Architettura dell'eclettismo. Il gusto e la moda. Progettazione e committenza 9788820767532, 9788820767549

I termini gusto e moda, escludendo atteggiamenti e scelte d'élite d'epoche più lontane, appaiono ripetutamente

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Italian Pages 228 [244] Year 2019

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INDICE
NOTA DEI CURATORI
IL GUSTO E LA MODA: CAUSE DI DIFFUSIONE O DI DEGENERAZIONE? di Luciano Patetta
IL GUSTO POMPEIANO IN GERMANIA E IL CASO DEL POMPEJANUM DI ASCHAFFENBURG (1839-50) di Andrea Maglio
IL GUSTO DELLA PIETRA NELLA ROMA DELL’OTTOCENTO: SCALPELLINI E SCULTORI, ESPERTI COLLEZIONISTI E SCALTRI COMMERCIANTI di Simonetta Ciranna
IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”: ARCHITETTI, OPERE, COMMITTENTI di Massimiliano Savorra
L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO E IL GUSTO NEOBAROCCO IN LOMBARDIA. DALLA VILLA REALE DI MONZA ALLE DIMORE DELLE ÉLITE di Ornella Selvafolta
TU VUOI FARE L’OTTOMANO. OCCIDENTE E VICINO ORIENTE NELL’INDUSTRIA D’EPOCA VITTORIANA di Elena Dellapiana
SUL GUSTO IN TOSCANA TRA ECLETTISMO E ART DÉCO di Mauro Cozzi
IL GUSTO DEL DENARO STOCLET E SCHIFFER HOFFMANN E VÁGÓ di Zsuzsanna Ordasi
CALMA, LUSSO, VOLUTTÀ. MODE E STILI DELLE CASE DI MODA A PARIGI TRA OTTOCENTO E NOVECENTO di Sergio Pace
LA “MODA” DEI BAGNI DI MARE E I QUARTIERI DI LUSSO PER I TURISTI. IL CASO DI NAPOLI di Gemma Belli
GLI AUTORI
Quarta di copertina
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Architettura dell'eclettismo. Il gusto e la moda. Progettazione e committenza
 9788820767532, 9788820767549

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO Documento acquistato da () il 2023/04/27.

Il gusto e la moda Progettazione e committenza a cura di Loretta Mozzoni e Stefano Santini

L IGUORI E DITORE

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BIBLIOTECA

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Problemi e metodi di architettura 21

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Architettura dell’Eclettismo Il gusto e la moda Progettazione e committenza a cura di Loretta Mozzoni e Stefano Santini

Liguori Editore

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Questa pubblicazione, contenente gli atti del 15° Convegno di Architettura dell’Eclettismo “Il gusto e la moda. Progettazione e committenza” tenutosi a Jesi nei giorni 28 e 29 settembre 2012, è stata realizzata grazie al contributo del Comune di Jesi, del Centro Interdipartimentale di Ricerca per i Beni Architettonici e Ambientali e per la Progettazione Urbana dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, dell’Associazione culturale Res Humanae di Jesi e della sede di Jesi della Allianz Bank – Carlo Alberto Bellagamba consulente finanziario.

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I saggi del volume sono soggetti a Peer Review per conto di un membro del Comitato scientifico o della Redazione e di un esperto esterno.

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche Liguori Editore Via Posillipo 394 – I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2019 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Luglio 2019 Mozzoni, Loretta (a cura di): Architettura dell’Eclettismo. Il gusto e la moda. Progettazione e committenza/   Loretta Mozzoni, Stefano Santini (a cura di) Problemi e metodi di architettura Napoli : Liguori, 2019 ISBN-13 eISBN-13

978 – 88 – 207 – 6753 – 2  (a stampa) 978 – 88 – 207 – 6754 – 9 (eBook)

ISSN

1972 – 0289

1. Architettura 2. Arti applicate I. Titolo II. Collana III. Serie Aggiornementi: 2024 2023 2022 2021 2020 2019     10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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INDICE

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IX Nota dei curatori 1 Il Gusto e la Moda: cause di diffusione o di degenerazione? di Luciano Patetta 17 Il gusto pompeiano in Germania e il caso del Pompejanum di Aschaffenburg (1839-50) di Andrea Maglio 43 Il gusto della pietra nella Roma dell’Ottocento: scalpellini e scultori, esperti collezionisti e scaltri commercianti di Simonetta Ciranna 63

Il Rinascimento americano e le case “italiane”: architetti, opere, committenti di Massimiliano Savorra 97 L’architetto Achille Majnoni d’Intignano e il gusto neobarocco in Lombardia. Dalla Villa Reale di Monza alle dimore delle élite di Ornella Selvafolta 131

Tu vuoi fare l’Ottomano. Occidente e vicino Oriente nell’industria d’epoca Vittoriana di Elena Dellapiana 153 Sul gusto in Toscana tra Eclettismo e Art déco di Mauro Cozzi 175 Il gusto del denaro. Stoclet e Schiffer. Hoffmann e Vágó di Zsuzsanna Ordasi

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INDICE

195 Calma, lusso, voluttà. Mode e stili delle case di moda a Parigi tra Ottocento e Novecento di Sergio Pace 205 La “moda” dei bagni di mare e i quartieri di lusso per i turisti. Il caso di Napoli di Gemma Belli

Gli Autori

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227

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NOTA DEI CURATORI

Il gusto e la moda sono espressione di attitudini mentali non necessariamente coincidenti, potendo l’uno manifestarsi separatamente dall’altro e viceversa. È un fatto che mentre il gusto si può declinare in termini di “cattivo”, non altrettanto è possibile fare per la moda che appare come un attributo sostanziale delle varie epoche storiche. Inclinazione personale il primo, condizione imprescindibile di approccio metodologico il secondo. La diversa consistenza concettuale dei due termini impone riflessioni di natura sociologica estremamente rilevanti quando si passa dalla dimensione privata a quella pubblica con conseguenze che coinvolgono lo spazio urbano e lo specimen architettonico. L’Eclettismo, per sua stessa natura, pesca le proprie suggestioni formali da diverse categorie stilistiche, ordinariamente ricondotte alle grandi suddivisioni storiche del passato: medioevo, rinascimento, barocco, cui si aggiunge nell’Ottocento una vasta influenza delle tante culture orientali, specialmente islamiche. Questo Convegno ne dà conto attraverso una serie di interventi che indagano le ricorrenti seduzioni di epoche e luoghi lontani, indagando sulla diversa composizione della committenza ormai quasi del tutto slegata dalle richieste dell’aristocrazia e sempre più dominata da una concezione capitalistica ed industriale del fare architettura. Si impongono in questo senso i modelli proposti dalle grandi Esposizioni universali che dettano la linea e preparano il terreno ad un passaggio di testimone dal Vecchio Continente all’America del nord dove si concentrano i capitali e dove i lacci della tradizione sono praticamente inesistenti. Per l’Europa è il canto del cigno, del tutto impreparata alla comparsa di un mercato che di lì a poco non vorrà più saperne di capitelli, metope e triglifi e imporrà un modello improntato al più rigoroso funzionalismo. È anche l’inizio della fine di un fare artigianale che avrà pesanti ripercussioni soprattutto in Italia che dovrà affidarsi alla

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NOTA DEI CURATORI

moda (quella dell’abbigliamento) per promuovere un primato altrimenti perso. Ancora per buona parte dell’Ottocento le seduzioni di un grande passato riescono ad arginare questo slittamento, ma i segni evidenti di una crisi di identità non sono più eludibili così come i relatori hanno, come sempre, ben documentato ed argomentato. Luciano Patetta nella sua relazione introduttiva addebita all’eccesso di “artisticità” gli aspetti più discutibili dell’interior design ottocentesco mettendo a confronto il gusto collezionistico rinascimentale, elitario e colto, con le superficiali inclinazioni à la page che prendono l’avvio nel secolo XVIII, ma che si protendono verso il secolo successivo mescolando e confondendo la concezione di gusto e di moda. Andrea Maglio analizza l’impatto che ebbero le grandi scoperte archeologiche della seconda metà del Settecento con i ritrovamenti di Pompei ed Ercolano, cui aggiunge la Domus Aurea di Nerone. Il relatore analizza l’impatto, che definisce epocale, di tali suggestioni nel repertorio non solo architettonico, ma genericamente ornamentale di cui riconosce l’origine in Germania con l’arrivo a Dresda delle statue ritrovate a Ercolano tra il 1711 e il 1716. Un caso a parte e molto significativo del gusto antiquario ottocentesco è il contributo di Simonetta Ciranna che si occupa della tradizione marmoraria romana. L’utilizzo di pietre antiche, la passione per i marmi policromi, il surplus di preziosità che conferivano agli oggetti reinventati dagli scalpellini e dagli scultori coinvolge ogni ambito della moda, dagli elementi di arredo fino alla gioielleria in una corsa forsennata al reperimento di materiali antichi con conseguente depredazione dei siti archeologici. Il contesto americano viene esposto da Massimiliano Savorra che, attraverso una precisa disamina delle fonti, espone il progressivo affermarsi negli Stati Uniti dello stile rinascimentale italiano individuato come modello culturale applicabile alle diverse discipline del pensiero e dell’arte e diffuso attraverso riviste, mostre e circoli culturali. Ornella Selvafolta conduce la sua ricerca sui percorsi seguiti dall’Eclettismo in ambito neobarocco, definito dalla relatrice come ultimo arrivato in ordine di tempo, ma particolarmente apprezzato dalla committenza per la sua duttilità e piacevolezza, nonché per la capacità di adattarsi alle più diverse applicazioni dall’architettura e alla decorazione, dai giardini all’oggettistica. Significativa in questo senso l’attività dell’architetto Achille Majnoni che è il capofila in Lombardia di questo revival stilistico cui arride un successo più mondano che intellettuale.

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NOTA DEI CURATORI

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È al favoloso mondo dell’Oriente che volge la propria analisi Elena Dellapiana analizzando con acutezza l’interesse verso l’esotismo manifestato dalla cultura occidentale. L’origine di tale passione viene fatto risalire dalla relatrice alla pubblicazione in francese nel 1704 delle Mille e una Notte che però conosce un successo travolgente solo nel 1885 con l’edizione inglese. Il mistero, la magia, il sottile erotismo conquistano non solo le classi superiori, ma attraversano l’intera società. Il diffondersi della produzione industriale dà una inedita possibilità di accesso alle classi meno abbienti di oggetti alla moda come ninnoli, tessuti, stampe dando luogo al dilagare della mania orientalista in tutta Europa. Maurizio Cozzi rivendica nella sua relazione il ruolo che la Toscana ha rivestito nella costruzione di quello che verrà poi definito “Stile 1925”, lo sviluppo cioè del Liberty verso l’Art Déco. Il relatore sottolinea la centralità della tradizione artigianale, artistica ed intellettuale di Firenze riconoscendole la funzione di officina sperimentale nella nascita e nello sviluppo delle nuove suggestioni stilistiche. Zsuzsanna Ordasi espone due casi di straordinario connubio tra le esigenze artistiche e di rappresentanza di due industriali e le concezioni architettoniche di Hoffmann e Vágó chiamati rispettivamente a progettare Palazzo Stoclet nei dintorni di Bruxelles e Villa Schiffer a Budapest. In queste due imprese architettoniche si combinano le possibilità economiche dei committenti con le concezioni architettoniche dei progettisti lasciati liberi di esporre i propri assunti stilistici in una visione globale ed omnicomprensiva di forma architettonica, elaborazione ornamentale e definizione degli interni. Di moda, intesa come abbigliamento, parla Sergio Pace che ricostruisce la nascita e lo sviluppo dell’haute-couture che prende l’avvio a Parigi intorno alla metà dell’Ottocento – in un nuovo universo decorativo e architettonico – e nel giro di pochi anni diventa sempre più invasiva e prelude alla modernità nella distinzione tra il prête-à-porter offerto nei grandi magazzini e la couture sur mesures destinata ad una clientela più facoltosa. Il rapporto tra sarto e cliente si sbilancia a favore del primo che impone i propri gusti, i tessuti, le linee di taglio. Inoltre la diffusione della macchina da cucire, brevettata da Isaac Merrit Singer nel 1851, consente a chiunque di copiare i modelli democratizzando il mondo della moda e rendendola accessibile ad un pubblico sempre più vasto. Chiude il convegno Gemma Belli illustrando la moda dei bagni di mare e la conseguente diffusione degli stabilimenti balneari. Le terapie

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NOTA DEI CURATORI

a base di acqua marina si diffondono per merito di alcuni studiosi britannici già alla fine del ’700 e diventano una vera e propria moda nel secolo successivo dando luogo a un nuovo tipo di socialità che si diffonde in tutta Europa. L’Italia, per le sue favorevoli condizioni climatiche, diviene la meta preferita per un turismo di élite che chiede, oltre alle spiagge, strutture logistiche sia elioterapiche che di evasione e di divertimento. Nascono le cittadelle a mare con proprie caratteristiche architettoniche e funzionali impostate sulla morfologia delle grandi capitali europee le cui strutture monumentali vengono adattate alle nuove esigenze.

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Jesi, dicembre 2018 Loretta Mozzoni Stefano Santini

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IL GUSTO E LA MODA: CAUSE DI DIFFUSIONE O DI DEGENERAZIONE?

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di Luciano Patetta

Quando abbiamo pensato al tema di questo Convegno, l’abbiamo visto in tutta la sua attualità. Oggi c’è infatti proprio quella ossessione per cui l’artisticità deve essere dappertutto. Non può mai mancare. Un tocco di artisticità è proprio quello che i grandi sarti mettono sempre nelle loro sfilate di moda, e che rende spesso insopportabile il design di oggi. È stata proprio l’eccessiva presenza di artisticità in ogni cosa e dappertutto a caratterizzare i momenti più discutibili degli arredi e degli interni dell’Ottocento. Malgrado alcuni storici e critici di oggi li anticipino con disinvoltura al Rinascimento e addirittura al tempo dei patrizi dell’impero romano, il gusto e la moda nascono e si manifestano con i loro caratteri specifici nel Settecento e non prima. Non porta infatti alcun chiarimento alla comprensione di questi fenomeni volerli anticipare ad atteggiamenti e scelte di élite d’epoche più lontane, quando manifestazioni come il collezionismo di antichità, per esempio, riguardavano un numero ristretto di nobili appassionati e di colti cardinali. Anche la diffusione del cosiddetto “ritorno all’antico” o “al modo antiquo” nell’età rinascimentale si fondava su scelte e motivazioni culturali degli artisti e della committenza, tali da escludere, per evitare confusioni, il gusto e la moda. (Per esempio, Francis Haskell, con un paradosso fuori luogo, vede nell’arrivo alla corte del re Francesco I di Leonardo, di Rosso Fiorentino, del Primaticcio, e del Serlio «la nascita della moda dello stile italiano in Francia»!)1. Anche talune espressioni come

1

Cfr. F. Haskell, N. Penny, L’antico nella storia del gusto. La seduzione della scultura classica, 1500-1900, Torino 1984, Introduzione, cap. I. p. 2.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

quella del Filarete che a metà Quattrocento scriveva «questa usanza moderna» alludendo al Gotico, o di Giorgio Vasari che a metà Cinquecento scriveva della «maniera dei Goti», oppure dei «modi in uso tra i Fiamminghi», volevano indicare forse qualcosa che sfiorava la moda, ma in contesti totalmente differenti. I termini “gusto” e “moda” appaiono ripetutamente a cominciare dal Settecento, e assumono una dimensione addirittura invadente nell’Ottocento. Il Settecento razionalista e illuminista li ha usati più volte in forma dispregiativa nelle polemiche contro il Barocco. È interessante notare che il Barocco non veniva preso in considerazione come uno stile architettonico, ma come una degenerazione più che altro decorativa, come “una licenza e un capriccio”, e poi come “perdita del gusto”, con i suoi “sfrenati e stravaganti disegni”2. È stato German Boffrand nel 1745 a chiarire meglio questo disprezzo: «La moda, in varie epoche (e specialmente in Italia) si è compiaciuta di tormentare tutte le parti di un edificio … la decorazione è passata dall’ornamento interno delle case e dalle parti in legno scolpito … agli esterni e alle opere in muratura»3. Boffrand dunque ha colto per il primo questa connessione tra decori e ornati interni ed esterni, che costituirà uno degli aspetti più caratteristici del gusto sette-ottocentesco. È stato il Settecento a costruire per primo l’ambiente idoneo allo svilupparsi del gusto e della moda, anzitutto con il ruolo sempre più importante dei dilettanti, non solo tra gli operatori, ma anche tra i critici, per lo più letterati o giornalisti delle prime pubblicazioni di riviste dedicate ai vari aspetti della moda. Ad essi si mescolavano les amateurs e les connaisseurs d’art che godevano di grande prestigio presso la nuova committenza. Un ruolo decisivo ha avuto poi la nuova filosofia, che dava molta importanza alle sensazioni, ai sentimenti, ai primi cenni di psicologismo, all’immaginazione e a quell’associazionismo che segnalava i rapporti tra immagini, colori, forme e i sentimenti e le impressioni. Nel 1780 Le Camus de Mézières analizzava proprio “l’analogia di certa arte con le nostre sensazioni”4. Tutto ciò ha favorito l’affermarsi di una nuova categoria del gusto: il gusto soggettivo. Etienne Boullée è stato il primo architetto a enunciare una teoria della progettazione del tutto al di fuori della tradizionale trattatisti2

C. Campbell, Vitruvius Britannicus or The British Architect, London 1717, Preface, p. 11. Cfr. G. Boffrand, Livre d’Architecture, Paris 1745; cfr. “Polemiche contro il Barocco” in L. Patetta, L’architettura dell’Eclettismo. Fonti, teorie, modelli. 1750-1900, Milano 1975, p. 181. 4 N. Le Camus de Mézières, Le Génie de l’Architecture, ou l’Analogie de cet art avec nos sensations, Paris 1780. 3

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IL GUSTO E LA MODA: CAUSE DI DIFFUSIONE O DI DEGENERAZIONE



ca. Egli ha indicato dei punti emozionali all’origine del progetto, ha suggerito il ruolo della luce e delle forti ombre, ha infine insistito sul “carattere” degli edifici. Boullée era debitore nei confronti di Denis Diderot per quanto concerneva il gusto, cioè «una disposizione acquisita attraverso ripetute esperienze … e dalla immaginazione, dalla sensibilità e dalle cognizioni». Ripetutamente Boullée ha parlato del gusto, di “finezza” e di “eleganza”, ha individuato nel teatro “il tempio del gusto”, e, accennando al mutare della distribuzione interna nei palazzi, ha affermato: «questo, come molte altre cose, dipende dalla moda». Per lui il gusto non dipendeva dalle conoscenze teoriche5. È stato il Settecento ad adottare ripetutamente il termine “gusto” nel senso metaforico del gusto del palato, del cibo e del mangiare: partendo dal piacere della tavola trovava dunque una estensione del principio e del diritto al piacere nell’arte, nell’arredo e nell’architettura6. Si riferiva al piacere Fischer von Erlach che all’inizio del secolo raccoglieva esempi di architetture di tutti i tempi e di tutti i luoghi del mondo, per «dilettare l’occhio degli amatori» accettando il «gusto dei diversi paesi» e mostrando esempi «esenti da regole»7. Gli inglesi son stati i primi a introdurre il termine “gusto” in molti titoli di libri: Alexander Pope, Of Taste: An Epistle to the Earl of Burlington (1731), Alexander Gerard, An Essay on Taste (1756), e Modern Taste compariva su The Gentleman and Cabinet-Maker’s Director (1754). Nel 1806 Humphry Repton pubblicava un testo sui giardini notando “… the Changes of Taste …”. Attribuita a William Hogarth era l’incisione Taste, or Burlington Gate (1732) in cui l’architetto William Kent, Alexander Pope e Lord Burlington schizzavano di calce bianca i soci nobili di gusto conservatore8. Va considerato che gli autori di pubblicazioni su edifici di un genere che ha avuto una certa fortuna, cioè il miscuglio di gotico e di cinese (Chinese and Gothic Architecture Properly Ornamented di William e John Halfpenny, per esempio) lo indicassero come taste considerandolo una forma di gusto, anche un po’ eccentrica, e non uno stile: questa considerazione di un livello di qualità minore, ricorrerà anche 5 Cfr. E.-L. Boullée, Architettura. Saggio sull’arte, introduzione di A. Rossi, Padova 1967, pp. 21, 78, 90, 100, 142. 6 Cfr. «The Spectator», June 19, 1711, cit. in P. Collins, The Gastronomic Analogy, in Changing Ideals in Modern Architecture, 1750-1950, London and Montreal 1965, p. 167. 7 J. B. Fischer von Erlach, Entwurff Einer Historischen Architektur, Vienna 1721, Prefazione, cfr. H.-W. Kruft, Storia delle teorie architettoniche da Vitruvio al Settecento, Bari 1988, p. 238. 8 L’incisione di Hogarth in J. Rykwert, I primi moderni. Dal classico al neoclassico, Milano 1986, p. 203.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

nell’Ottocento che individuava alcune forme stilistiche considerate minori, cioè i cosiddetti “stili piccoli”. William Chambers pubblicando i suoi testi sugli edifici cinesi e sui giardini orientali, anglo-cinesi, pittoreschi, riteneva necessario giustificarsi, nel timore che questo genere procurasse «un danno alla propria reputazione di architetto»9. Il Gotico settecentesco era visto secondo la sensibilità del gusto rococò: per esempio, Horace Walpole nel 1753 lo definiva “grazioso”. Malgrado le sue curiosità esotiche, Walpole restava un classicista, come a suo modo anche Voltaire, che infatti nel suo poemetto Il tempio del gusto disprezzava il Gotico e tutto il Medioevo. Anche E. Alexandre Petitot, sostenitore di “un gusto classicamente stabilito su dei principi invariabili della composizione”, sperimentava all’interno “una riunione di differenti gusti decorativi” e li trattava con i modi della rocaille10. La questione del gusto, ma inteso come una qualità pertinente solo alla tradizione classica, compariva spesso negli atti ufficiali delle Accademie. The British Royal Academy nel 1768 stabiliva che il professore dovesse «formare i gusti degli studenti e istruirli nelle leggi e nei principi della composizione». Più tardi l’Académie des Beaux Arts parigina precisava i criteri di valutazione per gli esiti della didattica e per i concorsi: «è ciò che domanda la ragione, è ciò che consiglia il gusto, è ciò che l’accademia vuole»11. Non è facile comprendere cosa si intendesse nel Settecento per “gusto”: proprietà del linguaggio, misura, grazia intendendo la decorazione (come pensava Winckelmann) oppure il «seguire Vitruvio con giudizio e con garbo». Per Jean-Louis de Cordemoy qualità simile alla bellezza, e dunque al gusto, era la bienséance, la buona creanza, le buone maniere12. Francesco Algarotti nel 1756 scriveva addirittura di una «internazionale del buon gusto», ma non pareva riferirsi solo alla qualità artistica ma invece a quegli intellettuali nuovi che erano «intelligenti amatori delle scienze, delle lettere e della società»13. Era evidente che si individuasse la persona dotata di buon gusto, e l’esi9

Cfr. L. Patetta, cit., p. 14 e seg.; W. Chambers, Designs of Chinese Buildings, Furniture, Dresses, Machines, and Utensil, London 1757, Preface. 10 Cfr. L. Patetta, cit., pp. 11 e seg.; C. Mambriani, Differénts goûts, une même modulation: i disegni di E. A. Petitot, in «Il disegno di Architettura», 16, 1997, p. 50. 11 Cfr. P. Collins, New Planning Problems, in op. cit., p. 226; cfr. L. Patetta, La polemica tra i Goticisti e i Classicisti dell’Académie des Beaux-Arts, 1974, p. 21. 12 Cfr. A. Gambuti, Il dibattito sull’architettura nel Settecento europeo, Firenze 1975, pp. 60 e 90. 13 F. Algarotti, Saggio sopra l’Architettura, 1756, in F. Algarotti, Opere varie, “Lettera al conte Cesare Malvasia”, Venezia 1757 e 1759.

