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Italian Pages 265 [131] Year 2015
INDICE
1. Cenni biografici,_p.7 2. Prologo, p.21 3. I primi tre, p.27 4. Macbeth e Almanacco d'autunno, p.49 5. Perdizione, p.61 6. Satantango, p .80 7. Le armonie di Werckmeister, p.151 8. L'uomo di Londra, p.185 9. Il cavallo di Torino, p.199
APPENDICE
Nota del curatore, p.228 Intervista a Béla Tarr, p .230 Intervista a Fred Kelemen, p.235 Intervista a Mihaly Vfg, p.241
Filmografia, p.249 Bibliografia, p.257
1. CENNI BIOGRAFICI
Si, davvero, è il mio ultimo film. Per una ragione molto semplice, che magari dal film non si vede, ma veramente è cosi. Davvero, non voglio ripetermi. Come ho detto anche stamattina al New York Times, fare il regista è un bel mestiere, un bel mestiere "borghese". Di film posso farne ancora dieci, quindici. Di ripetermi, sarei anche capace - ma non lo voglio fare. Non voglio fare film solo per prendere soldi. Non ce n'è ragione. Il pubblico lo rispetto, come rispetto il mio lavoro. E sento che il lavoro è terminato, la casa è finita, e non c'è ragione per fare ancora altro, davvero. È tutto lf, noi lo abbiamo fatto, voi lo potete prendere, o lasciare. Non so che altro dire. Volevo fare un film molto puro, molto semplice e molto minimale su qualcosa di molto umano e ordinario. Di più, non posso fare. Certo, potrei, se lo volessi. Ma non voglio, davvero. E voglio proteggere il mio lavoro - anche da me s tesso.
Quando Béla Tarr pronuncia queste parole, ai primi di ottobre 2011, durante un incontro col pubblico del New York Festival, il suo ritiro dal cinema è ormai da mesi cosa nota e discussa. Voci insistenti erano cominciate a circolare già prima che iniziasse la lavorazione della sua opera finale, A torin6i 16 (Il cavallo di Torino). Nel Febbraio 2011, al sessantunesimo Festival di 'Berlino, dove il film è stato presentato vincendo l'Orso d'Argento (Gran
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Premio della Giuria), il cineasta ne aveva dato l'annuncio ufficiale. Si è abituati a non prendere eccessivamente sul serio gli annunci di fine carriera da parte dei registi. Theo Angelopoulos, Amos Citai, Emir Kusturica, sono solo alcuni tra coloro che hanno dichiarato di smettere, senza poi tenere fede a tale proposito. Steven Soderbergh, poi, ha annunciato almeno due o tre volte l'abbandono, smentendolo poi ogni volta sistematicamente di lì a poco con un nuovo film, magari barando (cioè realizzando prodotti inizialmente pensati solo per la televisione, come Behind the Candelabra, Dietro i candelabri, 2013). Nei mesi che hanno seguito la kermesse berlinese, tuttavia, Béla Tarr ha ribadito in numerose occasioni (come quella newyorchese citata più sopra) la sua ferma, irrevocabile decisione di lasciare. Ci si augura senz'altro che al momento in cui il lettore avrà sotto gli occhi questo libro l'ungherese ci abbia ripensato, e che abbia dato seguito in qualche forma alla sua filmografia. Ad ogni modo, che lo abbia fatto o meno, il punto non è questo. La rilevanza del suo annuncio relativamente prematuro (di norma, a cinquantasei anni un regista è tutt'altro che anziano) non dipende da che sia effettivo o meno. Il solo fatto di averlo compiuto entra infatti in potente risonanza con il cinema di Tarr stesso. Ciò che rende riconoscibili le sue pellicole (specie dalla metà degli anni Ottanta in poi), almeno quanto la loro ormai leggendaria dilatazione temporale, è infatti l'inconsistenza di qualsiasi prospettiva teleologica. Qualsiasi ipotesi di un qualche futuro, qualsiasi velleità di piegare il tempo in modo da farne una linea retta che porti al raggiungimento di qualche obiettivo, qualsiasi cammino narrativo provvisto di una direzionalità e di un orientamento in avanti, si rivela sostanzialmente un'illusione. La fine non è innanzi, ma è già _qui, qui ed ora. È questa, la connotazione principale del cinema di Béla Tarr.
