Bea vita! Crudo Nordest 8842090840, 9788842090847

Ci sono milioni di italiani a cui questo paese piace esattamente così com'è. Sono piccoli imprenditori che hanno fa

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Italian Pages 99 [107] Year 2010

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Bea vita! Crudo Nordest
 8842090840, 9788842090847

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Contromano

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Tiziano Scarpa La vita, non il mondo

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Romolo Bugaro Bea vita! Crudo Nordest DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

Giorgio Vasta Spaesamento

Vitaliano Trevisan Tristissimi giardini

Romolo Bugaro

Bea vita! Crudo Nordest

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione aprile 2010 Seconda edizione luglio 2010 www.laterza.it

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9084-7

Indice

1. Che ci faccio in questo posto?

3

2. Via San Fermo

11

3. Bea vita!

25

4. Non proprio organici all’ordine generale delle cose

45

5. Ancora via San Fermo

63

6. Duemilacentoquaranta euro per quattordici mensilità

73

7. La tara dei non-insediati

89

8. Congedo

99

Bea vita! Crudo Nordest

1.

Che ci faccio in questo posto?

Parto da una nota personale, personalissima, diciamo pure intima, anche se non proprio clamorosa, visto che potrebbe essere sottoscritta da un esercito di persone. Per arrivare subito al punto ricorro alla musica e precisamente a Creep, vecchio e magnifico pezzo dei Radiohead. Il ritornello della canzone dice: What the hell am I doin’ here? / I don’t belong here... Che ci faccio in questo posto? Io non appartengo a questo posto. È la sensazione che provo ogni giorno, da sempre. Come la stanchezza quand’è tardi. Potevo confessare di meglio, mi rendo conto. Tuttavia è un problema diffuso. Si tratta di un senso di isolamento, incompatibilità ed esclusione (con sottili venature ideologiche) capace di schermare e rendere fuori portata le vite normali degli altri e capace di spingere in modo continuo, come una centrifuga, verso l’esterno. 3

In genere le difficoltà di insediamento nel perimetro delle disposizioni condivise iniziano presto, fin dall’adolescenza. Alle volte si tratta di un fenomeno passeggero, altre d’un destino senza scampo. Il giovane non-insediato vive in bilico. Si sente disconnesso dal quadro generale e privo d’appigli. La famiglia è un luogo rassicurante ma soffocante, incapace di rispondere alle incertezze. La scuola è un territorio insidioso, franoso, dove ogni esposizione rischia di costare cara e pochi sanno muoversi con sicurezza. Le festicciole del sabato sera sono partite impossibili da giocare. Nelle terrazze affollate di ragazzi che bevono birra e ridono ad alto volume, il giovane non-insediato vede squadre di replicanti. Anche lui sta lì, appoggiato alla balaustra, fumando Camel nell’eco della musica. Stessi jeans, stesse scarpe, stesse battute degli altri. Si sforza di somigliare, mantenere il contatto. Di aderire alla superficie liscia. È un esercizio sfibrante. Ride e gesticola più del necessario. Prova riconoscenza verso chiunque s’avvicini. Guarda le ragazze da lontano, senza farsi sotto. Sembra una mossa troppo azzardata, in quell’ambiente difficile. Devono avvicinarsi loro, se vogliono. Inutile dire che trionfa raramente. Verso mezzanotte o l’una o le due, quando esce dal portone del palazzo e incontra la prospettiva aperta e silenziosa del viale, prova una sensazione magnifica di interruzione, di tregua. Come fermarsi dopo una marcia o riemergere dopo un’apnea. 4

Cos’è successo? Niente. Eppure la fatica di quelle serate lo lascia tramortito. Vedo già la mano che si alza: se le festicciole dei fighetti sembrano tanto insopportabili, perché non tentare qualche altra cosa? Un bel film di Tarkovskij, adatto ai giovani scontrosi. Un libro. Una semplice passeggiata. Obiezione corretta. Tuttavia ognuno abita il mondo che gli tocca in sorte. Difficile cambiare. Si è trattenuti da una misteriosa fedeltà alle origini e dalla sensazione confusa – e probabilmente giusta – che cercare altrove, in qualunque altro ambiente, come pure si fa, potrebbe essere ancora peggio. Di certo la figura del sedicenne non-insediato è un classico planetario. Ogni generazione annovera innumerevoli esemplari. Quelli nati negli anni Sessanta come il sottoscritto esprimevano il loro disambientamento in forma piuttosto ripiegata e letteraria. Sognavano di trasferirsi a San Francisco. A Parigi. A Marrakech. Ascoltavano Neil Young e Claudio Rocchi e i King Crimson. Leggevano e rileggevano le ultime righe di Pavese. «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene?». Che meraviglia! Alle due di notte prendevano la Vespa e facevano lunghi giri sui colli. Torriggia Alta, Galzignano, Arquà. Raggiungevano qualche cocuzzolo solitario e sedevano sul prato in pendenza. Stavano lì fino all’alba, guardando gli alberi scheletrici nella distanza. Fumavano una sigaretta dietro l’altra nel freddo sensazionale. Si 5

sentivano eroici e romantici e totalmente assorbiti dallo Sturm und Drang. Il giorno dopo erano a pezzi. Venti o trent’anni più tardi, quei ragazzi hanno imboccato strade disparate. Alcuni hanno tentato un azzardo di troppo e sono caduti. Altri – la maggioranza – hanno vinto concorsi come impiegati amministrativi all’Equitalia Polis o gestiscono piccole agenzie specializzate in Web design & Communication. Hanno registrato qualche demo di rock progressivo ignorato dalle case discografiche oppure hanno scritto delle sceneggiature regolarmente inviate al Premio Solinas. Hanno una certa quantità di relazioni sociali che fronteggiano come possono. Hanno mogli, compagne o fidanzate. Solo, il senso di non-insediamento è sempre lì. Un compagno fedele. Si allontana per un poco, poi ritorna. Tornerà sempre. Una volta un amico scrittore di cui tacerò il nome mi ha insultato perché m’ero autodefinito disadattato. «Tu guadagni un mucchio di soldi» ha gridato in pizzeria, suscitando la preoccupazione dei cenatori ai tavoli vicini. «Un disadattato è una persona che non riesce a sbarcare il lunario!» Sottintendeva che lui era molto più disadattato di me. Ci contendevamo il titolo. Devo ammettere che appariva in vantaggio. Tribolava moltissimo coi quattrini, il la6

voro e la vita in generale. Sempre mi ribaltava addosso questa condizione problematica. Gli volevo bene, lo cercavo spesso, eppure era un po’ la mia bestia nera. «Sono disadattato, sì!» avevo insistito sordamente. «Non sai come mi sento!» «Non conta niente, come ti senti!» aveva ruggito l’amico scrittore, sgomentando in modo definitivo i tavoli vicini. «Contano i fatti! Tu hai uno studio d’avvocato! Paghi in tasse il doppio di quanto guadagno io!» Era furioso. Magari aveva ragione. Facile fare il difficile, se hai la tranquillità materiale. Mi iscrivevo al club dei tormentati per posa? «Tu non sei disadattato» insisteva, sporgendosi pericolosamente verso me. «Non sai di cosa parli!» Rendendomi conto della crescente preoccupazione dei vicini di tavolo e della inaspettata difficoltà della mia posizione, avevo rinunciato a replicare e ordinato un secondo Jack D. Di solito mi scontravo con perfetti adattati, gente concentrata sulle solite cose. Soldi, posizionamento sociale, carriera. Le solite cose. Con loro, dopo tanti anni, era facile. Inserivo il pilota automatico e via. Con chi mi attaccava dal lato opposto, diciamo così, ero più vulnerabile. Mi sentivo vagamente in colpa per avere un lavoro, delle entrate. Vagamente in colpa per tutto. Esiste una riprovazione strisciante da parte di chi impatta duramente con la vita rispetto ai disambientati intermedi o lievi, più capaci di mimetismo. È opaca e ag7

gressiva come la riprovazione standard dell’abitante di ville fortificate nei confronti del venditore porta a porta. Una delle tante cose che s’imparano col tempo, restando nella terra di mezzo. Raymond Carver, Pier Paolo Pasolini, Thomas Bernhard, Scott Fitz, Fabrizio De André, John Coltrane, Anton e Fëdor, Pier Vittorio Tondelli, Billy Corgan, Roberto Bolaño, Terrence Malick, Ingeborg Bachmann, il surrealismo, il situazionismo, Trockij. E poi Auden, Cézanne, Bob Dylan. Gli eroi dei non-insediati sono molti, moltissimi. Leggiamo, guardiamo, ascoltiamo e ci sentiamo un po’ meglio. Strano che al mondo esista gente disinteressata a tutto questo. Eppure esiste! Circa il novanta per cento della popolazione. Tutti senza cultura, senza interessi, senza sensibilità? Tutti gretti, ignoranti, inguardabili? Qualche anno fa avrei risposto: già, esatto. Mi sembrava la più evidente delle cose. La solita arroganza. I non ascoltatori di Bob Dylan sono persone disinteressate a quel tipo di inquietudini, di insofferenza. Tanti non l’hanno mai sentito nominare. Niente liceo classico al Tito Livio o scuole alberghiere frequentate col desiderio di fare tutt’altro o mattine lunghissime sul muretto della Specola, mentre gli amici sono a lezione. Niente canne, né spleen, né amori perduti. Alle spalle dei disinteressati a Bob Dylan ci sono fa8

miglie totalmente assorbite dall’impegno di mandare avanti il lavoro o famiglie abituate a giudicare con severità il conflitto e la divagazione o famiglie strette fra bisogno e sfacelo. Gente che crede nel denaro e nella possibilità del successo per chiunque sia disposto a sacrificarsi. Che trova sostanzialmente giusto l’ordine generale delle cose. Gente che per tanti anni ho guardato con un misto di malinconia, invidia e avversione che gli amici non-insediati subito riconosceranno. Sono loro, i favorevoli al mondo, i protagonisti di questo piccolo libro.

2.

Via San Fermo

Come tutti sanno, il Nordest è una delle aree più ricche del paese. Piccole e medie imprese sono disseminate ovunque sul territorio. Centri d’attività, reti di scambio e sistemi di commutazione si alimentano reciprocamente. L’economia locale sembra reggere relativamente bene alla crisi, almeno mentre scrivo queste righe. Il paesaggio è la miglior cartina tornasole della ricchezza e dello sviluppo. L’aspetto delle città, radicalmente mutato negli ultimi vent’anni, continua incessantemente a mutare (con l’esclusione dei centri storici, fossilizzati nell’ambra delle chiesette romaniche e delle piazze medievali). Nuovi quartieri e nuovi conglomerati edilizi sorgono nelle vicinanze di centri direzionali, zone d’espansione produttiva, autovie orbitali. Demolizione e ricostruzione non si fermano mai. I palazzi degli anni Cinquanta e Sessanta vengono rasi al suolo, sostituiti da condomini di ultima generazione, autosilos, torri commerciali. Le strade sono perennemente intasate, il traffico risulta insostenibile. Il maggior freno allo sviluppo 11

sembra lo sviluppo stesso, l’incapacità del territorio di assorbire nuove espansioni edilizie, nuovi movimenti di uomini e merci. Lontano dai centri urbani il mutamento appare ancora maggiore. Attraversando la campagna veneta ciò che colpisce non è affatto la densità dei capannoni, come vorrebbe il luogo comune, ma la ripetizione delle forme, l’azzeramento delle differenze. Ogni piccolo paese appare simile o identico a ogni altro. Una serie di condomini di recente costruzione, con facciate color ocra o salmone, con garage sotterranei e infissi in pvc, hanno preso il posto delle vecchie case di campagna lungo la strada principale. Le sedi municipali sono nuove di zecca, palazzi futuribili dalle linee curve, sinuose, inspiegabili, affacciati su piazzette nuove di zecca anche quelle, frutto di anni di battaglie per approvarne il piano particolareggiato. Nella via centrale di questi paesi ci sono quattro o cinque banche, un’agenzia immobiliare, un negozio incongruo, di fiori o stoffe o coltelli (sempre lì da cinquant’anni, sopravvissuto alle infinite mutazioni urbanistiche), un bar gestito da cinesi dove nessuno mette piede e nient’altro. La quiete metafisica di questi piccoli paesi è affascinante. Tutto appare chiaro, sgombro, intatto. Marmo e vetrocemento e pvc compongono successioni di superfici lisce, dove nessuna ruggine può formarsi, svilupparsi. Alle sette di sera le serrande si abbassano e le insegne vengono spente. Il freddo magnifico dell’inverno cala ra12

pidamente, assorbendo ogni ombra. La brina bianca ricopre i rami nudi degli alberelli piantati qua e là dall’amministrazione comunale, le auto dormienti, le piazzole deserte. Esistono spazi pubblici per la lettura, il teatro, l’apprendimento di internet, ma nessuno li usa, perché la vita reale delle persone si svolge altrove, del tutto irraggiungibile nella sua curva altissima, siderale. La ricchezza diffusa produce parecchie ricadute. Una delle più notevoli è l’affollamento di negozi d’abbigliamento d’alta gamma nel centro delle città. A Padova, città-simbolo del Nordest, lo shopping elegante si concentra in via San Fermo, sorta di piccolo salotto pedonalizzato a due passi dalle piazze, con pavé liscio e fontana a livello marciapiede. Provenendo dal Liston, cioè dal centro vero e proprio, il primo negozio che s’incontra è Dev. Tecnicamente non si trova in via San Fermo, bensì qualche metro prima, in piazza Garibaldi. Dev vende abbigliamento maschile e femminile, scarpe e accessori. Marche prestigiose: Tod’s, Hogan, Fay. Le vetrine appaiono minimal. Piccoli cubi di vetro e acciaio, dispersi o accatastati in modo apparentemente casuale, manichini stilizzati, semplici sagome di metallo per concentrare l’attenzione sui capi esposti. I prezzi sono tutt’altro che popolari. Un paio di Hogan di camoscio appoggiate sopra una catasta franata di piccoli cubi, forse per suggerire la capacità delle scarpe 13

di dominare il caos, costa 340 euro. Un giaccone Fay color nero pece, con grossi ganci di metallo al posto dei bottoni, imbottito, incerato, incazzato, costa 1.150 euro. Nella vetrina dedicata all’abbigliamento femminile i prezzi salgono ancora. Una borsetta appesa ad un filo trasparente, metafisico, che sottrae realtà all’accessorio, lo destina alla pura immaginazione, costa 1.950 euro. Un giaccone blu cobalto, lucido, pronto per svanire contro uno sfondo ancora più blu, astrale, siderale, costa 1.550 euro. Un paio di scarpe da sera tempestate di microbrillantini costa 675 euro. In questo periodo la città è viva, indaffarata, pulsante. Le luci di Natale apparse da qualche giorno, tutte insieme, riverberano intensi barbagli elettrici sull’asfalto lucido d’umidità. Stelle comete e scritte d’auguri sfavillano ovunque, schiacciando la profondità delle prospettive in una sequenza infinita di riflessi. La gente cammina in modo fluido, armonico, si sposta d’istinto, piccoli scarti laterali, variazioni di velocità per superare questo o quello, evitare le persone provenienti dalla direzione opposta. Tutti lì, simultanei e ordinati come non avrebbero mai immaginato di essere, la cifra esatta della misteriosa, invincibile stabilità del tutto. Dopo Dev inizia un tripudio di negozi d’alta gamma. Cartier, Bulgari, Pianegonda, Dolce & Gabbana, Gucci, Hermès e tanti altri. Le gioiellerie espongono piccoli orologi da donna destinati a occhieggiare sotto maniche di seta o visone e 14