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IL GUSTO E LA MODA: CAUSE DI DIFFUSIONE O DI DEGENERAZIONE



stenza stessa del buon gusto e del suo contrario il cattivo gusto, ma ancora una volta non erano facili le precisazioni: forse il buon gusto era in sostanza una forma di buona educazione, non solo nel comportamento, ma anche in quell’insieme di scelte che riguardavano il vestirsi, la propria abitazione ecc. Il buon gusto apparteneva di diritto a una certa classe e nell’Ottocento si chiamerà spesso “signorilità”. Un repentino cambiamento di gusto è stato quello, notissimo, di Wolfgang Goethe, classicista convinto che, entrato per la prima volta nella cattedrale di Strasburgo, si pentiva per i suoi pregiudizi causati dal tradizionale “buon gusto” e diventava ora grande ammiratore, entusiasta di quella che chiamava la “architettura tedesca”. (Egli era però contrario a che si costruisse “secondo questo gusto”)14. Tra i teorici dell’architettura e gli importanti architetti il gusto e la moda venivano valutati negativamente. Jaques-Fraçois Blondel nel 1772 con ironia denunciava il diffondersi del gusto e il fenomeno della moda: «Il nostro secolo pareva quello della rocaille, […] oggi siamo al gusto greco romano che però ci sembra troppo freddo e monotono […] ed ecco la bizzarria degli ornamenti di Pechino […] e il gusto pesante dei monumenti di Menphis […] non ci resta che introdurre il gusto gotico nella nostra architettura!»15. Quasi tutti segnalavano come un pericolo e un danno l’importanza decisiva della committenza. Michel de Frémin disapprovava gli architetti che «nei loro disegni non si preoccupano altro che produrre mille e mille piccoli ornamenti […] per sedurre la vista». Antoine-Nicolas Dézallier D’Argenville lamentava l’influenza delle signore, «le beau sexe», perché erano loro a trascinare verso il lusso e la frivolezza gli architetti, che volevano compiacerle, e non sapevano opporsi ai capricci16. Giovanni Bottari denunciava che «i padroni avevano denaro ma scarso gusto, e sceglievano i mediocri per favoritismo o per ignoranza…». Egli condannava gli architetti acquiescenti ai voleri del committente e disposti a seguire le mode mutevoli17. Così scadeva l’autonomia professionale. Francesco Milizia, pur riconoscendo l’importanza del secolo per aver favorito la sintesi delle arti (che come vedremo è 14 Cfr. J. W. Goethe, Von Deutscher Baukunst, 1772, cfr. N. Pevsner, Goethe e l’architettura, in «Palladio», ottobre-dicembre 1951, p. 175. 15 J.-F. Blondel, Cours d’Architecture, Paris 1772, p. LVIII. 16 M. de Frémin, Mémoires critiques d’architecture… , Paris 1702, 4a Lettera, pp. 16 e seg.; A.-N. Dézallier D’Argenville, Discours sur l’Architecture… in Vies des Fameux Architecte…, Paris 1787, I, p. LXIX. 17 G. B. Bottari, Dialoghi sopra le tre arti del disegno (1754), ed. Parma 1845, in A. Gambuti, cit., p. 39.

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stata così importante per l’evoluzione del gusto) scriveva: «gli artisti moderni par che abbiano perduto il gusto della solidità … Ciò deriva dall’effimero, da interesse malinteso de’ proprietari. […] Qui l’architetto conviene che si provveda di ragioni, di flessibilità, di pazienza. … ei compiacerà anco il proprietario con alterare qualche cosa senza offendere le regole dell’arte e del gusto»18. (E qui Milizia si riferiva alle regole di equilibrio, di misura e di corretta composizione). Chi ha trattato nella maniera più esauriente il significato del termine “gusto”, nel pieno dell’età neoclassica, è stato Antoine Quatremère de Quincy, con una intera voce della sua Encyclopédie Méthodique. Architecture (1788-1820) (poi Dictionnaire historique d’Architecture, 1832 e seg.). Egli lo ha definito «sentimento delle convenienze, che si esercita principalmente sulle qualità piacevoli. A lui tocca di assegnare ad ogni monumento la misura. […] Spetta al gusto il decidere sulla maggiore o minore ricchezza di cui l’arte può disporre … sulla scelta degli ornamenti da porsi in accordo colla destinazione di un edificio e l’effetto di ciascuna delle sue parti». Quatremère invitava alla prudenza: «Se non viene circoscritto a giusti limiti, il gusto giunge a guastare ciò che deve abbellire, e finisce per distruggersi da sé stesso»19. Credo che sia stato il primo a individuare «il gusto italiano, fiorentino, veneziano, francese, fiammingo ecc.». Egli aggiungeva due voci: “capriccio” e “bizzarria”. È stata l’età neoclassica a rendere universali, internazionali (in tutta l’Europa, in America e in Russia ecc.) sia il gusto che la moda. Nel complesso delle vicende e delle tendenze architettoniche, non riconducibili ad un’unica origine (i “rivoluzionari” francesi Ledoux e Boullée, il neogreco, il neoromano del Direttorio e dell’Impero, la Restaurazione, la Regency inglese, il Luigi Filippo, e così via) il gusto e la moda hanno invaso, si può dire, tutta la società, tranne i poveri, il primo per una onnivora passione antiquaria, la seconda per una frenetica emulazione di usi e costumi, sia nella nobiltà, sia nella nuova classe borghese (prima l’alta borghesia, poi anche la piccola borghesia). Esemplari sono stati il libro e il saggio di Mario Praz Gusto neoclassico (Napoli 1959) e La fortuna del gusto neoclassico (Venezia-Roma 1957-64), che hanno entrambi escluso l’architettura, concentrandosi 18 F. Milizia, Principj di Architettura Civile, Finale Ligure 1781, ed. Bologna 1827, III, pp. 9 e seg., e pp. 381 e seg. 19 A. C. Quatremère de Quincy, Encyclopédie Méthodique (1820), ed. it. Dizionario storico di architettura, a cura di V. Farinati, G. Teyssot, Venezia 1985, pp. 210-213; cfr. W. Szambien, Symétrie Gout Caractère. Théorie et terminologie de l’architecture à l’âge classique, 1550-1800, Paris 1986.

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IL GUSTO E LA MODA: CAUSE DI DIFFUSIONE O DI DEGENERAZIONE



sulla diffusione di motivi pompeiani, neoegizi, neoetruschi, neogreci o neoromani (più o meno corretti) anzitutto nella moda femminile, poi negli arredi e nella decorazione, nel mobilio e negli oggetti, vasi, candelabri, persino tabacchiere. Spiccavano i tripodi, presenti nelle più importanti pubblicazioni di Percier et Fontaine e di Thomas Hope20. Mario Praz prediligeva il “gusto o stile impero”, con le sue sfingi, aquile e cigni, con piedi dei mobili a zampe leonine, caprine e a tartarughe di bronzo dorato. Va notato che mancavano allora una autentica storiografia e una critica autentica di un fenomeno di grandi proporzioni come quello del gusto impero. Si leggono, infatti, sparsi giudizi nel complesso risibili e tipicamente giornalistici, come questi: «il puro stile impero», «tipico dell’impero», «un certo stile impero», «un impero con un po’ di fantasia», «un che di vago impero», «un sapore di impero». Non mancavano le critiche: il gusto impero appariva a molti duro, monotono, rigido e freddo. In una Lettre sur les Meubles à la mode (1803 circa) si leggeva: «Io non voglio di questi mobili che son pesanti, duri, brutti, scomodi. […] Occorrono delle precauzioni per non rimanere contusi … Iddio ci preservi oggigiorno dalla tentazione di lasciarci cadere su una poltrona: si correrebbe il rischio di spezzarsi»21. L’età neoclassica non disprezzava le copie e le repliche, anzi esse erano considerate indispensabili per soddisfare la crescita vertiginosa delle richieste del pubblico. Non va dimenticato, per esempio, l’uso sistematico che ne faceva David per i suoi quadri22. Un addolcimento del gusto impero è stato il Biedermeier austriaco e tedesco che per il primo in Europa ha introdotto, per lo più negli interni e nell’arredo, l’intimità, il carattere domestico corrispondente alla vita della borghesia, tanto da essere adottato raramente dalla aristocrazia, e solo per un certo snobismo. Ritenuto da alcuni prettamente femminile, il Biedermeier era lo specchio fedele della famiglia del tempo, come compare in molta pittura: la madre impegnata nel ricamo, i figli che studiano al tavolo e il padre che seduto in poltrona legge il giornale: il ritratto della quotidiana serenità. 20

Rispettivamente Recueil de décorations intérieures, Paris 1802, e Household furniture and interior decoration, London 1807; cfr. C. Maltese, Gusto e rivoluzione, in Storia dell’arte in Italia, 1785-1943, Torino 1960, pp. 5 e seg. 21 Lettera di un tal Roederer citata in M. Praz, La fortuna del gusto neoclassico e di Antonio Canova, in Arte neoclassica, Atti del Convegno 1957, Venezia-Roma 1964, p. 3. 22 Cfr. A. Ponte, Jacques-Louis David, Bruto, in C. Paolini, A. Ponte, O. Selvafolta, Il bello “ritrovato”. Gusto, ambienti, mobili dell’Ottocento, Novara 1990, p. 16.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

Anche nel resto dell’Europa, dopo il 1830-40, a un tramonto del tono aulico dello stile Impero è corrisposto il salotto borghese, non con un unico carattere stilistico, ma con un medesimo ideale di controllata eleganza. Gli arredi della casa borghese in città e della villa di campagna sono stati descritti in numerosi romanzi, nei giornali e nelle riviste sempre più numerose, come ad esempio, tra Sette e primo Ottocento, il «Journal des Dames et des Modes» (che fino al 1830 circa pubblicava un supplemento dal titolo «Collection de Meubles et Objets de goût»), il tedesco «Journal des Luxus und der Moden», poi i numerosi testi dal titolo pattern books come «Modèles des Meubles, et des décorations intérieures» (1828-41) o Studii architettonico-ornamentali… secondo richiedono i bisogni del secolo di Giuseppe Zanetti (1843). Gli aggettivi, i sinonimi e le immagini allegoriche di queste descrizioni costituiscono la cornice insostituibile per una comprensione degli sviluppi sia del gusto che della moda della borghesia ottocentesca. Eccone alcuni: “il salottino era pieno di cose carine, graziose, deliziose”; “un ornato leggero ed elegante, anche riposante”; “un ambiente freddo e melanconico, davvero romantico”; “si denota un’arte nobile e non plebea”; “un salotto di gusto signorile”; “un arredo austero, sobrio ma lussuoso”; “è assolutamente l’esprit du temps” (da noi “secondo il gusto dell’epoca”). Si contrapponevano “ambiente freddo” a “ambiente caldo, accogliente e confortevole”, spesso ricorreva un termine che sembrava alludere a molto: “ricco di charme!”. Comparivano due giudizi antitetici: “di moda” o “fuori moda”23. Il ricorrere di termini come “grazioso e carino” denunciano la tendenza a individuare questi gusti come prettamente femminili. Parigi era la “capitale del XIX secolo” (per citare il titolo di un libro famoso)24 dove erano nati i Magasins du Bon Marché: si diceva “come si fa a Parigi”, “è di moda a Parigi”, “viene da Parigi”, e nell’arredo dominavano i termini francesi: toilette, consolle, bureaux, secrétaire, buffet, ecc. È nata probabilmente in Francia la scelta di sostituire la connotazione di un secolo con un grande artista (per esempio “la Roma di Bernini”, “l’età del Caravaggio”) con quella di un sovrano: “la Parigi di Napoleone III”, “l’età della regina Vittoria”; e anche uno stile: gli stili francesi dei Luigi (Luigi XIII, XIV, XV e XVI), poi in Inghilterra “lo stile Queen Anne” e in Italia “Il gusto di Maria Luigia di Parma”. 23 Un gran numero di queste espressioni in C. Paolini, A. Ponte, O. Selvafolta, Il bello “ritrovato”… , cit. 24 W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, Torino 1986.

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IL GUSTO E LA MODA: CAUSE DI DIFFUSIONE O DI DEGENERAZIONE



Sono interessanti le critiche dei contemporanei. Pelagio Palagi scriveva: «… i difetti non sono colpe dei pittori e degli architetti, ma del secolo!»25. Numerose erano le osservazioni critiche sul sempre maggiore ruolo della committenza nelle scelte formali, anche per il progetto architettonico (si veda il famoso testo di Urbain Vitry Le propriétaire architecte (1827, destinato “alle persone che vogliano dirigere da sé medesime la costruzione”), ma soprattutto per gli interni dove dominavano i suggerimenti di dilettanti e gli interventi di decoratori e arredatori. Si notava l’eccesso di curiosité, accostate a capriccio, “un vero bazar” di cineserie, orientalismi, turcherie ed altri esotismi, più tardi oggetti giapponesi e indiani, arabeschi, mescolati alla rinfusa26, un mélange di dubbio gusto. Ancora in francese si definivano con favore la imagerie e il divertissement. Su la Revue Générale de l’Architecture… (1861-68) si ammetteva che negli interni «l’architetto eclettico voleva realizzare al meglio condizioni di comodità e armonia, … ma soprattutto soddisfare il cliente». César Daly precisava che «negli interni il gusto del proprietario doveva prendere il posto di quelli pubblici … Se c’è una parte dell’architettura in cui si può esercitare la libertà di gusto individuale, è quella che riguarda le nostre dimore, la vita interna … il problema è rispettare i diritti e le fantasie stesse del cliente»27. Ironicamente l’architetto inglese Robert Kerr scriveva nel 1865: «Signore, è lei che paga, sia lei il progettista, scelga lo stile della sua casa, così come sceglie quello del suo cappello: classico, arcuato o trabeato, rurale o urbano, elisabettiano, rinascimentale o medievale, il gotico (ora tanto in voga) … a suo gusto … feudale, monastico, scolastico, ecclesiastico, archeologico … e così via»28. I committenti, infatti avevano libera scelta negli eclettici cataloghi dei veri dominatori nel campo dell’arredo, i Chippendale, Maggiolini, Bellangé, Jacob, Fourdinois, ecc. Partendo dall’analisi sociale, John Ruskin e William Morris, tra i primi, denunciando la corruzione dei costumi, rilevavano la corruzione del gusto. Si sa che la borghesia dominante esigeva di far valere in ogni campo i suoi diritti e il suo prestigio, e che il liberalismo politico-economico favoriva il cosiddetto laisser faire anche nel costruire 25 Cfr. Pelagio Palagi artista e collezionista, Museo Civico di Bologna 1976, Carteggio con C. F. Aldrovandi Mariscotti, 1822, p. 105. 26 Molte le descrizioni letterarie del tempo, cfr. per esempio, A. De Musset, La Confession d’un enfant du siècle, Paris 1836. 27 Cfr. L. Patetta, L’architettura dell’Eclettismo…, cit., p. 332. 28 R. Kerr, A style for the house, in The English House, London 1864-65, p. 356.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

all’interno delle città, ma soprattutto in campagna: massima libertà privata rispetto al controllo amministrativo pubblico. L’interesse pubblico sembrava voler essenzialmente garantire “il decoro urbano”. Le Comte de Laborde nel 1856 teorizzava sull’orientamento delle arti per “il mantenimento del gusto pubblico”, temendo che senza controllo si smarrissero due cose: il decoro cittadino e il gusto nazionale29. Erano le scelte della borghesia, in crescita lungo tutto il XIX secolo, a dar vita ad alcuni fenomeni per la prima volta caratterizzati dalla grande dimensione: la villeggiatura, prima sui laghi30, poi in montagna e al mare, con l’edificazione di un numero enorme di ville e di villini, dove regnava la piena libertà delle scelte di gusto (rinascimentali o barocchi, neogotici o bizantini, al modo dello chalet svizzero o del cottage, nelle svariate espressioni del pittoresco, e così’ via), le stazioni termali (da noi San Pellegrino, Chianciano, Salsomaggiore, Montecatini ecc.) con la novità tipologica degli Stabilimenti delle Terme che dovevano unire cure e intrattenimenti. La questione del gusto e della moda è diventata centrale, come si suole dire, in occasione delle Esposizioni Internazionali, a cominciare da quella a Londra nel Crystal Palace (1851), e poi a Parigi (1867, 1878 e 1900), Milano 1881, Torino 1902 e Milano 1906. Al successo di pubblico e della stampa (giornali e riviste di moda) ha corrisposto una vera e propria raffica di critiche e di recensioni ironiche, sia per l’architettura dei padiglioni, sia (forse meno) per le opere esposte. Si è subito notata la non corrispondenza alle attese di progresso e di rinnovamento, nonché di sviluppo verso il futuro che era nelle speranze di tutti, sia per l’architettura, sia per la produzione industriale. Quasi tutti i padiglioni erano in strutture metalliche ma rivestite di croste decorative di gesso e stucco, in un trionfo di scenografia teatrale. All’interno si mescolavano prodotti di qualità e di esecuzione industriale avanzata a una enorme quantità di folklore senza freni. È probabilmente in occasione delle Esposizioni, comprese quelle minori e provinciali, che si è cominciato a parlare di “cattivo gusto” e di “bruttezza”. Per quella parigina del 1900 si è scritto: «un delirio di 29

Le Comte de Laborde, Quelques idées sur La Direction des Arts et sur le maintien du goût public, Paris 1856. 30 Cfr. L. Caramel, L. Patetta (a cura di), L’idea del lago. Un paesaggio ridefinito: 1861/1914, Milano 1984. In un famoso articolo del 1901-3 Alfredo Melani scriveva: «copisti che seguono la moda fiorentina» e «copisti in sintonia con il gusto veneziano», cfr. Alfredo Melani e l’architettura moderna in Italia, Antologia critica (1882-1910), a cura di M. L. Scalvini e F. Mangone, Roma 1998, p. 117.

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IL GUSTO E LA MODA: CAUSE DI DIFFUSIONE O DI DEGENERAZIONE

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architetti, … palazzi di torrone e panna … senza gusto … un’orgia dissoluta … e con rinuncia a ogni finalità e funzionalità»31. Ma nei cataloghi si leggeva, per esempio: «palazzi di costruzione leggera, svelta, ricca, che ci trasporta sulle rive del Canal Grande»; «un istile russo per noi così originale, che ci porterà col pensiero alle steppe»; «e questo, per chi si ispira all’Oriente, è un vero incanto!»32. Per l’architettura privata, palazzi e ville, veniva stabilita diffusamente una nuova categoria estetica: il lusso. Era la ricerca del lusso, con il suo indiscutibile prestigio sociale fondato sul costo maggiore, a far preferire alla committenza borghese e altoborghese, al neorinascimento il neobarocco e un neomanierismo pieno di contaminazioni, perché entrambi richiedevano una ricca statuaria, spesso in marmo o bronzo, e un vasto corredo decorativo, accanto a una plastica più impegnativa degli elementi architettonici. Nella seconda metà dell’Ottocento il gusto e la moda accentuavano la loro presenza dominante in gran parte della vita, con una irrequietezza e mutabilità superiore e senza uguali. I loro mutamenti, per esempio, erano molto maggiori di quelli della politica e della situazione sociale contemporanee. Nelle case d’abitazione gusto e moda incalzavano i rinnovamenti tipologici e le novità degli impianti, nonché i nuovi sistemi costruttivi, che peraltro stentavano ad affermarsi: le strutture in cemento armato e ferro erano infatti una minima percentuale dell’edilizia residenziale fino all’inizio del Novecento. Molti aspetti del gusto e della moda europea, e quindi molti prodotti, assumevano una dimensione mondiale: oltre che nel continente americano, in Russia e nelle colonie dei paesi europei. Va osservato che gusto e moda restavano fuori dalle grandi polemiche dei critici e degli architetti sull’Eclettismo, e in particolare sulla sua legittimità nella didattica e nella professione, quasi che ci fosse un accordo nel ritenerli estrani alla problematica e teoria dell’architettura, ai suoi principi e alle sue regole. Essi non comparivano tra le voci del fondamentale Dictionnaire raisonné d’architecture… di Ernest Bosc

31 Cfr. The Art-Journal Illustrated Catalogue. The Industry of All Nations 1851, London 1851, e in particolare R. N. Wornum, The Exhibition as a Lesson in Taste, pp. I-XXII; H. Muthesius, «Zentralblatt der Bauverwaltung», 1900, fasc. 59, pp. 157-158; L. Hautecœur, Histoire de l’architecure classique en France, tomo VII, p. 458; E. Schild, Dal Palazzo di Cristallo al Palais des Illusions, Firenze 1971, pp. 174-175. 32 Cfr. «L’esposizione italiana del 1881 in Milano illustrata», Sonzogno 1881, dispensa II, p. 6 e seg.; Torino 1902 polemiche in Italia sull’Arte Nuova, a cura di R. F. Fratini, Torino 1970, pp. 66 e seg.; cfr. L. Patetta, L’architettura dell’Eclettismo…, cit., p. 328.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

(1878) così come saranno assenti nei Dizionari architettonici recenti33, a confermare che venivano ritenuti marginali rispetto alla problematica dell’architettura. Tutti i grandi architetti e i protagonisti della critica artistica e architettonica hanno preso nettamente la distanza dal gusto e dalla moda: Pugin, Ruskin e Viollet-le-Duc dal goticismo decorativo, Boito dal medievalismo senza ragioni come la tradizione nazionale e regionale, Morris e Muthesius dal dilagare del cattivo gusto, Loos perché insofferente verso la decorazione e sostenitore del carattere costruttivo dell’architettura e non della sua artisticità34. Come è noto l’Art Nouveau si è sviluppata in Europa come reazione all’Eclettismo e con principi progettuali fondati sulla tecnica, la produzione in serie con le macchine, per diffondere una “bellezza a basso costo”, ma si è ridotta ben presto a una moda passeggera e, soprattutto per un gran numero di oggetti, in un nuovo cattivo gusto. Nel 1902 all’Esposizione di Torino alcuni critici o giornalisti prevedevano già il tramonto della moda del Liberty, «fenomeno … passeggero … innocuo come quelli che fanno smettere una foggia di cappello, un colore di cravatta, preparando un’altra foggia, un altro colore»35. Nel 1909 alla Famiglia Artistica Milanese veniva allestita una esposizione del “cattivo gusto” ideata da Aldo Carpi e Antonio Rubino, dove erano mescolati oggetti eclettici a oggetti Liberty36. La storiografia del Novecento ha per lo più ignorato “gli arbitrii della moda e i capricci del gusto”, come estranei alla definizione di una architettura nuova: Reyner Banham (1962), per esempio, riassumeva i numerosi giudizi critici in questo parere: «chi non sa progettare si rifugia naturalmente nella decorazione»37. Non mancano però delle eccezioni: Kenneth Clark (1962) mescolava il Gothic revival con i goticismi, sottotitolando il suo famoso testo così: Un capitolo di storia del gusto, e Henry-Russell Hitchcock (1963) usava ripetutamente il termine gusto, per esempio “eclecticism of Taste” per l’uso dei vari stili nelle varie tipologie, oppure analizzava la costruzione del centro di Parigi come «continuità e discontinuità tra due gusti … quello del 33 Cfr. P. Portoghesi (a cura di), Dizionario Enciclopedico di Architettura e Urbanistica, Roma 1969; N. Pevsner, J. Fleming e H. Honour, Dizionario di architettura, Torino 1981. 34 Cfr. R. Banham, Architettura della prima età della macchina (1960), Bologna 1970, pp. 21 e seg; R. De Fusco, L’idea di architettura. Storia della critica da Viollet-le-Duc a Persico, Milano 1968; A. Loos, Das Heim, in «Das Andere», 1903 (egli parlava di «cattivo gusto»), cfr. «Casabella-continuità», 810, 2012, p.5. 35 Cfr. Torino 1902…, cit., p. 112. 36 Cfr. R. Bossaglia, Il liberty: storia e fortuna del liberty italiano, Firenze 1974, p. 30. 37 R. Banham, cit., p. 92.

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IL GUSTO E LA MODA: CAUSE DI DIFFUSIONE O DI DEGENERAZIONE



Primo e quello del Secondo Impero», citava ricorrentemente un certo «gusto accademico» non meglio definito, e suggeriva che il Gotico Vittoriano in Inghilterra fosse stato frutto del «gusto di metà secolo», ed infine per il teatro de l’Opéra di Charles Garnier scriveva: «goût du parvenu, tipico del tempo e del luogo»38. È stato negli anni Venti del Novecento, quelli della ‘modernità’ anti decorativa, che si è scritto con sarcasmo, ridicolizzando il gusto e la moda di una borghesia ritenuta retriva, se non reazionaria (come pensava per esempio György Lucács, che nella Estetica (1970) scriveva del suo «vuoto soggettivismo e arbitrio … che portavano alla quasi completa distruzione dell’arte»). Erik Satie scriveva (1925): «Non abbiamo più bisogno di chiamarci artisti, lasciamo questa splendida parola ai parrucchieri e ai pedicure». Le Corbusier (1925) si inventava una sorta di ribellione: «Ogni cittadino è tenuto a sostituire i propri tendaggi, i damaschi, le tappezzerie, le carte da parato, le pitture fatte con lo stampino, con uno strato puro di vernice bianca …!». Quindi faceva dire al furbo industriale: «Indubbiamente, a prezzo ragionevole non posso metter fuori che paccottaglia. Per fortuna c’è la decorazione che salva la situazione; ricopriamo tutto di decorazione. Occultiamo la paccottaglia sotto la decorazione, che nasconde i difetti e le imperfezioni. Decorazione su tutti i metalli … su tutti i tessuti … su tutta la biancheria … su carta per ogni uso … su tutte le maioliche e porcellane … su tutti gli articoli di vetro … ebbene sì, i grandi magazzini diventarono il ‘paradiso delle signore’»39.

38 Cfr. H.-R. Hitchcock, Architecture: Nineteenth and Twentieth Centuries (1958), ed. it., Torino 2000, pp. XXXI, 144, 194-5. 39 Cfr. G. Lukács, Prolegomeni a un’estetica marxista, Roma 1957; Le Corbusier, L’art décoratif d’aujourd’hui, Paris 1925, ed. it. Bari 1972, pp. VII (E. Satie), 54 e 189 e seg.