Alla luce di ciò, un lavoro monografico su questo autore non solo può, ma deve cominciare dalla fine. Ogni suo film, da ben prima del 2011, è un annuncio della fine, un sigillo apposto sulla certezza che, davanti a noi, non c'è nulla. · La citazione in esergo ci suggerisce anche qualcos'altro. Il lavoro è terminato, la casa è finita. Il cineasta paragona la sua opera a una casa in costruzione che a un certo punto viene definitivamente ultimata. È assai indicativo che venga impiegata proprio una metafora spaziale. In effetti, dire che il suo cinema esprime innanzitutto l'inconsistenza di qualsiasi prospettiva teleologica non è sufficiente. A questo mancato avanzare del Tempo, si accompagna sistematicamente una netta preponderanza detlo Spazio, secondo modalità che verranno analizzate nel dettaglio solo in seguito. Prima, però, va pagato l'inevitabile dazio alla finzione biografica, alla descrizione consueta dello sviluppo organico della vita e delle opere; una descrizione che presuppone uno scorrere placidamente cronologico contro cui l'autore di Sdtdntang6 (Satantango) si scaglierà lungo più di trent'anni di carriera1.
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Béla Tarr nasce il 21 Luglio 1955 a Pécs, nel sud dell'Ungheria. È comunque a Budapest che passerà la maggior. parte della sua vita, fin da piccolo. Il suo ambiente di provenienza è piuttosto distante da quello, spesso ai confini del miserabile, ritratto nei suoi film. La famiglia gravita intorno agli ambienti artistici. Il padre è scenografo, la madre suggeritrice a teatro. Benché a dieci anni gli capiti di ottenere un piccolo ruolo in un adattamento di Tolstoj prodotto dalla televisione magiara, la sua vocazione sarà un'altra e assai precoce. In occasione del quattordicesimo compleanno, il padre gli regala una cinepresa 8mm. Già a sedici anni realizza i primi filmi.ni amatoriali in piena regola. All'epoca, la sua ispirazione principale è, come si suole (non
troppo precisamente) dire, docwnentaria. Ad animarlo è la benintenzionata volontà di far vedere le cose come sono, e non attraverso le bugie che solitamente ingolfano gli schermi. Il che vuole essere, innanzitutto, una presa di posizione di carattere politico e sociale. Negli anni del liceo, Béla frequenta gli ambienti di una sinistra radicale in qualche modo para-maoista e improntata al culto della classe operaia. Questi gruppi cercavano sistematicamente di istituire contatti concreti con i ceti meno abbienti, ed è una di queste occasioni a far scaturire la prima vera opera del giovanissimo regista. Egli si imbatte in alcuni operai gitani che avevano scritto una lettera a Janos Kadar (allora Segretario Generale del Partito Socialista Ungherese dei Lavoratori) con la quale chiedevano il permesso di poter andare in Austria a lavorare, data l'assenza di lavoro in patria. Nell'Ungheria dei primi anni Settanta, si trattava di un'irraggiungibile utopia. Tarr chiede dunque loro di spiegare le proprie ragioni davanti alla cinepresa; nasce cosi Vendégmunkdsok (Lavoratori stranieri), film (andato perduto) che vince subito un festival di cinema amatoriale, e che viene mostrato in molti circoli operai, nelle fabbriche, nei dormitori e altrove, grazie principalmente agli sforzi in prima persona da parte del regista stesso per fornire una circolazione alternativa a una pellicola ovviamente indistribuibile. Il Partito non apprezza. Nessuna ritorsione immediata ma, finito il liceo, Béla scopre che gli è completamente preclusa l'iscrizione a qualunque università. Va dunque a lavorare in un cantiere navale dal 1973 al 1976, prima di lasciare per scarsa idoneità fisica (e un infortunio alla schiena). A quella cinematografica, si accompagna ora un'altra vocazione, quella per la filosofia. Non dura molto. Anche in quel caso, le gerarchie del regime non si mostrano troppo accondiscendenti. Cerca di entrare nel Dipartimento di filosofia dell'Università ELTE di Budapest, ma si ferma agli esami preliminari: l'affermare che il Manifesto di