orologi maschili dai quadranti zigrinati, anodizzati, giganteschi, concepiti per irradiare potere e rispetto. Nessun cartellino di prezzo. Noblesse oblige. E poi bisogna attirare i clienti all’interno. Nella vetrina di Dolce & Gabbana si possono ammirare dei manichini filiformi, anoressici, che richiamano vagamente le statue di Giacometti. Uno smoking nero, con revers talmente sottili da risultare pressoché inesistenti, costa 1.150 euro. Un vestito da sera da donna, con una sorta di lanugine arricciata che penzola dal bordo inferiore, costa 1.400 euro. Le scarpe da abbinare al vestito, con punta feroce ma tacco bassissimo, costano 515 euro. Lo scialle traforato, trapuntato, per coprire le spalle nel corso della grande serata durante la quale si sfoggerà il resto, costa 475 euro. Totale complessivo della mise: 2.390 euro. Hermès si trova pochi metri più avanti e le sue vetrine appaiono curatissime. Alberelli senza foglie rivestiti d’oro e argento pendono dal controsoffitto bianco, forse per suggerire la vittoria del lusso sulle leggi di natura. Ai rami di questi alberelli ribaltati stanno appese sciarpe, borse, vestiti. Le diciture sul minuscolo cartellino prezzi sono in francese. Sac: 4.500 euro. Veste: 12.900 euro. Gant: 370 euro. Hermès picchia duro. Si tratta della griffe (anzi della maison) più costosa in assoluto. Ancora più avanti c’è il Duca D’Aosta, per decenni tempio dell’eleganza classica padovana, da qualche tem15

po, a fronte dell’imbizzarrimento del mercato, riposizionato nel segmento più modaiolo. Le vetrine sono vagamente barocche. Divani neri coperti di cuscini bianchi e rossi e dorati, candelabri alti un metro, grossi gattopardi in ceramica. Il tutto dovrebbe evocare un’atmosfera decadente, forse un po’ torbida, purtroppo azzerata dalla luce cruda dei faretti incassati nelle pareti. Una borsa della Bottega Veneta, piccola e scura, mollemente adagiata su un cuscino dorato, costa 1.650 euro. Una giacca di una misteriosa marca-numero, 6267, costa 1.350 euro. Dei guanti neri, all’apparenza di semplice lana, costano 220 euro. Niente male, i guanti. Verso le sei del mattino, a Padova come dappertutto, girano soltanto netturbini, fornai e guardie giurate. Dalle sette alle otto le strade vengono invase da impiegati diretti in ufficio e studenti con zaino a tracolla. Alle dieci compaiono pensionati e signore anziane, attrezzate con carrellino di tela cerata per la spesa in piazza delle Erbe. Poco più tardi spuntano le tate coi bambini. Verso l’una scatta il momento delle segretarie, commesse e impiegate in pausa pranzo. Sono soprattutto ragazze giovani: sui diciotto, sui ventuno, sui ventisei. Le sorelle maggiori hanno conquistato orari continuati più compatibili con le esigen16

ze familiari o part-time flessibili o trasferimenti vicino a casa. Di solito si muovono in gruppetti di tre o quattro. Camminano tenendosi a braccetto, allegre e leggere sui passi e attente allo spazio circostante. Le loro percezioni percorrono un unico reticolo, lo sguardo di ognuna veicola istantaneamente quelli delle altre, come fossero parte di un solo organismo indifferenziato. Alcune sono piuttosto eleganti. Scarpe col tacco, giacche scure, gonne aderenti. Lavorano in negozi blasonati o studi professionali d’alto livello o ci tengono a raccogliere consensi lungo i corridoi della camera di commercio. Altre affrontano la giornata con minor intenzione e indossano scarpe basse, maglioni di lana. Altre ancora scelgono jeans comodi e felpe, indifferenti a qualsiasi ipotesi di collegamento fra lavoro ed esposizione personale. Abitano a Loreggia, a Feriole, a Piombino Dese. Troppo lontano per tornare a casa all’ora di pranzo. Sono diventate amiche in ufficio o in negozio o nel bar dove tutti i giorni mangiano il panino. Hanno soltanto quarantacinque minuti di tempo. La libertà compressa della pausa si esprime nella veloce sovrapposizione dei gesti mentre salutano una collega, nella prontezza con cui s’interrogano e rispondono, nella qualità dei sorrisi. Sedute vicino ai funghi caloriferi nelle terrazze all’aperto dei bar dove hanno appena consumato il loro pasto veloce, fumano sigarette ultrasottili dopo il caffè. 17

Parlano dell’ultima sfuriata per un nonnulla del direttore di filiale, fuori di testa per colpa dei numeri cattivi, e dell’ultima festa a tema al Molo Cinque di Mestre e di Alessio ormai pronto a mettersi in proprio come rappresentante di sistemi elevatori. Messaggiano coi telefonini per organizzare la serata di giovedì. Giornali mai, riviste mai. Qualche volta guardano distrattamente Skynews sulla tv all’interno del bar. Hanno contratti cococo o cocopro da cinque o seicento euro al mese. Hanno contratti d’apprendistato da settecento, ottocento euro. Poche fortunate arrivano a mille con busta paga regolare. Pochissime toccano la linea dorata dei millecinquecento, gratifiche comprese. Naturalmente ci sono anche quelle del tutto prive di contratto, che vivono appese a un filo. Gennaio cinquecentocinquanta, febbraio niente perché il titolare ha avuto dei problemi, marzo chissà. Prima di rientrare in ufficio si concedono quattro passi attraverso il centro. Percorrono il Liston davanti al Pedrocchi. Passeggiano attraverso le piazze e lungo corso Milano. La meta preferita, inutile dirlo, è via San Fermo. Ferme davanti alle vetrine di Dev, le ragazze in apprendistato o cocopro o prive di contratto guardano le borse da 1.950 euro, le scarpe da 675, i guanti da 240. Guardano le gonne elasticizzate, i top mozzafiato, le giacche sfoderabili. Indicano questo o quel capo. Scambiano 18

commenti, valutazioni, giudizi. Alcune lavorano nel settore e sono davvero competenti. Una borsa vale il doppio, il triplo del loro stipendio. Un cappotto imbottito significa sei mesi di lavoro. Sono attente e concentrate. Nei loro occhi, nelle loro espressioni non esiste traccia di stupore o tristezza o frustrazione. Si tratta di Hogan, di Tod’s. Le cose belle costano care. In genere provengono da famiglie di umile origine ma economicamente solide: i genitori posseggono qualche campo, qualche libretto di deposito ben alimentato, oltre alla casa dove abitano. Vivere in famiglia consente di respirare. Hanno dei risparmi. Cinquemila, diecimila euro. Accettando l’idea di uno sforzo estremo, giacche e borse di Dev potrebbero essere alla loro portata. Sottobraccio davanti alle vetrine, le ragazze si mantengono in equilibrio sul sottile crinale fra accesso ed espulsione, desiderio e rinuncia. La maggior parte di loro è poco interessata alla politica, comunque simpatizza per la destra. Apprezzano Berlusconi, Tremonti e la Lega. Soprattutto la Lega, che cerca di tenere sotto controllo questi marocchini sempre ubriachi, questi albanesi violenti. Dalla mattina alla sera li vedi tutti lì, sotto ai portici di via Tommaseo. Urlano, bevono, fanno risse con coltelli e bottiglie. I marciapiedi sono coperti di schizzi di sangue. Impossibile transitare lungo quella strada. Almeno la Lega cerca di fare qualcosa. 19

In teoria la sinistra parlerebbe proprio a loro, lavoratrici dipendenti, poco garantite e poco pagate. Ma loro odiano Franceschini, D’Alema, Bersani. Quando appaiono in tv vorrebbero cambiare canale. Chi sono Franceschini e Bersani? Gli amici degli impiegati statali stronzi della conservatoria, che non accettano una nota cinque secondi dopo mezzogiorno. I difensori dei marocchini strapieni di birra che stazionano sotto all’ufficio e vomitano dappertutto e ti seguono per strada alle sette di sera, appena metti piede fuori dal portone. Eccola qua, la sinistra. Non fa per loro. Non hanno particolari ambizioni di promozione sociale. La loro vita è quella. Difficilmente potrà cambiare. Qualche anno prima il fratello maggiore s’era messo in società con certi amici, per rilevare una ditta di trasporti proprietaria di quattro Iveco Stralis a fine leasing. Era finita tra avvocati e pignoramenti. No, no, no. Inutile tentare avventure azzardate che si rivelano disastri. Un telefonino squilla. La destinataria della chiamata si allontana di pochi metri dalle compagne ferme davanti alla vetrina di Dev, risponde sorridendo. Un paio di scarpe 675 euro. Una pochette 750 euro. Un giaccone 1.950 euro. Tre quarti di stipendio. Uno stipendio intero. Due stipendi e mezzo. La vertigine è talmente forte da far tremare. Ma loro sono salde come rocce. Tutto le spinge verso l’esterno, il precipizio. Se vivessero sole, 20

senza l’aiuto dei genitori, arrivare a fine mese sarebbe un’impresa. Dovrebbero guardare il centesimo (già lo fanno), negarsi quasi tutto (già lo fanno) e non basterebbe. Finire a terra è questione d’un attimo. Per questo amano Bossi e Berlusconi. Rappresentano la loro carta d’imbarco, il loro passaporto per l’Italia. Votare a destra è l’unico modo per fronteggiare il sentimento quotidiano dell’esclusione. Hanno bisogno di offrire a se stesse la conferma di essere ragazze normali, allegre, occidentali. Ragazze che vanno in discoteca e guidano la Matiz. Hanno bisogno di rinforzare gli argini e distanziare la paura. Opposizione e dissenso sono lussi per gente forte, in grado di rispondere colpo su colpo. Loro si svegliano la mattina alle sei, prendono la corriera, sopportano le sfuriate demenziali del signor Gianfranco: sono prive dell’energia necessaria. Tutto questo significa concretezza, realismo, educarsi a trovar naturale che un paio di scarpe valga due mesi di lavoro e una borsetta tre. È un’educazione efficace. Le cose belle costano care. Sempre stato così. Più in profondità, nella zona nascosta della loro anima, pensano sia giusto avere poche risorse e poche prospettive. Il loro padre era un uomo buono ma ignorante, esitante, immobile. La loro madre una donna arresa, inadeguata, del tutto incapace di gioia. Perché le figlie di simili coppie dovrebbero meritare grandi cose? Non le 21

meritano. Un senso di rinuncia non individuale e non sociale, ma familiare, ambientale, di piccola comunità, aleggia sopra di loro. Si allontanano dalla vetrina. Riprendono a camminare tenendosi sottobraccio. Fra pochi minuti dovranno tornare in ufficio. Giusto il tempo di un’ultima sigaretta. Incrociandole per strada si avverte la forza e la provvisorietà della loro amicizia, cancellabile all’improvviso per un trasferimento, un cambio di mansione. Hanno diciott’anni, ventuno, ventisei. Stare insieme le rende allegre, stellanti, disponibili a ridere di tutto, nonostante le corriere alle sei e mezzo del mattino, le lune di Alessio e l’endometriosi appena diagnosticata alla sorella. Irradiano una leggerezza piena di fisicità. Difficile dire cosa riserverà loro il futuro. Molte si sposeranno, avranno dei figli, gestiranno con fatica casa e famiglia e lavoro. Altre seguiranno vie più irregolari, scegliendo uomini o ambienti complicati, capaci di logorare in fretta. Altre ancora, poche in effetti, resteranno sole per scelta. Fra cinque o dieci anni avranno cambiato passo, cambiato vita. L’arrivo di una forma precisa di destino avrà cancellato ogni possibilità di inversioni di rotta. La luce fredda dei pomeriggi d’inverno si poserà su visi affilati per via dell’azione del tempo. Avranno trovato lavoro vicino a casa, a Loreggia, a Feriole, a Piombino Dese. Le occasioni di venire in centro, 22

fare una passeggiata lungo via San Fermo, saranno abbastanza rare. Dopo tanto tempo le vetrine di Dev appariranno meno luminose, meno straordinarie. Con un lampo di soddisfazione rimasto in attesa lunghi anni, considereranno che nessun capo vale granché, quel negozio era molto meglio una volta.

3.

Bea vita!

Anni fa dividevo lo studio con un amico-collega. Una persona intelligente, un po’ chiusa e decisissima a far carriera. Pur essendo avvocati alle prime armi, avevamo un ufficio piuttosto grande, dove lavoravano parecchi praticanti. Avevamo stabilito di partire a razzo (soprattutto lui). La mia stanza si trovava in fondo a un breve corridoio, davanti alla segreteria. Sentivo squilli di telefoni, echi di voci, ronzii di stampanti e computer. Avere una segretaria che appariva sulla porta se chiamavi, che scriveva sul blocco se dettavi, era come distendersi sulla sabbia nel pieno sole del mezzogiorno: un piacere faticoso e una forza trasformatrice in grado di agire dall’esterno. Dalle finestre vedevo le facciate grigioazzurre dei palazzoni Antonveneta e le gru dei cantieri disseminati ovunque e il traffico caotico in direzione Fiera. Tutto appariva innervato di luce e privo di spazi neutri nelle maglie fittissime delle urgenze, degli interessi. La cifra esatta dell’indirizzo che stava prendendo la mia vita. 25

La stanza dell’amico-collega era accanto alla porta d’ingresso. Una grande libreria a parete doveva rassicurare i clienti quanto alla competenza dell’uomo al quale si erano rivolti, nonostante la sua giovane età. Dalle finestre vedevi il parcheggio di via Trieste, sempre intasato di berline in manovra e furgoni della Executive coi portelloni posteriori spalancati per scaricare pacchi o scatoloni e vecchi tossici sdentati, stravolti, in attesa del solito pusher maghrebino. Eravamo al debutto, preoccupati e desiderosi di vendere cara la pelle. Un paio di volte al mese controllavamo i conti. Affitto, spese condominiali, bollette, segreteria, cancelleria. Per fortuna quadravano abbastanza. Allora come adesso, la mia vita era scandita da ritmi piuttosto rigidi: dalle otto del mattino alle tredici e trenta scrivevo. Dalle quattordici alle diciannove e trenta stavo in studio. Dopo ero libero, relax. Dunque, verso le sette e mezza raccoglievo chiavi e telefonino e portafoglio e casco, spegnevo il computer e mi dirigevo verso l’uscita. Sulla porta dello studio era installato un meccanismo d’apertura elettrico. Premendo un pulsante rosso, il chiavistello scattava rumorosamente. Appena quel Clack! echeggiava nell’aria, dalla stanza dell’amico-collega partiva una frase in dialetto veneto. Sempre la stessa, tutte le sere: Bea vita! Bella vita. Sottintendeva che uscivo presto. Che mi 26

preoccupavo abbastanza poco di rivedere atti, controllare fascicoli, studiare sentenze. Meno di quanto avrei dovuto? Di certo meno di lui. L’amico-collega restava in studio molto più a lungo. Fino alle nove, alle dieci, alle undici. Stava lì – mioddio – sempre! Ogni sera la stessa storia. Arrivavano le sette e mezzo. Spegnevo il computer. Mi dirigevo alla porta. Il maledetto congegno sprigionava quel Clack! e l’amico-collega sprigionava il commento. Bea vita! Cominciavo a sentirmi in colpa. Rinviavo l’orario d’uscita. Aspettavo le sette e tre quarti. Le otto. Aspettavo che l’amico-collega prendesse una telefonata. Che ricevesse una persona. Sgattaiolavo fuori come un ladro. Era implacabile. Interrompeva il colloquio, la telefonata. La sua voce arrivava dalla segreteria, dalla sala riunioni, dallo sgabuzzino in fondo. Bea vita! Ero trafitto da quella frase. Segnava la distanza incommensurabile fra il sottoscritto e l’ala più combattiva e determinata del terziario avanzato. Chi stacca alle otto di sera? Gli indolenti. I mediocri. Gli smidollati. Il professionista in gamba sviluppa tutt’altra potenza di fuoco. Accetta la fatica. La tensione. L’impegno. Lavora senza badare ad orari. Giorno e notte. Difficile costruire qualcosa di importante, con l’occhio sull’orologio. Padova è una città dolce, sospesa, bellissima. D’au27

