nastro adesivo che lo sosteneva. Dopo la pubblicazione di una inchiesta di P. Persichetti apparsa sul «Garantista» del 12 marzo 2015 e ripresa dal blog Insorgenze.net, le immagini del ciclomotore di Alessandro Marini sono state acquisite dalla Commissione Moro 2 che nella sua relazione sul primo anno di attività svolta, [p. 103], ha riconosciuto «che il parabrezza di Marini non è stato attinto da colpi d’arma da fuoco come finora si è creduto». Sulla vicenda del parabrezza è interessante anche il lavoro di Nicola Lofoco, Cronaca di un delitto politico, Les Flaneurs, 2016, pp. 69-71. 37 ASSR, Commissione Stragi, «Caso Moro», relazione L. Granelli, Sviluppi del caso Moro, XI legislatura, vol. XXIII, 23 febbraio 1994, p. 33.
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rezione dello stop situato nella parte bassa di via Fani o del ritrovamento di bossoli e proiettili in quel tratto di strada38. Nel corso della sua attività, la Commissione Moro 2 ha ritenuto di dover riascoltare Alessandro Marini al quale «sono state mostrate alcune immagini estrapolate da un video dell’epoca, che raffigurano un motociclo verde, modello boxer, con il parabrezza tenuto con dello scotch posto trasversalmente, con una guaina copri gambe di colore grigio, parcheggiato in via Fani, sul marciapiedi, all’altezza del bar Olivetti, accanto a un’Alfasud e a una volante».
Marini «ha riconosciuto senza esitare il proprio motoveicolo e ha affermato che sicuramente lo scotch era stato applicato da lui prima del 16 marzo 1978, come aveva già affermato in occasione di dichiarazioni rese il 17 maggio 1994 dinanzi al pubblico ministero Antonio Marini».
Quindi ha corretto le precedenti dichiarazioni, nella quali aveva affermato che il parabrezza era andato in frantumi dopo i colpi di mitra, con una nuova versione: il 16 marzo, nel riprendere il motociclo a fine mattinata, si sarebbe accorto che mancava il pezzo superiore: «Per il fatto che quel giorno l’ho trovato senza un pezzo di parabrezza, io ho ritenuto che fosse stato colpito dalla raffica esplosa nella mia direzione dalla moto che seguiva l’auto dove era stato caricato l’onorevole Moro. Non ho ricordo della frantumazione del parabrezza durante la raffica; evidentemente quando poi ho ripreso il motorino e poiché mancava un pezzo di parabrezza ho collegato tale circostanza al ricordo della raffica. Tali considerazioni le faccio solo ora e non le ho fatte in passato perché non avevo mai avuto modo di vedere le immagini fotografiche mostratemi oggi, da cui si nota che il parabrezza appare nella sua completezza, seppur con lo scotch»39.
Nonostante la corte d’appello del primo processo Moro avesse qualificato la testimonianza di Alessandro Marini di «ricostruzione «a posteriori» del fatto»40, resta a tutt’oggi in piedi la condanna per tentato omicidio ai suoi danni emessa alla fine del processo «Moro 1»41 nei confronti dei brigatisti, identificati nel corso della prima e seconda inchiesta su via Fani, accusati di aver partecipato al sequestro del presidente della Dc. 38 Si rinvia alla disamina svolta nel volume di Gianremo Armeni, op. cit., pp. 143-146. 39 Senato della Repubblica, Camera dei Deputati. Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, Proposta di relazione sull’attività svolta, Relatore il presidente on. Fioroni, seduta del 10 dicembre 2015, pp. 153-154., pp. 127-128. 40 Corte di assise di appello di Roma, presidente Giuseppe De Nictolis, sentenza del 14 marzo 1985, r.g. 20/84, parte terza, p. 61. 41 Corte d’assise di Roma, presidente Severino Santiapichi, sentenza del 24 gennaio 1983, r.g. 31/81, p. 24:
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7.5 Via Licinio Calvo Nelle ore successive l’agguato, gli inquirenti disposero un controllo di tutte le auto in sosta in via Fani e nelle strade adiacenti42. Nel corso dell’operazione in via Stresa all’altezza dello stabile al civico 137 venne rinvenuta una A 112 targata Roma P 55430, con le portiere chiuse ma non a chiave. La targa risultò falsa e assegnata in realtà a un furgone Fiat 850 T, all’epoca ancora in possesso del proprietario e identificato il giorno stesso. Attraverso il numero di telaio dell’Autobianchi si risalì alla targa originale della macchina, rubata a Giovanni Cusumano, che ne aveva denunciato il furto il 14 ottobre 1976. L’auto venne sequestrata ed esaminata dalla scientifica che non trovò impronte digitali o altri elementi utili43. Fu trasportata presso il Nucleo investigativo della Legione Carabinieri di Roma, ma non venne ricollegata immediatamente con l’azione di via Fani. Come si è poi scoperto, si trattava dell’auto usata da Morucci per avvicinarsi al luogo dell’agguato la mattina del 16 assieme a Franco Bonisoli e che doveva svolgere, come accennato, la funzione di vettura di riserva nel caso fosse sorto un problema con uno degli altri mezzi impiegati nell’azione. Il ritrovamento in tempi diversi delle auto usate dai brigatisti per la fuga in via Licinio Calvo, avvenuti tra il 16 e il 19 marzo, renderebbe verosimile, secondo la Commissione Moro 2, «che esse – contrariamente a quanto afferma il «memoriale» [di Morucci] – siano state abbandonate in via Licinio Calvo una alla volta»44. Come si legge nella relazione sul primo anno di attività: «via Licinio Calvo assume un significato fondamentale per la ricostruzione della fase del sequestro immediatamente successiva all’agguato di via Fani. Già la prima Commissione Moro, nel ricostruire le modalità dell’allontanamento degli attentatori dalla scena del crimine, aveva ritenuto «presumibile che essi abbiano […] utilizzato qualche base di appoggio nelle vicinanze di via Licinio Calvo per trasbordare il prigioniero, abbandonando le auto dell’agguato. L’approfondimento di tale ipotesi conserva indubbio interesse, costituendo un focus in grado di contribuire, in misura rilevante, alla compiuta ricostruzione della vicenda: tenuto conto della stratificazione delle opinioni e delle molteplici congetture sarà effettuato ancorando l’analisi a fatti e circostanze oggettivi, alle testuali dichiarazioni provenienti da fonti dirette, assunte nei processi e nel corso delle indagini, nonché nelle audizioni delle Commissioni parlamentari che hanno affrontato la materia»45. «per avere in concorso tra loro e con altre persone da identificare compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di Marini Alessandro, esplodendogli contro più colpi di arma da fuoco che attingevano il parabrezza del motoveicolo da lui condotto». 42 Legione Carabinieri di Roma, Nucleo investigativo, 6292/14 P, Roma, 20 marzo 1978, in Commissione Moro 1, vol. 30, p. 184. 43 Ibid. 44 Commissione Moro 2, Proposta di relazione, cit., p. 168. 45 Ivi, p. 162. Questa tesi è stata ribadita dalla Commissione anche nella Relazione relativa al secondo anno
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Il richiamo alla prima Commissione Moro è inesatto. Nel passo indicato si dice proprio il contrario, e cioè che sussistono probabilità di esistenza di una qualche base di appoggio per il trasbordo del prigioniero, ma allo stesso tempo che le auto usate per la fuga furono «abbandonate» e non tenute nella base stessa in attesa non si sa bene di quale evento per farle ritrovare a singhiozzo46. Come si legge nei rapporti di polizia, «poco dopo il compimento dell’episodio criminoso, in via Licinio Calvo è stata rinvenuta una delle auto usate dai terroristi, cioè la Fiat 132 blu targata Roma P 79560, che è stata sequestrata unitamente al materiale in essa contenuto, fra cui una tronchese». Alle ore 4.15 della notte successiva nella stessa via venne ritrovata la Fiat 128 bianca targata Roma M 53955, usata per lasciare via Fani47. La terza macchina, sempre una Fiat 128 di colore blu targata Roma L 55850, venne rinvenuta sempre nello stesso luogo il 19 marzo alle ore 21.00 dal personale del Commissariato di Ps di Monte Mario, all’altezza del civico 2748. Non fu un caso se la 132 venne ritrovata per prima. Si trattava dell’auto sulla quale era stato caricato Moro, segnalata da tutti i testimoni sentiti pochissimi minuti dopo l’agguato e che Fiore aveva abbandonato sul lato della via senza particolare cura. Il mezzo, inoltre, non venne rinvenuto «in un momento anteriore o prossimo alle 9.30», come riportato nella relazione della Commissione Moro 249, ma alle 10.00, come indicato nel verbale di ritrovamento: «L’anno millenovecentosettantotto, addì 16 del mese di marzo, alle ore – 10.00, in Via Licinio Calvo, in Roma. Noi sottoscritti Ufficiali di P.G – dott. Mario FABBRI, Commissario Capo di P.S., FARANDA Vittorio, Brg. di P.S., appartenenti alla DIGOS diamo atto di esserci portati nelle circostanze su indicate, in Via Licinio Calvo ove, parcheggiata sul lato destro dalla strada anzidetta, in direzione di via Festo Avenio ed a pochi metri dall’incrocio con la strada anzidetta, abbiamo rinvenuto l’autovettura Fiat 132 targata Roma P 79 560»50.
Secondo un altro documento dei Carabinieri, si deve spostare il ritrovamento indiedi attività, Commissione Moro 2, Relazione sull’attività della Commissione approvata nella seduta del 20 dicembre 2016, relatore Giuseppe Fioroni, presidente, Roma 2016, pp. 66-71. La relazione del secondo anno, a differenza della prima, non è stata approvata all’unanimità. Si è astenuto, infatti, il deputato Fabio Lavagno. 46 Non una parola, invece, viene detta sull’A112 di Morucci. 47 Questura di Roma, DIGOS, 050714/DIGOS, Sequestro in persona dell’on.le Aldo Moro e omicidio dei cinque militari di scorta, All. n. 55, ff. 5-6 in Commissione Moro 1, vol. 30, pp. 38-39. Alle 19.03 del 16 marzo un lancio Ansa rendeva noto che «una delle auto presumibilmente usate dal commando, una 128 bianca, è stata ritrovata vicino a Forte Braschi», circostanza che spiega la particolare confusione e il ritardo nel ritrovamento della vera 128 bianca impiegata dalle Br nell’operazione. 48 Questura di Roma, DIGOS, 050714/DIGOS, Sequestro in persona dell’on.le Aldo Moro e omicidio dei cinque militari di scorta, All. n. 12, Roma 21 marzo 1978, f. 1, in Commissione Moro 1, vol. 30, p. 205. 49 Commissione Moro 2, Proposta di relazione, cit., p. 170. 50 Questura di Roma, DIGOS, Rapporto, 16 marzo 1978, f.to Fabbri e Faranda, in Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla strage di via Fani, VIII Legislatura, vol. 30, p. 106.
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tro di 13 minuti, ossia alle 9.4751. Cadono, comunque, le ipotesi fornite dalla Commissione Moro 2, basate sul ritrovamento dell’auto alle ore 9.23, come indicato nella relazione, che sui minuti in più o in meno costruisce o smonta molte ipotesi52. Visionando i filmati di repertorio nei quali sono presenti inquadrature effettuate in occasione dei rinvenimenti delle autovetture lasciate dai brigatisti in via Licinio Calvo, il Servizio centrale antiterrorismo, incaricato dalla Commissione Moro 2 di acquisire «ogni documentazione riferibile a possibili siti di ricovero, o nella disponibilità delle Br in luoghi limitrofi a via Licino Calvo, via Balduina e via Massimi», ha focalizzato la sua attenzione su un servizio del Tg1 del 20 marzo 1978 nel quale il giornalista commentava alcune sequenze del video che mostravano via Licinio Calvo in occasione dei primi rinvenimenti affermando come «non si notasse la terza autovettura», ovvero la 128, ritrovata all’1.30 del 20 marzo. «Al fine di trovare riscontro a tale ipotesi – scrivono gli esperti del Sca – l’8 settembre scorso personale di questo Servizio antiterrorismo ha effettuato un sopralluogo in via Licinio Calvo individuando sia il luogo in cui era parcheggiata l’auto Fiat 128 blu targata Roma L55850, sia la posizione dell’operatore Rai autore delle riprese del succitato servizio. Le attività compiute hanno consentito di evidenziare che dal punto di osservazione dell’operatore Rai, posizionato in corrispondenza del civico 56, non è visibile il luogo ove era parcheggiata la Fiat 128 blu, corrispondente, come detto al civico 25/27 della stessa strada […] In conclusione non è stato rinvenuto alcun filmato che possa comprovare che l’ultima auto rinvenuta era stata effettivamente parcheggiata successivamente alle altre»53.
7.6 Le perizie balistiche A terra, nei pressi dell’incrocio dove era avvenuto il rapimento, la Digos trovò un berretto blu da pilota civile della compagnia Alitalia, un caricatore con 25 colpi calibro 9, una borsa similpelle con la scritta Alitalia in stoffa, una borsa in stoffa jeans con dentro una paletta del ministero dell’Interno, un paio di baffi artificiali neri, una pistola Beretta cal. 9 mod. 92 parabellum con caricatore contenente 12 colpi, 84 bossoli cal. 9, 4 cal. 7,65, 2 cartucce cal. 9, 12 proiettili e 10 frammenti di proiettile54. Nella macchina Fiat 130 di Moro furono rinvenute diverse cose: sul pianale anteriore destro, tra i piedi del maresciallo Leonardi, un borsello contenente una pistola a tamburo carica, una macchina fotografica Minox, documenti e una busta con dentro tre biglietti di banca da lire 100.000. Nel portaoggetti situato tra i due sedili anteriori, alcune cartel-
51 ACS, Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, Caso Moro, Sala Operativa, b. 10, Promemoria, 16 marzo 1978. 52 Commissione Moro 2, Proposta di relazione, cit., pp. 168-171. 53 Sca, nota 224, Divisione 1a/Sezione 3/12798/15 in Proposta di relazione, cit., pp. 172-173. 54 Questura di Roma, Digos, Verbale di Rinvenimento e sequestro, Roma 16 marzo 1978, in Commissione Moro 1, v. 30, p. 112.
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le con documenti, libri e un altro borsello avvolto in una busta di plastica contenente una pistola a tamburo carica e documenti vari. Sul lato destro del pianale posteriore, una valigetta 24 ore e una borsa diplomatica chiuse. Sul lato destro del sedile posteriore, cartelle con documenti, numerosi giornali e riviste. Sul pianale del lunotto posteriore alcuni libri, una busta con documenti, due cappelli, un impermeabile e quattro sciarpe di lana. Il 20 marzo tutti questi oggetti furono consegnati all’appuntato dei Carabinieri Otello Riccioni, autista di Moro, su richiesta del capo della Digos, Spinella. Il giorno dopo lo stesso appuntato, durante un controllo nell’auto, rinvenne nel portabagagli un’altra borsa piena di libri e all’interno dell’abitacolo, tra il bracciolo del sedile posteriore e lo schienale, due portafogli con monete55. Il contenuto delle borse di Moro, tre delle cinque che egli aveva con sé al momento dell’agguato, non fu repertato «trattandosi di cose personali non pertinenti a reato»56. Le due borse mancanti, che contenevano denaro, medicinali e documenti, vennero prese da Morucci, come riferito da questi e da alcuni testimoni. Morucci nel suo Memoriale scrisse che tra i compiti che gli erano stati affidati c’era il recupero delle borse di Moro, ma dopo la fine della sparatoria e tutti quei morti aveva provato un senso di confusione: «Rammento che fui ridestato da questo stato di confusione dal richiamo di uno dei brigatisti occupanti la 128 bianca (Gallinari) che mi esortò a muovermi, poiché la 132 con Moro era già andata via e altrettanto stavano facendo loro […]. A questo punto mi sono portato presso [la] 130 di Moro prelevando due borse del Presidente […]. Le borse erano in pelle e sono state portate da me sulla 128 blu, di cui presi la guida»57. Il 16 marzo negli uffici della Digos di Roma venne sentito il già ricordato Samperi, gestore del distributore in via Fani che si trovava poco oltre l’incrocio con via Stresa sullo stesso lato dell’agguato. Nella sua deposizione, ovviamente concitata, disse di aver visto un uomo salire su una macchina blu «con due borse»58. Nell’ordinanza di rinvio a giudizio per il procedimento penale 369/85, noto come Moro-Quater, si legge che «Moretti è colui che prende in consegna da Morucci le borse di Moro. Sempre Moretti è colui che ha comunicato a Morucci che in una delle borse c’erano delle medicine e nell’altra documenti, tra cui un progetto di unificazione delle Forze di polizia. E sempre Moretti è colui che, in sede di direzione di Colonna, ha riferito che questo documento era uno dei più rilevanti»59. Secondo Morucci, il primo «abbozzo del sequestro […] non prevedeva […] l’ucci55 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 24, Questura di Roma, Al sig. Procuratore capo della Repubblica. Sede. All. 2, f.to il commissario di PS G. Pandiscia. 56 Ivi, Appunto, Roma 5 aprile 1978. Si veda anche ivi, b. 23 A, faldone 4, Relazione di servizio sull’armamento della scorta, Roma 16 marzo 1978. 57 V. Morucci, Memoriale, cit., p. 32. 58 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 24, Questura di Roma, Ufficio DIGOS, 16 marzo 1978. Un altro teste, Sergio Vincenzi, disse di aver visto persone scappare con una borsa; ivi, Corte di Assise Repubblica Italiana, Sentenza nel procedimento penale 31/81, f. 821. 59 Proc. Pen. 369/85 a G.I. Sentenza-Ordinanza di Rinvio a giudizio (proc. cd. Moro-quater), f. 63.
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sione degli uomini della scorta», sebbene il fatto rendesse «estremamente complessa l’elaborazione di un piano operativo». Fu solo dopo aver compreso che ciò era impossibile, che «giungemmo con qualche tentennamento superato solo in virtù dell’autoconvincimento che la scorta di Moro era in fondo formata da uomini di reparti speciali, alla determinazione che il sequestro poteva essere compiuto soltanto uccidendo quegli uomini». Se si fosse saputo che Ricci era disarmato, Leonardi aveva la pistola nel borsello e il mitra di Zizzi, che Morucci prese, «aveva la canna piena di ruggine», forse si sarebbe potuto non ucciderli, ma poi, commenta Morucci, si sarebbe comunque dovuto fare i conti con il coraggio di quegli uomini: «Leonardi che disarmato si piega per proteggerlo [Moro], Ricci che sotto il fuoco tenta di guadagnare un passaggio per la grossa auto, Iozzino che, forse già ferito, riesce ad uscire dall’auto di scorta ed esplodere dei colpi». Senza il convincimento che si trattava di agenti dei corpi speciali, Moro sarebbe stato comunque rapito, «ma qualcuno di noi sarebbe rimasto lì in terra». Cosa che comunque poteva avvenire durante qualsiasi azione, perché un errore di valutazione può essere sempre commesso60. Le perizie balistiche furono svolte nei primissimi giorni successivi al fatto da Antonio Ugolini, Giovanni Iadevito e Annunziata Lopez e depositate presso la Procura della Repubblica di Roma il 3 aprile 197861. Secondo i risultati, le armi usate in via Fani erano state 6: una Beretta M.92 calibro 9 parabellum, già in dotazione dell’agente Iozzino (2 bossoli), una pistola semiautomatica calibro 7,65 (4 bossoli), un’arma a raffica con estrazione a ore 10 in condizioni non perfette (percussore corroso e tracce di abrasione da camera di scoppio corrosa, 30 bossoli calibro 9), un’altra arma a raffica con estrazione a ore 9, con tracce di abrasione da camera di scoppio corrosa (24 bossoli calibro 9), un’arma semiautomatica o automatica con traccia estrattore a ore 11 (6 bossoli calibro 9) e un’arma a raffica non meglio identificata (7 bossoli calibro 9), per un totale di 74 bossoli. Vennero ritrovati diversi proiettili all’interno delle auto di Moro e della scorta, in strada e in un appartamento antistante. Le cartucce calibro 9 parabellum, sempre secondo la prima perizia, erano di tipo GFL 9M38 fabbricate nel 1970 e 1973 dalla Fiocchi di Lecco. La seconda perizia, opera degli stessi specialisti incaricati della prima, fu eseguita per il procedimento penale istruito dal Consigliere istruttore Achille Gallucci62. I bossoli repertati nel nuovo studio furono 93, numero poi accettato come definitivo fino al 201563, dei quali 4 calibro 7,65 e 89 calibro 9 Parabellum, più due cartucce 60 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 20, 9 maggio 1989, f.to Morucci. 61 Processo Verbale di Perizia, in Commissione Moro 1, vol. 45, pp. 10-19, 3 aprile 1978. 62 Tribunale Civile e Penale di Roma. Ufficio Istruzione: sezione 1. Giudice istruttore: Consigliere Gallucci. Procedimento penale a seguito dell’omicidio della scorta dell’on. Moro e il rapimento di questi. Proc. n. 1482/78. Relazione di perizia tecnico balistica, in Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla strage di via Fani e sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, vol. 45, pp. 30 e segg. 63 Si veda la relazione in Commissione Moro 2, audizione del 10 giugno 2015 della dott.ssa Laura Tintisona, del dott. Federico Boffi e altri.
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sempre calibro 9 Parabellum inesplose con tracce di incameramento e di inceppamento d’arma, più il caricatore repertato in via Fani contenente 22 cartucce calibro 9. A questi si devono aggiungere frammenti di proiettili repertati durante le autopsie, a terra in via Fani, nelle varie auto e in alcuni appartamenti prospicienti il luogo della sparatoria ma «non utilizzabili con completezza né completamente identificabili»64. Secondo la data di fabbricazione, i bossoli furono divisi in 5 lotti: uno del 1969, 7 del 1970, 48 del 1973, 2 del 1977 Nato e 31 senza data. Durante l’esame morfologico e la catalogazione dei bossoli vennero trovati molti frammenti di impronta digitale, non utili, però, a una identificazione tranne che su tre di questi. Da un punto di vista merceologico, il team di esperti volle specificare che la cartuccia da 9 mm Parabellum fosse «tra le più usate per armi corte e per armi automatiche (mitra) tanto d’essere fabbricata in tutto il mondo» e che negli Stati Uniti prendeva il nome di Luger65. La Commissione Moro 2 ha acquisito presso l’Archivio storico del Senato due copie di un appunto che riferisce informazioni desunte da una fonte anonima redatto dalla Questura di Roma il 27 settembre 1978 siglato dal questore Emanuele De Francesco e dal capo della Digos Spinella. Vi si legge che «dagli esami compiuti dai periti su alcuni bossoli rinvenuti in questa via Fani, risulterebbe che le munizioni usate provengono da un deposito dell’Italia settentrionale le cui chiavi sono in possesso di sole sei persone»66. Secondo la Commissione Moro 2, «leggendo il testo dell’appunto è difficile sottrarsi alla suggestione che le informazioni ivi riportate – che accostano elementi assolutamente generici (il riferimento all’Italia settentrionale) ad altri estremamente dettagliati (la disponibilità delle chiavi del deposito da parte di sole sei persone) – possano essere state formulate in modo intenzionalmente allusivo, così da poter essere correttamente comprese solo da determinati destinatari»67. La suggestione, continua, «è ancor più evidente se si accostano le suddette informazioni ad alcune di quelle riportate nella prima perizia balistica eseguita da Ugolini, Iadevito e Lopez sui bossoli utilizzati dai terroristi e rinvenuti in via Fani. In un passo di tale perizia si fa, infatti, riferimento ad alcune particolarità di parte del materiale balistico esaminato, che si caratterizzerebbe per la mancanza di data sulle cartucce, per la colorazione della vernice sul fondello e la nichelatura (o l’assenza di nichelatura) della capsula di innesco»68.
In realtà, nella perizia non si enfatizza nulla, non si dà un particolare significato a 64 Ivi, p. 71. 65 Ivi, p. 78. 66 Le due copie – che differiscono per il fatto che in una di esse sono riportati gli estremi della declassifica, assenti nell’altra – furono acquisite nella XIII legislatura dalla Commissione stragi. Sono consultabili nell’Archivio del Senato. 67 Proposta di relazione sull’attività svolta, relatore il presidente Fioroni, seduta del 10 dicembre 2016, capitolo 15. 68 Ibid.
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questa cosa ma, anzi, si tende a riportare il tutto nella normale produzione di pallottole della Fiocchi, come del resto ha poi appurato la Commissione. Che, però, ammaliata da ogni presunta anomalia – presunta perché di notizie non verificabili, allusive ed errate sono pieni gli atti di quei mesi – conclude il capitolo della relazione affermando che «resta, tuttavia, ancora da accertare la ragione per la quale venne veicolata alla polizia una notizia così peculiare quale quella della provenienza del munizionamento rinvenuto in via Fani da un deposito del Nord cui avevano accesso solo sei persone. Sarebbe, in particolare, utile verificare se tale notizia abbia esercitato una qualche influenza sulle indagini allora in corso, condizionandone lo svolgimento e gli esiti»69.
Anche se il testo della relazione di mezzo termine svolta dalla Commissione resta prudente, è noto che i commissari di san Macuto abbiano lavorato per mesi all’ipotesi che una parte dell’armamento impiegato in via Fani provenisse da un deposito Nasco in uso a Gladio e che la particolare verniciatura presente su alcune cartucce ne fosse la prova. Mettere sullo stesso piano un appunto che non fornisce informazioni verificabili, ricavato per giunta da fonte anonima, con le conclusioni di una relazione peritale nella quale non si avanza mai alcun sospetto su entità terze, è a nostro giudizio errato. Se i periti nominati dal tribunale hanno sottolineato che il calibro 9 parabellum in Italia «non è consentito ai civili»70, l’origine militare dell’apparato di fuoco brigatista impiegato in via Fani (e in azioni precedenti e successive) aveva caratteristiche e una matrice politica ben precise: si trattava perlopiù di armi datate ma ancora funzionanti, alcune provenienti dalla guerra civile del 1943-45, sequestrate alle milizie mussoliniane della Rsi dai partigiani e giunte fino alle Brigate rosse. Nelle conclusioni, peraltro, i periti affermarono che non era possibile con certezza dire quanti colpi furono esplosi la mattina del 16 marzo, né quali armi fossero state usate. Una di queste, che aveva lasciato 49 bossoli, poteva essere una Beretta MP 12, mentre sulle altre restavano dubbi. Purtroppo, «la complessità dei fatti e la numerosità dei colpi esplosi, la non completa repertazione dei proiettili, persi chissà dove, come forse sono andati persi alcuni bossoli a causa della marea dei curiosi che tutto calpestavano e raccoglievano impunemente prima che si apponessero […] transenne […] non hanno permesso la perfetta risoluzione tecnica circa le armi che sono state usate»71. 69 Ibid. I documenti sono stati chiamati «segretissimo uno» e «segretissimo due». 70 Tribunale Civile e Penale di Roma. Ufficio Istruzione: sezione 1. Giudice istruttore: Consigliere Gallucci. Procedimento penale a seguito dell’omicidio della scorta dell’on. Moro e il rapimento di questi. Proc. n. 1482/78. Relazione di perizia tecnico balistica, in Commissione Moro 1, vol. 45, pp. 81. 71 Ivi, p. 96.
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L’elevato indice di incertezza contenuto nei primi due lavori peritali era dovuto al fatto che si trattava di «perizie cieche», condotte in assenza delle armi impiegate in via Fani. Nuove perizie balistiche (Salza e Benedetti), espletate nel 1994 in occasione del quarto processo Moro, che ebbero la possibilità di avvalersi del ritrovamento di gran parte delle armi utilizzate quel giorno, stabilirono che spararono non sei ma sette armi, quattro pistole semiautomatiche e tre armi automatiche a raffica, del tipo pistola mitragliatrice. In particolare, si trattava di una pistola semiautomatica Smith & Wesson mod. 39-2 cal. 9 parabellum, sequestrata a Gallinari al momento del suo secondo arresto, con la quale erano stati esplosi 8 colpi; una pistola semiautomatica, presumibilmente una Beretta mod. 92S cal. 9 parabellum, appartenente all’agente Iozzino, con la quale erano stati esplosi due colpi; una pistola semiautomatica, presumibilmente una Beretta mod. 52 cal. 7,65 parabellum, con la quale sono stati esplosi 4 colpi; una pistola-mitra cal. 9 parabellum, presumibilmente del mod. FNA 1943, con la quale erano stati esplosi 22 colpi. La stessa arma era stata utilizzata nell’azione contro la caserma «Talamo» dei Carabinieri a Roma, portata a termine tra gli altri da Francesco Piccioni e Adriana Faranda durante il periodo del sequestro Moro72. Una seconda pistola-mitra cal. 9 parabellum, presumibilmente mod. FNA 1943, oppure Sten, con la quale furono sparati 49 colpi; una pistola-mitra cal. 9 parabellum, presumibilmente del mod. TZ45, con la quale furono esplosi 5 colpi; una pistola-mitra Beretta N12, sequestrata presso l’abitazione di Piero Falcone a Occhieppo Inferiore. Alcune di queste armi furono usate nel tentato omicidio degli agenti Ugo D’Inga e Vincenzo Garofalo, contro la scorta dell’onorevolele Giovanni Galloni e contro gli agenti Antonio Mea, Pierino Ollanu e Vincenzo Ammirato in piazza Nicosia, nel tentativo di omicidio di Gaetano Pellegrino e Giuseppe Rainone e nell’omicidio di Italo Schettini73. Le relazioni medico-legali sulla morte dei cinque uomini della scorta di Moro furono inviate alla Procura nei giorni immediatamente successivi alla strage74. Iozzino venne attinto da 17 proiettili con andamento da sinistra verso destra, sparati probabilmente da una stessa arma da una distanza non superiore ai 30-40 cm se con arma corta, e agli 80-100 cm se con arma lunga. Leonardi venne attinto da 9 proiettili sulla parte destra del corpo, dei quali due parimenti mortali, uno al capo e uno al cuore sparati da brevi distanze e dall’alto verso il basso. Ricci venne attinto da almeno 8 proiettili sparati da sinistra verso destra da distanza ravvicinata. Rivera fu attinto da 8 proiettili con orientamento prevalente da sinistra verso destra, anche se con diverse obliquità di traiettoria, non sparati dalle brevi distanze. Tre colpi, però, assunsero una traiettoria da destra verso sinistra, il che induceva a ritenere che la fonte di esplo72 Adriana Faranda, Nell’anno della tigre, cit. 73 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 9, Sentenza Moro. Sintesi Analitica, Allegato, pp. 69-71. 74 I periti erano i professori Franco Marracino, Silvio Merli, Enrico Ronchetti, Faustino Durante e Giorgio Gualdi. Le relazioni si trovano in Commissione Moro 1, vol. 44, pp. 684 e segg.
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sione potesse essere stata doppia o che il soggetto fosse stato colpito in diverse posizioni sempre da sinistra. Su questo punto il documento non forniva una parola definitiva ma rimandava all’ausilio delle indagine balistiche. Zizzi, come detto, fu l’unico a morire in ospedale. Dalla cartella clinica risultò che in sede di intervento chirurgico furono riscontrati abbondanti lesioni e lacerazioni degli organi interni causate da tre proiettili che trapassarono il corpo con decorso postero-anteriore e obliquo dal basso in alto e che furono sparati da una distanza non valutabile75. Nel 2015 il personale del Servizio Centrale Antiterrorismo della Polizia di Prevenzione e della Digos, su incarico della Seconda Commissione di inchiesta sul caso Moro, ha acquisito i reperti rinvenuti la mattina del 16 marzo in via Fani e le armi in seguito sequestrate ai brigatisti per svolgere nuove e più moderne perizie sulla dinamica dell’agguato76. Gli inquirenti si sono consultati con gli autori delle perizie del 1994 e hanno anzitutto cercato di capire se le cartucce usate in via Fani provenissero da partite speciali destinate a organismi militari. Si sono recati presso la società Fiocchi Munizioni di Lecco, dove hanno escusso la responsabile delle forniture destinate agli enti militari e alle forze di polizia. Qui hanno accertato che «la [diversa] colorazione [delle cartucce] non risponde allo stato ad alcuna esigenza di identificazione del bossolo. Tale processo veniva effettuato anche antecedentemente all’omologazione Nato per le forniture militari»77. Dopo aver rintracciato i responsabili dell’epoca, gli esperti della Fiocchi non hanno rivelato particolarità degne di nota sui bossoli sequestrati in via Fani. Quindi, i periti e gli esperti della scientifica hanno provveduto a ricostruire le fasi e la dinamica dell’agguato usando tecniche moderne, per le quali si rimanda all’audizione del 10 giugno 2015 e ai documenti annessi. Il direttore tecnico capo del servizio di polizia scientifica, Federico Boffi, osservando preliminarmente che fin dalla mattina del 16 marzo la scena del crimine presentò una grave criticità a causa della «moltitudine di persone» presenti, proseguì che «già di per sé la posizione dei bossoli e dei proiettili in una scena non inquinata è […] trattandosi di punti non fissi, da valutare con molta attenzione. Ciò è valido a maggior ragione in una scena inquinata», quale era quella di via Fani il 16 marzo allorché intervenne la scientifica78. Quella mattina furono rinvenuti 93 bossoli e secondo la prima perizia, come abbiamo visto, a sparare erano state 6 armi. La perizia dei periti Domenico Salza e Pietro Benedetti aggiunse una settima arma, attribuendole 3 bossoli su 8 che la prima perizia aveva indicato come sparati da una stessa fonte. Sono stati rivi75 Ibid. 76 Mancavano i proiettili rinvenuti in sede autoptica nel corpo di Leonardi, due proiettili rinvenuti nell’Alfetta di scorta, quelli rinvenuti all’interno della Fiat 130, quello nella Mini, due cartucce inesplose marca Fiocchi calibro 9 parabellum. 77 Commissione Moro 2, Audizione della Dottoressa Laura Tintisona et altri, 10 giugno 2015, Documentazione di Riferimento, Doc 66/1 del 17 marzo 2015. 78 Ivi, p. 17.
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sti i punti di impatto sui corpi. Dei 93 colpi esplosi, 9 attinsero Leonardi nella parte destra del corpo. L’appuntato Ricci fu attinto da 7 colpi, tutti sul lato sinistro del corpo. Il brigadiere Zizzi, fu attinto da 3 colpi, il capomacchina Rivera venne attinto da 6 colpi in varie posizioni e Iozzino, invece, l’unico dei 5 che riuscì a scendere dall’auto e a reagire, sparando a sua volta (ma dovremmo dire, l’unico di 3, in quanto era impossibile per i due autisti evitare il fuoco che proveniva dalla loro parte), fu attinto addirittura da 17 colpi per i quali «è impossibile capire esattamente le posizioni di provenienza»79. In una ulteriore audizione l’ispettore Lamberto Giannini ebbe modo di chiarire rispetto ai colpi sparati contro Leonardi, che provenivano comunque da sinistra e che lo colpirono sulla parte destra del corpo, perché girato: «Guardate la seconda slide: questa è la macchina su cui viaggiava il Presidente Moro. Questo su cui sto mettendo la freccetta è lo sportello del povero maresciallo Leonardi. Guardate questi segni nella terza slide: non sono dei buchi, ma sono dei rigonfiamenti. Qui si vede il B e qui si vede il C, il successivo. Torno indietro, poi li potrete vedere meglio. In buona sostanza, qui c’è la certezza che il colpo sia sparato da sinistra. Perché? Perché entra nello sportello dalla parte destra, entra nella parte interna dalla portiera e non ha più la forza per uscire. È ritenuto. Non so se sia chiaro dalle immagini o se esse necessitino di ulteriori spiegazioni»80.
Tre sono i punti di fuoco ritenuti principali, ma secondo Boffo l’arma che per lunghi anni è stata considerata decisiva, perché aveva sparato almeno 49 colpi, non aveva giocato un ruolo fondamentale: «Il fatto che quest’arma abbia esploso quarantanove colpi non significa che sia la più importante. Di fatto noi abbiamo certezza che l’arma che ha esploso quarantanove colpi ha certamente colpito la guardia di Pubblica sicurezza Raffaele Iozzino, ma non abbiamo alcuna altra evidenza. Per esempio, l’arma che ha esploso meno colpi ha certamente colpito e ucciso i due occupanti della 130, così come le due armi che hanno esploso i proiettili che hanno determinato queste traiettorie hanno colpito anch’esse gli altri due occupanti dell’Alfetta. In realtà, quindi, è vero che è un’arma che ha esploso molti colpi, ma, paradossalmente, è anche la meno efficace di tutto il gruppo»81.
Alle insistenze dei commissari, si è risposto: «Osserviamo che, pur esplodendo meno colpi, sono stati più efficaci. C’è poco da fare. Questa è una considerazione forse anche molto semplicistica, ma è un dato di fatto. La selettività ce la 79 Ivi, p. 18. 80 Ivi, p. 8. 81 Ivi, p. 31.
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conferma il fatto che sulla 130 i colpi, almeno inizialmente, siano stati esplosi a colpo singolo, proprio per evitare errori e per evitare di colpire il passeggero. Questo è coerente con le testimonianze e anche con la distribuzione delle traiettorie, differenti rispetto a quelle sull’Alfetta. Dire esattamente quanti colpi abbiano attinto chi e cosa non lo possiamo fare, perché quasi tutti i colpi sono passanti. Diciamo che dalle traiettorie i colpi che hanno attinto l’autista dell’Alfetta sono compatibili con un’altra posizione, che non era quella della FNA, ma era piuttosto quella del TZ45 e della Smith & Wesson. Il passeggero Rivera era ancora vivo, peraltro, all’arrivo delle prime persone dopo l’attentato. Non era neanche stato ucciso sul colpo ed è stato attinto anche dalla 7,65, dal lato destro»82.
Un’arma, secondo i periti, aveva certamente esploso colpi sia da sinistra, sia da destra, la Smith & Wesson, mentre un’altra esplose colpi soltanto a destra, la 7,65. Un FNA, che ha esploso i quarantanove colpi, probabilmente ha sparato colpi sia da destra, sia da sinistra83. Una parte dell’audizione sul passaggio della moto Honda è stata secretata quando è stato aperto sul tema un fascicolo presso la Procura della Repubblica di Roma. Qualcosa però è trapelato, e non fornisce conferma che da quel mezzo qualcuno abbia sparato: «Se la moto, come sembra, anzi come è, si muoveva in direzione di via Stresa venendo da via del Forte Trionfale, l’espulsione dei bossoli a destra li avrebbe dovuti mandare verso le autovetture ferme, se dalla moto avessero sparato in direzione di Marini. In realtà, abbiamo visto come i bossoli sono distribuiti. Appartengono a queste sei armi. Innanzitutto, se un’arma è stata utilizzata sulla moto, doveva essere una di queste sei, perché non ci sono bossoli estranei e comunque la distribuzione di questi bossoli è compatibile con queste posizioni»84.
Durante la seduta dell’8 luglio, poi, L. Giannini aggiunse: «Con riferimento alla dinamica di due persone che scendevano e sparavano da altre parti, è molto limitato il numero delle persone che fanno questo tipo di dichiarazione; si tratta sostanzialmente dell’ingegner Marini – c’è qualche cosa, invece, che proprio non ci torna e per cui noi non abbiamo trovato una spiegazione»85.
La perizia del Dipartimento ha inferto un grave colpo alle ricostruzioni che volevano la presenza di misteriosi sparatori sul lato destro, sebbene si affermi che non si sparò solo da sinistra: 82 Ivi, p. 34. 83 Ivi, p. 33. 84 Ivi, p. 33. 85 Ivi, p. 10.
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«Hanno sparato da destra. Noi siamo in grado di ricostruire un’unica traiettoria. Sono stati sparati più colpi, ma non certamente in concomitanza delle raffiche. L’abbiamo detto: molti colpi delle raffiche hanno attraversato la strada e hanno colpito addirittura l’abitazione di fronte. Chi si fosse posizionato in quel punto avrebbe corso il rischio di essere colpito, anzi sicuramente sarebbe stato colpito. L’ipotesi sui quarantanove bossoli esplosi da destra è impossibile, perché abbiamo detto che gruppi numerosi di bossoli tutti circoscritti in un’unica zona non possono essere spostati casualmente. Mi riferisco ai gruppi di ventisette, sette e nove. Non possono essere finiti casualmente lì, se qualcuno li avesse esplosi da questa parte. Sono stati certamente esplosi dal lato sinistro e da una posizione differente rispetto alla posizione in cui è stata rinvenuta la vettura, ossia l’Alfetta»86.
7.7 L’organizzazione delle indagini Pochi minuti dopo la conclusione dell’azione, a cominciare dalle 9.30, furono allertate tutte le Legioni dei carabinieri dell’Italia centrale, del Lazio, di Perugia, Livorno, Chieti, Napoli e Firenze, in modo da chiudere la capitale in una rete. Vennero quindi avvertiti il Sisde, il Sismi, la presidenza del Consiglio, lo Stato Maggiore dell’esercito, la Difesa e la Presidenza della Repubblica. A Torino fu rafforzata la sorveglianza dei brigatisti a processo87. In quel momento era in vigore un sistema di pianificazione per la tutela dell’ordine pubblico risalente al 1950 e aggiornato nel 196188. Esso prevedeva tre ipotesi, denominate E1, E2 ed E3, corrispondenti a diversi stadi di gravità di turbamento dell’ordine pubblico. Il 25 aprile 1978 venne emanata una nuova circolare, che stabiliva i seguenti gradi di crisi: Turbamento Uno a carattere provinciale; Turbamento Due a carattere regionale. Ne seguì una seconda, il 9 agosto, che completò la pianificazione dei servizi provinciali per gravi atti di criminalità comune ed eversiva. Mentre al ministero dell’Interno fu organizzata una Sala gestione crisi89, su tutto il territorio nazionale furono allestiti posti di blocco fissi e mobili previsti dai piani regionali di difesa, vennero controllati gli scali marittimi e aerei e i valichi di frontiera. Le questure controllarono tutti gli elementi conosciuti per la loro militanza politica, ma a parte il ritrovamento della 132, la giornata si chiuse senza l’acquisizione di altri elementi di rilievo. Alle 16.30 il capo di Stato Maggiore dell’Arma, generale Mario De Sena, convocò nel suo ufficio una riunione cui parteciparono il sottocapo di Stato Maggiore, il comandante della Legione di Roma, col. Coppola, il capo ufficio del Comando 86 Ivi, p. 38. 87 ACS, Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, Caso Moro, Sala Operativa, b. 10, Promemoria, 16 marzo 1978. 88 ACS, Caso Moro, MIGS b. 5, MIDGPS, 3039 (2), Roma, 7 novembre 1980, f.to Rognoni. Piani Operativi d’emergenza. Per l’aggiornamento del 1961 si veda la circolare 442/4567 del 19 marzo del Viminale. 89 Ibid.
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Generale, tenente colonnello Cucci, il capo ufficio della II Divisione, tenente colonnello Calabresi e un rappresentante della Sezione criminalità dei carabinieri, cap. Martino, nel corso della quale illustrò i vari aspetti della strategia governativa, decisi la mattina dai ministri dell’Interno, della Difesa, di Grazia e Giustizia e delle Finanze assieme ai comandanti generali dell’Arma e della Guardia di Finanza e al capo della Polizia. Questi si possono riassumere nei seguenti punti: nessuna sospensione delle indagini e salvaguardia della vita di Moro e del prestigio dello Stato (queste ultime tre parole furono sottolineate da De Sena); contatti con i partiti per le decisioni a livello politico; comunicazione alla Sala gestione crisi di ogni notizia nuova; appello alla popolazione per collaborazione informativa. In tale quadro «tutte le notizie che perverranno dovranno essere comunque verificate». De Sena disse che non si dovevano attuare rastrellamenti indiscriminati, ma si doveva insistere con la criminalità comune, in particolare le fonti informative usuali, sperando che nel loro giro si potesse scoprire qualcosa tenendoli sotto pressione. Dato che dal 17 marzo furono sospese tutte le manifestazioni, De Sena suggerì di rafforzare i posti di blocco con i militari dei Battaglioni. I controlli, aggiunse, «devono essere effettuati per tutti i mezzi in transito che devono essere vivisezionati»90. Infine, il generale dispose che ogni 12 ore (al mattino e alla sera) fosse preparata una «scaletta operativa» sulla quale riportare l’attività dell’Arma nel quadro delle indagini sul rapimento. L’appunto, a firma dello stesso generale, sarebbe stato trasmesso alla Direzione generale della Ps91. Due giorni dopo, posti di blocco fissi furono impiantati su tutte le rotabili che partivano dal raccordo anulare di Roma, dove la VI Brigata dei carabinieri fu incaricata della loro gestione. Immediatamente cominciarono le perquisizioni in tutto il territorio della capitale, capillari e meno casuali di quanto si possa pensare. In particolare furono battute le zone della Balduina, di Pineta Sacchetti, di Monte Mario, Prati e intorno a Villa Pamphili, ma senza esito. Il 3 aprile furono eseguite ben 237 perquisizioni nei confronti di persone indiziate di appartenere alla sinistra eversiva: 12 di queste furono arrestate in flagranza di reati vari come detenzione di armi o esplosivo, 29 per partecipazione a banda armata92. Si deve dire che le segnalazioni, giunte anche dal Brasile, sulla eventuale prigione di Moro, ma anche sui possibili complici dei brigatisti, si susseguirono senza sosta in quei giorni. I carabinieri, che le presero tutte in considerazione, svolsero perlustrazioni, perquisizioni e rastrellamenti, osservando che le segnalazioni stesse erano pervenute dalle fonti più varie e che erano «spesso poco attendibili». Anzi, ag90 Ivi, Carabinieri Comando SM Operazioni Roma a Carabinieri Legioni OAIO Loro sedi, S.M. Ufficio Operazioni, Roma, 16 marzo 1978. 91 Ivi, f. 5. Quello stesso giorno furono aggregati alla Legione di Roma il comandante della sezione speciale anticrimine di Milano, capitano Umberto Bonaventura, il comandante della Compagnia Battaglione Lazio, capitano Luciano Seno. 92 L’elenco dettagliato delle perquisizioni è conservato in ACS, Caso Moro, MIGS b. 4, MI, DGPS, rif. 3039, Roma, 20 settembre 1980, Riservato doppia busta, al gabinetto dell’on. ministro, Segreteria speciale, cit., Operazioni coordinate dalla questura di Roma, all. 1.
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giunsero, la popolazione italiana non si era dimostrata collaborativa, ma si era «sbizzarrita» in «una ridda di segnalazioni di ogni tipo», rimanendo «sostanzialmente silenziosa per quanto riguarda notizie su elementi, luoghi e circostanze utili […]»93. Anche i giornali e la televisione erano stati sostanzialmente d’intralcio, divulgando notizie che «sarebbe stato preferibile e doveroso ritardare o tacere»94. Sul fronte dell’organizzazione delle indagini, il ministero dell’Interno ricevette il compito di seguire e coordinare il lavoro investigativo e repressivo. Per fare questo, venne creato un Comitato per la gestione della crisi costituito da un piccolo nucleo di esperti guidato dal ministro Cossiga (il Comitato politico-tecnico-operativo), accanto al Comitato interministeriale per la sicurezza (Cis), presieduto dal presidente del Consiglio, Andreotti. Secondo quanto avrebbe dichiarato proprio Andreotti nel 1980 in un lungo appunto per l’allora presidente della Prima Commissione di inchiesta, il senatore Dante Schietroma, «mediante il gruppo di lavoro costituito stabilmente presso il Ministero dell’Interno e le riunioni del Comitato interministeriale per la sicurezza la spinta al coordinamento durante la crisi Moro si attuò – almeno potenzialmente – nel modo più proficuo che era consentito, cercando di bilanciare le possibili, ma non dimostrate, carenze dovute alla fase di riordino [dei servizi]»95.
Il giorno 17, aggiunse Andreotti nel 1980 in audizione, «tenemmo la prima riunione del Comitato interministeriale per la sicurezza, che come ho detto aveva avuto una specifica delega dal Consiglio dei Ministri». Il Cis, presieduto dal Presidente del Consiglio, era composto dai ministri degli Interni, degli Esteri, della Giustizia, della Difesa, delle Finanze e dell’Industria e in seguito del Bilancio e vi prese parte, con funzioni di coordinamento, il capo di Gabinetto del Presidente. Dalla legge istitutiva era previsto che potevano essere invitate altre persone, in modo particolare altri ministri. Di fatto, aggiunse Andreotti, «in qualche momento più delicato invitammo dei colleghi di Gabinetto, non tanto per competenza ministeriale quanto per il significato politico che rivestivano le riunioni che tenevamo e 93 Per molte di quelle si veda ACS, Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, Caso Moro, Sala Operativa, b. 10, passim e in particolare Attività svolta dall’Arma, f. 126. 94 Ibid. Alle 11.00 del 16 marzo la Compagnia di Spoleto ricevette la prima segnalazione anonima, che indicava in quella cittadina la sede della prigione di Moro, segnalazione risultata priva di fondamento. Sempre il 16 marzo venne arrestato a Milano un romeno che aveva effettuato due telefonate anonime alle forze dell’ordine, qualificandosi come vice capo delle Br; ACS, Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, Caso Moro, Sala Operativa, b. 10, Comando Generale dell’Arma, Appunto, 17 marzo 1978, f.to ten. col Mario Cudei. 95 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 4, Camera dei Deputati, 3039, all’on. sen. Dante Schietroma Presidente Commissione d’inchiesta sulla strage di via Fani, Roma, 25 giugno 1980, f.to Andreotti.