Marx non era un programma politico ma un'opera d'arte, e che il comunismo è un movimento informale e non un'organizzazione politica istituzionalizzata, lo mettono prevedibilmente in cattiva luce. Ripiega facendo il portiere in un quartiere operaio della capitale. Nel frattempo, il suo avvicinamento al cinema segue più la via dei caparbi tentativi di pratica che quella, canonica per tanti suoi futuri colleghi, dell'autoformazione cinefila. Non è un frequentatore granché assiduo delle sale oscure - anche se, interrogato al riguardo, Tarr ammette una certa ammirazione per i nomi classici del modernismo di quegli anni, come Rainer Werner Fassbinder, John Cassavetes, Akira Kurosawa, e soprattutto il primo Jean-Luc Godard. Più che altro, continua a realizzare filmini amatoriali - spesso premiati ai festival di settore. È in una di queste occasioni che viene a contatto con la cosiddetta Scuola di Budapest, un movimento di rinnovamento cinematografico attivo negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta grazie all'autonomia di cui godeva, di fatto, lo Studio Béla Balazs, uno degli studi cinematografici in funzione in quegli anni in Ungheria. Lo Stato concedeva a quello Studio mezzi esigui, ma anche la possibilità di una sostanziale autogestione, il che permise lo sviluppo di una corrente marcatamente sperimentale e avanguardistica (il cui principale esponente fu senza dubbio Gabor B6dy), a fianco di una spiccatamente docwnentaristica (i capofila • della quale erano lstvan Darday e Gyorgyi Szalai). Tarr all'epoca è certamente più affine alla seconda, ed è nell'ambito di essa che si impratichisce come assistente. È però anche a strettissimo contatto personale con 86dy, per anni (ha anche un piccolo ruolo in uno dei suoi film), prima del suo suicidio nel 1985. Tra le persone che conoscerà una volta entrato nelle grazie della Scuola di Budapest c'è Agnes Hranitzky, sua futura compagna e, con l'evolvere della sua carriera, collaboratrice sempre più indispensabile. È al montaggio che viene generalmente accreditata, 11
ma le testimonianze concordano nel ritenerla, di fatto, una coregista pressoché a tutti gli effetti. Presentissima e attivissima sul set, pare svolga un ruolo di vitale mediazione tra regista e resto della troupe, e che prenda non di rado decisioni che influiscono radicalmente sul processo creativo. Grazie allo Studio Béla Balazs, il Nostro riesce a realizzare il suo esordio ufficiale ad appena ventidue anni. L'antefatto merita di essere ripercorso. Una sua conoscente, Irén Szajki, riceve l'avviso di sfratto da un appartamento che stava occupando abusivamente. Il giorno in questione, Tarr si nasconde in un edificio antistante, dal quale sarebbe riuscito a filmare la rimozione. Poco prima dell'ora prefissata, tuttavia, viene trovato e arrestato. Subito dopo l'avvenuto sgombero da parte della polizia, Béla viene liberato. Irén, però, non ha un posto dove andare, e deve tornare dai suoi. L'Ungheria stava vivendo una gravissima crisi degli alloggi, e un'enorme quantità di famiglie (compresa quella di Irén) erano costrette a vivere e convivere in appartamenti drammaticamente sovrappopolati. Nasce cosi Csaladi tuzfészek (Nido famigliare, 1977), nel quale attori non professionisti (a cominciare da Irén medesima) inscenano una storia di ordinario disagio abitativo. Il film ottiene una certa eco, e nel 1979 porta a casa il Gran Premio del Festival di Mannheim. Come sempre nella sua vita, Tarr rimane comunque un outsider: benché ormai inserito nello Studio Béla Balazs, è l'unico a non essere uscito da una scuola di cinema. L'ambiente cinematografico magiaro, rigidamente istituzionalizzato, non lo vede di buon occhio, ma ormai rifiutare l'ammissione alla scuola di cinema ufficiale della sua nazione (l'Accademia di Teatro e Cinema, a Budapest) a questo giovane cosi palesemente talentuoso è diventato improponibile. Più che frequentare le lezioni, a Tarr interessa l'utilizzo dei mezzi messi a disposizione da quella struttura: egli rimane in gran parte un autodidatta. Ne risulta un'altra pellicola (che uscirà nel