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

1. E. & G. Dalziel, Parete per una biblioteca con camino, in legno di noce, Londra 1851, xilografia.

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IL GUSTO E LA MODA: CAUSE DI DIFFUSIONE O DI DEGENERAZIONE



2. C. Daly, Villa suburbaine première classe, à St. Maur (da L’architecture privée au XIXe siècle, 1860-63).

3. Galleria Centrale dei mobili artistici, Esposizione Italiana, Milano, 1881 (Catalogo della mostra).

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

4. M. A. Possenbacher, Interno in stile rinascimentale, 1882 (da «L’Art et l’Industrie», 1883).

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IL GUSTO POMPEIANO IN GERMANIA E IL CASO DEL POMPEJANUM DI ASCHAFFENBURG (1839-50)

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di Andrea Maglio

La definizione e la classificazione dello stile pompeiano risultano incerte specialmente se si guarda alle sue origini, poiché nella seconda metà del XVIII secolo tale stile è spesso sovrapposto a quello “etrusco”1, così come decorazioni di ambienti ispirate all’architettura residenziale romana non necessariamente trovano i propri modelli in Pompei, ma anche in altre fonti, tra cui in primis la Domus Aurea, studiata già dalla fine del Quattrocento. Prima ancora di individuare modelli propriamente architettonici, lo stile pompeiano si fonda in realtà su un repertorio ornamentale derivato non solo dagli originali delle cittadine vesuviane, ma anche da altri esempi dell’antichità. Tuttavia, certamente con la scoperta delle città di Ercolano e Pompei nasce un filone di assoluto rilievo nell’architettura compresa tra l’ultimo quarto del Settecento e la fine del secolo successivo. Proprio il fascino esercitato da quanto viene alla luce, riemergendo dal sottosuolo dopo oltre sedici secoli, segna un vero e proprio passaggio epocale e la nascita di una temperie culturale che travalica il solo ambito architettonico. Il caso tedesco è quanto mai significativo, giacché la diffusione europea del mito delle città dissepolte comincia proprio in Germania e prima che gli scavi veri e propri, condotti in maniera sistematica, siano iniziati per volontà di Carlo di Borbone: il punto d’inizio della forma1 Basti citare il caso di Charles Percier e Pierre-François-Léonard Fontaine che, in Recueil de décorations intérieures comprenant tout ce qui a rapport à l’ameublement, Didot, Parigi 1801-12, definiscono etruschi i motivi pompeiani illustrati all’inizio del volume; o, per spostarsi nell’ambiente inglese, tale ambiguità è confermata dalle cosiddette “sale etrusche” di Robert Adam. Tra i primi a rilevare questa sovrapposizione è Mario Praz, Gusto neoclassico, Sansoni, Firenze, 1940, p. 91.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

zione del mito si può individuare nell’arrivo a Dresda delle cosiddette “Ercolanesi”, le statue trovate tra il 1711 e il 1716 nella proprietà del principe d’Elbeuf e poi, in via indiretta, arrivate a Federico Augusto II di Sassonia, re di Polonia come Augusto III: infatti le statue, ritrovate casualmente attraverso un pozzo, si trovavano nell’area del teatro dell’antica Herculaneum e furono donate dal principe, comandante delle armate austriache a Napoli, a personaggi in vista dell’ambiente viennese; in particolare la “grande” e le due “piccole” Ercolanesi furono regalate al principe Eugenio di Savoia, generale al servizio degli Asburgo ed eroe della battaglia contro i Turchi nel 1683, alla cui morte nel 1736 le statue giungono infine a Dresda e ad Augusto III. Per una significativa coincidenza, quest’ultimo è anche padre di Maria Amalia, sovrana del Regno di Napoli in quanto consorte di Carlo di Borbone, a cui si deve l’inizio degli scavi nelle due località vesuviane. Le Ercolanesi saranno ospitate prima in un padiglione del giardino reale a Dresda e a partire dal 1785 nello Japanisches Palais, dove quasi un secolo più tardi Gottfried Semper allestirà le sale neopompeiane: i preziosi reperti venuti alla luce da un passato remoto da subito divengono un motivo d’enorme interesse, come testimonia il passaggio effettuato da Johann Joachim Winckelmann nel 1756 e da tanti altri, tra cui prima Goethe e poi Schinkel nel 1804, durante il viaggio che lo condurrà in Italia2. Un fondamentale contributo alla conoscenza delle città dissepolte, e soprattutto alla costruzione del mito dell’arte antica, e quindi anche di quella pompeiana, è costituito dall’opera di Winckelmann che, proprio su incarico di Augusto III, arriva a Ercolano nel 1762 per pubblicare nello stesso anno i Sendschreiben von den Herkulanischen Entdeckungen e due anni dopo i Nachrichten von den neuesten Herkulanischen Entdeckungen. L’interesse suscitato in tutta Europa dai ritrovamenti ed il fascino esercitato da pitture, sculture, oggetti d’uso quotidiano e suppellettili varie è dovuto tanto alle pubblicazioni dell’Accademia Ercolanese – istituita nel 1755 – quanto, in misura forse anche maggiore, a quelle di Winckelmann3. Durante il regno di Ferdinando IV, grazie alla presenza della 2 Di questa visita Winckelmann riferisce nella celebre lettera al conte Heinrich von Brühl, primo ministro dell’elettorato di Sassonia, pubblicata a Dresda nel 1764. Sulla visita dell’architetto prussiano: Karl Friedrich Schinkel, Die Reisen nach Italien 1803-05 und 1824, Deutscher Kunstverlag, Monaco-Berlino 2006, curato da Georg Friedrich Koch, commentato e annotato da Helmut Börsch-Supan e Gottfried Riemann, p. 38. 3 Gina Carla Ascione, “Tedeschi tra le rovine di Pompei nel secolo dei Borboni”, in Italienische Reise. Immagini pompeiane dalle raccolte germaniche – Pompejanische Bilder in den deutschen archäologischen Sammlungen, a cura di Baldassarre Conticello, Bibliopolis, Napoli 1989, pp. 53-94, qui 58.

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IL GUSTO POMPEIANO IN GERMANIA

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regina Maria Carolina d’Asburgo Lorena, molti artisti di lingua tedesca si stabiliscono a Napoli: tra questi, oltre a Raphael Mengs, sodale di Winckelmann e chiamato da Maria Carolina nel 1760, il prussiano Jacob Philipp Hackert, pittore di corte dal 1786, e Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, pittore assiano e direttore, dal 1789 al 1799, dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. Tischbein si dedica anche alla riproduzione dei vasi della straordinaria collezione di Lord Hamilton, ambasciatore inglese presso i Borbone, pubblicando tra il 1791 e il 1795 quattro volumi, la cui eco in Germania e nel resto d’Europa non è certo fievole4. A conferma dell’importanza di queste presenze a Napoli per la diffusione della moda pompeiana, basti ricordare come sia proprio Tischbein a ritrarre non solo Goethe nel 1786, nel celeberrimo dipinto nella campagna romana, destinato a diventare un’icona assoluta del Grand Tour, ma anche la duchessa Anna Amalia von Sachsen-Weimar-Eisenach, tra il 1789 e il 1790, seduta sulla panca semicircolare della tomba della sacerdotessa Mamia, all’ingresso di Pompei; la duchessa, che in Italia è accompagnata da Johan Gottfried Herder, diverrà una delle più entusiaste sostenitrici del neoclassicismo d’ispirazione pompeiana e farà riprodurre degli esemplari della panca nei parchi di Weimar5. Quello del sedile semicircolare situato nella necropoli lungo la via dei sepolcri, fuori Porta Ercolano, accanto alla tomba di Mamia, sacerdotessa di Venere6, portato alla luce nel 1763 e definito da Goethe «un posto mirabile, degno di sereni pensieri»7, diviene un vero e proprio topos nella progettazione dei parchi tedeschi. Lo dimostrano, tra l’altro, le numerose repliche della panca volute nel secolo successivo da Fried­ rich Wilhelm IV di Prussia nel parco di Sanssouci a Potsdam8: ancora 4 William Hamilton, Wilhelm Tischbein, Collections of Engravings from Ancient Vases mostly of pure Greek Workmanship discovered in Sepulchres in the Kingdom of the Two Sicilies but chiefly in the Neighbourhood of Naples during the course of the years MDCCLXXXIX and MDCCLXXXX, now in the Possession of Sir W. Hamilton, Napoli 1791-1795; negli stessi anni l’artista lavora ad un’altra opera insieme all’archeologo e filologo Crhristian Gottlob Heyne: Homer nach Antiken gezeichnet, 2 voll., Heinrich Dieterich & Cotta, Göttingen – Stoccarda 1801-1804. Si noti come nel frontespizio Tischbein si qualifichi come direttore dell’Accademia napoletana. 5 Gina Carla Ascione, op. cit., p. 62. 6 Lorenza Bernabei, “I culti di Pompei. Raccolta critica della documentazione”, in Contributi di Archeologia vesuviana III, L’Erma di Bretschneider, Roma 2007, pp. 7-92, qui 73. 7 Johann Wolfgang Goethe, Reise nach Italien, Cotta, Tubinga 1816-29; si cita dall’edizione italiana Viaggio in Italia, commento di Heinrich von Einem, traduzione di Emilio Castellani, Mondadori, Milano 1993, p. 226. 8 Analizzando il caso del Römische Bank di Sacrow, un’attenta e approfondita analisi del tipo della panca è condotto da Robert Graefrath, Potsdam. Die Römische Bank im Park von Sacrow. Ein Rastplatz des Königs, «Brandenburgische Denkmalpflege» n. 2/2006, pp.

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principe ereditario, egli era stato a Pompei nel 1828 e si era seduto su quella panca, ammirato dal panorama verso Sorrento e Capri e dalla quiete del luogo, magica e cupa allo stesso tempo. La letteratura specialistica dedicata all’architettura e alle pitture pompeiane si giova, oltre ai volumi editi a cura dell’Accademia Ercolanese, dei contributi di diversi studiosi stranieri, specialmente francesi, inglesi e tedeschi. Pioneristico è senz’altro il lavoro di François Mazois, Les ruines de Pompéi, pubblicato a Parigi tra il 1812 e il 18389; dopo pochi anni, a partire dal 1817, segue l’opera di William Gell e John Peter Gandy Pompeiana. The Topography, Edifices and Ornaments of Pompeii, poi tradotta anche in francese10; diversi anni dopo vede la luce il lavoro di Henri Roux Ainé e Louis Barré11, mentre in ambito tedesco seguono invece i lavori di Wilhelm Ternite e di Wilhelm Zahn, che nel 1839 guiderà a Pompei l’architetto Friedrich von Gärtner e il re Ludwig I di Baviera12. Alla generazione di libri pubblicati nella seconda metà del secolo, legati al proseguimento degli scavi e ad una conoscenza ben più dettagliata, appartengono invece quelli di Johannes Overbeck, Pompeji in seinen Gebäuden, Alterthümern und Kunstwerken13, e lo studio comparativo di Hittorff, Mémoire sur Pompéi et Pétra14, entrambi usciti nel 1866, nonché infine quelli di Carl Weichardt e August Mau alla fine del secolo15. 89-99; cfr. anche Andrea Maglio, “Preußische Architekten und der Italienmythos im 19. Jahrhundert. Gli architetti prussiani e il mito dell’Italia nell’Ottocento”, in Potsdam & Italien. Die Italienrezeption in der Potsdamer Baukultur. La memoria dell’Italia nell’immagine di Potsdam, a cura di Annegret Burg e Michele Caja, Potsdam School of Architecture, Potsdam 2014, pp. 56-67. 9 François Mazois, Les ruines de Pompéi, dessinées et mesurées par F.M., 4 voll., Firmin Didot, Parigi 1812-38 (i volumi III e IV sono pubblicati postumi nel 1829 e nel 1838 da Franz Christian Gau, Frédéric Jean-Baptiste De Clarac e Jean-Antoine Letronne). 10 William Gell, John Peter Gandy, Pompeiana. The Topography, Edifices and Ornaments of Pompeii, 2 voll., Bohn, Londra 1817-19; ed. francese Vues des ruines de Pompéi, Firmin Didot, Parigi 1827. 11 Henri Roux Ainé, Louis Barré, Herculanum et Pompéi. Recueil général des peintures, bronzes, mosaïques, etc., 8 voll., Firmin Didot, Parigi, 1839-40. 12 Wilhelm Ternite, Wandgemälde aus Pompeji und Herculanum nach der Zeichnungen und Nachbildungen in Farbe von Wilhelm Ternite, con un testo di Friedrich Gottlieb Welckler, Reimarus, Berlino 1839-58; Wilhelm Zahn, Die schönsten Ornamente und merkwürdigsten Gemälde aus Pompeji, Herculanum und Stabiä. Nach einigen Grundrissen und Ansichten nach den an Ort und Stelle gemachten Originalzeichnungen, 3 voll. Reimer, Berlino 1828-1859. 13 Johannes Overbeck, Pompeji in seinen Gebäuden, Alterthümern und Kunstwerken, Wilhelm Engelmann, Lipsia 1856. 14 Jakob Ignaz Hittorff, Mémoire sur Pompéi et Pétra, Imprimerie Impériale, Parigi 1866. 15 Carl Weichardt, Pompeji vor der Zerstörung. Reconstructionen der Tempel und Ihrer Umgebung, Koehler, Lipsia 1897; August Mau, Pompeji in Leben und Kunst, Engelmann, Lipsia 1900.

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Parallelamente alla letteratura sul tema, gli architetti iniziano a sperimentare modelli pompeiani in diverse località sia in Germania che nel resto d’Europa, sebbene gli esiti architettonici tardino non poco ad arrivare rispetto a quelli della moda, dell’arredamento, della ceramica e delle altre arti. Prima che in quello tedesco, è sul territorio inglese che compaiono edifici interamente o parzialmente costituiti da ambienti pompeiani: senza considerare la Painted Room realizzata da James Stuart nella Spencer House a Londra già tra il 1759 e il 1765, ispirata nello stesso tempo a Ercolano, alle logge raffaellesche e a motivi romani, va citata senza dubbio la Pompeian Gallery costruita da Joseph Bonomi nella Packington Hall nel Warwickshire, completata nel 1782, anche se le pitture sono terminate una ventina di anni dopo16. Nel secolo successivo, la diffusione di modelli pompeiani in architettura si lega al controverso tema della policromia, giacché la scoperta delle tracce di colore sulle metope di Selinunte, ad opera degli inglesi Angell e Harris, troverà, da un lato, una decisa opposizione all’introduzione del colore nell’architettura, e dall’altro una sua fiera difesa da parte di celebri professionisti e studiosi, che proprio a Pompei e ad Ercolano troveranno conferma delle proprie ipotesi, come avviene per Gottfried Semper17. Nel caso di alcune specifiche tipologie, esempi antichi, e segnatamente pompeiani, si legano precocemente ad un rinnovamento linguistico e funzionale, come avviene per l’architettura teatrale: già lo svevo Friedrich Weinbrenner, nel 1794 a Pompei, progetta il teatro di Karlsruhe (1804-1808) basandosi anche sui modelli dei teatri antichi e specialmente su quello dell’Odeion di Pompei18. Quello teatrale è un 16

Colin Amery, Brian Curran Jr., The Lost World of Pompeii, Lincoln, Londra 2002, p. 177. Sulla policromia, cfr. David van Zanten, The Architectural Polychromy of the 1830’s, Garland, New York 1977; Marie-Françoise Billot, “Recherches aux XVIIIe et XIXe siècles sur la polychromie de l’architecture grecque”, in Paris-Rome-Athènes. Le voyage en Grèce des architectes français aux XIXe et XXe siècles, catalogo mostra, ENSBA, Parigi 1982, pp. 61-125 ; «Rassegna» n. 23/1985, monografico dedicato a “Colore: divieti, decreti, dispute”; Robin Middleton, “Hittorff’s polychrome campaign”, in The Beaux-Arts and Nineteenth-Century French Architecture, a cura di Robert Middleton, MIT Press, Cambridge (Mass.), & Thames and Hudson, Londra 1982, pp. 174-195; Michele Cometa, “L’architettura italiana tra policromia e storicismo”, in Mariasilvia Tatti, Italia e Italie. Immagini tra Rivoluzione e Restaurazione, Atti del convegno, Roma 7-9/11/96, Bulzoni, Roma 1999, pp. 299-325; Andrea Maglio, L’Arcadia è una terra straniera. Gli architetti tedeschi e il mito dell’Italia nell’Ottocento, Clean, Napoli 2009, cap. IV; Fabio Mangone, Immaginazione e presenza dell’antico. Pompei e l’architettura di età contemporanea, artstudiopaparo, Napoli 2016. 18 Andrea Maglio, “Gli architetti tedeschi a Ercolano e Pompei in epoca neoclassica”, in Vesuvio. Il Grand Tour dell’Accademia Ercolanese dal passato al futuro, Atti del Convegno, Portici 21-22/5/09, a cura di Aniello De Rosa, Arte Tipografica, Napoli 2010, pp. 145154; Andrea Maglio, “Dal teatro di corte a quello borghese: architetture teatrali a Berlino nel XIX secolo”, in Architettura dell’eclettismo. Il teatro dell’Ottocento e del primo Novecento. 17

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ambito in cui lo studio dei modelli antichi produce un altro esempio di architettura pompeiana in Germania, e precisamente a Stoccarda, dove il sovrano Wilhelm I commissiona a Karl Ludwig Zanth il complesso della Wilhelma in stile moresco e il teatro in stile pompeiano, realizzato tra il 1838 e il 184019: in tal caso il riferimento all’antico non riguarda la forma della sala, ricavata piuttosto da esempi francesi dei decenni precedenti, ma le decorazioni policrome degli interni; non a caso, Zanth ha accompagnato Hittorff nel suo viaggio in Italia, effettuato tra il 1822 e il 1824, durante il quale era maturata proprio la convinzione circa la policromia dell’architettura antica. Come dimostra la presenza di simboli teatrali antichi, dalla lira alle maschere, il riferimento stilistico rimanda a quello culturale più ampio, tanto da richiedere modelli pompeiani anche in un contesto tutto orientaleggiante. Tuttavia, il principale ambito in cui sono utilizzati modelli pompeiani e in cui matura un vero e proprio gusto pompeiano è rappresentato dall’architettura residenziale e in tal caso assumono un ruolo preponderante le decorazioni parietali, spesso legate proprio al tema della policromia. Infatti, al di là della definizione formale e tipologica, l’introduzione di elementi policromi in edifici di ogni genere è spesso connessa ad una radice pompeiana, come dimostra il caso del padre nobile dell’architettura tedesca, Karl Friedrich Schinkel. Quando non sperimenta linguaggi alternativi a quello classico e si ispira invece all’architettura antica, egli produce opere come il Pomonatempel, la Neue Wache o l’Altes Museum, ancora centrati sul nitore e sulla purezza winckelmanniani; a partire dal padiglione di Charlottenhof (1826-29), nel parco di Sanssouci a Potsdam, compaiono elementi pompeiani all’interno della loggia sul giardino: anche se le colonne del pronao non presentano colore, lo spazio retrostante è animato da pitture neopompeiane in oro, turchese, rosso e nero, da figure danzanti e da decorazioni geometriche e floreali, opera di Wilhelm Rosendahl; inoltre, nel 1834, anche lo studiolo della principessa viene decorato con le raffigurazioni delle danzatrici ercolanesi, realizzate in precedenza da Michelangelo Maestri e dallo stesso Rosendahl20. InolArchitettura, tecniche teatrali e pubblico, a cura di Stefano Santini e Loretta Mozzoni, Liguori, Napoli 2010, pp. 193-226. 19 Frank Scholze, Karl Ludwig Wilhelm von Zanth und die Wilhelma. Eine kurze Einführung zum 200. Geburtstag des Architekten, tesi, Stoccarda 1996, pp. 14-16. 20 Rolf H. Johannsen, schede nn. 161 e 162, in Karl Friedrich Schinkel. Geschichte und Poesie, catalogo della mostra, Berlino 7/9/12-6/1/13 e Monaco 1/2/13-12/5/13, a cura di Hein-Thomas Schulze Altcappenberg, Rolf H. Johannsen, Christiane Lange, Hirmer, Monaco 2012, pp. 216-217.

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tre, nel complesso dei Römische Bäder e della Casa del Giardiniere, realizzato a partire dal 1829, viene inserito un edificio assemblato da “memorie” di una domus romana e di antiche strutture termali, il cosiddetto “Bagno romano” (1834-40), dotato di atrio con impluvio, apodyterium, viridarium e calidarium. Per comprendere, almeno in parte, tale cambiamento nella produzione del maestro prussiano, va ricordato come nel suo primo viaggio italiano, effettuato tra il 1803 e il 1805, sorprendentemente egli non abbia visitato Pompei, una tappa inclusa solo nel successivo viaggio del 1824, due anni prima dell’inizio dei lavori per Charlottenhof21. Proprio il padiglione costruito per il futuro Friedrich Wilhelm IV rimanda ad esempi antichi ma anche a modelli “moderni” che Schinkel potrebbe aver visto durante il secondo soggiorno napoletano, quando il gusto pompeiano comincia la fase di massima diffusione22. Ovviamente nell’opera del maestro prussiano non mancano altri esempi di decorazioni neopompeiane, come quelle, nel 1830, della sala da musica del Palais Redern e, nel 1831, le varianti per la sala da pranzo del Prinz Albrecht Palais23. È però l’edificio dei Römische Bäder a costituire un importante precedente per architetture neopompeiane come quella di Gärtner in Baviera, di cui si dirà oltre. Infatti, al di là di pitture, allestimenti o progettazione di singoli ambienti, quello dei Römische Bäder rappresenta il primo esempio tedesco di un edificio interamente costruito come esplicita citazione pompeiana. Qui Schinkel è aiutato da uno dei suoi allievi più brillanti, ossia Ludwig Persius, collaboratore del maestro già presso il cantiere di Charlottenhof, completato prima della morte 21

Andrea Maglio, L’Arcadia è una terra straniera, cit., pp. 33-34 e 51. Fabio Mangone, “Memorie napoletane nell’opera di Schinkel” in The Time of Schinkel and the Age of Neoclassicism between Palermo and Berlin, a cura di Maria Giuffrè, Paola Barbera, Gabriella Cianciolo Cosentino, Biblioteca del Cenide, Cannitello (RC) 2006, pp. 173-182. Analoghe ascendenze sono state ritrovate nel Neuer Pavillon (o Schinkelpavillon) nel parco di Charlottenburg a Berlino: Johannes Sievers, Das Vorbild des “Neuen Pavillons” von Karl Friedrich Schinkel im Schloßpark Charlottenburg, «Zeitschrift für Kunstgeschichte» 23/1960, p. 227 e segg.; Felice Fanuele, “Il trapianto di un tipo architettonico: il padiglione napoletano di Charlottenburg”, in Le epifanie di Proteo: la saga del classicismo nordico in Schinkel e Semper, a cura di Augusto Romano Burelli, Venezia 1983, pp. 65-78; Carlo Knight, Il Casino del Chiatamone, «Napoli Nobilissima» IV serie, XXV/1986, pp. 16-27. Marilena Malangone, “Il tema della residenza nell’architettura dei fratelli Gasse”, ne Il Mezzogiorno e il Decennio. Architettura città, territorio. Atti del IV Seminario di studi sul Decennio francese, a cura di Alfredo Buccaro, Cettina Lenza, Paolo Mascilli Migliorini, Giannini, Napoli 2012, pp. 299-314, ipotizza che il Neuer Pavillon possa derivare anche dal prototipo di Villa Dupont, poi Bozzi, ai Ponti Rossi a Napoli, costruita da Stefano Gasse; su questo tema, cfr. anche Winfried Baer, Ilse Baer, Le château de Charlottenbourg, Berlin, Fondation Paribas, Parigi 1995. 23 Cfr. Karl Friedrich Schinkel. Geschichte und Poesie, cit., p. 223. 22

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del maestro, come avviene anche per i Römische Bäder, ad eccezione degli interni ultimati solo negli anni Cinquanta. Gli allievi di Schinkel ricorrono al gusto pompeiano in maniera più estesa e approfondita: lo stesso Persius ritornerà ad attingere da tali fonti, inserendo un ambiente con impluvio nel progetto di ristrutturazione dello Schloss Lindstedt (1843-44), ispirato per volere di Friedrich Wilhelm IV alla casa di Sallustio a Pompei, come illustrata da William Gell, ma poi realizzato diversamente da altri tra il 1858 e il 186124; analogamente, nella ristrutturazione di Villa Tieck, effettuata poi nel 1846 da Ludwig Ferdinand Hesse dopo la morte di Persius, questi si fonda sulla presenza di impluvio, triclinium, viridarium e pergolati25. Tra gli allievi di Schinkel, anche Friedrich August Stüler si interessa all’arte antica, ricorrendo nelle sue opere ad elementi pompeiani, ma anche pubblicando un testo esegetico sulle pitture della città dissepolta26: delle antiche decorazioni l’architetto apprezza il carattere mimetico ma anche la capacità astrattiva, tanto da considerarle superiori a qualsiasi tipo di decorazione moderna degli interni. Egli produce quindi diversi ambienti di gusto pompeiano, come nel Neues Museum berlinese (1843-50) e nel Nationalmuseum di Stoccolma (1850-66)27. Un altro allievo di Schinkel, Johann Heinrich Strack, imparentato per via materna con i Tischbein e che eredita diversi cantieri di Stüler dopo la sua morte nel 1865, difende strenuamente l’adozione di elementi pompeiani rifiutando gli stili più in voga dell’epoca, tra cui soprattutto il gotico, mostrando di recepire dell’opera schinkeliana l’approccio più filologicamente classicista. Diversamente dal caso del maestro, però, i bei disegni pompeiani di Strack presuppongono già la conoscenza degli esiti che lo studio dell’antico ha prodotto, come proprio l’episodio dei Römische Bäder a Potsdam. Anche se Strack non ha avuto la possibilità di costruire una residenza neopompeiana, il suo caso dimostra la permanenza, ben oltre i limiti della stagione neoclassica, di una matrice classicista nella cultura architettonica tedesca, e segnatamente berlinese. 24 Ludwig Persius, Das Tagebuch des Architekten Friedrich Wilhelms IV. 1840-1845, a cura di Eva Börsch-Supan, Deutscher Kunstverlag, Monaco 1980, p. 45. 25 Cfr. la scheda di Andreas Kitschke, in Ludwig Persius. Architekt des Königs. Baukunst unter Friedrich Wilhelm IV., cat. mostra tenutasi a Potsdam 20/07-19/10/03, Schnell & Steiner, Ratisbona 2003, pp. 151-152. 26 Friedrich August Stüler, Ueber Dekorazion [sic] der Zimmer zu Pompeji, «Allgemeine Bauzeitung», V/1840, pp. 226-233. 27 Eva Börsch-Supan, Dietrich Müller-Stüler, Friedrich August Stüler 1800-1865, Deutscher Kunstverlag, Monaco-Berlino 1997, pp. 36-38.