tunno i bagliori dei lampioni affiorano sul selciato lucido d’umidità e svaniscono liquidi davanti ai tuoi passi. Le vetrine dei negozi, incastonate al pianterreno dei palazzi medievali, creano improvvise microfratture nella struttura del tempo. Alle otto di sera puoi sederti al bar Duomo con un bicchiere di vino bianco fumando la prima Marlboro della giornata o comprare un cartoccio di castagne in piazza della Frutta o semplicemente fare una passeggiata, guardare le saracinesche che chiudono e le ragazze carine, stellanti, affrettate, che corrono agli appuntamenti serali. È come immergersi nell’acqua tiepida, una sensazione magnifica di riposo e azzeramento, libertà da te stesso. L’amico-collega respingeva tutto questo. Lavorare fino a tardi era un piacere più sottile, più raffinato. Sfruttare ogni grammo di energia per andare avanti, migliorare, mentre gli altri, la maggioranza, perdevano tempo. Competere coi migliori, costruire e combattere: ecco la gratificazione vera, altro che piazze e passeggiate! Era quasi del tutto indifferente al denaro. I soldi rappresentavano la copertura, il salvacondotto per pulsioni più profonde. Semplici marcatori di percorsi e distanze, come le boe nelle regate. Spesso le motivazioni degli sforzi colossali sono infinitamente piccole. Il ricordo di persone lontane, di sensazioni sigillate nella memoria. Si può vivere un’intera vita lottando contro ombre uscite di scena trent’anni prima oppure nel tentativo di imitare figure appena sfiora28

te, che mai sospetterebbero d’aver rappresentato modelli tanto importanti. Lavorando quindici ore al giorno, sommerso da telefonate e fax e mail certificate e contratti da redigere e atti da depositare, l’amico-collega metteva ordine nel passato, modellava la propria fisionomia più intima e produceva un’accelerazione costante che gli permetteva di sentirsi oltre la fatica, la paura, il bisogno, la realtà stessa. Un giorno è entrato nella mia stanza con aria scura. Sapevo cosa veniva a dirmi. Aveva bisogno di assumere altre segretarie, altri avvocati e praticanti. Gli serviva più spazio. Aveva messo gli occhi su un ufficio grande il doppio del nostro. Cosa volevo fare? Restavo o andavo con lui? «Siamo qui da sei mesi» avevo detto. «Sembra un po’ presto, per cambiare.» Non era presto. Era tardi. Gli serviva più spazio. Impossibile sostenere un’accelerazione del genere. Dividersi è spiaciuto a entrambi. Nonostante tutto ci sentivamo legati. Questo accadeva parecchi anni fa. Adesso lui gestisce uno studio di venti o trenta persone, con ottimi clienti e ottime entrate. Immagino stia lì fino alle dieci, alle undici di sera, esattamente come allora. Immagino sia sommerso da telefonate e appuntamenti e impegni d’ogni tipo. E immagino la sua tristezza senza nome, silenziosa come la neve che cade, perché la missione ha avuto suc29

cesso, l’obiettivo è stato raggiunto, impossibile soffrire come all’inizio, mantenere l’accelerazione. Le coppe conquistate troneggiano sullo scaffale, è venuto il momento di godere dei risultati, prendere qualche momento di riposo. C’è la famiglia, la vita sociale, il Natale a New York. Infinite possibilità a portata di mano. Un esercizio doloroso. Avrebbe preferito un rally ininterrotto, fino all’ultimo secondo. Il suo unico interesse era la massima velocità. L’intero Nordest è la terra del superlavoro. Popolato di persone abituate a spingere senza un attimo di tregua, costantemente disponibili all’oltrepassamento dei propri limiti di resistenza. Simili a pesci del corallo, hanno forme e colori d’ogni genere. Alcuni sono elegantissimi nei loro completi blu notte, vivacizzati dalla cravatta chiara di Hermès o dal fazzoletto da taschino. Altri preferiscono maglioni a collo alto, giacche di velluto, jeans. Altri ancora si mimetizzano sul fondale roccioso grazie a felpe da grande magazzino, scarpe dozzinali. Tutti si svegliano all’alba per via dell’abitudine e dell’attitudine al lavoro. Verso le sette arrivano in azienda. Producono macchine movimento terra o sieri per l’industria agroalimentare o pellets per il riscaldamento domestico. Negli uffici deserti, fra telefoni muti e computer spenti, provano un senso di riposo e rigenerazione: le cose immobili, in attesa del tocco che le riporti in vita, 30

sono il risultato di vent’anni di attività, la prova dell’immensa quantità di fluido transitata ogni giorno, senza incidenti, attraverso la turbina, mantenendo l’efficienza del sistema. Siedono alla scrivania. Verificano mail, lettere e fax del giorno precedente. Controllano ordini e movimenti di conto corrente. Hanno bisogno di spulciare, riscontrare, confrontare, per impedire al caos che preme da ogni lato di prendere il sopravvento e per distanziarsi, attraverso la dilatazione dei dettagli, dalle preoccupazioni d’insieme. Le giornate sono incandescenti. Sequenze di telefonate, incontri, colloqui più o meno difficili con dipendenti, collaboratori, fornitori, funzionari dell’Arpav, dell’ufficio tecnico, della conservatoria, documenti da cercare, fotocopiare, scannerizzare, inviare in pdf entro la mattinata, firme su lettere, contratti, accordi di puntuazione, visite-lampo al direttore di banca, al notaio, al direttore lavori del cantiere. Sono uomini di destra. Amano Berlusconi e Tremonti. Soprattutto Tremonti. Persone diverse dai soliti politici. Pratiche di crediti d’imposta, ammortamenti, sconti fatture. In grado di capire problemi e difficoltà della vita sul campo. Qualsiasi cosa dicano Berlusconi e Tremonti, sono salvaguardati dalla loro storia, dalle loro cicatrici. Non conta cosa fanno in concreto. Conta soltanto la certezza che si tratta di gente amica. 31

Conducono pochissima vita mondana. Si sottomettono a qualche ricevimento o inaugurazione ogni tanto. Arrivano direttamente dall’ufficio con la giacca stropicciata. Pescano un bicchiere di vino bianco dal vassoio, sgranocchiano una cialda tiepida al parmigiano. Si sentono a disagio. Pesci fuor d’acqua. Stanno incollati alla moglie o alla compagna. Appena possibile sgattaiolano via. Abituati alla centralità, resistono ben poco come figure semianonime in mezzo alla gente. Conoscono bene le zone grigie del lavoro. Funzionari della Regione disponibili a dare una mano. Concorrenti abituati a discutere in concreto il ribasso della gara. Stare sul mercato è difficile, basta niente per cadere. Impossibile giocare la partita con fair play. Alcuni vengono traditi dallo sforzo. L’artiglio è vicino, può colpire in ogni momento. La tensione finanziaria era un problema di vecchia data, una tradizione aziendale. Sembrava facile mantenerla sotto controllo. Un bel giorno il debito s’impenna. Fidi e castelletti non bastano più. Il funzionario della banca telefona alla segretaria dicendo che bisogna rientrare di cinquanta, di settanta, di centoventi entro la settimana. Cos’è successo? L’impatto negativo di un evento viene moltiplicato in modo esponenziale da circostanze apparentemente secondarie. Una modifica del piano regolatore subito dopo l’apertura del cantiere. Il siluramento del dirigen32

te della società di leasing quando il riscatto stava per essere rinegoziato. L’avvento della difficoltà suscita una reazione immediata. Appuntamenti e telefonate e trasferte si moltiplicano. La posta elettronica si intasa di messaggi. Impiegati e segretarie corrono da un ufficio all’altro con documenti da fotocopiare e cd con file da stampare e fascicoli da riporre. Nell’aria si avverte una vaga sovreccitazione, come se il pericolo rendesse tutti più vivi, veloci e consapevoli. Si tratta di una fase relativamente breve. Ben presto arriva una pausa di vuoto, di sospensione, perché il deserto sembra estendersi all’infinito e la distanza appare del tutto bianca, priva di vita. Una mattina arriva una lettera raccomandata della banca. Vogliono indietro assegni e carte di credito entro e non oltre ventiquattro ore. Poco più tardi un’altra banca chiama per dire che il mutuo di trecentomila euro è stato revocato dalla direzione. Sono le prime manifestazioni avvertibili del disastro. Basta alzare gli occhi verso la linea dell’orizzonte. Le nuvole sono tutt’altro che semplici nuvole, ben presto strade e case saranno cancellate dall’uragano. Il resto è terribilmente concreto, eppure avviene nello spazio irreale degli eventi impossibili da fronteggiare. Uomini della Guardia di Finanza nel magazzino dell’azienda. Operai in sciopero nella piazza del paese. Udienze in tribunale. 33

Loro corrono a Ferrara, a Milano, a Monaco di Baviera, per cercare nuovi soci di capitale. Tengono riunioni fiume nello studio del commercialista, dell’avvocato. Diramano brevi comunicati in risposta agli articoli della stampa locale. Impossibile chiudere occhio di notte. Rabbia e incredulità e sgomento stringono lo stomaco in una morsa. Alle quattro del mattino, nel silenzio perfetto della casa e del quartiere, dell’intero pianeta perduto fra galassie brulicanti di pulsar e buchi neri dove spazio e tempo e preoccupazioni si dissolvono, ascoltano il respiro della donna addormentata accanto a loro. Cercano di valutare l’impatto del tracollo sulla vita. Le carezzano la spalla nel buio col palmo della mano, un gesto leggerissimo, quasi privo di contatto, per chiedere scusa degli azzardi, degli errori, dell’accanimento furioso nonostante l’evidenza delle cose, sebbene proprio l’accanimento, in passato, fosse stato il punto di forza. Le voci girano in fretta. Tizio e Caio hanno perso tutto! Sono falliti! Cercano di riordinare le idee. Si consultano coi vecchi collaboratori. Passano qualche giorno come in trance nella casa di Lignano o Corvara (protette da trust di diritto olandese) dove non mettevano piede da dieci anni. La pausa dura ben poco. Tentano altri business. Coi soldi scampati al massacro rilevano una catena di agen34

zie di viaggio, una società di produzioni audiovisive. Costituiscono nuove srl. Affittano nuovi locali. Assumono giovani manager. I risultati tardano ad arrivare. Si tratta di business del tutto nuovi per loro. Il mercato punisce gli improvvisatori. Gli insuccessi li rendono aggressivi, risentiti, sprezzanti. Alzano la voce e battono i pugni, esattamente come una volta. I collaboratori di sempre, riciclati nella nuova avventura, chinano il capo senza agitarsi troppo. La forza e il carisma d’un tempo sono stati bruciati dall’insuccesso, dalla difficoltà. La discesa diventa rapida. Difficile ottenere nuove linee di credito. Difficile incontrare i vecchi alleati. All’improvviso invecchiano. Rughe, capelli bianchi, occhiaie. Un fastidioso dolore al fianco sinistro, reviviscenza dello screzio pielonefritico di tanti anni prima. Fino a cinquant’anni sembravano ragazzi, e adesso... Un bel giorno sono in macchina fra Alessandria e Pavia, per partecipare all’ennesimo incontro per il salvataggio della newco costituita sei mesi prima. Oltre il parabrezza il cielo di novembre è magnifico dopo la pioggia, frastagliato come non l’hanno mai visto: nuvole bianche e nuvole grigie e grandi squarci d’azzurro s’inseguono nella luce radente del primo pomeriggio, sopra la linea nitidissima delle montagne all’orizzonte. Si fermano nella piazzola d’un autogrill. Appena aprono lo sportello il vento invade l’abitacolo. È freddo, pungente, meraviglioso. Di sicuro viene da nord. 35

Anziché entrare nel bar per bere il caffè restano lì, all’aperto. Lasciano che il vento li investa. Guardano la campagna tutt’intorno, sbalzata nella luce radente, nella trasparenza cristallina dell’aria. Si accorgono con stupore di non essere particolarmente stanchi, particolarmente abbattuti. Avvertono una misteriosa indifferenza al loro stesso destino. Cos’è? Che significa? Non temevano di perdere tutto. Ecco il punto. Non temevano di perdere tutto. Né soldi, né potere, né affetti. Erano arrivati dov’erano arrivati sulla base d’un lavoro intenso e durissimo, eppure sganciato da obiettivi precisi. Attaccavano e combattevano per il puro, smagliante piacere di farlo. Volevano replicare un successo iniziale o schiacciare gli avversari – mai e poi mai vincere la guerra. Per questo hanno avuto successo. Per questo sono caduti. Finalmente entrano nell’autogrill. La luce dei faretti disseminati ovunque riverbera sul linoleum del pavimento, staglia cose e persone nell’assenza di profondità. Accanto alla cassa c’è l’espositore dei giornali. Obama, la crisi economica, l’ennesimo attentato in Medio Oriente. Sono poco interessati. Sempre meno. I fili che collegavano quegli eventi generali alla loro vita sono spezzati da tempo. Persino le opinioni politiche stanno dileguando. Persino la simpatia per Berlusconi e Tremonti. Oltre una certa soglia di pressione la maggior parte dei gas cessano di essere gas, diventano sostanze liquide. Loro adesso abitano lì, nell’aria trasformata. Impossibi36

le avere opinioni o formulare giudizi. Azioni e reazioni sono istantanee, corticali. Il pagamento in scadenza domani. L’assegno da coprire entro venerdì. Raggiungono la cassa, ordinano un caffè. Con le loro Church’s nere e la giacca di buon taglio, non hanno più modo né tempo di custodire sentimenti definiti. Qualsiasi ricordo sembra irreale, qualsiasi interesse dimenticato. Sono soli nella luce bianca, concentrata, ustionante, pronti a spingersi ancora più lontano. Sulla sponda opposta ci sono uomini d’origine umile o umilissima, nati prima della guerra nelle campagne del Polesine, del Friuli o della Marca. Uomini con quattro o cinque fratelli, abituati ad alzarsi all’alba, fare chilometri a piedi per raggiungere la scuola. Il loro padre lavorava come terzista nei campi di un industriale piemontese. Usciva di casa alle quattro e mezzo del mattino e tornava col buio, sfinito. Lo ricordavano immobile sulla seggiola della cucina, il collo coperto di punture degli insetti del grano. Stava lì senza parlare, schiantato dalla fatica. Dimenticava la presenza degli altri. I pochi soldi dello stipendio bastavano appena per mangiare. Un giorno l’industriale piemontese era stato arrestato dalla polizia. A quanto pareva una donna era stata trovata morta nella grande villa sulle colline di Asti. Per qualche settimana i terzisti avevano continuato a pre37

sentarsi al lavoro. L’amministratore era scomparso. Nessuno dava ordini o pagava stipendi. Ben presto la proprietà era caduta in abbandono, con erbacce e rovi dappertutto. L’uomo aveva bussato a tutte le porte. Coldiretti, consorzio agrario, Acli. Erano i primi anni Cinquanta e l’Italia delle campagne faceva la fame. Tanti partivano per cercare fortuna all’estero. Con una moglie e cinque figli da mantenere, gli occhi dell’uomo diventavano ogni giorno più fondi, inesplorabili. Bisognava bussare alle porte del paese per raccogliere qualcosa da mettere in tavola. Una mattina era uscito particolarmente presto, senza portare con sé chiavi o altro. Probabilmente la moglie, una donna tenace e intelligente, di larghe vedute nonostante la mancanza di cultura, una donna che avrebbe avuto grandi prospettive se fosse nata in una famiglia meno povera e isolata, aveva capito quasi subito. Il corpo era stato trovato il sabato successivo in fondo ad un pozzo nella proprietà inselvatichita dell’industriale piemontese. Qualcuno aveva notato la bicicletta abbandonata e dato l’allarme. Loro, i figli, lo ricordavano disteso nella bara prima del funerale, le mani grandi e callose diventate all’improvviso sottili, affilate, come se il buio del pozzo avesse dissolto la sostanza interna del corpo, restituendo una crisalide grigia, vuota. Il viso era sfigurato dall’acqua e dalla morte, eppure l’aria sorda e chiusa era sempre lì, 38