1980), la prima forse che presenti i crismi di una produzione tradizionale. Il titolo gli somiglia: Szabadgi;alog (L'outsider). Nel frattempo, però, i membri principali dello Studio Béla Balazs perdono, per anzianità, il diritto a ricoprire cariche gestionali. Il rischio di smarrire per strada la leggendaria autonomia che lo Studio era riuscito a crearsi è concreto. Si tenta di ovviare attraverso la creazione, nel 1980, di un altro Studio: Tarsulas (in lingua ungherese: Associazione). Insieme a Tarr e a Laszl6 Vitézy, il più influente tra i fondatori è lstvan Darday, che fin dall'inizio indirizzerà la nuova realtà produttiva verso il documentarismo socialmente consapevole che già aveva caratterizzato la fazione più in vista dello Studio Béla Balazs . Poco dopo, ad ogni modo, vi confluirà anche la corrente avanguardistica e sperimentale di B6dy e compagni. Fra essi, spicca Andras Jeles, uno dei giovani registi che si sono fatti le ossa con profitto al Tarsulas. È lì che gira il suo secondo lungometraggio (Alombrigad, La brigata del sogno, ultimato nel 1983 ma a lungo bloccato dalla censura), prima di cambiare casacca e girare con una produzione relativamente grande il visionario Angi;ali iidvozlet (L'annunciazione, 1984), a tutt'oggi film culto anche fuori dall'Ungheria. Fino al 1985, lo Studio (che annoverava per statuto nel comitato direttivo anche alcuni esperti di scienze sociali) riesce a prolungare l'indipendenza che caratterizzò lo Studio Béla Balazs degli anni Settanta. Se durò solo cinque anni, è perché i soldi messi a disposizione dallo Stato erano pochi, e dovevano essere spartiti con i più inquadrati e istituzionali Studi tradizionali. Questi ultimi, da subito ingaggiano con lo scomodo nuovo arrivato una vera e propria guerra che finirà appunto con lo scioglimento dello Studio Tarsulas a metà del decennio. La sua specializzazione all'Accademia finisce nel 1982, anno in cui Tarr gira Panelkapcsolat (Rapporti prefabbricati) e ottiene con esso una menzione speciale al Festival di Locarno. Adatta inoltre per la televisione (rielaborando il suo saggio di diploma) il Macbeth
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di Shakespeare. In esso fa la sua prima comparsa la cifra stilistica con la quale il cineasta verrà sistematicamente etichettato nei deceruù a seguire: la long take. In poco più di 60 minuti, solo due inquadrature; una macchina da presa in virtuosistico e costante movimento segue gli attori, senza stacchi di montaggio, tra nebbia e fiaccole nel sistema di cunicoli sotterranei del Castello di Buda, nella capitale magiara. Altra storia radicalmente teatrale (l'ispirazione stavolta è però riconoscibilmente fassbinderiana) che, come quella resa immortale dal Bardo, verte sull'ordinaria malignità umana e soprattutto sulla manipolazione, è quella di 6szi almanach (Almanacco d'Autunno, 1985), scritto insieme a Jeles. È anche l'ultimo suo film prodotto dallo Studio Tarsulas. In occasione di una proiezione per la stampa, Tarr riceve dal noto storico della letteratura Péter Balassa il manoscritto di un romanzo che a suo parere lo avrebbe interessato: Satantang6, di Uszl6 Krasznahorkai. La lettura produce immediato entusiasmo: comincia, tra lo scrittore e