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Il gusto pompeiano trova un terreno fertile anche fuori dai confini prussiani, come dimostra il caso bavarese, in particolare grazie alla committenza di Ludiwg I. Il più coerente ed intransigente rappresentante della linea filo-ellenica, Leo von Klenze, si serve spesso dell’elemento pompeiano per le decorazioni parietali di numerosi edifici, come lo Schloss Ismaning (1816-35), la Residenz di Monaco (181642), lo Hofgartentor (1816-18) e il Königsbau (1823-35), nonché negli ambienti interni della Villa Ludwigsöhe a Edenkoben, progettata e realizzata dal rivale Friedrich von Gärtner fino alla propria morte nel 1847. È tuttavia proprio quest’ultimo, generalmente ricordato per l’adesione al Rundbogenstil, a costruire una vera e propria replica di un’antica domus dove, come nei Römische Bäder, il riferimento a Pompei non si limita alle pitture murali, ma riguarda anche il tipo architettonico. Il Pompejanum di Aschaffenburg, in Baviera, è costruito per Ludwig I su progetto dell’architetto Friedrich von Gärtner tra il 1839 e il 185028. Il progetto è redatto dall’aprile 1839 fino alla fine del 1841, mentre la data dell’inizio dei lavori non è certa, pur essendo certamente compresa tra il 1841 e il 1843; alla morte di Gärtner, avvenuta il 21 aprile 1847, l’edificio è terminato nelle parti comprendenti i mosaici, gli stucchi, le decorazioni esterne e parte del giardino, mancando solo alcune delle decorazioni interne. La direzione del cantiere è assunta da Karl Fried­rich Andreas Klumpp, nipote di Gärtner, nominato responsabile di quasi tutti i lavori lasciati dallo zio. Per la redazione del progetto non va trascurato il ruolo di Johann Martin von Wagner, “luogotenente” di Ludwig a Roma, esperto d’arte antica, stretto amico di Gärtner e suo primo mentore durante il suo soggiorno romano dal 1814 al 181629. La realizzazione del Pompejanum presuppone senza dubbio uno studio attento e mirato dell’architettura residenziale antica, non da ultimo condotto sul posto. Infatti, la redazione del progetto comincia durante un viaggio in Italia compiuto nel 1839 da von Gärtner con il sovrano, comprendente anche gli scavi di Pompei, e appare chia28 Franz Seupel, Der pompejanische Bau bei Aschaffenburg, pubblicato dal curatore, Heidelberg 1859; Erika Simon, Das Pompejanum in Aschaffenburg und seine Vorbilder in Pompeji, «Aschaffenburger Jahrbuch», 103/1979, pp. 423-438, poi in Id., Schriften zur Kunstgeschichte, Stoccarda 2003, pp. 245-265; Karin Sinkel, Pompejanum in Aschaffenburg.Villa Ludwigshöhe in der Pfalz, Aschaffenburg 1984, pp. 66-132. Andrea Maglio, Friedrich von Gärtner 17911847. Un’estate in Sicilia nel 1816, Flaccovio, Palermo 2012, pp. 55-56. 29 Wagner avrebbe fornito una relazione descrittiva degli ambienti di un’antica domus, arricchita di citazioni da Platone e da Virtuvio: Oswald Hederer, Friedrich von Gärtner 1792-1847. Leben – Werk – Schüler, Prestel, Monaco 1976, pp. 180-182.

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ro come tra le ragioni principali di tale soggiorno vi sia proprio lo studio dei modelli per il Pompejanum. Non si tratta, peraltro, della prima volta che l’architetto visita la città vesuviana: egli infatti aveva viaggiato in Italia la prima volta tra il 1814 e il 1817, visitando tra l’altro Roma, Pompei e la Sicilia e studiando quindi l’antico, seppure prescindendo da qualsiasi finalità professionale: egli decide infatti nel corso di tale primo viaggio di diventare architetto e, non avendo ancora incarichi, impiega gli anni trascorsi in Italia per maturare le conoscenze necessarie ad una carriera animata da grandi ambizioni. Tornato per la seconda volta nel 1839 a Pompei, da Gärtner paragonata ad una vecchia amante col tempo divenuta più affascinante30, l’architetto e il sovrano sono onorati dalla disponibilità di una guida d’eccezione, ossia il berlinese Wilhelm Zahn, tra i massimi esperti di pitture e decorazioni pompeiane, nonché autore della celebre pubblicazione sulle pitture pompeiane, cui si è già fatto cenno. Tornato dall’Italia, alla fine del 1839 Gärtner incontra a Monaco l’architetto di Colonia Jakob Ignaz Hittorff, appassionato studioso dell’antico, che nel 1823 aveva soggiornato anche a Napoli, a Pompei e in Sicilia. Da questa esperienza erano nate le sue pubblicazioni dedicate alla Sicilia31, ma soprattutto quella centrata sul problema della policromia dei templi greci: De l’architecture polychrôme chez le Grecs, ou restitution complète du temple d’Empédocle dans l’Acropolis de Sélinonte, apparso per la prima volta nel 1830, si fonda da un lato sulle osservazioni compiute da Angell e Harris sulle metope di Selinunte e sull’intero filone di studi che ne consegue, e dall’altro sull’analisi dei resti di Pompei ed Ercolano32. Inoltre, Hittorff, residente a Parigi, collabora alla redazione 30 Lettera di Friedrich von Gärtner a Lambertine von Gärtner, 21 marzo 1839, da Oswald Hederer, op. cit., pp. 72-73 e n. 306. 31 Jakob Ignaz Hittorff, Architecture antique de la Sicile ou Recueil des plus intéressants monuments d’architecture des villes et des lieux les plus remarquables de la Sicile ancienne mesurés et dessinés par J. I. Hittorff, Paul Renouard, Parigi 1827-30, ed. riv. 1870; Architecture moderne de la Sicile ou Recueil des plus beaux monuments religieux et des édifices publics et particuliers, les plus remarquables des principales villes de la Sicile, Paul Renouard, Parigi 1835 (edizione italiana a cura di Leonardo Foderà, Palermo 1983). 32 Jakob Ignaz Hittorff, De l’architecture polychrôme chez le Grecs, ou restitution complète du temple d’Empédocle dans l’Acropolis de Sélinonte. Extrait d’un Mémoire lu aux Académies des Inscriptions et Belles-Lettres et des Beaux-Arts de Paris, «Annali dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica – Annales de l’Institut de Correspondance Archéologique» n. 2, 1830, pp. 263-284 (traduzione italiana Dell’architettura policroma presso i Greci o restituzione completa del tempio d’Empedocle, estratto di una memoria letta nelle Accademie d’Iscrizioni e di Belle Lettere e di Belle Arti di Parigi, «Giornale di Scienze, Lettere e Arti per la Sicilia», 36/1831, pp. 171-205), poi Restitution du temple d’Empédocle à Sélinonte, ou l’architecture polychrôme chez les Grecs, Firmin Didot, Parigi 1851.

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dell’edizione francese di Pompeiana. The Topography, Edifices and Ornaments of Pompeii, il lavoro di Gell e Gandy prima citato, ripubblicato a Parigi nel 1827 insieme a Jean-Louis Provost33. L’opera nella sua versione francese viene quindi inviata nel 1840 da Hittorff a Gärtner e non v’è dubbio che prima l’incontro tra i due e poi la lettura dell’opera dedicata a Pompei abbiano influito sulla redazione del progetto per l’edificio di Aschaffenburg, forse anche più del lavoro di Zahn. Il Pompejanum costituisce una citazione quasi letterale di una specifica domus romana, ossia la casa dei Dioscuri a Pompei, portata alla luce nel corso degli scavi effettuati tra il 1828 e il 1829 e di cui pianta, vedute e decorazioni parietali sono pubblicate nel 1832 nel secondo volume dell’opera di William Gell. Gärtner non aveva quindi potuto vedere la casa nel corso del suo primo soggiorno a Pompei, ma solo in occasione di quello del 1839, allorché è insieme a Ludwig, un sovrano tendente a imporre direttive molto precise ai propri architetti. Il progetto per l’edificio tedesco non può infatti ricalcare in toto il modello originario, che viene “corretto” per adeguarlo al sito prescelto regolarizzandone la forma e accentuandone la simmetria: nelle intenzioni di Ludwig e di Gärtner, benché ispirato ad un edificio reale, esso deve costituire un modello ideale, rappresentativo dell’architettura residenziale antica34. Per raggiungere quindi tale carattere esemplare, oltre a piccole modifiche e alla diversa sistemazione di alcuni ambienti, le pareti oblique sono raddrizzate e viene mantenuto un asse di simmetria tra l’ingresso e il peristilio diminuendo da cinque a quattro le colonne in fondo al giardino del peristilio stesso, che chiudono la prospettiva dall’atrio. Oltre alla casa dei Dioscuri, sono ovviamente studiati anche altri esempi di residenze pompeiane, come la casa di Sallustio, già utilizzata come modello per Lindstedt da Persius e Friedrich Wilhelm IV, e di cui è realizzato un modello in scala, in sughero, tramite Joseph Ema-

33 William Gell, John Peter Gandy, op. cit. Quella francese non è una mera traduzione, ma una riedizione arricchita di nuovo materiale: Hittorff redige i testi della terza e quarta parte, relativi rispettivamente a edifici pubblici e templi e a teatri e pitture, mentre il resto è compilato dall’architetto Jean-Louis Provost (1781-1850), allievo di Percier: cfr. la lettera di Hittorff a Gärtner, 10 aprile 1840, da Kristin Sinkel, op. cit., pp. 136-137. Sul contributo di Hittorff al lavoro di Gell e Gandy, cfr. Andrea Maglio, Gli architetti tedeschi a Ercolano e Pompei in epoca neoclassica, cit. 34 Cfr. Andrea Maglio, Friedrich von Gärtner 1791-1847. Un’estate in Sicilia nel 1816, cit., pp. 55-56; cfr. anche Andrea Maglio, “Dalla casa dei Dioscuri al Pompejanum. La costruzione di un idealtipo”, in Pompei nella cultura europea contemporanea, a cura di Luigi Gallo e Andrea Maglio, artstudiopaparo, Napoli 2018, pp. 59-76.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

nuel Bellotti, agente di Ludwig a Napoli35. Il problema principale è però rappresentato dalla differenza di contesto tra la casa dei Dioscuri e il Pompejanum: se la prima si trova infatti in pieno centro urbano, il secondo sorge invece in area extraurbana, libero dai quattro lati e affacciato sulla riva del fiume Meno. Durante il soggiorno pompeiano del 1839, Gärtner cerca quindi anche esempi di residenza extraurbana, interessandosi a due case situate fuori Porta Ercolano a Pompei, ossia la casa di Diomede, come risulta da una lettera alla moglie36, e probabilmente anche l’attigua villa di Cicerone, quest’ultima citata da Schinkel per le pitture delle danzatrici nel portico di Charlottenhof. Nella casa di Diomede, tuttavia, Gärtner non può trovare un modello del tutto soddisfacente, sia per la mancanza di un asse di simmetria tra atrio e peristilio che per la forma irregolare del lotto, nonché per la mancanza dell’elemento della loggia aperta verso il panorama, così importante nel Pompejanum37. Se quest’ultima potrebbe essere ispirata alla Villa di Cicerone, come anche alle raffigurazioni di diverse pitture antiche, è certo che laddove il modello originario o altri esempi antichi non possono fornire indicazioni sufficienti, il progetto mostra la sua efficace capacità di relazionarsi alle specificità del sito, su un’altura lungo il fiume: il livello superiore, configurato quale asse trasversale a quello di simmetria del piano inferiore, termina quindi proprio con la loggia affacciata sul fiume, coronata da un’ulteriore ambiente al terzo livello, da utilizzare come belvedere. Gli episodi della loggia e del belvedere costituiscono, in un edificio “introverso”, l’unico momento di “estroversione” capace di legarsi al paesaggio e all’ambiente circostanti. Attenti studi sono anche alla base delle decorazioni sia negli interni che sui prospetti esterni: per i mosaici, ad esempio, scartata per ragioni di costi l’ipotesi di acquistarne di originali, Ludwig incarica il suo “luogotenente” a Roma, Johann Martin Wagner, di farne realizzare alcuni ex novo; ad assolvere al compito sarà Giovan Battista Chiocchetti, inviato a Napoli e a Palermo per studiare gli esempi antichi38. Le decorazioni degli interni, realizzate in parte dopo la morte dell’architetto, sono opera di diversi artisti, tra cui Christoph Friedrich Nielson, Joseph Schlotthauer e Joseph Schwarzmann, tutti inviati dal re a Napoli a studiare le pitture del Museo Borbonico. 35 Dalla casa di Sallustio sono ripresi alcuni dettagli delle pitture esterne e la posizione della cucina: Kristin Sinkel, op. cit., pp. 81-82. 36 Oswald Hederer, op. cit., p. 73. 37 Erika Simon, op. cit., pp. 258-260. 38 Kristin Sinkel, op. cit., p. 72.

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IL GUSTO POMPEIANO IN GERMANIA

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La specificità del Pompejanum, tale da renderlo un caso unico, pur nella sua emblematicità da un punto di vista stilistico, è costituita dal fatto che l’edificio sia accessibile al pubblico sin dal momento del suo completamento. Questa peculiarità, in contraddizione con l’atmosfera “privata” dell’edificio, va spiegata con motivazioni di carattere politico, ossia con l’obiettivo di legare la cittadina di Aschaffenburg, da poco indipendente da Magonza, alla casa dei Wittelsbach39. In tal senso, l’idealizzazione dei modelli reali corrisponde alla necessità di mostrare un edificio “tipico”, con finalità quasi didattiche, forse sulla base del precedente costituito dal parco di Wörlitz, nello Anhalt. Inoltre, per il suo peculiare recupero dell’antico, nella storia dell’architettura bavarese il Pompejanum segna anche il compimento di un processo, precedente alla metà del secolo, che dalla monocromia della Ludwigstrasse conduce alla policromia della Maximilianstrasse. Come ci si può immaginare, il Pompejanum a sua volta diviene un modello per esempi più tardi di architettura residenziale ispirata al tipo della domus, anche al di fuori della Germania: il più evidente di questi è senz’altro il caso della Maison Pompéïenne, inizialmente commissionata nel 1855 dal principe Jérôme Napoléon proprio a Hittorff e poi costruita a Parigi, tra il 1856 e il 1860, da Alfred Normand40; ma in qualche modo ne riprende la traccia anche l’Achilleion di Corfù, costruito nel 1890 da Raffaele Caritto per Elisabeth di Baviera, nipote di Ludwig I, divenuta nel 1854 imperatrice d’Austria, che verosimilmente conosce il Pompejanum, e dove il riferimento all’antico è fuso in un ambiente eclettico immerso in un’atmosfera solare41. In tal modo, il fascino della casa pompeiana, così legato alla Sehnsucht per il sud, condivisa dagli architetti tedeschi e dai loro committenti per tutto il XIX secolo, arriva a ricongiungersi con l’elemento mediterraneo, nel caso di Aschaffenburg sublimato dalla presenza del fiume Meno, fiancheggiato da vitigni.

39

Erika Simon, op. cit., p. 248. La villa sarà demolita nel 1891: cfr. Marie-Noëlle Pinot de Villechenon, “De l’archéologie des frères Niccolini à celle de l’architecte Alfred Normand: l’imaginaire de la ville pompéïenne et du service de porcellaine de Sèvres du prince Jérôme Napoléon”, in Rêver l’archéologie au XIXe siècle: de la science à l’imaginaire, a cura di Eric Perrin-Saminadayar, Université de Sainte-Étienne, ivi 2001, pp. 237-254; Massimiliano Savorra, La casa pompeiana e la tradizione Beaux-Arts, in «Parametro» 261/2006, numero monografico dedicato a “Pompei e l’architettura contemporanea”, a cura di Fabio Mangone e Massimiliano Savorra, pp. 24-31. 41 Jeremy Barton, Marc Walter, Histoire d’un lieu: l’Achilleion de Corfou, «Connaissance des Arts» n. 621, novembre 2004, pp. 114-119. 40

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

ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

In conclusione, nella prospettiva storica delineata attraverso questo breve excursus emerge l’importanza del Pompejanum quale momento decisivo per l’individuazione ed il recupero, attraverso l’architettura, di radici culturali solo apparentemente remote. Non è un caso se agli inizi della stagione neoclassica, quando anche la purezza della cultura ellenica era ricercata in Italia, molti, tra cui pure Percier e Fontaine, considerano Pompei ed Ercolano città di origine greca42. L’elegia di Schiller del 1796, con i suoi versi appassionati – Greci, Romani, venite, guardate! L’antica Pompei si ritrova e si rimette in piedi la città di Ercole43 – esprime tutto il modo, già romantico, di guardare al passato. Nonostante la delusione di Goethe, dovuta alle esigue dimensioni di quelle che definisce “case di bambola”44, il gusto pompeiano, capace di permeare gli ambiti della moda, dell’arredamento, dei giardini, delle arti figurative e della letteratura, trova un perfetto completamento nell’architettura. Se allora l’architettura residenziale pompeiana non può fornire modelli per gran parte dei tipi architettonici ottocenteschi, e in particolare per gli edifici pubblici, con quasi un secolo di ritardo rispetto alla nascita della stagione neoclassica, con il Pompejanum si assiste invece proprio al tentativo di riprodurre con precisione un’antica casa romana. L’ambiente tedesco produce, in tal senso, prima con le opere di Schinkel, e poi soprattutto con il Pompejanum, contesti in grado di richiamare in ogni aspetto le atmosfere evocate dalla moda, dalle raffigurazioni, dalla poesia e dalla letteratura. Se l’interesse e lo studio dell’architettura pompeiana sono in ritardo rispetto a quelli per altre forme della stessa civiltà, in una fase successiva divengono però essenziali per ricollocare tali forme nel giusto contesto. Nel caso di Schinkel e dei suoi allievi, l’aspetto puramente mimetico è tralasciato in favore di una ricerca sulle leggi compositive degli antichi, da applicare in chiave moderna; anche il Pompejanum non è una mera imitazione, come conferma in primis la ricerca di simmetria assoluta, ottenuta partendo da modelli in cui questa manca; tuttavia l’assemblaggio di citazioni, che pure determina un edificio del tutto nuovo, in una dialettica continua tra reale e ideale, assume un significato assai diverso, anche in virtù del suo ruolo “didascalico”, finendo per costituire un perfetto emblema delle funzioni attribuite all’architettura. 42 Charles Percier, Pierre-François-Léonard Fontaine, Recueil de décorations intérieures, cit., p. 4. 43 «[…] Griechen, Römer, o kommt! o seht, das alte Pompeji / Findet sich wieder, aufs neu bauet sich Herkules Stadt […]»: Friedrich Schiller, Pompeji und Herkulanum, 1797. 44 Johann Wolfgang Goethe, [Reise nach Italien] Viaggio in Italia, cit., pp. 219-221.

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IL GUSTO POMPEIANO IN GERMANIA



1. Gottfried Semper, Japanisches Palais, Dresda, allestimento delle sale, 1835-36, Sala delle Ercolanesi (foto di Hermann Krone, 1888).

2. Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, Goethe in den römischen Campagna, 1787 (Städel Museum, Francoforte sul Meno).

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

ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

3. Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, Anna Amalia in den Ruinen von Pompeji, 178890 (Klassik Stiftung Weimar).

4. Karl Ludwig Zanth, Teatro della Wilhelma, Stoccarda, 1838-40, interno della sala.

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IL GUSTO POMPEIANO IN GERMANIA



5. Karl Friedrich Schinkel, Charlottenhof, Sanssouci, Potsdam, 1826-29, vista dal giardino.

6. Karl Friedrich Schinkel, Charlottenhof, la loggia sul giardino.

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

ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

7. Autore ignoto, Lo studiolo della principessa Elisabeth a Charlottenhof, 1844 (Stiftung Preussischer Schlösser und Gärten Berlin Brandenburg).

8. Karl Friedrich Schinkel e Ludwig Persius, Römische Bäder, Sanssouci, Potsdam, 1829-44.

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IL GUSTO POMPEIANO IN GERMANIA



9. Johann Heinrich Strack, Villa in Pompeji. Gewölbtes Cubiculum des 3. Stiles, 1855 (Technische Universität Berlin).

10. Friedrich von Gärtner, Studi di capitelli a Pompei, s.d. (Architekturmuseum, Technische Universität München).

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

ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

11. Adalbert Hock, Il re Ludwig I [sullo sfondo una vista del Pompejanum], 1902 (Schloß Johannisburg, Aschaffenburg), scomparso.

12. Friedrich von Gärtner, Pompejanum, Aschaffenburg, 1939-50, piante.

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IL GUSTO POMPEIANO IN GERMANIA



13. Friedrich von Gärtner, Pianta della casa dei Dioscuri a Pompei e pianta della stessa casa sovrapposta a quella del Pompejanum (da Friedrich von Gärtner. Ein Architektenleben 1791-1847, a cura di W. Nerdinger, Monaco 1992).

14. Il Pompejanum nel 1910 (da Friedrich von Gärtner. Ein Architektenleben, cit.).

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

ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

15. Il Pompejanum, vista dalla riva del Meno.

16. Il Pompejanum, vista della loggia e del belvedere.

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IL GUSTO POMPEIANO IN GERMANIA



17. Il Pompejanum, vista dell’interno prima dei bombardamenti (da Friedrich von Gärtner. Ein Architektenleben, cit.).

18. Il Pompejanum, vista attuale dell’impluvium.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

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19. Friedrich von Gärtner, disegno di studio per il Pompejanum (Architekturmuseum, Technische Universität München); Jakob Ignaz Hittorff, “Vues des ruines de Pompéi”, s.d., per l’edizione francese di Pompeiana. The Topography, Edifices and Ornaments of Pompeii, di William Gell e John Peter Gandy, pubblicata nel 1827, inviata a Gärtner nel 1840.

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IL GUSTO POMPEIANO IN GERMANIA

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20 Il Pompejanum, vista dell’interno verso l’ingresso.

21. Il Pompejanum, il triclinium estivo.

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IL GUSTO DELLA PIETRA NELLA ROMA DELL’OTTOCENTO: SCALPELLINI E SCULTORI, ESPERTI COLLEZIONISTI E SCALTRI COMMERCIANTI

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di Simonetta Ciranna

La Roma dell’Ottocento è intimamente e storicamente legata all’utilizzo in architettura dei marmi bianchi e colorati; pietre in larga parte provenienti da scavi, restauri, magazzini e collezioni di frammenti riconducibili alla Roma antica. In ideale continuità con il mondo romano attraverso la tradizione marmoraria medievale, la passione per la tavolozza cromatica e gli interessi antiquari e scientifici rinascimentali e neoclassici, il reimpiego di pietre antiche – spesso rare – conferiva alle architetture un particolare prestigio e una valenza simbolica connessi alla bellezza intrinseca e alla difficoltà di lavorazione di tale materia prima, nonché al suo alto valore economico. Una ‘ricchezza’ che veniva largamente esibita anche nella produzione di oggetti d’arte e di moda come spille, collane, orecchini, tabacchiere, o di elementi di arredo, quali candelabri, centritavola – cosiddetti dessert –, dejunè ossia piccoli tavoli tondi o rettangolari con inseriti nei piani mosaici o campionari di pietre antiche e moderne, e altro ancora; oggetti la cui materia era spesso frutto della ben nota abilità degli scalpellini di lucrare sui materiali forniti dai committenti e di adoperare anche i più piccoli scarti di lavorazione. Tra il 1861 e il 1864 l’architetto Virginio Vespignani1 realizzò la nuova scala e la cripta della Confessione di San Mattia nella basi1 Sull’architetto Vespignani cfr. S. Ciranna, Virginio Vespignani architetto-restauratore, in La cultura del restauro.Teorie e fondatori, a cura di S. Casiello, Venezia 1996, pp. 49-71 e 376-379; C. Barucci, Virginio Vespignani: architetto tra Stato Pontificio e Regno d’Italia, Roma 2006. Cfr. inoltre S. Ciranna, I colori dell’Ottocento romano tra archeologia e medievismi, in Il colore dell’edilizia storica, a cura di D. Fiorani, Roma 2000, pp. 107-110, tavv. 1-4 pp. 137-138.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

lica di Santa Maria Maggiore a Roma: un esempio eccezionale del gusto antiquario e pedantesco per la materia rara e preziosa nonché della predilezione del progettista per il tardo Cinquecento romano. Uno spazio la cui qualità compositiva coincide con il ricco apparato lapideo che lo riveste interamente, composto di marmi colorati e pietre dure “tra le più rare o ritenute tali dalla tradizione marmoraria romana”2. Le pietre utilizzate in questo cantiere – in tale rilevante varietà e qualità – furono in parte frutto di scavi archeologici anche contemporanei3, in parte furono assicurate dalla vendita ed eccezionalmente dalla cessione gratuita da parte di collezionisti, noti scalpellini e famosi pietrai4 romani o dai loro legittimi eredi. Nello scorrere la lista dei marmi e la loro provenienza certificata nei documenti di cantiere, si coglie l’identità professionale, culturale e sociale dei diversi fornitori: un microcosmo dove il gusto per le pietre s’intreccia con gli interessi per l’archeologia, il collezionismo, il commercio e con le stesse manipolazioni e lavorazioni della materia prima.