come tutte le sere di ritorno dai campi. Quell’uomo sapeva da un pezzo che sarebbe finita male. Forse l’arresto dell’industriale piemontese era stato meno sorprendente di quanto sembrava. Forse i conti della campagna erano in rosso da tempo. La morte aveva sollevato il velo, mostrando tutto com’era. Loro, i ragazzi, avevano appena dieci o dodici anni. Quell’uomo aveva tribolato tutta la vita senza ottenere niente, ed era morto buttandosi nel pozzo. Mai i loro figli ci sarebbero passati, mai. Avevano cominciato a lavorare giovanissimi come operai di fonderia, per aiutare la madre a tirare avanti. La mattina presto, prima di uscire di casa, mangiavano grosse fette di pane inzuppate nel latte crudo, per tenersi in forze. Erano ragazzi svegli, veloci, intelligenti. Resi instancabili dalla tragedia della loro famiglia. Il proprietario della fonderia li aveva presi di buon occhio. Nel giro di poco tempo li aveva promossi capireparto. Dopo dieci anni di lavoro salariato avevano trovato il coraggio di mettersi in proprio. Sapevano, sentivano di doverlo fare. Firmando cambiali su cambiali, avevano rilevato parte dei macchinari d’un laboratorio meccanico in fase di dismissione. All’inizio eseguivano semplici saldature per conto terzi. Poi erano passati alla carpenteria vera e propria: produzione di componenti per motori e telai. Lavoravano dalla mattina alla sera, sette giorni su set39

te, senza fermarsi un istante. Grazie alla qualità delle produzioni e alla puntualità nelle consegne, il giro d’affari s’era allargato. Negli anni Ottanta i dipendenti erano tre. Nel 1990 sedici. All’inizio del 2000, fra impiegati e operai, stipendiavano trenta persone. Avevano un istinto infallibile per valutare uomini e occasioni. Sapevano cogliere con mesi d’anticipo le tendenze del mercato. Le difficoltà venivano superate grazie all’intuito, al mestiere, alla tenacia. Andavano avanti e indietro tutto il giorno tra uffici e officine, per seguire il lavoro e dare una mano agli operai, eseguendo personalmente le saldature più difficili. Di sera facevano lunghe telefonate ai responsabili tecnici dei clienti per informarli sullo stato della produzione e discutere qualche problema di dettaglio. Niente vacanze, niente viaggi, niente weekend. Tutto questo si collocava oltre il semplice disinteresse, nel territorio rarefatto delle possibilità dotate d’una qualche sostanza soltanto per altre persone, altre esistenze. Tempo della vita e tempo del lavoro coincidevano totalmente. I dipendenti avvertivano la forza sovrumana che li animava. Ammiravano e temevano quell’instancabilità, quella determinazione. Si rivolgevano loro con un po’ di disagio, poiché la distanza appariva troppo grande, il contatto impossibile. Le mogli, che conoscevano il loro passato, li lasciavano fare. Sostanzialmente indifferenti alla politica, votavano co40

munque Forza Italia o Popolo delle Libertà. Berlusconi era un uomo troppo aggressivo, troppo invischiato nei suoi processi per fare bene il primo ministro, tuttavia la sinistra era ancora peggio. Cosa aveva fatto Prodi? Tasse su tasse. Pagare le tasse era giusto. Scuole e ospedali devono funzionare. Ma l’Italia è l’Italia. Decine di migliaia di piccole aziende chiuderebbero all’istante, se dovessero mettersi in regola col fisco. Decine di migliaia di famiglie sarebbero alla fame, senza il doppio lavoro del padre stipendiato. Questo Berlusconi l’aveva capito benissimo, infatti eccolo là. Coi soldi guadagnati nel corso del tempo questi uomini hanno acquistato immobili direzionali subito messi a reddito, terreni edificabili da permutare con cubature di costruito, certificati di credito del tesoro. Hanno acquistato ville eleganti in quartieri semicentrali non troppo distanti dall’azienda, con giardini dove hanno fatto piantare cedri del Libano, oleandri, melograni e forsizie. Passeggiare in mezzo al verde la domenica mattina è uno dei massimi piaceri della loro vita. Osservano fiori, gemme, innesti. Sono affascinati dalla forza e dalla magnifica indifferenza della natura. Tutto nasce e muore in una specie di silenzio remotissimo. Nel giardino si sentono rassicurati, pacificati, quasi liberi dai brutti ricordi. 41

I figli di questi uomini hanno frequentato licei privati con liste d’attesa interminabili e ottime università. Fin dall’adolescenza hanno legato coi rampolli della borghesia più introdotta e blasonata, proprietaria di palazzetti storici in via Altinate o riviera Paleocapa e seconde case a Cortina d’Ampezzo, zona Lacedel. Il tempo ha dissolto ogni traccia della disperazione che aveva ucciso il loro nonno all’inizio degli anni Cinquanta, nella proprietà inselvatichita dell’industriale piemontese. L’episodio fa parte della storia della famiglia, ma riposa all’interno di una dimensione astratta, irreale, come l’inferno della fame o dei genocidi dell’Africa. Adesso i nipoti di quell’uomo sono quarantenni dalle facce educate e poco amichevoli, seduti al caffè Cavour la domenica mattina verso mezzogiorno, con «Il Giornale» sulle ginocchia e un aperitivo analcolico posato sul tavolino, accanto alla coppetta colma di wafer salati. Indossano maglioni color tabacco e scarpe nuove di negozio dello stesso colore, disinteressati a chiunque non occupi alcuna casella nella loro personale mappatura del mondo. Le mogli sono giovani signore dai capelli decolorati in modo non aggressivo, lievemente appesantite dalla seconda o terza gravidanza, che tengono al guinzaglio carlini neri chiamati Limpy o Serafino. I figli di queste coppie non falsificherebbero mai una firma sul libretto delle giustificazioni, né farebbero ma42

le a qualche piccolo animale, poiché sono stati educati al rispetto delle regole e all’ecologia. Sono uomini abituati a mantenere le distanze, mostrare sorrisi metallici, dividere il mondo tra frequentabili e infrequentabili. Hanno un principio di pancia, qualche piccola ruga. Amano Bossi e Berlusconi. Soprattutto Bossi, più fermo in tema di sicurezza e criminalità. Approvano l’utilizzo dell’esercito per presidiare le strade, l’obbligo di denunciare i clandestini in capo ai medici di pronto soccorso, le ronde nei quartieri. Le ronde sono un’ottima soluzione per combattere degrado, sporcizia e criminalità. La gente perbene, se organizzata, ottiene risultati migliori dello Stato. Alcuni prenderanno in mano le redini dell’azienda, dopo la morte del padre, e tenteranno di proseguire nel suo solco. Gli affari procederanno a singhiozzo. Due o tre anni più tardi saranno costretti a studiare un piano accettabile di dismissioni, per difendere il core business. Altri cederanno il timone a qualche manager selezionato con l’aiuto di un’importante agenzia milanese. Manterranno un ufficio presso la sede per motivi d’immagine. Altri ancora venderanno in blocco, incassando somme notevoli. Acquisteranno fattorie biodinamiche o piccoli cantieri per la produzione di pilotine. Ben presto si rassegneranno alla difficoltà dei business di nicchia e 43

venderanno anche cantieri e fattorie bio, per passare lunghi mesi in barca a vela, passione di sempre. Nessuno di loro proverà nostalgia o dolore o rimpianto per il padre fondatore. Impossibile far bene come lui, ripetere certi risultati. Un uomo troppo abile e ingombrante, con la sua cieca dedizione al lavoro. Aveva consegnato all’azienda ogni grammo d’energia, di intelligenza, di volontà, al punto da risultare totalmente irraggiungibile. Una specie d’alieno in famiglia. Lo ricordano con una specie di fatica, di insofferenza. Tutto era cominciato sessant’anni prima, nella proprietà abbandonata dell’industriale piemontese. L’ombra scura di quell’episodio ha attraversato il tempo, le generazioni, per arrivare fino a loro. Con l’età capiscono meglio. Vendere l’azienda, cancellare ogni cosa, sarà una liberazione.

4.

Non proprio organici all’ordine generale delle cose Padova negli anni Settanta non era un paese per vecchi. Si trattava di una città incandescente, lacerata dal conflitto e dalla violenza politica. Decine di istituti universitari perennemente occupati. Vaste zone del centro presidiate dai militanti. E poi le notti dei fuochi, i blocchi stradali, gli arresti di massa. In rapporto al numero degli abitanti, Padova aveva il primato degli scontri. Più di Milano o Roma o Bologna. Il movimento veneto dell’epoca aveva poco a che fare con indiani metropolitani e happening creativi. Era duro, radicale, militarista. Per strada si respirava un’aria pesante, ben presto divenuta plumbea. Ricordo la prima retata di leader dell’autonomia operaia, da Antonio Negri a Luciano Ferrari Bravo. Il famoso blitz del 7 aprile, sfociato nel processo sul quale sono stati scritti saggi e pamphlet. Quella notte ero a spasso con un amico. Sembrava fossimo gli ultimi sopravvissuti sulla terra. Strade deserte, piazze deserte. Sirene lontane di volanti in corsa verso chissà dove. E quella sensazione di pericolo, di 45

minaccia incombente sotto ai portici poco illuminati. Clima cileno. Era il 1979. All’epoca avevo diciassette anni e simpatizzavo per gli estremisti più estremi, cioè appunto l’autonomia operaia. Leggevo Il dominio e il sabotaggio di Negri. Leggevo Engels e Lukács e Guattari. Leggevo gli «Opuscoli marxisti» della Feltrinelli (collana curata da Pier Aldo Rovatti). Uno dei sacri testi di allora è davanti a me sulla scrivania. Recuperato dopo una veloce ricerca in casa, tanto per guardare negli occhi il passato. S’intitola Democrazia autoritaria e capitalismo maturo. Autori: Luigi Ferrajoli e Danilo Zolo. Data di pubblicazione: 1978. Prezzo: 1.500 lire. Non lo apro da trent’anni e passa. È annotato, commentato, sottolineato. Non solo le prime cinque o sei pagine. Tutte e 136 (scritte in piccolo). Eppure, tocca ammetterlo: ero tutt’altro che un giovane intellettuale engagé. Recitavo a me stesso la parte dell’insorto, dell’irriducibile. Lo zelo mascherava la cattiva coscienza. Avevo scelto il mio personaggio in modo superficiale, occasionale, vuoto. Ero la quintessenza della posa poiché posavo sempre, persino nel chiuso della mia stanza – sebbene bastasse cacciare l’opuscolo nella tasca del giaccone per portare la recita sotto al naso di chiunque. Sia come sia, da bravo sedicenne antagonista avevo co46

minciato a frequentare altri compagni del movimento. Era il cosiddetto gruppo della Specola, che prendeva il nome dall’omonimo quartiere. Il punto d’incontro si trovava ai piedi dell’Osservatorio di Galileo, in una piazzetta affacciata sulle acque grigie d’un fiume dal quale, nelle giornate più fredde, fumigava la nebbia. Stavamo in giro fino a tardi e fumavamo milioni di canne nei garage di questo e quello. Il leader era Gianni, un veterano delle azioni militanti, chiamiamole così, capace di irradiare calma assoluta nei momenti difficili. L’altra colonna del gruppo, Biagio, era stato accoltellato per strada dai fascisti un paio d’anni prima, rischiando di morire dissanguato sul marciapiede. L’episodio gli aveva lasciato addosso una tristezza abissale, da ultima stazione, e pian piano s’era isolato. C’era un milanese piccolo e taciturno, soprannominato Charlie, gran suonatore di chitarra e perfetto imitatore di Bob Dylan. Aveva mollato scuola e famiglia da tempo e dormiva dove capitava, compreso il dormitorio comunale. Lo guardavo con un misto di simpatia e terrore, poiché era la prima persona realmente non garantita che incontravo nella vita e ogni frase, ogni singola parola fra noi passava attraverso una frattura, una misteriosa interruzione di continuità che lui, con gentilezza, sempre faceva in modo di ricomporre. Non ero dei loro. Troppo protetto, troppo schermato. La distanza assumeva la forma d’una vaga fatica, un’opacità crescente. Nel gruppo avevo uno statuto intermedio, da visitatore residente. 47

Ricordo la luce violetta dei pomeriggi d’inverno che trascolorava velocemente nel buio, mentre la temperatura andava sottozero e noi vagavamo fra piazza dei Signori, piazza Capitaniato e il dedalo di viuzze dietro il Duomo. Ore e ore sui gradini della Gran Guarda, a fumare e discutere in compagnia di gente d’ogni tipo. Le 127 bianche della Digos ferme in fondo alla piazza facevano parte del paesaggio esattamente come palazzi e panchine. I poliziotti in borghese seduti nell’abitacolo filmavano e fotografavano col teleobiettivo, in modo assolutamente esibito, tanto tutti li conoscevano. Di sera andavamo alla Serra, un’osteria di riviera Paleocapa, a bere vino rosso. Un posto affollato e rumoroso e molto economico. C’erano tavoli di legno coperti di graffiti e quell’inconfondibile odore un po’ stantio di cibo e fumo e umanità che dopo cinque minuti smetti di sentire, perché ha impregnato anche te. Da qualche anno è diventato un raffinato ristorante di pesce, con candele all’arancio disseminate sulle mensole e tovaglie color ocra, sempre mezzo vuoto. Come militante dell’autonomia operaia frequentavo anche il comitato interistituto, sorta di coordinamento delle cellule attive nelle scuole, che si riuniva una o due volte alla settimana in una piccola aula all’interno della facoltà di Fisica, a due passi da via Belzoni. Le pareti bianche coperte di scritte e graffiti e volantini ciclostilati in proprio, attaccati con lo scotch accanto ai manifesti del48

le iniziative di lotta, riverberavano la luce intensa dei neon incassati nel controsoffitto. C’era Sandro, uno dei luogotenenti dell’organizzazione, loden blu da bravo ragazzo, capelli lunghi fino alle spalle e occhi neri, ardenti, alla Rasputin. C’era Mauro inguainato nel giaccone verde d’ordinanza, labbra sottili e aria chiusa, scura, diffidente. C’era Gil, appena trasferito da Bologna, alto e grosso e taciturno e generoso nel momento del bisogno. Spenzolando i piedi nell’aria, chiacchieravamo di iniziative antagoniste e articoli infami sulla stampa locale, in attesa dell’inizio della riunione. Finalmente arrivava Attilio, il capo. Un biondino piccolo di statura, ombroso e capace di grande aggressività. Ottimo oratore nel criptico linguaggio del movimento. Chiamava qualcuno con un cenno, si metteva a confabulare fittamente in fondo alla stanza. Ben presto qualcun altro s’avvicinava, entrava nel conciliabolo. L’ordine delle chiamate, degli avvicinamenti spontanei e delle esclusioni disegnava la geografia esatta dei rapporti di forza all’interno del gruppo. La riunione cominciava soltanto dopo. Per inciso, pochi mesi più tardi Attilio sarebbe stato arrestato, si sarebbe pentito e avrebbe mandato in galera decine di persone. Sempre per inciso, trent’anni più tardi avrei rivisto la sua foto nelle pagine di cronaca del «Mattino di Padova». Disteso su un letto d’ospedale, aveva il viso gonfio, sfigurato dai lividi e dalla disperazione. Da qualche tempo viveva in una baracca alla pe49

riferia di Roma. La mattina presto un magnaccia lo prelevava in macchina. Lo accompagnava fuori città perché mendicasse in punti prestabiliti: mercati di paese, feste patronali, chiese. A fine giornata dividevano i soldi. Un giorno l’incasso era stato particolarmente magro e il magnaccia l’aveva punito. Pugni, calci, bastonate. Un pestaggio furibondo, frutto del puro abbrutimento. Lo aveva spedito in rianimazione. Il titolo sul giornale diceva: «Sono un uomo distrutto, vorrei solo rivedere mia figlia». L’occhiello: «L’ex leader dell’autonomia padovana oggi è un barbone». Ma all’epoca tutto questo non esisteva. All’epoca lui entrava dalla porta col bavero del giaccone alzato e nell’auletta di Fisica calava il silenzio. Nessuno immaginava l’esilità dei fili cui stava appeso tutto quanto. Accanto alle frequentazioni impegnate, diciamo così, ne avevo di tutt’altro genere. Ragazzi disinteressati ai saggi di Pier Aldo Rovatti e alle teorie di Lukács. Guidatori di Vespe 50 bianche con marmitte Pinasco e bazzicatori di discoteche con apertura pomeridiana e acquistatori di maglioni Brooksfield e sciarpe Burberry. Figli di avvocati e farmacisti e dentisti con berline dotate di servosterzo e seconde case al mare o ai monti. Borghesi. Immagino di aver sempre avuto la vocazione per il camaleontismo e l’ambiguità. Marco inventava battute surreali, beveva birre su bir50