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per la necessità di farvi partecipare in frangenti specificamente critici qualche collega che poteva, nel quadro generale delle opinioni, presentare anche opinioni diverse»96.
Al Comitato presso il ministero dell’Interno97 presero parte i Capi di Sismi, Sisde e Cesis, i Comandanti dei Carabinieri e della Guardia di Finanza e il Capo della polizia. Il sottosegretario delegato a presiederlo in assenza del ministro fu Nicola Lettieri, già sottosegretario all’Interno dal luglio 1976 e dal settembre del 1977 delegato per la pubblica sicurezza. Sulla base delle esperienze compiute in altri paesi nell’ambito della cosiddetta «gestione della crisi», si realizzò un comitato scientifico che prevedeva la collaborazione di esperti in psichiatria, psicologia, grafologia e analisi del linguaggio, come il prof. Ignazio Baldelli, esperto linguistico, il prof. Franco Ferracuti, ordinario di medicina criminologica e psichiatria forense presso l’Università di Roma, la prof.ssa Giulia Conte Micheli, consulente tecnica in materie chimiche e grafiche di Bologna, il dott. Stefano Silvestri, esperto di problemi internazionali, il prof. Vincenzo Cappelletti, direttore dell’Istituto per l’Enciclopedia Treccani, il prof. Augusto Ermentini, docente di antropologia criminale e in seguito il prof. Steve Pieczenick, cittadino statunitense, giunto in Italia il 7 aprile. Gli italiani si rivolsero anche ai colleghi tedeschi, che inviarono a Roma 5 funzionari del Bundeskriminalamt tra cui il vice presidente Reinhard Ruprecht, allo scopo di creare un punto di collegamento con le centrali di Wiesbaden e Godesberg, visto che la Germania Federale aveva all’epoca la più grande banca dati sul terrorismo98. La cosa venne ricordata da Cossiga durante la sua audizione di fronte alla Commissione Moro 1: «La Repubblica Federale di Germania inviò taluni funzionari con il compito particolare di operare un collegamento sofisticato fra la nostra direzione generale di polizia e il famoso cervello, come viene chiamato, del Bundeskriminalamt di Wiesbaden»99.
Il 30 marzo, inoltre, giunse a Roma anche il funzionario del Bundesamt für Verfassungsschutz di Colonia, divisione terrorismo (il corrispondente tedesco del Sisde), sig. Buba, che aveva seguito il caso Lorenz100. Il contributo degli esperti non fu secondario. Essi redassero analisi dopo ogni Comunicato dei rapitori e ogni lettera di Moro giunta in mano agli inquirenti. Inoltre, si 96 Commissione Moro 1, Audizione di Giulio Andreotti, cit. 97 Detto anche Comitato tecnico-operativo, anche se nel tempo è stato chiamato in vari modi come Comitato ristretto, Superconsiglio e Comitato di coordinamento. 98 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 12, PZCZC n. 289/1 seg. 246/1 Ester, Bonn Conferma presenza funzionari «BKA» a Roma. 99 Commissione Moro 1, vol. 3, Audizione di Francesco Cossiga, cit., p. 195. 100 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 18, Nota per il ministro Roma, 30 marzo 1978, f.to Grassini.
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impegnarono nel tracciare un quadro di massima della situazione, dando indicazioni e strategie secondo il loro compito, che era quello di analizzare gli scritti di Moro e organizzare il sostegno del presidente se liberato101. Secondo Lettieri, comunque, più che di vere riunioni, si trattò di consultazioni direttamente con il ministro Cossiga in una saletta al secondo piano del Viminale, nella quale si era riunito in tutto sei o sette volte102. 7.8 Gli scenari di Ferracuti, Silvestri e Pieczenick Secondo Ferracuti, nella pur comprensibile difficoltà di fare previsioni in una situazione complessa come quella di un rapimento politico, alcuni aspetti erano sufficientemente rodati per poter azzardare un ragionamento di massima, persino quando le posizioni dei brigatisti apparivano inflessibili e le loro richieste inaccettabili. Per il professore, si doveva costituire un piccolo gruppo di specialisti in gestioni di crisi, in grado di trattare. Era importante, inoltre, che il governo parlasse con una sola voce, in modo da sostenerne adeguatamente i tentativi. Il gruppo doveva comprendere esperti di diritto penale, un rappresentante dei servizi, uno psichiatra e uno psicologo, un analista politico e un esperto di relazioni pubbliche. Ovviamente, dovevano restarne fuori familiari, amici o stretti collaboratori dell’ostaggio. Sebbene la cosa fosse non percepita da molti, continuava Ferracuti nella sua analisi, in realtà il tempo giocava a favore dei negoziatori e non dei rapitori. Questi, infatti, comprensibilmente partivano da posizioni estreme, che erano destinate a smussarsi e moderarsi per molti motivi: stanchezza, pressioni da parte di gruppi politici loro vicini, necessità di ottenere qualcosa per la loro azione. Ovviamente, la pressione di familiari e amici, che avrebbero voluto vedere la storia chiudersi presto, non era d’aiuto, ma il governo avrebbe dovuto resistere e comprendere che il tempo era l’unico alleato in grado di ottenere spostamenti positivi. Altro elemento necessario era lo stabilimento di un canale di dialogo e il mantenimento costante del dialogo stesso. Il comunicatore di parte governativa, infine, «non deve essere colui che prende le decisioni. Oltre a risparmiargli una parte dello stress, questo fatto gli permetterà di sviluppare un rapporto con i terroristi e può essere anche usato per ottenere un dilazionamento». Solo con il tempo, inoltre, si era in grado di creare situazioni impreviste per i terroristi (che, invece, credevano sempre di aver previsto tutto), facendoli così agire con meno efficienza. Lo scopo principale del gruppo di negoziatori, oltre naturalmente alla liberazione dell’ostaggio, era quello di «spostare il controllo della situazione», operando una pressione continua sui rapitori. Continue dovevano essere le richieste di 101 Commissione Moro 1, audizione di Franco Ferracuti, 20 gennaio 1983, vol. 10. Ferracuti per tre anni e mezzo a partire dal 1978 fu consulente del direttore del Sisde Grassini, per il quale analizzò gli scritti prodotti dalle Br, in ivi, p. 530. 102 Commissione Moro 1, audizione di Nicola Lettieri, 24 settembre 1980, vol. V.
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prove che l’ostaggio fosse vivo, le richieste di chiarimenti su punti specifici e le proposte di forme alternative di azione, in modo da creare una pressione imprevista sui rapitori, che a quel punto sarebbero stati costretti a rinunciare alle loro certezze103. Il 30 marzo 1978 anche il prof. Silvestri consegnò al ministro degli Interni uno scenario sulla vicenda, che egli chiamò «il gioco Moro». Secondo l’analista, la prima difficoltà era l’identità dei «giocatori». Delle Br, infatti, «si ignorano sia le possibili ramificazioni internazionali […], sia dati precisi sulla loro forza e composizione, sia la effettiva portata dei loro obiettivi. La vaghezza del loro obiettivo strategico dichiarato aumenta l’importanza dei loro obiettivi “tattici” o intermedi, di cui però si ignora tutto»104.
Partendo da questo presupposto, Silvestri non avrebbe considerato «modelli» su cui analizzare i comportamenti dei brigatisti, ma elaborato degli scenari, partendo dall’ipotesi «peggiore», ossia «la strategia che sembra più pagante» e che egli chiama «del carciofo». Si trattava di una strategia caratteristica della guerriglia più che dei gruppi terroristici, una strategia da «lunga marcia», nella quale il fattore psicologico e temporale avevano importanza uguale o superiore a quella dell’uso effettivo della forza. Con questo tipo di lotta si intendeva «sfrondare ad una ad una le “foglie” del nemico lavorandolo ai fianchi, indebolendone la volontà, evitando a lungo il confronto diretto, mutando fronti e tattiche, sino a che esso non sia costretto a mettere a nudo il suo «cuore»». Le autorità italiane fino a quel momento avevano reagito a questo attacco seguendo due principi, quello repressivo e quello della ricerca di un dialogo con i rapitori, al fine di salvaguardare l’ordine pubblico e al tempo stesso salvare la vita di Moro. Si trattava di un errore, sottolineava l’analista, perché il secondo obiettivo finiva per lasciare al nemico l’iniziativa e le Br libere di scegliere la risposta più adeguata: «più duri e destabilizzanti fin quando la pressione non divenga insopportabile […] e poi più accomodanti e “negoziali”, costringendo il governo a trattare in condizioni di impopolarità»105. In altre parole, scegliendo una linea dura/morbida, il governo rischiava di perdere flessibilità politica, andando troppo in là con la repressione senza essere poi in grado di tornare indietro qualora venisse proposta una linea di dialogo più morbida da parte delle Br, cosa che in un certo senso si sarebbe avverata esattamente un mese più tardi, dopo la telefonata in casa Moro del 30 aprile. Allora era possibile ipotizzare strategie alternative per combattere le Br in modo da ridare l’iniziativa al governo, evitandogli di chiudersi su se stesso. In effetti, scriveva Silvestri, i vantaggi delle Br venivano solo da un elemento, il possesso di Moro. Se ciò era vero, l’obiettivo di una nuova strategia da parte del governo doveva essere la libe103 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 13, Appunto prof. Ferracuti sulla gestione della crisi ff. 1-4. 104 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 13, Scenario prof. Silvestri, 30 marzo 1978. 105 Ivi, ff. 2-6.
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razione dell’ostaggio o, in via subordinata, la riduzione del suo «valore ostaggio». Per la liberazione si doveva cercare un dialogo con i rapitori, proseguendo ovviamente le ricerche attraverso le forze di polizia. Il problema era che fino a quel momento le Br avevano dimostrato di saper sfuggire alla cattura e di non volere un contatto diretto con eventuali negoziatori. Rimaneva la seconda possibilità, ossia diminuire il valore dell’ostaggio, una strategia definita «difficile e crudele». Difficile, perché si dava l’impressione di cedere alle pressioni dei rapitori; crudele, perché ci si esponeva a una possibile escalation della violenza contro l’ostaggio o altri obiettivi. A ben vedere, la posizione di Moro dalla prigionia si sviluppò proprio su questa linea, come si ricava dalla lettura del corpus dei suoi scritti che sono complessivamente indicati con il nome di Memoriale. Egli tese a stemperare le proprie responsabilità politiche, mitigando l’importanza di certe scelte e ruoli, cercando al tempo stesso di porsi come mediatore tra governo e Br e, in un certo senso, di dettare fuori la linea da seguire, quella del dialogo e della trattativa. Resistendo alle pressioni dei rapitori, scrisse Silvestri, Moro stava «coscientemente» diminuendo il proprio «valore ostaggio», ma non era una lotta «in cui egli possa essere lasciato solo». Le autorità politiche, però, non seguirono né Moro, né Silvestri, rifiutando di considerare il ruolo dell’ostaggio e appellandosi solo a soluzioni umanitarie, come sottolineato dallo stesso analista: «la tendenza attuale vede un progressivo aumento del “valore ostaggio” di Aldo Moro (fino a proposte che aumenterebbero addirittura il suo valore istituzionale: eleggerlo alla Presidenza della Repubblica)»106, finendo per convincere le Br «della giustezza della loro strategia ed aumentandone la forza e la capacità di mantenere l’iniziativa nei confronti del governo»107. Non si pensi, però, che la diminuzione del «valore ostaggio» avrebbe significato di per sé la liberazione di Moro. Al contrario, le Br sarebbero state costrette a lasciare la strategia «del carciofo» e tornare allo scontro diretto con il governo, il quale poteva a quel punto «mobilitare senza più alcuna remora le sue forze superiori». Ciò equivaleva al «volontario ingresso nella spirale di escalation, fidando sulla valutazione che in tal caso le capacità difensive e offensive del governo sarebbero comunque maggiori di quelle delle Br». Si trattava di una strategia che poteva creare «problemi politici di grande vastità» e portare «a una tragica sconfitta [la morte di Moro] con gravi conseguenze istituzionali»108. Alla fine, per Silvestri lo scenario più significativo era quello difensivo, perché non precludeva la possibilità di riprendere l’offensiva in un secondo momento. Si dovevano obbligare le Br a scegliere tra una lotta dalla quale sarebbero uscite quasi sicuramente perdenti o una resa che avrebbe potuto assicurare loro qualche vantaggio, 106 Con un editoriale del direttore Arrigo Levi, «La Stampa» del 23 marzo 1978 invitò il Presidente della Repubblica Giovanni Leone a lasciare il Quirinale per consentire l’elezione d’emergenza di Moro alla suprema carica dello Stato. 107 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 13, Scenario prof. Silvestri, 30 marzo 1978, f. 9. 108 Ivi, f. 10.
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ma marginale. Si trattava di un gioco psicologico nel quale vinceva chi «per maggior tempo riesce a comunicare al nemico la sua superiore volontà d’azione, e la sua determinazione ad accettare il rischio». Tre erano le strade attraverso cui raggiungere l’obiettivo e che Silvestri chiama «gioco del pollo», «gioco del salame» e «manovra ad esaurimento». Il primo consisteva nel classico gioco per cui due automobili erano lanciate a tutta velocità una contro l’altra. Era dimostrato statisticamente che una delle due avrebbe deviato dalla propria rotta, in genere quella che aveva di più da perdere, perché più fragile. Nel caso di Moro, lo scontro si sarebbe manifestato rifiutando ogni trattativa e implementando contestualmente le operazioni di polizia, aumentando drasticamente le pene e puntando allo scontro armato. Il successo era assicurato in tempi medi, ma implicava una sicura escalation della violenza da entrambe le parti, come poi sarebbe realmente accaduto109. Il gioco del salame consisteva nel togliere progressivamente terreno politico sotto ai piedi delle Br. Si doveva eleggere un nuovo «presidente provvisorio» della Dc al posto di Moro, puntare su accordi politici e sindacali di emergenza, diminuire a poco a poco l’attenzione della stampa sul caso e canalizzare una serie crescente di commenti sui giornali «secondo i consigli di una équipe di psicologi». La famiglia Moro avrebbe dovuto assumere l’iniziativa delle trattative mentre il caso pubblico doveva lasciare il posto alla sua dimensione umana. Si doveva così diffondere l’idea «che più dura[vano] la prigionia e il processo di Moro, maggiori saranno le probabilità di un suo ridimensionamento umano e politico», celebrando l’importanza storica di Moro, ma mostrando anche che la politica italiana poteva continuare senza di lui. Il gioco del salame aveva dei punti di contatto con la riduzione del «valore ostaggio», con la differenza che le Br avrebbero potuto rilanciare attraverso nuovi attentati110. Restava la manovra di esaurimento, che si declinava in una continua offensiva su tutti i fronti contro i rapitori, allo scopo di isolare non solo politicamente, ma anche logisticamente le Br, criminalizzandole, tendendo a non fare differenze tra lotta al terrorismo e alla criminalità comune. La tattica poteva accrescere la popolarità del governo, ma aveva tempi lunghi ed esiti incerti per quanto riguardava il destino di Moro111. Silvestri, come si vede, parla sia di Moro, sia delle strategie più generali di lotta contro le Br e alla fine della sua lunga analisi traccia un profilo del contesto internazionale in cui si stavano muovendo gli attori. A dire del professore (che non era informato a dovere su questo fronte), il 1977 era stato l’anno più complesso per i rapporti tra Italia e Stati Uniti in quanto, con l’avanzare della crisi politica, era mancata una chiara «garanzia internazionale» della collocazione geopolitica della penisola «quali che fossero i suoi mutamenti politici interni». A Washington, inoltre, si era manifestata la volontà di legare l’atteggiamento da tenere verso Roma alle formule di gover109 Ivi, f. 12. 110 Ivi, f. 14. 111 Ivi, f. 15.
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no lasciando per un certo periodo il paese «pericolosamente scoperto» nei confronti di possibili pressioni sovietiche. Egli, però, non legava il rapimento Moro a questo contesto, in un rapporto di causa ed effetto; al contrario, la vicenda aveva per il momento mutato i termini del problema e scorgeva una più «esplicita volontà internazionale per garantire la sicurezza e la stabilità italiana, quale che sia la sua formula interna di governo»112. Per fare in modo che negli Stati Uniti non ci fosse sottovalutazione della gravità del caso italiano, Silvestri suggeriva di prendere contatti diretti ai massimi livelli e contestualmente approfondire una parallela azione di contenimento e di consolidamento del quadro internazionale occidentale, facendo perno anche su Francia e Germania (il 7/8 aprile si sarebbe svolto un vertice europeo e Silvestri suggeriva di sfruttare l’occasione)113. Sintetizzando le possibili evoluzioni della situazione, e dando per stabilizzata la posizione internazionale dell’Italia, Silvestri immaginava che le Br avrebbero agito secondo il seguente schema: processo, pubblicizzazione del processo, possibili rivelazioni, possibili ricatti o pressioni su singoli esponenti politici, confessione, condanna ed eventuale trattativa e scambio con liberazione, oppure uccisione dell’ostaggio. A fronte di questo schema, il governo poteva adottare le seguenti strategie: dura/molle, dura, del pollo, del salame e la manovra ad esaurimento. In ogni caso, concludeva Silvestri, le Br con Moro avevano già raggiunto il loro massimo obiettivo e con le azioni seguenti avrebbero solo dimostrato che il loro ostaggio non era di per sé sufficiente ad assicurare loro la vittoria e che la società civile e politica erano più forti. I rapporti con i paesi amici si concretizzarono con l’invio di un agente da parte degli Stati Uniti presso il ministero degli Interni su suggerimento del segretario di Stato americano, Cyrus Vance. Si trattava di Steve Pieczenik, che giunse in Italia due settimane dopo il rapimento con il curriculum di esperto nella gestione di situazioni critiche. Nato all’Havana nel 1943 all’interno di una famiglia di ebrei slavi, era giunto negli Stati Uniti a 8 anni. Dopo brillanti studi intraprese una carriera all’interno dell’Amministrazione statunitense che lo portò a collaborare con i segretari di Stato H. Kissinger, C. Vance e James Baker. Fu proprio nell’ambito di questo ruolo di consigliere che divenne uno specialista in gestione di situazioni di crisi con ostaggi, riuscendo nel 1977 a salvare la vita di Akilleas Kiprianou, figlio dell’allora presidente cipriota Spiros Kiprianou. È noto che tre decenni dopo la fine della vicenda, Pieczenik rilasciò una serie di dichiarazioni raccolte dal giornalista francese Emmanuel Amara in un libro tradotto anche in italiano, che ha provocato l’apertura di un’indagine per concorso in omicidio, visto che vi si sostiene che si preferì sacrificare la vita di Moro per il bene del paese114. A noi, però, interessa quanto prodotto da Pieczenik durante il sequestro e 112 Ivi, f. 17. 113 Ivi, f. 18. 114 Emmanuel Amara, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra, ed. it. a cura
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conservato ora in archivio. A questo scopo, sono due gli atti consultati. Il primo è costituito da «risposte a domande» fatte a Pieczenik da parte italiana. In esse il negoziatore statunitense afferma che lo scopo delle Br era quello di rompere l’unità all’interno della Dc in maniera che venisse dichiarata una situazione di emergenza della quale avrebbe approfittato il Pci per entrare formalmente in un governo. La cosa era pericolosa in quanto «dovrebbe prevedersi una violenta reazione della destra […] che porterebbe alla guerra civile»115. Secondo Pieczenik, al quale era stata fornita una documentazione completa su Moro, l’ostaggio era un uomo di grande esperienza politica, molto capace nel trattare da persona a persona e rinviare «rivincite politiche». Questo lo portava a concludere che le sue lettere non fossero autentiche in quanto le dichiarazioni contenute negli scritti non coincidevano «con il personale tipo di tratto che egli ha nei riguardi dei propri colleghi politici, né con le sue prospettive ideologiche fondamentali». E dunque, «troppo di quanto appare scritto nelle varie lettere risulta già documentato dalle Br precedentemente al rapimento». Egli, dunque, pur contestando l’originalità degli scritti morotei, non metteva in dubbio né il ruolo, né la natura delle Br, escludendo anche un’assistenza internazionale. Sul piano operativo, era importante condurre la stampa italiana sotto un temporaneo controllo governativo attraverso un «pacchetto» quotidiano di notizie al fine di diminuire l’intensità del «caso Moro» e di manovrare una strategia che offrisse al governo la massima flessibilità tattica. Si trattava dello scenario dilatorio ipotizzato da Silvestri, sul quale convergerà il governo dopo alcune settimane. Il secondo scritto che ci interessa è un documento riservatissimo del 28 aprile 1978 redatto direttamente per il ministro Cossiga. Pratico e poco incline ai tatticismi, Pieczenik pensò di offrire una via d’uscita ai rapitori di Moro (passaporti ed espatrio) e una considerevole somma di denaro. Venne chiesto un profilo psicologico dei rapitori noti alle autorità, profilo che in Italia ancora non veniva preso in considerazione come elemento di studio durante una trattativa di quel genere, quindi – praticamente negli stessi termini di Silvestri e Ferracuti – suggerì l’apertura di un canale di trattativa con le Br che avrebbe dovuto godere «dell’assoluto controllo e discrezione delle autorità italiane con interlocutori nettamente identificati da ambedue le parti». Provenendo dalla loro esperienza, gli statunitensi non potevano credere che il prezzo per Moro doveva essere tutto politico e che eventuali trattative dovevano svolgersi, per le Br, al di fuori di canali riservati o addirittura segreti, come avrebbe suggerito lo stesso Moro. Per questo, egli si trovò in imbarazzo e dovette riconoscere l’esistenza di due ostacoli allo svolgimento di quel lavoro: non si era sicudi N. Biondo, Cooper, 2008. Il 30 settembre 2013 in una intervista rilasciata a Gianni Minoli, Pieczenik ha riconfermato il suo ruolo decisivo durante il sequestro, quando sarebbe stato deciso di sacrificare Moro pur di non vedere i comunisti al governo. 115 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 13, Ipotesi sulla strategia e tattica delle Br e ipotesi sulla gestione della crisi (Pieczenik).
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ri dei nomi dei brigatisti che concretamente avevano in mano Moro e dunque non era possibile prevederne le mosse; non si era in possesso, da parte americana, di una serie sufficiente di dossier che illustrassero la genesi e l’evoluzione delle Br quale organizzazione, in modo da poterne prevedere un comportamento di massima. In pratica, l’inviato statunitense era convinto che una previsione oggettiva sulle azioni future dei brigatisti fosse propedeutica allo studio e allo sviluppo di forme di intervento nel presente, in modo da cercare di indirizzare la soluzione del caso verso i desideri del governo italiano, forzando le Br e usandone i punti deboli. D’altro canto, egli non era contento delle analisi elaborate dal ministero dell’Interno, perché sembravano comprendere uno spettro troppo ampio di alternative (praticamente, scrive, «buona parte – se non tutte – [le] opzioni attualmente disponibili alle Br»). Per questo, scrisse di sentirsi riluttante a impegnarsi in speculazioni su un argomento così complesso, ma del quale non aveva a disposizione sufficienti elementi. I commenti potevano avere un valore del tutto generico o, al massimo «apparire solo come suggerimenti». L’inviato di Washington era anche sorpreso dal fatto che le Br, a parte il solo caso di Taviani (di cui si dirà), non avessero sfruttato nei loro Comunicati le ammissioni che eventualmente aveva fatto Moro durante gli interrogatori, in particolare su scandali passati o su membri del suo partito «al fine di indebolire il tessuto politico e istituzionale del Paese». Si doveva infatti presumere, aggiungeva l’agente, che Moro conoscesse dell’affare Lockheed «qualcosa di più di quanto non abbia mai affermato pubblicamente» e probabilmente queste cose erano state chieste all’ostaggio116. Il governo doveva mantenere un deciso atteggiamento di fermezza, senza alcuna concessione, riscatto o negoziato, ottenere il rilascio di Moro, mantenere la propria funzionalità e conservare il controllo dei rapporti con le Br, che andavano isolate politicamente e mediaticamente, non pubblicizzando ulteriormente i Comunicati. Per la famiglia Moro, che andava posta sotto sorveglianza, si doveva dare una certa gradualità alle iniziative intese al rilascio del politico, ma sempre in uno spirito di cooperazione. Se si fosse rifiutata, la si doveva isolare, «mettendo ben in chiaro che […] non si può essere responsabili della salvezza di Moro» senza informazioni complete. La figura di Moro politico andava depotenziata, dimostrando che non era indispensabile all’attività di governo e attraverso la stampa che egli non era responsabile di quanto scritto nelle lettere perché «in effetti, ha subìto un lavaggio del cervello». Sul breve il tempo giocava a favore del governo, in quanto Moro «non ha segreti sulla sicurezza nazionale e può solo denunciare singole persone e un certo andazzo politico». Per le cosiddette «opzioni limitate», Pieczenik indicava quella «militare», ossia trovare le Br ed eliminarle, e l’azione dei servizi segreti «sinora non efficaci». Si dovevano infine usare i brigatisti detenuti come ostaggi, minacciando una conclusione tipo Stammheim ed en116 Ivi, Appunto sulla gestione della crisi, 28 aprile 1978, riservatissimo.
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trare in contatto con l’Olp «affinché dirami una pubblica dichiarazione in condanna dell’operato delle Br e del rapimento di Moro» e di eventuale intermediario o fonte di notizie117. Pieczenik, come detto, si lamentò dell’assenza di studi adeguati sulle Br. Eppure esistevano, tanto che ne rimane ampia traccia in archivio. Resta da capire perché non furono forniti all’analista statunitense, posto che le ragioni potevano essere molte, dalla mancanza di una traduzione alla non reperibilità delle analisi in quel momento, alla scarsa coordinazione tra ministero degli Interni, dove operava l’agente, e carabinieri, che ne erano gli autori. Come i brigatisti impararono a leggere tra le righe del linguaggio democristiano, infatti, le forze dell’ordine si erano impegnate a capire il loro, che per i più appariva molto ideologico e non sempre comprensibile. Gli uomini del nucleo di Dalla Chiesa intrapresero lo studio della lotta armata come fenomeno sociale e ideologico attraverso l’esame dei documenti, dei comunicati e dei volantini di tutte le formazioni armate. In tale contesto vennero analizzati la genesi e l’organizzazione dell’area dell’Autonomia, dove peraltro era facile infiltrare giovani agenti a causa del suo profilo dai contorni indefiniti. Al suo interno, scrissero i carabinieri, «si verifica un’osmosi continua tra il campo d’azione politica e la lotta rivoluzionaria»118. Quindi, passarono ai gruppi più organizzati e compartimentati, dove l’infiltrazione si rivelò problematica oltre il livello di primo contatto. Di questi studiarono le rivendicazioni delle principali azioni eversive. Per ogni documento venne compiuta un’analisi dell’impostazione grafica, dello stile formale e glottologico e dell’aspetto strutturale del contenuto politico, anche in una prospettiva comparativistica. Si riuscì a tracciare i lineamenti strategici e organizzativi delle Br «nei diversi aspetti degli obiettivi, scopi, struttura ordinativa (Direzione strategica, Comitato esecutivo, Fronti, Colonne e Brigate), fonti di finanziamento, reclutamento, mezzi di armamento, criteri operativi, rapporti e collegamenti con altre formazioni terroristiche italiane ed estere»119. I carabinieri, insomma, diedero sempre l’impressione di prendere sul serio il brigatismo come fenomeno reale e non inquinato, al punto da considerare con attenzione tutte le informazioni contenute nelle risoluzioni della Direzione strategica120. Dopo la fine della vicenda, il Sisde redasse una lunga relazione per la prima Commissione Moro, nel corso della quale illustrò in sintesi la propria attività durante i 55 giorni. Il periodo venne diviso in due parti: la prima dal 16 marzo all’8 maggio e la seconda dal 9 maggio in poi. La prima parte di attività era stata caratterizzata, oltre che dall’attivazione immediata di ogni possibile ricerca in Italia e all’estero, dal «rapido affluire nei quadri di situazione delle segnalazioni sui presumibili rapitori e sul presumibile nascondiglio di Moro, dal controllo delle radioemissioni e degli altri mass 117 Ibid. 118 ACS, Caso Moro, CC, B. 5, Appunto del 30 maggio 1980, p. 7. 119 Ivi, pp. 7-8. 120 Ibid.
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media nazionali e internazionali», con il coinvolgimento di tutti gli organi inquirenti ai massimi livelli. Di minor rilievo, però, erano risultate le correnti informative provenienti direttamente dal ministero dell’Interno e dagli organi dipendenti a causa della situazione organizzativa del Sisde «che si veniva configurando come punto di riferimento nell’ambito del citato dicastero»121. Dopo un primo momento di segnalazioni «a tamburo» originate dal particolare stato emotivo della pubblica opinione italiana e internazionale, aveva preso il sopravvento «l’afflusso dei risultati dell’attività di ricerca (notizie e materiale documentario) sia degli organi del Servizio e sia dei servizi esteri, convenientemente e tempestivamente attivati, anche con l’invio di schede di ricercati e di specifici quesiti». A ciò si affiancarono le operazioni di carattere tecnico-scientifico sul materiale reperito, lo studio e l’analisi dei Comunicati brigatisti e delle lettere di Moro, i referti su particolari aspetti di carattere generale. La corrente informativa così attivata presentò un carattere continuativo e fece capo alle strutture centrali del ministero dell’Interno. Furono organizzate una branca raccolta e una branca ricerca. Alla prima si riferirono il quadro di situazione delle segnalazioni pervenute all’Arma, quelle pervenute al ministero degli Esteri, agli Interni, al Sismi e al Sios, le recensioni della stampa italiana ed estera e la raccolta dei reperti dei brigatisti. Alla seconda le attività di controllo delle trasmissioni radio, del traffico marittimo e aereo e una vasta attività di intelligence operata dal Sismi e dagli altri organi inquirenti su possibili trame, complicità e collegamenti internazionali, svolta anche attraverso i servizi collegati «intesi a stabilire contatti con i rapitori, le Br o altri movimenti terroristici per la liberazione di Moro»122. Tutta questa attività di ricerca e l’afflusso delle segnalazioni, però, non aveva permesso di evidenziare concreti riferimenti per l’individuazione della prigione di Moro o dei rapitori «per la genericità o l’infondatezza delle notizie»123.
121 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 B, SISMI, Relazione per l’Inchiesta parlamentare sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, f. 27. 122 Ivi, f. 28. 123 Ivi, f. 29.
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Parte seconda
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Capitolo 1 La protezione di Moro
1.1 Minacce a Moro Tre argomenti riguardanti il caso Moro tra loro collegati sono stati approfonditi dalle varie Commissioni di inchiesta e durante i processi. Si tratta delle eventuali minacce subite da Moro nei mesi e negli anni precedenti il rapimento, di eventuali segnali concreti che annunciarono il rapimento stesso e, infine, se la scorta fosse adeguata alla protezione di Moro. Voci insistenti, per esempio, si sono rincorse su minacce subite da Moro durante gli anni in cui era stato ministro degli Esteri a causa della sua politica di avvicinamento ai comunisti. A parte il fatto che questo «avvicinamento» era cominciato solo dopo le elezioni del 1976 e dunque il motivo di eventuali minacce non può essere anticipato, leggendo le carte disponibili si ha la sensazione che le ricordate paure di Moro non furono altro che una suggestione della sua famiglia. Su queste, infatti, non abbiamo altra fonte al di fuori delle dichiarazioni dei suoi familiari: «[…] è una cosa che rimonta parecchio addietro, direi al 1975», affermò Eleonora Moro in Commissione Moro 1 a una domanda sulle preoccupazioni di Moro. Ma «con precisione non saprei dire quando è cominciato»1. Dunque, l’inizio di queste presunte preoccupazioni non fu legato a un fatto eclatante, tale da rimanere chiaro nella memoria familiare. Tanto che la signora Moro asserì che il marito «da principio credo non avesse preso la cosa in grande considerazione; ma piano piano si è dovuto rendere conto che non era la solita cosa […]». Purtroppo in cosa sia consistita questa minaccia non viene mai chiarito apertis verbis. Si tratta sempre di un sentito dire, di cose dette ma senza sapere da chi, dove e quando. In realtà, dalle parole della moglie si ricava che fosse lei stessa molto preoccupata, e non il contrario: «[…] credo di avergli fatto passare l’estate del ’75, come una delle più terribili della sua vita, creandogli l’inferno perché egli si ritirasse e la smettesse». Sono i familiari a «intrattenere» Moro e Leonardi sulle minacce anonime «anche per vedere che cosa si potesse fare in una situazione così difficile dato che quella che era la scorta, l’assistenza, la protezione erano così inadeguate»2. Secondo la signora 1 Commissione Moro 1, audizione di Eleonora Moro, 1 agosto 1980, vol. 5, p. 1. 2 Ivi, p. 2.
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Moro, Leonardi «diceva quello che succedeva, che lui stesso continuamente riferiva ai suoi superiori e che lo preoccupava, perché era una bravissima persona e faceva il suo servizio con molta dedizione e intelligenza». Come vedremo, in realtà Leonardi non solo non era il capo della scorta di Moro, che invece dipendeva interamente dal ministero degli Interni (per chiarezza, l’auto di scorta era l’Alfetta con i tre agenti di PS a bordo), ma non riferiva ai suoi diretti superiori dell’Arma, anzi, in realtà non sappiamo a chi e se riferisse [cfr. infra]. Quindi, le risposte di Leonardi, se anche furono di questo tenore, appaiono più come un voler tirare dritto, chiudere l’argomento e non proseguire la discussione, che non una vera presa di posizione. La stessa signora Moro affermò che il marito «sempre su mia insistenza» aveva chiesto una protezione maggiore per la sua famiglia negli ultimi mesi prima del rapimento: «credo che solo per farmi stare zitta abbia fatto questa richiesta»3. Inoltre, alle insistenze della moglie su un’auto blindata, «la risposta di mio marito […] fu che gli era stato risposto che mancavano i fondi»4. La richiesta di Moro, però, non risulta agli atti e come vedremo è stata sempre negata dai responsabili della sua sicurezza. Quando la signora Moro affermò che all’epoca delle minacce Moro era ministro degli Esteri (dunque fino al 1974 e non al 1975 come indica la stessa), da parte della Commissione e in particolare da Ugo Pecchioli, che in quel momento stava facendo le domande, nessuno ebbe da eccepire. Anzi, Antonio Lombardo incalzò: «[…] vorrei tornare […] sui particolari delle minacce che, come ha detto la signora, datano dal 1975 e che sono collegate con la linea politica che il Presidente Moro andava perseguendo con lucidità in tempi anche lunghi, ma con molta coerenza e continuità». Alla successiva domanda, la signora Moro rispose con apparente maggiore chiarezza, ma in realtà con la stessa vaghezza precedente: «È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza dirmi il nome della persona […]». La persona, non identificata, avrebbe detto in una lingua straniera, non specificata, durante un incontro, non specificato, e su un argomento, non specificato: «[…] lei deve smettere di perseguire il suo piano politico di portare tutte le forze del suo paese a collaborare direttamente. Qui o lei smette di fare questa cosa o lei la pagherà cara»5. Alla domanda su «la data approssimativa?», la risposta fu ancora meno precisa: «Questo veramente è difficile dirlo perché io non sono una persona che ha molta memoria e poi mi fanno più impressione le cose che non le circostanze […]. Ma non deve essere una cosa, se me la ricordo con tanta precisione, tanto in là». È chiaro che uno storico non può fare alcun ragionamento su queste dichiarazioni, se non quello già impostato rispetto alla loro estrema vaghezza e alla loro sostanziale inutilità per una indagine. Quando Martelli chiese alla signora Moro se fu fatto un 3 Ivi, p. 7. 4 Ivi, p. 10. 5 Ivi, p. 6.
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tentativo di entrare in contatto con i rapitori, la sua risposta fu: «Si è vero: pubblicò una richiesta, un’inserzione in cui qualcuno proponeva, offrì ai brigatisti di farsi tramite per risolvere il problema». Al che Martelli chiede: «Lei non seppe neppure che esito ebbe?». E la signora: «Sì, le persone che avevano scritto questa cosa furono pregate gentilmente di desistere da quello che avevano fatto». «Da chi?» «Non lo so»6. Il problema di eventuali minacce a Moro era stato già posto con forza di fronte ai presidenti Cossiga e Andreotti. Cossiga, all’epoca della sua audizione presidente del Consiglio, ricordò che il «18 febbraio venivano acquisite informazioni da un appartenente a una organizzazione estera di liberazione nazionale, secondo cui sarebbe stata possibile nel prossimo futuro una operazione terroristica di notevole portata. Tale operazione, definita in un incontro fra non identificati esponenti di organizzazioni estremiste, sarebbe stata effettuata nella stessa Europa a cura di elementi europei ed avrebbe potuto coinvolgere anche l’Italia. La presente notizia non è, né potrebbe essere, coperta da alcun segreto e non sarebbe coperta da segreto ancorché la legge permettesse di opporre il segreto. È una notizia di cui io mi permetto di sottolineare la delicatezza alla Commissione, perché io ho voluto essere franco ed ho indicato, anche se genericamente, la fonte della notizia. Però ho ritenuto di doverlo fare per dare un senso alla mia affermazione riguardante notizie di cui non era possibile un’utilizzazione. Peraltro, questa notizia, pur nella sua assoluta genericità, venne elaborata anche insieme ai servizi collegati, però senza che da essa si potesse trarre alcun elemento di utile prevenzione»7.
Le parole di Cossiga trovano conferma nelle fonti disponibili. Il 18 febbraio 1978, infatti, giunse da Beirut al Sismi un messaggio cifrato di una certa importanza, tanto che ne venne informato il vice direttore. Il testo affermava: «Mio abituale interlocutore rappresentante Fplp [Fronte popolare per la liberazione della Palestina] Abbas incontrato stamattina habet vivamente consigliatomi non allontanarmi Beirut in considerazione eventualità dovermi urgentemente contattare per informazioni riguardanti operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei che potrebbero coinvolgere nostro Paese se dovesse essere definito progetto congiunto giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazioni estremiste. Alt. At mie reiterate insistenze per avere maggiori dettagli interlocutore habet assicuratomi che Fplp opererà in attuazione confermati impegni miranti escludere nostro Paese da piani terroristici in genere soggiungendo che mi fornirà soltanto se necessario elementi per eventuali adeguate misure da parte nostra autorità»8. 6 Ivi, p. 43. 7 Commissione Moro 1, Audizione di Francesco Cossiga, 23 maggio 1980, vol. 3, p. 186. 8 ACS, Acsnas-1/direttiva pr/AISE Moro II (marzo 2015) articolazione 1 (div CS CT e COT)/14 Faldone/volume 2, f. 4309, UFFICIO R reparto «D» 1626 segreto. Anche in Ivi, MIGS, b. 16, Sismi, Relazione per l’In-
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Una informativa collegata diceva che «fonte ambiente Fplp habet segnalato possibilità in prossimo futuro operazione terroristica notevole portata in Europa da parte di elementi europei alt tale piano sarebbe concordato in incontro tra organizzazioni estremiste avvenuto giorni decorsi in imprecisato paese europeo alt operazione terroristica potrebbe coinvolgere anche nostro paese alt non disponendo ulteriori dettagli prego attivare per ogni possibile elemento conferma fonti inserite specifici ambienti alt Sisde informato alt»9.
Prima di rilevare a quale riunione si riferissero le informative, come avrebbe scoperto il Sismi dopo il rapimento di Aldo Moro, ci sono alcune considerazioni preliminari da fare, in particolare tre. La prima è la conferma dell’esistenza e della validità di corso del lodo Moro, che escludeva l’Italia come luogo di attentati contro obiettivi israeliani da parte di gruppi palestinesi (con la necessaria tacita reciprocità da parte di Israele)10. In secondo luogo, veniva evidenziata la stretta collaborazione tra servizi italiani e Fplp. Infine, sembra escludersi ogni riferimento all’imminenza di un’azione delle Br in Italia, perché l’interlocutore del Fplp, ossia George Habash, sembrava voler rassicurare il Sismi che l’Italia ne sarebbe stata fuori. Visto il luogo e il gruppo dal quale proveniva l’informativa, il riferimento a un possibile attentato nei confronti di un obiettivo riguardante la situazione mediorientale è alto. Il documento, presentato nel giugno 2016 di fronte alla Commissione Parlamentare sul caso Moro da Marco Clementi, è stato però contestualizzato nella relazione del primo anno di attività come segue: «Sono in corso accertamenti per conoscere maggiori dettagli sulla provenienza del documento e sul seguito che gli venne dato. Sarebbe, in particolare, essenziale sapere se la “fonte 2000” venne poi effettivamente contattata da Habash per informazioni riguardanti l’operazione terroristica definita “di notevole portata”, se furono condotte indagini per accertare quale fosse l’obiettivo dell’operazione, chi fossero i “terroristi europei” intenzionati ad attuare il “progetto congiunto”, in quale sede quest’ultimo fosse stato “discusso […] in Europa da rapchiesta parlamentare sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, f. 64. 9 ACS, Acsnas-1/direttiva pr/AISE Moro II, cit., file 4307, Marconigramma in partenza prima sezione indicazione urgenza DD. Al raggruppamento centri CS Roma a mano ai centri CS tutti loro sedi. Prot. 04/4094/R/1, 181810. Presentato cifra 18 2; trasmesso 20.2 [1978]. 10 Il «Lodo Moro» fu un patto tra italiani e palestinesi concluso nel 1973 a seguito dell’arresto, avvenuto il 5 settembre di quell’anno, di due libici, un siriano, un iracheno e un algerino in possesso di due lanciarazzi terra-aria in procinto di compiere un attentato contro un aereo della compagnia aerea El Al in partenza da Fiumicino. Il 30 ottobre due dei cinque presunti terroristi furono rilasciati e un aereo militare italiano, il Dakota «Argo 16», li avrebbe accompagnati in Libia, mentre gli altri tre, pur condannati per detenzione di armi da guerra, uscirono dal carcere il 1° marzo successivo. Da più parti si sostiene che Argo 16 fu abbattuto nel novembre di quello stesso anno dai servizi segreti israeliani, provocando la morte di 4 agenti.
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presentanti organizzazioni estremiste” e se l’informativa sia mai stata messa in relazione con il caso Moro. È evidente che, se fosse effettivamente dimostrata una relazione con il sequestro di Aldo Moro, il documento in questione aprirebbe prospettive di interpretazione del tutto nuove e, allo stato, imprevedibili»11.
Il contesto in cui il documento venne lavorato dai servizi italiani si trova oggi in una relazione preparata dal Sismi per la prima Commissione Moro, dunque agli atti, relazione presente anche in un faldone dell’Archivio Centrale dello Stato. Si tratta di un documento, come si legge, «elaborato raggruppando episodi e notizie, concernenti le attività del Sismi nella vicenda Moro, con riferimento agli specifici quesiti che risultano posti alla Commissione d’Inchiesta dalla legge 23.11.1979»12.
Nel periodo antecedente alla strage e al rapimento di Moro, agli atti non risulta che il Sismi abbia «mai raccolto elementi che potessero in qualche modo prevedere l’insorgere della vicenda Moro, sia sotto il profilo dell’acquisizione di informazioni su possibili e dirette azioni terroristiche e sia dal punto di vista dell’esistenza di semplici minacce od avvertimenti nei confronti del parlamentare».
In previsione, però, che si potesse ripetere qualcosa di simile a quanto accaduto altrove in occasione della riapertura del processo al cosiddetto nucleo storico delle Br (che sarebbe avvenuta il 9 marzo 1978), il 15 febbraio il servizio aveva allertato tutta la rete informativa nazionale e internazionale e i servizi collegati, chiedendo la comunicazione di ogni elemento in merito a possibili atti terroristici contro obiettivi e persone italiani. Il 18 febbraio «veniva acquisita informazione da un appartenente all’organizzazione palestinese Fplp guidata da George Habbash, secondo cui sarebbe stata possibile nel prossimo futuro un’operazione terroristica di notevole portata. Tale operazione – definita in un incontro tra non identificati elementi di organizzazioni estremiste avvenuto alcuni giorni prima in Europa – sarebbe stata effettuata nella stessa Europa a cura di elementi europei e avrebbe potuto coinvolgere l’Italia»13.
11 Senato della Repubblica, Camera dei Deputati. Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, Proposta di relazione sull’attività svolta, cit., pp. 153-154. 12 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 16, Relazione Sismi su attività svolta. 13 Ivi, p. 3.
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L’informazione, ritenuta generica, veniva trasmessa al Sisde e ai servizi collegati e agli organi periferici del Servizio. Il 10 marzo, «perdurando lo stato di allarme, anche con riguardo alle rappresentanze diplomatiche italiane all’estero, veniva segnalata la ricezione da parte del consolato di Berlino Ovest di una serie di telefonate minacciose, presumibilmente da parte di un individuo con accento veneto, senza peraltro che si potesse giungere alla sua identificazione»14.
Il 15 marzo, dunque alla vigilia del rapimento di Moro, il servizio israeliano comunicava al Sismi, al ministero dell’Interno e a tutti gli organi collegati, che il 1° di quel mese un gruppo di 7 terroristi delle forze speciali di Al Fatah avevano lasciato il Libano per recarsi a Cipro a bordo di un mercantile allo scopo di «distrarre l’attenzione della squadra di Dir Yasin che l’11 marzo ’78 avrebbe poi compiuto l’azione contro il “Country Club” di Tel Aviv e di effettuare un’azione indipendente contro obiettivo sconosciuto»15.
Dopo il rapimento del presidente Moro, il Servizio italiano chiese ulteriori informazioni, in particolare sull’obiettivo sconosciuto «in relazione all’eventualità che la segnalazione potesse avere qualche connessione con il sequestro Moro», mentre nel contempo vennero allertate le forze di sicurezza per cercare un mercantile sospetto nei porti italiani. Il 16 marzo i carabinieri e il SIOS/Marina segnalarono uno scafo sospetto battente bandiera cipriota (la «Unity»), giunto dalla Siria nel porto di Marina di Carrara il primo marzo16. L’equipaggio era composto da un capitano greco, tale Demetrios Georghiou, e cinque marinai, di cui due egiziani, due indiani e un cipriota e si sospettava che la nave avesse «trasportato da Libano at Cipro gruppo terroristico 7-11 elementi per asserita azione in località et contro obiettivi sconosciuti. Da primo detto mancano notizie citato gruppo terroristico che risulta in possesso gommone mare cinque et apparato radio ricetrasmittente. Sisde al corrente»17.
Il 18 marzo, in piena emergenza, i carabinieri trasmettevano un nuovo messaggio 14 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 B, SISMI, Relazione per l’Inchiesta parlamentare sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, f. 1. 15 Ivi, f. 2. 16 ACS, Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, Caso Moro, Sala Operativa, b. 10, Messaggio da Carabinieri Comando SM Operazioni Roma a Carabinieri Legioni OAIO, 16 marzo ore 22.30. 17 Ibid.
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del Sismi in cui si precisava che la nave era giunta in porto il 15 marzo proveniente dalla Siria, che l’equipaggio era formato da 3 greci, 4 egiziani, un indiano e un siriano e che la partenza presunta sarebbe avvenuta il 21 marzo, a carico ultimato (1300 T. di marmo e mattonelle e derivati)18. La nave venne perquisita da elementi dei carabinieri alla presenza di due agenti del Sismi su richiesta della Procura della Repubblica di Massa, ma con esito negativo19. Il servizio svolse accertamenti in Grecia sul capitano Georghiou, senza conseguire riscontri, quindi la nave lasciò l’Italia il 24 diretta a Beirut ma «vane sono state le ricerche per il suo rintraccio, disposte anche tramite il servizio libanese»20. La «Unity» non sembrò essere giunta a destinazione, ma il discorso venne chiuso definitivamente dopo uno scambio con un servizio collegato, presumibilmente libanese, avvenuto il 7 aprile21. Nella stessa relazione del 1980 si parla anche della collaborazione dell’Olp alla ricerca di Moro durante i 55 giorni, collaborazione confermata anche in altri atti del Sismi22. Rappresentanti di Arafat in Italia subito dopo il rapimento segnalarono di «aver appreso da loro quartier generale che commando israeliano troverebbesi in Europa scopo portare attacco terroristico contro imprecisata sede propria organizzazione», ed esprimevano «preoccupazione circa possibilità che detto attacco possa essere condotto contro loro uffici locali»23. I responsabili della sicurezza dell’Olp avevano interessato immediatamente un loro uomo, il cui nome risulta illeggibile, affinché «contatti in serata Omissis per sapere se egli aut qualsiasi altro esponente «Fnlp» Ripeto Fnlp fossero at conoscenza operazione Moro et siano in grado mettersi in contatto con suoi responsabili». In caso affermativo si doveva «immediatamente avvertire detti responsabili che intera resistenza palestinese esige immediato rilascio nota persona et in caso contrario considererà mancato adempimento come atto 18 Ivi, Messaggio in cifra del 18 marzo, ore 11.20, Comando SM operazioni Roma a Legioni OAIO. Il 17 marzo tale Ladu Cipriano, residente a Chiavari, informò i carabinieri di aver ascoltato casualmente una comunicazione dal seguente contenuto: «Gheddafi ha detto così. Per il giorno 16 alle ore 9.00. La nave arriverà il 23 alle ore 21.00 […] Bisogna lavorare tutti e bene, Ormai ci siamo dentro»; ivi, Comunicazione telefonica del comandante della Legione di Genova, Roma, 17 marzo 1978. La denuncia non diede esito. 19 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 11, Doc. 22.3.78. 005, f. 2. 20 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 10, SISMI, Annesso 2, f.n. 04/29561/R/1, f. 1. Il servizio libanese informò il Sismi di incontri avuti a Beirut tra un elemento tedesco occidentale in «possesso falso passaporto olandese», probabilmente appartenente alla Raf, con Abou Abzid, l’uomo di Habash nella seconda metà del gennaio 1978; ivi, b. 11, SISMI, Annesso due al foglio 04/20561/R/1, da Ufficio R a Ufficio S a Ufficio D, nr. 874/060 di 22. Nel frattempo il servizio israeliano informò gli italiani che la nave con i palestinesi si chiamava «Baida». 21 Ivi, f. 6. In ACS, Caso Moro, b. 11, Annesso due al foglio 04/20561/R/1, Questione Moro, f. 6, si richiede l’intervento del servizio libanese in data 28 marzo 1978. 22 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 16, SISMI, Relazione per l’Inchiesta parlamentare, cit., pp. 18-19 e ivi, b. 10, Annesso 2, cit., f. 5. 23 Ivi, b. 11, Marconigramma in Partenza. 1 Sezione. Urgenza DD, Sisde Roma, Comando Generale Arma CC, SM Ufficio operazioni, 18 marzo 1978.