Francesco Sibilio e la malachite Tra le eredità a cui attinse Vespignani è quella del ‘lavoratore e negoziante di pietre tenere e dure’ Francesco Sibilio (Frosinone 1784 – Roma 1859)5, ben noto all’avvocato e collezionista di pietre antiche Francesco Belli6, il cui negozio in Piazza di Spagna 92 e il laborato2

Cfr. R. Gnoli, Marmora Romana, Roma 1971, 2a ed. (riveduta e ampliata) 1988, p. 108. S. Ciranna, Il colore dell’antico nella Confessione di Santa Maria Maggiore a Roma, in J. F. Bernard, P. Bernardi e D. Esposito, a cura di, Il reimpiego in architettura. Recupero, trasformazione, uso, Collection de l’École Française de Rome 418, Roma 2008, pp. 451460; Id., Pietre che camminano: il colore e il prestigio dei marmi antichi nell’Ottocento romano, in DECOR. Decorazione e architettura nel mondo romano, “Thiasos Monografie 9”, 2017, vol. II, pp. 823-832. 4 Sull’attività di questi artieri della pietra cfr. E. De Keller, Elenco di tutti i pittori, scultori, architetti, miniatori, incisori in gemme e in rame, scultori in metallo e mosaicisti aggiunti agli scalpellini pietrari perlari ed altri artefici e finalmente i negozi di antichità e di stampe esistenti in Roma l’anno 1824, Roma 1824, edizione riveduta Roma 1830, in particolare le pp. 45-50. 5 Cfr. anche per la bibliografia indicata S. Ciranna, Francesco Sibilio un pietrajo dell’Ottocento. La bottega, la casa, l’attività e l’inventario del 1859, in Studi Romani I, «Antologia di Belle Arti», n.s., nn. 67-70, 2004 (ma stampato 2005), pp. 146-167. 6 Belli gli aveva intitolato tre pietre della sua raccolta poi venduta al conte Stefano Karolyi, cfr. F. Belli, Catalogo della collezione di pietre usate dagli antichi per costruire ed adornare le loro fabbriche dell’avv. Francesco Belli ora posseduta dal conte Stefano Karolyi, Roma 1842. Le pietre sono il granito mischio di Sibilio, il porfido bigio di Sibilio e la lumachella rossa di Sibilio. 3

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IL GUSTO DELLA PIETRA NELLA ROMA DELL’OTTOCENTO

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rio-deposito per la lavorazione delle pietre in Via della Croce 13-14 occupavano una posizione urbana strategica per intercettare i turisti internazionali in viaggio a Roma nell’Ottocento preunitario7. La fama e la conseguente ricchezza di Sibilio crebbero grazie al legame professionale stabilito negli anni venti dell’Ottocento con alcuni membri della nobile famiglia russa dei Demidoff, grazie ai quali poté esibire sulla piazza di Roma lavori eseguiti nella costosissima malachite. Chiarificatore in tal senso è l’articolo pubblicato nel 1826 sul Diario di Roma, il giornale caro ai romani nel suo primo settecentesco nome di Chracas che così riporta: S. E. il signor Commendatore Conte di Dimidoff, amplissimo Mecenate delle buone Arti essendone sommo conoscitore, poiché a gran ventura ebbe rinvenuti nelle cave di sue proprietà in Siberia, […] parecchi frammenti di malachite, o rame stalattite, il molochites di Plinio lib. 37, cap. 8: si avvisò farne due colonne impellicciate, e ne allogò la difficile e lunga esecuzione al nostro signor Francesco Sibilio, già cognito bastantemente pe’ suoi pregiati lavori in pietre dure e di lusso. Egli l’artefice dopo nove mesi ha formato con tutto il magistero dell’arte le due colonne alte palmi nove ed once due, e di diametro palmo uno ed oncia una. Poseranno queste sopra base di metallo dorato, ed avranno un corrispondente capitello corintio di eguale materia. Sanno gl’intelligenti che avutosi riguardo alla difficoltà di procacciarsi la divisata pietra costosissima, della quale dice il conte di Buffon, che se ne potrebbero fare minuterie e bellissime scatole, né Roma, né l’Italia avea peranco vedute colonne così alte ricoperte di malachite, né forse le vedrà in progresso tempo, avvegnaché le cave danno di presente oro invece di tal pietra, e un bastimento che ne recava pochi frammenti non ha molto naufragò. Quello che varii anni indietro uscì dallo Studio rinomatissimo del Valadier era assai più piccola, e ricoperta di figure e di emblemi, perché gli strati della pietra e delle macchie non poco difettavano. Le discorse colonne, le quali sembrano di un solo blocco naturalmente acreziale, sono esposte al Pubblico intelligente in via della Croce num. 82 sotto il palazzo già Poniatowski, e quanto prima partiranno per la capitale della Toscana ad accrescere sempre nuovo ornamento e splendore nella Galleria dell’encomiato signor Commentatore8.

7 S. Ciranna, Della «principalissima industria della città di Roma». Case, botteghe, laboratori e studi degli artieri della pietra, in R. Morelli e M. L. Neri, a cura di, La cifra della città. Architettura ed economie in trasformazione, «Città & Storia», a. I, n. 1, gennaio-giugno 2006, pp. 133-155. 8 «Diario di Roma», 1826, n. 64, p. 2, articolo siglato A.B.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

Il conte citato dal giornale è Nikolaj Nikiticˇ (Pietroburgo 1773 – Firenze 1828), membro del ramo più legato all’Italia e in particolare a Firenze dei Demidoff, famiglia di “geniali fabbri russi” degli Urali proprietaria di miniere e di fabbriche per l’estrazione e la lavorazione del rame e del ferro. Per Nikolaj Sibilio svolse anche il ruolo di intermediario per l’acquisto di pezzi indicati come antichi, affiancato in questa veste dall’antiquario Ignazio Vescovali agente e uomo di fiducia del committente; l’epistolario corrente tra i due conferma tra altri oggetti l’acquisto di un bassorilievo con Apollo, Minerva e le nove Muse, un vaso di rosso antico con manici a forma di serpente, un busto di alabastro con testa di rosso antico rappresentante Tito Vespasiano, due amorini di marmo bigio morato uno che scocca un dardo e l’altro che dorme, sculture che dopo la morte di Demidoff furono trasferite da palazzo Serristori di Firenze a San Pietroburgo9. È Demidoff, quindi, a fornire Sibilio di belle pietre della Siberia, provenienti dalle miniere russe di sua proprietà, e, in particolare, della malachite, amata dal conte nelle forti combinazioni con lapislazzuli e altre pietre colorate e con i bronzi dorati. Questi ultimi venivano eseguiti dalla ditta parigina di Pierre Philippe Thomire, affermato fonditore e cesellatore in bronzo e dal suo socio, nonché genero, Louis Carbonelle. Nel soddisfare le commesse di Demidoff, Sibilio arrivò a coordinare nel suo studio anche venti lavoranti, divisi per fasi di lavoro: dalla segagione dei blocchi in lastre sottili, all’impellicciatura (cioè l’incollaggio delle lastrine su ‘vivi’ di peperino, o su sagome in metallo), poi alla tassellatura dei vuoti lasciati dalla pietra o interstiziali tra le diverse placche applicate e infine alla lucidatura. Al maestro della bottega competevano le fasi più spinose e le rifiniture più affinate del processo, a iniziare dalla preparazione dei piani idonei ad accogliere mosaici per finire con la tassellatura dei piccolissimi fori. La malachite, difatti, come Sibilio lamenta, è una pietra che una volta segata si presenta molto ‘tarlata’, necessitando dopo l’impellicciatura di una minuta operazione di tassellatura: una finitura lunga e complicata in special modo se non si fa alcun uso di stucco, come l’artefice rimarca più volte con vanto al suo committente. L’opera di cui parla il “Diario di Roma” del 1826 coincide con una tra le più importanti commesse di lavorazione in malachite che 9

In Archivio di Stato Russo per gli Atti Antichi di Mosca (Russkij Gosudarstvennyj Archiv Drevnych Aktov, RGADA) fondo (fond) 1267, filza (opis’) 2, fascicolo (delo) 400, cc. 1-131.

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IL GUSTO DELLA PIETRA NELLA ROMA DELL’OTTOCENTO

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impegnarono il laboratorio di Sibilio fino all’aprile del 1828. Si tratta dell’impellicciatura dei fusti delle colonne del tempio rotondo, alto m 6,70 e di diametro m 4,30, con capitelli, trabeazione e cupola in bronzo dorato, oggi nel Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Già dall’aprile del 1825 Sibilio scriveva dell’impellicciatura in malachite di due prime colonne, ultimate e spedite a Firenze nell’agosto del 1826. A queste se ne aggiungeranno altre sei, di cui solo due arrivarono a Firenze prima della morte del committente Nikolaj, avvenuta il 4 maggio 1828; l’evento determinerà un ritardo nell’ultimazione dell’opera che soltanto nel 1836 sarà spedita a San Pietroburgo da Anatolij Demidoff, figlio di Nikolaj, quale dono all’imperatore Nicola I per la Cattedrale di Sant’Isacco10. Ad avallare ulteriormente l’apprezzamento per la malachite e per l’esecuzione di tale lavoro sono le pagine introduttive dell’edizione del 1830 della guida di Enrico De Keller, nelle quali l’autore descrive l’esposizione nel negozio di Sibilio di “quattro colonne di 12 palmi per il defunto Commendatore Demidoff, nelle quali gareggiava il valore della materia col pregio della esecuzione. Erano queste di malachita composte i fusti con tale artificio, che sembravano affatto saldi, ed intieri, come di un sol masso, coi capitelli, e le basi di bronzo dorato”11. L’effetto di interezza – l’apparire “di un sol masso” – rappresenta un punto di eccellenza e di fierezza della bottega di Sibilio come lui stesso chiarisce in una missiva al suo committente: «domani si termina l’impellicciatura delle colonne, e ora si pone mano a tassellare tutti i piccoli vani, ed occupandomi in questo lavoro con altri sette uomini spero di poterlo terminare […] senza stucco, e tutto a forza di piccoli tasselli addattarli alle tarle e bucchi lasciati dalla Malachita», finendo con l’esclamare «invece di fare il Pietraio, devo fare il Mosaicista, essendo la Malaghita in piccolissimi pezzi, e se un palmo di impellicciatura in pezzi grandi si fa in 4 giorni in piccoli pezzi vi vole 15 e nel mio lavoro non metto stucco, ma tassello il più piccolo buco»12. 10

Cfr. S. Ciranna, Francesco Sibilio…, cit. E. De Keller, Elenco di tutti i pittori, cit., pp. 16-17. Già il 27 giugno del 1826, Sibilio pregava Demidoff di: «sapere se non fosse per disapprovare V.E. ch’io potessi far vedere le Colonne agli amatori che vengono alla mia officina, e se posso senza dispiacere a V.E. soddisfare alla curiosità di chi mi domanda il nome del proprietario. Stante che essendo questo [per Roma] un lavoro non mai veduto desta molta curiosità». Brano riportato in S. Ciranna, Francesco Sibilio..., cit., p. 155. 12 S. Ciranna, Francesco Sibilio..., cit., p. 155. Per Demidoff Sibilio realizzò oggetti impiegando (si tratta quasi sempre di impellicciature) anche altre pietre preziose provenienti dalla Siberia, presumibilmente fornite dallo stesso committente. Una nota dettagliata dei lavori ultimati e in corso inviata da Sibilio al conte russo il 15 gennaio del 1828, elenca, tra l’altro, alcuni vasi in serpentino, in quarzo roseo e quarzo tigrato, nonché suppellettili 11

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

In uno scritto edito nel 1842 il dottor Andrea Belli, l’erudito medico chirurgo dell’ospedale della Consolazione autore prolifico di articoli di archeologia, storia, botanica, numismatica, divulgati sui giornali del tempo, elogia l’attività di Sibilio citando «fra tanti altri lavori in pietre dure e tenere una scrivania coperta di malachite (cuprum ochreaceum malachites) con panierini di svariati fiori in pietra dura, ed ornati di metallo dorato che sul verde più intenso o languido delle zone concentriche di quella bellissima stallagmite vagamente rifulge. Di più ha fatto esseguire con una operosità di dieci interi anni un quadrilongo in musaico di palmi due sopra cinque, esprimente la magnifica scenografia di Roma sul disegno tanto celebrato del Vasi: la euritmia e la finezza di così arduo e dispendioso lavoro, portato all’ultimo apice della umana perfezione, non si può concepire se non si osservi con occhio proprio, e noi congratuliamo con lui così belle imprese»13. Il ‘quadrilongo’ così descritto e ammirato coincide con la tavola in mosaico in piccolo ricalcante, parzialmente modificato nelle insegne dedicatorie, il Prospetto dell’alma città di Roma, visto dal monte Gianicolo e sotto gli auspici della S.R. Maestà cattolica di Carlo III re delle Spagne, inciso da Giuseppe Vasi nel 176514. Un micromosaico romano di stupefacente qualità oggi conservato nella collezione Gilbert alla Somerset House di Londra di cui resta avvolto nel mistero il nome dell’autore15. Alla morte di Sibilio, Giuseppe Leonardi lo scalpellino incaricato di redigere la stima dei marmi a fini ereditari valutò, tra quelli presenti nel negozio in Piazza di Spagna, per la cospicua cifra di scudi 100 un «vaso lacrimatojo di granito detto di Sibilio alto palmi quattro, e tre once, diametro palmo uno ed oncia una», di scudi 200 due «dejunè di nero, intarsiati di vetri e smalti antichi del diametro ciascuno di palmi due e once otto» e di scudi 500 un «dejunè fondo di marmo interziato di astracane dorato lapislazzuli, semesanto, malaghita con di più piccole dimensioni come sopraccarte (spesso usati come modellini per opere più grandi), pietre incise per bracciali e collane, sottocalamai e altro ancora. 13 A. Belli, Del molibdo-bullo bisantino che porta il nome di Teodoro Patrizio e generale in Sicilia delle truppe dell’imperatore di Oriente Giustiniano, Roma, Tipografia del Collegio Urbano, 1842, pp. 16-17. Il sigillo a cui Belli ha dedicato il suo scritto apparteneva, come lui stesso scrive, «al valente pietrista sig. Francesco Sibilio che, dopo di avermi in tante altre guise obbligato, me ne ha fatto un dono, e mi gode l’animo di esprimergli in queste pagine, che vanno intorno, perché di pubblica ragione, gli sentimenti veraci della mia più viva e ben dovuta riconoscenza». 14 A. González-Palacios, The Art of Mosaics. Selections from the Gilbert Collection, catalogo mostra Los Angeles County Museum of Art 28 April-10 July 1977, Los Angeles 1977, n. 45; J. H. Gabriel, The Gilbert Collection. Micromosaics, London 2000, n. 29. 15 Sull’attribuzione cfr. S. Ciranna, Francesco Sibilio..., cit., pp. 158-159.

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centro di diaspro ossia pietra pistacchina del diametro di palmi cinque e mezzo» (oltre m. 1,20)16. Lavori nei quali le pietre usate e la forza dei contrasti cromatici risultanti dal loro accostamento sembrano risentire di alcune predilezioni del principe Nikolaj Demidoff, confermando parimenti la perizia e il deciso sperimentalismo di Sibilio nell’uso di materiali duri e colorati anche di reimpiego e sugli effetti cromatici17. I colori e i contrasti dominavano all’interno del suo negozio anche nell’affiancamento degli oggetti in mostra, come sembra confermare ancora Leonardi quando descrive e stima due manufatti di particolare pregevolezza realizzati anch’essi con pietre siberiane, ossia «due Colonne trionfali a guisa di quelle Antonina e Trajana di serpentino della Siberia alte tre palmi ed un oncia compresi il piedistallo e cappelletto con due statuetti di Bronzo dorato rappresentanti gli imperatori Antonino e Trajano»18, e prossime a queste una più imponente e costosa colonna Traiana «di rosso antico con bassorilievi nel piedistallo e statua di bronzo dorata e zoccolo di nero» alta oltre m. 1,10 (5 palmi).

Pietro Martinori e i tavoli di marmo Se nei suoi dejunè Sibilio affiancò alle pietre dai colori intensi provenienti dalla Siberia il recupero della tecnica antica delle paste vitree a imitazione di materiali preziosi, a Roma è l’uso dei marmi antichi a qualificare questi arredi così come molti elementi e finiture d’architettura. Il successo dei lussuosi piccoli tavoli oltre a un consolidato gusto dell’antico rispondeva ai sempre più crescenti e diffusi interessi scientifici e archeologici, venendo ad accogliere nei piani vere e proprie campionature di pietre antiche e moderne raffinatamente composte. In tal senso particolarmente significativo è il successo ottenuto nell’Esposizione di Parigi del 1867 dallo scalpellino Pietro Martinori 16

Archivio di Stato di Roma, 30 Notai Capitolini, Uff. 32, luglio-dicembre 1859, notaio Filippo Maria Ciccolini, ff. 451r-596v. 17 Sull’uso di paste vitree e sul reimpiego di frammenti di antichi mosaici in vetro cfr. A. González-Palacios, Lavori di Sibilio, in «Casa Vogue Antiques», marzo 1991, n. 12, pp. 84-89; M. S. Newby, Francesco Sibilio and the reuse of ancient Roman glass in the nineteenth century, Annales du 16ème Congrès de l’Association Internationale pour l’Histoire du Verre (AIHV), Londra 2003, pp. 401-404. 18 Una coppia di piccole colonne onorarie di Traiano e Antonino, scolpite questa volta in lapislazzulo e in malachite e firmate da Sibilio nel 1833, sono descritte in A. González-Palacios, Lavori…, cit., p. 86.

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(ca. 1824-1890), membro di una delle più influenti famiglie di marmorari romani la cui scalata sociale ed economica ebbe avvio con il padre Giacomo (?-1837) e grazie all’attività svolta nel grande cantiere di ricostruzione della basilica di San Paolo fuori le Mura, devastata dall’incendio del 15 luglio 182319. A descrivere l’abilità del capostipite Giacomo e i suoi legami con una committenza internazionale è Faustino Corsi, l’erudito avvocato romano noto collezionista e conoscitore delle pietre antiche, autore del celebre trattato Delle pietre antiche, edito nel 1828 e in versioni ampliate nel 1833 e poi nel 184520. In quest’ultima Corsi descrive una «tazza baccellata ed ornata di manichi» realizzata da Giacomo Martinori per il Duca di Devonshire, quasi certamente William George Cavendish Spencer (1790-1858) marchese di Hartington. Ricchissimo mecenate, collezionista e viaggiatore, il duca affidò a Giacomo un blocco di fluorite o spato fluore come la denomina Corsi, portato dall’Inghilterra insieme alle istruzioni per la sua lavorazione. La fluorite, infatti, è una pietra piuttosto tenera, difficile da lavorare senza rischiare di scheggiarla o frantumarla sotto i colpi dello scalpello. Secondo quanto riportato da Corsi il metodo indicato dal committente all’abile scalpellino consisteva nel «riscaldare a fuoco lento la pietra, e quindi accrescerne il calore fino a che sopra di essa si liquefacesse una qualunque delle nostre poco bene odorose resine: saturata la pietra e fermate, come suol dirsi, le parti lamellari della medesima, si scarpellava, e quindi tornandosi a riscaldare e coprire il masso di resina, quante volte il bisogno il richiedesse, si giungeva al compimento del lavoro»21. Tornando all’esposizione internazionale di Parigi del 1867, il nome di Pietro Martinori è qui affiancato a quello del barone Pier Domenico Costantini Baldini, Ministro del Commercio dello Stato Pontificio, che espose a suo nome «una tavola di marmo contenente nel suo piano una collezione di pietre antiche, rinvenute negli scavi ordinati da Sua Beatitudine nelle ruine del Palazzo Imperiale sul Palatino»22. Il piano circolare di diametro m. 1,30 e dal perimetro “modinato leggiadramente” era formato da un disco di nero antico incavato per accogliere 19 S. Ciranna, I Martinori. Scalpellini, inventori, imprenditori dalla città dei papi a Roma capitale, Roma 2007. 20 Su quest’opera vedi da ultimo l’edizione riccamente illustrata C. Napoleone, a cura di, Delle pietre antiche. Il trattato sui marmi romani di Faustino Corsi, Roma 2001. 21 F. Corsi, Delle Pietre Antiche, Roma 18453, p. 179. 22 Elenco generale ragionato di tutti gli oggetti spediti dal Governo Pontificio alla Esposizione Universale di Parigi nell’anno 1867 per mezzo del Ministero del Commercio Belle Arti Industria Agricoltura e Lavori Pubblici, Roma, Tipografia della Rev. Cam. Apostolica, 1867, p. 35.

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attorno al centrale stemma di Pio IX in mosaico colorato i 120 pezzi della collezione, disposti in numero di 24 per cinque file. Nel catalogo predisposto dal Governo Pontificio per questa occasione tutti i 120 elementi lapidei sono elencati con precisione23, probabilmente per esaltare la qualità e la varietà delle pietre utilizzate nonché la bravura dell’esecutore il marmista Pietro Martinori. L’ammirazione riguardo questo tavolo-collezione fu tale che alla medaglia d’argento conquistata nella classe Applicazione del disegno e della plastica alle arti usuali, si aggiunse il particolare apprezzamento del Principe Imperiale di Francia, figlio di Napoleone III, che la ottenne in dono dal pontefice Pio IX24. Nell’Esposizione del 1867 l’abilità di intagliatore di Pietro fu ulteriormente sancita dalla medaglia di bronzo da lui ottenuta con un’altra tavola rotonda in marmo del diametro di un metro, stimata 2000 franchi, sulla quale a compartimenti spirali erano “intarsiati centono23 Le pietre impiegate sono: “Prima fila: 1. Seme Santo, 2. Breccia dorata, 3. Cipollino rosso, 4. Breccia tigrata, 5. Granitello Egizio, 6. Giallo brecciato, 7. Verde Africano, 8. Lumachella rosea, 9. Verde antico, 10. Alabatro a righe, 11. Seme santo dorato, 12. Verde plasma, 13. Semesantone, 16. Cipollino mandorlato, 17. Breccia corallina, 18. Diaspro di Sicilia, 19. Porta Santa pavonazza, 20. Serpentino di Vitelli, 21. Alabastro tartaruga, 22. Broccatello, 23. Breccia di villa Adriana, 24. Lumachella Vitulano. / Seconda fila: 1. Porta santa brecciata, 2. Lumachella orientale, 3. Breccia di Seravezza, 4. Serpentino verde, 5. Breccia traccagnina, 6. Breccia pavonazza, 7. Porta santa, 8. Granitello erbetta, 9. Marmo scritto, 10. Pudinga dorata, 11. Breccia pavonazza, 12. Murra, 13. Alabastro a vene, 14. Alabastro unito, 15. Agata, 16. Alabastro ondulato, 17. Africano, 18. Breccia pavonazza, 19. Alabastro fiorito, 20. Alabastro fiorito rosso, 21. Bigio Africano, 22. Lumachella d’Abruzzo, 23. Alabastro macchiato a vene, 24. Breccia dorata. / Terza fila: 1. Alabastro marino, 2. Astracane femmina, 3. Africano lumacato, 4. Porta santa a corallina, 5. Broccatello, 6. Serpentino erbetta, 7. Alabastro ad occhio, 11. Alabastro orientale, 12. Occhio di Pernice scuro, 13. Africano pavonazzo, 14. Serpetino di Vitelli, 15. Pavonazzo brecciato, 16. Alabastro a righe, 17. Corallina cenerina, 18. Diaspro rosso radicellato, 19. Cipollino mandorlato, 20. Porta santa, 21. Breccia ombrata, 22. Saravezza brecciata, 23. Africano verde, 24. Fiordipesco rosso. / Quarta fila: 1. Giallo dorato brecciato, 2. Porta santa turchiniccia, 3. Occhio di pavone rosso, 4. Alabastro scuro venato, 5. Breccia di Villa Adriana verde, 6. Alabastro rosso e verde, 7. Alabastro fiorito, 8. Africano rosso, 9. Breccia corallina, 10. Breccia dorata, 11. Porta santa, 12. Corallina, 13. Breccia dorata minuta, 14. Porta santa, 15. Broccatellone antico, 16. Verde antico, 17. Occhio di Pavone, 18. Africano fiorito verdastro, 19. Breccia Pavonazza, 20. Granito orbicolare, 21. Alabastro scritto, 22. Fior di persico, 23. Porta santa, 24. Diaspro. / Quinta fila: 1. Breccia di Egitto, 2. Fior di persico, 3. Granito del foro, 4. Breccia pavonazza, 5. Porta santa, 6. Rosso brecciato, 7. Serpentino verde, 8. Broccatello di Spagna, 9. Granito della (p. 38) sedia, 10. Verde antico, 11. Giallo antico carnagione, 12. Serpentino agatato, 13. Granito Egizio, 14. Alabastro fiorito rosso, 15. Granitello Egizio, 16. Breccia di Aleppo, 17. Cipollino rosso, 18. Broccatellone, 19. Porfido verde, 20. Granito della sedia, 21. Rosso brecciato, 22. Granitello a vermiglioni, 23. Porfido rosso, 24. Pavonazzetto”. 24 Il tavolo oggi è conservato nell’appartamento del Papa nel Castello di Fontainebleau. Un piano simile, forse opera dello stesso artigiano, è invece esposto nella Ia Sala Sistina dei Musei Vaticani. Cfr S. Ciranna, I Martinori..., cit., pp. 85-87.