re e ben presto sarebbe caduto, Stefano faceva il dj a tempo perso nelle radio libere, Gianni era il più paziente e adulto del gruppo, l’unico in grado di ricomporre le tensioni. Queste personalità complementari formavano una specie di identità collettiva, mobile e stellante e difficile da classificare. Ci sentivamo eroici senza ragione e capaci di grande lealtà. Il punto d’incontro era un bar della Sacra Famiglia, dove convergevano una quantità di facce note o seminote, da salutare o ignorare. Alla sera finivamo invitati o imbucati a qualche festa, in mezzo a frotte di bevitori di sangria scatenati nella musica dei Bee Gees, il massimo del trash musicale imperialista. Nonostante l’amicizia e l’affetto e la solidarietà, ero distante anche da quegli amici. Lo scarto stava nelle speranze, nelle attese. Come facevo a spiegargli delle passeggiate notturne di Allen Ginsberg lungo Powell Street, alla fine degli anni Cinquanta, sotto un cielo stellato grande come il mondo intero? O della vertiginosa critica di Guy Debord alla società dello spettacolo? Di tante cose semplicemente non parlavo. Trent’anni dopo, la città ha conservato pochi ricordi di quegli anni. L’incandescenza e la tensione sono memorie lontane, quasi abolite. Percorsi e destini dei ragazzi che partecipavano al comitato interistituto sono stati raccontati da romanzi e memoriali e saggi e film. Molti hanno pagato col carcere la contrapposizione, lo scontro frontale. E anche la 51

violenza, certo. Tornati in libertà, hanno aperto laboratori per la rigenerazione di toner e stampanti o piccole agenzie di grafica pubblicitaria. Ogni tanto telefonano ai vecchi compagni, si incontrano in qualche osteria del ghetto con foto seppiate di chansonnier appese alle pareti, per parlare un po’, condividere lo spaesamento, impedire che la nebbia della dissoluzione avvolga del tutto quindici anni di vita. Altri hanno cambiato strada, rinnegando il passato. Come vuole il luogo comune, sono diventati professionisti, manager, dirigenti d’azienda. Hanno percorso a ritroso la strada della fuoriuscita dal sistema, posizionandosi nel bel mezzo del ponte di comando. I loro modi rigidi, inflessibili, servono a bilanciare il difetto originario della disomogeneità. Altri ancora, incapaci di ritrovare un passo sostenibile dopo la fine del movimento, si sono trasferiti in Portogallo, in Messico. Gestiscono bar con musica dal vivo sul lungomare o scuole di lingua legalmente riconosciute. Nel paesaggio azzurro, luminoso, magnifico, possono pensare se stessi come persone totalmente nuove. Vivono accanto al ricordo di ciò che sono stati, senza scambiarvi una parola. Di Attilio, della sua foto sulle pagine di cronaca del «Mattino», ho già raccontato. Quelli che non contestavano, i ragazzi attrezzati con maglioni Brooksfield e sciarpe Burberry abituati a trascor52

rere il Natale a Cortina e le estati a Panarea, in linea generale hanno avuto esistenze meno accidentate. Le solide famiglie borghesi di provenienza garantivano un vantaggio decisivo nel mondo del lavoro, delle corporazioni. Trent’anni dopo le Vespe e la musica dei Bee Gees, i figli degli avvocati hanno preso in mano lo studio, i figli degli imprenditori sono diventati responsabili commerciali dell’azienda. Ma essere a favore del mondo e favoriti nel mondo non significa necessariamente avere in tasca la conquista del mondo. Molti di loro, pur condividendo al cento per cento regole e norme e pur disponendo di ottimi atout, sono scivolati comunque verso i margini, la zona grigia dove ogni figura appare riempita di buio. Affondamenti silenziosi e lentissimi, privi di rapporto con ribellismo e ideologia. All’inizio questi ragazzi a favore risultavano talmente organici all’ordine generale delle cose da sembrare dei replicanti. Nessuna inquietudine. Nessuna incertezza. Nessuna velleità di uscire dal solco. Subentrare nella gestione dello studio o dell’azienda di famiglia era una prospettiva sicura e indiscussa fin dagli anni del liceo. Fare altro? E perché mai? Il loro posto era quello. I compagni di classe non-insediati li guardavano stupefatti. Come ci riescono, si domandavano. Com’è possibile essere tanto organici? I ragazzi a favore avevano compiuto studi regolari. Maturità scientifica a diciotto anni. Laurea in Scienze 53

politiche o Giurisprudenza o Economia e commercio a ventisei. Un po’ di politica con la destra. Niente canne. Niente concerti. Niente cineclub. Ragazze sì, in abbondanza. Erano ben costruiti fisicamente e comunicavano un senso di concretezza che incontrava. Giravano con una Mini Morris azzurra e portavano capelli un po’ lunghi e tutte le sere, verso le dieci, planavano al Mercato Nero, un posto pieno di fumo e voci rimbombanti dove tiravano mezzanotte in compagnia d’un gruppo di goliardi. Le prime crepe erano apparse intorno ai trent’anni, quando tutto sembrava destinato ad oscillare per sempre nel più limitato degli spazi. Verso le sette uscivano dallo studio legale o dall’ufficio acquisti dell’azienda. Raggiungevano il bar Celeste dove, a quell’ora, convergeva mezza città. I tavolini sul selciato di piazza delle Erbe erano affollati di giovani commercialisti con giacchette blu nuove di negozio e studentesse carine in procinto di discutere la tesi e altre figure maschili e femminili che guardavano di lato, scuotevano i capelli, ridevano, schiacciavano col tacco mozziconi di Merit, andavano avanti e indietro come piccoli granchi sulla roccia porosa dello scoglio. Conoscevano tutti. Prendevano posto ad un tavolino e ordinavano Campari shakerato, l’aperitivo del momento. Nell’aria di maggio profumata e trasparente era facile darsi importanza parlando con espressione grave di bancarotte fraudolente e operazioni estero su estero, 54

ad uso e consumo di qualche biondina che annuiva impressionata. Un’ora dopo alcuni amici erano tornati a casa, altri avevano preso la via del cinema o del ristorante e loro si godevano l’ultima luce rosata del crepuscolo contro il profilo del Palazzo della Ragione. Stanchi dopo la giornata di lavoro, non avevano voglia di chiudersi tra quattro mura. Non ancora. Raggiungevano l’interno del bar per salutare Stefano, il gestore, un quarantenne magro come un chiodo e allegro e capace di battute fulminanti. Chiacchierando con lui, bevevano un altro bicchiere. Il lavoro procedeva bene. Affiancati dal padre, imparavano a conoscere procedure e clienti. Verso le sette raggiungevano piazza delle Erbe. Il rito dell’aperitivo era un momento di decompressione al quale non avrebbero saputo rinunciare. Il solito Campari shakerato. A volte, se la partita di chiacchiere diventava particolarmente lunga, se la ragazza di turno rispondeva nel modo giusto, un secondo giro. E poi, in compagnia di Stefano che rideva e raccontava, un ultimo bicchiere, un bianco secco, gelato. Un Pinot. Un bel giorno avevano cominciato a passare in piazza anche all’una, poiché tornare a casa per pranzo era una gran perdita di tempo. Prendevano una piadina e un rosso. Quando la piadina era troppo secca o troppo calda o troppo farcita, i rossi diventavano due. Sotto alla scorza della normalità, la corrosione aveva 55

cominciato il proprio lavoro. Di cosa si trattava? A volte il sonnifero può tenere svegli, il coagulante può provocare emorragie. Succede per colpa dell’eccesso di dosaggio. In medicina si chiama effetto paradosso. Erano talmente al sicuro da rischiare la pelle. Martini e Campari e vini bianchi secchi gelati e gin tonic e gin lemon e ottimi rhum della Martinica conquistavano spazio. A mezzogiorno. Alle sette. Prima di cena. Dopo cena. Loro, i giovanotti a favore, avevano sempre il solito aspetto. Forse lo sguardo s’era fatto più liquido. Un giorno Chiara, la loro ragazza, aveva affrontato l’argomento. «Tu bevi troppo» aveva detto una sera all’improvviso, guardandoli negli occhi. «Non puoi andare avanti così.» Due mesi dopo la relazione era finita. Arrivavano in ufficio sempre più tardi, uscivano sempre prima. I colleghi cominciavano a notare, commentare. Il volume d’affari si riduceva. Era necessario licenziare Eleonora, la segretaria più anziana, che lavorava lì da trent’anni. La baracca reggeva grazie allo zoccolo duro dei clienti del padre, ritiratosi dopo l’ictus. Scivolavano in una distanza inesprimibile, sconosciuta a loro stessi. Uno spazio bianco e privo di confini esatti dove ogni figura smarriva la propria sostanza. La piena adesione al mondo sbandierata per trent’anni era tutt’altro che piena adesione al mondo: piuttosto un’apatia abissale, che li aveva posseduti fin dal primo istante. Cosa volevano? Mimetizzarsi. Passare inosservati. 56

Trasportare oltre la linea dello sguardo altrui il fardello di non crederci davvero. Con gli anni l’alcool faceva il proprio lavoro. Diventavano gonfi, inebetiti, vitrei. Diventavano l’ombra di se stessi. Nelle sere di novembre li vedevi transitare sotto ai portici del ghetto, con le mani affondate nelle tasche dei calzoni da cui sbordava la pancia generosa, soli e diretti verso chissà dove, ma pronti a sorridere, se ti vedevano, pronti a stringere la mano con vigore, come fossero ancora lì, saldi e incrollabili nel centro del solco. Per altri ex ragazzi a favore la caduta era stata più brusca e traumatica, più esplosiva negli esiti finali. Tutto cominciava da una furibonda lite in famiglia intorno alla gestione dell’impresa fondata dal vecchio. Vendere solo il costruito? Dio santo, che cazzata! Tutti gli altri vendevano sulla carta! Aprivano il cantiere a cose fatte! E lavorare sempre con la stessa banca! Altra cazzata! Poiché era impossibile andare d’accordo col vecchio, si mettevano in proprio. Il padre di Federica, la loro ragazza, faceva il grossista di sistemi di refrigerazione. Uomo molto liquido. Dopo lunghe spiegazioni e insistenze e rassicurazioni e qualche lacrima da parte di Federica, il grossista si decideva a firmare la fideiussione per consentir loro di rilevare un’area edificabile in zona Fiera. Sei mesi dopo, inspiegabilmente, il permesso a costruire risultava ancora bloccato. La befana dell’ufficio 57

tecnico, con quei capelli bisunti e gli occhialetti da maestrina scassacazzi, ripeteva la solita litania: la commissione urbanistica, il sindaco, il Coreco... Dopo il centesimo rifiuto di mettere nero su bianco la richiesta delle varianti proposte da lei stessa, s’erano inalberati. «Lei è una stronza!» avevano gridato, sbattendo il fascicolo delle carte sul bancone. «Le fa piacere rovinare la gente, vero?, stronza!» Il cellulare dell’architetto che avrebbe dovuto risolvere le cose risultava sempre staccato. Mentre la banca premeva per rientrare del finanziamento, la storia con Federica vacillava per colpa di certe malelingue: qualcuno sosteneva di averli visti al Caminetto in compagnia di una tettona in microgonna, qualcun altro al Lax con una straniera dai capelli corvini lunghi fino al sedere... Dopo sei mesi, col permesso a costruire fermo come un traliccio dell’alta tensione e le malelingue scatenate, il padre di Federica s’era rivolto all’avvocato per recuperare i soldi. A partire da quell’inciampo iniziale, la sfortuna cominciava a perseguitarli. Una nuova operazione presentava nuove difficoltà, dovute al ritiro – all’ultimo istante! – del socio finanziatore. Poco tempo dopo un assegno consegnato in garanzia veniva presentato all’incasso – roba da matti! – facendoli finire sul bollettino protesti. I confini diventavano incerti e difficili da presidiare. Apparivano decreti ingiuntivi e ufficiali giudiziari e ver58

bali di pignoramento e srl con amministratori residenti in Romania, in Bulgaria, nella Repubblica di Moldavia. La situazione precipitava del tutto per colpa della denuncia d’un chirurgo estetico mezzo cocainomane – anzi totalmente cocainomane – che pretendeva d’essere stato derubato di quattrocentomila euro. Roba da matti! Quei soldi erano stati utilizzati secondo gli accordi, per ristrutturare il rustico sui colli, solo che gli artigiani volevano pagamenti in nero e per contanti e questo aveva generato un minimo di confusione, e comunque il chirurgo era informato e rendicontato e se fosse stato meno cocainomane avrebbe capito – invece s’erano ritrovati con uno squadrone di carabinieri sulla porta di casa, la foto sul giornale. Uno sputtanamento mai visto. Cominciavano a star male. Si svegliavano di soprassalto in piena notte, con sudori freddi e tachicardia. La stanza silenziosa sembrava un luogo abbandonato dove risultava difficile riconoscere gli oggetti, la luce dell’abat-jour. Seduti sul bordo del letto con la testa tra le mani e il cuore a mille, sentivano che strade e persone rappresentavano una prova troppo difficile per il mattino successivo. Prendevano pillole: sonniferi, ansiolitici, calmanti. A forza di pillole, certi giorni sembravano zombi. Le prendevano perché era difficile vivere così, fra leasing in sofferenza e assegni protestati? Piuttosto perché Unicredit non deliberava mai il nuo59

vo finanziamento e l’occhio di portico di via Vescovado era ancora lì, piantato e invenduto. Perché la Colomax rifiutava di sbloccare la cauzione, nonostante l’abitabilità fosse quasi a posto. Perché guadagnavano troppo poco. Altri ancora – i più irrequieti – cadevano per colpa della simpatia, dell’allegria, della vitalità, delle mille donne che riempivano la loro vita. Mentre gli altri mettevano su famiglia, loro fumavano Marlboro rosse e chattavano a lungo e annodavano sottili cordicelle di canapa intorno al polso. La sera passavano al Tenax per vedere che aria tirava e poi al Q, altra tappa obbligata. Si presentavano alle cene degli amici sposati in compagnia di ragazze sempre più giovani, sempre più vistose, che terrificavano le mogli. Ben presto gli inviti a cena diradavano, fino a cessare del tutto. Il mondo delle serate in famiglia e degli hamburger da Mac per far contenti i bambini alzava il ponte levatoio, lasciandoli fuori. Per combattere il senso di isolamento si gettavano in iniziative un po’ stravaganti. Diventavano soci d’un bar estivo con musica live a bordo piscina, rilevavano un piccolo ristorante specializzato in sashimi e tempura, il tutto per offrire un punto d’incontro alla gente come loro, quarantenni senza legami incapaci di frenare. La risposta degli amici risultava deludente. Chi era 60

preso dal lavoro, chi dall’ultima fiamma, chi dalla casa di vacanza a Noto, in Sicilia. Col passare degli anni l’inquietudine si venava di stanchezza ed estenuazione: l’accumulo di esperienze faticava a sedimentare, depositarsi sul fondo. Avvertivano un senso di vuoto crescente, che li spaventava. Durante un viaggio in Baja California conoscevano un ex architetto di Varese trasferito lì dagli anni Settanta, dopo la morte della moglie. L’ex architetto viveva in una fazenda sulla riva dell’oceano e coltivava magnifiche piante grasse e aveva molti amici espatriati come lui. Tornavano in Messico pochi mesi dopo. A bordo di una jeep in affitto, traversavano il deserto di Sonora diretti verso Culiacán. Le stelle apparivano talmente fitte e splendenti e vicine da togliere il respiro e l’aria fredda della notte bruciava sul viso restituendo una sensazione magnifica di profondità senza limiti, di apertura totale. L’anno successivo il processo del distacco subiva un’accelerazione. Uscendo dalla chiesa dove la bara coperta di fiori appariva impossibile da connettere al corpo e al ricordo della madre, sentivano che il tempo delle cautele era finito, potevano tentare nuove strade. Pochi mesi dopo cedevano le quote dello studio di progettazione nel quale lavoravano dall’inizio degli anni Ottanta. Cedevano la casa di famiglia, che valeva mezzo milione di euro. Come gli ex militanti dell’autonomia operaia sfuggiti all’arresto, anche loro lasciavano l’Italia alla volta del Messico. 61

Nel paesaggio azzurro, luminoso, magnifico, potevano pensare se stessi come persone totalmente nuove. Tornavano in città una o due volte l’anno, per questioni di tasse e per incontrare gli amici di sempre, ormai grigi di capelli e un po’ imbolsiti, in bilico fra la gioia di rivederli e la fatica di riprendere contatto. Trascorrevano in loro compagnia serate lunghe e allegre e sfilacciate e sentimentali e rammemoranti ed estenuanti e sempre più inadatte a rappresentare l’unica ragione per sobbarcarsi dodici ore d’aereo sotto Natale. Col tempo la distanza cresceva, diventava difficile da colmare. Dopo un lungo viaggio in Cile e nella Terra del Fuoco, fra dirupi vertiginosi e pianure sconfinate capaci di cancellare ogni ricordo, cessavano di tornare in Italia e dare notizie di sé.