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ostilità suoi confronti sospendendo qualsiasi appoggio et contatto confronti gruppi responsabili. Dovrei essere informato in nottata circa quanto relativo punto uno. Non sono per ora in grado esprimermi circa validità punto due»24.
Dato che non sono noti episodi di attentati in Italia contro rappresentanti palestinesi risalenti a quel periodo, sembrerebbe che l’allarme relativo a formazioni israeliane fosse infondato. Il documento è comunque importante, perché rappresenta ancora una volta il grado di collaborazione tra i servizi italiani e due organizzazioni palestinesi di primissimo piano. Sempre seguendo la pista dell’informativa di febbraio, quello stesso 18 marzo venne nuovamente sentito Habash il quale, «pur affermando non conoscere responsabili operazione Moro, habet sin da prime ore stamattina attivato suoi elementi in Europa Occidentale per avere notizie riguardo, incaricandoli comunicare nome suo et Omissis quanto citato».
Lo scrivente, però, non era in grado di esprimersi su «validità impegno Omissis et ubbidienza suoi periferici». Il 29 marzo da Beirut veniva comunicato che il responsabile del dipartimento politico dell’Olp F¯a r¯uq al-Qadd¯umi aveva chiesto di far pervenire a Cossiga l’assicurazione palestinese circa la ricerca di notizie tramite qualsiasi militante dell’organizzazione eventualmente in contatto con le Br e con altri gruppi della lotta armata25. Oltre che con i palestinesi, il lavoro di intelligence del Sismi diede i suoi frutti in altra direzione. Il 20 aprile, infatti, giunsero le informative chiarificatrici relative alla riunione antecedente il 18 febbraio 1978. La fonte era un ex appartenente ai servizi di sicurezza del Venezuela, che parlò di due riunioni segrete, entrambe organizzate dalla Giunta di Coordinazione Rivoluzionaria (Jcr)26. Una, si diceva, si era svolta nel gennaio 1978 a Madrid con la partecipazione di rappresentanti di gruppi armati cileni (Mir), argentini (Montoneros), l’Eln boliviano, i Tupamaros uruguaiani, la Bandera Roja e la Liga Socialista venezuelane, rivoluzionari di sinistra di Colombia, Repubblica Domenicana, Portorico, Usa, Repubblica Federale Tedesca, Giappone, Singapore, guerriglieri palestinesi di Habash, il Pcte Spagnolo, il Prp francese e Lotta continua27. Nel febbraio dello stesso anno, ci informano i Servizi, aveva avuto luogo una seconda riunione segreta, questa volta a Parigi, nel corso della quale la Junta de Coordinacion Revolucionaria era stata strutturata in raggruppamenti regionali dei movimenti aderenti: una sezione latino-americana comprendente Argentina, Brasi24 Ivi, b. 11, Da Ufficio «R» at capo Reparto «R-S» n. 536/060 di 18.3.1978. 25 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 16, SISMI. Relazione per l’inchiesta parlamentare sulla strage di via Fani sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, f. 44. 26 Ivi, ff. 21-22. 27 Lotta continua, lo si è detto, si era sciolta nel 1976.
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le, Cile, Uruguay, Bolivia, Venezuela e Colombia; una Iberica con Spagna e Portogallo; una sezione europea comprendente Germania Federale, Francia e Italia; una del Nord America (Usa e Messico) e una sezione Asiatica con Giappone, Singapore e Corea del Sud. Nel corso della riunione, come aveva riferito la fonte, era stata decisa «la finalizzazione di un piano per il trafugamento di equipaggiamento altamente sofisticato (armi portatili, laser con congegni di mira di nuovo tipo ecc.); l’esecuzione di azione clamorosa contro un’eminente personalità politica dell’Europa Occidentale, non riferita – si sottolineava con forza – all’on. Moro, come da recente precisazione della fonte».
A nostro giudizio, si tratta esattamente del chiarimento rispetto al documento del 18 febbraio, dove si raccontava della recente riunione di gruppi armati europei. Nella riunione parigina si era anche deciso di creare una centrale in Europa per la produzione di documenti di identificazione falsi, l’addestramento dei guerriglieri in campi angolani da parte dei cubani, l’incremento della lotta armata, soprattutto in Argentina, Brasile e Cile e convocare una nuova riunione in Svezia28. Sulla Junta aveva indagato il Sisde, come si legge in un Appunto del 1980: «È del resto noto che Parigi da tempo era luogo di incontri e di contatti tra esponenti dei diversi movimenti rivoluzionari latino-americani (Erp argentino, Mir cileno…) e meritava quindi di essere considerata la base europea della Junta di Coordinacion Revoluzionaria (Jcr) con sede principale all’Avana»29.
Studi specifici sull’organizzazione indicano che già alla fine del 1977 la Junta aveva trasferito il suo Comitato Esecutivo dall’Europa in Messico, cosa che anziché segnare un punto di forza, «pareciò ser el resultado inevitable del su progresivo desmembramiento», tanto che a partire dal 1978 «en el marco e los conflictos internos del Erp, la Jcr también pereciò desaperecer»30. Della Junta si fa cenno anche in un documento dell’Ucigos del 1979, dove si legge che nel gennaio-febbraio 1978 si era svolta a Madrid e Parigi una «riunione della Junta de Coordinacion Revolucionaria» alla quale avevano partecipato Lc, Monteneros, Erp, Tupamaros, Mir cileno, Fln boliviano, Bandiera Roja, Liga Socialista Venezuelana, Polisario Marocchino, Pcte spagnolo e 28 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 11, Annesso due al foglio 04/20561/R/1, f. 230. Attività di movimenti rivoluzionari, 2 ff. In tale contesto si parlò anche di un’attività nel Golfo Persico che, tenne a precisare il Sismi, non aveva alcuna connessione con il rapimento di Moro; ivi, Da Ufficio R a Ufficio S a Reparto D nr. 05/884/060 di 23. 29 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 A, faldone 5, SISDE, Appunto, Pretese interferenze straniere nel terrorismo italiano, 1980, f. 2. 30 Aldo Marchesi, Geografias de la protesta armada: nueva izquierda y latino americanismo en el cono sur, in «Sociohistorica», 25, primo semestre 2009, p. 63.
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Prp francese. Alla fine della riunione era stata costituita una Sezione Europea che comprendeva Italia, Germania e Francia31. La collaborazione con i palestinesi, evidentemente preoccupati per la sorte di Moro, garante, se non addirittura «padre» dell’accordo che escludeva l’Italia come luogo di operazioni cruente di terrorismo internazionale a patto di farne ambito di intervento logistico, continuò. Il 16 aprile Abu Howl, che teneva i contatti tra Olp e servizi italiani e dirigeva le operazioni di intelligence palestinese sul caso Moro32, affermò che il loro rappresentante romano stava attivamente ricercando la prigione, ma solo due giorni dopo, il 18 aprile, tutti i contatti palestinesi del Sismi dichiararono, con riferimento al luogo di detenzione di Moro, che «da ricerche effettuate era emerso che nessun componente dell’organizzazione era in grado di dare un contributo al riguardo»33. Per i rapporti con il mondo palestinese, esistevano «sufficienti elementi di riscontro circa una collaborazione, a livello di supporto logistico, tra organizzazioni palestinesi e gruppi eversivi italiani», che si limitano, però, a due personaggi, Oreste Strano e Rita Porena, segnalati come possibili collegamenti che non coinvolsero, eventualmente, le Br34. A proposito del «terrorismo internazionale» e in particolare della galassia palestinese, abbiamo ritrovato un interessantissimo documento redatto dall’Ucigos nel 1979, il già citato Note sulla genesi e sugli sviluppi del terrorismo internazionale in Italia35. Si tratta di un fascicolo di 79 pagine che si apre con una nota del seguente tenore: «Per l’indisponibilità di documenti atti a suffragare collegamenti con movimenti operanti in Italia, nel testo mancano riferimenti ad alcune organizzazioni terroristiche pur note a livelli internazionali». Nella premessa, dopo aver posto il 1968 come anno di svolta per la generazione studentesca che, dopo la «contestazione globale», era stata penetrata «da un’ansia di rivoluzione», si dava la misura dei collegamenti internazionali della lotta armata, sulla base di documentazione proveniente dalla Cia. La «catena delle alleanze è formata da gruppi di ogni parte del mondo e […] ne comprende una cinquantina. Gli anelli più grossi sono i palestinesi, i tedeschi e i giapponesi, ma intorno ad essi proliferano gruppi di varia natura e nazionalità, costituendo così una “internazionale” del terrorismo». 31 Archivio Clementi, UCIGOS, Note sulla genesi e sugli sviluppi del terrorismo internazionale in Italia, 1979, f. 49. 32 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 B, SISMI, Relazione per l’Inchiesta parlamentare sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, f. 12. 33 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 16, SISMI, Relazione per l’Inchiesta parlamentare, cit., pp. 18-19. 34 ACS, MIGS, b. 5, I collegamenti internazionali, cit., f. 13. Di Porena il servizio scrive: «collaboratrice del FLPL, avrebbe partecipato ad un corso di addestramento alla guerriglia nel 1975 a Beirut. Coinvolta nelle indagini dell’attentato all’oleodotto di Trieste e sposata con un esponente di rilievo del FPLP, si è prestata, in varie occasioni, al trasporto di armi in Paesi europei»; ibid. Sulla vicenda si segnala il libro di Bassam AbuSharif e Uzi Mahnaimi, Il mio miglior nemico. Israele-Palestina. Dal terrore alla pace, Sellerio, Palermo 1996. 35 Archivio Clementi, UCIGOS, Note sulla genesi e sugli sviluppi del terrorismo internazionale in Italia, cit.
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I legami più saldi erano quelli tra palestinesi e gruppi tedeschi occidentali, ossia la Raf e la 2 Giugno, anche se non andava «disattesa la collaborazione dei gruppi terroristici italiani». Il «terrorismo internazionale», però, parlava in «lingua araba»36. In particolare, in Italia dopo la guerra dei sei giorni del 1967 erano affluiti centinaia di studenti provenienti dalla Palestina, «molti dei quali sono agenti di Al Fatah – Fplp». In breve tempo l’Italia divenne «base preferita dei terroristi palestinesi e non è un caso che proprio da Roma parta l’aereo del primo dirottamento palestinese» ai danni di un volo El Al, avvenuto il 23 luglio 196837. La posizione geografica italiana nel Mediterraneo, «la instabilità politica, il movimento turistico, la insufficienza di controlli rendono l’Italia meta ambita per i gruppi terroristici e per i servizi segreti di altri paesi». L’Università di Perugia, in particolare, è frequentata da circa mille arabi che danno vita a numerose organizzazioni e intessono rapporti con gruppi sovversivi vicini alla causa palestinese tra cui vengono ricordati i Gap di Feltrinelli, in contatto con Habash38. Dopo il 1972 si nota un certo incremento di studenti arabi anche nel triangolo Pavia-Parma-Modena e nelle sedi universitarie di Pisa, Siena, Padova, Bologna e, infine, Roma. La «situazione politica italiana [in questo periodo, lo ricordiamo, Moro è ministro degli Esteri] ben si presta alla riuscita di iniziative tendenti a creare una fitta rete di collegamenti e dal 1972 al 1973 si assiste ad un proliferare di azioni terroristiche», tra cui l’arresto di due arabi intenzionati a colpire un aereo ElAl e la strage di Fiumicino del dicembre 1973, che si concluse con la morte di 34 persone. La politica dei governi italiani, allora, fu «ispirata a non irritare i regimi arabi affinché non attuassero misure di rappresaglia in campo economico. Lo scotto di questo vantaggio è stato tuttavia pagato in termini di insicurezza nazionale». Dopo la premessa, la parte più corposa del documento riguarda il tentativo di ricostruire gli organigrammi di tutte le organizzazioni palestinesi note. Per quanto riguarda il Fplp, che interessa il nostro discorso, si legge che aveva avuto origine dal Movimento Nazionalista Arabo, creato in Siria da Habash nel 1951, e si era formalizzato nel 1967 36 Ivi, ff. 3-4. 37 La soluzione del dirottamento, che si concluse ad Algeri con la liberazione degli ostaggi avvenuta il 31 agosto, coinvolse Italia, Algeria, Israele e la Croce Rossa internazionale. La base negoziale fu costituita da protocollo firmato il 6 agosto 1968 tra gli altri dal ministro degli Esteri italiano e dal Direttore generale degli Affari Economici del ministero degli Esteri israeliano [in carica c’era il secondo governo Leone]. L’accordo prevedeva la liberazione di un certo numero di palestinesi detenuti in Israele «for spionage or illegal infiltration activities». Si può ipotizzare che esso abbia fatto da modello per il successivo lodo Moro ed è difficile pensare che Moro non abbia saputo dell’accordo, anche per il sia pur generico riferimento all’operato di altri governi nello scambio degli ostaggi che fa nelle lettere dalla prigionia. La Guerra dei sei giorni era finita l’anno prima e poco dopo, nel 1969, ci sarebbe stata la rivoluzione verde di Gheddafi. In quel momento l’Algeria era isolata e il dirottamento divenne un’occasione da parte italiana per dispiegare una nuova strategia diplomatica che divenne il perno della politica internazionale morotea; UN Secretariat Item Scan n. S-0861-0002-04-0001. Items-in-Peace-keeping operations-Middle East-corrispondance with Algeria. 38 Archivio Clementi, UCIGOS, Note sulla genesi e sugli sviluppi del terrorismo internazionale in Italia, cit., ff. 4-6.
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grazie all’ingresso di altri elementi di particolare estremismo. Si pose alla sinistra di Al Fatah, che considera troppo moderato, e contava di circa 800 uomini. Dopo Habash la leadership sarebbe stata presa da Wadi Haddad, che fu l’ispiratore dell’attacco all’Opec a Vienna nel 1975, sostituito quindi da Salim Abu Salem. Altri esponenti di rilievo dell’organizzazione erano Naysir Qubaa, Mohamed Hammouda, Salah Salah, Ali Yusuf Hassan Quban, Nabil Musa Awat, Aduan Rafiq Barkawi, Raouf Abdel Hadi Chanamah e altri39. Non una parola, o un accenno, viene fatto al Lodo Moro e, anzi, il ruolo di Habash, che sappiamo essere rimasto a capo del Fplp fino al 1992, quando dovette ritirarsi a causa di una malattia, è molto ridimensionato. Purtroppo, non è chiaro a chi fosse destinato lo studio e dunque non possiamo trarre indicazioni maggiori. In appendice, comunque, sono riportate le azioni principali compiute dalle organizzazioni palestinesi a livello internazionale. La prima del 1978 è proprio del 18 febbraio, il giorno dell’informativa da Beirut, e si era svolta a Nicosia, dove all’Hilton due palestinesi dell’ Fplp avevano ucciso il direttore del quotidiano egiziano «Al Ahram», Yussef El Sebai, amico e consigliere del presidente egiziano Sadat, impegnato nelle trattative di pace con Israele. Si tratta della prima azione del cosiddetto «Fronte del rifiuto», ossia dell’alleanza di alcuni gruppi palestinesi intenzionati a sabotare con ogni mezzo la nuova politica del Cairo. Dopo un intervallo di parecchi mesi, il 20 maggio in Francia, all’aeroporto di Orly, un commando sparò contro i passeggeri di un volo El-Al in attesa di imbarcarsi40. Nessun accenno viene fatto alla vicenda Moro. Dalle conclusioni si comprende che il redattore o i redattori del lungo documento non erano al corrente di alcun accordo tra Italia e Palestinesi e la responsabilità per la libera circolazione di elementi più che sospetti nella Penisola venne data a una non meglio chiarita «permissività» accordata loro. Tale permissività avrebbe «alimentato il convincimento che l’Italia si presta ad ogni iniziativa diretta o indiretta nel quadro di rivendicazioni di parte spesso confuse e non sorrette da motivazioni minimante condivisibili»41. Nella ricordata relazione del Sismi del 1980 si parla in modo approfondito anche della eventualità che prima del suo rapimento Moro avesse ricevuto minacce o avvertimenti diretti a fargli abbandonare l’attività politica. Come abbiamo già detto si tratta di suggestioni, provenienti soprattutto dalla famiglia, che non hanno trovato un riscontro oggettivo negli atti della prima Commissione di inchiesta, anche sulla base delle indagini del Sismi. Secondo l’intelligence militare, infatti, «per questo obiettivo d’indagine si conferma che, nel periodo precedente la strage di via Fani, il Servizio non è mai giunto a conoscenza di alcun particolare». L’unico episodio di rilievo sarebbe stato un presunto pedinamento ai danni dell’auto di Moro di fronte al suo stu39 Ivi, ff. 35-38. 40 Ivi, f. 59. 41 Ivi, f. 78.
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dio in via Savoia, sotto agli occhi di Leonardi, quando però nella macchina non c’era il presidente, bensì il direttore del «Corriere della Sera» Franco Di Bella, e una segnalazione su non meglio precisati «studenti universitari» fatta a Predazzo, dove la famiglia Moro andava in vacanza42. In realtà gli episodi legati allo studio di Moro avvenuti tra il 1977 e il 1978 sono tre. Sull’episodio che aveva interessato il Di Bella, nel 1980 gli inquirenti chiarirono quanto segue: nella tarda mattinata del 23 novembre 1977 la scorta del direttore del «Corriere della Sera» notò «transitare una moto di grossa cilindrata con due individui a bordo di cui venne parzialmente rilevato il numero di targa». È lecito chiedersi per quale motivo venne preso quel numero; il fatto è che, sempre secondo quanto riportato dalla Direzione generale di Ps, «qualcuno degli uomini della scorta aveva riportato l’impressione che una delle due persone che si trovava sulla moto potesse essere armata». Come si vede, la vaghezza dell’episodio è tale che diventa difficile prenderlo in grande considerazione. Anzi, il Di Bella aveva precisato ai funzionari della Digos di non aver visto alcuna pistola in mano all’unico motociclista (dunque, senza passeggero) «ma che l’autista e uno degli uomini di scorta avevano visto luccicare qualche cosa che poteva essere un’arma»43. Le indagini consentirono di identificare il proprietario della moto, tale Umberto Liberati, pregiudicato per reati contro il patrimonio. Gli investigatori, «pur ritenendo che l’episodio in argomento non fosse ricollegabile a ipotesi di natura terroristica, nel luglio del 1978 perquisirono la casa del Liberati stesso, senza trovare nulla di rilevante44. Uno dei più stretti collaboratori di Moro, Nicola Rana, di fronte alla prima Commissione parlamentare d’inchiesta disse che rispetto all’episodio Di Bella il presidente «non mi parve particolarmente preoccupato perché, intanto, non me lo disse e se io avessi capito in lui un motivo di preoccupazione avrei fatto qualcosa per tranquillizzare lui, ma anche per me». Nella stessa occasione dichiarò che Moro aveva ottimi rapporti con il capo della polizia e il generale comandante dell’Arma, e che nulla di quanto aveva chiesto gli era mai stato negato45. Un secondo episodio fu il tentativo di furto avvenuto la sera del 27 maggio 1977, quando qualcuno tentò di penetrare nello studio di via Savoia, sito al primo piano dello stabile, forzando una persiana. Lo scasso non fu portato a termine per l’intervento di un vicino46. Il fatto venne denunciato alla Procura della Repubblica di Roma 42 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 16, SISMI, Relazione per l’Inchiesta parlamentare, cit., pp. 10-11. 43 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 B, Ministero dell’Interno, DGPS, 555/80, Sequestro ed uccisione dell’on. Aldo Moro e della sua scorta, al Gabinetto dell’on. Ministro, f.to il capo della Polizia, Il caso Di Bella, Roma 11 giugno 1980. 44 ACS, Caso Moro, MIGS b. 4, MI, DGPS, rif. 3039, Roma, 20 settembre 1980, Riservato doppia busta, al gabinetto dell’on. ministro, Segreteria speciale, cit., ff. 5-6. 45 Commissione Moro 1, Audizione del dott. Nicola Rana, vol. 5, p. 282. 46 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 B, Ministero dell’Interno, DGPS, 555/80, Sequestro ed uccisione dell’on. Aldo Moro e della sua scorta, al Gabinetto dell’on. Ministro, f.to il capo della Polizia, Tentativo di furto nello studio di Moro, Roma 11 giugno 1980.
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ma le «relative indagini diedero esisto negativo»47. Nella circostanza venne comunque appurato che diversi inquilini dello stabile avevano subìto nel passato furti in appartamento48. Il terzo episodio è riconducibile al 4 febbraio 1978 quando nei pressi dello studio fu notata un’autovettura sospetta. L’auto risultò intestata a Maria Grazia D’Amico, convivente con Franco Moreno e in uso a quest’ultimo. Il telefono della coppia venne messo sotto controllo «ma non furono raccolti elementi che potessero concretizzare qualche fattispecie di reato». Dopo la strage di via Fani, il 17 marzo, la casa venne perquisita e il Moreno fermato, ma fu scarcerato per mancanza di indizi il giorno 20 su ordine del sostituto procuratore Infelisi49. L’allora capo della Polizia Parlato ricordò, come segue, non solo l’episodio, ma anche l’incontro con Rana, svoltosi nei giorni immediatamente precedenti il 16 marzo: la questione Moreno «non dette agli inquirenti la sensazione che ci fosse qualcosa di losco. Comunque, fu riferito alla Magistratura e fu redatto un rapportino. Siamo già ai primi di marzo […] più volte c’eravamo sentiti con il dottor Rana, per più volte intendo una o due volte, nel senso che lo avevo tenuto al corrente delle indagini. Questo dimostra con quale cura e attenzione veniva seguito questo episodio che si era verificato in via Savoia. Nell’occasione al dottor Rana io dissi che sarei passato da lui dal momento che dovevo andare da quelle parti. Non vi era nulla di eccezionale al riguardo anche se fosse venuto lui, ma io dovevo andare in quella zona e dissi che nell’occasione mi veniva più facile perché era lungo la strada. Ora, non so se il 14 o 15 marzo, andai allo studio dell’on. Moro dove parlai con il dottor Rana, e solo con il dottor Rana, anche per dire come andarono le cose. Era infatti un fatto che era rimasto ancora incompleto nella indagine che era stata fatta e fu in quella circostanza che con il dottor Rana parlammo di un’eventuale vigilanza a via Savoia; durante la permanenza dell’on. Moro nello studio di via Savoia c’era la scorta, ma quando andava via non c’era nessuno, rimaneva il personale di segreteria. Allora, in quell’occasione si disse che era opportuno che ci fosse qualcuno anche in assenza dell’on. Moro»50. 47 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 5, MI DGPS, 224/32549/III/101/R, Roma 13 settembre 1980, Al gabinetto dell’on.le ministro, Riservato. 48ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 B, Ministero dell’Interno, DGPS, 555/80, Sequestro ed uccisione dell’on. Aldo Moro e della sua scorta, al Gabinetto dell’on. Ministro, f.to il capo della Polizia. Tentativo di furto nello studio di Moro, Roma 11 giugno 1980. Agli atti risultava una relazione di servizio e due note della Sala operativa e un intervento della Criminalpol e due copie del rapporto giudiziario dell’8 luglio e del 28 settembre 1977. 49 Ivi, f. 3. Gli atti relativi ai tre episodi sono per il tentato furto il n. 5001-A/1185 del Gab. Reg. Pol. Scient. del 23 settembre 1977 e il 123/7208-Sez. I. Giud. in data 7 ottobre 1977 della Criminalpol; per l’episodio Di Bella, un appunto in data 25 luglio 1978 diretto al Sig. Questore, il rapp. cat. A4/DIGOS in data 27 luglio 1978 con allegata relazione Grd. Cipollone e il n. 050714/DIGOS del 26 agosto 1978. Per il caso Moreno il rapporto giudiz. della Squadra mobile n. 55/5 del 13 marzo 1978, un appunto del 14 marzo sull’auto intestata a D’Amico Maria Grazia, la lett. cat. A1/bis-DIGOS del 17 marzo e la 050714/DIGOS del 18 marzo 1978 con allegati. 50 Commissione Moro 1, Audizione di Giuseppe Parlato, 20 giugno 1980, vol. 3, p. 345.
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La vigilanza eventuale su via Savoia, dunque, riguardava lo studio quando non c’era Moro ed era una protezione delle carte e dei valori di Moro e non della sua persona. Sulle eventuali minacce o paure di Moro si espresse anche Giulio Andreotti di fronte alla prima Commissione, dichiarando durante l’audizione del 23 maggio 1980: «Nessuna notizia che potesse fare sospettare un episodio del genere era stata captata o trasmessa non solo a me ma anche ai Ministri con i quali ci consultammo nel periodo precedente a questo tremendo avvenimento. Lo stesso Moro con il quale nelle ultime settimane ed anche negli ultimissimi giorni, fino alla notte precedente, non quella tra il 15 e il 16, ma quella tra il 14 ed il 15, eravamo stati molto a contatto per la risoluzione della crisi, per la elaborazione dei programmi di governo, mai mi aveva fatto cenno a timori “personali” o a minacce “personali” che avesse ricevuto»51.
E prosegue: «Quando, purtroppo dopo la morte, vi fu una dichiarazione durante una celebrazione religiosa a Bari da parte di un vescovo, monsignor Mincuzzi, secondo la quale Moro gli aveva riferito di aver ricevuto qualche invito ad abbandonare la vita politica, si è trattato per me di una sorpresa tanto è vero che dissi ai magistrati che era bene approfondire la cosa»52.
Da quello che risultava ad Andreotti «e da quello che accertai allora (perché si fecero alcune polemiche sul fatto che a Moro non fosse stata data una macchina blindata), nessuna richiesta era stata fatta da Moro stesso. Come ripeto – prosegue il presidente – se avesse voluto mantenere l’uso della sua macchina, sarebbe stata la cosa più semplice, dato che ai Presidenti del Consiglio, quando lasciano il loro incarico, viene lasciata dallo Stato una macchina; sarebbe stata, ripeto, la cosa più semplice quella di mantenere la macchina blindata, ove Moro avesse manifestato questo desiderio. Né, del resto, Moro dandomi le consegne qualche giorno prima mi aveva richiesto di continuare ad usare la macchina blindata che egli usava come Presidente del Consiglio e che io non ho usato che dopo il 16 marzo in quanto il mio autista considerava troppo scomoda e pesante nella guida questa vettura particolare; il che, in fondo, è un indice della non sensazione di pericolo imminente che prima del fatto Moro noi avessimo nei nostri confronti anche se, certamente, sapevamo che, esistendo un’attività terroristica, non vi fosse una presunzione pacifica di tranquillità nei confronti di ciascuno di noi». 51 Ivi, Audizione di Giulio Andreotti, 23 maggio 1980, p. 140. 52 Ivi, p. 141. Come si vedrà nella terza parte, capitolo 3, la sera del 15 marzo Moro tirò fino a tardi impegnato nel varo del nuovo governo Andreotti di solidarietà nazionale, come racconta Tullio Ancora, il che dimostra che non aveva preoccupazioni di altra natura, se non politiche, legate ad allarmi per la sua persona.
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A Moro, conclude Andreotti, «uscito da Palazzo Chigi, era stata data la scorta usuale e […] qualche tempo prima, dietro sua richiesta, era stata data una certa protezione ai suoi familiari, perché credo che temesse in modo particolare nei confronti del nipotino qualche possibile azione di sequestro collegata a fatti politici o eventualmente (dato che vi erano stati anche sequestri di bambini) anche di altra natura»53.
Poco dopo la morte di Moro, a seguito di notizie pubblicate sulla stampa, anche l’Arma indagò su possibili richieste di rafforzare la scorta del presidente venute da parte del maresciallo Leonardi. Il 10 giugno 1978 il Comandante Generale dell’Arma, Pietro Corsini, comunicò al ministro della Difesa che «le notizie in argomento sono prive di qualsiasi fondamento, in quanto nessuna richiesta in tal senso è mai stata inoltrata ai superiori gerarchici da parte del sottufficiale»54. All’epoca, le macchine blindate a disposizione delle istituzioni italiane erano 30: 3 presso l’autoparco statale per impieghi urgenti e imprevisti, 3 assegnate al ministro dell’Interno, 2 alla presidenza della Repubblica, 2 al capo della polizia, 2 all’ispettorato di Ps presso il Viminale per i servizi di scorta, 5 all’Ucigos, 2 al Sisde, 4 alla Questura di Roma, 1 a quella di Torino, 1 a quella di Milano, 1 al sottosegretario on. Darida, 1 al sottosegretario on. Lettieri, 1 al prefetto di Roma, 1 al ministero delle Poste e l’ultima a quello del Turismo55. Il generale Corsini fece un’indagine interna sulla questione: «Ho fatto un telegramma circolare a tutti i possibili suoi superiori così concepito: prego comunicare se a qualcuno di lor signori è stato chiesto qualche cosa in proposito. Zero completo: c’è la risposta scritta, quindi non ci possono essere dubbi»56.
La scorta automontata di Moro era composta da tre poliziotti che si alternavano, più i due carabinieri, l’autista Ricci e il maresciallo Leonardi, che erano con Moro da anni, dai tempi del governo del 1963, e che erano rimasti anche dopo che il presidente 53 Ivi, p. 141. 54 ACS, Caso Moro, Carabinieri, Sala Operativa, cit., b. 9, Comando Generale dell’Arma, 22142/95-3 di prot. P., Al signor ministro della Difesa, Roma, 10 giugno 1978. 55 ACS, caso Moro, MIGS b. 4, MI, DGPS, rif. 3039, Roma, 20 settembre 1980, Riservato doppia busta, al gabinetto dell’on. ministro, Segreteria speciale, ff. 4-5. 56 Commissione Moro 1, Audizione di Pietro Corsini, 20 giugno 1980, vol. 3, p. 414. Corsini, riferendosi al ruolo di Leonardi, nel corso della stessa audizione disse in tono un po’ polemico: «Se il maresciallo Leonardi avesse commesso un errore o una mancanza, chi sarebbe intervenuto per dire che aveva sbagliato? Non lo so. A questo punto si dovrebbe inserire un altro discorso, che cioè cessate certe cariche bisogna anche rivedere certe posizioni di tutti gli uomini. Certo, questo è un discorso un po’ delicato, ma bisognerebbe poterlo fare, perché se ciascuno, quando va via si porta appresso il suo fido, noi restiamo in 23 dato che i Governi cambiano così spesso!»; ibid.
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aveva lasciato l’incarico a Palazzo Chigi. Formalmente, però, i due militari non facevano parte della scorta e Leonardi, come erroneamente è stato spesso ricordato, non era il capo scorta, sebbene il ministero degli Interni non interferisse sugli equilibri che si erano formati. Inoltre, era attivo un posto fisso di vigilanza h24 presso l’abitazione dell’onorevole con due poliziotti su quattro turni. In tutto, circa 30 persone si occupavano della sicurezza di Moro e della sua famiglia, un numero che nessun altro politico italiano poteva vantare allora57, come venne detto anche da Cossiga di fronte alla Commissione Moro nel 198058. A proposito di Zizzi, il capo scorta che aveva sostituito il brigadiere Rocco Gentiluomo, in congedo, si legge a nome del ministro Rognoni: che era un «elemento che aveva dato prova di ottime qualità professionali. […] già esperto del servizio, [che] il giorno precedente, all’uopo convocato, ricevette oltre alle consegne ed istruzioni scritte, anche istruzione verbali più dettagliate dal Vice Dirigente dell’Ispettorato, dott. Tombolini, il quale dal colloquio ebbe conferma che lo Zizzi era pienamente in grado di assolvere l’incarico affidatogli, da lui del resto sollecitato ed accolto con entusiasmo»59.
L’attuazione dei servizi di protezione era regolamentata da un opuscolo dell’Ispettorato generale di Ps del Viminale del gennaio 1978 redatto dal prefetto Guido Zecca, che dirigeva il servizio e che aveva deciso di rinnovare le modalità di scorta dopo il sequestro Schleyer in Germania. Nel frontespizio si legge che, pur non avendo la pretesa di esaurire il problema, che a causa della sua complessità non si prestava a soluzioni schematiche, «la fedele osservazione delle norme ed istruzioni di cui trattasi può, tuttavia, riuscire di valido ausilio ai militari impegnati nello speciale servizio, perché riduce la eventualità di un attacco a sorpresa e pone gli stessi militari in condizioni di agire o di reagire con prontezza»60.
Per quanto riguardava il servizio di scorta, l’auto doveva avere due o tre uomini oltre all’autista. Il capo scorta doveva prendere posto sull’automezzo in servizio scorta che seguiva quello della personalità (nel caso di Moro, l’Alfetta). Le auto impegnate erano collegate via radio con la centrale operativa e tra di loro erano in contatto con un apparecchio telefonico. Il capo scorta prima di ogni partenza doveva raccogliere dal funzionario di turno o dalla centrale operativa le notizie circa la percorribilità degli 57 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 4, MI, DGPS, rif. 3039, Roma, 20 settembre 1980, Riservato doppia busta, al gabinetto dell’on. ministro, Segreteria speciale, cit., f. 9. 58 Commissione Moro 1, Audizione di F. Cossiga, vol. 3, cit., p. 188. 59 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 5, Roma, 7 novembre 1980, quesito n. 17, f.to Rognoni. 60 Ministero dell’Interno, Modalità di attuazione dei servizi di protezione (scorta e tutela delle abitazioni), Roma, 24 gennaio 1978, p. 2.
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itinerari «anche in relazione allo stato dell’Ordine Pubblico». Gli itinerari percorsi dalle personalità, cosa molto importante per il nostro discorso, «vengono predisposti dall’ispettorato e sono numerati per consentire il rapido passaggio dall’uno all’altro». In dotazione dell’auto scorta c’era una pistola mitragliatrice «Beretta» modello 12 cal. 9 lungo di cui era responsabile il capo scorta, mentre gli altri militari indossavano normalmente una Beretta cal. 9 lungo modello 32S a doppia azione. Le armi in dotazione andavano tenute «in modo non appariscente, ma pronte all’impiego (cariche e in posizione di sicura)». Ovviamente, era da evitare che tra l’auto della personalità e quella di scorta si potessero inserire altri veicoli, mentre particolare attenzione doveva essere posta agli automezzi «che si affiancano, ovvero che tentino di tagliare la strada, nonché a quelli che seguano o precedano, per un tempo piuttosto lungo, l’auto della personalità»61. Per quanto concerneva le norme di comportamento generali, gli uomini di scorta erano tenuti a «perfezionare continuamente la loro preparazione tecnico-professionale, frequentando diligentemente i corsi di addestramento […] per essere in grado di affrontare con la dovuta prontezza qualsiasi eventualità, senza lasciarsi dominare dal panico: in particolare, curano il loro addestramento all’impiego rapido delle armi».
Inoltre, dovevano essere sempre disposti a rischiare se necessario la vita per salvaguardare l’integrità della personalità e dei suoi familiari «anche facendo loro scudo col proprio corpo»62, come ad alcuni è sembrato fosse avvenuto nel caso di Leonardi, che fu colpito sulla parte destra perché voltatosi, a nostro giudizio per prendere la pistola che aveva sotto al sedile. Secondo la sentenza del primo processo Moro, due fattori avevano concorso alla riuscita dell’agguato in via Fani: la sorpresa e la rapidità d’azione. Infatti, «la non particolare preoccupazione da parte dell’on.le Moro ed il mancato sospetto da parte degli uomini addetti al suo servizio di sicurezza che «qualcosa potesse accadere», concorsero a non predisporre un adeguato piano di difesa in simili circostanze»63.
Nel 1991 il prefetto Guido Zecca, che nel 1978 dirigeva il servizio protezione delle autorità, fra le quali figurava l’on. Aldo Moro, si rivolse al ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti, per puntualizzare alcuni fatti riportati a suo giudizio in modo errato dallo stesso ministro nel corso di una intervista. In particolare, il prefetto era stato colpito dalla frase di Mario Cervi, che intervistava il ministro, riguardante la scorta, frase alla 61 Ivi, pp. 2-8. 62 Ivi, p. 16. 63 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 9, Sentenza Moro. Sintesi Analitica, p. 63.
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quale non si sarebbe replicato in modo appropriato. Cervi aveva detto: «Aldo Moro aveva cinque agenti e carabinieri di scorta, che però tenevano le armi nel borsello o nel portabagagli». Il prefetto scrisse che si trattava di una calunnia e che gli agenti non erano così sprovveduti; inoltre, se quella frase avesse illustrato la verità, si sarebbero dovuti incriminare post mortem gli agenti per violata consegna. La realtà, puntualizzò il prefetto, era la seguente: «Il servizio di scorta […] era efficiente e ben organizzato, ma certo non in grado di sottrarsi ad un agguato imprevedibile, come quello attuato, con ferma determinazione, dalle Brigate Rosse, mediante l’impiego di numerosi elementi militarmente ben addestrati»
e per il grande volume di fuoco dispiegato. Gli agenti di scorta operarono «doverosamente, in attuazione delle consegne ricevute, tenendo le armi in pugno, con il colpo in canna, esclusi naturalmente gli autisti». Quella del mitra tenuto nel portabagagli era una «favola». A dire del prefetto (a ragione) era stato invece strappato dalle mani del brigadiere Zizzi morente dalle Br, «belve umane – e qui Zecca critica apertamente la legislazione premiale – assalitrici che si vorrebbe riabilitare». Inoltre, l’agente Iozzino era caduto con la pistola in pugno, riuscendo anche a sparare nonostante il volume di fuoco impressionante, «altro che violazione di consegna». Insomma, gli agenti erano riusciti a reagire in una situazione praticamente senza scampo, «mostrando alta professionalità e cadendo nell’adempimento del loro dovere»64. Lo stesso Zecca era stato sentito dalla prima Commissione parlamentare il 7 novembre 1980 e in quel contesto aveva illustrato il funzionamento della protezione di Moro e della sua famiglia. Come già scritto, nei servizi erano impiegati complessivamente 30 militari; l’attentato di via Fani non poteva essere evitato se non con l’impiego di mezzi blindati e nessuna delle scorte in funzione allora avrebbe potuto resistere a un agguato del genere. In ogni caso, la scorta di Moro era da ritenersi efficiente, formata da agenti molto ben addestrati e con consegne dettagliate. Il servizio era collegato con la sala operativa dell’ispettorato scorte, che ne annotava i movimenti in un brogliaccio. La mattina dell’eccidio la sala operativa era stata informata regolarmente della partenza della personalità, ma poi aveva sollecitato invano altre informazioni e seppe dell’agguato intercettando una segnalazione della sala operativa della questura65. Sulla questione dell’auto blindata, aveva dichiarato che all’epoca non l’avesse neanche il presidente del Consiglio Andreotti, e ne fruiva solo il ministro dell’Interno. Infine, la mattina del 16 gli uomini di scorta erano così disposti e armati: al posto di guida dell’Alfetta di scorta la guardia Rivera con nella fondina la pistola con colpo 64 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 20, ministero dell’Interno, Gabinetto, Segreteria speciale, Roma 16 ottobre 1991, lettera autografa al ministro, Roma 11 ottobre 1991, f.to Guido Zecca. 65 Commissione Moro 1, audizione del 7 novembre 1980, vol 6.
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in canna e sicura; al suo fianco il vice brigadiere Zizzi, con in pugno il mitra con colpo in canna senza sicura e nella fondina una pistola S92 con colpo in canna e sicura. Sul sedile posteriore l’appuntato Iozzino con in pugno la pistola con colpo in canna e sicura. Ovviamente, il prefetto non poteva dire nulla dei carabinieri in servizio sull’auto su cui viaggiava Moro perché ufficialmente non erano sotto la sua direzione. Tra l’altro, il maresciallo Leonardi coordinava gli uomini addetti alla protezione dei familiari di Moro, appartenenti all’Arma e alla Guardia di Finanza. Con Leonardi il prefetto aveva rapporti di stima e collaborazione e i suoi suggerimenti e richieste erano sempre discussi e attuati, quando li si riteneva giusti. Lo stesso Leonardi, che fungeva da portavoce di Moro verso la pubblica amministrazione, comunicava la destinazione della personalità e decideva gli itinerari, che erano usuali ma indicati a volte all’ultimo momento o, addirittura, quando il convoglio era in marcia, perché così voleva Moro. Zecca escluse nel modo più assoluto che qualcuno tra i militari dell’ispettorato impiegati nella protezione di Moro avesse potuto informare i brigatisti di qualunque cosa riguardante il servizio66. Da più parti, si legge in un documento del 1980, si era fatto cenno a presunti rapporti, inviati dal maresciallo Leonardi (che all’epoca del primo governo Moro, nel 1963, faceva parte del Servizio segreto militare) in ordine alla idoneità della scorta a proteggere Moro. Il capo della Polizia, a seguito di accertamenti, affermò che «le notizie in argomento sono prive di fondamento in quanto il maresciallo Leonardi non ha chiesto né per iscritto né verbalmente un rafforzamento del servizio né risulta che abbia espresso preoccupazioni circa l’incolumità dell’on.le Moro, preoccupazioni che non dovevano certamente sussistere se un uomo responsabile come Moro portava a passeggio un suo nipotino»67.
Nello stesso documento si legge che «dalle indagini esperite a suo tempo sono risultate infondate le voci di allarmi giunti tramite servizi esteri o di sensazioni e notizie comunicate dallo stesso onorevole Moro circa la sua incolumità. Tanto che – accanto al lavoro politico e universitario – continuava la sua vita molto esposta e il permanere di orari ed abitudini metodiche».
Non solo, ma si faceva anche notare che in tutte le numerose minacce anonime giunte contro esponenti della Democrazia cristiana, «non sembra che sia mai ricorso il nome del Presidente del Consiglio Nazionale». Altresì, non risultava in alcun modo che lo 66 Ibid. 67 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 B, Ministero dell’Interno, DGPS, 555/80, Sequestro ed uccisione dell’on. Aldo Moro e della sua scorta, al Gabinetto dell’on. Ministro, f.to il capo della Polizia, Il maresciallo Leonardi, Roma 11 giugno 1980.
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stesso Moro avesse richiesto un’auto blindata che, si fece notare nuovamente, non aveva neanche il presidente del Consiglio68. Secondo Cossiga esisteva un’auto blindata ferma nel garage del ministero dell’Interno, che se «fosse stata chiesta l’avrei certamente data. A me la signora Moro non ha mai detto niente, né prima né dopo»69. A proposito di Leonardi, il colonnello Enrico Coppola, Comandante della Legione di Roma all’epoca dei fatti, sentito dalla Commissione Moro 1 spiegò bene la posizione del maresciallo e del suo collega Ricci: «Il maresciallo Leonardi, era in forza alla Legione e praticamente prestava servizio alla Presidenza del Consiglio. Questo vale anche per l’appuntato Ricci. Il maresciallo Leonardi dal maggio 1963 e l’appuntato Ricci dall’agosto 1963. Praticamente, quindi, erano addetti alla persona; anzi il maresciallo Leonardi faceva proprio parte della Segreteria del parlamentare; l’appuntato Ricci era autista inquadrato nell’autodrappello del Ministero degli interni»70.
In altre parole, come specificò il colonnello Coppola, Leonardi non dipendeva dalla Legione di Roma, alla quale non riferiva alcun tipo di rapporto: «Io penso che riferisse direttamente all’onorevole Moro. D’altra parte, dal 1963 erano ormai 15 anni che il maresciallo Leonardi stava con l’onorevole Moro e veniva considerato un elemento di famiglia»71.
Su questo uso personale di agenti dello Stato, assegnati a Moro in quanto presidente del Consiglio ma poi lasciati alla sua persona, il presidente Schietroma non ebbe nulla da eccepire. Ci tornò l’onorevole Salvatore Corallo, con questa più che legittima domanda: «Sulla questione del maresciallo Leonardi, debbo dire che mi sembra singolare che non riferisse a nessuno. Che vuol dire che riferiva all’onorevole Moro? Il maresciallo Leonardi era fuori gerarchia? Non aveva un superiore? Non vi era chi aveva la responsabilità del funzionamento delle scorte, ecc.?».
Il dialogo che segue è importante: «Coppola: Come ho già detto, il maresciallo Leonardi era da lungo tempo con il Presidente 68 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 B, Ministero dell’Interno, DGPS, 555/80, Sequestro ed uccisione dell’on. Aldo Moro e della sua scorta, al Gabinetto dell’on. Ministro, f.to il capo della Polizia, Minacce alla vita di Moro, Roma 11 giugno 1980. 69 Commissione Moro 1, audizione di Francesco Cossiga, cit., p. 230. 70 Ivi, audizione del colonnello Enrico Coppola, 20 gennaio 1981, vol. 7, p. 106. 71 Ibid.
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Moro; era diventato persona di fiducia. Corallo: Era sempre un maresciallo dell’Arma!. Coppola: È esatto, era un maresciallo dell’Arma, però non era vincolato a riferire su questioni di servizio riguardanti l’onorevole Moro»72.
Le richieste di chiarimento di Corallo e del suo collega Luigi Covatta si fecero incalzanti, ma si scontrarono contro una certa resistenza: «Il maresciallo Leonardi – disse Coppola – era amministrativamente in forza alla Legione Roma, ma era in servizio alla Presidenza del Consiglio. Se non vado errato, intorno a quei tempi avevamo in funzione una scorta per un’altra personalità politica; il personale di questa scorta che dipendeva dal nucleo investigativo riferiva personalmente a me, perché fino ad un certo periodo io ero direttamente e personalmente incaricato della incolumità di questa persona. Poi, tale competenza è stata passata al comandante del gruppo ed allora la scorta riferiva al comandante del gruppo».
Intervenne il deputato socialista Luigi Covatta: «La posizione del maresciallo Leonardi era una posizione anomala». «La posizione del maresciallo Leonardi – ammise Coppola – era del tutto singolare rispetto a quanto avveniva per altri».
Allora, chiese Covatta, «presso la Presidenza del Consiglio c’era un referente dell’Arma, un ufficiale?»,
ma la risposta fu negativa. Ma «cosa significa che un maresciallo dipendeva dalla Presidenza del Consiglio?».
La risposta è una tautologia: «Era assegnato alla Presidenza del Consiglio. Abbiamo un ufficiale carabiniere assegnato al Ministero dei Lavori pubblici, un altro assegnato al Ministero del Commercio con l’estero. Costoro svolgono la loro attività, sono inquadrati amministrativamente, li paghiamo, gli diamo la divisa, la pistola, lo stipendio ma non interferiamo sulla loro attività»73.
La nostra impressione è che il maresciallo Leonardi, che in passato era stato addestrato 72 Ivi, p. 111. 73 Ivi, pp. 111-112.
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in Sardegna in un campo dei servizi segreti militari, fosse rimasto alle dipendenze del Sid/Sismi anche dopo che Moro aveva lasciato la presidenza del Consiglio, e che in tale veste fosse obbligato a riferire ai suoi superiori del servizio e non a quelli dell’Arma. 1.2 I servizi di sicurezza e di intelligence La strage di via Fani, per stessa ammissione della Direzione generale di Ps, colse l’apparato in fase di «totale trasformazione». Da poco era stata soppressa la struttura del «Servizio di Sicurezza» (Sds) sia a livello centrale che periferico, sostituito dall’Ucigos, e contemporaneamente venivano eliminati i vecchi Uffici Politici delle Questure, sostituiti da nuovi servizi con caratteristiche investigative e repressive ritenute più idonee a contrastare il fenomeno terroristico. Rimase in vigore il Centro di elaborazione e raccolta dati per la delinquenza comune e per i soggetti sospettati di svolgere attività eversiva con sede a Roma presso la Scuola Tecnica di Polizia, in via Castro Pretorio, collegato con terminali a tutti gli uffici periferici di Ps. Nelle maggiori città italiane vennero istituti uffici della Digos articolati in sezioni con compiti di informazione a carattere generale sui movimenti e sui militanti di gruppi eversivi o sospetti tali. Al momento del rapimento, secondo quanto dichiarato dalla Direzione generale di Ps, «si era nella fase di avvio della nuova struttura, caratterizzata quindi da inevitabili disfunzioni. Tuttavia il notevole impegno profuso da tutto il personale in quel momento operante – che di poco superava il 50% dell’organico – fece sì che tali ostacoli venissero superati consentendo il raggiungimento, anche a breve termine, di positivi risultati»74.