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vantadue specie di scelti e rari marmi”25. Per tale evento internazionale Martinori aveva lavorato anche su un altro manufatto, anch’esso esempio di riuso di marmi antichi. Si trattava delle copia in scala poco meno della metà dell’altare papale di Santa Maria Maggiore riprodotto in marmi antichi colorati, quali: africano, pavonazzetto, broccatello, porfido rosso, verde antico, fior di persico, breccia corallina, alabastro, marmo bianco, granito rosso, nero antico, giallo antico, porfido verde26. L’altare non partì mai per Londra e lo sfortunato esito di questo lavoro sembra reiterare l’esclusione di Pietro Martinori dal più prestigioso cantiere della scala e cripta della Confessione di san Mattia nella basilica di Santa Maria Maggiore, dovuta forse a un controverso rapporto tra lo scalpellino e il progettista e direttore dei lavori l’architetto Virginio Vespignani27.

Virginio Vespignani e i marmi di Francesco Sibilio, Tommaso Della Moda e Filippo Albacini Sin dalle prime scelte progettuali Vespignani previde di rivestire “in marmi, stucchi, ed in oro” le pareti e la volta come pure i pavimenti, le scale e le balaustre, cioè ogni piccola superficie, della nuova scala e cripta della Confessione di Santa Maria Maggiore. La sua architettura rispondeva a un’ideale ricerca di armonica coerenza con l’intero impianto basilicale, scrigno di un ricco campionario di marmi antichi: dalle colonne in marmo imezio della nave maggiore, ai rivestimenti e agli arredi delle cappelle Sistina e Paolina, la cui varietà e policromia costituivano per Vespignani un modello insuperato e idealizzato, fino al baldacchino soprastante la cripta impostato da Ferdinando Fuga su quattro colonne di spolio in porfido28. Avveduto conoscitore sia dei marmi antichi e moderni, sia del mercato e delle maestranze romane a esso legate, Vespignani riuscì ad abbattere i costi delle magnifiche pietre usate sollecitando e ottenendo, grazie all’intercessione del Papa, donazioni di frammenti e blocchi la25

Ivi, p. 87. L’altare era stato eseguito da Pietro su incarico di un certo marchese di Lamberty che tuttavia non lo pagò ne ritirò mai. 27 Su questo si rinvia al testo S. Ciranna, I Martinori..., cit. 28 Su questo cfr. i giudizi espressi dai contemporanei nei due brevi articoli pubblicati in Arti e lettere. Scritti raccolti da Francesco e Benvenuto Gasparoni, vol II, Roma 1865; il primo di A. Monti, Cose nuove, pp. 163-165, l’altro non firmato La nuova confessione di S. Maria Maggiore, p. 184. 26

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pidei provenienti dai magazzini, dagli scavi e dai cantieri ancora aperti (come quello di San Paolo). Al termine dei lavori l’impegno economico di questa voce – appena più di 1.554 scudi – corrispose a poco oltre un quinto della spesa complessiva. La dettagliata nota dei marmi bianchi e colorati e delle pietre dure redatta nel 1864 dall’architetto come parte integrante della documentazione economica del cantiere evidenzia il pregio dei frammenti lapidei scelti e la loro eccezionale varietà; quest’ultima è esaltata dalle diverse denominazioni che la tradizione dei marmorari assegnava alle pietre in base ai colori o alla forma delle pigmentazioni, venature e macchie, fino all’odore stesso che emanavano alla segagione29. Valgano a esempio eloquente le distinte specie di alabastro acquistato da Vespignani nella varietà a pecorelle, fortezzino, tartarugato, a rosa, fiorito, orientale d’Egitto e amatistino. Tra i diversi venditori che rifornirono il progettista risultano i nomi dei capi mastri scalpellini Sante Cianfarani e Francesco Viti impegnati nello stesso cantiere, entrambi sicuri collezionisti nonché esperti conoscitori del valore economico e dell’uso delle pietre30. Le tre maggiori forniture pervennero però dall’eredità di tre artisti morti pochi anni prima l’inizio del cantiere della Confessione. Si tratta del citato pietrajo Francesco Sibilio, dello scalpellino Tommaso Della Moda (?-1854) e dello scultore Filippo Albacini (1777-1858). Tre diversi artieri della pietra le cui botteghe ricadevano nel cosiddetto Tridente, tra piazza di Spagna e la via di Ripetta, area in cui più si concentrava la fiorente industria romana della lavorazione e vendita di manufatti in pietra: dai piccoli oggetti mobili, alle diverse componenti architettoniche fino alla più alta scultura. L’esame degli inventari redatti alla morte dei tre artisti restituisce la misura qualitativa ed economica di questi particolari patrimoni; marmi grezzi o semilavorati depositati negli studi e magazzini di Sibilio, Della Moda e Albacini, le cui stime a volte gareggiano con quelle dei beni immobiliare, costituirono una non trascurabile fonte di introito per i discendenti che approvvigionarono architetti, artigiani e collezionisti. 29

In Archivio Segreto Vaticano, Fondo Particolare Pio IX, cassetta 23, cartella titolata Rapporto sulla nuova scala e cripta nella confessione liberiana, documento Nota dei marmi bianchi e colorati e delle pietre dure fornite o donate o acquistate per le decorazioni della nuova Scala e Cripta sotto la Confessione della Basilica Liberiana. 30 Francesco Viti è l’autore insieme a Ugo Tambroni di Cataloghi delle Collezioni di pietre decorative Pescetto e De Santis, in Appendice alla Guida all’Ufficio Geologico del Corpo Reale delle Miniere, Roma 1904, pp. 39-99.

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Sibilio, di cui si è già detto, fu forse in prima persona a vendere a Vespignani pezzi di breccia dorata e di astracane31. Sarà invece la figlia ed erede Luisa a rifornire l’architetto di frammenti di cipollino mandolato verde, cipollino rosso, lapislazzuli e, ancora, di: un rocchio di bellissima saravezza antica, altro di giallo antico, due pezzi di alabastro a pecorella, due pezzi di breccia dorata, cinque piccoli pezzi di verde antico, due tondi di granito rosso, un tondo di astracane del diametro palmo ½ grosso 3/24, una sfera di breccia dorata del diametro di palmo 1, quattro pezzi di pietra pistacchina e una lastra di lumachellone detto di Savorelli. Tommaso Della Moda, anche lui esperto lavoratore di pietre dure e conoscitore di marmi, appare esprimere una peculiare abilità come scalpellino/scultore. È lui infatti tra i promotori e gli artefici ai quali nell’ambito della ricostruzione della basilica di San Paolo fuori le Mura venne affidata, tra l’altro, l’impegnativa e delicatissima operazione di impellicciatura in pavonazzetto di alcune colonne32. Al momento della morte nel giugno 1854 Della Moda abitava al secondo piano del fabbricato di via delle Colonnette n. 20, di cui era interamente proprietario, e aveva la bottega-magazzino in affitto alla Passeggiata nuova di Ripetta. Negli anni Quaranta il suo negozio di belle arti era in via della Croce n. 25 a pochi passi, quindi, da quello di Sibilio33. L’attività di Della Moda quale artefice di oggetti di arredo e di ornamenti preziosi è attestata dalla lunghissima stima di tali manufatti custoditi nella casa e nel laboratorio al momento della sua morte; la lista fu redatta dal mastro scalpellino Alessandro Banchini come parte integrante dell’inventario dei beni34.

31

Come già riportato Sibilio morì nel 1859. Va precisato che i nomi delle pietre sono riportati come citati nella documentazione di cantiere. 32 Cfr. M. Docci, I Martinori a San Paolo fuori le Mura, in S. Ciranna, I Martinori…, cit., passim. Si veda inoltre O. Noël – E. Pallottino, scheda “X.3.9. Luigi Poletti”, in Maestà di Roma. Da Napoleone all’unità d’Italia, catalogo della mostra, Roma 7 marzo-29 giugno 2003, Venezia 2003, p. 494; E. Pallottino, scheda “X.3.10. Luigi Poletti”, in Maestà di Roma, cit., pp. 494-495. 33 Qui infatti è segnalato tra i “pietrari scalpellini negozi di pietre” nell’Almanacco letterario, scientifico, giudiziario, commerciale, teatrale ecc. ecc. ossia grande raccolta di circa 10000 indirizzi, ed altre interessanti notizie dell’interno di Roma, Roma 1842, p. 327 e nel Manuale artistico e archeologico ossia raccolta di notizie ed indirizzi riguardanti i stabilimenti, professori d’ogni genere, artisti e negozianti residenti in Roma, Roma 1845, p. 81. Cfr. S. Ciranna, Della «principalissima industria…, cit., pp. 148-151. 34 In Archivio di Stato di Roma, Trenta Notai Capitolini, Ufficio I, giugno 1854, Filippo Bacchetti Notaro, ff. 237r-417v.

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Fra i diversi manufatti eseguiti in marmi e pietre pregiate, in mosaico, micromosaico, in conchiglia, spiccano numerosi dejuner, sopracarte, bracciali, tabacchiere, spille e riproduzioni in piccolo di monumenti romani. A fornire un’idea si riporta quanto stimato in un brevissimo estratto di tale inventario: due coppie di templi di Giove Statore e Tuonante, di rosso antico con loro piante di verde antico, alto ciascuno palmi due (valutati assieme scudi ottanta); un’urna di Scipione di rosso antico con pianta di bianco e nero larga palmi 1.4 (scudi quaranta); un tripode di rosso antico con basamento e pianta di nero alto assieme palmi 1.8 di diametro palmi 0.10 (scudi trenta); due obelischi di rosso antico alti ognuno palmi 2.04 con geroglifici (scudi venticinque); un frammento di Chimera con basamento di alabastro a rosa orientale alto assieme palmi 1.09 (scudi dodici); una dama di palombino e verde con meandro attorno quadrata palmo 1.010 (scudi otto); un tondino di alabastro di Egitto di diametro palmo 1.6 (scudi tre); una piccola urna di Scipione di rosso antico con pianta di verde lunga palmo 0.10 (scudi dieci); una piccola scrivania di rosso antico con pianta di lumachella moderna (scudi sei), e moltissimo altro ancora. A tale lascito di Della Moda attinse l’architetto Vespignani per acquistare dagli eredi Monachesi, dal nome assunto dalla figlia Marianna coniugata con Ferdinando Monachesi35: dell’alabastro a rosa, due mezze colonne e due dischi di occhio di pavone, tre pezzi di verde antico, un lastroncello di cipollino mandolato, due pezzi di fior di persico, un frammento di Seme Santo, una lastra di alabastro a pecorella, altri sei pezzi di cipollino mandolato, palmi cinque di giallo antico e palmi nove di africano. Filippo Albacini figlio del più celebre scultore Carlo, aveva esercitato l’arte dello scolpire in tono minore rispetto al genitore forse in ragione della ricchezza da lui ereditata36. Alla sua morte e apertura del testamento37, il 17 febbraio 1858, risultò erede universale del suo ingente patrimonio l’Accademia di San Luca, di cui Filippo era stato orgoglioso membro sin dalla primavera del 1811. In tale patrimonio rientravano anche «tutti gli oggetti d’arte 35

Tommaso nel suo testamento nomina eredi universali i nipoti Alessandro e Tito Monachesi figli di Marianna. 36 A suggerirlo è il necrologio conservato nell’Archivio dell’Accademia di San Luca (AASL), Registro delle Congregazioni di Belle Arti, vol. 118, n. 49, Congregazione generale del 26 febbraio 1858. 37 Copia del testamento è conservata in Archivio Storico Capitolino, Atti Urbani, sez. XXI, prot. 208, Notaio Domenico Bartoli, 17 febbraio 1858.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

esistenti nei studi e magazzini e consistenti in statue, marmi, la statua dell’Achille da me eseguita e non ultimata, gessi, ed altro». La statua citata coincide con l’Achille morente replicata due volte, una ordinata dal 6° duca di Devonshire nel 1823 pagata 630 scudi è esposta alla galleria di sculture di Chatsworth38, l’altra è conservata nella sede a Roma dell’Accademia di San Luca. Secondo le direttive dello scultore l’Accademia, inventariati i beni ereditati, «li anderà vendendo ne rinvestirà le somme ritratte per erogarne la rendita […] al vantaggio della Gioventù Romana Artista di Scultura»39. Il 5 marzo 1859 il «Giornale di Roma» pubblicò l’avviso per “li signori amatori di belle arti” relativo alla prima asta pubblica degli effetti ereditari di Filippo Albacini e in particolare dei marmi provenienti dagli studi che lo scultore aveva in affitto al vicolo dei Greci. La vendita, che avrebbe avuto luogo il 10 marzo in piazza di Spagna n. 14, avrebbe compreso come indicava l’avviso «oggetti di scultura antichi e moderni, cioè busti, statue, torsi gruppi, bassorilievi, urne cinerarie e frammenti, non che rocchi di colonna in pietre colorate, lastre massicce ed impellicciate di varie pietre ancora orientali antiche, quattro rarissime colonnette di alabastro violetto fiorito, le quali sono uniche per pregio e bellezza, mostre da caminetto di ricercato disegno ed esecuzione e tutt’altro come meglio verrà descritto nel catalogo a stampa che sarà distribuito al pubblico […] dal perito Giovanni Martinetti nel suo negozio di mobilia sulla piazza di S. Agostino n. 13»40. Nella relazione del 10 agosto 1861 Ferdinando Cavalleri, economo dell’Accademia di San Luca, presentò la gestione di tre anni dell’eredità Albacini sottolineando come le vendite dei beni mobili avessero fruttato molto. In particolare egli così riassumeva: […] ognuno sa che il Locale di proprietà del Collegio Greco ove presso che tutti si contenevano i nominati oggetti doveva essersi tolto ad epoca vicinissima, fu quindi […] necessario […] sgombrare tali ambienti, e non avendone altri in pronto, come ancora per risparmio delle spese enormi di trasporto si giudicò di venire tosto ad una vendita particolare il che però ebbe luogo senza la pubblicità degli annunzi, [tra febbraio 1858 e febbraio 1859] ciò nonostante appena si seppe l’essersi posto da noi A. Yarrington, ‘Under Italian skies’, the 6th Duke of Devonshire, Canova and the formation of the Sculpture Gallery at Chatsworth House, in «Journal of Anglo-Italian Studies», vol. X (2009), pp. 41-62. 39 Più esattamente, le rendite provenienti dall’eredità dovevano sostenere l’istituzione del concorso triennale di scultura denominato ‘Concorso Albacini’ riservato ai soli scultori romani di genitori romani e, in carenza di questi, esteso agli italiani. 40 «Giornale di Roma», 1859, n. 52, 5 marzo, p. 208. 38

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IL GUSTO DELLA PIETRA NELLA ROMA DELL’OTTOCENTO

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mano ad una tal vendita i cui prezzi si disse non so con qual fondamento essere favolosamente minimi, che una turba di acquirenti accorse per farne l’acquisto o la scelta, in tale congiuntura che da Massaio mi viddi subitamente trasformato in bottegaio. Confesso che tutt’altro che piacevoli furono le mie riflessioni, e seduto talvolta sopra una di quelli antichi frammenti posto in quel vasto magazzino per vendersi, mi sembrò di rappresentare Mario assiso sulle rovine di Cartagine. Ma lasciando a parte le tristi riflessioni consoliamoci nel vedere che questi furono i giorni più proficui alla Amministrazione accademica poiché i compratori ed amatori affluivano, la nostra bottega aveva preso buon avviamento41.

È da questa miniera che Vespignani acquisì per il suo prezioso cantiere numerose splendide pietre, ed esattamente: bigio lumacato, giallo antico brecciato, africano, bianco e nero antico, porfido (con segatura), pavonazzetto (con segatura), verde antico, alabastro fiorito; alabastro a rosa, alabastro a pecorelle; alabastro orientale di Egitto; alabastro amatistino in quattro colonnette. Le quattro piccole colonne quasi certamente coincidenti con quelle citate come ‘rarissime’ nell’annuncio del 1859. Queste e molte altre furono le pietre che confluirono nelle specchiature che risolvono l’epidermica cromia architettonica progettata da Vespignani. Una composizione minuziosamente descritta nell’encomiastica monografia dedicata alla confessione liberiana nel 1867, nella quale peraltro è riportato al capitolo XIII il “Catalogo delle pietre poste in opera nella cripta e nel vano anteriore”42. Una descrizione le cui parole conclusive chiariscono la volontà e l’obiettivo del progettista: “quanto poi all’armonia che richiedeva del nuovo lavoro con l’antico, chi anche per poco si fermi a considerare la forma generale della decorazione, il garbo delle cornici e degli altri ornamenti metallici, le forme mistilinee degli spartiti, e la fortunata combinazione delle molteplici tinte di tanti e si vari marmi, sarà forzato a confessare non sembrar questo lavoro novello, recentemente aggiunto al tabernacolo preesistente, ma piuttosto una costruzione e decorazione contemporanea a quello, quale il Fuga non poteva ideare nel suo tempo, più bella ed armoniosa”43.

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AASL, Registro delle Congregazioni di Belle Arti, vol. 121, fasc. 66. F. Fabi Montani, La Confessione della Basilica Liberariana rinnovellata ed ampliata dalla Santità di Nostro Signore Papa Pio Nono, Roma 1867 in particolare il capitolo X redatto, come scrive l’autore nell’introduzione, in stretta collaborazione con l’architetto Vespignani. Il catalogo (cap. XIII) è invece alle pp. 49-50 e include nella nota il nome di alcuni tra i più illustri donatori. 43 Ivi, p. 41. 42

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1. Veduta della nuova scala e cripta della Confessione di San Mattia nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma con il sistema di rampe che la integra al piano della navata centrale e al soprastante baldacchino (da: F. De’ Conti Fabi Montani, La Confessione della Basilica Liberiana rinnovellata ed ampliata dalla Santità di Nostro Signore descritta ed illustrata, Roma, Tipografia della R.C.A., 1867).

2. Sezione longitudinale della cripta (da: F. De’ Conti Fabi Montani, La Confessione della Basilica…, cit., tav. IV).

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IL GUSTO DELLA PIETRA NELLA ROMA DELL’OTTOCENTO

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3. Francesco Sibilio e il tempio rotondo con colonne in malachite, Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo (foto dell’autrice).

4. Luigi Rossini, Terza Veduta della rovina della gran Basilica di S. Paolo fuori le mura, e principalmente del muro della gran nave di mezzo quasi tutto atterrato dalle fiamme, dell’incendio accaduto li 15 luglio 1823, Roma 1823.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

5. Anonimo, busto in marmo di Pietro Martinori (Accademia di San Luca, Galleria, 131, pubblicata in S. Ciranna, I Martinori…, cit., 15 a p. 47).

6. Pietro Martinori, tavolo composto da una collezione di marmi provenienti dalle “ruine del Palazzo Imperiale sul Palatino” con al centro lo stemma del pontefice Pio IX (Fontainebleau, castello, appartamento del papa, pubblicata in S. Ciranna, I Martinori…, cit., tav. 20).

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IL GUSTO DELLA PIETRA NELLA ROMA DELL’OTTOCENTO

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7. Il tavolo di Pietro Martinori nell’appartamento del papa al castello di Fontainebleau.

8. Filippo Albacini, l’Achille morente nella galleria di sculture di Chatsworth (foto dell’autrice).

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9-10. Dettagli delle specchiature lapidee delle pareti e dei pavimenti nella cripta della Confessione di san Mattia nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma (foto di A. Scamponi).

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IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”: ARCHITETTI, OPERE, COMMITTENTI*

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di Massimiliano Savorra

Nel 1885, al Monday Evening Club di Boston, Henry Van Brunt tenne una conferenza per spiegare la sua “Personal Equation” del Rinascimento. L’architetto della neomedievale Harvard University’s Memorial Hall affermò che era arrivato il momento di rivalutare, anzi “riabilitare”, lo stile quattro-cinquecentesco, in quanto erede della «Classic formula» e rappresentazione della «perfection of proportion»1. *

Desidero ringraziare il personale della New York-Historical Society, della Avery Architectural & Fine Arts Library (Columbia University) e della New York Public Library, per la gentilezza e la disponibilità dimostrate. Ringrazio inoltre il College Italia-H2CU Residence (Centro Interuniversitario di Formazione Internazionale-Honors Center of Italian Universities) e l’Università degli studi del Molise per aver reso possibile le mie ricerche a New York. Alcuni risultati delle ricerche presentati all’incontro di Jesi del 2012 sono stati approfonditi e discussi anche in conferenze e altre occasioni seminariali (Pisa 2013, Parigi 2013, Venezia 2014, Pompei 2015). In questa sede mi propongo di affrontare lo studio comparativo di esempi di “case italiane”, rimandando agli atti dei rispettivi incontri la trattazione di altre questioni specifiche e di carattere generale. Cfr. M. Savorra, Da luogo dell’immaginazione a paesaggio della memoria: l’Italia e il mito del Rinascimento nell’architettura americana della Gilded Age, in H. Burns, M. Mussolin (a cura di), Architettura e Identità locali, Leo Olschki, Firenze 2013, pp. 203-222; Id., Money with style. The Italian Renaissance and American architects, in A. Brucculeri, S. Frommel (a cura di), L’architecture de la Renaissance au XIXe siècle, Campisano, Roma 2016, pp. 243-256; Id., Venezia a Manhattan. Riflessi italiani nella definizione formale del grattacielo, in M. Bonaiti, C. Rostagni (a cura di), Venezia e l’architettura contemporanea, Quodlibet, Macerata 2016, pp. 64-86; Id., Mettere in scena l’antico. La lezione di Pompei e i viaggi degli architetti americani in Italia, in M. Osanna, R. Cioffi, et al. (a cura di), Pompei e l’Europa. Memoria e riuso dell’antico dal neoclassico al post-classico, Electa, Milano 2016, pp. 118-126. 1 H. Van Brunt, The Personal Equation in Renaissance Architecture, in Architecture and Society. Selected Essays of Henry Van Brunt, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1969, pp. 150-157. La citazione è a p. 152.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

Le idee di Van Brunt erano pienamente condivise da un nutrito gruppo di pittori, scultori e architetti, tanto che la critica aveva fin da subito individuato un fenomeno, oltre che una corrente di pensiero, che riguardava non solo gli aspetti artistici e culturali, ma anche un nuovo modo di vedere l’espressione di un’intera società2. La nascita del cosiddetto “American Renaissance”, come ricordava Richard Guy Wilson in occasione della mostra tenutasi nel 1979 al Brooklyn Museum di New York, riguardava l’identificazione simbiotica, manifestata sia dagli artisti che dagli studiosi, i collezionisti, i politici, gli uomini d’affari e gli industriali, con i protagonisti del rinnovamento culturale che aveva interessato l’Europa nei secoli XV e XVI3. A proposito della “nuova moda”, Luciano Patetta scrive: «mai prima d’allora era stata accolta dalla stampa e dall’opinione pubblica con tanto entusiasmo una così spinta europeizzazione e una così netta presa di distanza dalle tradizioni nazionali»4. La trasformazione travolgente che le città stavano vivendo era stata notata già dai critici americani del tempo, tra cui William C. Brownell e Mariana Griswold van Rensselaer5. Inoltre, sempre più l’Italia rinascimentale rappresentava un modello per la creazione di ferventi circoli culturali, ad opera di giovani artisti cosmopoliti, mentre si assisteva ovunque alla fondazione di organi di trasmissione del sapere umanistico e scientifico, in primis riviste e musei, e alla proliferazione di edifici costruiti nell’Italianate style, carattere definito, già nel 1862 da James Fergusson, come «original, appropriate and grand»6. In tal senso, per comprendere il fenomeno del “American Renaissance”, oltre a misurare l’impatto delle riletture del Rinascimento italiano nel contesto della formazione degli architetti americani, è utile rileggere la storia di alcune costruzioni “italiane” realizzate negli Stati 2 L’espressione “American Renaissance” fu ripresa da Joy Wheeler Dow e, come è noto, anche dal critico Francis Otto Matthiessen per riferirsi alla corrente letteraria di Emerson e Whitman. Cfr. J. Wheeler Dow, American Renaissance. A Review of Domestic Architecture, W.T. Comstock, New York 1904; F .O. Matthiessen, American Renaissance: Art and Expression in the Age of Emerson and Whitman, Oxford University Press, London 1941. 3 Cfr. R. G. Wilson, The Great Civilization, in The American Renaissance 1876-1917, catalogo della mostra (New York 13 ottobre-30 dicembre 1979), The Brooklyn Museum, New York 1979, p. 11. 4 L. Patetta, Il successo dell’Eclettismo negli Stati Uniti, in L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Architettura dell’Eclettismo. La dimensione mondiale, atti del convegno (Jesi, 24-25 giugno 2002), Liguori Editore, Napoli 2006, p. 27. 5 Cfr. R. G. Wilson, Architecture and the Reinterpretation of the Past in the the American Renaissance, in «Winterthur Portfolio», vol. 18, 1, 1983, pp. 69-87. 6 J. Fergusson, A History of the Modern Styles of Architecture, John Murray, London 1862, p. 130.