5.

Ancora via San Fermo

Le scene per strada sono sempre le stesse. Tutti le conoscono. Una donna sui trentacinque passeggia lentamente. È magra, curata, un po’ rigida. Stivali eleganti, borsa elegante, pantaloni di pelle e grande foulard. Tenendo in mano un minuscolo telefonino ultrapiatto nero, esibisce se stessa ai passanti. Evita con attenzione di incrociare gli sguardi, stabilire il minimo contatto, anche istantaneo, per valorizzare il proprio impegno nella definizione di ogni dettaglio, annullare le interferenze intorno all’esattezza dell’immagine che offre. Magari anche lei è accerchiata o insidiata o incapace di restare al passo. Tuttavia si difende con l’attacco. Chiede un contributo di attenzione e consenso. Chiede di essere osservata, trattenuta nella memoria. Vuole colpire in forma moltiplicata. Difficile dire quale sarà l’esito dei suoi sforzi. Mentre percorre il centro della città, sembra la condensazione di una materia dispersa ovunque nell’aria. Come sbalzata nella luce, eppure facilmente confondibile con lo sfondo. Anche lei transita lungo via San Fermo. Guarda le ve63

trine accanto alle giovani segretarie e commesse e impiegate in pausa pranzo. Loro appartengono a una specie diversa dalla sua. Si sfiorano per un istante davanti ad una borsa, una gonna, e proseguono nelle loro orbite attraverso lo spazio siderale, accumulando distanza. Si possono riempire interi armadi di borse Tod’s e Chanel e Bulgari (The new handbag collection) e Marc Jacobs e Jimmy Choo. Si possono collezionare decine di sandali Just Cavalli e Jil Sander e Chloé, di maxi collane di Vuitton e Stella McCartney e Dries Van Noten. Tutto acquistato nei negozi più glam nel corso di innumerevoli visite festive e feriali in ogni periodo dell’anno. Un paio di scarpe da 675 euro può essere considerato a buon mercato, se hai abbastanza soldi sul conto corrente e abbastanza interesse per le scarpe. Le proprietarie di questo ben di Dio sono giovani donne mobili, stellanti, curiose, sprezzanti, inadatte alla solitudine e del tutto incapaci di sacrificio. Trentenni e quarantenni dai redditi medioalti sempre insufficienti per far fronte alle esigenze della season. Sono commercialiste specializzate nella creazione di trust di diritto olandese o ginecologhe che lavorano presso poliambulatori con grandi riproduzioni di Klee e Rothko dietro al bancone della segreteria o contitolari di piccole imprese attive nel campo delle cucine componibili, del commercio del legno, dell’oreficeria. Guidano Audi con cambio automatico e satellitare di 64

serie o Bmw 116 station wagon poco adatte alle strade di montagna per via della trazione posteriore o Mercedes Classe A sempre coperte di polvere in quanto fare la coda all’autolavaggio è l’ultimo dei desideri. Sono animate da un’allegria costante, trascinante, un po’ robotica. Difficile vederle giù di corda o stanche o preoccupate. Il buonumore è un tratto caratteriale e una scelta deliberata, il sistema per differenziarsi dagli altri, incapaci di fronteggiare la vita con la stessa energia positiva. Hanno valanghe di rapporti sociali. Il loro cellulare squilla di continuo. Essere al centro d’una fitta rete di contatti le galvanizza. Ascoltano il racconto dell’amica appena tornata da Arles e il racconto del collega in lite con la moglie. Scambi di informazioni e commenti e osservazioni si mantengono sul piano del buon senso generico, privo di ricadute impegnative. Sono portate per la socialità, più che per l’amicizia. Il loro ascolto è orizzontale, poco adatto ai confronti serrati. Raramente hanno figli. L’ostacolo è rappresentato dall’assoluta mancanza di desiderio di cambiamento e dalla convinzione di avere poca attitudine come educatrici. Devono vedere un cliente francese alle sei, incontrare Valeria per l’aperitivo, correre da Nazareni a ritirare la giacca. La struttura della loro vita è rigida. Sono oberate di impegni rilevanti e irrilevanti che riducono la possibilità di manovre ad ampio raggio. Nell’incontrare qualcuno, valutano istantaneamente 65

abbigliamento, linguaggio, simpatia, capacità di tenere la scena. Il loro giudizio è spietatamente severo e attentamente dissimulato. Coprono di sorrisi e battute amichevoli la maggior parte degli interlocutori, proprio perché li trovano scarsi, inadeguati. D’altro canto sono pronte a riconoscere il carisma e la brillantezza dei pochi sopra la media. Sono assolutamente incapaci di affrontare malattie, lutti e sacrifici in generale. Il loro padre è morto di tumore quando avevano quindici anni. La loro madre convive con l’Alzheimer dall’inizio del duemila. Luca, un ex fidanzato, ha perso l’uso delle gambe schiantandosi sulla Trieste-Venezia a centonovanta all’ora. Hanno già avuto abbastanza disgrazie! Si sentono in credito rispetto alla vita. Le loro visite negli ospedali sono angosciate e fulminee. Di cimiteri nemmeno se ne parla. Appena uscite dalla stanza del reparto dove si sono costrette a passare, si ritemprano con una lunga passeggiata attraverso il centro. In linea generale votano a destra. Amano Berlusconi e Fini. Gente ambiziosa, grintosa, di grandissimo successo. Le convinzioni politiche possono essere propugnate con qualche foga e persino diventare oggetto di discussione, ma restano estranee e distanti. Non nutrono il minimo interesse verso partiti e ideologie. Il loro mondo è un luogo piano, scintillante, dove nessuno orienta deliberatamente lo sguardo verso il conflitto, la difficoltà. 66

Nella vita succedono tante cose. Una bella mattina vai al lavoro e scopri che il direttore vendite è stato rimosso durante il weekend. Due settimane dopo fanno fuori il responsabile delle filiali e ben presto il lavoro non esiste più. Una mattina esci dalla doccia e noti una macchia arrossata all’interno della coscia. Il giorno successivo è ancora più rossa e fissi un appuntamento dal dermatologo. Quello osserva col suo strumento speciale – una specie di monocolo – poi scuote appena la testa e dice: «Meglio rimuovere senza perder tempo, domani stesso». I disastri colpiscono anche loro. L’allegria costante e il telefonino che squilla a tutte le ore non proteggono dal male. Alle sei del pomeriggio camminano lungo via San Fermo a passi lenti, intontite, inebetite. Una stanchezza nuova e sconosciuta le appesantisce. Proviene da un punto intermedio fra corpo e mente. Risale dal margine esterno di tutte le percezioni e diventa ogni giorno più oppressiva. Da quanto dura, questa stanchezza? Quanto durerà? Sono appena uscite dallo studio del professor Fabbri. I valori di leucociti, linfociti ed emoglobina sono incolonnati sul foglietto di carta leggera, semitrasparente, ripiegato nella tasca interna della borsetta Vuitton. Scorrendo la tabella, il professor Fabbri aveva detto: «Potevamo andar peggio». Il due ottobre comincerà il nuovo ciclo di radioterapia. Ricordano come un incubo le ultime sedute, alla fi67

ne di luglio. I viaggi in macchina da Padova ad Aviano nella calura insopportabile. La lentezza della centratura e l’immobilità da mantenere sul lettino, mentre l’acceleratore lineare faceva il suo lavoro. Una specie di castigo per aver osato opporsi alla malattia. E poi quel tremendo sapore metallico nella bocca, che reagiva con qualsiasi altro sapore, impedendo di mangiare, bere, riprendere le forze. Prima la morte del padre. Poi la malattia della madre. E adesso questo. Com’è possibile essere così disgraziate? Via San Fermo è affollata come ogni giorno. Difficile prestare attenzione alla gente. Curiosità e interesse sono lontani, come aboliti. Bisogna consegnare l’impegnativa del professor Fabbri, fissare il nuovo ciclo di radioterapia. Bisogna ricominciare l’avanti e indietro con Aviano. I raggi attaccheranno le cellule malate, demoliranno il loro Dna o tenteranno di demolirlo. Capillari e tessuti connettivi irradiati, devastati. Impossibile immaginare la vera forma dell’azione dei raggi X, impossibile dire come finirà. «Oggi il cancro si cura» dice il professor Fabbri. Secondo lui ci sono ottime prospettive. Si tratta di una forma poco aggressiva. Si tratta di una stadiazione poco avanzata. Chissà. Difficile dire cosa le aspetta. Raggiungono la vetrina di Dev. Scarpe e borse, gonne 68

e cappotti sembrano scolpiti nella luce dei faretti. Hanno esposto un nuovo capo, un tubino nero con sottili bretelline di raso. Impegnativo e molto bello. Parecchi anni prima Massimiliano Gastaldi aveva dato una festa leggendaria nella casa di valle vicino a Bibione. Duecentocinquanta invitati per festeggiare il rientro in patria dopo quattro anni alla Sabmiller di Londra. Il prato davanti alla laguna era illuminato da grandi falò e anche sulle isole c’erano fuochi e la gente ballava nel riflesso giallo e ipnotico delle fiamme sull’acqua. Le ragazze scuotevano i capelli, battevano le mani – il sudore sulla schiena nuda, il fischio metallico nelle orecchie – e la musica saliva fino alle stelle magnifiche dell’estate, e c’era Babi col suo smoking perfetto, c’era Valeria bella come una dea, c’era Carlo con l’aria da eterno ragazzo e sembrava che mai più la notte avrebbe potuto essere tanto brillante e luminosa e perfetta. Il tubino nero nella vetrina di Dev parla di questo e delle serate a Cortina, con la neve ghiacciata che scricchiolava sotto ai tacchi alti alle quattro e mezzo del mattino, attraversando un giardino azzurrato nel riflesso della luna, e poi del magnifico autunno a Parigi, nella casa di Delia, coi sentieri bianchi del Luxembourg che sembravano appena lavati e il vento chiaro e pungente attraverso i rami dei castagni e le luci gialle, rassicuranti dei negozi del Marais. E ancora più lontano nel tempo gli anni del Tito Livio, quando Marco andava a prenderle alla fine delle le69

zioni con la Vespa bianca e quel sorriso magnifico, impossibile da dimenticare, e bastava stringersi alla sua schiena, raccogliersi nella forza e nella dolcezza del contatto, per oltrepassare il confine svanente fra attese e realtà. Marco era stato il primo e aveva occhi neri, viso magro e affilato, mani bellissime. Era un ragazzo che sapeva ascoltare con infinita pazienza e accompagnarti dovunque decidessi di andare. Era stato un tempo di feste e luce perfetta, nel tardo pomeriggio di luglio, tornando dai colli, come un incanto destinato a durare per sempre, finché lui aveva incontrato altre persone, altre fascinazioni, e vederlo cambiare era stato il dolore più grande, perché si stava spingendo troppo lontano, lo vedevano, troppo lontano. Il vestito di Dev fa venire le lacrime agli occhi. Cos’è un vestito? Niente. Eppure l’unica vita possibile era quella. Loro non avrebbero mai indossato uno straccio, né per partecipare alla festa di Massimilano Gastaldi né per presentarsi al centro oncologico di Aviano. Erano diventate com’erano diventate per rispondere a un antico, inesauribile bisogno di approvazione e per andare avanti, tenersi a galla dopo il tempo lontano dei pomeriggi sui colli. Marco era scomparso da tanti anni, chissà dove, chissà con chi. Nonostante le tante storie venute dopo, il vuoto era rimasto là una vita intera. 70

Sentono un brivido di freddo. Star male è anche questo. Lanciano un’ultima occhiata alla vetrina di Dev. Se avranno abbastanza forze, fra qualche giorno passeranno a provare il tubino. La malattia ha tutt’altro che spento l’interesse per vestiti e accessori. Casomai l’ha rafforzato. L’ultima boa alla quale aggrapparsi. L’ultima luce davanti al buio. Persone fatue? Superficiali? Chissà. Sono arrivate lì, esattamente lì, dopo un lungo cammino. Sono donne stellanti, fulminee, sature di presente. Non suscettibili di cambiamento, nemmeno davanti alla morte. C’è uno strato di pietra e roccia, e poi cosa? Qualcuno ha mai provato ad arrivare di là? Comunque vada a finire ad Aviano, sono contente d’aver vissuto così.

6.

Duemilacentoquaranta euro per quattordici mensilità* La Foxconn è una fabbrica di Longhua, cittadina satellite di Shenzhen, nella regione cinese del Guangdong. Si tratta del sito industriale più grande del mondo: l’impianto ha un perimetro di dodici chilometri ed occupa circa duecentosettantamila operai. Il nome Foxconn dice poco al grande pubblico, ma è notissimo agli addetti ai lavori delle multinazionali dell’elettronica. Si tratta di uno dei più grossi produttori globali di componentistica: «Non c’è televisore Sony, telecamera Samsung, computer Dell, telefonino Nokia, iPod Apple che al suo interno non contenga almeno un pezzettino sfornato da questa fabbrica» scrive «Il Sole 24 Ore» in un servizio dedicato all’azienda. Il proprietario si chiama Terry Gou, 58 anni, taiwanese. Gira ininterrottamente per lo stabilimento a bordo di una vetturetta elettrica, come quelle usate sui campi * A p. 86, il brano «Rinunciare a lavorare. Alla famiglia...» è tratto, con variazioni, da un racconto di Giulio Mozzi, Tina, apparso nel volume La felicità terrena (Einaudi, 1996).