Il Sisde, istituito con la legge 801 del 24 ottobre 1977, cominciò a funzionare ufficialmente il 13 gennaio dell’anno seguente, quando il generale dei Carabinieri Giulio Grassini venne nominato direttore dal Consiglio dei ministri75. Dal 13 al 30 gennaio era presente soltanto il seguente personale dell’Arma: 2 ufficiali, 2 sottufficiali e 2 militari di truppa. Dal 1 febbraio entrarono in servizio 5 funzionari di Ps, 23 sottufficiali e 23 militari assieme a 5 dipendenti civili. Il primo marzo, però, vennero ceduti al Sismi 5 ufficiali dell’Arma già appartenuti al disciolto Sid, 16 sottufficiali e 8 militari di truppa. Il 16 marzo erano in servizio complessivamente 91 elementi, compresi i 5 civili, saliti a 120 nel corso dei 55 giorni. Si tratta di personale insufficiente a condur74 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 4, MI, DGPS, rif. 3039, Roma, 20 settembre 1980, Riservato doppia busta, al gabinetto dell’on. ministro, Segreteria speciale, cit., ff. 14-15. 75 Giulio Grassini era il figlio del generale Guido Grassini, vice comandante generale dell’Arma nel 1959. Egli era stato a lungo a capo dei Carabinieri Reali di Rodi e nel 1932 aveva impiantato un importante archivio investigativo e informativo, rinvenuto nel 2013 da M. Clementi assieme alla direzione dell’Archivio storico di Rodi.
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re con profitto un lavoro di intelligence in un paese complesso come l’Italia, dove evidentemente non esisteva solo il caso Moro. Il servizio, inoltre, inizialmente non aveva una sede e fino al 29 giugno 1978 si sistemò in quattro stanze al quarto piano del Viminale finché non venne trasferito a Forte Braschi e, a partire dal 14 ottobre 1978, anche alla sede per i Centri 1 e 2 di Roma76. Nonostante il personale ridotto, il Sisde dispiegò comunque una certa attività, che venne riassunta in un Appunto del 1980. Il contributo dato fu definito dai funzionari del servizio «per forza di cose assai limitato»; le attività svolte a carattere continuativo sono indicate nella partecipazione del direttore e del suo vice alle riunioni al Viminale per la gestione della crisi, alla costituzione di un servizio di segreteria h24 per la raccolta di segnalazioni di interesse provenienti dai diversi organi di Polizia o da altri Enti/Comandi eventualmente in possesso di informazioni, inoltrate poi alla sala gestione della crisi presso il Viminale (per un totale di 247 segnalazioni). Furono redatte delle cronologie parallele e comparate tra il sequestro di Moro e quelli di Amerio, Sossi e Schleyer. Si cercò anche la collaborazione con i servizi esteri, definita efficace nel suo fine di interessarli alla massima collaborazione: pervennero «svariate decine di telex con le segnalazioni della più varia natura (presunte rivelazioni di detenuti, comunicazioni di parapsicologi, sospetti di turisti, offerte di collaborazione di privati ecc.)», tra le quali alcune ebbero un certo interesse, come l’offerta di mediazione dell’avvocato Denis Payot, che era stato intermediario durante il rapimento Schleyer77. Anche il Sismi svolse una intensa attività di indagine, che cominciò il 16 marzo e si concretizzò nella ricerca di notizie concernenti attività di persone e movimenti sospetti, un esame tecnico di scritti, interpretazione e decrittazione di eventuali messaggi in codice, valutazione di materiale radiodiffuso a cura delle emittenti «libere» attestate su posizioni vicine all’Autonomia. Secondo un rapporto del settembre 1978 del direttore Giuseppe Santovito, il complesso di queste attività aveva portato a «esplorare in profondità il vasto spazio nel quale sono soliti muoversi i movimenti, organizzazioni terroristiche ed eversive, loro adepti, fiancheggiatori e simpatizzanti»; a «circoscrivere l’area da prendere in attenta considerazione sotto l’aspetto più proprio della Polizia Giudiziaria» e «limitare la libertà di azione dei suddetti movimenti e degli elementi di sostegno, in precedenza portati ad operare con estrema disinvoltura e spregiudicatezza»78. Da una scorsa al dettaglio degli interventi ci sembrano degne di nota la richiesta di collaborazione inoltrata ai servizi di Usa, Gran Bretagna, Francia, Austria, Svizzera e Israele; l’accertamento sulla nave partita da Cipro collegata all’informativa del febbra76 ACS, Caso Moro, MIGS b. 4, MI, DGPS, rif. 3039, allegati alla lettera 224/2159, Stato di avanzamento del Sisde dalla sua istituzione al 9 maggio 1978. 77 Ivi, appunto. Attività del Sisde in relazione all’eccidio di via Fani, al sequestro ed all’omicidio dell’on. Moro. 78 Ivi, Prot. 04/20561/R/1 Roma 6 settembre 1978, Al ministero dell’Interno, Gabinetto del Ministro, Roma, f.to Santovito.
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io precedente, di cui si è detto; la trasmissione di notizie raccolte all’estero sulla eventuale prigione di Moro, poi passate al Sisde e all’Arma. Moltissimi interventi del Servizio in seguito a segnalazioni, invece, risultarono del tutto inattendibili o quantomeno poco verosimili, come le telefonate di cittadini stranieri in Polonia, Austria, Brasile, Svizzera e Grecia con le quali si annunciava di conoscere la prigione di Moro. Ovviamente il Sismi dovette controllare ogni pista, perdendo tempo prezioso. Il 2 aprile giunse una notizia che ebbe riscontro riguardante presunti contatti tra Br e Vaticano, ma in realtà si trattava di una truffa, come raccontato da Vladimiro Satta79. Il 7 aprile si diede notizia della nave partita da Cipro, la «Unity», da «servizio correlato» e nei giorni successivi, tra le altre, furono diramate richieste su elementi sovversivi tedeschi e più volte su Brunhilde Pertramer. Dalla lettura del report, non sembra che si sia seguita una linea precisa, una strategia di ampio respiro ma, piuttosto, si sia andati avanti per tentativi generati di volta in volta dalle novità di giornata. Le indagini continuarono anche dopo il 9 maggio e, tra l’altro, si fissarono sull’ascolto di Radio Città Futura, un’emittente romana che era già entrata nella vicenda perché si asserì che tramite il suo direttore, Renzo Rossellini, avesse annunciato il rapimento di Moro la mattina del 16 marzo un’ora prima che avvenisse realmente. Le indagini espletate su questa particolare vicenda diedero, però, esito negativo. La Direzione generale di Ps, infatti, affermò il 5 ottobre 1978 che «sono stati disposti accertamenti al centro di ascolto di questa Direzione Generale della Ps ed è stato possibile stabilire che da parte del personale del «centro» che ha iniziato il servizio alle ore 8 [del 16 marzo 1978] non è stata intercettata – nello spazio di tempo che interessa – alcuna comunicazione di rilievo o quanto meno, riguardante il fatto delittuoso in parola»80. 79 Satta lo ha scritto nei suoi lavori e lo ha ripetuto in Commissione Moro 2: «Devo dire che, proprio grazie alle mie ricerche, con una certa componente di fortuna, si è delineata una seconda pista, che oggi io ritengo più convincente, cioè che Chichiarelli, in realtà, fosse complice di un truffatore, il quale contemporaneamente aveva contattato il Vaticano ed era intento a far credere alla Santa Sede di essere ben introdotto nelle Brigate Rosse al fine di spillare quattrini. La previsione di un falso comunicato in questa chiave era un mezzo per ingannare la Santa Sede. Infatti, il Vaticano prese sul serio l’anonimo personaggio e gli fece sapere di aver raccolto il denaro. Quando, però, arrivò il momento di mantenere la promessa e di far liberare Moro, l’uomo si dileguò, probabilmente perché non gli fu dato alcun anticipo, al contrario di ciò che egli chiedeva. Sottolineo, quindi, che non è vero che il Vaticano sia giunto a un passo dalla liberazione di Moro. Era, invece, incappato in un imbroglione. Lo stesso Curioni, il sacerdote che si era occupato della faccenda per conto della Chiesa, negli ultimi giorni era diventato pessimista, essendosi reso conto dell’inaffidabilità della persona con cui aveva avuto a che fare»; Commissione Moro 2, Seduta n. 40 di mercoledì 1 luglio 2015, audizione di Vladimiro Satta. Dello stesso autore cfr. Caso Moro: le vie della chiesa. Una testimonianza sulle trattative per la liberazione del leader DC, in «Nuova Storia Contemporanea», anno IX, numero 2, marzo-aprile 2005, pp. 99-114. 80 ACS, Caso Moro, MIGS b. 5, DGPS n. 224/2003/3, Roma 5 ottobre 1978. Indagini sul sequestro ed omicidio dell’on. Aldo Moro. Segnalazione. All’Ufficio Istruzione presso il Tribunale di Roma, f. 3. Ricordiamo che l’8 agosto 1981 su «la Repubblica» uscì un articolo dal titolo Una radio di Rossellini in Afghanistan in cui leggiamo che «una rete di radio libere e mobili al servizio degli afghani potrebbe essere installata entro un mese nelle terre invase dall’Unione Sovietica. L’iniziativa è di Renzo Rossellini, ex direttore di Radio Città Futura e di Henry Bernard Levy».
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Per il dopo 9 maggio, infine, e in particolare dal 23 al 5 giugno, troviamo una serie di «telefonate in codice a Radio Città Futura» (in tutto 11), che però non ebbero alcun riscontro81. La questione dei collegamenti internazionali delle Br fu ripresa a vicenda conclusa dalle forze inquirenti e politiche, che nel 1981 interrogarono il Sisde in proposito. In un lungo appunto di risposta si legge che Christian Klar e Angelika Speitel, militanti della Raf ricercati nel 1978, «avrebbero acquistato a Monaco, in data 14 marzo 1978, due biglietti per il trasporto da Bari a Patrasso a mezzo della motonave “Epirus”». La circostanza, controllata dal servizio l’8 aprile 1978, era stata smentita dal competente servizio estero tedesco (BfT), che identificò i reali acquirenti di quei biglietti (la cosa in sé, comunque, non avrebbe provato nulla) in altre persone. Più in generale, il Sisde scrisse in quell’occasione che «benché si possa dare sufficiente credito all’ipotesi di taluni legami, già esistenti all’epoca dei fatti in parola [ossia il rapimento di Aldo Moro] tra organizzazioni terroristiche tedesche e paralleli gruppi eversivi italiani, limitati peraltro alla cosiddetta “solidarietà militante” […], nulla risulta agli atti in merito ad una diretta partecipazione di terroristi tedeschi all’azione di via Fani»82.
Certamente dei collegamenti «solidali», come scrisse il Sisde, ci furono, ma non risulta alcuna attività operativa comune tra Raf e Br. La militante Elisabeth Von Dich, per esempio, uccisa a Norimberga durante l’arresto dalla polizia il 4 maggio 1979, fu trovata in possesso di una carta d’identità italiana rubata, come altre rinvenute in via Gradoli, nel comune di Sala Comacina (Como)83. Nel 1980 erano stati accertati collegamenti con l’Olp, l’Eta, la Raf e la 2 Giugno. Con i tedeschi si scoprì che i primi contatti erano stati tenuti da Lauro Azzolini e proseguiti dopo il suo arresto da Moretti. All’inizio «questi rapporti con i gruppi sembrava dovessero rappresentare una specie di Terza Internazionale, ma poi si sarebbero ridimensionati in relazione alla situazione politica tedesca, non sembrando che la Germania fosse un Paese in crisi. Con l’Eta e l’Ira i rapporti erano stati valutati non costruttivi a causa del carattere prettamente nazionalista di quei movimenti, mentre con l’Olp il discorso sembrava essere andato più avanti a partire dal 1979 per mezzo della Raf»84.
81 ACS, Caso Moro, MIGS b. 4, MI, DGPS, rif. 3039, Prot. 04/20561/R/1 Roma 6 settembre 1978, Al ministero dell’Interno, Gabinetto del Ministro, Roma, f.to Santovito. 82 ACS, Caso Moro, MIGS b. 5, «Dossier Moro». Appunto. Caso Moro. I collegamenti internazionali del terrorismo italiano, ff. 4-5. 83 Ivi, f. 6. 84 ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto 1981-1985, D’Urso rapito dalle Br, b. 96, Comando generale
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Questi collegamenti non sono mai stati negati dalle Br, come racconta Moretti nel libro intervista con Mosca e Rossanda e come ci è stato riferito più recentemente da Lauro Azzolini85. I contatti erano allargati anche alla Svizzera e, in particolare, all’Anarchistiche Kampforganization di Petra Krause, che tra il 1972 e il 1974 compì furti di armi ed esplosivo in depositi dell’esercito elvetico. Una parte di quel materiale venne ritrovata nel 1974 nella base brigatista di Robbiano di Mediglia, 2 granate a cascina Spiotta, dove morì Mara Cagol nel 1975, una nella base nappista di Pasquale Gentile Schiavone il 15 luglio 1976 e una granata in via Gradoli86. Tutto ciò portò il servizio a concludere che l’Ako «era in collegamento con terroristi italiani, tedeschi, palestinesi, spagnoli e forse anche greci, ai quali ha fornito – in diverse occasioni – un supporto logistico»87. Il Sisde escluse complicità di paesi dell’Est e, in particolare, della Cecoslovacchia. A parte qualche episodio sporadico legato a Feltrinelli, che aveva personali contatti con quel mondo (anche per la sua storia di militante del Pci e di editore), il servizio escluse l’esistenza di una base di addestramento a Karlovy Vary, di cui si è già parlato, mentre «la circostanza […] che alcune armi usate dai terroristi siano state fabbricate in Paesi dell’Est europeo (tra cui la Cecoslovacchia), a parte il carattere episodico di tale provenienza, non costituisce prova che dette nazioni siano coinvolte in un supporto logistico ai terroristi nostrani»88.
Sulla Cecoslovacchia il servizio scrisse qualche tempo dopo che «soprattutto durante i mesi estivi» alcuni italiani «individualmente o in gruppo si recano in Cecoslovacchia, Ungheria e Romania. Trattasi per lo più di giovani per i quali è difficile comprendere da dove traggano i mezzi per sostenere le spese di viaggio e di soggiorno. Tra questi, in particolare, figurano numerosi militari di leva ospitati prevalentemente in famiglie di ragazze di oltre cortina conosciute durante precedenti visite in Italia»89.
Sempre di Cecoslovacchia si era parlato già durante i 55 giorni. In particolare il capo del Reparto «D» del Sismi aveva consegnato alla presidenza del Consiglio un appunto il 3 aprile 1978 nel quale si legge che «non esistono prove concrete circa correspondell’Arma dei Carabinieri, Roma 3 gennaio 1981, Interrogazioni Parlamentari, rif. lettera 11070/130/GabUff. 2 in data 2 corrente. 85 M. Moretti, Brigate rosse, cit., pp. 183 e segg. Conversazione degli autori con L. Azzolini. 86 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 5, «Dossier Moro». Appunto. Caso Moro. I collegamenti internazionali, cit., f. 10. Di Petra Krause si veda il libro di Mara Fortuna, L’intervista a Petra Krause, Tullio Pironti Editore, 2010. 87 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 5, «Dossier Moro». Appunto. Caso Moro. I collegamenti internazionali, cit., f. 11. 88 Ibid. 89 Ivi, f. 62.
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sabilità del Servizio cecoslovacco o di altri Paesi, relativamente al terrorismo in Italia ed in Europa in genere» e che della Cecoslovacchia si parlava in quanto «da più fonti è stata segnalata la presenza di campi di addestramento nella Boemia Occidentale e nella Slovacchia Occidentale, frequentati da elementi internazionali per l’indottrinamento ideologico».
Dopo aver ribadito che nei mesi estivi erano giovani apparentemente interessati alle ragazze a spostarsi all’Est, il Servizio aggiunse che «da rilevamenti effettuati attraverso varie fonti, si calcola che circa 2000 cittadini italiani abbiano frequentato dal 1948 ad oggi corsi riservati ad attivisti estremisti in Cecoslovacchia ed in altri paesi»,
dei quali almeno 600 nominativi erano noti in quanto, aggiungiamo noi, in gran parte appartenenti a militanti del Pci90. Il 18 aprile 1978 nel corso di una conferenza sul terrorismo, il ministro dell’Interno austriaco indicò la Svizzera quale centrale di collegamento dei gruppi eversivi europei. Il Sisde in seguito accertò che nell’aprile 1978 fu sventato dalla polizia egiziana un attentato contro un albergo del Cairo nel quale erano implicati cittadini svizzeri in contatto con l’Ako, con il Comitato palestinese di Zurigo e con il Soccorso Rosso elvetico91. Limitatamente ai rapporti tra il Soccorso Rosso svizzero e italiano, il Sisde volle chiarire che nel 1980-81 si erano visibilmente ridotti, fino a diventare legami interpersonali; l’attività di cooperazione tra i due organismi, invece, era stata intensa in occasione degli arresti del 7 aprile 1979 contro l’area dell’Autonomia. Come detto, non appena si seppe del rapimento il Sisde sensibilizzò il servizio israeliano e tutti quelli collegati. Dopo un periodo di incertezza, dovuto probabilmente al fatto che i servizi esteri collegati non avevano alcuna informazione, «i suddetti collaborarono […] alla ricerca ed alla documentazione informativa sulle persone sia implicate nell’operazione Moro sia nel terrorismo italiano in generale». Il Sismi comunicò che in relazione alla vicenda, oltre che con gli israeliani furono intrattenuti rapporti con il servizio britannico, spagnolo, tedesco-occidentale, france90 ACS, MIGS, b. 11, Annesso due al foglio 04/20561/R/1, f. 061, Il capo Reparto «D» Consegnato alla Presidenza del Consiglio (prof. Milazzo) alle ore 16.00 del 3 aprile 1978. Visti i legami del Pci con i paesi dell’Est durante tutto il periodo della Guerra fredda e la pratica di inviare giovani iscritti a studiare in alcuni di quei paesi, in particolare Urss e Cecoslovacchia, ci sembra di poter ipotizzare che molti di questi 2000 elementi si muovessero attraverso canali politici riconducibili a Botteghe Oscure. 91 ACS, Caso Moro, MIGS b. 5, «Dossier Moro». Appunto. Caso Moro. Collegamenti internazionali del terrorismo italiano, cit. f. 17.
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se, statunitense, svizzero, lussemburghese, olandese, belga, greco, argentino, australiano, giapponese, canadese ed egiziano92. Sempre all’estero, furono attivati già il 16 marzo i cosiddetti «centri occulti»93. In quei giorni, come si è detto, giunsero da fuori i confini italiani moltissime notizie riguardanti eventuali partecipanti alla strage di via Fani o relative alla prigione di Moro, raccolte principalmente dalle sedi diplomatiche, che si dimostrarono prive di fondamento94. Appare interessante la circostanza che nei giorni immediatamente seguenti il rapimento, l’Interpol allertò l’Italia rispetto a un possibile attentato contro l’Alitalia e a un presunto dirottamento di un aereo in partenza da Roma, Francoforte, Oslo o Toronto. Questo perché, in casi analoghi, «al rapimento di persone importanti aveva fatto sempre seguito un dirottamento aereo»95. La notizia venne diffusa a tutte le polizie collegate, anche se «negli ambienti italiani non c’erano elementi in proposito»96. La cosa ebbe uno sviluppo a livello informativo in aprile dall’ambasciatore italiano a Damasco e dall’addetto navale ad Algeri in seguito a segnalazioni anonime, nonché da parte dei funzionari tedeschi inviati a Roma. In tale contesto venne ottenuto l’impegno della resistenza palestinese «di approfonditi accertamenti in proposito e di tempestive notizie circa possibili azioni concernenti gli interessi italiani». Il 16 aprile, nel corso dei contatti già ricordati in precedenza, l’intelligence palestinese confermava «l’inesistenza di un piano di dirottamento aereo»97. Su un altro fronte importante per la posizione geopolitica italiana, la Libia, si registrarono alcune novità a metà aprile. Il 13, infatti, il numero due del regime, Abd alSalam Jallud, si incontrò con l’ambasciatore italiano a Tripoli chiedendo informazioni su un presunto messaggio registrato di Moro fatto pervenire alla sua famiglia. Solo il 7 maggio, invece, Gheddafi convocò lo stesso diplomatico italiano in un in92 Ivi, Rognoni a Schietroma, Quesito n. 12, Roma, 7 novembre 1980. 93 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 10, Annesso 2, cit., f. 1. 94 Ivi, passim. Giunsero notizie, tra le altre, dalle sedi diplomatiche di Varsavia, Vienna, Ankara, dal servizio israeliano sulla figura di due giapponesi in contatto con Abou Abeid «responsabile delle operazioni terroristiche dell’Olp di George Habbash (poi corretto in un successivo messaggio in “Fplp” di George Habbash)» [ACS, Caso Moro, MIGS, b. 11, allegato al f.n. Sismi/06.6/860 in data 23 marzo 1978 e ivi, 04/5705/R/1, dove si legge «in ambienti libanesi apprendesi che due cittadini giapponesi…», poi rivelatisi esponenti dell’Armata rossa giapponese. Altre notizie pervennero da Atene, Hannover, Alessandria d’Egitto e da San Paolo. Da Atene l’addetto militare col. Minelli riferì il 18 marzo di un presunto attentato sul volo Alitalia AZ 891, notizia rivelatasi priva di fondamento; ivi, 18 marzo 1978. Il 15 aprile venne riferito dal Pireo del ritrovamento di un volantino: «Brigate Rosse. Adesso siamo venuti alla Grecia per continuare la guerra civile. Cominciamo dal consolato con una bomba domani». Alla segnalazione non venne attribuita importanza in quanto valutata come un gesto di studenti greci addirittura «delusi per la mancata ammissione presso l’Università italiana»; ivi, Annesso due al foglio 04/20561/R/1, prot. 06.6/899, Rapporto informativo 51 del 15 aprile 1978. 95 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 B, SISMI, Relazione per l’Inchiesta parlamentare sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, f. 11. 96 Ibid. 97 Ivi, f. 12.
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contro dal chiaro scopo propagandistico, ripreso dalla televisione locale e trasmesso nel corso dei giorni successivi, per condannare il terrorismo delle Br, offrire la disponibilità per qualsiasi intervento utile a salvare la vita di Moro e mostrare una lettera alla famiglia, poi effettivamente recapitata alla signora Moro98. Il passo si era reso necessario in quanto pochi giorni prima, il 4 maggio, dal Cairo l’ambasciata italiana aveva informato il governo di Roma che la Libia ospitava una base del noto terrorista internazionale Carlos e che finanziava da tempo le Br99. Nel dicembre 1981 il Sisde redasse un nuovo, lungo rapporto sui collegamenti internazionali del terrorismo italiano100. Per il nostro discorso sono importanti i passaggi che riguardano i contatti avvenuti in Italia tra elementi delle Br e della Raf, contatti come si è detto ammessi dagli stessi brigatisti. Alla Von Dick si aggiunse, rispetto al precedente rapporto, il nome di Rolf Heiszler, arrestato a Francoforte il 9 giugno 1979 e anche lui in possesso di una carta d’identità italiana proveniente dallo stesso pacchetto rubato in provincia di Como e rinvenuto in via Gradoli. Il documento era intestato a un avvocato romano, tale Theodoro Katte Klitsche, che alcuni anni prima aveva smarrito la sua carta, sulla base della quale «era stata poi evidentemente compilata quella falsa»101. Rispetto al passato, inoltre, si aggiunse la constatazione che alcune riviste tedesche avevano pubblicato di frequente documenti delle Br e «articoli di analisi, di sostegno e di esaltazione dell’attività di quella banda», mentre «Controinformazione» aveva fatto lo stesso per i documenti della Raf102. Siamo nel periodo immediatamente successivo alle confessioni di Patrizio Peci. Anche l’ex Br «pentito», si legge, «avrebbe portato a conoscenza […] che l’esecutivo delle [Br] avrebbe tenuto rapporti con la Raf. Tali rapporti sarebbero stati frequenti soprattutto prima della localizzazione in Milano della base di via Monte Nevoso»
ossia dalla conclusione della vicenda Moro fino all’ottobre 1978. Per quanto riguarda Moretti, che viene nominato subito dopo come uno degli elementi che avevano tenuto il filo degli incontri, durante un colloquio con gli autori egli ha confermato la circostanza, aggiungendo anche che la Raf cercò in più occasioni un contatto con le Br nel corso della vicenda Moro, contatto rifiutato e rimandato a dopo la conclusione del sequestro per l’impossibilità di gestire l’arrivo eventuale in Italia di elementi dell’orga98 Ivi, f. 38. 99 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 C, Dispacci MAE, 780504/0081 delle ore 15,55, Telegramma in arrivo, Roma 4 maggio 1978, da ITALDIPL Cairo at ESTERI Roma, Noto terrorista Carlos. Base terroristica in Libia, f.to Milesi Ferretti. 100 ACS, Caso Moro, MIGS b. 5, «Dossier Moro». Appunto. Caso Moro. Collegamenti Internazionali del Terrorismo Italiano (dicembre 1981). Il Sisde esclude fin dall’inizio qualsiasi rapporto con governi o servizi di paesi Nato. 101 Ivi, f. 6. 102 Ivi, f. 7.
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nizzazione tedesca in un momento in cui le Br erano completamente impegnate nella campagna di primavera103. Nello stesso lungo documento del 1981, nelle conclusioni riguardanti il traffico d’armi internazionale leggiamo che questo avrebbe coinvolto «talune ditte di importazione ed esportazione italiane e straniere» e «avrebbe come preminente destinatario la delinquenza comune». Per quanto atteneva «ai gruppi terroristici dell’estrema sinistra, il ricorso a fonti della malavita comune [per il reperimento di armi] è episodico e non suffragato da obiettivi elementi di riscontro»104, mentre per i finanziamenti si diceva che «formulare circostanziate conclusioni sul particolare argomento risulta quanto meno azzardato e privo di adeguati riscontri obiettivi» e che fino a quel momento «prove e riscontri obiettivi che dimostrino effettive responsabilità nel finanziamento e nel supporto delle formazioni terroristiche nazionali da parte di Stati esteri, non sono stati acquisiti da questo Servizio»105.
Nel corso di questi anni gli episodi sondati, analizzati e approfonditi dalle autorità italiane, dalle Commissioni di inchiesta alle singole polizie, sono stati molti. Ovviamente, non si può dire una parola definitiva rispetto all’ultima Commissione di inchiesta, attualmente in corso, sebbene sia difficile che possa aggiungere conoscenze su questo specifico punto. Non tanto perché fino ad ora tali ipotesi si sono rivelate fallaci, ma perché il complesso documentale a disposizione degli studiosi è orientato ostinatamente in una direzione contraria ai complotti.
103 Conversazione di Mario Moretti con gli autori; Milano, 15 settembre 2015. 104 ACS, Caso Moro, MIGS b. 5, «Dossier Moro». Collegamenti Internazionali del Terrorismo Italiano, f. 87. 105 Ivi, ff. 88 e 90. Si escludeva, per esempio, qualsiasi intervento straniero nella «ideazione, organizzazione e gestione del caso Dozier», f. 92.
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Capitolo 2 L’archivio Moro
2.1 Osservazioni generali Una delle ipotesi circolate sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, e presa in considerazione da più di una Commissione parlamentare di inchiesta, riguarda la possibile consegna alle Brigate rosse di documenti custoditi da Moro nel suo studio di Roma o, per loro tramite, a entità diverse, diciamo straniere. Si tratta, per estensione, della teoria del doppio ostaggio, sostenuta dal presidente della Commissione Stragi, senatore Giovanni Pellegrino, secondo la quale le Br, acquisiti documenti riservati, ebbero la possibilità di trattare sia per Moro, sia per le carte. Il primo a formulare questa ipotesi non fu Pellegrino ma il giornalista Mario Scialoja. Secondo questi, Cossiga, avendo saputo della consegna alle Br di documenti riservati, «si arrabbiò moltissimo» e «chiamò degli esperti (non so chi) per chiedere loro se quei documenti erano così importanti da determinare un cambiamento della strategia nei confronti delle Brigate rosse». Quegli esperti, dopo un paio di giorni, risposero negativamente e la linea del governo fu mantenuta1. Se ciò è vero, sembrerebbe che il governo si interessasse principalmente di cosa Moro avrebbe potuto rivelare alle Br e che da ciò facesse dipendere la fermezza. È stato affermato, del resto, che il presidente della Dc avrebbe rivelato l’esistenza del gruppo difesa della Nato Stay behind,2. L’ipotesi di Scialoja e Pellegrino non ha mai trovato riscontri oggettivi e oggi si è in grado di illustrare il contenuto dell’archivio di Aldo Moro di via Savoia e di come fu gestito dopo l’uccisione dell’uomo politico3. Intanto, è possibile documentare che nel marzo 1978 venne effettivamente controllato il grado di conoscenza di Aldo Moro rispetto a eventuali segreti Nato, la sola 1 Commissione Stragi, audizione di Mario Scialoja, 14 marzo 2000, resoconto stenografico. 2 Aldo Moro, ha affermato Francesco Cossiga «ha fatto una descrizione di stay behind perfetta»; Commissione Stragi, audizione di Francesco Cossiga, 6 novembre 1997, resoconto stenografico. 3 Secondo Cossiga quello del canale di ritorno sarebbe uno dei «misteri»; F. Cossiga, op. cit., p. 215. Si deve sottolineare come nel corso del tempo molte opinioni di Cossiga siano mutate. Noi riteniamo le dichiarazioni fornite davanti alla Prima Commissione Moro le più attendibili rispetto al pensiero di Cossiga durante i 55 giorni.
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questione che interessava gli alleati dell’Italia rispetto alla sicurezza, come disse Cossiga di fronte alla prima Commissione Moro: «Una delle cose delle quali ovviamente ci preoccupammo fu quella se l’onorevole Moro potesse essere depositario di segreti di Stato che, una volta divulgati, potessero nuocere alla sicurezza interna ed esterna dello Stato. Era una preoccupazione ovvia e giungemmo fondatamente alla conclusione che l’onorevole Moro non era depositario di segreti di tale natura»4. Secondo un appunto dell’Autorità nazionale per la sicurezza del 31 marzo 1978 e siglato dall’ambasciatore Francesco Malfatti, segretario generale MAE per la politica estera e dall’ammiraglio Paolo Mainini, sottocapo di stato maggiore della difesa, per la parte militare, «per le questioni Nato è stato sentito l’ambasciatore presso l’alleanza atlantica, Catalano. Il rischio di sicurezza connesso al rapimento dell’on. Moro va considerato rispetto ad alcuni temi che potrebbero essere argomento di interrogatorio e che sono ipotizzabili anche attraverso comunicazioni contenute nei messaggi delle Br numeri 2 e 3». Malfatti, interpellato sulla possibilità «che all’on. Moro possono essere strappati segreti connessi alla politica estera italiana o ai rapporti internazionali del nostro paese, esclude l’esistenza di fatti riservati di rilevante importanza, in quanto tutto è praticamente noto attraverso la stampa normale e specializzata». In effetti, si prosegue, il ruolo dell’Italia non era tale da poter influire sugli equilibri internazionali e quindi, da necessitare una specifica «e così clamorosa azione di ricerca da parte di altra nazione. Nel settore militare di interesse esclusivamente nazionale non esistono elementi a conoscenza dello On. Moro che possono costituire un rischio di sicurezza». Per quanto riguardava i rapporti dell’Italia con la Nato, infine, si specificava che «nessun uomo politico scende nei dettagli operativi […]. L’unico punto debole potrebbe essere quello che l’Italia è membro permanente del Nuclear Planning Group ma il nostro ambasciatore presso la Nato esclude che l’on. Moro fosse a conoscenza di fatti capaci di incrinare la sicurezza dell’alleanza. Inoltre va rilevato che la parte più riservata della strategia nucleare è rilasciata solo alle nazioni in possesso di proprio armamento nucleare e che pertanto il targeting completo e le norme di impiego non sono a conoscenza di nessun elemento nazionale»5. Questo passaggio ci sembra il più importante. Nessun italiano, vi si dice, aveva accesso ai dati sul targeting completo, ossia sul puntamento (e dunque sulla dislocazione ultima) dei missili balistici. Chiarito che Moro non aveva informazioni sensibili, se ne può dedurre logicamente che nel suo Archivio non conservasse neanche documenti in tal senso. Altre informazioni, diverse dal targeting Nato, certamente non valevano l’uccisione di 5 uomini e il suo rapimento da parte di chi fosse interessato ai segreti militari. Secondo il Sismi, che scrisse su questo una relazione il 3 aprile, il rischio sicu4 Atti Commissione Moro 1, Audizione di Francesco Cossiga, cit., vol. 3, p. 215. 5 ACS, MIGS, b. 23 C parte A, dispacci MAE, f. 18 cartella 1 e ivi, b. 13, Rischio di sicurezza connesso con il rapimento dell’on. Moro (Sisde), 31 marzo 1978.
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rezza connesso con il rapimento dell’on. Moro poteva essere ristretto a tre settori: quello della politica interna italiana, quello relativo ai rapporti internazionali e il settore militare, in particolare per i rapporti tra Italia e Alleanza Atlantica. Moro era stato più volte presidente del Consiglio e ministro degli Esteri e dunque era a conoscenza di moltissime informazioni riservate. Nello specifico, però, non esistevano segreti da rilevare sul primo punto in quanto tutto ciò che riguardava la politica interna italiana, a dire del Servizio, era «stato reso noto attraverso la stampa ed altri mezzi di comunicazione» ormai da tempo. Lo stesso poteva dirsi per l’attività parlamentare e per quello dell’esecutivo «in cui non vi sono segreti e nemmeno fatti compromettenti la sicurezza del paese». Moro non poteva rivelare nulla neanche riguardo le cosiddette «stragi di Stato», perché «assolutamente nulla vi è di vero», mentre qualcosa avrebbe potuto dire sui sistemi di finanziamenti occulti ai partiti, ma si trattava di rivelazioni che «non riguardano la sicurezza dello Stato ma la rispettabilità e la credibilità della classe politica nei suoi esponenti e nei suoi partiti». Nel settore militare non esistevano elementi a conoscenza di Moro «che possano costituire un rischio di sicurezza». Egli era al corrente delle linee generali ma «non poteva scendere nei dettagli operativi». Il ruolo dell’Italia, inoltre, non era tale da «poter influire sugli equilibri internazionali e, quindi, da necessitare una specifica e così clamorosa azione di ricerca da parte di un’altra nazione» e per la questione dell’armamento atomico il Sismi confermava quanto letto già nella relazione del Sisde, ossia della mancanza di conoscenze italiane del targeting. In conclusione, si riteneva che «per quanto riguarda la politica estera e militare dell’Italia non esiste un serio rischio di sicurezza connesso con il rapimento»6. Il 19 maggio, dopo la conclusione della vicenda, «la Repubblica» pubblicò un’intervista di Paolo Guzzanti dal titolo preoccupante: Servizi segreti in allarme per le «confessioni» di Moro. Si trattava di un ufficiale dei servizi, non si specificava quali, ma presumibilmente del Sismi visto che la prima domanda era su questo ente. La fonte sosteneva che avevano lavorato sulle lettere di Moro, sottolineando che si era trattato di una vera e propria «opera di decrittazione» che aveva permesso di raggiungere la prova «che quelle missive contengono una sorta di codice, anche se non in senso proprio, di un vero messaggio cifrato». Codice o no? Messaggio in cifra o no? Andando avanti, il presunto uomo dei servizi affermò che Moro aveva fatto «numerose e gravi rivelazioni ai suoi carcerieri a proposito di uomini, cose e situazioni. Sia di carattere politico, sia di carattere militare». La domanda successiva aveva un lato curioso, perché si chiedeva: «Chi è al corrente di questa ipotesi?». La risposta poteva essere, «ormai tutto il mondo», visto che lo si legge su «Repubblica», ma fu la seguente: «Non si tratta più di un’ipotesi. Comunque l’esecutivo, se è questo che vuole sapere, è stato informato». Il problema, però, per l’uomo non era tanto sapere cosa Moro 6 Ivi, Appunto, Rischio di sicurezza connesso con li rapimento dell’on. Moro, Roma 3 aprile 1978.
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avesse potuto dire, quanto «perché le Br tacciono». Secondo l’agente, il Viminale era convinto che le Br avrebbero presto pubblicato tutto, nastri di eventuali registrazioni compresi, e che non ci fossero interessi stranieri. Il servizio militare, invece, non aveva alcun elemento per sapere cosa avrebbero fatto le Br (o chi per loro), ma temeva che «l’organizzazione delle Brigate Rosse disponga di una documentazione sufficiente per mantenere sotto controllo, in uno stato di panico, una intera categoria di potenziali ricattabili uomini politici, grand commis, grandi militari. E per ottenere il loro scopo le Br non hanno alcun interesse a spargere «a pioggia» i documenti di cui dispongono». Per la parte più propriamente militare, l’informatore anonimo, contraddicendo quanto scritto da due Servizi per il governo poche settimane prima, rivelava che «i responsabili della sicurezza atlantica sanno che Aldo Moro era a conoscenza di importanti segreti [e] sono in grave allarme. È in discussione un riesame della posizione stessa dell’Italia nell’alleanza. È una situazione senza precedenti»7. Il contenuto dell’intervista non corrisponde a quanto si legge nelle carte conservate in archivio e mettiamo in dubbio che l’uomo possa davvero aver fatto parte dei servizi di sicurezza italiani (cosa che all’epoca, ovviamente, Guzzanti non poteva sapere). Oggi, inoltre, abbiamo la possibilità di accertare cosa, eventualmente, Moro avrebbe potuto indicare attraverso i documenti conservati nel suo ufficio alle Br. 2.2 L’archivio di via Savoia Nel suo studio di via Savoia, dal 16 marzo costantemente tenuto sotto controllo dalla polizia, le carte di Moro erano conservate in sei armadi blindati, più un piccolo armadio di legno per lo schedario, contenenti documentazione di varia tipologia, in parte proprietà dello Stato (e che, dunque, non doveva trovarsi lì), in parte privata, che richiese mesi di lavoro alle Commissioni incaricate della stesura di un inventario e che, infine, venne acquisita dallo Stato italiano, comprandola per la parte privata direttamente dalla famiglia Moro8. Il 20 aprile 1979 la documentazione venne dichiarata di notevole interesse storico dal Sovrintendente archivistico del Lazio, e quindi sottoposta alla disciplina del DPR 1409/1963 che vietava l’alienazione, l’esportazione e la diversa destinazione di singoli atti. Secondo quanto ricostruito da Mastrogregori, sembra che Moro gestisse con estrema attenzione il proprio archivio, compartimentando la collezione di documenti: 7 «la Repubblica», 19 maggio 1978. 8 Il nipote Luca Bonini era stato nominato da Moro unico erede del suo archivio, ma la cosa sarebbe divenuta nota solo nel 1990, dopo il secondo ritrovamento degli scritti di Moro di via Monte Nevoso. Come si vedrà nel secondo volume, infatti, a due riprese, nell’ottobre del 1978 e poi nel 1990, nella base brigatista milanese di via Monte Nevoso le autorità italiane ritrovarono fotocopie e dattiloscritti delle lettere e del Memoriale di Aldo Moro.
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«A Guerzoni la chiave dell’armadio dei discorsi, a Rana e Freato quella dell’archivio della segreteria (e i materiali più riservati da custodire altrove), a Pompei e Cottafavi quella della raccolta degli atti diplomatici. La sera andava in scena il rituale delle borse: di stanza in stanza Moro consegnava, o riceveva e metteva in borsa, i documenti di competenza dei singoli collaboratori, uno per uno»9.
Dopo la morte del presidente, delle carte si occupò inizialmente la Fondazione Moro, costituita da Sereno Freato ed Eleonora Moro sotto la direzione di Giancarlo Quaranta. La fondazione pubblicò nel 1979 una raccolta di testi del leader democristiano presi dalle carte d’archivio10. Dopo quattro anni, il 28 aprile 1983, nell’ambito di una inchiesta collegata alla vicenda dello «scandalo petroli» (contrabbando di petrolio e relativa frode fiscale), la Guardia di Finanza compì una perquisizione nello studio di Moro. Nello schedario i finanzieri rinvennero schede corrispondenti a fascicoli nominativi, ma non la documentazione11. Il personale della Guardia di Finanza segnalò anche la presenza di documentazione riservata appartenente allo Stato, come detto in precedenza. Il 30 aprile e il 5 maggio il giudice istruttore presso il Tribunale di Torino confermava che i documenti in argomento erano di interesse della Pubblica Amministrazione e chiedeva l’intervento del competente Ufficio della Presidenza del Consiglio. Con verbale di perquisizione domiciliare e di sequestro redatto il 2 maggio, i carteggi vennero lasciati in custodia giudiziale al figlio di Moro, Giovanni, assicurati mediante l’apposizione di sigilli ai 6 armadi, mentre il Comando Generale della Guardia di Finanza predisponeva la vigilanza esterna dei locali. Il 7 maggio 1983 venne nominata una prima Commissione guidata da Aldo Dainotto incaricata di inventariare le carte «al fine di stabilire quanti documenti dell’archivio avessero natura riservata o comunque di interesse per la acquisizione da parte della Pubblica Amministrazione»12. La Commissione raggruppò gli atti in 5 sezioni comprendenti la «documentazione ori9 M. Mastrogregori, Moro, cit., pp. 26-27. 10 A. Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, Garzanti, Milano 1979. 11 Collaboratori e familiari di Moro «fecero varie ipotesi su dove i fascicoli potessero essere finiti: distrutti, lasciati negli uffici della presidenza del Consiglio, spostati in altra sede perché troppo ingombranti. Di fatto quei fascicoli, che riproducevano la rete dei rapporti dell’ufficio di Moro con elettori, collaboratori, finanziatori, non si troveranno più»; ivi, pp. 13-14. Mastrogregori afferma anche che «mancavano tutti i fascicoli da uno a tredicimila» [ibid.], basandosi su un verbale della Guardia di Finanza. Su questo ultimo punto esprimiamo dubbi. Tredicimila fascicoli, per piccoli che possano essere, occupano almeno 18 metri lineari e per contenerli ci vorrebbe un armadio lungo tre metri con sei scaffali, o due armadi da tre. Di questi non si ha notizia. Inoltre, un numero progressivo non è la collocazione del documento, che dovrebbe invece indicare il numero di armadio, il piano e la posizione del fascicolo. Un numero progressivo può corrispondere al protocollo, ma non risulta che sia stato trovato il relativo registro. La circostanza, per noi, resta da chiarire. 12 ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Segreteria Generale, f. 1, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gabinetto, segreteria speciale, Roma 27 ottobre 1987, Appunto. Materiale documentale rinvenuto dello studio privato dell’On. Aldo Moro.
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ginale, proveniente in modo inequivocabile da serie organiche di uffici dell’amministrazione statale (Presidenza del Consiglio, Ministero degli Esteri)»; le copie fotografiche o fotostatiche di documenti originali» sempre degli stessi uffici; documentazione non ufficiale in originale o in copia «avente interesse per lo Stato e carattere riservato e segreto»; documentazione privata «di particolare interesse storico» e, infine, «documentazione privata (di carattere riservato o meno) di interesse puramente personale e familiare»13. La parte appartenente allo Stato, si diceva, rientrava certamente nella legge sulla tutela dei documenti pubblici, che spettava ai sovrintendenti archivistici, ma «anche la maggior parte della restante documentazione – pur non costituita da documenti ufficiali della pubblica amministrazione – sembra dover rientrare nella stessa categoria dei documenti appartenenti allo Stato». I carteggi in mano a eminenti personalità dello Stato, infatti, normalmente «vengono a saldarsi tra di loro e a costituirsi in unità storico-giuridiche, per i rapporti e i nessi che tra di essi intercorrono, e ciò in ragione della personalità di chi li ha raccolti, ordinati e collegati». Perciò, la Commissione si disse contraria alla restituzione di parte dell’archivio alla famiglia e di parte all’Amministrazione pubblica, perché in quel modo si sarebbe spezzato «in modo irreparabile, l’unitarietà dell’insieme»14. La Commissione individuò documenti coperti da Segreto di Stato o comunque suscettibili di classifica di segretezza per quanto riguardava le carte sulla vicenda Sifar-De Lorenzo, il caso Lockheed, la questione Cogne, e carteggi riservati con uomini politici, partiti e aziende. Sulla vicenda Sifar-De Lorenzo, com’è noto, Moro aveva posto il segreto di Stato, lasciando che fossero condannati per diffamazione due giornalisti come E. Scalfari e L. Jannuzzi (condanna poi non confermata in secondo grado per la remissione della querela del generale De Lorenzo e del colonnello Mario Filippi)15. Il carteggio sullo scandalo Lockheed per lo più proveniva dal Parlamento, sebbene alcune carte fossero state prodotte da Ovidio Lefevre e dal senatore Gui, uno dei ministri della Difesa coinvolti nello scandalo con Mario Tanassi. Lo scandalo, infatti, che riguardava la vendita all’Italia di aerei forniti dalla ditta americana Lockheed, costrinse il Parlamento a formare una Commissione inquirente. La seconda, in particolare, che operò nel 1976-77, fu presieduta dal senatore Mino Martinazzoli, coadiuvato da due vice, uno del Pci e uno del Psi e composta da 8 Dc, 7 Pci, 2 Psi, un membro di Sinistra Indipendente, uno di Democrazia nazionale e uno del Gruppo Misto-Union Valdotaine. Il voto di Martinazzoli fu decisivo per non incriminare l’ex primo ministro coinvolto, Mariano Rumor, mentre Gui e Tanassi vennero incriminati, ma poi 13 ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Segreteria Generale, f. 1, Appunto. 14 Ibid. 15 Cfr. Elenco dei documenti contenuti nel pacco n. 1 ora in ACS, fondo Moro, Carabinieri, busta 174. Scalfari tornò in via Savoia solo nel febbraio 1978 e intervistò Moro. La cosa interessante è che proprio quello studio ospitava la documentazione secretata da Moro all’interno del vasto archivio che egli aveva organizzato nel corso della sua lunga carriera.
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prosciolti. Fu proprio per questa vicenda, durante la discussione in aula, che Moro pronunciò un discorso, divenuto famoso per questo passaggio: «… Per tutte queste ragioni, onorevoli colleghi che ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare…»16. Tornando all’archivio, la documentazione riservata e segreta successiva riguarda l’attività del presidente democristiano come ministro degli Esteri, dunque fino al 1974. Della metà degli anni Sessanta sono un consistente numero di documenti sulla «Società Cogne», attiva in Val d’Aosta nel comparto energetico (1965-1968). I documenti presenti negli armadi riguardanti questioni militari e la Nato risalgono al periodo 1963-1969, mentre sono molto più recenti, ossia del 1977, due fascicoli su forze di polizia e ordine pubblico che potrebbero avere nessi con quanto ritrovato, a dire di Morucci, in una delle borse di Moro. Tutti questi documenti furono acquisiti dalla Pubblica amministrazione nell’agosto 1983 e custoditi presso la Segreteria speciale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il 13 febbraio 1984 altra documentazione, non meglio specificata negli atti, fu consegnata all’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio 17. Una seconda Commissione, istituita nel maggio 1992 e presieduta dal prof. Enrico Serra, ebbe il compito di completare l’esame delle carte private di Moro. Terminò l’inventario il 3 giugno 1993 affermando che «non esistevano documenti nazionali rilevanti sotto il profilo del segreto di Stato oltre a quelli già acquisiti alla Pubblica Amministrazione dalla Commissione Dainotto»18. Esistevano documenti classificati di governi stranieri per i quali la consultabilità rimaneva vincolata alle norme vigenti in ciascun paese. Si disse d’accordo con il fatto che non convenisse smembrare l’archivio per non romperne l’unità. Infine, si disse persuasa che si dovesse creare un Fondo Moro presso l’archivio centrale dello Stato. L’archivio privato di Moro risultò così composto da oltre 220 buste per il periodo relativo agli anni 1953-1978, coprendo il seguente arco della carriera politica del presidente: ministro di Grazia e Giustizia, della Pubblica Istruzione, presidente del Consiglio dei Ministri, ministro degli Affari Esteri e nuovamente presidente del Consiglio. Nel 1995 il fondo fu acquisito interamente dall’Archivio di Stato, dove venne ad affiancarsi agli archivi personali di altri uomini politici come Giovanni Giolitti, Vittorio Emanuele Orlando, Ferruccio Parri e Carlo Sforza. Si diede inizio a un nuovo lavoro di lettura e inventario delle carte in vista della apertura alla consultazione del fondo, rispettando la sequenza 16 Discorso di Moro alla Camera, Parlamento Italiano, Camera dei deputati, Resoconto stenografico, seduta del 9 marzo 1977. 17 M. Matrogregori, Moro, cit., p. 15. 18 ACS Caso Moro, b. 174 cit., e ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Segreteria Generale, f. 1. Facevano parte della Commissione interministeriale, oltre al presidente, Alcide Berloffa, Roberto Fraissinet, Mario Serio, Giovani Battista Verderame (sostituito poi dal dott. Rocca), Giampiero Massolo, Edgardo Verganti e Patrizia Ferrara.