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IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”

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Uniti. Ripercorrendo vicende progettuali e biografie emergono interessanti temi-chiave, quali la cultura dei progettisti, la pratica del viaggio in Europa, l’insegnamento della storia dell’architettura, l’idealizzazione del passato. Affrontando alcuni casi-studio di dimore eccezionali, inoltre, è possibile mettere in relazione la cultura edilizia, la passione per le città italiane, il gusto per gli interni raffinati e, soprattutto, la ricerca di identità di una giovane nazione in un momento storico in cui si stava imponendo sulla scena internazionale.

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Le dimore urbane dell’aristocrazia del denaro e le città italiane come riferimento Almeno dagli anni Ottanta dell’Ottocento, i clienti americani più facoltosi chiesero ai loro architetti di progettare edifici ispirandosi ai grandi committenti italiani e ai maggiori artisti dell’Umanesimo. Firenze, Venezia, Genova non erano monarchie, e soprattutto, i mercanti e i banchieri, patroni delle arti, non erano aristocratici di nascita7. Gli edifici delle città italiane del Rinascimento divennero così un modello di riferimento per la realizzazione di eleganti magioni, espressione “nobile” del potere e del buon gusto, soprattutto a New York8. Tra queste spiccano le case (1882-86) realizzate per Henry Villard, il grande magnate delle ferrovie. Costruite sulla Madison Avenue dallo studio di McKim, Mead & White, le Villard Houses erano la prova più clamorosa di come il Rinascimento italiano potesse essere piegato alle esigenze della nuova classe dominante. Ampiamente utilizzate al di là e al di qua dell’oceano9, le tavole di Paul-Marie Letarouilly costituirono le basi fondamentali per Joseph Morrill Wells, primo assistente 7 Cfr. B. Cartosio, NewYork e il moderno. Società, arte e architettura nella metropoli americana (1876-1917), Feltrinelli, Milano 2007, pp. 92-103. 8 Cfr. J. Tauranac, Elegant New York. The Builders and Buildings 1885-1915, Abbeville Press, New York 1985; P. R. Baker, Riflessioni sull’architettura americana e l’Italia, 1840-1992, in La virtù e la libertà. Ideali e civiltà italiana nella formazione degli Stati Uniti, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1995, pp. 245-271. Si veda anche M. C. Kathrens, Great Houses of New York 1880-1930, Acanthus Press, New York 2005. Cfr. inoltre M. Savorra, I signori del “Rinascimento” e i loro palazzi: l’immagine italiana di New York, in «ASUP – Annuario di storia dell’urbanistica e del paesaggio», 2, 2014 [ma 2015], pp. 97-110. 9 J. Barrington Bayley, Letarouilly on Renaissance Rome, a cura di H. Hope Reed, Dover Publications, New York 2012. Si veda anche l’introduzione di O. Selvafolta, Memoria e progetto nella “Roma Moderna” di Paul-Marie Letarouilly, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1984, pp. V-XII, edizione italiana di Paul Letarouilly, Édifices de Rome Moderne, Princeton Architectural Press, New York 1984.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

incaricato di seguire il progetto10. Insieme alle esperienze odeporiche dei titolari che supervisionavano l’esecuzione dell’opera11, i tre volumi francesi sull’architettura italiana, pubblicati a Parigi tra il 1840 e il 1857, permisero di comprendere nei dettagli come si potesse materializzare il Rinascimento romano (evidenti i riferimenti al palazzo della Cancelleria e a palazzo Farnese), sia nel disegno degli esterni, sia nella definizione dei raffinati interni, opera quest’ultimi in principal modo di Stanford White12. Per quanto riguardava la tipologia, la decisione di creare una corte aperta, ispirata a illustri precedenti italiani come Palazzo Pitti, era dettata, oltre che dalla volontà di avere una migliore disposizione ai fini del soleggiamento, anche dalla possibilità di alienare due delle tre unità di cui si formava il complesso (Villard tenne per sé l’intera ala sud, mentre le altre furono vendute a Edward Dean Adams, ad Artemas H. Holmes e a Harris C. Fahnestock). Il committente, che amava identificarsi con i signori del Rinascimento italiano, impose specificatamente che fossero utilizzati il marmo per gli interni e la pietra arenaria per la facciata e non i mattoni di terracotta, caratteristici invece di innumerevoli edifici a New York13. La scelta fu condivisa dai progettisti che si sentivano gli eredi dei grandi maestri rinascimentali14. Peraltro, il tema dei materiali da costruzione adatti allo stile prescelto era da qualche tempo largamente dibattuto in ambienti accademici e su periodici specializzati. La rivista «The 10

Cfr. W. C. Shopsin, M. Glaser Broderick, The Villard Houses. Life Story of a Landmark, Viking Press, New York 1980, p. 37. 11 Il giovane collaboratore aveva avuto modo di visitare l’Italia durante un viaggio compiuto nel 1881, ma sembra che non avesse ancora ben inteso il potenziale “iconico” dell’architettura italiana. Scriveva a White: «Italian architecture is great and grand and dignified. But it seems to me ill adapted for our domestic country where we put three stories to their one». La lettera è citata in L. Roth, McKim, Mead & White Architects, Harper & Row, New York 1983, p. 87. 12 Cfr. R. G. Wilson, McKim, Mead & White Architects, Rizzoli, New York 1983, pp. 9497. Alcuni apparati scultorei sono stati attribuiti ad Augustus Saint-Gaudens e a Frederick MacMonnies. Si veda anche W. Craven, Stanford White. Decorator in opulence and dealer in antiquites, Columbia University Press, New York 2005; Cfr. M. Savorra, McKim, Mead & White, moderni rinascimentali, in L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), I grandi protagonisti, Liguori, Napoli 2013, pp. 73-131. 13 Cfr. Ch. Lockwood, Bricks & Brownstone. The New York Row House, 1783-1929. An Architectural & Social History, McGraw-Hill Book Company, New York-St.Louis-San Francisco-London-Sidney-Toronto 1972. 14 Charles Follen McKim si faceva chiamare “Bramante”, mentre il suo notissimo socio Stanford White era appellato con il soprannome di “Benvenuto Cellini”. Cfr. Ch. Moore, The Life and Times of Charles Follen McKim, Houghton Mifflin Company, Boston 1929, p. 57. Sul rapporto tra White e l’Italia si rimanda a P.R. Baker, Stanford White and Italy, in I. B. Jaffe (a cura di), The Italian Presence in American Art, 1860-1920, Fordham University Press-Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1992, pp. 158-172.

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IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”

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American Architect & Building News», ad esempio, affrontò in diversi articoli la questione del modo in cui potessero fondersi i dettagli del progetto in un «mixture of modern classic and medieval Italian»15. Oltre che argomenti ampiamente affrontati anche in altre occasioni, come le esposizioni internazionali di Philadelphia e di St. Louis16, la liberazione dall’asservimento inglese e l’ispirazione, per i cosiddetti “elementi dell’architettura”, all’arte italiana, furono alla base di una pratica seguita soprattutto nella realizzazione di dimore in città. Per quanta riguarda le case di Villard, come scrisse Henry-Russell Hitchcock, era nel bugnato, nella scala superba e nei dettagli – il cornicione, i conci agli angoli, le cornici delle finestre del piano principale, il portico sul retro della corte – che si mostrava nel presente un’architettura di qualità senza tempo17. In numerose occasioni i grandi committenti, di solito appassionati collezionisti, fecero edificare nuove residenze per custodire le favolose fortune accumulate, non bastando intere ali già destinate alle opere d’arte. Per le “case-museo” appositamente costruite, valeva il principio che il contenitore dovesse essere in sintonia con il contenuto, ossia le sculture e i dipinti raccolti dai proprietari. Capitava, in alcuni casi, che tali architetture fossero composte con elementi costruttivi, non importa se autentici o “verosimili”, acquistati in Italia tramite agenti fiduciari di fama o esperti autorevoli come critici e storici dell’arte. I pezzi con cui creare i sontuosi palazzi andavano a costituire tessere di un puzzle già prefigurato nella mente del committente18, sia che si trattasse di una bifora o di una trabeazione originali, sia di un pa15

Cfr. Art in the House, in «The American Architect & Building News», 8 febbraio 1879, pp. 43-44. 16 Cfr. J. D. McCabe, The illustrated history of the Centennial exhibition, held in commemoration of the one hundredth anniversary of American independence. With a full description of the great buildings and all the objects of interest exhibited in them ... to which is added a complete description of the city of Philadelphia, The National publishing co., Philadelphia 1876; International exhibition, Fairmount Park, Philadelphia, 1876: acts of congress, rules and regulations, description of the buildings, U. S. Centennial Commission, Philadelphia 1876; The world’s fair, St. Louis, U.S.A., 1904. Celebrating the centennial of the Louisiana purchase. A book of beautiful engravings, illustration the great enterprise in its important features, with portraits of officers and brief descriptions of buildings, etc., R.A. Reid, St. Louis (Mo.) 1902. 17 H.-R. Hitchcock, Prefazione, in W. C. Shopsin, M. Glaser Broderick, The Villard Houses. Life Story of a Landmark, Viking Press, New York 1980, p. 9. 18 Si veda il notissimo episodio del palazzo “veneziano” a Boston di Isabella Stewart Gardner. Cfr. M. Carter, Isabella Stewart Gardner and Fenway Court, Isabella Stewart Gardner Museum, Boston 1972; H.T. Goldfarb, The Isabella Stewart Gardner Museum. A Companion Guide and History, Yale University Press, Yale 1995. Si veda anche Letters of Bernard Berenson and Isabella Stewart Gardner, 1887-1924, Northeastern University Press, Boston 1987.

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vimento appartenuto a un nobile italiano decaduto o di una vetrata acquistata sul florido mercato antiquario. In casi come quelli delle Villard Houses, gli artigiani cercavano così di appagare i desiderata degli architetti e del loro cliente; nel caso in cui non vi riuscissero, la fiorente industria italiana (non di rado con filiali americane) poteva fornire, oltre agli arredi, anche gli elementi costruttivi e decorativi “in stile” (ferri battuti, fregi in stucco, soffitti a cassettoni, mosaici veneziani, stemmi in marmo, etc.). Per quanto riguarda le fonti di riferimento, le città del Bel Paese nel periodo aureo delle arti rinascimentali furono prese come modello nel loro insieme e divennero fonte d’ispirazione anche per quegli architetti che fino a quel momento avevano soltanto guardato all’età di mezzo. Esempi della transizione tra due epoche, quella medievale e quella rinascimentale, città come Venezia potevano essere considerate, da architetti e critici come Russell Sturgis, luoghi dove la storia e il presente, l’arte e la natura si incontravano. Peraltro, le condizioni ambientali e topografiche lagunari, ritenute fondamentali per lo sviluppo della Serenissima dall’autore della Furfee Hall della Yale University, venivano paragonate a quelle della costa atlantica americana: «Venice depends so much upon her surroundings for her peculiar character that no account of the city is possible without some allusion to her remarkable situation […] The map of the head of the Gulf of Venice, taken from Stieler’s Atlas, shows you the long stretch of sandy islands, similar to those which line our own Atlantic coast, and which enclose the great South Bay, Coney Island Bay, and the rest of the south shore of Long Island, Albermarle and Pamlico Sounds, and the hundred sounds of less importance on the coast south from Sandy Hook»19. Se Venezia era l’anello di congiunzione tra il lungo Medioevo e la rinascita delle arti, Firenze era il modello massimo di riferimento per la creazione di ambienti domestici e case signorili. Era considerata l’habitat ideale per artisti raffinati, la meta simbolica di un pellegrinaggio laico da compiere e consigliare a tutti coloro che giudicavano l’Italia il principale centro d’incubazione della civiltà occidentale, anche per autorevoli esperti come Charles Eliot Norton, Bernard Berenson, Roger Fry e altri che collaborarono con i grandi magnati statunitensi e che scrissero sull’arte e sulla cultura fiorentina. Non solo da considerarsi una semplice tappa del viaggio di formazione, la città toscana era ri19

Avery Architectural & Fine Arts Library (Columbia University), Russell Sturgis Papers, 1874-1932, Series I: Lectures, Box 1, Item 3-6, Lecture on Venice, datata 1889.

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IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”

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tenuta, infatti, la sorgente della “rinascita” europea grazie alla cultura borghese (artigiana, commerciale e bancaria) generatrice di una forma nuova indipendente di Stato-nazione. Mitizzata negli scritti degli intellettuali americani, sul finire dell’Ottocento l’Atene d’Italia era immaginata dai progettisti d’oltreoceano come il ponte di collegamento tra il sapere classico e la modernità. Influenzati dai testi di Burckhardt e di John Ruskin, gli architetti e gli artisti, insieme ad acclamati scrittori, come Edith Wharton o Henry James20, giunsero nel capoluogo toscano in un momento cruciale di creazione romantica della nuova “idea di Firenze”, proprio con l’obiettivo di andare a “ri-conoscere” quell’arte che, più di altre, aveva espresso nella storia le interazioni tra passione, libertà, democrazia e grandezza economica21. Alla ricerca di modelli importabili, gli architetti americani individuarono nei palazzi fiorentini un prototipo, facilmente adattabile grazie alla presenza di una facciata aulica e di una corte interna, e perfettamente contaminabile con altri esempi romani e veneziani di maggiori dimensioni. Per di più, nei prospetti, al posto degli stemmi gentilizi e degli scudi araldici, potevano trovare sistemazione le insegne dei nuovi committenti. In tal senso, tra fine Ottocento e primi anni del Novecento, McKim, Mead & White, dopo il grande successo delle Villard Houses, furono artefici a New York di una serie notevole di “palazzi rinascimentali”, come la dimora per Henry Augustus Coit Taylor (1896), la casa per William Earl Dodge Stokes (1900-02), la residenza dell’editore Joseph Pulitzer (1900-03), che si richiamava a palazzi veneziani come Cà Pesaro e Cà Rezzonico, e la residenza per John Innes Kane (1904-08), influenzata dal romano palazzo Massimo alle Colonne22. A Washington, invece, lo studio professionale realizzò per l’editore e direttore del «Chicago Tribune», Robert Wilson Patterson il palazzo di Dupont 20 Cfr. F. Bacchiega, Edith Wharton a Firenze, «Rivista di Studi Italiani», XXIII, 2, dic., 2005, pp. 153-160; R. Lewis, Howells, Duveneck e Henry James, in M. Bossi, L. Tonini (a cura di), L’idea di Firenze. Temi e interpretazioni nell’arte straniera dell’Ottocento, atti del convegno (Firenze, 17-19 dicembre 1986), Centro Di, Firenze 1989, pp. 243-250. 21 Sulla percezione della città e la costruzione di un’immagine ad uso e consumo dei viaggiatori stranieri si vedano: G. Morolli, Gli “armonici innesti” della modernità. L’immagine di Firenze nell’Ottocento e l’invenzione storicistica di un’architettura “medioevalumanistica”; L. Tomassini, Itinerari e viaggiatori.Verso una nuova percezione della Toscana nel secondo Ottocento, in M. Bossi, M. Seidel (a cura di), Viaggio di Toscana. Percorsi e motivi del secolo XIX, atti del convegno (Firenze, 28-29 novembre 1996), Marsilio, Venezia 1998, pp. 199-235, 237-261. 22 Cfr. J. Barrington Bayley, Letarouilly on Renaissance Rome, a cura di H. Hope Reed, New York 1984, 2012, p. 61. La casa Kane fu realizzata con William S. Richardson.

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Circle (1900-03), nel quale Stanford White guardò, per la definizione degli esterni, al romano palazzo Spada. Sempre nei primi anni del secolo, le famiglie più agiate e i grandi speculatori immobiliari di New York si ispirarono ai famosi tycoons, chiedendo ai loro architetti palazzi nello stile rinascimentale italiano: William J. Taylor si rivolse a Charles Platt per l’edificio (1905-06) tra la 66th e Lexington Avenue23; Victor V. Kranich chiese a William E. Mowbray di costruire un complesso di lusso rinascimentale dotato di ogni confort moderno e denominato “Verona Apartments” (1909) tra la 64th e Madison Avenue; il miliardario e filantropo Edward S. Harkness commissionò a James Gamble Rogers una residenza (1908) sulla Fifth Avenue; e i miliardari William D. Sloane e Emily Vanderbilt incaricarono prima lo studio Warren & Wetmore di realizzare un casa rinascimentale (1902) sulla 91th tra la Fifth e la Madison Avenue per la figlia Florence Adele sposata con James A Burden jr.24, e poi chiesero a Carrère & Hastings, qualche anno dopo, di costruire, in un lotto accanto, un altro edificio (1906), per la seconda figlia Emily e suo marito John Henry Hammond, che si richiamasse all’opera di Michelangelo e di Vasari. Non un club nel vero senso della parola, l’Home Club costruito da Gordon, Tracy & Swartwout (1906) era piuttosto un lussuoso edificio ad appartamenti per facoltosi newyorkesi, come il banchiere Pliny Fisk, i quali ambivano a dimorare in luoghi “fiorentini” simili a quelli dei grandi magnati. Sempre nello stesso anno Trowbridge & Livingston innalzarono un edificio sulla Fifth Avenue per Benjamin Altman nelle forme di un palazzo rinascimentale italiano. Così, allo stesso modo Robert S. Brewster volle farsi costruire su Park Avenue dallo studio di Delano & Aldrich una casa (1907) che si richiamasse al Rinascimento fiorentino; George Jay Gould, magnate delle ferrovie, fece progettare la sua dimora (1906-08) a Horace Trumbauer nello stile “palazzo”, e Thomas Fortune Ryan incaricò Carrère & Hastings 23 Lo Studio Building sulla 66th diede a Platt una notevole reputazione di progettista di palazzi per appartamenti. In seguito, anche la Vincent Astor Estate Office gli commissionò una serie di edifici, come quello di 24 piani sulla Broadway (1914-15) dalle sembianze “rinascimentali” o come quello destinato a usi commerciali, sempre sulla Broadway, che si richiamava al fiorentino Palazzo Davanzati interpretato attraverso la lezione di McKim Mead & White. Cfr. D. S. Gardner, Charles A. Platt in New York 1900-1933, in K. N. Morgan, Shaping an American Landscape. The Art and Architecture of Charles A. Platt, University Press of New England, Hanover-London 1995, pp. 97-119. Si veda anche K.N. Morgan, Charles A. Platt. The Artist as Architect, Architectural History Foundation, New York-Cambridge (Mass.)-London 1985, pp. 142-153. 24 Cfr. P. Pennoyer, A. Walker, The Architecture of Warren & Wetmore, W.W. Norton, New York-London 2006, pp. 70-72.

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di realizzare un fabbricato (1913), secondo il gusto “italiano”, per ospitare una galleria d’arte. Anche Henry Clay Frick chiese di disegnare allo studio di Thomas Hastings una casa (1911-12) per la sua raccolta di quadri, espressione dell’ambizione del committente di apparire un collezionista colto e un mecenate delle arti25. Ispirata in un primo tempo a un palazzo italiano a corte chiusa con portici, la dimora per la famiglia (e per i 27 membri della servitù) – destinata a essere trasformata in un vero e proprio museo alla morte del fondatore – fu plasmata dall’architetto, soltanto in corso d’opera, con il ricorso a un linguaggio “francesizzante”, per accogliere sculture, arredi, dipinti e altri oggetti d’arte, acquistati dal mercante Joseph Duveen tra il 1915 e il 1916 e appartenuti alla collezione del grande finanziere John P. Morgan26. Ugualmente, il banchiere Otto Kahn incaricò lo studio di Charles Pierrepont Henry Gilbert e Joseph Armstrong Stenhouse – già fattosi notare per la dimora costruita per il miliardario Morton Freeman Plant (1905) – di realizzare un imponente palazzo italiano (1913-18) che evocasse negli esterni il linguaggio di Bramante e dei Sangallo, mentre negli interni le opere di Peruzzi e di Palladio.

Ville, tenute e country cottages della Gilded Society I novelli “Medici” fecero così erigere nei principali centri americani i loro “emblemi” con riferimento ai palazzi italiani. Per le tenute e le grandi residenze fuori città chiesero agli architetti di evocare le ville toscane, laziali, lombarde, venete e liguri. La famiglia Vanderbilt, imprenditori ferroviari e immobiliari, rappresentò la quintessenza del mecenatismo. Tra il 1876 e il 1917 fecero costruire in sequenza almeno diciassette case27. Tra queste possono essere inserite a pieno titolo 25 Cfr. M. Frick Symington Sanger, The Henry Clay Frick Houses. Architecture, Interiors, Landscapes in the Golden Era, The Monacelli Press, New York 2001, pp. 137-215. 26 L’idea di costruire una casa-museo sulla Fifth Avenue era maturata da tempo; Frick si era rivolto ad Hastings, dopo aver preso contatti nel 1908 con Daniel H. Burnham, il quale si era dimostrato entusiasta all’idea di realizzare una dimora ispirata all’architettura domestica europea. Nel corso degli anni, l’edificio realizzato da Hastings fu poi trasformato una prima volta tra il 1932 e il 1935 da John Russell Pope, e una seconda volta tra il 1973 e il 1977. La collezione Frick fu aperta al pubblico nel dicembre 1935. Cfr. C. B. Bailey, Building The Frick Collection. An Introduction to the House and Its Collections, Frick Collection in association with Scala, New York 2006. Cfr. inoltre Carrère & Hastings Architects, 2 voll., Acanthus Press, New York 2006; L. Ossman, H. Ewing, Carrère & Hastings.The Masterworks, Rizzoli, New York 2011. 27 Cfr. L. Auchincloss, The Vanderbilt Era. Profiles of Gilded Age, Scribner, New York 1989; J. Foreman, R. P. Stimson, The Vanderbilts and the Gilded Age. Architectural Aspirations 18791901, St. Martin Press, New York 1991.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

nell’elenco delle architetture “all’italiana” quelle realizzate ad Hyde Park nell’Hudson Valley e a Newport nel Rhode Island. Va ricordato che il gusto cinquecentesco era considerato un mezzo colto di autopromozione sociale da parte delle élites, un modo di presentarsi al mondo, anche nel nuovo secolo, emulando le aristocrazie mercantili di antico lignaggio della vecchia Europa. Almeno fino agli anni Trenta, le nuove classi di potere statunitensi guardarono alle architetture dell’Italia rinascimentale come all’esito più riuscito delle volontà dei ricchi committenti di mostrare la propria affidabilità sia nell’opera di governo che nella gestione del denaro. Per tale motivo, il carattere italianeggiante fu evocato da Richard Morris Hunt nella nota residenza The Breakers (1892-95) realizzata per Alice Gwynne e Cornelius Vanderbilt II a Newport28, grazie alla “lezione” appresa nei viaggi compiuti tra il 1851 e il 1854 quando era studente a Parigi29, allievo nell’atelier di Hector-Martin Leufel. Hunt aveva già visitato l’Italia una prima volta con la sua famiglia (era partito per Roma alla fine del febbraio 1844)30. L’itinerario del viaggio del 1852 comprendeva, partendo da Parigi, il Belgio, l’Olanda, la Germania, Praga e Vienna per giungere a Trieste e a Venezia. Tre mesi di viaggio che lo portarono dalla laguna verso il sud per giungere in Sicilia e di lì a Malta. A Roma ritornò l’anno seguente con la madre e la sorella. Hunt poteva contare, dunque, su una conoscenza dell’Italia a tutto tondo, che fece sì che lo sguardo dell’architetto, piuttosto che alla Firenze dell’Umanesimo, fosse rivolto alle espressioni architettoniche dei grandi mercanti e navigatori veneti e liguri. Definita da Montgomery Schuyler «villa in the Italian style»31, The Breakers, su precisa richiesta della committenza, doveva ispirarsi per gli aspetti compositivi ai palazzi rinascimentali genovesi, mentre per la decorazione delle sale (affidata a Jules Allard & Sons e a Ogden Codman Jr.) poteva richiamare elementi veneziani, considerati in quel 28 Nel 1885 Vanderbilt acquistò da Pierre Lorillard IV la proprietà con una casa già esistente progettata da Peabody & Sterans. La casa fu distrutta il 25 novembre 1892 da un incendio. Cfr. Cfr. W. Craven, Gilded Mansions. Grand Architecture and High Society, W. W. Norton & Company, New York-London 2009, pp. 170-183. 29 F. Loyer, L’historicisme: ses plaisirs et ses nécessitées, in La tradition française en Amérique. Richard Morris Hunt architecte 1827-1895, catalogo della mostra, Caisse Nationale des Monuments Historiques et des Sites de Grands Travaux et du Bicentenaire, Paris 1989, p. 17. 30 Cfr. P. R. Baker, Richard Morris Hunt, The MIT Press, Cambridge (Mass.)-London 1980, pp. 50-51; R. Chafee, Hunt a Paris, in S. R. Stein (a cura di), The Architecture of Richard Morris Hunt, The University of Chicago Press, Chicago-London 1986, pp. 13-45. 31 M. Schuyler, The Works of the late Richard M. Hunt, in «The Architectural Record», ottobre-dicembre, vol. V, 1895, p. 174.