il regista, un sodalizio artistico che durerà ininterrotto fino a Il cavallo di Torino. I due stendono una sceneggiatura prontamente approvata dallo Studi6 Tarsulas - il quale, tuttavia, sarà costretto a chiudere i battenti appena pochi giorni dopo. Solo nel 1994 Satantango potrà vedere la luce. Dieci aruù prima, senza Tarsulas alle spalle, Tarr è una figura totalmente marginale ed estranea al mondo del cinema della sua nazione. Di lui, gli studi cinematografici non ne vogliono assolutamente sapere. E anche la sua reputazione critica, in patria, è pressoché inesistente. Insieme a Krasznahorkai, scrive dunque una sceneggiatura di ambizioni più contenute, che riesce poi a girare, al di fuori di qualsiasi istituzione cinematografica ufficiale, grazie a un caparbio e sapiente patchwork di fondi (un po' dalla 1V ungherese, un po' dall'unica casa di distribuzione, un po' dall'ente nazionale per la pubblicità...), che rimangono in ogni caso miraco-
losamente esigui. Karhozat (Perdizione, 1988) risulterà un film nero, molto nero - coerentemente con l'assenza di prospettive in cui l'autore si era trovato da un giorno all'a_Itro. Nonostante Tarr abbia sempre recisamente e ripetutamente negato che la sua filmografia possa venire suddivisa in periodi, e affermato-invece che essa procede da un'ispirazione assolutamente univoca dall'inizio alla fine, è opinione comune che Perdizione inauguri una nuova fase del cinema tarriano, lontana dal look "realista" delle sue prime prove (da cui già Macbeth e Almanacco d'Autunno si erano invero allontanati). La contraddistinguono un lussuoso bianco e nero, eleganti ed elaborati movimenti di macchina, tempi lunghi, scenari antropologici di assoluta desolazione·nella puszta ungherese, malinconia contemplativa. In patria, ~l film viene ignorato, quando non apertamente deriso. Fuori, viene invitato a numerosi festival internazionali (a cominciare da Berlino), vincendo diversi premi qua e là (fra i quali la Rosa Camuna di Bronzo a Bergamo). La reputazione di Tarr comincia a crescere, quantomeno all'estero. Il DAAD (servizio tedesco per lo scambio accademico) gli offre una borsa di studio, grazie alla quale per un anno il regista soggiornerà a Berlino. Non è un anno qualsiasi: è quello tra il 1989 e il 1990. Durante la sua permanenza, il Muro cade. È certamente un caso, ma anche un sintomo della pregnanza geopolitica che non è difficile rintracciare in (quantomeno) parte del suo cinema. I molti contatti stretti durante l'anno a Berlino si riveleranno essenziali e decisivi ai fini del reperimento dei finanziamenti che renderanno finalmente possibile Satantango. Anche in Ungheria, comunque, le cose non sono più le stesse - benché, invitato nel 1990 a girare un cortometraggio sulla sua città (Az utols6 haj6, L'ultimo battello), Tarr mostri una Budapest distopica, livida e minacciosa. Prima di partire per la Germania, l'autore riscuoteva dagli ambienti cinematografici nazionali solo indifferenza e o-
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stilità. Al ritorno, anche quel mondo era stato bene o male contagiato da una speranza nuova, dalla sensazione che tutto fosse possibile, prevedibili conseguenze del crollo definitivo del regime socialista. Va dunque in cantiere quella titanica impresa che è Satantango. Sette ore e mezza di film. Più di cento giorni di riprese. Due anni passati soltanto a fiutare palmo a palmo le lande più degradate e dimesse dell'Ungheria rurale, lande che Krasznahorkai (che vi aveva già vissuto in passato) dimostra di conoscere alla perfezione. Ci sono voluti due anni di full immersion antropologica col volume sempre in mano (è lo stesso Tarr a metterla in questi termini) per poter raggiungere la miracolosa compenetrazione di cui il film è inequivocabile