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dell’ordinamento dato da Moro, o da suoi collaboratori. Le carte, oltre a quelle segrete e riservate già citate, sono relative all’attività del presidente come ministro di Grazia e Giustizia (1955-1957), della Pubblica Istruzione (1957-1959) di segretario della Dc (1959-1963), di ministro degli Esteri (in più fasi dal 1964 al 1974) e di presidente del Consiglio (1963-1968 e 1974-1976). Le prime 32 buste sono oggi liberamente consultabili. Contengono documenti degli anni 1959-1978 costituiti da minute di testi e discorsi, molti dei quali pubblici. Le buste 33-37 sono parzialmente consultabili. Contengono note biografiche, appunti, rassegne stampa, fotografie, interventi parlamentari, messaggi di saluto. Le buste 38-58 non sono consultabili. Contengono carte sull’ordine pubblico e la sicurezza interna (1971-1977), carte dell’Ufficio del capo di Gabinetto di Moro ministro degli Esteri e presidente del Consiglio. Le buste 60-196 contengono documentazione varia relativa all’attività di Moro in qualità di ministro di Grazia e Giustizia, della Pubblica istruzione ecc., questioni Onu, Nato e Cee. Le altre buste sono formate da interventi parlamentari, documenti sulle visite di Stato di Moro e di personalità straniere in Italia. L’ultima Commissione, istituita nel 2003 e presieduta dal Consigliere di Stato, già capo della Polizia, Giuseppe Porpora, fu incaricata di verificare l’eventuale permanenza di motivi che impedivano il trasferimento della documentazione conservata presso la Segreteria speciale della Presidenza del Consiglio dei Ministri all’Archivio di Stato. Alla fine dell’esame, una parte venne declassificata (159 fascicoli), mentre su 7 fascicoli è stato mantenuto il segreto19. Alla luce di questa breve ricognizione del fondo Moro, appare difficile credere a un passaggio di carte da via Savoia a via Montalcini o alla Liguria, dove era riunito in modo pressoché permanente l’Esecutivo brigatista. Peraltro, l’ipotesi presenta notevoli incongruità logiche. Se Moro fosse stato rapito da un servizio occidentale, non sarebbero esistiti segreti che i suoi eventuali rapitori già non conoscessero. Se, al contrario, fosse un servizio dell’Est, allora avrebbe sbagliato persona. Sarebbe stato molto più semplice e meno vistoso operare come di solito operano i servizi, ossia ricattando, infiltrando o corrompendo. Per quanto riguarda le Br, infine, nessuno dei «pentiti» o dei dissociati ha mai ricordato la circostanza di un passaggio di carteggi. Né, se consegna di documenti ci fu, nessun compartecipe all’eventuale canale di ritorno ha mai detto una parola in proposito, neanche oggi, a distanza di quasi 40 anni. Le eventuali carte non sono mai state ritrovate, neanche nel luogo dove dovevano naturalmente trovarsi, ossia la base di via Monte Nevoso scoperta a Milano il 1° ottobre 1978. Inoltre, non sono mai state usate da chi eventualmente le avesse avute. Il Memoriale redatto da Moro in via Montalcini, infine, smentisce qualsiasi ipotesi di consegna. Se ci fosse 19 Cfr. ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Segreteria Generale, f. 1, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Verbale di Consegna di Documentazione, Roma, 25 marzo 2010, f.to Giuliana Masiello e Bruno Bonifacino. Qui anche l’inventario della documentazione declassificata a “non classificato” contenuta nei faldoni «Lookheed» 1 e 1 dell’archivio.
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stato un passaggio di documenti, a cosa sarebbero servite le memorie di Moro sugli stessi argomenti, senza peraltro che facesse mai un solo riferimento a eventuali carteggi? Se le Br avessero saputo che Moro conservava le carte degli scandali, dal Sifar al Lockheed, e che Moro era stato prima di tutto interessato a salvare, o salvaguardare, il suo partito e se stesso, allora avrebbero potuto usarli come mezzo di pressione per rompere il muro della fermezza. Ma non lo fecero, perché non avevano in mano alcuna di quelle carte. Secondo i giudici del primo processo Moro, che diedero credito alle dichiarazioni dei «pentiti» Antonio Savasta, Massimo Cianfarelli, Patrizio Peci e Carlo Bono, Moro «mantenne un atteggiamento “lucido, coerente, coraggioso” e a specifiche domande sui segreti di Stato rispose in termini generici senza dare risposte esaurienti», al punto che «il contenuto del Comunicato n. 6, in cui si enunciava invece che il Presidente della Dc aveva rivelato «turpi complicità di regime, fatti e nomi di una delle più sanguinose pagine della storia degli ultimi anni, gli interessi personali, le corruzioni degli uomini di potere», era falso, stilato solo per «dare forza all’organizzazione». Quando, con il Comunicato n. 9, le Br annunciarono che «le risultanze dell’interrogatorio Moro» sarebbero state fornite al movimento rivoluzionario, in realtà le risposte dell’ostaggio non erano mai state fatte circolare «perché dagli interrogatori non era emerso alcun elemento valido da comunicare»20.
20 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 9, Sentenza Moro. Sintesi Analitica, pp. 63-64.
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Capitolo 3 Dalla prigione del popolo
3.1 Via Montalcini e il primo Comunicato Dopo essere stato prelevato in via Fani il presidente democristiano fu rinchiuso quella stessa mattina in via Montalcini, uscendone solo il 9 maggio 1978 per essere ucciso. La cosiddetta «prigione del popolo» si trovava in un appartamento al piano terreno circondato da un giardino ed era stata ricavata in uno studio per mezzo di una parete posticcia nascosta da una libreria rotante e completamente insonorizzata. C’erano un letto, un comodino dove Moro avrebbe trascorso ore a scrivere, una conduttura per l’aria condizionata e, almeno inizialmente, un microfono inserito nella parete. «È un vano angusto», commentò in seguito Moretti, «non è stato costruito per farci delle passeggiate. Sappiamo di obbligare Moro a un grosso disagio, ma sappiamo anche che nei tempi brevi è sopportabile»1. I quattro brigatisti che gestirono materialmente la prigione erano l’intestataria dell’appartamento, Anna Laura Braghetti, una irregolare che in quel periodo divise la sua vita tra l’ufficio e la prigione di Moro; Germano Maccari, un irregolare della Colonna romana; Prospero Gallinari e Mario Moretti. Dei quattro, solo Gallinari non uscì mai da quella casa. Raramente la lasciò Maccari. Moretti si recò con una certa frequenza prima a Firenze, poi a Rapallo, dove era riunito in modo permanente l’Esecutivo delle Br. Qui consegnava i verbali degli interrogatori e le lettere di Moro, si discuteva degli sviluppi della vicenda e si decidevano i passi successivi. Dopo il 18 aprile, quando venne scoperta la base di via Gradoli a Roma che Moretti divideva saltuariamente con la Balzerani, egli si trasferì a Firenze, da dove si recava a Roma in giornata, dormendo eventualmente in via Montalcini2. 1 M. Moretti, Brigate rosse, cit., pp. 133-134. 2 Nella circostanza l’Esecutivo delle Brigate rosse era composto da Lauro Azzolini, Rocco Micaletto, Franco Bonisoli e lo stesso Moretti. Nel corso del sequestro si riunì prevalentemente in Liguria. Moretti, parlando del luogo dove si riunì l’Esecutivo, spiegò: «La base per riunirci è messa a disposizione dal Comitato rivoluzionario della Toscana [si tratta di Colonne non concentrate su una sola città]. Si trova alla periferia di Firenze, facile da raggiungere dal Nord e dal Sud, a metà strada da tutto. Ma nel corso dei cinquantacinque giorni ci sposteremo a Rapallo. In Liguria siamo meglio organizzati e Rapallo è il più frequentato dei comuni riveraschi anche d’inverno. Ci si può andare senza dare nell’occhio»; M. Moretti, op. cit., p. 138.
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Lo stesso 16 marzo Moretti scrisse il primo Comunicato, nel quale, tra l’altro, si annunciava l’inizio di un processo contro l’ostaggio. Quindi le Br tacquero in attesa delle reazioni della Dc e del governo. Governo che nella notte tra il 16 e il 17 marzo ottenne in Parlamento un’ampia maggioranza. Di seguito il testo del primo Comunicato: Giovedì 16 marzo un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo ALDO MORO, presidente della Democrazia Cristiana. La sua scorta armata, composta da cinque agenti dei famigerati Corpi Speciali, è stata completamente annientata. Chi è ALDO MORO è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino ad oggi il gerarca più autorevole, il “teorico” e lo “stratega” indiscusso di quel regime democristiano che da trent’anni opprime il popolo italiano. Ogni tappa che ha scandito la controrivoluzione imperialista di cui la DC è stata artefice nel nostro paese, dalle politiche sanguinarie degli anni ’50, alla svolta del “centro-sinistra” fino ai giorni nostri con “l’accordo a sei” ha avuto in ALDO MORO il padrino politico e l’esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste. È inutile elencare qui il numero infinito di volte che Moro è stato presidente del Consiglio o membro del Governo in ministeri chiave, e le innumerevoli cariche che ha ricoperto nella direzione della DC, (tutto è ampiamente documentato e sapremo valutarlo opportunamente), ci basta sottolineare come questo dimostri il ruolo di massima e diretta responsabilità da lui svolto, scopertamente o “tramando nell’ombra”, nelle scelte politiche di fondo e nell’attuazione dei programmi controrivoluzionari voluti dalla borghesia imperialista. Compagni, la crisi irreversibile che l’imperialismo sta attraversando, mentre accelera la disgregazione del suo potere e del suo dominio, innesca nello stesso tempo i meccanismi di una profonda ristrutturazione che dovrebbe ricondurre il nostro paese sotto il controllo totale delle centrali del capitale multinazionale e soggiogare definitivamente il proletariato. La trasformazione nell’area europea dei superati Stati-nazione di stampo liberale in Stati imperialisti delle Multinazionali (Sim) è un processo in pieno svolgimento anche nel nostro paese. [Lo] Sim, ristrutturandosi, si predispone a svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione degli interessi economici-strategici globali dell’imperialismo, e nello stesso tempo ad essere organizzazione della controrivoluzione preventiva rivolta ad annichilire ogni “velleità” rivoluzionaria del proletariato. Questo ambizioso progetto per potersi affermare necessita di una condizione pregiudiziale: la creazione di un personale politico-economico-militare che lo realizzi. Negli ultimi anni questo personale politico strettamente legato ai circoli imperialisti è emerso in modo egemone in tutti i partiti del cosiddetto “arco costituzionale”, ma ha la sua massima concentrazione e il suo punto di riferimento principale nella Democrazia Cristiana. La DC è così la forza centrale e strategica della gestione imperialista dello Stato. Nel quadro dell’unità strategica degli Stati Imperialisti, le maggiori potenze che stanno alla testa della catena gerarchica richiedono alla DC di funzionare da polo politico nazionale della controrivoluzione. È sulla macchina del potere democristiano, trasformata e “rinnovata”, è sul nuovo regime da essa imposto che dovrà marciare la riconversione dello Stato-nazione in anello efficiente della catena imperialista e potranno essere imposte le feroci politiche economiche e le profonde trasfor268
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mazioni istituzionali in funzione apertamente repressiva richieste dai partner forti della catena: Usa, RFT. Questo regime, questo partito sono oggi la filiale nazionale, lugubremente efficiente, della più grande multinazionale del crimine che l’umanità abbia mai conosciuto. Da tempo le avanguardie comuniste hanno individuato nella DC il nemico più feroce del proletariato, la congrega più bieca di ogni manovra reazionaria. Questo oggi non basta. Bisogna stanare dai covi democristiani, variamente mascherati, gli agenti controrivoluzionari che nella “nuova” DC rappresentano il fulcro della ristrutturazione dello SIM, braccarli ovunque, non concedere loro tregua. Bisogna estendere e approfondire il processo al regime che in ogni parte le avanguardie combattenti hanno già saputo indicare con la loro pratica di combattimento. È questa una delle direttrici su cui è possibile far marciare il Movimento di Resistenza Proletario Offensivo, su cui sferrare l’attacco e disarticolare il progetto imperialista. Sia chiaro quindi che con la cattura di ALDO MORO, ed il processo al quale verrà sottoposto da un Tribunale del Popolo, non intendiamo “chiudere la partita” né tantomeno sbandierare un “simbolo”, ma sviluppare una parola d’ordine su cui tutto il Movimento di Resistenza Offensivo si sta già misurando, renderlo più forte, più maturo, più incisivo e organizzato. Intendiamo mobilitare la più vasta e unitaria iniziativa armata per l’ulteriore crescita della GUERRA DI CLASSE PER IL COMUNISMO. PORTARE L’ATTACCO ALLO STATO IMPERIALISTA DELLE MULTINAZIONALI. DISARTICOLARE LE STRUTTURE, I PROGETTI DELLA BORGHESIA IMPERIALISTA, ATTACCANDO IL PERSONALE POLITICO-ECONOMICO-MILITARE CHE NE È L’ESPRESSIONE. UNIFICARE IL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO, COSTRUENDO IL PARTITO COMUNISTA COMBATTENTE.
Il Comunicato fu diffuso a Roma il 18 marzo attraverso una telefonata a Radio Onda Rossa alle ore 9.30 e una alle 12.00 al quotidiano «Il Messaggero», dopo che il giorno precedente un’analoga telefonata allo stesso giornale con l’indicazione di un luogo di ritrovamento non era andata a buon fine3. Venne quindi diffuso anche a Milano e Torino. Alla consegna del primo Comunicato e della prima lettera di Moro a Cossiga parteciparono in tre: Bruno Seghetti, Valerio Morucci e Adriana Faranda. Questo perché inizialmente, non sapendo cosa sarebbe successo, come la polizia avrebbe reagito, si ritenne in sede di Direzione di Colonna romana di impiegare un nucleo rafforzato e sperimentato. Il primo Comunicato venne lasciato all’interno di una busta posta in una intercapedine laterale di una cabina per fototessera nel sottopassaggio pedonale di largo Argentina (oggi non più esistente), ma il giornalista de «il Messaggero» non lo trovò e venne richiamato il giorno successivo. Tutti i Comunicati consegnati a «Radio Onda Rossa» nel corso del sequestro vennero portati da Seghetti, che dunque può essere indicato come il “terzo postino”4. 3 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 C, faldone 18, Ministero dell’Interno, DGPS, Cronologia delle telefonate e del rinvenimento dei documenti delle Brigate Rosse, 18 marzo 1978. 4 Conversazione degli autori con Bruno Seghetti.
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Un’analisi del documento fu svolta dal ministero dell’Interno, che il 21 marzo consegnò al Gabinetto speciale di Cossiga una lunga relazione. La lingua, vi si legge, era di notevole livello culturale: «Il consueto linguaggio delle Br raggiunge qui una strutturazione generale la cui complessità appare rilevante». Il lessico fu giudicato «scontato», con poche novità rispetto al passato. La sintassi, invece, rivelava in più punti una certa «abilità e personalità». L’autore, inoltre, aveva adoperato «alcune variazioni linguistiche di raffinata tradizione retorica» come le «inversioni parallele», riscontrate in diversi punti del volantino. Gli analisti avevano confrontato il primo Comunicato di Moro con quello corrispondente di Sossi, osservando che in quest’ultimo caso la sintassi era lineare, escludendo quindi identità tra i due autori e concludendo questa parte con l’ipotesi che l’autore del Comunicato Moro fosse «un pubblicista di notevole esperienza culturale». Venne azzardato che nella redazione del testo ci fosse un’interferenza dal francese o dall’italiano parlato in Sardegna o in Friuli, in cui la distinzione tra i due accenti, grave e acuto per il verbo essere, era giudicata «praticamente inesistente». A tale proposito, si osservava lo stesso fenomeno nel sesto Comunicato Sossi e nell’ultimo Amerio5. Da un ulteriore esame dei carabinieri risultò che la macchina impiegata per redigerlo era una Ibm elettrica con carattere italic. Un’ottima macchina, si sottolineò in un appunto, di costo elevato e poco diffusa. Chi aveva materialmente scritto il messaggio «dimostra di possedere una buona tecnica di battuta e di impaginazione grafica, ma non sembra essere un dattilografo professionista». Tra le ipotesi di quei primi giorni, si sostenne che poteva trattarsi di uno straniero, forse un americano per la particolare spaziatura lasciata dopo il punto6. Su questo si era insistito anche nei giorni precedenti, quando si era scritto che il messaggio pubblicato dal «Messaggero» il 18 marzo rivelava una struttura del corpo di scrittura «perfettamente identica a quella prevista dalle “regulations” in vigore per tutto quanto viene dattiloscritto normalmente (normalmente in inglese, spesso anche in italiano) presso l’esercito Usa (comprese le relative Basi in Europa e in Italia)».
L’indicazione fece pensare al possibile coinvolgimento di dipendenti italiani che lavoravano nelle basi Usa dislocate in Italia e Germania7.
5 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 2, Volantino n. 1. Analisi Tecniche e di polizia, 21 marzo 1978. 6 ACS, Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, Caso Moro, Sala Operativa, b. 10, Appunto, 29 marzo 1978. 7 Ivi, Appunto del 23 marzo. Stessa analisi in MIGS, b. 11, Annesso due al foglio 04/20561/R/1, Roma, 22 marzo 1978; cfr. anche ivi, b. 23 A, faldone 2.
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3.2 Le reazioni politiche All’eccidio di via Fani, al rapimento e al primo Comunicato il governo italiano e le forze politiche reagirono attraverso quella che fu in seguito definita la linea della fermezza. Il 16 marzo, ricorda il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, si recarono a Palazzo Chigi i segretari dei maggiori partiti italiani: «Tutti concordano nel non dare alcun segno di cedimento [...]». Il giorno seguente Andreotti si incontrò nuovamente con i segretari dei partiti che sostenevano il governo: «Concordi sulla linea della fermezza»8. L’apparente ottimismo del presidente del Consiglio non era condiviso da tutti. Quella stessa mattina, infatti, il presidente del Senato, Amintore Fanfani, annotava nel suo diario: «Ora la situazione è disperata. Da parte eversiva si ha un gruppo di cervelli, da parte governativa nulla»9. Sempre Fanfani giudicò il primo Comunicato delle Br «molto significativo: è un appello a tutti gli insoddisfatti di sinistra di concentrarsi nel partito comunista proletario combattente. Da ciò il concentrarsi di critiche al sistema, che per vari aspetti è una antologia dei motivi che ogni componente di estrema sinistra tira fuori per criticare il sistema. [...] In questo quadro passano in secondo ordine tutti i possibili ricatti per scambiare Moro con Curcio e altri»10.
L’impressione che si ebbe era che le istituzioni si aspettassero subito la richiesta di uno scambio di prigionieri, e che apparissero del tutto digiune della linea brigatista. Fanfani lesse quel Comunicato come se per la prima volta si fosse trovato di fronte a uno scritto degli estremisti, nonostante il suo nome fosse comparso ripetutamente nei precedenti elaborati brigatisti. Sul piano concreto, del resto, mentre alcuni importanti uomini politici, come il segretario del Partito repubblicano Ugo La Malfa, chiedevano lo stato d’assedio, il governo rispose immediatamente inasprendo le pene per gli esecutori di atti particolarmente efferati attraverso alcune misure varate per decreto legge il 21 marzo 1978. L’articolo 630 del c. p. fu sostituito da una nuova versione. Le pene per i sequestratori furono stabilite in 30 anni. In caso di morte dell’ostaggio fu previsto l’ergastolo. Furono integrati anche gli articoli 648 (riciclaggio di denaro), il 165 e il 225 (che prevedeva la possibilità da parte di ufficiali di polizia «nei casi di assoluta urgenza e al solo scopo di proseguire le indagini [...]» di «assumere sommarie informazioni dall’indiziato» senza la presenza di un difensore. Fu ampliato l’articolo 226 riguardante le intercettazioni telefoniche, e ne furono creati alcuni ex novo, come quello sul fermo di polizia e sulle locazioni, che prevedeva l’obbligo di 8 Giulio Andreotti, Diari 1976-1979. Gli anni della solidarietà, Milano 1981, pp. 192-193. I maggiori partiti che sostenevano il governo erano, oltre alla Dc e al Pci, il Psi, il Pri e il Psdi. Il Pli e l’Msi, invece, votarono contro mentre si astenne la Südtirolvolkspartei. 9 «La Stampa», 19 marzo 2000. Tutte le citazioni dal diario di Fanfani si riferiscono a questa edizione. 10 A. Fanfani, Diario, 19 marzo 1978, cit.
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«comunicare all’autorità locale di pubblica sicurezza, entro quarantotto ore dalla consegna dei fabbricati stessi, l’esatta ubicazione di essi, […] le generalità dell’acquirente, del conduttore [...] e gli estremi del documento di identità».
Per i contravventori fu introdotta una pena detentiva da sei mesi a un anno. Il Partito comunista, a cui dedicheremo un capitolo, si dichiarò immediatamente avverso a qualsiasi ipotesi di apertura verso i brigatisti e mantenne questa linea per tutta la durata della crisi. L’editoriale de «l’Unità» del 19 marzo 1978 era aperto da un titolo eloquente: «Un uomo torturato». Non vennero usati mezzi termini: le Br erano considerate «belve che è perfino difficile paragonare ai fascisti [...] un pugno di fanatici manovrati da forze che stanno molto in alto, probabilmente anche al di fuori del nostro paese». Nelle stesse pagine Berlinguer intervenne con un contributo dal titolo Unità e rigore, nel quale la sfida era attribuita a «forze potenti, interne e internazionali, che muovono le fila di questo attacco spietato contro lo Stato e le libertà repubblicane. [...] È giunto il momento di decidere da che parte si sta. Noi la scelta l’abbiamo fatta. Essa è scritta nella nostra storia. Il regime democratico e la Costituzione italiana sono conquiste decisive e irrinunciabili del movimento popolare, delle sue lotte, del suo cammino».
Con la formazione del nuovo governo «il rischio di una grave lacerazione è stato evitato, una nuova maggioranza parlamentare si è formata e vi è un programma che consente di fronteggiare l’emergenza secondo linee che vanno al di là dell’immediato».
Il proposito suo e del partito era «che la più ferma convivenza democratica si accompagni, finalmente, al rigore, alla pulizia, all’efficienza». Ammise che lo Stato attraversava difficoltà serie («bisogna risanare lo Stato») e che ci fossero gravi mancanze («la cosa pubblica deve essere amministrata seriamente»), ma dichiarò che il Pci sarebbe rimasto nella maggioranza «con lealtà e fermezza». Berlinguer, quindi, si rivolse tanto ai militanti del Pci quanto alle altre forze politiche con quello che può essere definito un «manifesto programmatico», nel quale la vicenda dello statista democristiano restava sullo sfondo (si limitò a rinnovare a Moro «la nostra stima e solidarietà»). Era enfatizzato soprattutto il fatto politico nuovo, l’ingresso nella nuova maggioranza «dopo più di trent’anni, del Partito comunista italiano». Sul versante della Dc. Zaccagnini parlò di repubblica, governo e Stato, di escalation della guerriglia, e di reazione «con misure organiche e proporzionate al terrorismo». Gli uomini della Dc erano «tutti insieme ad Aldo Moro per la sua salvezza e per il suo ritorno alla famiglia, all’Italia e al nostro partito», ma erano 272
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«particolarmente con tutti i cittadini, gli agenti di Ps, i carabinieri, i magistrati, i giornalisti, gli uomini politici che sono stati più direttamente colpiti da questo tentativo di devastazione»11.
Insomma, non c’era solo Moro. Sebbene apparisse deciso e forte, Zaccagnini, a detta di Fanfani, non aveva «alcuna idea in testa». Non voleva, si lamentò il presidente del Senato, «nemmeno convocare il Consiglio nazionale. Io gli dico che deve convocarlo, prepararlo bene con incontri in tutti i settori. E lo invito a superare difficoltà psicologiche e a convocare anche i cento o i mille, per chiedere ad essi che diano pure la loro opinione»12.
Il giudizio di Fanfani trova una conferma in un singolare episodio di cui si rese protagonista lo stesso Zaccagnini. In pieno rapimento Moro egli fece pervenire all’ambasciatore statunitense Gardner, per tramite di Mario Ferrari Aggradi, un presunto documento strategico del Pci che a suo dire sarebbe stato scritto «da un membro del Comitato centrale comunista», di cui non indicava il nome. In una dettagliata relazione a Washington, il 29 marzo l’Ambasciata ricostruì l’episodio: si riferiva che, secondo il documento giunto per vie ufficiose nelle mani di Piccoli, «Segre e Incenito, della sezione Esteri, sono andati all’Ambasciata cecoslovacca al fine di evitare ogni tipo di implicazioni da parte dei comunisti che risiedono nell’area di Praga-Karlový Vary e Mariánské Lázneˇ con quanto sta avvenendo ora […]. Pajetta, Cossutta e Cervetti d’altra parte sono andati all’ambasciata dell’Urss per protestare contro la diagnosi superficiale e scorretta fatta dai comunisti sovietici, secondo cui l’attuale situazione è frutto di una strategia della tensione fomentata per trent’anni dalla Dc».
Il documento si soffermava sullo scenario che la morte di Moro avrebbe potuto provocare, come la «formazione di un governo di unità nazionale sul quale Ugo La Malfa apparentemente è già d’accordo». Descriveva anche l’inizio di un’operazione dei comunisti dentro l’Enel, la Sip e le Ferrovie, per «opporsi ai simpatizzanti di Autonomia, Br e Nap». Secondo gli analisti americani si sarebbe trattato di un falso: «Dopo aver guardato attentamente il documento abbiamo seri dubbi sulla sua autenticità, a giudicare dai contenuti e anche dallo stile grammaticale [e] ci chiediamo se sia davvero stato scritto da un membro del Comitato centrale del Pci».
11 «Il Popolo», 19 marzo 1978. 12 A. Fanfani, Diario, 22 marzo 1978, cit.
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Da qui i «dubbi sui motivi che può aver avuto Zaccagnini a farci avere un documento che è essenzialmente analitico, privo di fatti concreti, e un’ipotesi può essere che la leadership della Dc, in assenza del presidente Moro, stia diventando molto allarmata sulla prospettiva di una mobilitazione nazionale del Pci anche se tale prospettiva solo pochi giorni fa ci è stata smentita da un alto funzionario del Pci stesso»13.
Le forze sociali reagirono in modo abbastanza compatto al sequestro. I sindacati proclamarono uno sciopero generale e manifestazioni in tutta Italia, la più famosa delle quali si tenne a Roma in piazza San Giovanni. Qui il segretario generale della Cgil, Luciano Lama, disse che ci si trovava di fronte a un pugno di terroristi «che si accanisce contro le istituzioni e le libertà nostre […] a un piccolo gruppo di assassini che attenta alle istituzioni della democrazia italiana», ma ammise che «intorno a questa minuscola banda feroce di criminali» esisteva «un certo strato di acquiescenti, di passivi, di persone che se non altro moralmente si disimpegnano o addirittura solidarizzano con i criminali». Per questo si dovevano espellere dal seno delle masse non solo i terroristi, che erano pochi, ma «chi li giustifica, chi civetta con loro, chi li considera ancora troppo frequentemente come dei ragazzi che forse avrebbero anche ragione in altre condizioni». L’impressione che si trae dalle parole di Lama, è che il sindacalista conoscesse il contesto in cui operavano le Br, fosse al corrente del fatto che la cosiddetta «opacità operaia» aveva permesso ai brigatisti di agire per anni nelle fabbriche partecipando a uno scontro sociale da posizioni spesso ritenute sbagliate, magari tenute a distanza, ma mai denunciate. Al punto che Lama chiese a tutti di «aprire gli occhi» ed esortò «a collaborare con le forze che sono destinate, per statuto, a difendere la democrazia e la libertà del nostro Paese come forze dello Stato […] non lasciare che le cose vadano a posto per conto loro perché a posto per conto loro non andranno».
Il terrorismo, disse, «spegne le possibilità di lotta, isola il movimento dei lavoratori, sviluppa la sfiducia, il disimpegno, il qualunquismo». Lama conosceva bene il pericolo che si stava correndo. I brigatisti non dovevano più essere considerati «compagni che sbagliano», ma solo assassini e criminali14.
13 M. Molinari, Governo ombra, cit., pp. 97-99. 14 Discorso di Luciano Lama, piazza San Giovanni, Roma 16 marzo 1978, in www.facebook.com/La-CGILnel -900-159710697374009.
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3.3 Gli altri Comunicati Secondo quanto ricordato da chi lo tenne prigioniero, Moro trascorse i primi giorni in relativo silenzio; chiese una bibbia, dei libri, e alcune medicine. Le Br, da parte loro, attendevano segnali che non arrivavano e furono colte di sorpresa dalla posizione intransigente del Pci: «C’è stata un’ingenuità al limite dell’autolesionismo. Il Pci aveva portato a compimento la parabola, non c’era più margine perché la base esprimesse qualcosa di diverso. Forse lo sapevamo già ma non volevamo crederci. Quando il Pci si compatta sulla fermezza, questo ci colpisce come una mazzata»15.
Il terreno su cui si mosse il partito era molto frastagliato, in parte confuso, ma certamente fermo nel punto politico non previsto dalle Br prima del loro attacco: il Pci, anziché entrare in crisi, si era unito al suo interno e aveva operato una scelta politica precisa di fermezza e non trattativa per salvare Moro. Di contro, la Democrazia cristiana sembrava come in balia degli eventi. Moro ne fu informato; gli vennero fornite alcune notizie, alcuni giornali attraverso i quali poté prendere atto delle posizioni comunista e del suo partito. Ne fu «prima sorpreso, poi incredulo, sconcertato, irritato»16. E capì che per aprirsi uno spiraglio si doveva rompere la solidarietà tra le due forze politiche. Fu in quei frangenti che progettò quella che Moretti ha definito «la sua battaglia politica con il suo partito», aggiungendo: «È proprio una battaglia, anche se la fa molto in chiave personale. La vera partita la gioca con i suoi, con noi ha poco da discutere»17. All’inizio, però, i ruoli non sono ancora chiari, quantomeno per Moro. Egli, secondo Laura Braghetti, «non sa valutare» la lotta armata: «per lui sinistra vuol dire Pci, non immagina che possa esserci altro [...]. La politica ha un solo terreno, quello che lui pratica. [...] capisce la situazione in cui si trova [...] riconosce un certo linguaggio comunista, ma è altro da quello cui è abituato [...]»
e chiede se non ci sia qualcuno nel Pci «che so, un Longo» al quale egli possa parlare. Sempre la Braghetti ha notato che «gli si aprì uno scenario che non aveva mai neppure intravisto, perché nel mondo della politica di cui aveva esperienza il conflitto era espresso dal Pci e dal sindacato, e cioè da soggetti che 15 M. Moretti, Brigate rosse, pp. 145-146. 16 Ivi, p. 146. 17 Ibid.
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parlavano un linguaggio affine al suo e si muovevano all’interno di una dialettica istituzionale. In questa dimensione Moro era a suo agio [...]» tanto che «più volte, cercando una via di uscita e sperando di poter calcare sentieri noti, chiese a Mario [Moretti] se non ci fosse qualcuno, nell’ambito del Partito comunista, che avesse una qualche autorità ai nostri occhi [...]. Quando Mario gli rispose di no, [...] Moro individuò un problema politico che andava affrontato, e la cui comprensione, comunicazione agli altri abitanti del Palazzo e infine gestione, poteva fargli salvare la vita»18.
Le Br per parte loro non capivano del tutto il linguaggio di Moro, indiretto, allusivo, calibrato: Ricorda Moretti: «noi non conosciamo il potere [...]. Solo chi è dentro il gioco ne possiede le chiavi. È Moro che mi insegna un po’ a capire»19. Ci volle un po’ di tempo perché si incontrassero, anche se Moro, ovviamente, fu più rapido. Quando, allora, il no fermo delle forze politiche a ogni dialogo diventò chiaro, Moro decise di intervenire. Ricorda la Braghetti: «Fra noi e lui, in qualche modo, la situazione era cambiata. Continuava a essere nostro prigioniero, ma eravamo rapidamente arrivati a un punto in cui avevamo un problema in comune»20
e dopo poco più di una settimana espresse il desiderio di poter scrivere. Ogni sera la Braghetti, tornata dal lavoro, guardava Moro da uno spioncino, e «ogni volta incredula» lo vedeva «seduto sul letto, con due cuscini dietro le spalle, il taccuino appoggiato sulle ginocchia. Scriveva»21. Si «alza pochissimo dalla branda» ricorda Moretti, «sta sempre sdraiato o seduto. Legge e scrive con i cuscini dietro la schiena. [...] Ha molta carta, scrive in continuazione [...] Moro non fa che scrivere. Ha riempito una quantità di fogli»22. Le Br, però, attesero alcuni giorni per diffondere le sue prime missive: «Volevamo che il primo impatto fosse su quel che comunicavamo noi. Sono giorni carichi di pathos e una lettera di Moro farebbe saltare i sismografi. È al movimento che rivolgiamo il nostro primo messaggio e non vogliamo interferenze»23.
18 A. L. Braghetti, Il prigioniero, cit., pp. 71-72. 19 M. Moretti, Brigate rosse, cit., pp. 140 e 143. 20 Anche se differenti erano gli scopi. 21 A.L. Braghetti, Il prigioniero, cit. p. 71. 22 M. Moretti, Brigate rosse, cit., p. 134. 23 Ivi, p. 144.
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Mentre Moro cominciava a costruire un primo contatto con il suo partito furono approvate le leggi eccezionali, cosa che provocò un irrigidimento da parte delle Br che nel loro secondo Comunicato del 25 marzo accusarono il governo di aver «esautorato il parlamento da ogni potere», e il Pci di essere divenuto un «apparato poliziesco antioperaio» formato da «delatori e da spie di regime». Il Comunicato era composto da due punti: 1 – Il processo ad Aldo Moro e 2 – Il terrorismo imperialista e l’internazionalismo proletario. Mentre il primo punto fu dedicato alla carriera politica dello statista, di cui si annunciava l’imminente interrogatorio «con i criteri della giustizia proletaria», il secondo paragrafo riprendeva alcuni punti della Risoluzione strategica del febbraio, fornendo particolari su una presunta unità delle polizie europee, come avevano forse letto nei documenti conservati da Moro in una borsa, e soffermandosi soprattutto sull’autonomia di azione delle Br stesse. L’Esecutivo brigatista precisò che «sin dalla sua nascita la nostra Organizzazione ha fatto proprio il principio maoista «contare sulle proprie forze e lottare con tenacia»», principio applicato sempre, nonostante le «enormi difficoltà» in quanto «scelta giusta» e «naturale». Le Br proclamarono che «il proletariato italiano possiede in sé un immenso potenziale di intelligenza rivoluzionaria, un patrimonio infinito di conoscenze tecniche e di capacità materiali» e che «con il proprio lavoro ha saputo collettivamente accumulare una volontà e una disponibilità alla lotta che decenni di battaglie per la propria liberazione ha forgiato e reso indistruttibili». Su questo punto «poggia tutta la costruzione della nostra Organizzazione», ed è questo che «ha reso possibile […] condurre nella più completa autonomia la battaglia per la cattura ed il processo di Aldo Moro». Già con il loro secondo Comunicato, dunque, le Br intesero evitare ogni equivoco riguardo l’autonomia della loro azione. Precisarono di non essere legate ad altri e che tanto il rapimento quanto la gestione del sequestro erano esclusiva opera loro. Moro, lo si vedrà presto, ne prese atto. All’esterno Fanfani annotò: «Grande rilievo sulla stampa al secondo messaggio delle Br. Evidente il tentativo del Pci di prevenire l’effetto dell’appello alla sua sinistra, assumendo il messaggio del suo freddo argomentare, anche perché esso condanna il Pci per aver cambiato idea rispetto alle critiche di mesi ed anni fa che ora le Br fanno proprie, con ciò cercando di rompere la compattezza della base del Pci e della triplice sindacale»24.
Dato che il Comunicato venne diffuso attraverso una telefonata al «Messaggero» alle ore 16.30 del 25 marzo (e anche a Radio Onda Rossa), la stampa italiana fu molto critica nei confronti delle forze di polizia, accusate di non aver svolto debitamente il lavoro di sorveglianza nei punti in cui si poteva presumere che le Br avrebbero lasciato il 24 Fanfani, Diario, cit.
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nuovo Comunicato, ossia il palazzo del «Messaggero» a Roma25. L’ «Avanti» del 28 marzo scrisse che la polizia non «aveva ritenuto di sguinzagliare i suoi agenti segreti intorno alla redazione del giornale cui le Brigate rosse avevano fatto rinvenire il Comunicato n. 1. Il risultato di tanta imprevidenza e inefficienza è stato che nessuno ha sorpreso «il postino» che ha recapitato il Comunicato e lo ha posto dentro la bacheca del Messaggero». Le considerazioni furono riprese il giorno dopo da «Repubblica» in un articolo dal titolo Che cosa sta succedendo in Procura?, nel quale ci si chiedeva per quale motivo non fosse stato organizzato alcun servizio di vigilanza nei pressi del «Messaggero». Su queste domande il ministero dell’Interno interpellò il questore De Francesco, che rispose lo stesso 29 marzo dando alcune spiegazioni per la verità molto discutibili. Anzitutto, egli affermava che il primo Comunicato era stato ritrovato da un cronista del giornale in un sottopassaggio di largo Argentina, non proprio vicinissimo alla redazione e che «conseguentemente non c’era alcun motivo per attuare un servizio di appostamento davanti alla sede del suddetto quotidiano, dove non risulta che sia mai entrato un brigatista rosso per recapitare un messaggio». Il controllo era stato attivato sui telefoni di alcuni quotidiani, tra cui il «Messaggero», ma «la telefonata anonima, effettuata verso le ore 16.30, non è stata […] controllata dal personale dell’Arma dei Carabinieri addetto al servizio di intercettazione, in quanto il servizio stesso è iniziato, per motivi tecnici, poco dopo le ore 16.30, vale a dire dopo la telefonata anonima». Ciò premesso, il questore concludeva che fosse «imprevedibile che il Comunicato n. 2 […] potesse essere collocato nel luogo dove è stato poi trovato»26. Come il primo, anche il secondo Comunicato venne studiato al ministero degli Interni. Furono Zanda e Basili a produrre una prima analisi per il capo di Gabinetto, nella quale sostennero che era stato scritto da due o tre mani. La prima si avvertiva nella parte dedicata al processo a Moro; la seconda aveva redatto il paragrafo Il terrorismo imperialista e l’internazionalismo proletario, mentre la terza le ultime «sette righe del primo capitolo». Per la prima parte ritornava l’ipotesi di un redattore che aveva svolto attività giornalistica: «si noti il periodo sciolto e rapido, le parentesi, l’uso delle virgolette, frasi come “il perché è evidente”, alcuni interrogativi, l’aggiornata sintesi politico-cronistica del capoverso iniziale e della biografia di Moro»27.
La seconda parte era stata elaborata «da un teorico delle Br secondo schemi abbastanza tradizionali, in modo non giornalistico». Per quanto riguardava le tappe prin25 Il Comunicato fu diffuso anche a Milano, Genova e Torino negli stessi minuti, cfr. ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 C, faldone 18, Ministero dell’Interno, DGPS, Cronologia delle telefonate e del rinvenimento dei documenti delle Brigate Rosse, ff. 3-4. 26 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 1, f. 5, Questura di Roma, 05724/Digos, Roma 29 marzo 1978. 27 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 2, Appunto Zanda Basili sul volantino n. 2.
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cipali della vita politica di Moro, gli analisti osservavano che non era stato preso in considerazione l’impegno precedente al 1955 e si usava quello che era definito «il termine improprio “presidente della Dc” divenuto comune soltanto dopo il rapimento». Si evidenziava la «matrice delle Br nel proletariato ma non c’è nessun diretto riferimento al marxismo-leninismo» e poi si scivolava nella dietrologia: «duplice riferimento in sei righe all’autonomia delle Br (autonomia da chi? dai servizi segreti stranieri? coda di paglia?)». In pratica, queste e altre considerazioni presenti nell’elaborato non erano di nessun aiuto in quanto solo una lettura contestualizzata degli interi documenti dei brigatisti poteva aiutare a formare un quadro complessivo della strategia dei rapitori. Tra le considerazioni di carattere generale si legge che il testo appariva «pazientemente messo insieme e del tutto privo di passione rivoluzionaria» ed era anche un tentativo «di mettersi in sintonia con le frange sindacali non “collaborazioniste” che in questi giorni hanno protestato per le “leggi speciali” e che non si riconoscono nella sinistra storica». Per quanto riguarda i segreti potenzialmente estorti a Moro, il tentativo appariva «non convincente», perché enunciato in una parte «risicata» del Comunicato. Si escludeva, infine, qualsiasi influenza «del pasoliniano “Processo al Palazzo” e della cultura che porta avanti il tema»28. In una seconda relazione sullo stesso documento, Zanda enfatizzò il fatto che l’obiettivo principale del Comunicato era la Dc, attaccata specialmente per il suo disegno di integrazione europea e mondiale. Notava che tra le accuse rivolte alla Dc e a Moro mancavano del tutto quelle di corruzione, mentre era particolarmente virulento il richiamo alla collaborazione internazionale in materia di sicurezza e di polizia. In particolare, era «attaccata con forza l’adesione italiana a tale collaborazione». Importante appare l’annotazione per cui l’aver denunciato la presenza di esperti israeliani in Italia «fa pensare che l’estensore abbia a disposizione esclusivamente fonti giornalistiche (i giornali hanno pubblicato la notizia dell’arrivo degli israeliani e non sono stati smentiti)»29. Finalmente si diceva che il documento era indirizzato alla sinistra extraparlamentare e questo era enfatizzato dal riferimento all’uccisione di Fausto e Iaio: «c’è una mano tesa verso tutti i compagni dei due morti, verso i centomila che hanno partecipato ai funerali. Questo tentativo potrebbe essere anche artificiale e strumentale, segno di debolezza e isolamento reale»30. Le Br mostravano abilità nel soddisfare l’attesa di notizie su Moro inviando contestualmente un Comunicato «fortemente politico nella certezza che gli sarà dato largo spazio sui giornali nel giorno di Pasqua»31. 28 Ibid. 29 Ivi, Segreto. Analisi del comunicato n. 2 delle Br 25.3.1978 (anche in ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23A, faldone 2, Analisi del comunicato n. 2 delle Br 25.3.1978, segreto, f. 2). 30 Si tratta di Fausto Tinelli e Lorenzo «Iaio» Iannucci, del Centro sociale Leoncavallo, uccisi a colpi di pistola da ambienti della destra milanese il 18 marzo 1978. 31 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 2, Appunto Zanda Basili sul volantino n. 2, f. 3.
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Zanda tornò nuovamente sul linguaggio, «particolarmente curato sotto il profilo tecnico», che denotava un buon livello culturale degli autori, che probabilmente avevano avuto, come detto, esperienze giornalistiche «o di alta amministrazione pubblica o politiche o abbiano militato all’interno di apparati di partito». Il fatto che nel volantino fosse stata data particolare importanza all’episodio del Sifar era considerato un dato di particolare rilievo in quanto l’interpretazione dello scandalo […] come di un’abile macchinazione ricattatoria era una tesi diffusa, anche se minoritaria, nell’ambito delle sinistre. Nel suo complesso il messaggio era ritenuto di tipo «ideologico» e lo si spiegava nel senso che le Br non avevano la possibilità di «farci avere una documentazione certa […] comprovante la presenza di Moro o meglio del suo interrogatorio». Si avanzava l’ipotesi che il gruppo che teneva l’ostaggio non avesse possibilità di contatti diretti con il gruppo dirigente «che stende i messaggi». Oppure «Moro sta molto male, se non addirittura già morto? È certo comunque che il messaggio è freddo e astratto, come se Moro non ci fosse»32. Infine, ci si chiedeva come mai le Br accusassero soprattutto il mondo delle multinazionali e non «come sarebbe più logico, quello dei servizi segreti e, per tutti, della Cia?» La risposta era che le Br avevano affrontato un discorso «molto acuto, intelligente, forse giusto», perché mentre la Cia agiva all’interno di uno Stato, le multinazionali agivano in uno scenario più vasto come un’organizzazione più articolata e quindi maggiormente pericolosa. Questi ultimi passaggi del rapporto indicavano la scarsa conoscenza degli analisti non solo dell’organizzazione Brigate rosse, che non era strutturata secondo la divisione braccio armato e mente dirigente, ma soprattutto dei documenti politici e dell’ultima Risoluzione della direzione strategica, dove la questione delle multinazionali era spiegata in modo chiaro. A queste analisi si affiancò uno studio del prof. Baldelli che tornava sulle analogie tra i primi due Comunicati. Per lo specialista, l’autore era lo stesso, che mostrava anche nel secondo una «notevole capacità linguistico-culturale»33. Un’analisi del Sismi sul secondo Comunicato presenta un certo interesse in quanto si ipotizza che la fonte usata dai brigatisti per redigere il breve curriculum politico di Moro, inserito nel testo, fosse stato il libro dell’allora direttore di «Paese Sera», Aniello Coppola, intitolato Moro ed edito da Feltrinelli nel 1976. Il fatto in sé, ovviamente, non dimostrava nulla, ma era comunque un indizio che serviva a ricostruire il profilo delle persone che tenevano Moro prigioniero34.
32 Ivi, f. 4. Il documento anche in ivi, b. 13. 33 Ivi, Studio del prof. Baldelli. 34 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 11, Sismi, Annesso due al foglio 04/20561/R/1, In relazione al secondo comunicato… senza firma.
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3.4 La lettera a Cossiga Cercando di influenzare il corso della vicenda, Aldo Moro decise di scrivere per contribuire a rompere il muro di fermezza35. Secondo Moretti, quella linea era qualcosa di estraneo al modo di pensare di Moro e della Dc. Questi «mi spiega che la Dc non è un partito come gli altri [...] è un insieme di interessi e tendenze che si tengono attraverso spinte e controspinte [...]». Moro pensava che qualcuno o qualcosa stava paralizzando la Dc: «accennava di continuo a un intervento straniero, nulla di preciso, parla di un ambito Nato [...]. Dice che i tedeschi sono in testa nella repressione di fenomeni simili al nostro», poi «è convinto che la Dc sia ricattata dal Pci»36. Il giudizio è confermato indirettamente da Cossiga, secondo il quale l’aver capito che la Dc era un partito formato da una continua mediazione fu il merito maggiore di Moro. Secondo l’ex presidente della Repubblica italiana il capolavoro politico di Moro fu aver compreso «che il partito paraleninista, il partito alla tedesca, organizzato e strutturato, di Fanfani, non era adatto a una realtà magmatica e varia che nella Dc aveva trovato la sua espressione di potere. Quindi avrebbe contribuito a dare un alt all’evoluzione del partito in questa direzione. Aveva capito invece che la Dc doveva essere una cosa molto più vasta e che in essa si potesse realizzare una sorta di unità operativa tra forze che, in una normale democrazia, sarebbero state distinte e distanti tra loro»37.
Il disegno originale di Moro per aprire un dialogo con il suo partito prevedeva il coinvolgimento di Nicola Rana, suo segretario particolare, a cui fu consegnata una lettera personale con due missive, rispettivamente per la moglie38 e per Francesco Cossiga, tutte composte prima del 26 marzo, giorno di Pasqua39. Il professor Rana avrebbe dovuto svolgere il ruolo di contatto tra Cossiga, il governo e i brigatisti per avviare, in tal modo, una trattativa. Moro informò Rana di aver scelto Cossiga, perché rappre35 Annota Fanfani sul Diario il 27 marzo: «Vedo Malfatti, ma benché partecipi al comitato interministeriale di sicurezza non sa più di quanto scrivono i giornali»; e il 28 marzo: «L’inattività di Zac[cagnini] e dei suoi più stretti collaboratori è critica. Il frenetico operare a vuoto del ministro degli interni è condannato». A. Fanfani, Diario, cit. 36 M. Moretti, Brigate rosse, pp. 147-148. 37 F. Cossiga, La passione e la politica, cit., p. 89. 38 Alla moglie Eleonora il sequestrato scrisse solo poche righe di saluto e di rassicurazione: «io discretamente, bene alimentato ed assistito con premura». 39 I «postini» delle Br furono Faranda, Morucci e Seghetti, tutti della Colonna romana. Le lettere vennero consegnate in quei 55 giorni oltre che a Rana, a Don Antonello Mennini, al prof. Tritto e una sola volta al prof. Fortuna, ex allievo di Moro. I nomi e i recapiti vennero presi dall’agenda di Moro; cfr. ACS, Caso Moro, MIGS, b. 20, Sentenza-Ordinanza di rinvio a giudizio emessa dal giudice istruttore Rosario Priore a conclusione dell’istruttoria sul cosiddetto Moro-quater, f. 64.