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di golf, per controllare che tutto fili liscio come l’olio. È un uomo chiuso, taciturno, inflessibile. Abituato a lavorare sedici ore al giorno, dalla severità leggendaria. Impossibile avvicinarlo, rivolgergli la parola se non espressamente autorizzati dal suo sguardo. I dipendenti, al momento dell’assunzione, ricevono un manuale di comportamento scritto dallo stesso Gou. Un aforisma tra i tanti: In un’organizzazione i dirigenti svolgono il ruolo più importante, perché devono avere il coraggio di agire e comandare nell’interesse generale. Qualche anno fa la Foxconn è stata sfiorata da una serie di polemiche legate allo sfruttamento della forza lavoro interna. Sembra che, in occasione dei picchi di produzione, gli operai fossero costretti a sobbarcarsi fino ad 80 ore di straordinario alla settimana, più del doppio del massimo consentito dalla legge. La Apple, uno dei maggiori clienti del gruppo, aveva aperto un’inchiesta conoscitiva. Gou aveva risposto citando in giudizio gli autori degli articoli sul caso, con richieste di risarcimento stratosferiche. Era furibondo per l’attacco, la lesa maestà. La questione era finita nel nulla, tuttavia il sospetto che Longhua sia una fabbrica-lager non s’è mai dissolto del tutto. Oggi Gou sta licenziando. Forse cinquantamila operai, forse il doppio. L’azienda non rilascia dichiarazioni e risulta impossibile fare stime precise. «Nella mia squadra eravamo quindici» ha spiegato ad un giornalista una giovane operaia che lavora nell’assemblaggio delle bat74

terie dei telefonini. «Adesso siamo rimaste in quattro e non abbiamo neanche tanto da fare.» Gli ordini sono crollati. I magazzini delle multinazionali dell’elettronica sono pieni di videocamere e palmari invenduti. Dopo lunghi anni di profitti crescenti, i big dell’hi-tech sono al tracollo. Nel febbraio 2009 Hitachi annuncia un passivo record di 700 miliardi di yen, la maggior perdita nella storia dell’industria manifatturiera nipponica. Anche Toshiba, Fujitsu, Panasonic, Sharp sono in crisi. Tutte presentano conti in rosso, tutte precipitano in borsa. Il futuro promette di essere disastroso. Lungo i corridoi della fabbrica più grande del mondo si respira un’aria pesante. A chi toccherà domani? I licenziati tornano a casa propria, nello Yangtze, nello Hunan. Partono la mattina all’alba col treno, trascinando pesanti valigie. Difficile immaginare pensieri e sentimenti di queste persone mentre prendono posto nel vagone gremito. Il sibilo della vetturetta elettrica del capo non si sente più. I numeri dicono cose incredibili, impensabili. Davanti all’evidenza dello sfacelo, il signor Gou è troppo intelligente e severo con se stesso per concedersi rabbia, paura o illusioni. Con la lucidità e la freddezza di sempre, comprende che la sua stagione è finita. Altri prenderanno il posto che occupava. La Foxconn rappresenta un caso tra mille. Negli Stati Uniti tutti licenziano. Pfizer, Amd, ConocoPhillips, 75

Hertz, Wellpoint, Circuit City. Decine di migliaia di uomini perdono il posto di lavoro. Dopo l’apocalisse delle borse, la crisi del sistema creditizio investe l’economia reale. Il settore dell’auto tracolla all’improvviso, trascinando con sé l’intero manifatturiero. Nel gennaio 2009 gli ordini calano del quaranta per cento. General Motors appare sull’orlo della bancarotta, esattamente come Chrysler e Ford. Lo stato del Michigan rischia di perdere milioni di posti di lavoro. Detroit potrebbe diventare una città fantasma, strade umide di pioggia una mattina di ottobre, negozi chiusi, freeways deserte, spettrali. Le dimensioni dei fenomeni sfuggono dal campo della realtà, migrano nello spazio siderale delle pure astrazioni. Nel mondo circolano migliaia di miliardi di Credit Default Swap, detti Cds. Nati come strumento assicurativo contro l’insolvenza delle controparti contrattuali che abbiano emesso obbligazioni, sono diventati strumenti speculativi estremi, incontrollabili, micidiali. È possibile assicurarsi contro il fallimento di una piccola società, di un gruppo multinazionale o dello stesso governo americano. Se il governo americano fallisse, il contraccolpo cancellerebbe l’intera economia mondiale. Progettare di garantirsi contro un’ipotesi del genere è come prevedere un risarcimento in caso di impatto del sole sulla terra. Difficile presentarsi allo sportello, incassare. Eppure lo strumento esiste, circola. Ha un certo co76

sto, può essere venduto e girato. Prospettive concrete e scenari inimmaginabili convergono. La possibilità di comprare un chilo di pane, un litro di latte, convive con quella di scommettere allo scoperto sulla distruzione delle economie occidentali. I calcoli attuariali della finanza strutturata si disconnettono dalla speculazione stessa, descrivono una curva sempre più alta e solitaria nello spazio. L’ibridazione fra realtà e trading estremo genera possibilità inaudite. Ogni cosa può accadere. Ogni scenario diventa possibile. Oggi il petrolio costa cento, domani cinquanta, dopodomani chissà. Oggi dieci milioni di auto vendute, domani cinque, dopodomani chissà. Le fluttuazioni cessano di essere fluttuazioni, diventano salti di quiddità del sistema. È la caduta del confine originario fra dentro e fuori, alto e basso, luce e buio. L’avvento di un mondo allo stato nascente, immenso e inesplorato. Difficile descrivere il suo paesaggio. Riverberi di luce liquida, sostanze disaggregate, nuvole di gas? Probabilmente l’idea stessa di paesaggio è inadeguata, insufficiente. Meglio immaginare il movimento continuo, vorticoso di una somma infinita di punti. La fioritura incessante d’una moltitudine di scie. L’esatto contrario di un qualunque paesaggio. La crisi, nella vita concreta delle persone, è un lampo di luce bianca che rende straordinariamente nitidi i contorni delle cose. 77

Molti faticano a riconoscere la loro stessa storia nel paesaggio trasfigurato dalla difficoltà. Sono ristoratori alle prese col calo improvviso della clientela, che studiano menù a prezzo fisso (a mezzogiorno) e serate a tema (Le Delizie Friulane, La Festa del Crudo di Sauris) per recuperare qualche coperto. Sono gommisti senza automobili in lista d’attesa, perché la gente preferisce tenersi le gomme vecchie, consumate, distrutte, preferisce rischiare la vita ogni giorno pur di risparmiare duecento euro, così loro, i gommisti, controllano e ricontrollano il livello dell’olio nelle taniche, le cremagliere dei carri ponte, tanto per impedire che l’eco lontana delle mattinate piene di lavoro dissolva del tutto dai locali dell’officina. Sono ragionieri quarantenni che guadagnano duemilacentoquaranta euro mensili per quattordici mensilità – non male – col compito di presidiare l’ufficio amministrativo di aziende vacillanti, boccheggianti, sempre più assediate da banche e fornitori e funzionari dell’Equitalia Polis che chiamano in continuazione per sollecitare il pagamento di fatture e ricevute e assegni postdatati e canoni e rate e riscatti e provvigioni e fideiussioni. Arrivare in ufficio alle otto del mattino è come scendere in trincea. Dopo dieci secondi il telefono sta già squillando. Giuliana, la ragazza della segreteria, una biondina pallida e slavata, rifiuta di fare da filtro. Quando non trovano nessuno con cui parlare, i creditori se la pendono con lei. 78

Le telefonate sono un campionario magnifico di concitazione e rassegnazione e esasperazione. C’è Gianni Vielli, il titolare della Mavotherm, settantamila euro di fatture impagate da un anno e passa. Sono mesi che sostiene di dover rientrare entro cinque giorni pena il fallimento e cerca di far leva sulla propria (presunta) difficoltà per ottenere un po’ di liquido e alla fine chiude con la solita fase: Allora, posso contare su di voi, vero? C’è Stefano De Castro, trentasettemila euro per lavori di carpenteria e saldatura (anno 2007), che minaccia di andar lì, piantare un casino, sono due anni che aspetta, va bene?, due anni, porca troia!, e alza la voce, ti sembra di vederlo all’altro capo del filo, rosso in faccia, incazzato, inviperito, e grida che lui s’è rotto i coglioni, va bene? lui vuole i soldi, porca troia!, e continua a gridare sempre più forte, come risucchiato dalla sua stessa rabbia, finché la voce gli si spezza e un attimo dopo butta giù il telefono, sopraffatto da se stesso. C’è la signora Luigia, una delle venti segretarie dello studio del notaio Russo, che chiama due volte alla settimana, martedì e venerdì, e ripete come un disco rotto che ci sono delle notule inevase – la centodue e la centosei del duemilaotto – e prega di regolarizzare con sollecitudine e recita l’Iban del notaio come un mantra professionale. C’è il dottor Marco Fioraso, ex direttore generale dell’azienda defenestrato dalla sera alla mattina all’inizio 79

dell’anno per mancanza di risultati, che pretende il pagamento dell’ultima tranche della buonuscita (scaduta a marzo) altrimenti va dall’avvocato, dal magistrato, dal porporato, ed è furibondo anche lui, poiché dopo tanti mesi è ancora a spasso. Verso l’una, quando gli altri sono in pausa pranzo, i ragionieri quarantenni minacciati dal tracollo dell’azienda aggiornano il foglio excel delle scadenze. Gli arretrati dell’Iva, dei contributi, delle ritenute. Gli arretrati di fornitori, collaboratori e dipendenti. Gli assegni postdatati a garanzia di scoperti d’ogni genere. Tener sotto controllo gli assegni è un lavoro micidiale. Bisogna trovare i soldi e pagarli (quando possibile) oppure rinegoziarli (più spesso) oppure farli rimbalzare sul conto e rinegoziarli sul filo del protesto (ancora più spesso). La settimana precedente la direzione di Unicredit ha chiamato. Il nuovo responsabile o viceresponsabile dei fidi voleva incontrarli subito, immediatamente. «Il rapporto è irregolare e manca di elasticità» ha detto questo tizio pallido, dall’aria cupa, nel suo ufficio ai piani alti. «L’istituto non può tollerare questi sconfinamenti.» Era seduto dietro alla scrivania coperta di lettere e fascicoli e cartelle col logo della banca. «Tenga presente che ho disposizioni precise» aveva aggiunto. «Lo dica al signor Covre.» Aveva fretta. Doveva o voleva tagliare corto. Un uo80

mo magro, pallido, probabilmente malmesso di salute, che avrebbe firmato volentieri la condanna a morte dell’azienda perché preoccupato da tutt’altro e perché gli sembrava giusto condannare. Lo dica al signor Covre... Chi lo vedeva mai, il signor Covre? Quello correva come un pazzo da un capo all’altro dell’Italia, Udine, Imperia, Latina, in cerca di commesse, lavoro. Un paio di mesi prima loro avevano ottenuto settecentomila euro di finanziamento dalla Cassa di Risparmio per sistemare qualcuno dei debiti più scabrosi. E Covre cos’aveva fatto? Li aveva dirottati all’istante su un’altra società, per tentare di aggiudicarsi (così pareva) una commessa dalla Regione Piemonte. Quella era stata grossa! Tre mesi di lavoro per fare cassa e Covre storna subito i soldi! Avevano perso la pazienza. «Ma signor Covre» avevano detto nella grande sala riunioni dell’azienda, col tavolo di cristallo coperto di ditate. «Come faccio senza soldi? Venerdì c’è l’assegno di Frediani da coprire, solo lì sono centomila euro!» Siccome sapeva d’aver torto marcio, Covre s’era inalberato. Alto e robusto com’era, con quella faccia rotonda e gli occhietti vivacissimi, era diventato rosso come il fuoco. «Cosa vuole insegnarmi, eh, ragioniere?» aveva gridato. «Lei pensi al suo lavoro, va bene? Lei faccia quello che deve fare e non cerchi d’insegnarmi, va bene?» 81

Il peggio era che si trattava d’un buon uomo. Disperato anche lui, nonostante i cinquanta dipendenti e lo stabilimento di diecimila metri quadri e la Maserati nera come il fondo d’un pozzo di petrolio parcheggiata fuori. Uno che stava rischiando grosso e tentava qualsiasi cosa per tenersi a galla. Verso le due i ragionieri quarantenni vanno a pranzo in fondo alla strada, nel ristobar La terrazza degli Dei. Piccole statue di gesso bianco disseminate qua e là fra i tavolini dovrebbero forse rappresentare gli dei, sebbene abbiano piuttosto l’aria di pover’uomini preoccupati, smarriti e seminudi. Seduti al solito posto d’angolo, sfogliano una copia del «Gazzettino» spiegazzata dalle letture di altri clienti nel corso della mattinata. Mentre mangiano tortellini panna e prosciutto riscaldati al microonde, si domandano quanto tempo potranno sostenere quella pressione, quel logoramento. Sono sempre più stanchi, indeboliti. Ogni singola giornata distrugge una particella di fiducia. La possibilità di ritrovare un passo normale sembra lontana, dimenticata. Una volta o l’altra, uscendo dalla porta dell’azienda, si troveranno davanti qualche fornitore col fucile a pallettoni pronto a fare fuoco. Sulle loro chiappe, mica quelle di Covre. Facile fa’ i froci col culo de l’altri! Questa l’aveva detta Stefano Ricucci nel corso di una conversazione intercettata e finita sui giornali. Grande battuta! Leggendola 82

sul «Corriere» erano morti dal ridere e l’avevano fatta propria all’istante. Facile fa’ i froci col culo de l’altri! Appena tornano in ufficio, il telefono sta squillando. De Castro o la signora Luigia, probabilmente. All’inizio di ottobre, dopo l’ennesima alzata d’ingegno di Covre (il rifiuto di ipotecare il Piruea di Treviso per sostenere gli affidamenti) erano stati visitati dal sospetto che l’uomo non credesse più nell’azienda. Forse stava pensando di tirare i remi in barca, dirottare altrove contratti e soldi. Avevano cominciato a guardarsi intorno, cercare altre strade. Una mezza parola al commercialista della società, che seguiva tantissime aziende. Un’altra all’avvocato, giovanotto allegro e sorridente che prometteva sfracelli e concludeva ben poco. E poi le agenzie di lavoro interinale. In sei mesi avevano sostenuto un colloquio preliminare e stop, attraverso l’amico di un amico. Nessuno cercava. Nessuno chiamava. Nessuno assumeva. Le banche al collasso, la recessione... L’avevano ripetuto a se stessi decine, centinaia di volte, per combattere l’ansia. Eppure c’era dell’altro. Un problema più insidioso. Erano vecchi. Ecco cosa. Vecchi. A quarantadue anni, il mercato fa volentieri a meno di te. Sei formato su procedure superate. Sei poco flessibile. Sei costoso. Perché dovrebbero assumerti? 83

Quanto tempo occorre, per perdere tutto? Nel giro di pochi mesi la vita s’era ribaltata, sbalzandoli via dal loro territorio. Faticavano a riconoscere se stessi. Una domenica mattina, mentre assistevano alla partita di calcio di Giovanni, avevano avuto un capogiro. Qualcuno li aveva accompagnati giù dalla piccola tribuna, sostenendoli a braccia lungo la scala di cemento. Seduti sulla seggiola di plastica sotto agli ombrelloni del bar, dovevano tenere lo sguardo fisso sul tavolino o la seggiola di fronte, altrimenti il paesaggio franava, crollava. Le cose sembravano sul punto di riempirsi di buio. Un amico voleva chiamare l’ambulanza. Avevano impiegato venti minuti per riprendersi. Per fortuna Giovanni, dal campo, non s’era accorto di niente. Gli esami avevano chiarito il problema. Pressione alta, altissima. 130 di minima e 200 di massima. Il dottore aveva prescritto Adalat 6 e dieta e riposo. Anna era preoccupata da morire. Anche i bambini. L’atmosfera in casa stava cambiando. Il pericolo si sentiva, si respirava. Verso le otto e mezza di sera, quando escono dall’ufficio (dovrebbero esser fuori alle sei), l’aria di maggio è dolce, profumata, magnifica. Raggiungono la Kia Carnival parcheggiata vicino al cancello e guardano la distesa dei campi oltre la recinzione. Le sagome delle montagne all’orizzonte, poco più dense dell’azzurro del 84

cielo, sembrano una promessa di riparo, di protezione dagli attacchi. Unicredit ha chiamato di nuovo all’inizio del pomeriggio. Volevano Covre e soltanto Covre (che naturalmente era fuori sede). Forse il momento della verità stava arrivando. La fine dell’agonia. Stavano affondando avvinghiati a Covre, stavano per essere fucilati insieme al generale sconfitto, perché erano ancora lì, sempre lì, nel quartier generale bombardato, senza altri posti dove andare. Era stata colpa loro? Li avevano traditi? Possibile che tutto quanto fosse diventato così difficile? Per tanti anni avevano votato Berlusconi. Un uomo pieno di ombre, capace di tutto per difendere i propri interessi. Eppure l’unico possibile da votare, perché credeva nelle persone, nel lavoro. Perché difendeva l’ordine generale delle cose. Da ragazzi avevano fatto gli animatori in parrocchia. Prendevano parte agli incontri dell’Azione cattolica, alle iniziative di solidarietà. Il mondo era un posto accettabile o persino bello, se sceglievi la strada giusta. Milioni di persone impegnate a costruire, gente che si alza la mattina, fa il proprio lavoro e torna a casa la sera per giocare coi bambini. Adesso quella fiducia li aveva abbandonati. Dovunque le persone annaspavano. Il fornitore senza soldi. Il titolare pieno di rogne. Il dipendente sul punto di trovarsi per strada. Tutti dentro una specie di risucchio, di 85

gorgo. La difficoltà diventava un raschio sulla pelle e una stanchezza senza fine. Probabilmente s’erano ingannati su loro stessi. Pensavano di essere persone tenaci, in grado di reggere la pressione. Dotate dell’attrezzatura necessaria per fronteggiare la difficoltà. Gli eventi degli ultimi mesi raccontavano un’altra storia. Da cosa si giudica un uomo? Dai risultati. I loro sono stati assai mediocri. Fatica e delusione producono un cupo, quasi folle sollievo. Cominciano ad intravedere una parte inaspettata e segreta di loro stessi, che mai avrebbero immaginato di custodire in qualche punto del cuore. Hanno due figli piccoli. Garantire un futuro ai bambini è sempre stata la prima preoccupazione. Eppure, quando si arriva dove loro stanno arrivando, persino i figli perdono importanza. C’è la casa dei nonni. C’è il lavoro parttime di Anna. Qualcuno o qualcosa salverà i bambini. Stanno per raggiungere l’ultima stazione, dove le luci diventano fioche e niente somiglia a ciò che conoscevi. Rinunciare a lavorare. Alla famiglia. Agli amici. Trasformare la vita in sogno attraverso la rinuncia. Affidarsi completamente alla solitudine. Non dover decidere nulla. Non avere alcuna esigenza. Appartenere alla comunità dei deboli e dei fuoriusciti ai quali non si chiede nulla. Limitare il futuro (desideri, aspettative, progetti) alla pura sopravvivenza: la ricerca di cibo o riparo, un giorno dopo l’altro. 86