testimonianza: quella tra un romanzo intricatissimo e di raffinata tessitura, tutt'altro che semplice da portare sullo schermo, e la flagranza concreta dei disperati ambienti umani che racconta. Anche questo film-fiume viene presentato prima a Berlino, poi un po' dappertutto, e diventa ben presto un caso mondiale. Per la cinefilia planetaria, Tarr è ormai un regista di culto. Autori affermati come Gus Van Sant lo ammirano e lo prendono a modello (nel suo caso, sarà Gerry, del 2002, a essere dichiaratamente ispirato al suo cinema; lo saranno, in qualche misura, anche Elephant, 2003, e Last Days, 2005). Ciò non significa che sia diventato granché più facile, per lui, finanziare i propri poco comuni film. Ci vogliono anni prima di poter produrre Werckmeister Harm6niak (Le armonie di Werckmeister, 2000), anch'esso tratto da un romanzo di Krasznahorkai (Az ellenallas melank6liaja, La malinconia della resistenza, del 1989), adattato in modo assai più libero rispetto a Satantango. A fianco di un finalmente robusto contributo statale, una discreta porzione dei soldi viene, come peraltro parrebbe suggerire parte del cast (Lars Rudolph, Hanna Schygulla, Peter Fitz), dall'estero, perlopiù sotto forma di tante piccole somme (tra cui quella di Rai3). Né le riprese poterono dirsi idilliache: sono quat-
tro i d irettori della fotografia ad avvicendarvisi - anche a causa di contrasti con il regista, che da sempre viene ritenuto un carattere non facile con cui avere a che fare, intransigente e molto, molto testardo. Apertosi con il successo di Le armonie di We'rckmeister alla rinomata sezione parallela Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, il primo decennio del terzo millennio vede ulteriormente consolidarsi la fama dell'autore. Fioccano le retrospettive un po' dappertutto, da quelle di Bergamo e Salonicco nel 2002 a quella del parigino Centre Pompidou nel 2011 o del Lincoln Center di New York l'anno successivo. Nel 2003, viene insignito del Premio Kossuth, la massima onorificenza a cui un artista ungherese può ambire. Poco prima fonda una casa di produzione propria, insieme al produttore Gabor Téni: la T. T. Filmmuhely, con la quale firma il cortometraggio su commissione Prologue (Prologo, 2004), un unico carrello laterale d i cinque minuti che mostra una serie di senzatetto in fila per un pasto caldo. La T. T. Filmmuhely, purtroppo, poté poco per far fronte all'autentico calvario che si rivelò A londoni férfi (L'uomo di Londra). Krasznahorkai questa volta è solo autore della sceneggiatura; il soggetto viene da un racconto di Georges Simenon, ambientato nel porto normanno di Dieppe. La prima difficoltà sta nel reperimento delle location. Dieppe non ha più un porto come quello di Simenon. Tarr gira per mesi tutt'Europa per trovare un porto analogo. Lo trova a Bastia, in Corsica. Il passo successivo, follemente costoso, è far costruire in Ungheria una torre di osservazione come quella del racconto, per poi farla trasportare a Bastia. Vinta la prevedibile ritrosia dei finanziatori, la produzione può cominciare. Poco prima dell'inizio delle riprese, però, Humbert Balsan, il produttore principale, si suicida. Con l'incrollabile caparbietà che molti gli riconoscono, Tarr tira dritto e comincia a filmare. Il direttore de.Ila fotografia Istvan Szaladjak abbandona per