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sentava un «filo» (che chiedeva di mantenere il più a lungo segreto) «fuori da pericolose polemiche». Raccomandava che la risposta del ministro non passasse attraverso i giornali e che fosse Rana, eventualmente, a trasmetterla («si concorderà poi come inoltrarla. Presupposto di tutto è che non vi sia sorveglianza alcuna presso la Sua portineria già dalla prima volta»). È chiaro, concludeva il presidente della Dc, «che un incidente farebbe crollare tutto con danno incalcolabile»40. Moro accusò i suoi amici di partito di averlo costretto in quella posizione nonostante le sue resistenze. Sapeva che la Dc era sempre stata il partito della mediazione ed era convinto che anche in quell’occasione si sarebbe trovata una strada percorribile. Era necessario, però, farlo in modo segreto. Sarebbe stato il partito, poi, a raccontare una propria versione, quella maggiormente opportuna dal punto di vista politico. In tal modo avrebbe potuto sganciarsi dal Pci, che in quel momento rappresentava l’elemento più deciso a proseguire sulla linea della fermezza. Il segretario non fece in tempo a consegnare la missiva, che le Br la resero pubblica con il terzo Comunicato, recapitato la sera del 29 marzo con una telefonata nuovamente alla sede del «Messaggero» alle 20.45, quindi a Radio Onda Rossa, poi a Genova, Torino e Milano41. Vi si legge che Moro «ha chiesto di scrivere una lettera segreta (le manovre occulte sono la normalità per la mafia democristiana) al governo ed in particolare al capo degli sbirri Cossiga. Gli è stato concesso, ma siccome niente deve essere nascosto al popolo ed è questo il nostro costume, la rendiamo pubblica».
Le Br non potevano accettare una trattativa segreta (lo avevano già detto chiaramente con Sossi), in quanto ne sarebbero rimaste schiacciate politicamente. Inoltre, si trattava di un modo per «smascherare» lo Sim, di cui Moro e Cossiga erano, a loro dire, tra i massimi rappresentanti42. Secondo le Br, quindi, la lettera era «una esplicita chiamata di correità» da parte di un imputato che sapeva «di non essere il solo» e che invitava «gli altri gerarchi a dividere con lui le responsabilità». Le missive colsero la classe politica di sorpresa, che reagì negandone la paternità, mentre gli inquirenti le sottoposero ad analisi tecniche. Della lettera alla moglie, che cominciava con «mia carissima Noretta» e nominava la figlia Agnese, pregandola di «farti compagnia la notte», con riferimento alla complessa situazione familiare dei 40 Lettera n.2, a Nicola Rana, recapitata il 29 marzo 1978. 41 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 C, faldone 18, Ministero dell’Interno, DGPS, Cronologia delle telefonate e del rinvenimento dei documenti delle Brigate Rosse, ff. 4-5. 42 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 20, Sentenza-Ordinanza di rinvio a giudizio emessa dal giudice istruttore Rosario Priore a conclusione dell’istruttoria sul cosiddetto Moro-quater, f. 65. In ivi apprendiamo che ogni lettera venne consegnata da Moretti a Faranda e Morucci, incaricati di recapitarla, e quindi fotocopiata prima della consegna. La fotocopia era restituita a Moretti.
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Moro, venne compiuta un’indagine grafoscopica. Il tracciato, vi si legge, era irregolare, il rigo tenuto in modo incostante «per oscillazioni grafo-motorie con presenza alternata di tremore». Lo stato emozionale aveva provocato una «aritmia dinamografica» che era indice di irrequietezza e inquietudine interiore. I periti avevano come termine di paragone alcuni appunti di Moro scritti su carta intestata della Camera dei deputati e rispetto a quelli si notava «scattosità, torsioni e seghettature che esasperano il quadro ansioso – di tipo emozionale – segnalato dalla grafia comparativa». Rispetto al modello, «l’impronta di questa terza missiva […] [vi] si ricollega[va] per impulso dinamografico, ma con accentuato processo regressivo dei valori grafici comportamentali». Era assente la «composta scolasticità della prima missiva (on. Cossiga) [e] allo schema piatto, fisso, di questa contrappone una libertà di movimento che rientra nella funzionalità da stress e da stato emozionale di un gesto non più statico o calligrafato, ma impoverito, nell’intrinseco organismo, da una involuzione non solo di natura psico-emotiva, ma da debilitazione fisiologica».
La lettera alla moglie, in conclusione, era stata scritta in un momento «accidentale» diverso da quelli in cui erano state redatte le altre. In quanto privata, l’epistola «dovrebbe avere il carattere e la forma di una comunicazione da non rendersi pubblica, e rappresentare la naturalezza espressiva di una redazione spontanea»43. Ci sembra che l’analisi, a parte un lessico professionale in alcuni punti marcato da una certa vaghezza, da un lato sia stata fatta in fretta, estrapolando dal contesto politico lo scritto e limitandosi a interpretare il segno che, era quasi scontato vista la situazione di prigionia in cui si trovava Moro, non poteva certo avere caratteristiche simili a quello di prima del rapimento, mentre dall’altro, non scendendo in profondità, lasciava aperta la possibilità di altre letture. Il giornalista del «Messaggero» che trovò i documenti, Moreno Marcucci, venne sentito il 29 marzo dalla Digos, alla quale dichiarò di aver ricevuto una telefonata inoltrata dal centralino in cui una voce con inflessione romana aveva detto: «Senta bene, prenda appunto, piazza del Gesù davanti a Bises Uomo c’è un cestino della carta straccia. Dentro al cestino c’è una busta rossa tipo commerciale – dentro c’è il comunicato n. 3 e una lettera autografa. Attenzione che nessuno del palazzo faccia qualcosa».
Nel seguito del racconto, Marcucci afferma di aver trovato la busta che conteneva una lettera manoscritta che iniziava con le parole «Caro Francesco» e terminante con «i più affettuosi saluti»44. 43 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 6, Reperto di indagine grafoscopica, III Missiva: «Mia cara Noretta». 44 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 5, DIGOS, 050714/DIGOS, Roma 30 marzo 1978, Alla procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma. Lo stesso materiale fu diffuso anche a Milano al «Corriere della Sera».
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Il presidente della Dc restò molto contrariato del fatto che la sua missiva a Cossiga fosse stata resa pubblica. «Mi avete deluso», avrebbe detto a Moretti, «aggiungendo che la diffusione di quella lettera avrebbe causato una catastrofe». Nel suo modo di intendere la politica le pretese dei brigatisti di una trattativa alla luce del sole erano incomprensibili. Sarebbe stato opportuno lasciare a Cossiga «il tempo di riflettere in solitudine sulle parole che gli venivano indirizzate, senza dover affrontare immediatamente i giornali, la Dc e tutto il quadro politico, e dover ribadire la fermezza. Quella lettera, se avesse potuto fare il suo lavoro, sedimentarsi nell’animo del ministro degli Interni, forse avrebbe aperto dentro di lui e nel partito lo spazio per uno schieramento più favorevole alla trattativa. Adesso quell’occasione formidabile era perduta. E l’irrigidimento di cui gli si recava notizia era una conseguenza di quell’errore»45.
Sembra anche che Moro avesse lavorato a lungo alla lettera, «ponderando ogni parola, cancellando e riscrivendo, e strappando via via le minute». I quattro brigatisti che tenevano lo statista la lessero e rilessero «per controllare che non contenesse informazioni in codice. Probabilmente Mario [Moretti] ne discusse con lui [Moro] il contenuto, ma una volta che fu pronta non mi risulta che gli sia stato chiesto di cambiarla. È sua»46.
Moretti ha affermato in proposito: «Io non ho mai interferito su quel che scriveva. E, per dirla francamente, neppure sarei stato capace di prevederne il possibile effetto. Il linguaggio, i riferimenti, le categorie che usa mi sono estranei. Capisco quel che sostiene, ma soltanto lui sa fino in fondo come lo leggeranno i destinatari delle lettere»47.
La lettera a Cossiga, in effetti, è molto articolata e chiara: Moro, lo dice nell’incipit, si apprestava a fare «alcune lucide e realistiche considerazioni», avendo presente «le responsabilità», che lui «rispetta», di Cossiga. Questo poteva significare solo una cosa: Moro si rivolgeva all’allora ministro non casualmente ma perché lui sarebbe stato in grado, date le sue competenze, di comprendere le sue parole (lucide e realistiche) e di fare qualcosa. Ciò detto, egli espone i termini del problema: «mi è stato detto con tutta chiarezza», scrive, «che sono considerato un prigioniero politico, sottoposto, come presidente della Dc, ad un processo diretto ad accertare le mie trenten45 A. L. Braghetti, Il prigioniero, cit., p. 96. 46 Ivi, p. 66. L’ex brigatista aggiunge che «la lettera, inoltre, era preziosa perché conteneva la testimonianza, scritta di suo pugno, di quel che erano le Brigate Rosse». 47 M. Moretti, Brigate rosse, cit., p. 151.
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nali responsabilità». Si sarebbe trattato di un processo, («contenuto in termini politici», ovvero circoscritto ad un determinato tema, «ma che diventa sempre più stringente» in grado, cioè, di entrare nel merito) nel quale sarebbero stati coinvolti «tutti noi del gruppo dirigente» del partito in quanto sarebbe stato il «nostro operato collettivo […] sotto accusa» e di questo «devo rispondere». Dunque, esorta lo statista, che «possiate riflettere opportunamente sul da farsi, per evitare guai peggiori». Che si attenda, invece, nel rispondere o nel coinvolgere i media, e che si rifletta «fino in fondo prima che si crei una situazione emotiva e irrazionale». Si può scorgere, in queste ultime parole, anche un riferimento alle modalità del suo prelevamento: le vite umane pesano, sembra dire Moro, ma se fosse solo il dolore e la rabbia per la morte a guidare i suoi amici, la politica sarebbe persa di vista. Moro, quindi, diviene chiaro ed esplicito sulle condizioni e le conseguenze del suo stato: «Io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato48, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato […] avendo [io] tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni».
Molti hanno voluto vedere nel brano una minaccia e un ricatto nei confronti della Dc. Il rischio, però, lo stava correndo solo Moro, ed è proprio questo quello che voleva dire: egli, cioè, sarebbe stato costretto a rivelare cose «sgradevoli» per sé, che ne avrebbero peggiorato la condizione già particolarmente drammatica. Riferendosi chiaramente alla linea della fermezza, Moro reputa «inammissibile» quell’«astratto principio di legalità» che sacrificherebbe degli innocenti «mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli», e fa seguire la prima formulazione di quella che diverrà una costante, inascoltata, del suo scrivere e che si può definire il principio dello scambio. Egli ricorda che molti Stati, salvo Israele e la Germania («ma non per il caso Lorenz»49 si affretta a precisare), si erano regolati in modo da consen48 La frase, che è stata interpretata in modi diversi in particolare a sinistra, conteneva la conferma che le Br agissero da sole (dominio incontrollato, cioè non controllato da nessuno) e che fossero in grado di fare del prigioniero ciò che volevano (il dominio pieno). È questa anche l’interpretazione che ne dà Moretti che, scrive, ebbe modo di chiarirlo con Moro stesso; cfr. Zavoli, La notte della Repubblica, cit., p. 327. Secondo Sciascia, invece, la frase, in codice, avrebbe contenuto il seguente messaggio: «Mi trovo in un condominio molto abitato e non ancora controllato dalla polizia»; Commissione Moro 1, Partito Radicale, relazione di minoranza, p. 410. Ciò, al di là del merito, discutibile, non corrisponde a quanto scritto da Braghetti, secondo la quale «nella palazzina abitavano appena una decina di famiglie»; A. L. Braghetti, Il prigioniero, cit., p. 28. 49 Il 27 febbraio 1975 fu rapito a Berlino Ovest Peter Lorenz, presidente della Cdu berlinese, candidato alle elezioni del 2 marzo come borgomastro. Il rapimento fu rivendicato dal gruppo anarchico «Movimento 2 giugno». Tra le richieste, la liberazione di alcuni detenuti politici di sinistra. Peter Lorenz fu rilasciato il 4 marzo dopo che le autorità accettarono lo scambio. I cinque militanti rilasciati furono nuovamente arrestati il 25 aprile 1975. Il governo italiano si interessò alla vicenda all’inizio di aprile in seguito alle missive di Moro; cfr. ACS, Caso Moro, MIGS, b. 18, ministero dell’Interno, il capo di gabinetto, 2 aprile 1978, f.to Squillante.
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tire lo scambio di prigionieri politici con le parti avverse. Se è vero che gli esempi portati a sostegno della sua proposta sono molto slegati e non appropriati (ricorda gli scambi di spie e l’espulsione di dissidenti dal territorio sovietico), è anche vero che nella mente dello statista si tratta di un primo contatto, dunque passibile di correzione e precisazione. Tanto che, come si vedrà, con il passare dei giorni questo principio si sarebbe arricchito di contenuti nuovi e anche le esperienze a cui avrebbe fatto riferimento sarebbero state più precise. Moro, insomma, esplora la vera attitudine dei suoi amici, suggerisce vie diverse (un passo preventivo della Santa Sede, ad esempio), e si raccomanda affinché tutto possa avvenire attraverso «riservatissimi contatti con pochi qualificati capi politici, convincendo gli eventuali riluttanti». La missiva è chiara, come inequivocabili ne sono gli scopi. Ma non sorprende che la reazione provocata dalla sua diffusione fu così deviante. Il solo fatto che Moro l’avesse scritta nella speranza che restasse segreta, mentre le Br l’avevano resa pubblica, avrebbe dovuto fugare ogni dubbio sulla sua originalità, ma il contenuto era inaccettabile per i dirigenti democristiani ed essi non potevano lasciare a Moro la parola di fronte all’Italia senza la possibilità di una replica. A parte poche eccezioni50, molti assunsero posizioni aprioristiche, sostanzialmente di comodo, che servivano solo a giustificare la decisione di lasciare l’uomo al suo destino, nella speranza, magari, che qualcuno lo salvasse. Non è plausibile l’ipotesi che i gruppi dirigenti della Dc o del Pci non si rendessero conto che Moro stesse cercando di aprire un dialogo con loro. Si decise di non «dialettizzarsi» con lo statista, di impedire che le sue missive potessero incrinare la «linea della fermezza» stabilita dopo l’eccidio di via Fani. Il giornalista di «Repubblica» Giampaolo Pansa nel cercare di rispondere al perché, nonostante si trattasse della vita di Moro, la Dc fosse ferma su una linea intransigente, elencò le seguenti ragioni: «La prima è interna: il partito non può dividersi su una questione così vitale, sarebbe un vistoso regalo alle Brigate rosse. La seconda è esterna, e riguarda il rapporto tra Dc e gli altri partiti della maggioranza, a cominciare dal Pci: i terroristi mirano ad una spaccatura e non devono vincere neppure su questo terreno».
Tanto che un dirigente democristiano, non specificato, ebbe modo di osservare: «Se avessimo detto sì ad una trattativa con le Br [...] il primo effetto sarebbe stato l’immediata crisi del governo»51. Le Br, però, non avevano ancora chiesto nulla, mentre era stato Moro a ipotizzare lo scambio dei prigionieri. La posizione della Dc, allora, che era politica (si parla di spaccatura del partito e di crisi di governo, ma non di disfaci50 Fanfani considerò la prima missiva di Moro imposta dai terroristi (Diario, 29 marzo 1978), ma dopo la seconda cambiò idea, cfr. infra. 51 «la Repubblica», 1 aprile 1978.
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mento dello Stato), deve essere interpretata (e così fece il prigioniero) come una risposta alle ipotesi di Moro. Per non dover ammettere che questo avrebbe rappresentato il punto centrale dello scontro durante tutto il periodo del sequestro (come poi avvenne), si cercò di negare che fosse stato Moro a volere quelle lettere, trasferendo il suo pensiero alle Br con grave danno per l’ostaggio. Pansa aveva individuato il nodo politico (il rischio di una crisi di governo), ma non aveva tratto le estreme conseguenze del suo ragionamento, ossia che il muro di fronte al quale si trovava Moro fosse stato innalzato sopra l’assioma della conservazione del potere a ogni costo. Tra i fogli di partito, accanto a «Il Popolo», fu «l’Unità» a respingere con vigore l’ipotesi di credibilità per le parole di Moro. In un editoriale del 31 marzo si legge che la missiva di Moro era stata «scritta in uno stato di costrizione morale e fisica tale da togliere ogni autenticità e quindi ogni significato e valore alle cose che vi si dicono». Questa lettura, oltretutto, sarebbe restata valida anche per altri eventuali scritti «compilati con la stessa calligrafia che, purtroppo, dobbiamo ancora aspettarci dai rapitori». Qualunque cosa avesse scritto Moro, dunque, sarebbe stata automaticamente inficiata dal fatto di giungere dalla «prigione del popolo». La carta stampata, con poche eccezioni, condivise questa linea. Il direttore di «Repubblica» Scalfari scrisse che «lo stile e il contenuto del messaggio fanno ritenere che Aldo Moro sia soggetto a pressioni di natura tale che la parola tortura, sia pure intesa come condizionamento psicologico ossessivo e coartante, non è esagerata o lontana dalla verità delle cose».
Che poi Moro «in cambio della sua salvezza fisica, sottoscriverebbe, con una distinzione inaccettabile tra rapiti dalla criminalità comune e rapiti dalla criminalità politica, il proprio suicidio politico e di statista», è considerata cosa «che ci ripugna di accettare o anche solo di ritenere verosimile»52. Sullo stesso numero di quel foglio, Fausto De Luca annotò che «le impressionanti pressioni psicologiche esercitate su Moro per indurlo a scrivere una lettera in termini a lui non congeniali» fanno «più agevolmente [...] pensare» che questi «siano stati a lui imposti e dettati». Una delle frasi più importanti della missiva – pienamente morotea – e cioè «il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe salvarli, è inammissibile», non è considerata attribuibile allo statista («è inverosimile che Moro [la] abbia potuto pensare e scrivere di sua volontà»), e si conclude che, se nulla si possa escludere, «ancora una volta l’enormità delle cose induce a immaginare una condizione del prigioniero
52 «la Repubblica», 30 marzo 1978.
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che non si può che definire allucinante: di sottile tortura fisica, di coartazione della volontà e dell’intelligenza».
Paradigmatico del clima creatosi ci sembra l’articolo di Aldo Rizzo intitolato Una linea ferma, pubblicato su «La Stampa» il 31 marzo 1978. Se la lettera è vera, «è falsa, forzata, estorta, la sostanza del messaggio. E [...] come potrebbe essere altrimenti? E se pure, per ipotesi, fosse spontanea, di quale spontaneità potrebbe parlarsi per un uomo sottoposto da due settimane, dopo un trauma tremendo, a chissà quali tecniche di pressione e coartazione? Del resto, [proseguiva l’estensore, che fino a quel momento non aveva motivato alcuna delle sue conclusioni], l’analisi particolareggiata del drammatico messaggio rivela l’estraneità di Moro alla massima parte delle espressioni che vi sono contenute»53.
Tale «particolareggiata analisi», però, consisteva, oltre all’osservazione che Cossiga fosse il destinatario improprio, nel rilevare l’incongruità della pretesa che la missiva restasse segreta (cosa a cui Moro, come si è visto, dava la massima importanza). Tanto quell’idea, quanto la sua successiva diffusione, «appa[iono] incongru[e], o frutto di un calcolo deliberato dei carcerieri». Si osservò, poi, che «gli amici più stretti di Moro, i dirigenti Dc che hanno avuto con lui la più intensa frequentazione politica e umana, negano che simili modi di dire possano essere suoi, pur tenendo conto delle circostanze drammatiche, che tuttavia evidenziano lo stile istintivo, più profondamente personale, di un uomo».
In pratica, allo sconquasso provocato dalla diffusione della missiva, si rimediava con la convinzione che i brigatisti avessero «studiato» Moro, per «imitarlo». Rizzo, pur ritenendo quel Moro non credibile, si affrettava a prestare fede al Comunicato dei brigatisti, e a rallegrarsi per il fatto che il prigioniero non avesse ceduto, non avesse «parlato»: «Ciò che è certamente attribuibile al presidente della Dc è l’assenza di «rivelazioni» concrete, specifiche, nel «processo» che i brigatisti vorrebbero diretto ad accertare le sue «trentennali responsabilità»». Invece, non «c’è traccia di “ammissioni” particolari, di segreti “scandalosi” portati, si fa per dire, alla luce del sole». È vero che i terroristi hanno detto che Moro avrebbe cominciato a dare illuminanti risposte, ma «quali siano [...] non viene detto». Forse sarebbe accaduto «nel prossimo futuro» ma se ciò fosse avvenuto, sarebbe stato perché «le tecniche dell’inquisizione terroristica [...] che mirano all’umiliazione e all’annientamento psicofisico, possono portare alla “confessione” di qualunque cosa». Le conclusioni di Rizzo si scontrano con il fatto che le Br avevano sempre mantenuto la stessa linea politica e che le azioni di guerriglia, com53 È contraddittorio definire la lettera «drammatica», mentre nello stesso tempo se ne negava l’autenticità.
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preso il sequestro di Moro, erano la naturale conseguenza della loro strategia. Strategia che, secondo il giornalista, era invece mutata proprio in quei giorni: «Inizialmente, quando tutti si aspettavano una richiesta di scambio tra il presidente della Dc e i terroristi imprigionati, sorprendentemente essi non vi fecero alcun cenno, mostrando di preferire gli effetti destabilizzanti per il sistema democratico di un lungo «processo» [...]. Ora si afferma che il processo è in corso: ma, mentre non si è in grado di fornire alcuna «rivelazione» clamorosa, si affaccia per la prima volta l’ipotesi del ricatto, pur se ancora non si indica quale dovrebbe essere, precisamente, la controparte di Moro». Forte di questa convinzione, Rizzo concluse: «è il segno che il “prigioniero”, dopo due settimane di pressioni che saranno state tremende, non è crollato e conserva capacità di argomentare e controbattere», anche se «si è riusciti [...] ad umiliarlo [...] costringendolo ad essere lui stesso il suggeritore del ricatto allo Stato». A una mente libera da condizionamenti esterni, il ragionamento non poteva, neanche allora, non apparire come appare oggi: approssimativo e contraddittorio. Eppure, era quello che si leggeva su quasi tutti i giornali. Passò la linea che la lettera a Cossiga non fosse originale e non fosse ascrivibile moralmente a Moro, come scrisse Andreotti nel suo diario: «29 marzo [...]. Quale che sia il responso dei periti, la condizione di Moro è tale da togliere in partenza validità morale agli scritti»54. Il Pci fu ancora più duro. Come ha rivelato Cossiga, appena letto la missiva Ugo Pecchioli gli avrebbe detto: «Sia ben chiaro, Moro vivo o Moro morto, per noi con questa lettera Moro è morto. È come se fosse già morto»55. I periti stabilirono che il Comunicato delle Br numero 3, con cui si rese nota la lettera a Cossiga, era stato scritto con la stessa macchina usata per gli altri due. I tre volantini presentavano «analoghe caratteristiche inerenti alle abitudini del dattilografo (impaginatura dello scritto, tenuta dei margini, uso di tutte le maiuscole per alcune righe, spaziatura dopo il punto) le quali lasciano ritenere che essi siano stati scritti da uno stesso dattilografo»56.
Poi passarono al biglietto di Moro per Rana, definito «lettera allegata», sulla quale rivelarono cosiddetti «contrasti di estetica (alcune lettere sono di elegante struttura ed altre di struttura tozza); contrasti nella fittezza dello scritto (la scrittura delle ultime sei righe è più fitta di quella che la pre54 G. Andreotti, Diari, cit., p. 197. 55 F. Cossiga, La passione e la politica, cit. p. 215. 56 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 2, DGPS Pol. Scient. 123/3200, Sequestro dell’On.le Moro. Indagini Tecniche, Al sig. Procuratore della Repubblica dr. L. Infelisi, Roma 30 marzo 1978. Anche in ivi, b. 13.
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cede; varietà accentuate tra alcuni elementi omografi, specie nei tagli delle “t”, nonché contrasti negli sviluppi dimensionali».
Ciò portava la scientifica a definire le anomalie «inconciliabili con la scrittura vergata di getto da persona colta e graficamente evoluta, come si desume dagli eleganti movimenti del curvilineo di moltissimi elementi della lettera in esame e, conseguentemente, consentono di poter affermare che la scrittura in esame non rispecchia quella omogeneità derivante dagli impulsi nervosi che presiedono al naturale movimento grafico di persona che scrive anche con scarsa serenità di spirito»57.
Questo giro di parole serviva a introdurre la conclusione, ossia che all’autore il testo «potrebbe anche essere stato dettato». Sulla lettera a Cossiga, invece, la scientifica non si espresse perché non aveva ancora l’originale58. Il 29 marzo il procuratore generale della Repubblica, Pietro Pascalino, espresse al ministro Cossiga la propria preoccupazione per le indagini, che fino a quel momento avevano conseguito «scarsi risultati». A distanza di molti giorni dal fatto, scrisse, «l’incertezza in cui si perdono le labili tracce sinora seguite finisce per allarmare ulteriormente l’opinione pubblica». Suggeriva, quindi, di stabilire una adeguata taglia «per la cattura degli assassini e la liberazione dell’ostaggio, dando la più ampia diffusione», nella considerazione che «la cerchia entro la quale i delitti furono concepiti e le modalità con cui furono realizzati, per quanto ristrette, non possono comunque non avere avuto qualche riflesso esterno e non aver lasciato un minimo spazio alla percezione altrui»59.
Pascalino si premurò di assicurare all’autorità giudiziaria tutti gli scritti di Moro usciti dalla «prigione» e quando sulla stampa apparvero indiscrezioni su presunte lettere del prigioniero sfuggite agli inquirenti, rilasciò una dichiarazione in senso contrario, scrivendone contestualmente al ministro: «La procura generale – si legge nella dichiarazione all’Ansa – comunica che l’Autorità Giudiziaria è in possesso a norma di legge, di tutti i messaggi a firma dell’on. Moro. Tali messaggi sono coperti da segreto istruttorio. È falsa la notizia dell’esistenza di una bobina in cui sarebbe registrata la voce dell’on. Moro». 57 Ivi, f. 2. 58 Ivi, f. 3. 59 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 18, Il procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma al ministro dell’Interno, 17/78 prot. Ris., Roma, 29 marzo 1978, f.to Pascalino.
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Nella nota a Cossiga, il procuratore ribadiva altresì «la necessità che ogni documento a firma del Presidente della Democrazia cristiana sia immediatamente consegnato all’Autorità Giudiziaria, senza che ne vengano estratte copie all’insaputa e fuori del controllo di quest’ultima»,
perché la loro esistenza avrebbe violato il segreto istruttorio60. Il 31 marzo giunse una relazione sul terzo Comunicato anche da parte del Sismi, nella quale si confermavano le cose osservate dalla scientifica: stessa macchina da scrivere e medesimo dattilografo. Per quanto riguardava la lettera allegata al messaggio, si diceva che era autentica. I caratteri apparivano «esageratamente grandi e ben marcati, come se il testo fosse stato scritto in una forzata bella grafia senza fretta alcuna: è una scrittura chiara e nitida, ben allineata, segno di fermezza, coraggio e autocontrollo».
La carta quadrettata sulla quale era stata scritta, aveva impedito variazioni sulla tenuta del rigo; in caso contrario «si sarebbe ottenuta una grafia del tipo «discendente», così come lo stato di naturale depressione fisica e di intensa ansia avrebbe reso più logico che fosse». Complessivamente, la stesura del testo era ritenuta grafologicamente scorrevole, sebbene si riscontrasse qualche incertezza, che veniva ricollegata a «uno stato di turbamento fisico e psichico del soggetto, che scrive il suo messaggio in uno stato di costrizione e sotto l’effetto di una droga leggera o di uno psicofarmaco». Alcune lettere, infine, mostravano «un leggero tremore» che era dovuto, a dire dell’analista del Sismi, «alla sensazione di freddo procurato dall’ambiente in cui è avvenuta la materiale stesura del testo»61. Per il massimo organo di intelligence militare, dunque, la lettera di Moro era autentica, ma l’ostaggio era stato drogato, seppur in modo leggero. Se ne deduce che la sua volontà sarebbe stata coartata e che, dunque, non sarebbe stato ingiustificato definire «non moralmente ascrivibile a Moro» quello scritto. Il prof. Ignazio Baldelli studiò anche il terzo Comunicato e, a differenza degli altri analisti, concluse che questa volta era cambiato il dattilografo perché non erano presenti errori di battuta e la terza persona del presente del verbo essere, a differenza degli altri due casi, era sempre scritta con accento acuto62. Sulla lettera di Moro il cattedratico scrisse che incertezze e imprecisioni facevano pensare a una copia: da quelle minime, per esempio 60 Ivi, Il procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma al ministro dell’Interno, 18/78 prot. Ris., Roma, 10 aprile 1978, f.to Pascalino. 61 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 2, SISMI, prot. 04/7990/R/1, Appunto, Roma, 31 marzo 1978; anche in ivi, b. 23 A. faldone 6. 62 Ivi, MIG, Studio del prof. Baldelli sul volantino n. 3.
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«pensare» sul foglio 2 anziché «pensate», «donni» invece di «danno», a quelle più complesse, ossia espressioni la cui «originalità appare particolarmente dubbia». L’elenco del professore comprendeva locuzioni come «prelevamento», «trentennali responsabilità», «operato collettivo» e frasi dalla sintassi impropria come «benché non sappia nulla né del modo né di quanto», o il lungo periodo «soprattutto questa ragione di Stato nel caso mio significa, riprendendo lo spunto accennato innanzi sulla mia attuale condizione, che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato, che sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni»63.
Certamente non era facile affrontare un’analisi così densa di conseguenze politiche di primissimo piano. Le frasi di Moro appaiono complesse, a volte involute, ma anche attente e caute. Moro usa un linguaggio allusivo (e questo ne rappresenta certamente un limite), credendo di essere meglio compreso dai suoi amici di partito, illudendosi di risultare comprensibile, e per questo originale e vero, di fronte alle persone che avevano in mano la chiave della sua liberazione. Il passaggio sul dominio incontrollato, in questo senso, è fondamentale. Moro, a nostro giudizio, intendeva affermare che il piano delle Br non rientrava in un più articolato attacco allo Stato proveniente da punti occulti diversi, ma si riduceva al suo rapimento e dunque il pericolo era minore di quanto si potesse immaginare di fronte all’enormità del fatto in sé. In altre parole, il prezzo per la sua salvezza sarebbe stato assorbito dal sistema, che si trovava di fronte a un nemico in quel momento più forte a causa del fattore sorpresa, ma che appariva politicamente povero di esperienza e non in grado di comprendere, anzi, neanche di ipotizzare, la complessità della macchina del potere. La missiva a Cossiga fu sottoposta a un esame grafoscopico anche da parte della dott.ssa Giulia Conte Micheli, come detto chiamata a far parte del comitato di esperti presso il ministero dell’Interno. Nella scheda si legge che ci si trovava di fronte a una grafia piatta e statica, a «ictus energetivo-estrinsecativo privo di vivacità: l’impulso è molle e soffocato». L’impronta era definita «gestuale scialba», l’incesso scritturale «attento e passivo». Erano assenti «i valori essenziali e fondamentali legati alla abituale espressività psicografica». Il cedimento psichico dello scrivente emergeva «non solo dal contenuto, ma anche dalla mancanza di vitalità attiva, che riprende unicamente per un ritorno dalla apatia abulica e rassegnata ad un “ictus” emotivo». Lo schema patografico e psicografico rivelava una pressione arteriosa controllata, 63 Ibid.
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uno stato emotivo «inferiore a quello indicizzato dagli appunti (redatti in un momento psicografico assai delicato, con sensibile accentuazione di uno stato emozionale)». Nel segno grafico non era rilevato stress, per cui nel «momento accidentale esecutivo in cui la lettera è stata redatta, si registrano unicamente passività, controllo, abulia: la stesura non è istintiva, ma condizionata». Complessivamente la lettera dava l’idea di un soggetto colpito da gastrite, tristezza, isolamento, turbamento e un moto naturale di chiusura in se stesso. Moro «da sé attinge lo stimolo alla combattività, il coraggio del superamento dell’ansia e dell’angoscia: che raggiunge con estremo sforzo». Per concludere, lo stato di bisogno, di necessità e isolamento potevano aver provocato «una modificazione nella scala dei valori», agendo sulla volontà, che sarebbe stata progressivamente condizionata64. Il parere forse più atteso era quello del prof. Ferracuti e nella sua analisi egli tentò di fare il punto della situazione. Secondo lui, erano state molte le congetture «più o meno informate e più o meno scientifiche sullo stato di mente dell’on. Moro, quale desumibile dal suo scritto all’on. Cossiga»65. Per Ferracuti il genere «lettera» era ormai ben noto in eventi complessi come quello e le sue finalità apparivano «ovvie e scontate, al punto da rendere prevedibile l’arrivo di [altri] messaggi e il loro contenuto, almeno per grandi linee». La grafia era «piatta e inerte, senza la disomogeneità e le brusche variazioni rilevabili nei reperti di confronti». La mancanza di una «vitalità attiva e la presenza di una specifica passività depongono per un cedimento psichico, peraltro non totale, perché in alcuni punti della lettera si nota una ripresa dello stato emotivo». Il cedimento era da attribuirsi «a coercizione esterna e può essere stato accentuato da somministrazione di farmaci o dalla tecnica nota come “isolamento percettivo”». Lo stato di ansia appariva «non elevato» ma la coercizione a cui era sottopo64 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 6, Referto grafoscopico (missiva) Redatto su incarico del ministero degli Interni nei giorni 30 e 31 marzo 1978, f.to Giulia Conte M. 65 Secondo alcune fonti nel 1981 un onorevole democristiano di nome Antonio Cavazzuti scrisse una nota al mensile «Penthouse-Italia» su argomenti riservati riguardanti il suo partito. La notizia rimbalzò in Commissione Moro e la nota venne acquisita anche dai Carabinieri. L’onorevole racconta di un suo incontro con Piccoli a piazza del Gesù, nel corso del quale egli informò l’allora segretario democristiano che il professor Franco Ferracuti, a suo dire un uomo dalla storia alla James Bond, aveva svolto un importante lavoro durante i 55 giorni, fornendo al governo «un poderoso parere scientifico […] nel quale si dimostrava che il nostro presidente […] quando scriveva le sue lettere dal carcere poteva essere incapace d’intendere e di volere», cosa della quale Piccoli non sembrava del tutto informato; si veda Commissione Moro 1, vol. 27, p. 451 [dove viene chiamato «onorevole Antonio Cavazzati»] e ACS, Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, II Reparto SM Ufficio Operazioni, b. 4, La nota finale dell’On. Cavazzuti. La nota per «PenthouseItalia» è scritta effettivamente su carta intestata della Camera dei Deputati, ma da un controllo effettuato negli elenchi storici dei deputati e senatori della Repubblica non risulta alcun Cavazzati o «Antonio Cavazzuti». L’unico Cavazzuti è Filippo (nato il 27 aprile 1942), che è stato senatore a partire dalla IX legislatura, cominciata nel giugno 1983. La curiosa «nota» a «Penthouse» di Antonio Cavazzuti, indicato qui come deputato del Pci, è citata anche in F. Biscione, Il delitto Moro. Strategie di un assassinio politico, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 285. Nell’indice dei nomi, però, compare «Filippo Cavazzuti».
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sto Moro «può aver agito sulla volontà e la può condizionare ulteriormente»66. Per concludere, i commenti sui contenuti delle dichiarazioni «estorte» a Moro «hanno il valore di un documento di fantasia o di un documento onirico. Essi vanno, se mai, interpretati e non “letti”». Purtroppo, «l’interpretazione più facile, più logica» ma anche «più scientificamente fondata» era che «queste pagine documentano solo il calvario di un uomo esposto alla fredda brutalità dell’irrazionale»67. La posizione di Ferracuti appare la più radicale, quella che considera la lettera di Moro niente altro che uno scritto estorto. Per gli altri analisti, in generale la missiva risultò originale ma scritta in uno stato di grave condizionamento, cosa che non era in contraddizione con le conclusioni degli uomini politici, che la respinsero come proveniente da una fonte non controllabile68. Oltre che degli analisti dei Servizi e di quelli chiamati al ministero degli Interni, in archivio è conservato anche un manoscritto del ministro degli interni Cossiga, il quale portò a termine in modo autonomo uno studio sulla lettera (circostanza fino a ora non emersa all’attenzione degli studiosi), nel tentativo di comprendere le ragioni di Moro. Egli si soffermò sulle espressioni usate dal prigioniero e si convinse che Moro avesse scelto in modo autonomo l’interlocutore in quanto «la funzione attribuita a Cossiga [è] quella di tramite – testimone politico, sulla base di un rapporto personale di fiducia collegato con la autorità derivante a Cossiga dalla carica»69. Dunque, si scriveva a Cossiga non solo in quanto amico, ma soprattutto in quanto ministro dell’Interno. Quella lettera, però, aveva anche il valore di «un messaggio base, vuole esprimere un giudizio complessivo e iniziale di Moro, la sua filosofia sulla vicenda: processo, trattative e richieste. Pone le basi del colloquio Cossiga-Moro». Si tratta di una lettera tutta politica e obiettiva e l’appello di Moro è «non al cuore, ma discorso alla mente per convincere». La frase «un processo contenuto in termini politici, ma che diventa sempre più stringente» significa, secondo Cossiga, «che non mi maltrattano, ma mi incalzano psicologicamente e moralmente sempre di più». Il passaggio «benché non sappia nulla né del modo né di quanto accaduto dopo il mio prelevamento», significava «che: a) non sa dove si trova o che crediamo che non lo sa; b) che non è informato in via generale degli accadimenti del mondo esterno». I riferimenti al presidente del Consiglio e della Repubblica significavano che, fermo restando Cossiga come tramite, Moro riteneva il 66 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 6, Appunto del prof. Ferracuti sulla lettera dell’on.le Moro 67 Ibid. 68 Per l’edizione delle lettere di Moro, che sono conservate presso l’Archivio di Stato di Roma, segnaliamo il lavoro Le lettere di Aldo Moro. Dalla prigionia alla storia, a cura di Michele Di Sivo, Direzione Generale per gli Archivi. Archivio di Stato di Roma, 2013. L’edizione contiene anche un saggio di M. Gotor dal titolo «Anche nella necessità si può essere liberi». Le lettere di Aldo Moro dalla prigionia. La lettera è scritta su cinque fogli a quadretti, in una grafia chiara, scolastica, in alcuni punti adolescenziale. Le ultime due pagine appaiono più mosse e le righe più fitte, caratteristica che si riscontra anche in altre lettere di quei giorni. 69 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 5, Appunti del ministro Cossiga sulla lettera dell’on.le Moro. Per una riflessione simile si veda M. Clementi, La pazzia di Aldo Moro, Odradek, Roma 2001.
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suo un «problema politico di Stato, né solo personale né di partito». Nel processo egli era chiamato a rispondere per l’intero partito e in tale contesto la considerazione umanitaria «cioè il danno che a lui può derivare, viene messa in seconda, anche se non trascurabile linea». Era escluso che egli fosse costretto a parlare, sebbene non si comprenda bene per dire cosa di così sconveniente o (ma appare meno probabile che Cossiga credesse questo) di segreto, tanto che il ministro si chiede: «è la minaccia [di] rivelazion[i] di cose pericolose e spiacevoli per lo Stato, per gli alleati, per la Dc o per uomini di essa?» Non era chiaro se le «determinate situazioni siano soggettive, di pressione sul prigioniero, o oggettive, in relazione a situazioni particolari». Per quanto concerneva la parte relativa alla trattativa e un eventuale scambio, Cossiga afferma che «la liceità [dello scambio] è commisurata alla probabilità del danno: e cioè è privilegiata la salvezza dell’ostaggio». Era chiaro, comunque, che per Moro la trattativa e lo scambio erano nell’interesse dello Stato, oltre che della persona e la frase «il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità è inammissibile» era l’enunciazione «teorico-morale della indicata scelta, che sottolinea l’aspetto personale della innocenza», seguita dalla conferma «teorico-giuridica della stessa (mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarmi)». Da qui i richiami storici dalla Germania a Israele, fino alla Santa Sede70. Il 1° aprile 1978 Cossiga si incontrò con il capo della Procura di Roma, Giovanni De Matteo e chiarì che, in quanto ministro dell’Interno, aveva l’obbligo costituzionale di dire alla Procura di Roma tutto quanto fosse stato di sua conoscenza «salvo poi a stabilire il modus operandi per gestire la cosa». Il ministro raccontò le circostanze attraverso le quali aveva ricevuto la lettera di Moro. Alle 18.00 era stato chiamato da Rana, che alle 18.15 era giunto al Viminale con tre lettere, una per sé, una per la signora Moro e una per Cossiga. Nella lettera diretta a Rana, sottolineò Cossiga, si davano istruzioni per un dialogo riservato: «Io allora gli ho detto – aggiunge il ministro – dammi una fotocopia di quella diretta alla moglie e consegnami quella diretta a te». Qui, leggiamo sul verbale dell’incontro, «Cossiga dà una interpretazione della lettera, richiama i pareri espressi dai suoi esperti e riferisce la tesi del clan Moro)». Rana, che nel frattempo asserì di aver chiamato il capo della Polizia, non gli consegnò le missive e a Cossiga rimase solo quella indirizzata a lui, che riportò in fotocopia a De Matteo71. 70 Ibid. Una lettura del tutto originale della prima lettera a Cossiga che è rimasta agli atti, venne data dalla signora Ngo Dinh Nhu, cognata di Ngo Dinh Diem, presidente del Vietnam del sud dal 1955 al 1963. Secondo la donna, che si rivolse direttamente al ministro degli Interni, quella missiva non solo era autentica, ma non era stata scritta né sotto minaccia, né sotto tortura. Moro, a dire della donna, parlava di scambio non già per salvare la propria vita (da cattolico praticante non poteva temere il martirio) ma perché «in condizioni di guerriglia è sempre opportuno trattare per trovare una soluzione cristiana accettabile da entrambe le parti»; Ivi, b. 11, Rip. O-Uff.Go/2 n. 11001/145(1), Appunto. Lettera di Madame Ngo Dinh Nhu. Originale olografo in francese. 71 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 C, faldone 18, il Ministro dell’Interno, 1.4.1978 ore 12 Colloquio CossigaDe Matteo, manoscritto attribuibile a Cossiga.
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Lo studioso e senatore della Repubblica Miguel Gotor ha ipotizzato che l’operazione fosse stata organizzata dalle Br per creare un canale riservato dove aprire una trattativa segreta. Non ci sembra che il gesto delle Br di rendere pubblica la lettera a Cossiga fosse andato in quella direzione. Ma vediamo il ragionamento di Gotor, che in audizione si rivolge proprio a Rana: «Il presidente ha opportunamente letto un brano della prima lettera che lei riceve il 29 marzo 1978. È una lettera che rimane riservata – non segreta, ma riservata – fino al 28 giugno 1978, quando viene pubblicata da Pecorelli. Durante il sequestro la lettera che lei riceve non influenza l’opinione pubblica, perché appunto non viene divulgata. Naturalmente, però, avrebbe dovuto influenzare o influenza i destinatari, che effettivamente la leggono, ne conoscono il contenuto, possono regolarsi di conseguenza e opportunamente decidono di mantenerla riservata. Questa lettera del 29 marzo, che è la prima, viene consegnata contestualmente a una lettera a Francesco Cossiga che ripeteva alcuni concetti contenuti nella lettera ricevuta da lei. Però le Brigate Rosse si incaricarono di divulgare la lettera indirizzata a Cossiga, con un’operazione di propaganda finalizzata a ridicolizzare e danneggiare l’immagine pubblica non solo di Moro, ma anche di Cossiga. La lettera a Cossiga le Brigate Rosse la recapitano riservatamente, come la sua. La fanno scrivere con Moro che è consapevole di farlo potendo godere di un regime di riservatezza, ma sono le stesse Brigate Rosse a tradire questo regime di riservatezza, perché poi fanno un comunicato in cui dicono in sostanza: “Questa è la mafia democristiana. Così si comportano, con metodi mafiosi, non solo Moro, che chiedeva il segreto, ma anche Cossiga, che l’ha ricevuta. Noi siamo una forza rivoluzionaria. Nulla deve essere nascosto al popolo”. Tuttavia, sono le stesse Brigate Rosse che, mentre divulgano la lettera a Cossiga che avevano consegnato riservatamente, si fanno garanti della riservatezza della missiva che ha ricevuto lei, perché di quella tacciono. Nel loro comunicato le Brigate Rosse avrebbero potuto includere e rivelare non solo la lettera a Cossiga, ma anche la lettera spedita a Rana. Invece, stanno zitte, non ne parlano. Anche voi state zitti. Non andate ai giornali e dite: “Abbiamo ricevuto anche questa lettera: pubblichiamola”. Comprensibilmente, rispettate la volontà evidente delle Brigate Rosse, una volontà politica, di pubblicizzare una lettera, quella a Cossiga, e di tacere su una seconda lettera che riporta dei contenuti pressoché identici. Nella lettera a Cossiga divulgata, Moro dice delle cose semplici, ma sicure: “È in gioco la ragion di Stato. Posso essere indotto a parlare. Se una trattativa ha da essere, è decisivo per la mia vita che sia segreta”. Nella lettera a lei ripete il concetto: “La mia speranza è che questo filo che cerco di allacciare resti il più segreto possibile”»72.
Lo stesso concetto era stato proposto da Gotor nel corso di una conferenza tenuta a Bologna nel 2014 e reperibile in rete. Qui disse: 72 Commissione Moro 2, audizione di Nicola Rana, 16 febbraio 2016, resoconto stenografico.
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«Naturalmente a rafforzare questa caratura spionistica informativa del sequestro è molto importante analizzare il primo recapito delle Brigate Rosse di due lettere di Moro. Questo recapito avviene il 29 marzo […]. Si tratta di due missive, una a Francesco Cossiga e una al collaboratore di Moro, Nicola Rana. Sono recapitate dalle Br insieme in una stessa busta e riservatamente. Non sono affidate all’Ansa o a dei grandi giornali. Se noi andiamo a leggere queste due lettere e le confrontiamo cosa vediamo? Nella prima […] è chiaro […] che Moro descrive la sua situazione […]. A parte considerazioni umanitarie, è la ragion di Stato che deve regolare questa crisi. Una condizione fondamentale […] è che di essa non si sappia nulla, che resti segreta come deve rimanere segreta la trattativa che Moro auspica per arrivare alla sua liberazione. Una liberazione che però è lo stesso prigioniero a collegare al vero problema: guardate, sono sotto un dominio pieno e incontrollato e posso essere indotto a parlare rivelando segreti di Stato. Come le Br si comportano con questa lettera? Lo fanno su un piano molto raffinato […]. La depositano riservatamente […]»
ma poi la rendono pubblica. Però le Br non fanno la stessa cosa con la lettera a Rana. «Se voi leggete la lettera di Nicola Rana, è una lettera che riporta più o meno, parola per parola, gli stessi concetti della prima […] però quella lettera aggiunge cinque righe che sono sottolineate da Moro e che sono molto interessanti in cui Moro dice: Caro Nicola Rana sarebbe molto importante che si instaurasse un canale di comunicazione tra l’interno e l’esterno della prigionia e sarebbe anche importante che il ministro degli Interni Francesco Cossiga lo tutelasse quel canale, cioè ne tutelasse la riservatezza se non la segretezza e anzi c’è la proposta […] di scegliere la sua portineria […] come luogo in cui possano transitare […] dall’esterno all’interno, dall’interno all’esterno della prigione, ‘x’ cose funzionali a facilitare la liberazione di Moro».
Dunque, «mentre le Brigate rosse con l’operazione sulla lettera a Cossiga dicevano nulla dovrà essere nascosto al popolo e quindi noi la pubblichiamo […] sono le stesse Brigate rosse che si incaricano di tutelare quel canale segreto non divulgando la lettera a Nicola Rana […]».
Questo canale era funzionale ad aumentare «in modo esponenziale il valore dell’ostaggio. [In gioco] c’era una “x” informativa spionistica che aveva trovato un possibile, sottolineo possibile, canale di transito»73.
Ci siamo soffermati a lungo sul ragionamento di Gotor perché ci sembra rappresentativo di come si possa scivolare in ipotesi e congetture apparentemente verosimili, 73 Vedi https://www.youtube.com/watch?v=bU5ejsHdezI.