Liberarsi da se stessi senza commettere suicidio. Rannicchiarsi sul fondo e aspettare, come un sogno senza fine, che tutto finisca. Questi pensieri li visitano sempre più spesso. Sono diventati una nuova, feroce consolazione. Fanno manovra. Escono dal parcheggio dell’azienda. Chissà quanti, nelle macchine in transito, sono messi come loro. Imboccano la rampa della superstrada. L’abitacolo è silenzioso e ovattato. Il display sul tachimetro dice che la temperatura esterna è di ventidue virgola cinque gradi. Essere sospesi tra una vita e l’altra sta diventando un’abitudine. Il telefonino comincia a squillare. Non hanno bisogno di estrarlo dalla tasca per sapere chi è. Anna vuol sapere dove sono, fra quanto arriveranno. Le telefonate serali di Anna sono la ricapitolazione d’ogni cosa: legami, speranze, responsabilità, paure, consolazioni, doveri. Ascoltano lo squillo dell’apparecchio con stupore crescente, stanchezza crescente, chiedendosi quanto durerà.

7.

La tara dei non-insediati

L’ho conosciuta a una festa, tanti anni fa. Sorrideva tra i ballerini sculettanti in modo sovresposto, denunciando timidezza. Carina. Molto carina. Nettamente superiore al mio standard, se vogliamo. Occhi azzurri. Capelli castani. Viso perfetto. Indossava un vestitino nero, corto, piuttosto impegnativo, che la inceppava un po’. A distanza di tanti anni, il ricordo dell’approccio è svanito. Forse qualcuno ci ha presentati. Oppure mi sono fatto avanti io (improbabile). Oppure s’è fatta avanti lei (inverosimile). Un buon libro dovrebbe essere scritto diversamente: dovrebbe descrivere con esattezza la dinamica dell’avvicinamento, il movimento fisico e psicologico dei personaggi, le loro parole (dai significati possibilmente non univoci, bensì stratificati), la progressione degli eventi fino allo scioglimento finale, il primo bacio eccetera... Purtroppo, niente di tutto questo. Il ricordo comincia dal doposerata. Sono rientrato a casa verso l’una. Ero ga89

sato. Euforico. Trionfante. L’ho cuccata, pensavo, in perfetto stile Mediaset. L’ho cuccata, cazzo! Andavo su e giù attraverso la stanza. Sedevo sul letto. Mi alzavo in piedi. Passavo in cucina a bere dell’acqua. Tornavo indietro. Nella mente un solo pensiero: l’ho cuccata! Un bel momento, ho fatto un bagno caldo, piuttosto incongruo nel cuore della notte, per godere della soddisfazione nel modo più intenso possibile. Abbiamo cominciato a uscire insieme. L’andavo a prendere verso le tre del pomeriggio in corso Vittorio Emanuele, un palazzo dal portone massiccio e dalle finestre incorniciate di lesene, a bordo della mia Vespa 50 truccata e sequestrabile in qualsiasi momento. Con le Clark’s sfondate, i jeans stinti e il giaccone di renna coperto di graffi e strappi, potevo sembrare un barbone giovane, sebbene l’effetto d’insieme fosse altamente calcolato. Lei era una persona attenta e ipersensibile e incerta e coglieva all’istante ogni minimo segno di noia o insofferenza altrui. Custodiva un’ombra di tristezza talmente in ricaduta e profonda da infiltrare gli altri stati emotivi come un agente mutageno. La sua allegria era sempre un po’ vaga, la sua attenzione un po’ rarefatta. Aiutava i poveri. Due volte alla settimana distribuiva pasti caldi presso la Caritas. Andava al reparto di oncologia pediatrica per tenere compagnia ai bambini termi90

nali, che faticavano a reggere la matita per colorare la criniera del leone. Lo faceva per espiare la colpa d’essere viva, dopo alcuni disastri familiari che l’avevano resa del tutto incapace di felicità. Una ragazza vulnerata, tormentata. Molto restia a legare col prossimo. La portavo alle feste pomeridiane del Big Club. Ci piazzavamo su qualche divanetto in compagnia di Marco e Stefano, a bere Coca-Cola e Beck’s e a guardare intorno con aria cool, almeno nelle intenzioni. Le altre ridevano, ballavano sulla pista di plexiglas e andavano avanti e indietro dal bar, dalla terrazza, dai bagni, da ogni luogo. Lei stava seduta sul divanetto. Presidiava il confine invisibile fra tentativi di socializzazione realizzabili e tentativi fuori portata. La bellezza non le aveva conferito forza o sicurezza. Quando provava a fare un giro in pista o chiacchierare un po’, avvertivi la difficoltà della manovra, la fatica dell’intenzione. Marco e Stefano sorridevano con le Beck’s in mano. I loro sguardi allegri brillavano nei lampi delle luci strobo. Un sottile disagio cominciava a farsi strada. Sempre più timidezza e distanza si mostravano per ciò che erano: una fonte di imbarazzo. Una specie di tara. Un bel giorno era comparso il soprannome: la Morta. Non so chi sia stato ad inventarlo. Di certo aveva incontrato. Ben presto tutti la chiamavano così. E Bugaro che fa? Arriva dopo, con la Morta... 91

Il capitolo finale della storia era stato scritto un sabato pomeriggio di fine ottobre, con vento freddo e foglie fradice dappertutto, nella navicella satura di musica e corpi e lame di luce multicolori del Big Club. Seduti sul divanetto, guardavamo quadri flashanti di mani e gambe e schiene e capelli giù in pista, nemmeno sfiorati dall’idea di ballare anche noi. Lei aveva la testa appoggiata sulla mia spalla. Atteggiamento tenero? Quel giorno mi pareva soprattutto appiccicoso. Un bel momento mi sono alzato per raggiungere Marco e Stefano davanti al bar. Ridevano con le bottiglie di Beck’s in mano e indicavano questa o quella pollastra e scambiavano commenti irriferibili. Sembrava di essere passati dalla tundra alla spiaggia di Ipanema. Per mettermi in pari, anch’io ho preso una Beck’s e mi sono seduto sullo sgabello e ho piantato il gomito sul bancone con aria da grand’uomo. La gente andava e veniva. Voci, saluti, risate. Qualcuno ha chiesto un panino alla mortadella (era una discoteca per adolescenti). Ascoltavo i discorsi. Ridevo alle battute. Guardavo la gente sulla pista da ballo, sulle scale, corpi irradiati dai bagliori della luce stroboscopica, corpi che ondeggiavano nel flusso della musica come appendici di un organismo indifferenziato, tentacoli di anemoni di mare. Tutto fuorché tornare al divanetto. Mi faceva incazzare il suo aspettarmi lì. E gli occhioni supplichevoli. E la tristezza. E il dovere di starle vicino. 92

Tutto quanto mi faceva incazzare sempre più e non capivo perché. Un bel momento Stefano ha detto: «Vado a comprare le sigarette al bar della rotonda». E io: «Ti accompagno». M’ha guardato interrogativo. Ho alzato le spalle. Fuori era buio e le foglie fradice sull’asfalto sembravano la traccia d’una stagione trascorsa, dimenticata. L’aria fredda sul viso mentre viaggiavamo in Vespa verso Città Giardino era pura e magnifica, dopo il caldo soffocante della discoteca. Abbiamo raggiunto il bar, comprato le sigarette. Poi abbiamo bevuto una cioccolata e leggiucchiato un po’ il giornale spiegazzato. «Perché non facciamo un salto da Rocco?» ho detto alla fine. «Tanto per vedere chi c’è.» Siamo tornati al Big due ore dopo, quando la gente stava sfollando. Lei era in piedi accanto alla porta d’ingresso, con espressione incredula, smarrita, disperata. Come hai potuto farlo, eh? Diceva quell’espressione. Come hai potuto? Neanche l’avessi abbandonata in mezzo al deserto! Che cazzo vuoi da me? Ho risposto senza aprire bocca. La finisci una buona volta, con queste faccette disperate? Lei ha vacillato. Tutto era fin troppo facile da capire, eppure faticava a crederci. Abbiamo attraversato la strada senza scambiare una parola. Abbiamo raggiunto la fermata dell’autobus sen93

za scambiare una parola. All’improvviso eravamo alla fine e volevo soltanto metterla sull’autobus, sganciarmi, tornare dagli altri. Era una persona debole, insicura, vulnerata, e non rischiavo niente. Si chiamava Stefania e aveva occhi bellissimi, viso bellissimo. Era figlia di un medico e di una nobildonna dal sorriso svagato, svogliato. Una famiglia dotata di status e denaro e relazioni d’ogni genere, ma tutt’altro che fortunata. Fisicamente il fratello maggiore le somigliava ben poco. Un ragazzo bruno e acceso, dagli occhi brillanti e dal sorriso aperto, come d’eterno incoraggiamento nella distanza congelata delle fotografie. Fino ai quindici o sedici anni la vita del ragazzo era stata un movimento lineare e privo d’attriti grazie al vantaggio sociale. Aveva valanghe d’amici, tirava di scherma, faceva vacanze studio in Inghilterra. Il mutamento s’era annunciato con una serie di rinunce inspiegabili, di arretramenti senza ragione. Aveva smesso di girare con l’Enduro comprato pochi mesi prima. Smesso di andare in montagna a sciare. Stava in casa, davanti alla finestra della camera da letto. Guardava il prato del giardino coperto di brina. Erano comparse abitudini poco rassicuranti. Usciva di primo mattino, senza meta. Vagabondava attraverso la città, seguendo una misteriosa rotta interiore. La madre riceveva telefonate da negozianti e baristi dell’estre94

ma periferia che dicevano d’avere lì un ragazzo confuso, spaesato. A volte usciva in maniche di camicia con l’aria sottozero. Prendeva bronchiti, polmoniti. Lo avevano portato dal neurologo e poi dallo psichiatra. Le risposte di quell’uomo sui sessanta, dal viso magro, come scarnificato dalle sofferenze altrui, erano state una condanna incapace di sorprendere, un colpo al cuore annunciato. I farmaci l’avevano intorpidito e gonfiato. Stava a letto fino a mezzogiorno, privo di forze. Nonostante le cure, la situazione peggiorava. Parlava poco, sempre meno. Lo strazio distruggeva ogni risorsa. Faticava a tracciare linee nette fra pensieri e realtà. «Dov’è questa?» chiedeva, mostrando la forchetta. «Fuori o dentro?» Certi pomeriggi piangeva a lungo, mormorando frasi incomprensibili. Inutile dire che il profitto nello studio era sceso a zero, di fatto non frequentava più la scuola. Un giorno era salito a bordo della macchina della madre. Guidando a strappi (aveva diciassette anni e niente patente) s’era immesso nella circonvallazione. Dopo poche curve aveva centrato in pieno il motorino d’una donna, sbalzandola oltre il guard-rail. Era un’operaia di cinquant’anni, di ritorno dal lavoro in cartiera. Bacino e femore fratturati, più un’infinità di traumi minori. Il lungo ricovero era stato complicato da un’embolia. Gli avevano messo un infermiere al seguito. Il suo vi95

so s’era gonfiato, deformato. La schizofrenia l’aveva reso una maschera. Mancava poco a Natale, quando aveva deciso di farla finita. Per spiccare il salto aveva scelto la finestra della camera da letto dei genitori, approfittando di un attimo di distrazione dell’infermiere. Era morto nel reparto di terapia intensiva del policlinico dopo una settimana di agonia. All’epoca lei aveva tredici anni. Per qualche settimana era rimasta tramortita, senza poter collocare la fine del fratello in continuità con nessun altro aspetto della vita. C’era la famiglia, la scuola, la città, e poi quell’evento enorme, del tutto sganciato dal resto. La morte sedeva in fondo alla stanza, silenziosa, immobile. Avrebbe aspettato a lungo, poi avrebbe fatto un minuscolo gesto. I compagni di scuola non capivano, non sospettavano. Sarebbe stato impossibile sentirli di nuovo vicini. A quel punto era comparsa la differenza, la distanza da ogni cosa. Il volontariato presso il reparto di oncologia pediatrica, le serate alla Caritas. Naturalmente sapevo tutto questo fin dall’inizio. Avevo ascoltato i suoi lunghi racconti pieni d’angoscia senza sbocco e asciugato parecchie lacrime. A volte passavamo interi pomeriggi a parlare, seduti al tavolino d’angolo di qualche bar. Sembrava l’unico sollievo. Cercava l’aiuto di qualcuno ed ero capitato io. Ma avevo diciassette anni, ero lanciato nella corsa, del 96

tutto disinteressato agli altri. Che m’importava delle fragili corazze d’una ragazzina nel tentativo di difendersi dal male? Avevo fin troppe difficoltà e incertezze e tormenti miei. Per decidere di farla finita m’è bastato un attimo. Perché solo le persone insicure e vulnerabili, all’apparenza più capaci d’ascolto, sanno essere veramente ciniche, distruttive. Solo loro sanno tradire fino in fondo, senza rimorsi, assolte come si sentono dalla propria difficoltà. È la tara dei non-insediati, quelli che sembrano provvisti della miglior attrezzatura per vedere e comprendere, delle migliori idee sul mondo, ma sono bugiardi e avari di sé. E sprecano tutto, perché incapaci di fedeltà.

8.

Congedo

Qualche anno fa non avrei scritto questo «congedo». Mi sarei fermato al capitolo precedente, così amaro e privo di indulgenza. Una nota di pessimismo radicale e doverosa autocritica: quale miglior conclusione per un libro? L’autocritica, naturalmente, va sempre bene. Tuttavia negli ultimi tempi il pessimismo mi sembra un po’ usurato, sterile. Ho rivalutato il sorriso, la fiducia. Un happy end è una specie di debito, di parola da mantenere. Se un medico dice: «Tranquillo, lei guarirà», assume una bella responsabilità. Con la speranza si lancia il sasso e poi tocca tenere in vista la mano. Quindi lanciamolo, questo sasso – sebbene il rischio, per chi non pratica la medicina come il sottoscritto, sia piuttosto modesto. E allora: certo il pianeta sta rischiando la catastrofe e la vita risulta sempre più difficile per milioni di persone e terribili mostri dominano la scena pubblica etc. etc., 99

tuttavia, come insegna il film Le cronache di Narnia, un bel giorno il ghiaccio si scioglie per forza. Perché? Basta pensare alla lista di nomi all’inizio di questo libro. Alla forza inesauribile della letteratura. All’aria trasparente di una sera d’aprile, nel Sud della Francia, guardando le luci lontane di Ramatuelle. What the hell am I doin’ here? / I don’t belong here... Un bel giorno – di solito verso i quaranta – si capisce che ci vogliono le canzoni tristi, per sentirsi bene. I non-insediati hanno esperienza, le canticchiano tutto il tempo.