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troppa tensione sul set. Viene rimpiazzato da Fred Kelemen (ex studente di Tarr a Berlino). La lavorazione prosegue sotto un pessimo clima, anche per via delle frequenti scintille tra la troupe ungherese e quella corsa, che finiscono per venire addirittura più volte alle mani. Sorgono problemi con le banche, e la produzione deve interrompersi. Tutti tornano a casa, e la torre va smontata e messa in magazzino in attesa di tempi migliori. I quali, dopo un faticoso anno di contrattazioni, miracolosamente arrivano. Il film viene ripreso, ultimato, e presentato in concorso a Cannes nel 2007. L'accoglienza, però, è disastrosa. Anche molti fan storcono il naso. Tarr si presenta in conferenza stampa visibilmente contrariato e quasi furioso. Un anno dopo, intervistato da un giornale francese, dichiara per la prima volta le sue intenzioni di ritirarsi: "Faccio un film sulla fine del mondo, e smetto". Durante la realizzazione dell'apocalittico Il cavallo cii Torino, nel 2010, diventa presidente dell'Associazione Ungherese dei Cineasti. Termina il film, lo porta con successo in concorso a Berlino nel 2011, e conferma ripetutamente l'abbandono delle scene. E cosi, come recita il titolo di uno dei capitoli di Satantango, "Il cerchio si chiude", e torniamo a quella fine che avevamo già anticipato all'inizio. Ma se la struttura di molte opere di Tarr è circolare, essa, come vedremo, non è mai solo circolare. Il tempo, sempre, cola via e prosegue oltre la circolarità. Nel 2012, in aperta polemica con il drastico ridimensionamento del finanziamento pubblico al settore cinematografico voluto dal nuovo governo ungherese, Tarr chiude.T. T. Filmmuhely. Ha altri progetti. Fonda poco dopo Film Factory, una scuola di cinema che ospiti giovani aspiranti cineasti da futto il mondo. Inizialmente, la sede doveva essere Spalato, in Croazia, ma ben presto la Sarajevo School for Science and Technology si è detta disposta ad ospitare Film Factory, i cui corsi sono iniziati già nelle prime
settimane del 2013. Gli allievi selezionati (ogni anno nell'ordine di una quindicina) per questo programma triennale di dottorato in cinema a spiccata vocazione pratica, sono tenuti meno ad assorbire passivamente le lezioni che a tentare di muovere autonomamente i primi passi nel fare cinema concreto, assistiti dai colleghi e da professionisti internazionali del settore, spesso di assoluto spicco: tra i docenti invitati troviamo Gus Van Sant, Jim Jarmusch, Tilda Swinton, Jonathan Rosenbaum, Aki Kaurismaki, Atom Egoyan, i fratelli Quay, Carlos Reygadas. Agli studenti (che devono realizzare quattro cortometraggi nei primi due anni, e un lungometraggio nel terzo) viene insegnato, a detta dello stesso Tarr, a gestire la propria libertà. La Film Factory insomma funge meno da università in senso classico che da illuminata casa di produzione, che nel produrre i film di questi registi in erba li guida, nel frattempo, verso la maturità artistica. "Intere generazioni di giovani registi oggi hanno paura. Ma non è paura del sistema o della politica, è qualcosa di completamente diverso. Hanno paura delle banche. Un'intera generazione è diventata vittima dei mutui, in debito con i prestiti, prigionieri della propria vita. Se a questo aggiungiamo che vengono messi sotto pressione per soddisfare tutte le aspettative del mercato e dei produttori, abbiamo una generazione che deve fare troppi compromessi per sopravvivere"2. È forse legittimo chiedersi a chi mai possa venire in mente, oggi, un'idea del genere, mossa da un cosi splendido ottinùsmo pedagogico, di un illuminismo umanista quasi utopico ed anacronistico. Per non parlare poi della forza di volontà per metterla in pratica. La risposta, in un mondo meno ottuso di questo, dovrebbe risultare ovvia: a qualcuno che comunemente è noto per il suo pessimismo, per l'oscurità della sua visione, per la sua diffidenza verso le utopie, per aver dipinto a più riprese una umanità ormai prossima alla fine.
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A meno che, appunto, la fine non se la sia lasciata già alle spalle. 2.PROLOGO
•! cenni biografici che seguono sono stati tratti in gran parte dalla monografia di Andras Balint I