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ma non dimostrabili, partendo da un elemento reale (in questo caso, la lettera a Rana) e giungendo a conclusioni che si reggono solo sull’ipotesi di partenza. È davvero possibile che le Br, come ha affermato Gotor in due luoghi e momenti diversi, abbiano voluto tenere aperto un canale riservato per una trattativa dopo aver affermato apertamente di volere il contrario? La lettera scritta da Moro a Rana diceva quanto segue, con diretto riferimento a Cossiga: «Carissimo Rana Le rivolgo il più affettuoso pensiero e La ringrazio tanto per quel che ha fatto e fa a sostegno della mia famiglia e mio. Ed ecco che ancora ho bisogno di Lei in un momento cruciale. Le accludo una lettera da far pervenire a mia moglie ed ai miei, dei quali non so nulla. E poi ancora una lettera sul caso politico da portare nelle proprie mani del Ministro Cossiga e con la comprensibile immediatezza. La mia idea e speranza è che questo filo, che cerco di allacciare, resti segreto il più a lungo possibile, fuori da pericolose polemiche. Ciò vuol dire che la risposta, o una prima risposta, quando verrà, non dovrebbe passare per i giornali, ma per una lettera o comunicazione a Lei pervenuta dal Ministro. Si concorderà poi come inoltrarla. Presupposto di tutto è che non vi sia sorveglianza alcuna presso la Sua portineria già dalla prima volta. Il Ministro verbalmente, dovrebbe impegnarsi a bloccare ogni sorveglianza nel corso dell’operazione. È chiaro che un incidente farebbe crollare tutto con danno incalcolabile. Grazie tante e i più affettuosi saluti. Suo Aldo Moro».
Come si vede, le Brigate rosse non c’entrano niente. L’idea è di Moro ed è strettamente legata alla condizione che la lettera a Cossiga resti riservata. Nel momento in cui le Br la rendono pubblica, la possibilità di un canale riservato salta ipso facto e, ovviamente, non c’è bisogno di rendere pubblica anche la lettera a Rana. Quel canale riservato di cui parla Gotor, e che era stato ipotizzato da Moro, non è mai esistito proprio perché le Br, pubblicando la lettera a Cossiga, non hanno lasciato che si creasse. 3.5 I casi Lorenz-Schleyer Un lavoro di analisi che partiva dai riferimenti di Moro ai casi Peter Lorenz in Germania (candidato a sindaco di Berlino Ovest e rapito dalla Raf nel 1975) e allo scambio tra il segretario del partito comunista cileno Luis Corvalan e il dissidente sovietico Vladimir Bukovskij [1976] contenuti nella prima lettera di Moro a Cossiga, si concentrò sul caso Schleyer, il presidente della Confindustria tedesca rapito dalla Raf l’anno precedente e conclusosi con l’uccisione dell’ostaggio74. 74 Butz Peters. Tödlicher Irrtum. Die Geschichte der Raf, Argon Verlag, Berlin 2004. In italiano si veda PeterJürgen Boock, L’autunno tedesco. Schleyer. Mogadiscio. Stammheim, DeriveApprodi, Roma 2003 e Isabelle Sommier, La violenza rivoluzionaria. Le esperienze della lotta armata in Francia, Germania, Giappone, Italia e Stati Uniti, DeriveApprodi, Roma 2009.
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Secondo l’analisi, anonima ma attribuibile al ministero degli Interni vista la sua collocazione all’interno delle carte della Direzione generale di Ps, il caso Moro si avvicinava sempre di più non tanto a quelli ricordati dall’ostaggio, quanto a quello del presidente della Confindustria tedesca. Esistevano, però, alcune differenze. Fino a quel momento le Br non avevano chiesto nulla (mentre la Raf manifestò subito precise condizioni), ma avevano indicato (in realtà era stato Moro) un possibile intermediario per una trattativa in Rana. Inoltre, l’alto profilo politico dell’ostaggio consentiva al gruppo armato una gestione della crisi particolarmente pericolosa per l’equilibrio politico del paese, a differenza di quanto accaduto con Schleyer in Germania. All’epoca il cancelliere tedesco Helmut Schmidt si era assicurato fin dal primo momento l’appoggio di tutte le forze politiche nazionali e locali ponendo tre obiettivi precisi: liberare l’ostaggio, catturare i rapitori e non accettare alcun tipo di cedimento da parte dello Stato. Al contrario, la «soluzione Lorenz», ossia la concessione di una contropartita ai rapitori per la liberazione dell’ostaggio, non fu ritenuta praticabile perché le modalità del rapimento di Schleyer erano state particolarmente drammatiche (erano stati uccisi tutti gli agenti di scorta, così come era avvenuto per Moro), e le richieste per il rilascio di Lorenz non erano state ritenute troppo onerose (la liberazione di 5 elementi di secondo piano della Raf, a parte l’avvocato Horst Mahler, che però rifiutò lo scambio). La situazione politica italiana, si legge nell’analisi, «non sembra assolutamente consentire orientamenti diversi da quelli tenuti dal governo federale per il caso Schleyer», ossia l’imposizione di un intermediario neutro, la cui funzione era stata assunta da un avvocato ginevrino, e l’accettazione della trattativa, ma solo per guadagnare tempo75. Il primo punto, però, non interessava, in quanto Moro aveva indicato a Cossiga un «canale tradizionalmente riservato». Rispetto al secondo punto, i tedeschi avevano rallentato tutti i tempi di trasmissione dei messaggi tra organi di governo, intensificato i contatti internazionali per sollecitare provvedimenti repressivi nei confronti di estremisti tedeschi all’estero, «suggerito» alla stampa il blocco delle notizie e varato provvedimenti legislativi particolarmente vessatori nei confronti dei detenuti oggetto di scambio. Ripetuti furono anche gli interventi dilatori di tipo «tecnico», come la verifica continua e il cambio di parola d’ordine per comunicare con la Raf o la indisponibilità temporanea dell’intermediario, così come le molte richieste di prova della permanenza in vita dell’ostaggio. La pretesa di ospitare i detenuti eventualmente liberati in paesi terzi permise un ulteriore atteggiamento dilatorio, in quanto le autorità tedesche dovettero compiere viaggi per trattare un eventuale asilo, peraltro rifiutato da tutti (i paesi furono l’Algeria, la Libia, l’Iraq e lo Yemen). Anche i carabinieri si occuparono del caso Schleyer. Per l’Arma, le similitudini con Moro si limitavano alla «tecnica usata [per rapirlo] e per il numero delle vittime [al mo75 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 13, Indicazioni sulla possibile gestione del caso Moro provenienti dall’analisi dell’affare Schleyer, f. 3.
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mento dell’agguato furono uccisi i 4 uomini di scorta]»76. Dopo l’uccisione di Moro gli inquirenti redassero una nuova informativa sul caso Schleyer nella quale sottolinearono due ulteriori similitudini: la richiesta di liberazione dei compagni in carcere da parte dei rapitori e il ritrovamento del corpo nel bagagliaio di un’auto, nient’altro77. 3.6 La lettera a Zaccagnini La reazione dei politici, dei suoi amici e la dose di cinismo dei media irritarono Moro che decise di riprendere a scrivere per cercare di rimuovere l’ostacolo della «fermezza». Il suo principale obiettivo era divenuto quello di essere creduto. Moro, osservò Moretti, «conosce tutti, [e] quando si rivolge ad uno e questo non fa una mossa [...] sa esattamente che cosa significa. Per questo continua a scrivere. E non smetterà neanche quando si rende conto che non lo ascoltano»78.
L’ostaggio, fallita l’idea di aprire un canale riservato tramite Rana e Cossiga, cercò un nuovo interlocutore per una dialogo aperto, cosa molto più complessa, individuandolo in un suo uomo, il segretario della Dc Benigno Zaccagnini, che era stato portato alla segreteria del partito con il suo fondamentale contributo. Secondo la Braghetti, dopo aver constatato che il primo tentativo si era scontrato contro un muro, Moro puntò «su Benigno Zaccagnini, il segretario del suo partito. Zaccagnini era una sua creatura: era stato lui a farne il segretario della Dc, e fino al giorno prima del suo rapimento lo aveva tenuto in pugno, stabilendone le mosse e guidandone le scelte. Inoltre non gli sfuggì che i giornali lo descrivevano come molto provato, l’alta figura curva, il volto grigio, l’espressione sofferente e tormentata. Dava l’impressione di proclamare la fermezza in pubblico, ma di trascorrere la notte a domandarsi come ricomporre i suoi sentimenti di uomo e quelli che riteneva i suoi doveri verso il partito e verso lo Stato. Moro gli scrisse una lettera magistrale. Ci lavorò per giorni, stendendola in più riprese in quattro versioni. Rifletteva sulle singole parole, disse Mario, cui le modifiche sembravano, come a noi del resto, impercettibili, meno che sfumature»79.
Secondo Moretti, Moro riteneva Zaccagnini il suo «alter ego» e lo pensava in balìa di qualcuno: 76 ACS, Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, Caso Moro, Sala Operativa, b. 10, Parallelismo fra i principali rapimenti politicamente motivati, Roma 30 marzo 1978. 77 ACS, Caso Moro, MIGS b. 5, «Dossier Moro». Appunto. Caso Moro. I collegamenti internazionali del terrorismo italiano. 78 M. Moretti, Brigate rosse, cit., p. 148. 79 A. L. Braghetti, Il prigioniero, cit., pp. 113-114.
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«non smette di sollecitarlo, gli ricorda che è il segretario, tocca a lui convocare gli organi collegiali per salvare la vita al presidente, ha il dovere di fare qualcosa. Ma Zaccagnini non fa niente. Moro pensa che non sappia tener testa a personaggi più forti che hanno deciso di tacere [...]. Penso che in quei giorni Moro scopre di aver fatto segretario della Dc un uomo così debole da permettere a lui, Moro, di essere presidente e il vero segretario, e ora che è prigioniero, la Dc non ha più né presidente né segretario. Moro non lo stima. Mi ha sconcertato quanto poco stimasse i suoi […]»80.
La lettera di Moro a Zaccagnini venne diffusa dalle Br il 4 aprile, a Milano alle 17.10 con una telefonata alla sede di «Repubblica» e «Avvenire», a Genova con una telefonata al «Secolo XIX» pochi minuti dopo, a Roma alle 20.45 al «Messaggero» e a Torino pochi minuti dopo all’Ansa81. È verosimile che l’ostaggio abbia provato a sfruttare la presunta debolezza caratteriale del segretario della Dc. Accanto a motivazioni politiche, infatti, si trovano nella missiva neanche troppo velati ricatti morali, allusioni chiare al fatto che, moralmente, Moro avrebbe pagato per tutti: «Caro Zaccagnini, scrivo a te intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga82 ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità, che sono ad un tempo individuali e collettive».
Secondo Moro la Dc doveva fare qualcosa, in quanto si trattava del suo presidente, sebbene neanche il Pci avrebbe dovuto dimenticare che il rapimento era avvenuto «mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che m’ero tanto adoperato a costituire». I fatti elencati da Moro sono precisi: egli ricorda la sua «reiterata e motivata riluttanza ad assumere la carica di Presidente» che Zaccagnini gli offrì «e che ora mi strappa alla famiglia, mentre essa ha il più grande bisogno di me» al punto che «moralmente sei tu ad essere al mio posto dove materialmente sono io». Moro ricorderà questo fatto anche nel Memoriale: «Dopo vari governi [...] si pervenne alle elezioni del 20 giugno [1976], in occasione delle quali io, fatto il mio dovere, ero fermamente deciso a ritirarmi dalla attività politica. Notificai e con80 M. Moretti, Brigate rosse, cit., pp. 150-151. 81 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 23 C, faldone 18, Ministero dell’Interno, DGPS, Cronologia delle telefonate e del rinvenimento dei documenti delle Brigate Rosse, ff. 6-7. 82 Moro vuole che la questione non travalichi i confini della Dc. Flaminio Piccoli era a quel tempo il capogruppo della Dc alla Camera; Giuseppe Bartolomei era il presidente dei senatori democristiani, mentre Giovanni Galloni e Remo Gaspari erano i due vice segretari del partito.
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fermai al Segretario la mia decisione convinto come ero che, a parte la inevitabile stanchezza e l’esaurimento della persona, il concorrere con il proprio ritorno (perché di questo si tratta) al rinnovamento del partito, sia un serio dovere per tutti e lo era certamente per me. [...] si fece cenno in quel punto alla posizione di Presidente della Camera, carica che io ho sempre considerato espressione del Parlamento e non dei partiti e per la quale, interpellato non dissi un no secco, ritenendola coerente con la mia decisione di lasciare la politica attiva. Ma se ne parlò solo per un minuto [...] perché vennero da me persuasori più o meno occulti per indurmi a rendere possibile la mia nomina alla Presidenza del Consiglio Nazionale in successione dell’on. Fanfani. Le pressioni alle quali opponevo la mia decisa non disponibilità furono enormi da parte di Zaccagnini, Fanfani, Salvi, Morlino, ed anche una persona per la quale ho il più grande rispetto, il giudice costituzionale Elia [...]. Io fui bloccato in maniera perentoria e dovetti assumere questa carica impropria e per la quale avevo una totale riluttanza».
E su Zaccagnini scrive, sempre nello stesso brano: «Dispiace che, così stando le cose, un Segretario della specchiata rettitudine di Zaccagnini, non alzi più alta la voce, per dire che io sono stato là, su richiesta sua e dei suoi amici»83.
Tornando alla missiva, segue un rimprovero a Cossiga quale ministro dell’Interno, l’unico passaggio nel quale Moro fa un accenno alla sua scorta, in modo invero fuori luogo: «è doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al di sotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui».
Ma sull’efficienza della scorta Moro aveva torto. Come si è detto essa non era affatto al di sotto delle esigenze, considerando che una trentina di persone si occupavano della sicurezza sia sua che dell’intera famiglia. L’intento di Moro era di provocare nell’animo del segretario (e forse in quello di Cossiga) un corto circuito tra il ruolo politico e la coscienza, sapendo (o credendo di sapere) come innescare quel meccanismo. Il presidente della Dc appariva lucido nella sua linea offensiva e difensiva, alla quale restò fedele per tutta la prigionia approfondendo e puntualizzando i momenti principali già presenti in quella lettera. A nostro giudizio, però, al di là dei richiami di coscienza, quel persistere sulla stessa strada costituì il limite della sua strategia, che si riassumeva nella speranza di portare prima o poi qualche personaggio decisivo dalla sua parte. La mancanza di riscontri alle sue pressioni condusse Moro in un vicolo cieco, perché 83 Aldo Moro, Memoriale, Commissione Moro 1, pp. 169-170; Commissione Stragi II, pp. 308-314.
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i suoi appelli si traducevano politicamente nella richiesta di un cedimento della Dc di fronte al «ricatto», lasciando il Pci da solo a difendere le istituzioni. Il suo partito, che per trent’anni si era assunto la responsabilità di segnare, nel bene e nel male, la storia politica del paese, avrebbe dovuto cedere quel ruolo al suo concorrente principale, ammettendo di fronte all’opinione pubblica di tenere più a se stesso che alle istituzioni. Sarebbe stato un suicidio politico dalle conseguenze imprevedibili, e a piazza del Gesù quella prospettiva non poteva trovare molti sostenitori. Moro richiamò i nominati in apertura della lettera alle loro responsabilità, ponendoli di fronte alla fede cristiana e cattolica. Ciò premesso, dopo aver tentato di penetrare nell’animo dei suoi interlocutori, provò a parlare di politica, delineando meglio quello che si può chiamare il «principio dello scambio»: «Sono un prigioniero politico [enfatizzò] che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione insostenibile. Il tempo corre veloce e non ce n’è purtroppo abbastanza. [...] Si discute qui, non in astratto diritto […] ma sul piano dell’opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l’unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri di ambo le parti, attenuando la tensione nel contesto proprio di un fenomeno politico. Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la Dc che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni difficili. Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenza ricadranno sul partito e sulle persone. [Tengo a precisare proseguì Moro] di dire queste cose in piena lucidità e senza avere subìto alcuna coercizione della persona».
Ricordò di aver già espresso queste considerazioni in un altro momento, da uomo libero, in occasione del caso Sossi tanto a Emilio Taviani quanto a Luigi Gui e concluse la missiva ricordando la vera ragione che lo muoveva: «Se non avessi una famiglia così bisognosa di me, sarebbe un po’ diverso. Ma così ci vuole davvero coraggio per pagare per tutta la Dc».
Tre erano i punti dai quali Moro sembrava non voler prescindere: il fatto che si ritenesse un prigioniero politico tanto quanto lo erano i brigatisti detenuti (cosa che già in sé implicava il riconoscimento politico delle Br); che egli non aveva subìto alcuna coercizione ma possedeva ancora tanta lucidità «almeno, quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale»; il fatto che aveva già avuto modo di esporre in precedenza, da uomo libero, i suoi pensieri a proposito dello scambio di prigionieri in altre situazioni, e a riguardo fece i nomi di Gui e di Taviani affinché lo 303
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confermassero. Oltre a ciò sottolineava che la sua preoccupazione maggiore non era rappresentata dallo Stato bensì dalla famiglia, che aveva bisogno di lui. Le autorità affidarono l’analisi della missiva alla dott.ssa Conte Micheli, e il 7 aprile venne diffusa una Valutazione preliminare (globale) nella quale si legge che la lettera era «improntata ad una “immagine-guida” simile a quella di cui è permeata la precedente (con esclusione dell’ultima parte, in cui riaffiorava una ripresa di contatto, con sintomi di remissione dello stato abulico e passivo)».
Secondo la Conte Micheli, la lettera era di Moro, ma era stata scritta in un momento di grave coercizione psicologica che di fatto limitava la libertà di espressione del presidente84. La lettera, «come la precedente», era un «falso», in quanto, «pur se stilata da Aldo Moro, non ne traduce e non ne esprime gli impulsi grafici individuali»85. La missiva fu allegata dalle Br al Comunicato n. 4. Nel volantino i brigatisti annunciarono che il processo a Moro era un momento del più ampio processo al regime e perciò avvertirono che il «Tribunale del Popolo non avrà né dubbi né incertezze» nel giudicare il presidente democristiano. Non si trattava di un’affermazione da poco. Significava, in pratica, che Moro sarebbe stato giudicato nel modo più severo. Le Br, poi, rispondevano indirettamente a quanti avevano sostenuto l’inattendibilità della precedente missiva del prigioniero: «La manovra messa in atto dalla stampa di regime, attribuendo alla nostra organizzazione quanto Moro ha scritto di suo pugno nella lettera a Cossiga, è stata subdola quanto maldestra. Lo scritto rivela, invece, con una chiarezza che sembra non gradita alla cosca democristiana, il suo punto di vista e il nostro». Punti di vista che non coincidevano. Per le Br Moro invitava i democristiani «a considerare la sua posizione di prigioniero politico in relazione a quella dei combattenti comunisti prigionieri delle carceri di regime». Tale posizione, si diceva, «è la sua» ma «non è la nostra». Nella visione brigatista le prigioni erano «lager» e i detenuti politici «compagni sequestrati». Come si è visto, dal 1977 la liberazione dei detenuti politici era divenuta per le Br un obiettivo strategico, così come indicato nella Risoluzione strategica del febbraio 197886. Ma per liberare i «compagni detenuti» non tutte le strade erano percorribili, e sicuramente non lo era quella che aveva suggerito Moro: «[...] denunciamo come manovre propagandistiche e strumentali i tentativi del regime di far 84 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 2, copia 20 Referto di indagine grafoscopica (II missiva: Caro Zaccagnini), f.to dott.ssa Giulia Conte Micheli. Bologna, 7 aprile 1978. 85 Ivi, p. 3. 86 M. Moretti, Brigate rosse, cit., p. 112.
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credere nostro ciò che invece cerca di imporre: trattative segrete, misteriosi intermediari, mascheramento dei fatti»87.
Riguardo il primo impatto provocato dalla missiva a Zaccagnini, Andreotti annotò sul suo diario: «4 aprile [...]. Durante la seduta [in parlamento] arriva una lettera di Moro a Zaccagnini con la proposta di liberare i prigionieri politici di ambo le parti. Ci troviamo in nottata a piazza del Gesù per una meditazione comune. Il «Popolo» scriverà domani che questa lettera non è moralmente ascrivibile a Moro»88.
Era la conseguenza di una scelta politica già presa e non più ripensata. Anche quella missiva fu rispedita al mittente. Solo per Fanfani la lettera meritava attenzione, sebbene Zaccagnini l’avesse fatta qualificare come inattendibile: «Non contesto il dovere dello Stato e dei partiti di non trattare [...], ma ciò non esonera il Governo dal fare tutto ciò che deve per ridurre la aggressività delle Br e metterle in difficoltà, per renderle più ragionevoli anche nel trattamento di Moro [...]. Chiedo che Zac[cagnini] dia prova di solidarietà alla famiglia andando a rendere omaggio e solidarietà alla moglie ed a spiegarle la linea di condotta suddetta che tutti dichiarano adottabile. Propongo infine che Zac[cagnini] riduca il numero dei compartecipi alle sue decisioni a due o tre»89.
Tra i quotidiani, il «Corriere della Sera» si distinse per una serie di articoli molto duri. Il 5 aprile aprì con un editoriale dal titolo Una lettera dall’inferno, in cui si legge: «[...] ogni remota ipotesi di approccio è caduta»; non si può dar luogo a «nessun umano cedimento», perché le Br «ci fanno [...] assistere alla demolizione di un uomo che racconta il diario allucinante del proprio annientamento fisico, psichico e morale. Taluni argomenti della sua lettera sono assai più sconvolgenti che persuasivi. Se Moro li ha usati, vuol dire che egli è convinto che i suoi carcerieri e i suoi inquisitori non intendono aspettare a lungo».
Il giorno seguente fu la volta di Leo Valiani, sempre sullo stesso giornale: «[...] è verosimile che queste lettere siano state estorte a Moro con pressioni fisiche o psicologiche, forse anche con droghe». Il presidente democristiano, si legge, aveva sbagliato destinatario: la richiesta di scambio di prigionieri, infatti, avrebbe dovuto essere indi87 Comunicato n. 4, 4 aprile 1978. 88 G. Andreotti, Diari, cit., p. 200. 89 A. Fanfani, Diario, 4 aprile 1978, cit.
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rizzata al ministro di Grazia e Giustizia, e non al suo partito, che in materia non aveva competenze di alcun genere. Oltretutto, essendo stato rivelato ai brigatisti il mittente istituzionale, nel caso di nuove missive indirizzate correttamente, queste non avrebbero avuto «più valore». Il ragionamento di Valiani non entrava nel merito della questione. Egli era convinto, un po’ contraddittoriamente, che la «volontà di Moro» fosse «coartata dai suoi torturatori» anche se, «egli si sforza di restare lucido»90. 3.7 La famiglia Moro Sul versante politico la Dc si mosse con estrema cautela, dando luogo a una serie di dichiarazioni costruite in modo formalmente ineccepibile. Si diceva che nulla sarebbe stato lasciato intentato, ma che allo stesso tempo si sarebbe salvaguardato il principio della legalità. Zaccagnini, ad esempio, nel corso di una tribuna politica del 7 aprile 1978 disse: «Il dovere di difendere la Repubblica e di affermare il valore delle sue istituzioni non cancella il dramma umano che stiamo vivendo, che sto vivendo, perché sappiamo che il nostro leader più prestigioso e più amato è tutt’ora prigioniero delle Br. Naturalmente sentiamo di non essere soli nel fare ogni sforzo, nel sollecitare ogni opera che possa ridare la libertà e restituire al Partito e soprattutto alla famiglia il nostro carissimo amico Aldo Moro».
Questo passaggio era importante perché conteneva due archetipi che sarebbero ricomparsi in tutte le dichiarazioni successive di altre personalità democristiane. Egli parlò di «ogni sforzo» che sollecitasse «ogni opera», ma restando nella legalità. Non era la Dc ad agire in prima persona. Il partito si limitava a «sollecitare» le «opere», ossia le iniziative, che sarebbero eventualmente spettate ad altri, cioè agli organi inquirenti e alle forze di polizia. Era un modo, insomma, per ribadire la «fermezza». Tanto più che l’augurio che Zaccagnini si faceva non era tanto la restituzione di Moro al partito (che in tale caso avrebbe significato la prospettiva di una soluzione politica della vicenda), bensì «soprattutto alla famiglia», cosa che si sarebbe potuta ottenere in due modi: con un intervento delle forze dell’ordine o con la liberazione senza con90Un giudizio inadeguato, sebbene diverso e ispirato dalla volontà di capire, fu dato da Alberto Stabile che parlò delle Br, sulle pagine de «la Repubblica», in termini di «manovratori di molta esperienza, le cui intenzioni sono molto diverse dalle illusioni che nutrono questi esecutori» deducendo la conclusione dal fatto che «un gruppo di dodici persone che esegue un’operazione come quella di rapire Moro presuppone un’organizzazione molto grossa, almeno dieci volte tanto». Il giornalista, però, ragionava come se si fosse trattato di malavita organizzata e parlava di «esecutori» e «cervelli», come a dire, manovalanza criminosa e basisti [«la Repubblica», 23 marzo 1978]. Umberto Eco, invece, tentò di rispondere alle argomentazioni contenute nei Comunicati dei brigatisti ribattendo punto per punto alle loro tesi e rivolgendosi direttamente ai sequestratori di Moro. Fu una prova di coraggio e di intelligenza, rimasta isolata e inascoltata; «la Repubblica», 29 marzo 1978.
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dizioni dell’ostaggio. Il messaggio di Zaccagnini, che a prima vista poteva sembrare un allontanamento dalla linea della «fermezza», in realtà la rinforzava. In quei giorni, secondo quanto espresso dal Psi in sede di Commissione parlamentare, «fa eco l’onorevole Galloni» da Assisi, dichiarando che la Dc «in modo non incompatibile con le sue responsabilità verso lo Stato non lascerà nulla di intentato per salvare la vita di Moro»91. Quella frase, che conteneva l’espressione «nulla di intentato», riproponeva lo stesso concetto espresso da Zaccagnini, in quanto «le responsabilità» della Dc «verso lo Stato» escludevano a priori che essa potesse trattare con dei terroristi che si erano macchiati di delitti efferati. Solo una trattativa riservata, come prospettato da Moro, avrebbe permesso a piazza del Gesù una libertà d’azione. Moro comprese la gravità della situazione e tentò di allargare ulteriormente il raggio di azione delle sue argomentazioni ai rapporti con la famiglia. Furono argomentazioni che crebbero in proporzione alla presa di coscienza della sua sostanziale solitudine politica. A distanza di quasi quarant’anni anni, dopo aver ascoltato fonti orali e letto memorie di persone vicine alla famiglia (o della stessa), crediamo davvero che questo aspetto fosse il più importante per il presidente democristiano. Alla fine di marzo Moro aveva già scritto alla moglie Eleonora una missiva, non recapitata, colma di ricordi, di speranze e di preoccupazioni, sebbene non ancora ossessivi e pressanti come di lì a qualche giorno: «È la prima volta dopo trentatré anni che passiamo Pasqua disuniti e giorni dopo [sic] il trentatreesimo di matrimonio sarà senza incontro tra noi. Ricordo la chiesetta di Montemarciano ed il semplice ricevimento con gli amici contadini. Ma quando si rompe così il ritmo delle cose, esse, nella loro semplicità, risplendono come oro nel mondo […]. Non so in che forma possa avvenire ma ricordami alla Nonna. Cosa capirà della mia assenza? Cose tenerissime a tutti i figli […]. Mi dispiace di non poter dire di tutti, ma li ho […] nel cuore».
Si ricorda finanche di una sua allieva, M [aria] L[uisa] Familiari e prega la moglie di chiamarla per un saluto. Chiede un aiuto finanziario per la figlia Anna, che incinta e con un marito dallo stipendio «misero» si trova nel bisogno, e parla anche delle cinque borse che erano in macchina al momento del prelievo («niente di politico», afferma) prima di aggiungere un affettuoso saluto. Subito dopo le reazioni provocate dalla missiva a Zaccagnini del 4 aprile Moro mutò il tono delle sue lettere private che assunsero anche un carattere politico. Dopo aver percorso la strada Rana-Cossiga prima e Zaccagnini poi, tentò di coinvolgere la moglie. Così, il 6 aprile furono recapitate a Eleonora Moro due missive, una di poche righe, l’altra più ampia. Nella prima Moro si riferiva ai figli, con i quali aveva avuto negli ultimi tempi alcuni scontri personali: «la giovinezza – scrisse con riferi91 Commissione Moro 1, Partito Socialista Italiano, relazione di minoranza, p. 29.
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mento ai due minori – ha il dono della fermezza e di un po’ di alternativa». Nella seconda, invece, cercò di spiegare che la gravità della sua situazione personale dipendeva dalla reazione delle forze politiche: «va facendosi sempre più precaria e difficile per l’irrigidimento totale delle forze politiche [...]». «Urge», scrive perentoriamente prima di precisare che si trattava di fogli importanti, da leggere «con la dovuta attenzione». Bisognava «partire» dal contenuto di due messaggi a Cossiga e Zaccagnini, «per mettere in moto un movimento umanitario, oggi nelle Camere assolutamente assente». La risposta su quanto sostenuto nelle missive a Zaccagnini e Cossiga, infatti, «è stata il nulla». Moro prega la moglie, l’unica che crede possa fare qualcosa, di aprire un dialogo con la società civile adoperandosi con tutta la sua energia presso movimenti giovanili, culturali e religiosi, nei quali i figli erano impegnati personalmente, affinché la loro pressione riesca a sgretolare «questo blocco» formato dai partiti e dai loro principali uomini, ai quali non risparmia critiche: i comunisti, ad esempio, «sono stati durissimi», mentre Andreotti «vorrà poco impegnarsi». Moro ripone qualche speranza anche nel Vaticano, che durante la Seconda guerra mondiale aveva salvato dai tedeschi il costituzionalista Giuliano Vassalli, condannato a morte, ma «è un estremo tentativo»92. Occorre tenere presente che Moro era convinto fosse Corrado Guerzoni il tramite usato dalle Br per far recapitare i messaggi, tanto che afferma: «non so se tu hai visto bene i miei due messaggi (altrimenti li puoi chiedere subito a Guerzoni)». È evidente che, dopo il fallimento di Rana, l’ipotesi di avere un collegamento non sorvegliato fosse stato riposto su Guerzoni che, però, in sede di Prima Commissione parlamentare, ha smentito di aver mai ricevuto direttamente alcuna missiva di Moro93. Il 7 aprile fu pubblicato su «Il Giorno» un messaggio di Eleonora Moro nel quale la donna voleva rassicurare il marito «che tutti i componenti della famiglia sono uniti e in salute» ma che non hanno «alcun segno che conforti la nostra speranza del suo ritorno». La famiglia restava in attesa («vorremmo, tuttavia, sapesse che gli siamo vicini») e pur condividendo l’angoscia del sequestrato credeva, «avendo nonostante tutto fiducia negli uomini», che fosse ancora possibile «dopo tanto dolore, riabbracciarlo»94. Fanfani rispose immediatamente: «Gentile Signora [...] in giorni tanto tristi mi consenta di dirle che, malgrado l’assenza di segni, la speranza di riabbracciare Aldo è confermata dalla ferma convinzione che Iddio non può non compensare i suoi meriti e non può contrastare la nostra Fede»95. Le Br fecero avere a Moro il testo pubblicato sul giornale ed egli ottenne di rispondere immediatamente alla moglie. 92 Lettera n. 7 a Eleonora Moro, recapitata il 6 aprile 1978. 93 Commissione Moro 1, audizione di Corrado Guerzoni, vol. 5, 30 settembre 1980. 94 Il messaggio era stato consegnato il 6 aprile. Il giorno prima Eleonora Moro aveva avuto assieme ai figli «un colloquio tormentato» con Zaccagnini in cui aveva sostenuto che il marito fosse lucidissimo e che la Dc dovesse rompere il fronte della fermezza e imporlo al governo, Andreotti, op. cit., pp. 200-201. 95 Fanfani, Diario, 7 aprile 1978, cit.
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L’8 aprile la polizia intercettò una nuova lettera dell’ostaggio nella quale egli ringraziava la moglie per quanto scritto, «forse un inutile atto di amore, ma è un atto di amore». Il messaggio pubblicato su «Il Giorno» gli aveva «fatto un bene immenso», sebbene vi avesse letto anche un senso di ineluttabilità disarmante. La situazione, infatti, continuava ad essere tutt’altro che positiva. Il parlamento continuava a tacere, senza prendere una posizione ufficiale («mi pare che siano rimasti taciti i gruppi parlamentari, ed in essi i migliori amici, forse intimiditi dal timore di rompere un fronte di autorità e di rigore»). Si trattava, a parere di Moro, di una «unanimità fittizia» che andava rotta assieme alla linea decisa in modo «stupefacente» dal governo, linea «che non ha più scalfito». Moro reiterava un concetto che doveva ormai essere chiaro a tutti coloro che in quei giorni avevano la possibilità di leggere le sue parole: «Si trattava in fondo di uno scambio di prigionieri come si pratica in tutte le guerre (e questa in fondo lo è) con la esclusione dei prigionieri liberati dal territorio nazionale. Applicare le norme del diritto comune non ha senso. E poi [commentava con un certo sarcasmo] questo rigore in un Paese scombinato come l’Italia».
Certo, il governo salva la faccia, ma commette «un crimine». Oltre alla moglie, soltanto Corrado Guerzoni e Nicola Rana sarebbero stati in grado di operare in modo concreto: quest’ultimo avrebbe dovuto riunire gli amici (Moro fa i nomi di Vittorio Cervone, Elio Rosati e Renato Dell’Andro96) per incitarli a una «rottura dell’unità», cosa, forse l’unica, «che i nostri capi temono. Del resto non si curano di niente». Eleonora Moro era incaricata di organizzare gli incontri necessari e di diffondere notizie a mezzo stampa «con qualche dichiarazione» perché «occorre del pubblico oltre che del privato». Due nomi ritornano su tutti: quello di Zaccagnini («come può rimanere tranquillo al suo posto») e di Cossiga («che non ha saputo immaginare nessuna difesa», riferendosi probabilmente alla scorta). «Il mio sangue», osservò, «ricadrà su di loro»97. Per la prima volta Moro manifesta le sue apprensioni per la posizione della Santa Sede, che sembrava protendere per un no al ricatto, deducendone la linea da un fondo di don Virgilio Levi pubblicato su «L’Osservatore Romano» il 7 aprile, scritto che l’ostaggio affermò di conoscere per averne letto alcuni stralci nel risvolto del «Giorno» che conteneva la lettera della sua famiglia. Secondo Moro il pezzo «smentisce tutta la sua tradizione umanitaria e condanna oggi me, 96 Vittorio Cervone, esponente democristiano, sottosegretario alla Marina Mercantile nel I governo Leone (21.06.1963-5.11.1963) e all’Industria, commercio e artigianato nel IV governo Fanfani (21.02.196216.05.1965); Elio Rosati, sottosegretario alla Pubblica Istruzione durante i governi Rumor II e III, Colombo e Andreotti I. Deputato democristiano dalla IV Legislatura; Renato dell’Andro, esponente democristiano, sottosegretario di Grazie e Giustizia nel II governo Leone (24.06.1968-19.11.1968) e nel V governo Moro (12.02.1976-30.04.1976). 97 Lettera a Eleonora Moro, recapitata l’8 aprile 1978. La missiva rimase segreta finché l’agenzia OP di Mino Pecorelli non diffuse le parole di Moro contro Cossiga e Zaccagnini.
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domani donne e bambini a cadere vittime per non consentire il ricatto. È una cosa orribile, indegna della S. Sede». Alla luce di questa considerazione, Moro conclude: «avessi almeno le vostre mani, le vostre foto, i vostri baci. I democratici cristiani (e Levi dell’Osservatore) mi tolgono anche questo». Lo scritto a cui si riferiva Moro, pubblicato su «L’Osservatore Romano» dal vicedirettore don Virgilio Levi, era un duro articolo che contribuì a rafforzare l’idea di un Moro irresponsabile: «Le due lettere di pugno dell’on. Aldo Moro [aveva scritto con riferimento a quelle a Cossiga e Zaccagnini] rivelano [...] il penosissimo stato di un’intelligenza messa in vincoli e privata della sua libertà da una forza coercitiva. L’uomo è costretto a dire cose che non pensa; o a pensare cose che senza la violenta pressione di un carcere e di un processo arbitrario non avrebbe mai ospitato nel suo spirito. L’angoscia della solitudine, il martellamento psicologico, le minacce e, Dio non voglia, ancor più pesanti condizionamenti, hanno prodotto, per il momento, e per quanto l’opinione pubblica ne ha potuto conoscere, due documenti che testimoniano di un atteggiamento di spirito assai lontano da quello consueto dello statista. Si ripete nell’onorevole Moro quello che in anni passati, con sgomento, il mondo ha dovuto osservare in grandissimi spiriti della vita politica o religiosa sottoposti a processi inumani e costretti a ignominiose e false confessioni».
Moro, davvero segnato da questo brano, decise di entrare in polemica diretta con Levi e redasse una lettera personale per il vicedirettore del foglio vaticano, che però non venne recapitata: «Mi è parso di cogliere in questi giorni a quanto mi è stato riferito, una certa diversità di accenti nell’Osservatore Romano su un tema così complesso, con un indurimento finale però che sarebbe stato registrato con compiacimento da quelli che potremmo chiamare i fautori della linea dura, che accettano il sacrificio di vite innocenti, purché si sfugga, come si dice, ad ogni ricatto».
Fatto salvo il punto che la Chiesa si dovesse naturalmente preoccupare della stabilità dell’ordine costituito, Moro non comprendeva come potesse accettare in circostanze eccezionali il sacrificio di vite umane. Ciò in quanto Stati di diversa cultura, trovandosi nelle medesime condizioni di quello italiano, avevano trovato una risposta comune, tendendo, infine, a una soluzione umanitaria98. Al di là della polemica con Levi, Moro sembra sviluppare la sua linea strategica, che non si limita ora a un contingente scambio di prigionieri, ma presuppone l’apertura di una trattativa più ampia che porti, infine, alla deposizione delle armi. Moro parla di una tregua, di un momento di riflessione nazionale nel quale tanto le forze politiche che gli estremisti 98 Lettera a don Virgilio Levi, non recapitata.
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avrebbero potuto cominciare un dialogo. Si sarebbe trattato «di un evento da negoziare e misurare, con opportune garanzie, tali da assicurare la convivenza proprio mentre si rompe per un istante il cerchio infernale dell’azione e della reazione». Nel momento in cui anche il Vaticano gli stava voltando le spalle, forse proprio per sincerarsi personalmente se questo fosse vero, Moro scrisse una prima lettera a papa Paolo VI, anch’essa (come quella a Levi) non giunta a destinazione forse per richiesta dello stesso autore che poi ne avrebbe composta una seconda ben più articolata. La lettera è comunque importante, in quanto vi si ritrovano le stesse argomentazioni usate con Levi: «[…] debbo dire che siffatta pratica umanitaria», dice Moro riferendosi allo scambio di prigionieri, «è in uso presso moltissimi governi, i quali danno priorità alla salvezza delle vite umane e trovano accorgimenti di allontanamento dal territorio nazionale per i prigionieri politici dell’altra parte, soddisfacendo così esigenze di sicurezza».
D’altra parte, sottolinea Moro, «trattandosi di atti di guerriglia, non si vede quale altra forma di efficace distensione ci sia in una situazione che altrimenti promette giorni terribili». Moro si augurava che si potesse ripetere da parte della Santa Sede, «il gesto efficace di S.S. Pio XII in favore del giovane prof. Vassalli, che era nella mia stessa condizione»99. Egli era convinto che il Vaticano fosse stato condizionato dal governo italiano, e che lì si trovasse «la chiave» dell’intera vicenda, come sottolinea alla moglie in una missiva (non recapitata) che doveva accompagnare la lettera per il Papa. Il prigioniero sembrava avere maggiori attese rispetto a prima. Confidava ancora nella possibilità che i parlamentari amici si sarebbero riavuti dalla meraviglia iniziale («hanno avuto il torto di far passare attoniti i primi giorni, lasciando cristallizzare la situazione») e avrebbero cominciato ad agire nella direzione auspicata. Il 13 aprile si riunì la direzione della Dc. Fanfani invitò i colleghi a dimostrare solidarietà con la famiglia Moro e, pur notando la prova di rigore dimostrata dalla Dc sottolineò che «anche tra i convergenti parlamentari, tra gli iscritti, tra i cittadini cominciano a manifestarsi perplessità». Per questo bisognava che «la Dc si dia una strategia, fissi i modi e i termini delle azioni tattiche […] per quanto riguarda i problemi della difesa della democrazia, della sicurezza dei cittadini, della difesa dell’equilibrio sociale»100. Il giorno seguente fu diffuso un comunicato nel quale si affermava che «dinanzi al protrarsi dell’inumana prigionia che l’amico Moro è costretto a subire», si confermava «la linea fin qui seguita». Si ribadì
99 Lettera n. 11 a Paolo VI, non recapitata. 100 A. Fanfani, Diario, 13 aprile 1978, cit.
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«il convincimento che, nel rispetto dei principi costituzionali e nella piena salvaguardia delle prerogative dello Stato repubblicano sia necessario non lasciare inesplorata nessuna strada né disattesa alcuna possibilità di restituire Aldo Moro alla famiglia, al Paese, al Partito».
La situazione era definita «difficile», i pericoli «incombenti», l’impegno da profondere «coerente». Per tutto questo «è avvertita l’esigenza che Parlamento e Governo accentuino gli sforzi rivolti al mantenimento dell’ordine pubblico e al superamento della crisi economica e sociale, nella puntuale attuazione del programma concordato». La direzione aveva «precisato gli orientamenti e le direttive per la più efficace attività dei democratici cristiani anche in vista delle imminenti elezioni amministrative» e «ha rinnovato la sua profonda gratitudine alle Forze dell’Ordine impegnate fino al sacrificio nella difesa delle istituzioni, a tutti i cittadini, agli elettori, ai simpatizzanti, agli iscritti che si stringono attorno ad Aldo Moro ed ha espresso ancora una volta la sua riconoscenza ai partiti ed alle associazioni che hanno manifestato solidarietà umana e politica»101.
Nulla veniva detto sulle prospettive inerenti Moro, sulla gestione del sequestro da parte del partito, sulla possibilità che si aprisse uno spiraglio. Da quelle parole, anzi, si riusciva a malapena a dedurre che Moro era un dirigente della Dc. Moro è «amico», e non «il presidente del partito» e la responsabilità di «esplorare strade» era un «convincimento» della direzione, non una sua iniziativa. Il comunicato, insomma, è l’emblema della posizione dei vertici del partito. Il testo si rivolge alla politica senza la politica, è di difficile lettura ma, qualora fosse fruibile a Moro, da questi facilmente interpretabile. Bastava un cenno, ricorda Moretti, «pochi particolari, a volte una battuta per capire. Conosce perfettamente quell’universo in agitazione». Moro riusciva a capire l’andamento del dibattito interno al partito dalla sede in cui si riunivano i dirigenti, al punto che avrebbe detto una volta a Moretti: «Le posso descrivere quel che sta succedendo. In un angolo c’è Zaccagnini che piange, Piccoli si agita e parla a vanvera. Andreotti sta zitto, fermo, osserva, scrive, ragiona, non è emozionato. La maggior parte degli altri ha perso la testa»102.
Da tale descrizione si deduce quanta poca stima avesse Moro dei suoi amici di partito e, forse, viceversa.
101 «Il Popolo», 14 aprile 1978. 102 M. Moretti, Brigate rosse, cit., pp. 140 e 150.
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3.8 Le dichiarazioni su Taviani Il 10 aprile 1978 i brigatisti diffusero il Comunicato n. 5: «L’interrogatorio del prigioniero [recitava il documento] prosegue e, [lui] ci aiuta validamente a chiarire le linee antiproletarie, le trame sanguinarie e terroristiche che si sono dipanate nel nostro Paese (che Moro ha sempre coperto), ad individuare con esattezza le responsabilità dei vari boss democristiani, le loro complicità, i loro protettori internazionali, gli equilibri di potere che sono stati alla base di trent’anni di regime Dc e quelli che dovranno stare a sostegno della ristrutturazione dello Sim».
L’oggetto degli interrogatori era rimasta la Dc e il suo ruolo nel governo del Paese. Dopo aver ripetuto che «tutto verrà reso noto al popolo e al movimento», le Br decisero di diffondere le dichiarazioni di Moro riguardanti quello che era definito «il teppista di Stato» Emilio Taviani. Come detto, Taviani era stato chiamato in causa, assieme a Gui, dallo stesso Moro in una sua precedente lettera dove ricordava, in occasione del sequestro Sossi, di aver loro esposto la possibilità di trattare con i terroristi e di aver espresso perplessità su una legge contro i rapimenti. Il 6 aprile Gui aveva confermato le parole di Moro per quanto riguarda quest’ultimo particolare103, mentre Taviani aveva contraddetto il prigioniero, come riportato da Giulio Andreotti: «10 aprile [...]. Esce un comunicato delle Br con un forte attacco autografo di Aldo a Taviani, reo di aver smentito che per il caso Sossi Moro si fosse dichiarato per la trattativa [...]. Come deve interpretarsi questa lettera? Poiché anche dalle carte dell’ambasciata di via Flaminia si accerta che Moro veramente fu contro la trattativa per Sossi, è forse un messaggio in chiave per condividere oggi la stessa linea? O Moro, prendendo Taviani come bersaglio, vuol far capire che è la colonna genovese a tenerlo prigioniero? Navighiamo nel buio»104.
Anche Taviani aveva commentato quello stesso giorno: «Durissima lettera di Moro […]. Non ho nulla da rispondere. Probabilmente Moro è stato stoccolmizzato. Comunque sono certo che non mi ha mai parlato di scambi di prigionieri, tantomeno durante il sequestro Sossi […]»105.
103 «Corriere della Sera», La Dc fa quadrato intorno a Zaccagnini, 6 aprile 1978. 104 G. Andreotti, Diari, cit., p. 204. In quei giorni l’allora capo del governo si era già lasciato andare ad interpretazioni curiose. Il 30 marzo aveva scritto, riferendosi alla missiva di Moro a Cossiga: «Il triplice accenno a non essere emotivi può voler dire un appello alla fermezza. La strategia non deve cambiare e bisogna stare attenti che la tattica non induca gli altri a fare errori»; ivi, p. 197. 105 P. E. Taviani, Politica a memoria d’uomo, il Mulino, Bologna 2002, pp. 395-396.
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Fanfani, invece, annotò: «Lo scritto di Moro è particolarmente rivolto a Taviani con aspri rimproveri. [...] la stampa lo giudica imposto e ne trae argomento per invitare la Dc a restare ferma»106.
Già il 1° aprile Andreotti aveva annotato che due suoi collaboratori erano stati incaricati di ritrovare «i rapporti dell’ambasciata presso la Santa Sede sul caso Sossi. È confermato che Moro fece fare passi per scoraggiare erronee posizioni della stessa Santa Sede. Ricevo tutta la documentazione»107. Andreotti si riferiva al coinvolgimento come mediatore del Vaticano durante il sequestro del giudice genovese e al ruolo dell’Ambasciata italiana presso la Santa Sede e il passaggio appare chiaro: Taviani smentisce Moro, Andreotti chiede le carte per una verifica (all’epoca Moro era ministro degli Esteri) e dopo averle viste ritiene di non contraddire la smentita108. È possibile che Moro ricordasse non perfettamente quei giorni del 1974 e che, impossibilitato a controllare, si convinse che i suoi lo contraddicessero per mantenere la fermezza109. Agli occhi di Moro, comunque, Taviani era tra i responsabili di quella linea e tentò di difendersi, attaccandolo in questo brano che è entrato a fare parte del corpus del Memoriale, a nostro avviso impropriamente perché trattasi proprio di uno scritto polemico destinato all’esterno e non una risposta alle domande dei brigatisti. Per i quali, anzi, la situazione era fin troppo imbarazzante e non poterono che stare a guardare. Il prigioniero, dunque, chiamò Taviani uno «smemorato», che non provava disagio «nel contestare le parole di un collega lontano». Rammentava al deputato il luogo (la sede Dc al quartiere romano dell’Eur) e la circostanza (una direzione «abbastanza agitata») che avevano fatto da cornice alle sue affermazioni, del tutto confacenti a una situazione oggettiva (il sequestro Sossi, appunto) creatasi e dalla quale aveva «tratto spunto per il mio occasionale riferimento». Moro ricordava anche la replica di Taviani al suo discorso e sarcasticamente (anche se in modo involuto) commentava: «perché l’on. Taviani […] non si allarmi nel timore che io voglia presentarlo come se avesse il mio stesso pensiero, mi affretterò a dire che Taviani la pensava diversamen106 A. Fanfani, Diario, 11 aprile 1978, cit. 107 G. Andreotti, Diario, cit., p. 199. 108 In questo caso le Br contattarono per la consegna (con esito diseguale) il prof. Francesco Tritto con tre telefonate, il 6, l’8 e il 9 aprile, come riscontrato dalla Digos l’11 aprile; cfr. ACS, Caso Moro, MIGS b. 5, DIGOS, 050714, Roma, 11 aprile 1978, Atti relativi al sequestro dell’On.le Aldo Moro, f.to Spinella. 109 Nel 1980 la figlia Agnese, intervenendo di fronte alla prima Commissione parlamentare sul caso Moro, avallò i ricordi del padre su generiche trattative fatte con i palestinesi; Commissione Moro 1, audizione di Agnese Moro, vol. 7, p. 25.
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te da me», come tanti altri, del resto, che «anche oggi la pensano diversamente da me ed allo stesso modo di Taviani». Tutti loro, aggiunse Moro, «sono convinti che sia questo il solo modo per difendere l’autorità e il potere dello Stato in momenti come questi». L’ostaggio ripropose, quindi, la sua opinione in fatto di prigionieri politici, cercando, se possibile, di risultare ancora più chiaro di quanto non fosse stato nel passato: si tratta, affermò, «di dare umanamente un respiro a dei combattenti, anche se sono al di là della barricata, di realizzare un minimo di sosta, di evitare che la tensione si accresca e lo Stato perda credito e forza, se è sempre impegnato in un duello processuale defatigante, pesante per chi lo subisce, ma anche non utile alla funzionalità dello Stato».
Moro, insomma, capì che avevano cercato di screditarlo per dimostrare che nessuna delle sue parole dovesse essere accolta. La sua veemente reazione – una risposta politica («nei miei rilievi [su Taviani. N.d.A.] non c’è niente di personale», scrive) alla direzione della Dc –, significava che egli aveva compreso il motivo della smentita, ma che lo rifiutava, al punto da concludere il lungo brano con un quesito allarmante: «Vi è forse, nel tener duro contro di me, un’indicazione americana e tedesca?»110. Le carte richieste dal governo per controllare le parole di Moro sono oggi disponibili per gli studiosi. Fanno parte della direttiva Prodi e si trovano nella busta 18 del Gabinetto speciale del ministero dell’Interno. La verifica venne fatta prima della smentita di Taviani, che forse si permise il passo in quanto informato, su richiesta proprio del ministero dell’Interno che a nome del governo si era rivolto a quello degli Esteri. La risposta era giunta a fine marzo, dopo che il segretario generale del MAE Francesco Malfatti aveva ritrovato le carte. Si tratta di una lettera di accompagnamento dell’Ambasciatore presso la Santa Sede, Vittorio Cordero di Montezemolo, e delle copie di due missive del suo predecessore, Gian Franco Pompei, indirizzate al ministro degli Esteri Moro durante la crisi Sossi111. Il 30 marzo 1978, dunque, l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Montezemolo, scrisse al ministro Cossiga che «ho rivisto stamane le carte relative al sequestro Sossi e alla posizione presa allora dal Vaticano, e mi ha fatto una certa impressione vedere che il mio predecessore riferiva proprio a Moro 110 Lettera su Paolo Emilio Taviani, recapitata tra il 9 e 10 aprile 1978, allegata al comunicato n. 5. 111 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 18, ministero degli Affari Esteri, il capo dell’ufficio del segretario generale, prot. 010/338 al consigliere Arnaldo Squillante, capo di Gabinetto del ministero dell’Interno, Roma, 31 marzo 1978. L’ambasciatore Pompei ha pubblicato i suoi diari con la cura di P. Scoppola, Un ambasciatore in Vaticano. Diario 1969-1977, il Mulino, Bologna 1994.
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le vicende e le opinioni della Santa Sede. [E ancora] Ricordando che Moro ha una eccezionale memoria sono certo che in questi giorni di forzata meditazione egli dev’essersi ricordato di quanto gli fu scritto da una persona di sua assoluta fiducia com’è Pompei»112.
Lo stesso giorno Montezemolo aveva scritto anche a Malfatti che la storia, almeno in parte, si ripeteva, e che «pur nella diversità dei casi, talune osservazioni conservino tuttora la loro validità»113. Cosa dicevano le lettere di Pompei a Moro del 1974? La prima era del 22 maggio 1974, la vigilia della liberazione di Sossi. L’ambasciatore raccontava di un incontro avvenuto la sera precedente alla fine di un ricevimento offerto al corpo diplomatico, dopo che si era appreso che le Br avevano chiesto la liberazione dei reclusi della 22 Ottobre e la loro consegna all’ambasciata di Cuba presso la Santa Sede. Sembrava che il Vaticano, in quelle ore concitate, si volesse porre come intermediario «e ciò proprio mentre il presidente del Consiglio [Mariano Rumor] rispondeva nelle due Camere alle interrogazioni, confermando la giusta e ferma posizione del governo». Dopo aver contattato la presidenza del Consiglio, Pompei aveva chiamato al telefono il sostituto segretario di Stato Vaticano mons. Giovanni Benelli, «cominciando così una serie di lunghe e talvolta penose conversazioni»114. Mons. Benelli ebbe una posizione non del tutto lineare. Da un lato asseriva che il Vaticano non aveva alcuna soluzione da proporre e non faceva pressioni per la liberazione dei criminali, ma dall’altro comprendeva le «ansie della signora Sossi» e voleva evitare «che si possa dire che il Papa “non ha fatto niente” e ha mancato alla promessa fatta alla signora Sossi con il telegramma del 7 maggio». Lo stesso mons. Benelli continuava, affermando che nel pomeriggio la sua segreteria aveva ricevuto una telefonata da uno sconosciuto, nella quale si diceva di parlare a nome o nell’interesse della liberazione di Sossi e si chiedeva l’intervento dell’ambasciata cubana presso la Santa Sede. Pompei spiegò al sostituto segretario di Stato «quale era il fermo atteggiamento del Governo, il quale escludeva ogni forma di espatrio (lo Stato del Vaticano incluso) mentre il diritto di asilo nelle Ambasciate e specie per i criminali di diritto comune non esiste». Sconsigliava di fare qualsiasi dichiarazione, che in quel momento sarebbe stata comunque a favore della posizione brigatista «e avrebbe dato l’impressione di non condividere l’atteggiamento del Governo, indebolendolo e favorendo lo scambio». Pur non volendo sostenere la liceità dello scambio, mons. Benelli insisteva nel voler fare una dichiarazione per i giornali112 Acs, Caso Moro, MIGS, b. 18, l’ambasciatore Montezemolo al ministro dell’Interno Francesco Cossiga, Roma, 30 marzo 1978, segreto, poi declassificato a riservatissimo. 113 Ivi, Montezemolo a Malfatti, Roma, 30 marzo 1978, riservatissimo. 114 Parte delle vicende riguardanti l’ambasciata di Pompei e i suoi rapporti con mons. Benelli, con particolare riferimento al problema del divorzio, sono descritte in F. Malgeri e L. Paggi (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Partiti e organizzazioni di massa, Rubettino, Soveria Mandelli 2003.
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sti e nel tentativo di giustificare tale atteggiamento «ha detto cose di una tale enormità che stento a riferirle; non voleva che si potesse dire che il Papa non aveva fatto nulla come si era detto per le Fosse Ardeatine!». A parte il fatto, commentò l’ambasciatore «che il Governo italiano non è composto da nazisti, la persona in pericolo di vita non è nelle mani di esso Governo». Inoltre, era come se l’allora papa Pio XII, anziché rivolgersi ai nazisti, si fosse appellato ai parenti degli ostaggi! Pompei avvertì il suo interlocutore di non fare il gioco dei terroristi «con interferenze indebite», minacciando neanche troppo velatamente addirittura non la revisione, ma la «denuncia del Concordato». Al che, Benelli aveva invocato il diritto del Papa di levare la sua voce a favore della «vita» in qualunque parte del mondo fosse in pericolo. Portò come esempio gli ebrei minacciati in Urss, i condannati a morte in Spagna o in Usa, vedendosi respingere ogni paragone in quanto si trattava di governi che detenevano le persone minacciate. Con «l’autorità che mi veniva da precise disposizioni del presidente del consiglio on. Rumor sono riuscito prima a far fermare un testo già dato all’Ansa, e poi a respingere quattro successive e sempre più evanescenti redazioni». Alle 23.30 l’alto prelato «accettava di non dire più nulla e lasciare avvolta nel mistero l’eventuale azione del Papa (passata e futura)». Pompei, come si vede, è diretto e durissimo nei giudizi, contando evidentemente nella solidarietà del suo interlocutore, ossia del ministro Moro. Al punto da permettersi di scrivere che era apparso chiaro che «pur non avendo il Santo Padre fatto nulla di sostanziale, a parte il pubblico appello ai rapitori, la segreteria di Stato, per male intese ragioni di prestigio, voleva lasciare intendere che era stato fatto e si faceva molto di più»115. Il «Corriere della Sera» del giorno successivo, 23 maggio 1974, pubblicò un articolo di Fabrizio De Santis intitolato Dal Vaticano a Palazzo Chigi sul filo del telefono un drammatico tentativo di sbloccare la situazione in cui si parlava di «difficoltà che allo stato attuale dei fatti appaiono insormontabili» per una posizione di mediazione da parte del Vaticano. «Sul filo del telefono», proseguiva l’informato giornalista, «sono corse angosciate parole che denunciano una ricerca affannosa di soluzioni più che un disegno di possibile attuazione». La Santa Sede, si legge ancora, aveva il desiderio di mettere in opera «tutta la possibile influenza di un’autorità spirituale per esercitare quella carità, verso l’uomo sopraffatto dalle forze incontrollate e incontrollabili della criminalità, che la missione della Chiesa impone ai suoi rappresentanti, e verso una famiglia che sta vivendo inesprimibili ore d’angoscia». De Santis riportò con molta precisione il senso del discorso tra Pompei e mons. Benelli, facendo anche riferimento a Pio XII e alle ingiuste accuse di «gravi peccati di omissione» durante il conflitto mondiale. Da parte italiana, ringraziando il Papa per la sua generosa offerta, si affermava che non si aveva alcuna intenzione di scendere a patteggiamenti con i ricattatori. 115 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 18, Riservata alla persona, Roma 22 maggio 1974, On.le prof. Aldo Moro Ministro per gli Affari Esteri, f.to Gianfanco Pompei.
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Lo stesso 23 maggio Pompei scrisse di nuovo a Moro che il giorno precedente, intorno alle 19.00, il sostituto segretario di Stato era tornato alla carica: «Vogliamo essere in grado di dire «un minimo» – aveva affermato – «quello che ci direte voi» sull’azione del Papa, poiché non possiamo mantenere un silenzio assoluto senza perdere credibilità». Sostanzialmente, riferiva l’ambasciatore, non c’erano novità e il Papa non aveva suggerito nulla di nuovo, tanto che «in queste condizioni mi sembra che possa solo pregare e fare appelli ai rapitori». Pompei aveva «fermamente fatto presente che non potevamo dare l’assenso, anche se richiesto per “pura cortesia” e con lo scopo di non metterci in imbarazzo», ad alcuna dichiarazione che portasse in sé segni di cedimento. In conclusione mons. Benelli aveva asserito che «la delicatezza del momento imponeva il massimo riserbo sull’azione del Papa», provocando il seguente commento di Pompei: «È anche questo un modo di giocare sull’illusione, ma più (e meno) di così non mi è riuscito di ottenere»116. Il carteggio si chiude con un appunto del 24 maggio, a vicenda finita e dunque in una situazione emotiva molto diversa rispetto al giorno prima. In una «normale udienza» con il cardinale segretario di Stato, questi aveva sottolineato che il Papa avrebbe inteso solo fare appello ai rapitori, «mettendo a disposizione l’azione della Chiesa se poteva essere richiesta per facilitare la restituzione del giudice sequestrato». Pompei gli aveva risposto che era lieto di sentirlo dire e che la sua azione «vibrata» mirava solo a evitare «che con dichiarazioni imprudenti o anche solo ambigue si accreditasse l’idea che il Papa avesse voluto esercitare impensabili pressioni sul governo italiano affinché facesse espatriare i criminali della 22 Ottobre». Il fatto era che ciò non tanto «avrebbe indebolito la ferma posizione presa dal governo, quanto avrebbe danneggiato la Chiesa nell’opinione pubblica italiana»117. Come si vede dal carteggio, l’ambasciatore Pompei si dimostrò fermo nella posizione del governo italiano di non trattativa e non cedimento verso le Br, usando toni molto forti con il sostituto segretario di Stato vaticano e un linguaggio poco consono a un ambasciatore con il ministro Moro. Questi, perciò, non poteva non essere d’accordo con Pompei, non solo perché quella era la posizione del governo e Pompei aveva ricevuto mandato direttamente da Rumor, ma anche in quanto non si percepisce, dalle successive note dell’ambasciatore, alcun mutamento di rotta, oltre a una implicita comunanza di intenti e di visione della vicenda. Le riflessioni di Andreotti, dunque, sembrano trovare conferma nelle carte che, invece, contraddirebbero le parole di Moro. Sullo scritto di Moro dedicato a Taviani venne composta un’analisi con oggetto lo «schema scrittorio globale». Secondo la Conte Micheli, Moro appariva fortemente condizionato dai suoi rapitori, in una situazione di progressiva prostrazione psichica e debilitazione fisiologica, se non di vero e proprio cedimento fisico118. 116 Ivi, Roma, 23 maggio 1974, ambasciatore Pompei a on.le prof. Aldo Moro, ministro per gli Affari Esteri. 117 Ivi, Appunto, Roma, 24 maggio 1974. 118 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 6, IV Missiva; «Filtra fin qui la notizia…», Bologna, 12 aprile 1978, f.to Giulia Conte Micheli.
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La grafologa redasse anche un esame psicografico sulle prime cinque lettere di Moro note agli inquirenti. In esso si legge che la grafia era «scattante e irregolare […] turbata da tremori talora solo latenti, talora evidenziati», segnando ascendenze e discendenze. L’influsso era considerato «geniale per l’esaltazione del tratto-segno». Era un uomo chiuso in se stesso, nel quale «l’originalità del pensiero si limita ad un mondo interiore»119. Negli scritti si riconfermava la complessità della personalità di Moro, che in una situazione così difficile si manifestava in ragionamenti talora affannosi, ma sempre complicati e segnati da un orgoglio turbato. La Conte vedeva in Moro uno spirito «induttivo e critico portato allo studio e all’analisi; sensibilità controllata, conflittualità tra pensiero e “non azione”, misticismo per soffocamento e controllo, non necessità di amore e di affetto perché per sua stessa condizione non può appagare e ricevere». Tutto questo gli toglieva energia, allontanandolo dall’azione o allontanando da lui «il coraggio di realizzarsi nell’azione»120. Nel Comunicato n. 5, a cui era stato allegato lo scritto su Taviani, le Br non parlavano ancora di scambio ed evitarono addirittura cenni ai loro compagni detenuti, dedicando la seconda parte dello scritto all’evoluzione della situazione politica italiana seguita al rapimento. Il partito di Berlinguer fu accusato di essere composto da «delatori e spie» mentre nelle fabbriche cresceva «l’opposizione operaia allo Sim e alla politica collaborazionista dei berlingueriani». La campagna di appoggio al sequestro, che in quei giorni registrava una recrudescenza, era definita «l’iniziativa del Mpro [Movimento proletario di resistenza offensivo] e delle organizzazioni rivoluzionarie contro i covi e gli uomini della Dc, della Confindustria, dell’apparato militare», mentre si richiamava il proletariato a organizzarsi per estendere l’iniziativa armata: «è fondamentale realizzare quei salti politici e organizzativi che la guerra di classe impone, costruire la direzione del Mpro, assumersi la responsabilità di guidarlo, costruire in sostanza il Partito Comunista Combattente». Le Br preferirono rivolgersi a quella che ritenevano la base sociale e politica della lotta armata, restando in attesa degli esiti prodotti dalle iniziative del loro ostaggio. Il Comunicato venne studiato dal Comitato di crisi, a parere del quale si poteva ipotizzare che «uno dei carcerieri, d’intesa con la banda, abbia promesso a Moro di mandare massaggi segreti al mondo esterno, in un gioco calcolato». Ciò poteva spiegare «il poscritto del messaggio contrario alla trattativa segreta». Far credere che il testo di Moro fosse uno stralcio della sua deposizione era un «bluff», diretto «all’ope119 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 13, Esame psicografico della personalità, f. 1. 120 Ivi, f. 4. In una Nota aggiuntiva, l’esperta affermava che nel complesso il suo studio aveva evidenziato una scala di valori che andavano lentamente sfaldandosi. Affermò che, pur non essendo determinabili il grado di cedimento e il preciso stato fisiologico, la progressiva tendenza a una evoluzione di regressività gestuale e, quindi, a una involuzione fisiologica con sindrome psico-emotiva «è il quadro obiettivo che emerge dalla ritmia grafica degli scritti esaminati»; ACS, Caso Moro. MIGS, b. 23 B, faldone 13, Lettere dell’on. Moro e relativi referti grafoscopici, Bologna, 12 aprile 1978, f.to Giulia Conte Micheli.
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razione “cedimento dello Stato”». Si tentò di calcolare il tempo con cui le Br rispondevano agli avvenimenti, come per esempio la vasta azione repressiva delle forze dell’ordine contro militanti della sinistra extraparlamentare dei primi di aprile, stimato in 2-3 giorni grazie al riscontrato incrociato dei riferimenti contenuti nel volantino121. Al contrario di quanto pensava la Conte, per il Comitato di crisi la lettera su Taviani sembrò scritta «in gran fretta. Tratto veloce, errori, punteggiatura approssimativa […]. Si può immaginare che a Moro sia stato dato poco tempo per scrivere le quattro pagine. Una decina di minuti. Come se il postino avesse fretta di consegnare il messaggio. Come se si dovesse rispettare una scadenza, un orario, un appuntamento»122.
È una lettura, un’ipotesi di lavoro, che però non tiene conto della struttura delle Br e del loro sistema decisionale. Alcune osservazioni entravano nel merito dello scritto. Perché, ci si chiedeva, Moro aveva scelto «per un’azione di rottura nel partito i seguaci meno influenti e forse meno adatti […] a un compito del genere?», con riferimento ai nomi di Cervone, Rosati e Dell’Andro. Se la missione dei tre non poteva che avere una lunga gestazione, perché, allora, Moro scrive che i «tempi stringono»? Risultava evidente che le Br avessero sottoposto a Moro quanto uscito in quei giorni sull’atteggiamento del Vaticano e «che contano molto sul canale Chiesa». Forse, infine, il prigioniero aveva ricevuto un messaggio dalla famiglia, visto il riferimento alla figlia Anna123. Secondo il prof. Baldelli, nel testo c’erano punti di «evidente certezza linguistica», sebbene sintatticamente apparisse di più complessa e robusta costruzione rispetto alle lettere precedenti124. Il Sisde, che come si è detto non aveva una struttura adeguata, reclutò un gruppo di specialisti esterni incaricati di svolgere le analisi linguistiche sui messaggi di Moro e delle Br. Uno di questi, con il nome in codice «Tommaso», espose le sue conclusioni sulle prime missive, comparate con 5 testi pregressi di Moro in una relazione dell’11 aprile nella quale si concludeva che gli scritti dovevano ritenersi autentici: «in generale l’analisi strutturale e sintattica […] rivela un periodare complesso, con varietà di strutture di origine classica, che dimostrano l’attitudine a collegare una serie di concetti accessori con un concetto principale in accurati ed esatti rapporti logici. Le proposizioni e i pe121 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 2, Osservazioni sul comunicato n. 5. 122 ACS, Caso Moro, MIGS, b. 8, Osservazioni sulla lettera dell’8 aprile. 123 Ibid. 124 Ivi, Studio del prof. Baldelli. 2-R. Appunto linguistico su M5. In tempi più recenti si è occupata della grafia di Moro nelle lettere Elena Manetti, Aldo Moro, il silenzio del dolore, in «Stilus, percorsi di comunicazione scritta» n. 6, giugno 2008 e in «La Graphologie», n. 273, Gennaio 2009 (Aldo Moro, le silence de la douleur).
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riodi sono spesso organizzati ad incastro, con sospensioni, incisi, espressioni parentetiche. Frequenti anche le iterazioni. Sono tutte strutture che consentono di definire e rifinire il pensiero con precisione e sottigliezza ed appaiono tipiche dell’autore».
Il lessico era ritenuto ricco «talora fino alla ridondanza», con preminenza di quello attinente alla sfera etica. Le missive e i testi analizzati si potevano attribuire «senza incertezze ad un unico autore». Le differenze tra le lettere e i testi si spiegavano facilmente «con la natura radicalmente diversa di questi scritti. Le prime due missive appaiono pervase da una emotività che negli articoli manca, prevalendo in questi invece l’aspetto razionale, sia pure permeato di sensibilità». Eventuali imposizioni sul contenuto «non hanno in modo apprezzabile alterato il linguaggio, che rivela, in complesso, uniformità stilistica». Tra le lettere non mancavano differenze: quella indirizzata a Zaccagnini, rivelava la «più forte pressione emotiva, un incipiente attenuarsi del controllo razionale, che determinano un linguaggio più semplice ed esplicito» ed era evidente che quello del prigioniero era «uno stato d’animo che si va aggravando» e «una resistenza che si attenua»125. Nella terza lettera, invece, si era raggiunto un nuovo equilibrio emotivo, fatto ritenuto «eccezionale nelle circostanze in oggetto», al punto che viene impiegato un lessico «ed una struttura del periodo che sembrano rivelare un notevole lavoro di cesello»126. Dunque, per «Tommaso» le lettere erano non solo autentiche, ma indicavano che Aldo Moro fosse tutt’altro che impazzito, al punto di riuscire a controllare il proprio stato emotivo dopo un momento di comprensibile scoramento. Non tutti gli analisti furono concordi su questo fatto e nel suo complesso gli organi inquirenti non si appiattirono su un’unica lettura. In un secondo promemoria dedicato alle prime 5 lettere di Moro redatto da Ferracuti, si tentò – in modo «del tutto ipotetico e probabilistico» – di tracciare un profilo psicologico del prigioniero. Chi aveva studiato le lettere, infatti, non aveva conosciuto Moro, non aveva la certezza che nel frattempo egli avesse scritto altri messaggi non recapitati, né aveva potuto incontrare membri della famiglia per una anamnesi. Andava anche sottolineato che «le conoscenze circa tecniche usate sulla vittima dagli aggressori sono note solo in via ipotetica attraverso paralleli con gli altri tre sequestri eseguiti», con riferimento a quelli di Amerio, Labate e Sossi. Moro si trovava certamente in condizioni «fisio-psichiche meno che perfette», avendo in passato presentato già episodi di «ansia a canalizzazione largamente ipocondriaca, con fenomeni neurovegetativi e di reazione depressiva». I rapitori, secondo l’estensore, erano in grado di controllare psicologi125 ACS, Caso Moro, MIGS b. 4, Annesso «A» all’allegato 5, 11 aprile 1978. Analisi Missive M1, M2, M3. Il riferimento di quest’ultimo passo è alla frase rivolta a Zaccagnini: «Moralmente sei tu ad essere al mio posto, dove materialmente sono io». 126 Ibid.
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camente il presidente, visto che le missive inviate si integravano perfettamente con i loro proclami. La letteratura esistente su casi simili affermava che in un sequestro la reazione iniziale era di ansia e depressione, seguite da due atteggiamenti psicologici nettamente diversi: «in uno la depressione si accentua, fino a raggiungere il distacco dalla realtà, con possibili sviluppi deliranti di ordine compensatorio. Nell’altro si verifica la sindrome di identificazione con l’aggressore», ossia la sindrome di Stoccolma. Si stabiliscono «imponderabili legami di «comprensione» e di amicizia tra aggressori e vittima, con accettazione da parte di quest’ultima di «una parte del linguaggio, dei motivi e persino della scala dei valori dell’aggressore stesso». Questo costituiva la norma, non l’eccezione. Sostanzialmente, il processo si innescava naturalmente, per permettere alla «vittima di minimizzare la propria sensazione di pericolo e massimalizzare la percezione delle probabilità di salvezza. Nel caso di Moro, non si poteva escludere che il processo potesse essere facilitato da interventi farmacologici. Il presidente, viene ricordato, «faceva uso abbastanza generoso di farmaci e ne portava con sé una scorta personale», come avrebbe confermato Rana di fronte alla prima Commissione di inchiesta127. Dai tremori presenti negli scritti, il relatore ipotizzava l’uso non sistematico di farmaci neurolettici, in grado di «diminuire notevolmente la resistenza psichica della vittima, pur accentuandone la reazione depressiva»128. I brigatisti hanno sempre negato di aver fatto uso di farmaci su Moro e le risultanze dell’autopsia lo hanno escluso per i giorni indietro a cui è stato possibile risalire. I rapitori, inoltre, hanno anche negato l’interesse a convergere sulle posizioni di Moro (o viceversa), sostenendo che il presidente stava combattendo una battaglia con i suoi e contro i suoi, dei quali era il solo a conoscere virtù e vizi, argomenti in grado di sensibilizzarli o meno. Ferracuti dà per certa la comparsa della sindrome di Stoccolma, «evidente da un messaggio all’altro. Si passa infatti da una generica chiamata di correo nella missiva “Caro Francesco”, ad accuse dirette, che rovesciano la responsabilità degli eventi dagli aggressori alle autorità». In altre parole, la colpa del suo rapimento era trasferita dalle Br ai suoi amici di partito e di governo «con un meccanismo che da un lato segna l’assenza di critica da parte della vittima e dall’altro il completamento del suo processo di identificazione con gli aggressori». Con il passare delle pagine, Ferracuti trasforma le sue ipotesi in certezze e afferma che il tipo di «brain washing impiegato dagli aggressori si avvicin[a] notevolmente alle tecniche utilizzate da operatori cinesi e nordcoreani», al contrario di quelle sovietiche, dirette più a ottenere una confessione che indottrinamento e identificazione129. Nel 1980 il Sisde tornò sulla questione degli scritti di quei 55 giorni in un lungo appunto per il Viminale. Vi si legge che il servizio si impegnò prima di tutto in un lavoro di 127 Atti Commissione Moro 1, Audizione di Nicola Rana, vol. 5, 30 settembre 1980. 128 ACS, Caso Moro, MIGS b. 4, Annesso B all’allegato 5, Promemoria sugli aspetti medico-psicologici, anche in ivi, b. 13. 129 Ivi, ff. 4 e segg.
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collazione e raffronto dei messaggi che uscivano dalla prigione del popolo a firma Br con i precedenti documenti dell’organizzazione, per attribuirle con certezza i Comunicati. Il linguaggio rilevato nei 9 Comunicati era comparso per la prima volta in un opuscolo del 1977 ed era caratterizzato da una sintassi di livello medio-alto «unita a periodi molto articolati e di notevole complessità che in alcuni casi raggiungono le quattordici proposizioni in un solo periodo». Non cogliendo nel segno per una scarsa conoscenza dell’organizzazione (non è mai esistito un «ideologo»), scrissero che «l’elemento dominante del gruppo […] può essere ritenuto anche il revisore del citato opuscolo del novembre ’77 e della Risoluzione della direzione strategica del febbraio ’78». Il linguaggio di costui «appare lucido, permeato di certezze assolute, totalmente inserito entro schemi ideologici molto rigidi e dotato di una rilevante carica di aggressività/odio contro il nemico di classe, per cui l’assassinio (cioè l’atto di giustizia proletaria) appare come l’ovvio momento culminante di un processo politico». Il dato avvalorava l’ipotesi che tutti i Comunicati dell’operazione Moro fossero stati redatti dal Comitato esecutivo delle Br e non esistevano dubbi sul fatto che gli autori dell’operazione fossero stati proprio i brigatisti130. Lo schema ideologico generale dei Comunicati appariva elementare, rigido e acritico e, «nonostante le apparenze», anche rozzo se si considera che il ruolo di Moro nella vita politica italiana era stato trattato in termini di «assoluta superficialità». Questi elementi portarono il Sisde a ipotizzare che tutta la gestione e l’evoluzione del sequestro, a causa della rigidità dogmatica evidenziata nei Comunicati, fossero predeterminate per l’incapacità delle Br di uscire dal loro schema esasperato e per nulla dinamico. Detto in altre parole, secondo il Sisde «i capi delle Br avevano […] deciso di uccidere il presidente della Democrazia cristiana, ancor prima dell’attuazione del sequestro e […] il successivo alternarsi di richieste/ricatti/minacce, rappresentava, in effetti, soltanto un cinico strumento di destabilizzazione»131.
Sulle lettere di Moro il Sisde tentò un’analisi in grado – si dice nella premessa – «di fare giustizia della presunta irresponsabilità del prigioniero». Anche in questo caso, non c’è alcun dubbio sull’autenticità degli scritti e la loro attribuzione a Moro. Al punto che la nota dominante era «indubbiamente rappresentata dalla costante e per alcuni versi eccezionale lucidità mantenuta dall’on. Moro durante tutto l’arco dei cinquantaquattro giorni di prigionia». La presunta sindrome di Stoccolma era respinta, così come qualsiasi trattamento psico-farmacologico, mentre era possibile ipotizzare che Moro avesse voluto «lanciare messaggi ai suoi interlocutori». Non «messaggi in codice, ma piuttosto informazioni abilmente mescolate all’interno di periodi forse 130 ACS, Caso Moro, MIGS b. 5, Appunto. Il sequestro Moro. I comunicati delle Brigate Rosse f. 5. 131 Ivi, f. 8.
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volutamente prolissi, al fine di far conoscere» che l’ostaggio si trovava sotto un dominio completo e incontrollato, e che le sue valutazioni potessero essere influenzate dalla mancanza di notizie dall’esterno132. Moro si aspettava, o quantomeno sperava che i suoi interlocutori comprendessero questo stato di cose e si rammaricò molto con Taviani quando questi lo smentì, tanto da scriverlo in un successivo messaggio ripetendo di trovarsi «in condizioni difficili e con scarse e saltuarie comunicazioni». In qualche modo, l’ipotesi che Moro si fosse posto egli stesso come mediatore tra rapitori e controparte venne confermata dagli inquirenti, per i quali «l’enorme divario culturale esistente tra l’on. […] e i suoi carcerieri» consentì all’ostaggio di «condizionare i terroristi, i quali, specialmente nelle ultime fasi, sembrerebbe si fossero quasi affidati a lui per la conduzione delle trattative»133. In ogni caso, le Br non riuscirono a «censurare totalmente le lettere, forse nella speranza che le lucidissime argomentazioni» di Moro «avessero nei confronti della opinione pubblica maggiore risonanza […] dei loro fumosi e, per la maggior parte dei cittadini, incomprensibili messaggi politici». Infine, gli inquirenti erano del parere che Moro avesse sempre avuto «l’esatta cognizione della evoluzione della propria drammatica situazione. Valga a tale proposito il post scriptum di una delle ultime lettere inviate a Don Mennini, probabilmente agli inizi di maggio, in cui, dopo aver dato istruzioni sulla possibile conduzione di ulteriori trattative, chiese al sacerdote di informare la moglie della necessità di riscuotere subito alcuni assegni «per evitare complicazioni ereditarie»134. In conclusione, il Sisde affermò che le lettere di Moro «rappresentano l’estrema documentazione delle eccezionali capacità del presidente Dc di affrontare con acume, calma ed esatta percezione dei problemi immanenti, un grave stato di crisi, mantenendo lucidamente integro il proprio ruolo di protagonista e di grande statista»135.
132 Ivi, Le lettere dell’on.le Moro, f. 10. 133 Ivi, f. 11. 134 Ibid. 135 Ibid.
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Capitolo 4 Dal carcere delle Nuove
4.1 La posizione dei prigionieri durante il sequestro Moro All’inizio del 1978 tutte le Colonne brigatiste portarono a termine delle azioni contro figure di vario livello. Il 10 gennaio a Torino venne ferito il dirigente della Fiat Gustavo Ghiotto; stesso destino toccò al dirigente della Sip Gabriele De Rosa, colpito due giorni dopo nell’androne del palazzo romano dove abitava. A Genova il 18 gennaio, dopo un breve processo simbolico, venne ferito il direttore dell’Istituto scuola di formazione superiore e membro del comitato provinciale della Dc Filippo Peschiera; il 24 gennaio a Milano toccò al dirigente della Sit-Siemens Nicola Toma, quindi il 14 febbraio a Roma fu ucciso il magistrato Riccardo Palma1. Costui dirigeva l’ufficio edilizia carceraria e faceva parte della Commissione per la diversificazione delle strutture e degli istituti carcerari assieme al generale Dalla Chiesa, al sottosegretario alla Giustizia Edoardo Speranza e ad altri magistrati e tecnici. Inoltre aveva diretto la ristrutturazione della caserma La Marmora di Torino che il 9 marzo avrebbe ospitato la ripresa del processo contro i brigatisti2. Il presidente della Repubblica Leone manifestò il proprio cordoglio per l’omicidio e chiese di «rafforzare i mezzi di prevenzione e di punizione e aumentare l’isolamento dei terroristi dalla coscienza civile del paese». La giunta esecutiva centrale delle associazioni dei magistrati diffuse un comunicato con il quale i giudici si appellavano alle forze politiche perché fornissero agli inquirenti nuovi strumenti investigativi. Vittorio Bachelet, che sarebbe caduto per mano brigatista qualche anno dopo, commentò sul «Corriere della Sera» che, giunti a quel punto, si doveva realizzare con assoluta precedenza la «trattazione dei processi contro la criminalità organizzata, comune e politica», con chiaro riferimento a quello di Torino3. Per le Br Palma era stato 1 Palma venne ucciso con la stessa arma, una mitraglietta Skorpion, che sarebbe stata usata contro Aldo Moro; fu ritrovata nel 1979 nell’appartamento romano dove si nascondevano Morucci e la Faranda. 2 L’architetto Mario Deorsola, che aveva partecipato al progetto, sarebbe stato ferito a Torino il 17 novembre 1978 dalle squadre proletarie di combattimento. Sergio Lenci, architetto romano che lavorava al nuovo carcere di Rebibbia, fu gravemente ferito da Prima Linea il 2 maggio 1980. 3 «Corriere della Sera», 16 febbraio 1978.
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condannato a morte quale «agente della controrivoluzione imperialista» che creava «celle bianche a calce viva, colloqui con i citofoni e i vetri, cortili per l’aria che sono celle senza tetto». I «comunisti incarcerati», proseguivano nel volantino diffuso dopo l’omicidio, «sono prigionieri di guerra e come tali devono essere trattati: ad ogni violazione di questo diritto risponderemo con azioni di guerra». In quel clima drammatico il 9 marzo 1978 riprese a Torino il processo contro le Br. Un contributo decisivo alla sua riapertura venne dal particolare impegno profuso dalla federazione torinese del Pci che si mobilitò per sostenere il reclutamento della giuria popolare che poi prese parte alle udienze, attività favorita dallo stretto legame intrecciato con alcuni magistrati che conducevano le inchieste, come Gian Carlo Caselli e Luciano Violante4. Quel legame era stato denunciato una prima volta da Saverio Vertone, parlamentare, esponente del Pci torinese, direttore della rivista «Nuova società», che in una intervista del dicembre 1994 rivelò: «I rapporti di Caselli con il Pci erano strettissimi, fino a divenire più avanti nel tempo, statuari, organizzativi. Partecipava alle riunioni dei comitati federali. Forse, ma non ne sono certo, prendeva anche la parola alle riunioni di segreteria: discuteva di politica, naturalmente. Però non dimentichiamoci che allora discutere di politica significava affrontare il problema dell’emergenza terrorismo. Caselli era il rappresentante dell’“intransigenza democratica”, teorizzava la supplenza della magistratura dinanzi al cedimento degli organismi pubblici. Io e [Giuliano] Ferrara concordavamo con lui sulla necessità di mantenere una linea dura»5.
Nel 1997 Maurizio Caprara rivelò che tra gli incarichi assunti da Giuliano Ferrara, brillante funzionario dell’ufficio propaganda del Pci inviato da Pajetta a Torino per fare esperienza con la classe operaia delle fabbriche, c’erano state anche «alcune riunioni con giurati del maxi-processo contro i brigatisti per convincerli a non rinunciare all’incarico»6. Nel 2010 Giuliano Ferrara ha raccontato alcuni retroscena della sua attività: «Quando ci fu la questione del processo alle Br la città si bloccò, nel senso che tutto il processo si bloccò intorno al fatto che non si trovavano i giurati per la paura. Era una cosa devastante per noi. Voleva dire proprio che c’era una resa e allora ci muovemmo per trovare questi giurati. […] Quando venivamo a sapere che c’era qualcuno scelto ma che non voleva, allora intervenivamo. Nella società operaia ci sono delle relazioni parentali, amicali. Il partito era molto ra4 Giuliano Ferrara, intervistato da Paolo Persichetti, La vera storia del processo di Torino al «nucleo storico» delle Brigate rosse: la giuria popolare venne composta grazie all’intervento del Pci, in «Il Riformista», 10 novembre 2010 e «Gli Altri», 12 novembre 2010 (versione integrale). 5 «Corriere della sera», 11 dicembre 1994. 6 M. Caprara, Lavoro riservato. I cassetti segreti del Pci, Feltrinelli, Milano 1997.
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mificato, era molto presente, ci veniva detto ed io andavo come responsabile dell’antiterrorismo. […] Certo che era una forzatura, una cosa totalmente non garantista, da emergenzialismo devastante. Per questo era un lavoro che facevamo segretamente, riservatamente. Però sentivo che avevo una forte giustificazione etica. D’altra parte facemmo anche il questionario antiterrorismo con la domanda numero 5 che invitava alla delazione. Insomma c’era una crisi dello Stato evidente che poi diventò parossistica durante il processo Moro, tra l’altro le date coincidono. Lo Stato era debole e flebile il progetto del compromesso storico. […] Noi eravamo una specie di controterrorismo. Un giorno mio padre me lo disse, “Ma tu sei un controterrorista”. Contrariamente a quanti consideravano il terrorismo un fenomeno isolato, minoritario, totalmente avulso dalle lotte sociali, che era poi la versione di comodo di una parte del Pci, ritenevo già allora il terrorismo una cosa molto seria. Un partito armato con un progetto socialmente sostenuto da ragioni forti, da movimenti di massa, da situazioni nuove nella fabbrica, da una dottrina. La fabbrica non era più solo un luogo dello sfruttamento, che è un rapporto matematico, era il luogo dell’oppressione. La volontà di impedire quel processo di oppressione ha creato il fenomeno del terrorismo politico di matrice marxista in tutta Europa, Raf e Brigate rosse. Se tu riconosci questo allora capisci le ragioni di quell’atto. Se fossero stati soltanto delle pattuglie scollegate dalla società non ce ne sarebbe stato bisogno. […] Questa idea del terrorismo come di una pattuglia di persone separate dal contesto sociale italiano è sbagliatissima. Sei mesi prima di via Fracchia, quelli che dormivano lì e che erano nella direzione strategica delle Br, erano avanguardie operaie di fabbrica7. Il terrorismo non era criminalità organizzata. Era azione politica che andava al cuore dello Stato, quindi se ti identificavi, se ti immedesimavi con lo Stato, a differenza di Sciascia che se la passava bene dicendo che non stava né con gli uni né con gli altri, non potevi agire altrimenti. Noi ci identificavamo e facevamo quello che consideravamo il nostro dovere. Certo ci voleva anche una certa dose di fanatismo allora per fare cose di questo genere»8.
Secondo Ferrara gli incontri si tenevano nelle sedi del partito: «Mi ricordo una riunione a Lingotto. Adesso sembra chissà che cosa, ma tutto era fatto con una certa eleganza, mica dicevamo “Dovete entrare a far parte della giuria e dargli l’ergastolo”. Facevamo un’opera di persuasione. Una specie di antidoto contro la paura. Spiegavamo che partecipare ad una giuria è un dovere civico, che se non si arrivava a costituire questa giuria la città e un pezzo importante dell’Italia sarebbero cadute in uno stato di ripiegamento di fronte ad una offensiva violenta che semina lutti, che crea problemi. Davamo il nostro suggerimento 7 Nella notte del 28 marzo 1980 i carabinieri dei nuclei antiterrorismo fecero irruzione in un appartamento in via Fracchia 12, nel quartiere a Genova, e uccisero i quattro brigatisti presenti: Annamaria Ludmann «Cecilia», Lorenzo Betassa, operaio («Antonio») delle Carrozzerie di Fiat Mirafiori, delegato Fim-Cisl e componente del Consiglio di fabbrica, Piero Panciarelli («Pasquale») operaio alla Lancia di Chivasso, Riccardo Dura («Roberto»), operaio marittimo e capo della Colonna genovese. 8 G. Ferrara, La vera storia del processo di Torino al «nucleo storico» delle Brigate rosse, cit.
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e poi naturalmente offrivamo una mano, al di là della mano che dava lo Stato. Lo Stato offriva una sua protezione, noi potevamo aggiungere anche la nostra. […] Per esempio case. Chiedevamo: “Dicci quali sono i tuoi problemi, se hai paura. Sappi che noi ci siamo”».
Anche se alla fine, ricorda sempre Ferrara, moltissime persone rispondevano no. «Ricordo più sconfitte che risultati»9. Il 10 marzo 1978 le Br uccisero a Torino il maresciallo di pubblica sicurezza Rosario Berardi, che era stato in servizio presso il nucleo antiterrorismo10. I brigatisti si erano resi conto che le forze dell’ordine, una volta individuate le zone nelle quali agivano tra la connivenza silenziosa, come in alcuni quartieri milanesi, genovesi o torinesi, le ponevano sotto il controllo di agenti della Digos apparentemente rimossi dalle loro funzioni negli uffici centrali per anonimi uffici periferici, allo scopo di colpire la base sociale brigatista. In questo contesto va collocata l’uccisione di Antonio Esposito, capo dell’antiterrorismo della questura genovese, che avvenne a Genova il 21 giugno di quell’anno, nel giorno in cui la corte del processo di Torino alle Br entrava in camera di consiglio. L’11 marzo i brigatisti imputati rivendicarono l’omicidio di Berardi attraverso il Comunicato numero 9 e riaffermarono che non avrebbero mai accettato alcuna difesa imposta: «Con l’azione Croce il discorso non si è chiuso, né questa linea di combattimento potrà esaurirsi prima della soluzione definitiva della contraddizione antagonistica che ci oppone agli avvocati di regime, come pure all’altra componente militarizzata del processo e cioè alla giuria popolare»11.
Due obiettivi che si inserirono tra gli omicidi appena accennati, e cioè Lorenzo Cotugno, agente di custodia presso il carcere Le Nuove di Torino, ucciso l’11 aprile 197812, e Francesco Di Cataldo, maresciallo degli agenti di custodia e vice comandante di San Vittore, ucciso a Milano 20 aprile 1978, erano legati direttamente al processo in corso a Torino contro il nucleo storico. A partire dal 13 marzo gli imputati decisero di presenziare al processo solo tre alla volta come «osservatori dell’attività controrivoluzionaria». L’obiettivo che si diedero non era impedire il processo, cosa impraticabile, ma ribaltarlo, farne una tribuna come aveva fatto il capostipite di questa tradizione, Auguste Blanqui con il «processo 9 Ibid. 10 Per la testimonianza del figlio di Berardi, Giovanni, si veda G. Fasanella, A. Grippo, I silenzi degli innocenti, Bur, Milano 2006, pp. 102 e segg. 11 Emilio R. Papa, Il processo alle Brigate rosse, cit., p. 121. 12 Nel corso di quell’azione il brigatista Cristoforo Piancone, ferito, venne arrestato. Cotugno doveva essere soltanto ferito.
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rottura». In questo senso il processo guerriglia ebbe un certo riscontro, le tesi delle Br trovarono larga eco e la denuncia delle carceri speciali risonanza. Condizione imprescindibile per un pieno successo era comunque la forza dell’organizzazione esterna, che permetteva ai prigionieri di divenire un megafono e di dare l’impressione di guidare quelle azioni, comunque di condizionarle, mettendoli in prima linea sul piano della comunicazione mediatica. Il dibattimento durò 107 giorni; i detenuti furono difesi da avvocati d’ufficio13, i quali cercarono di sviluppare la tesi di illegittimità costituzionale di un «difensore imposto», ma la loro posizione venne rigettata dalla presidenza della Corte. In particolare, il 20 marzo i difensori tecnici presentarono una lunga eccezione di incostituzionalità di alcuni articoli del Codice di procedura penale riguardanti la difesa, sostenendo la tesi che gli imputati avessero manifestato più volte la propria volontà di autodifendersi, ma essa fu respinta dalla Corte con una motivazione che bene leggeva, e riprendeva, la tesi brigatista del processo guerriglia: secondo il presidente Barbaro, infatti, gli imputati «lungi dall’invocare il diritto all’autodifesa […] mirano a una globale contestazione dell’intero processo e più ancora delle strutture dell’ordinamento giuridico. Gli imputati, in sostanza, assumono non già di volersi difendere da soli o di non voler essere difesi dal difensore tecnico, bensì di non riconoscersi la qualifica di imputati e conseguentemente di non doversi difendere»14.
Al momento dell’annuncio del sequestro Moro, Curcio si trovava nel carcere torinese delle Nuove assieme ai brigatisti del Nucleo storico. Intervistato anni dopo sulla vicenda disse15: «Personalmente ero contrariato. Pensai invece alle conseguenze negative che potevamo avere noi in carcere. Decidemmo di star fuori dalla mischia, di non farci coinvolgere in alcun modo, separando nettamente le Brigate rosse in carcere da quelle che si trovavano fuori e con le quali, fra l’altro, da mesi eravamo in netto contrasto»16.
13 Si trattava degli avvocati Aldo Albanese, Giovanni Avonto, Gianfranco Bonati, Vittorio Chiusano, Geo Dal Fiume, Fulvio Gianaria, Bianca Guidetti Serra, Carlo Umberto Minni, Alberto Mittone, Emilio Papa, Elena Speranza, Gian Paolo Zancan. 14 Emilio R. Papa, Il processo alle Brigate rosse, cit., p. 210. La giuria popolare fu formata nel marzo 1978; tra i giurati fu estratta anche Adelaide Aglietta, allora segretario politico del Partito radicale. Ha raccontato la sua esperienza nel volume Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate rosse, Milano, 1979, Libri Edizioni. 15 Renato Curcio, A viso aperto, cit. 16 Pino Casamassima, Gli irriducibili. Storie di brigatisti mai pentiti, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 59.
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Con ogni probabilità, Curcio era stato informato dell’imminenza di un’operazione di grande portata delle Br. Ignorava certamente il nome del politico che il gruppo progettava di sequestrare e la data esatta del sequestro, ma si può ragionevolmente credere che il nucleo storico incarcerato e i dirigenti ancora in libertà non avessero, all’epoca, divergenze politiche rilevanti come sarebbe poi accaduto nel periodo successivo l’uccisione di Moro. Lo ha confermato Pasquale Abatangelo, un nappista che ha condiviso per anni la detenzione con Curcio, soprattutto all’Asinara: «Le divergenze strategiche sono giunte solo qualche mese dopo, verso la fine del 1978. All’epoca c’era armonia ed infatti l’opuscolo La Campagna di primavera17 fu scritto dai detenuti Br, Curcio e Franceschini in primis»18.
Se si stenta a credere alla tesi dell’assenza totale dell’implicazione dei brigatisti imprigionati, è comprensibile che le loro inquietudini aumentassero durante il sequestro, soprattutto a causa del timore di finire «suicidati» come i prigionieri della Raf a Stammheim. Tuttavia, il gruppo incarcerato si mostrò estremamente combattivo e attivo per tutto il periodo del sequestro Moro, certamente grazie al fatto di poter comunicare tra di loro e con l’esterno durante le sedute processuali e nel carcere torinese. Curcio, intanto, decise di rivendicare l’azione Moro dall’aula del processo per sostenere l’organizzazione19 e da quel momento i brigatisti processati si trovarono sotto una pressione senza precedenti. Se, da un lato, temettero per la loro vita, dall’altro furono coscienti che la minima parola pronunciata in sede processuale o in prigione avrebbe potuto avere ripercussioni non solo sulla loro incolumità, ma sull’esito stesso del sequestro. Rivendicando e approvando l’azione, Curcio e il gruppo incarcerato mandarono un segnale forte all’organizzazione esterna: i capi storici avevano una posizione di primo piano e attraverso il loro intervento potevano dettare la linea politica trasformando l’aula del tribunale di Torino in una sorta di palcoscenico per le loro rivendicazioni. Rivendicazioni che verteranno sempre più intorno alle condizioni di vita dei detenuti. 17 Si tratta del testo di analisi sul sequestro Moro e la scelta di ucciderlo. Cfr. http://www.bibliotecamarxista.org/brigate%20rosse/1979/campagna%20di%20primavera.htm. 18 Conversazione con Pasquale Abatangelo del 31 agosto 2014. 19 Curcio avrebbe dichiarato in seguito: «Il fatto di avere rivendicato il rapimento nell’aula del processo che ci vedeva imputati rispondeva a una logica politica di sostegno all’Organizzazione. I nostri dissidi interni, le nostre posizioni diverse erano un fatto nostro e non dovevano essere strumentalizzati»; P. Casamassima, Gli irriducibili. Storie di brigatisti mai pentiti, cit., p. 59. Secondo Franceschini, il nucleo storico si comporterà esattamente nello stesso modo dopo la morte di Moro: «Il problema che dobbiamo subito affrontare è il nostro comportamento pubblico. Un silenzio sarebbe sicuramente interpretato come disapprovazione del gesto dei compagni, come condanna dell’uccisione. Se invece la rivendicassimo correremmo il rischio di essere linciati in aula o fatti fuori in carcere». Si decide, quindi, di limitarsi alla frase di Lenin: «La morte di un nemico di classe è il