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momento di gran moda nell’alta società americana. In fase di approvazione, l’architetto propose comunque due varianti, la prima, datata 28 dicembre 1892, nello stile del Rinascimento francese, mentre, quella datata 12 gennaio 1893, era elaborata rifacendosi al Rinascimento italiano32. I disegni preparati da Emmanuel Louis Masqueray, collaboratore dello studio Hunt, vennero sottoposti a Vanderbilt, che scartò la versione Petit Château, troppo simile alla casa creata per Alva Vanderbilt a New York, e approvò la soluzione italianeggiante. La scelta fu dettata anche dalla volontà del committente di apparire un “signore” rinascimentale, abile negli affari quanto nel commercio marittimo. Nella biblioteca di Hunt esistavano numerosi libri sull’architettura italiana, tra cui anche Palazzi di Genova di Rubens del 1622. Va ricordato che, Hunt, mostrando la stessa padronanza nei dettagli33, aveva completato per Alva e William Kissam Vanderbilt, proprio nel 1892, l’eclettica Marble House, sempre a Newport, seguendo per gli esterni la tendenza italianeggiante34. Pochi anni dopo Frederick William Vanderbilt chiese allo studio di McKim, Mead & White di trasformare la casa di Hyde Park (189599), appartenuta alla famiglia Astor-Langdon, in una residenza chiaramente ispirata all’architettura italiana35. Analogamente, Ellliot H. Fitch Shepard, nipote di William Henry Vanderbilt, commissionò allo studio di New York la realizzazione di una lussuosa residenza neorinascimentale a Scarborough (1895). Appropriarsi delle immagini e dei simboli del passato rinascimentale divenne fondamentale per creare una magnificenza spettacolare e allo stesso tempo intima. La proprietà di una casa costruita secondo l’Italianate Style, come quelle di Hyde Park o di Scarborough, era per i committenti un segno di distinzione sociale e uno dei modi più efficaci per tradurre il potere politico ed economico acquisito in status, conseguendo, come moderni patrizi di un moderno Rinascimento, il desiderato effetto di sontuosità. Anche gli architetti Carrère & Hastings si cimentarono in tal senso, sia 32

I disegni sono pubblicati in La tradition française en Amérique. Richard Morris Hunt architecte 1827-1895, catalogo della mostra, Caisse Nationale des Monuments Historiques et des Sites de Grands Travaux et du Bicentenaire, Paris 1989, p. 109. 33 Cfr. B. Ferree, Richard Morris Hunt: His Art and Work, in «Architecture and Building», 7 dicembre 1895, p. 274. 34 Già nella Lenox Library, Hunt mostrò l’interesse verso il carattere monumentale italiano. Cfr. R. A. M. Stern, T. Mellins, D. Fishman, New York 1880. Architecture and Urbanism in the Gilded Age, The Monacelli Press, New York 1999, pp. 180-181, 196-197. 35 Cfr. P. Albee, M. Berger, H. E. Foulds, Vanderbilt Mansion. A Gilded-Age Country Place, National Park Service U. S. Department of the Interior, Hyde Park NY 2013.

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nella Indian Harbor House a Greenwich nel Connecticut (1895-96), realizzata per Elias Cornelius Benedict, sia nella Glenmere Mansion a Chester nello stato di New York (1911-14), commissionata da Robert Wilson Goelet, il quale chiese una dimora nelle fattezze di una villa rinascimentale, caratterizzata da una corte aperta con pergolati e statue romane. Veicolato anche da riviste come «The International Studio»36, o da pubblicazioni assai diffuse come quelle di Edith Warthon37, il gusto delle ville con giardini “all’italiana” iniziò a diffondersi sul finire dell’Ottocento, per poi esplodere nel primo ventennio del secolo successivo38. Peraltro, va ricordato che l’architetto e pittore di paesaggi Charles Platt aveva realizzato l’eccezionale reportage fotografico sui giardini rinascimentali italiani, pubblicato per la prima volta nel 1894, che divenne un fondamentale strumento di conoscenza per numerosi americani. Influenzato dai suggerimenti di Frederick Law Olmsted, e dalla lettura di Notes of Travel and Study in Italy di Charles Eliot Norton (apparso per la prima volta nel 1860), l’architetto-paesaggista compì nel 1892 un viaggio in Italia con il fratello William guidato dal preciso obiettivo di disegnare e di fotografare le ville rinascimentali. Ne scaturì il reportage che portò alla pubblicazione prima di due articoli su «Harper’s New Monthly Magazine» e poi, nel 1894, al libro di grande successo Italian Gardens39. 36 Spesso le fotografie Alinari erano utilizzate per illustrare gli articoli di argomento italiano; cfr. Italy’s Private Gardens, in «The International Studio», 16, 1902, p. 182. 37 Cfr. Italian Villas and their Gardens by Edith Wharton illustrated with pictures by Maxfield Parrish and by photographs, The Century Co., New York 1905 (ma pubblicato nel novombre 1904). I contributi della Warthon furono pubblicati inizialmente sotto forma di articoli sulla rivista «The Century Magazine» fra il 1903 e il 1904. 38 Sul tema sono ampi i riferimenti bibliografici. Si rimanda comunque a R. G. Kenworthy (a cura di), The Italian Garden Transplanted. Renaissance Revival Landscape Design in America, 1850-1939, catalogo della mostra (27-maggio-4 aprile 1988), Troy State University, Alabama 1988; V. Cazzato, Ville e giardini italiani. I disegni di architetti e paesaggisti dell’American Academy in Rome, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato-Libreria dello Stato, Roma 2004. 39 Cfr. R. Warren Davidson, Charles A. Platt and the Fine Art of Landscape Design, in K. N. Morgan, Shaping an American Landscape cit., pp. 75-95. Le fotografie delle ville e dei giardini italiani, conservate presso la Charles A. Platt Architectural Records and Papers Collection, Drawings & Archives Collection, Avery Architectural & Fine Arts Library (Columbia University), sono anche visionabili in https://exhibitions.cul.columbia.edu/exhibits/ show/platt. Si veda anche M. Azzi Visentini, The Italian Garden in America: 1890s-1920s, in B. Jaffe (a cura di), The Italian Presence in American Art, 1860-1920, Fordham University Press-Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1992, pp. 240-265. Va ricordato che anche James Sturgis Pray, pioniere degli studi sulla pianificazione e della Landscape Architecture, nel 1900 scrisse una serie di articoli, apparsi su «American Architect and Building News», dedicati ai giardini italiani.

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Nel clima di un rinnovato citazionismo antiquario, i frammenti e le suppellettili di provenienza italiana entravano a far parte di un repertorio per il progetto architettonico e per gli arredi, sia di interni che di esterni, anche quando la cultura classica era intesa in stretta connessione con quella rinascimentale. Le fotografie di Platt contribuirono alla creazione di un repertorio di immagini utile alla progettazione di spazi domestici, di arredi da giardino e di suggestivi pergolati, più o meno addossati alle ville neo-rinascimentali. Tra le tante residenze progettate dall’architetto, è il caso di ricordare la villa realizzata per i coniugi Sprague, i quali chiesero di trasformare la loro Faulkner Farm (Brookline, Mass. 18991901) secondo un modello italiano. Platt si ispirò per la costruzione a villa Gamberaia e a villa Lante, mentre nel parco volle evocare le suggestive atmosfere pompeiane con pergolati e sculture acquistate appositamente nei suoi viaggi italiani (il casino richiamava esplicitamente anche il gusto pompeiano negli arredi e nelle decorazioni parietali). Il successo, anche mediatico, della tenuta, fece sì che altri committenti illustri chiedessero a Platt la costruzione, o in alcuni casi la trasformazione delle loro residenze: esemplari furono la casa per i coniugi Isabel e Larz Anderson (Brookline, Mass. 1901), la tenuta Glen Elsinore per Randolph M. Clark (Pomfret CT 1902), la Gwinn House (Cleveland OH 1907-11), la villa Turicum per Edith e Harold Rockefeller McCormick (Lake Forest, IL 1911) e la Causeway, nota anche come Tregaron, realizzata per il finanziare James Parnell (Cleveland Park, Washington DC 1912). Se per studiare le architetture della città eterna, come abbiamo visto per le Villard Houses, erano fondamentali i tre volumi di Letarouilly dedicati agli Édifices de Rome moderne, presenti nelle biblioteche di molti studi professionali americani40, per la Toscana Architecture Toscane di Auguste Henri Victor Grandjean de Montigny & Auguste Pierre Famin forniva invece un campionario pressoché completo di palazzi, ville e giardini da replicare, tanto che negli anni Venti del Novecento fu utilizzato come vero e proprio manuale per il progetto, inteso come repertorio di modelli per la comprensione “visiva” della morfologia degli ordini usati negli edifici costruiti nella regione considerata “culla” del Rinascimento. Le opere illustrate nel volume furono ricalcate dagli studenti americani sui banchi di scuola e dagli architetti professionisti sui tavoli da lavoro, con la convinzione che il ridisegno potesse essere il miglior modo per comprendere, senza 40

Cfr. K. Hafertepe, J. F. O’Gorman, American Architects and their books, 1840-1915, University of Massachusetts Press, Amherst-Boston 2007.

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la mediazione della parola scritta, le architetture del passato. John V. van Pelt, che curò nel 1923 un’edizione, più agevole nel formato, dell’opera di Grandjean de Montigny e Famin, scrisse: «After all the exquisite charm and accuracy which give the book its great value can be appreciated without the aid of any language»41. Spesso allo studio delle architetture fiorentine si affiancava quello delle residenze venete, che potevano essere riprodotte (sebbene alcune fossero di matrice sei-settecentesca) se opportunamente combinate con i giardini toscani rinascimentali, come nel caso della villa Vizcaya (1910-16) di Coconut Grive a Miami. Realizzata da Paul Chalfin e Francis Burall Hoffman, la residenza venne creata per l’industriale e collezionista James Deering, che incaricò Chalfin, esperto in decorazioni di interni, di coordinare l’intero progetto42. Il tema della decorazione degli interni “all’italiana”, al di là dello stile storico di riferimento, ebbe notevole fortuna tra le classi colte e agiate. Non va dimenticato che il libro The Decoration of Houses che la Warthon scrisse con Codman nel 1897 aveva ottenuto ampio riscontro, visto che fino a quel momento «wealth and taste did not always go hand in hand»43. Non va dimenticato che soffitti cassettonati, vetrate, pareti riccamente adornate con dipinti e arazzi, suppellettili comprate sul mercato antiquario e ritenute necessarie al comfort della casa (come divani, sedie, sofà, bracieri, tavoli, tappeti), e soprattutto camini marmorei con architravi scolpite, mosaici, stemmi nobiliari e mensole antropomorfe – come il camino realizzato da Augustus Saint-Gaudens (su disegno di John La Farge), per la residenza di Cornelius Vanderbilt II sulla Fifth Avenue-57th Street a New York nel 1882 – costituivano gli elementi fondanti del carattere rinascimentale44. 41 J. V. van Pelt, Preface and description of plates, in Architecture Toscane ou Palais, Maisons et autres édifices de la Toscane mesurés et desssinés par A. Grandjean de Montigny et A. Famin architectes anciens pensionnaires de l’Académie de France, à Rome, The Pencil Points Press, New York 1923, s. n. p. 42 Chalfin era stato in Italia prima nel 1899, poi nel 1906 all’American Academy di Roma come borsista in pittura murale. Nella primavera del 1911, con Deering, aveva visitato la villa Rezzonico a Bassano del Grappa. Insieme decisero di chiedere a Hoffman di realizzare la struttura della villa in Florida. Cfr. W. Rybczynski, L. Olin, Vizcaya. An american villa and its makers, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2007. 43 Cfr. W. Craven, Gilded Mansions. Grand Architecture and High Society, W. W. Norton & Company, New York-London 2009, p. 134. 44 Anche a Rosecliff (1899-1902), residenza creata a Newport da Stanford White per Tessie e Herman Oelrichs, il grande camino nel salone rimarcava il tono rinascimentale ancorché l’intero complesso si caratterizzasse per un carattere neobarocco francese ispirato al Trianon di Versailles. Cfr. P. R. Baker, Stanny. The Gilded Life of Stanford White, The Free Press-Collier Macmillan Publishers, New York-London 1989, pp. 296-298; D. G. Lowe, Stanford White’s New York, Watson-Guptill Publications, New York 1999, pp. 210-213.

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Sulla costa ovest il tratto distintivo quattro-cinquecentesco si poteva riscontrare soprattutto negli spettacolari parchi e giardini “all’italiana” che circondavano le numerose ville, come nella Holmby House (1905) a Hollywood, opera di Train & Williams; nella villa Merritt-Ollivier (1906) di Pasadena realizzata da William F. Thompson; oppure nelle Fényes House, progettata da Robert D. Farquhar (1907) e ampliata da Sylvanus B. Marston (1911), o nella Cordelia A. Culberston House, nota come “Il Paradiso” (1913), realizzata a Oak Knoll da Greene & Greene45. Qualora i committenti non potessero ambire ad avere sontuosi giardini, come nella Huntigton House (1911) di San Marino realizzata da Hunt & Grey, spesso si accontentavano di pergole e logge, con il dichiarato intento di evocare suggestioni italiane, come nella villa Madama realizzata da John C. Austin a Shatto Place (1909) per Helena Hancock. Del resto, il tema della “Loggia in a Garden” era spesso tra quelli assegnati agli studenti nelle scuole di architettura (si veda, ad esempio, il lavoro eseguito nel 1895 dal giovane Arthur Brown Jr. alla University of California46 oppure i disegni realizzati da Donald M. Kirkpatrick nel 1912 e pubblicati da John F. Harbeson nel suo manuale del 192747). Oltre che specchio delle richieste di una committenza colta e aggiornata, come abbiamo visto, la tendenza a riconsiderare l’arte dei maggiori costruttori e artisti delle città italiane all’interno delle scuole di architettura rifletteva la necessità di applicare alla pratica professionale quelli che venivano considerati i metodi corretti. Va tenuto conto che nelle università americane la divulgazione della storia dell’architettura, anche rinascimentale, procedeva su due binari: da un lato, illustri critici letterari e storici dell’arte, come Charles Callahan Perkins, James Mason Hoppin, o il già citato Norton, affrontavano nei loro studi le opere e gli artisti italiani attraverso letture iconologiche o con metodi basati su solide fonti documentali, dall’altro, gli “architect-historians” 48, progettisti e docenti di composizione architettonica, come William Robert Ware, Alfred Dwight Foster Hamlin e William 45

Cfr. S. Watters, Houses of Los Angeles 1885-1919, Acanthus Press, New York 2007. Cfr. J. T. Tilman, Arthur Brown Jr. Progressive Classicist, W. W. Norton & Company, New York-London 2006, p. 20. 47 Cfr. J. F. Harbeson, The Study of Architectural Design with Special Reference to the Program of the Beaux-Arts Institute od Deisgn, The Pencil Points Library, New York 1927, pp. 7-11. 48 Cfr. K. N. Morgan, R. Cheek, History in the Service of Design. American Architect-Historians, 1870-1940, in E. Blair MacDougall (a cura di), The Architectural Historian in America. A Symposium in Celebration of the Fiftieth Anniversary of the Founding of the Society of Architectural Historians, National Gallery of Art-University Press of New England, Washington-Hanover-London 1990, pp. 61-73. 46

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

Alciphron Boring49, aggredivano l’argomento mediante il disegno e il rilievo di singoli elementi di architettura, le osservazioni sulle tecniche costruttive e sugli ordini, e soprattutto con la pratica del “ridisegno” (da schizzi eseguiti precedentemente nei viaggi italiani, da incisioni o anche da fotografie) dei monumenti e dei capolavori disseminati nella patria dei grandi maestri50, con l’obiettivo di applicare la solida prassi Beaux-Arts alla progettazione di qualsivoglia edificio. Non è un caso, che la passione per il Rinascimento facesse esplodere anche l’interesse editoriale per la storia dell’arte italiana. Fervente sostenitore dello studio del linguaggio classico cinquecentesco, Ware, ad esempio, arrivò a dare alle stampe nell’ottobre del 1902 il suo American Vignola51, sorta di manuale ispirato ai trattati rinascimentali, con tavole disegnate ricalcando quelle di volumi quali The architecture of Classical Antiquity and the Renaissance di Josef Bühlmann, apparso nel 1892. Le opere dei grandi architetti del passato rinascimentale permettevano così di risolvere questioni pratiche e allo stesso tempo offrivano i principi, le tecniche e gli afflati poetici indispensabili all’attualizzazione del passato. Come scriveva Van Brunt nel 1885: «in Italy the natural birthplace of the Renaissance, Vignola, Serlio, Palladio, Bramanti, Scamozzi first taught the world how true artists, holding alike to a rigid formula, could invest it with purity and delicacy; how they could be correct without dullness, precise without pedantry, poetic without license»52.

49

Cfr. D. G. De Long, William R. Ware and the Pursuit of Suitability: 1881-1903, in R. Oliver (a cura di), The making of an architect 1881-1981. Columbia University in the City of New York, Rizzoli, New York 1981, pp. 13-22. Si veda anche R. Plunz, Reflections on Ware, Hamlin, McKim, and the Politics of History on the Cusp of Historicism, in G. Wright, J. Parks (a cura di), The History of History in American Schools of Architecture 1865-1975, catalogo della mostra, The Temple Hoyne Buell Center for the Study of American Architecture, Princeton Architectural Press, New York 1990, pp. 53-72; M. N. Woods, From Craft to Profession. The Practice of Architecture in Nineteenth-Century America, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1999, pp. 53-81. Sull’attività di Boring si veda invece Avery Architectural & Fine Arts Library (Columbia University), The William Aciphron Boring Collection, catalogo dattiloscritto curato da G. W. Fulton, H. W. Taves, 25 dicembre 1980. 50 Cfr. W. R. Ware, The Study of Architectural Drawing in the School of Architecture, in «School of Mines quarterly», novembre, 1895 (ristampato in aprile e giugno, 1896). 51 W. R. Ware, The American Vignola, The American Architect and Building News co., Boston 1902 (riedito dalla International Textbook Company, Scranton 1904). 52 H. Van Brunt, The Personal Equation in Renaissance Architecture, in Architecture and Society. Selected Essays of Henry Van Brunt, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1969, p. 155.

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IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”

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1. McKim, Mead & White, Villard Houses, New York 1882-86. Veduta della facciata principale (Library of Congress).

2. McKim, Mead & White, Villard Houses, New York 1882-86. Veduta della Main Hall (Library of Congress).

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

ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

3. McKim, Mead & White, Villard Houses, New York 1882-86. Dettaglio delle mensole del balcone nella Music Room (Library of Congress).

4. McKim, Mead & White, Villard Houses, New York 1882-86. Dettaglio della Tower Study (Library of Congress).

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IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”

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5. Augustus Saint-Gaudens (su disegno di John La Farge), Camino per la residenza di Cornelius Vanderbilt II, Fifth Avenue-57th Street, New York 1882, dal 1925 al Metropolitan Museum of Art di New York (Foto di M. Savorra).

6. McKim, Mead & White, H. A. C. Taylor Residence, New York 1896. Veduta della facciata (Library of Congress).

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

7. McKim, Mead & White, Joseph Pulitzer House, New York 1900-03. Veduta della facciata (immagine tratta da http://archimaps.tumblr.com/page/188).

8. McKim, Mead & White, John Innes Kane House, New York 1904-08. Veduta dell’edificio in costruzione (Museum of the City of New York).

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IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”



9. Richard Morris Hunt, The Breakers, Newport 1895. Progetto nello stile del rinascimento francese, 28 dicembre 1892 (immagine tratta da La tradition française en Amérique. Richard Morris Hunt architecte 1827-1895, catalogo della mostra, Caisse Nationale des Monuments Historiques et des Sites de Grands Travaux et du Bicentenaire, Paris 1989, p. 109).

10. Richard Morris Hunt, The Breakers, Newport 1895. Progetto nello stile del rinascimento italiano, 12 gennaio 1893 (immagine tratta da La tradition française en Amérique. Richard Morris Hunt architecte 1827-1895, catalogo della mostra, Caisse Nationale des Monuments Historiques et des Sites de Grands Travaux et du Bicentenaire, Paris 1989, p. 109).

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

11. Richard Morris Hunt, The Breakers, Newport 1895. Veduta della facciata verso il parco (Library of Congress).

12. Richard Morris Hunt, The Breakers, Newport 1895. Veduta dell’ingresso (Library of Congress).

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IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”



13. Richard Morris Hunt, The Breakers, Newport 1895. Veduta della loggia verso il parco (Library of Congress).

14. Richard Morris Hunt, The Breakers, Newport 1895. Camino nella biblioteca (Library of Congress).

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

15. Richard Morris Hunt, The Breakers, Newport 1895. Camino nella grande hall (Library of Congress).

16. McKim, Mead & White, Vanderbilt Mansion, Hyde Park 1895-99. Veduta della facciata principale (Library of Congress).

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IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”

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17. McKim, Mead & White, Vanderbilt Mansion, Hyde Park 1895-99. Veduta del cosidetto “giardino all’italiana” (Foto di M. Savorra).

18. McKim, Mead & White, Vanderbilt Mansion, Hyde Park 1895-99. Pianta (immagine tratta da: A Monograph of the Work of McKim, Mead & White, 1879-1915, 4 voll., New York 1915-20, vol. 1, pl. 83).

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

19. McKim, Mead & White, Ellliot H. F. Shepard Residence, Scarborough NY 1895. Veduta dal parco (immagine tratta da: A Monograph of the Work of McKim, Mead & White, 1879-1915, 4 voll., New York 1915-20, vol. 1, pl. 70).

20. McKim, Mead & White, Ellliot H. F. Shepard Residence, Scarborough NY 1895. Dettaglio del giardino (immagine tratta da: A Monograph of the Work of McKim, Mead & White, 1879-1915, 4 voll., New York 1915-20, vol. 1, pl. 71).

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IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”



21. McKim, Mead & White, Robert W. Patterson House, Washington 1900-03. Veduta della facciata principale (Library of Congress).

22. William Robert Ware, The American Vignola, The American Architect and Building News co., Boston 1902 (riedito dalla International Textbook Company, Scranton 1904).

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

23. Edith Wharton, Ogden Codman Jr., The Decoration of Houses, Charles Scribner’s Sons, New York 1897. Frontespizio (Collezione privata).

24. Italian Villas and their Gardens by Edith Wharton illustrated with pictures by Maxfield Parrish and by photographs, The Century Co., New York 1905. Frontespizio (Collezione privata).

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IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”



25. Charles Platt, Faulkner Farm, Brookline, Mass. 1899-1901. Planimetria del complesso (Avery Architectural & Fine Arts Library, Columbia University).

26. Charles Platt, Faulkner Farm, Brookline, Mass. 1899-1901. Veduta del parco (Public Library of Brookline).

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

ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

27. Charles Platt, Isabel e Larz Anderson House, Brookline, Mass. 1901. Veduta del giardino (Library of Congress).

28. Charles Platt, Isabel e Larz Anderson House, Brookline, Mass. 1901. Veduta del giardino (Library of Congress).

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

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IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”

29. Charles Platt, Villa Turicum, Lake Forest, IL 1911. Schizzi (immagine tratta da: http://www.villaturicum.com/blueprints/index.html).

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

ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

30. Charles Platt, Villa Turicum, Lake Forest, IL 1911. Veduta dal parco (immagine tratta da: http://villaturicum.blogspot.it).

31. Thomas Hastings, Progetto per la Frick Residence, 1911-12. Prospetto principale (immagine tratta da: C. B. Bailey, Building The Frick Collection. An Introduction to the House and Its Collections, New York 2006, p. 28).

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IL RINASCIMENTO AMERICANO E LE CASE “ITALIANE”



32. Greene & Greene, Cordelia A. Culberston House, nota come “Il Paradiso”, Oak Knoll 1913. Dettaglio del giardino (Library of Congress).

33. Greene & Greene, Cordelia A. Culberston House, nota come “Il Paradiso”, Oak Knoll 1913. Dettaglio del giardino (Library of Congress).

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO E IL GUSTO NEOBAROCCO IN LOMBARDIA. DALLA VILLA REALE DI MONZA ALLE DIMORE DELLE ÉLITE di Ornella Selvafolta

Achille Majnoni d’Intignano, architetto di re Umberto I Nei revival stilistici che caratterizzano la stagione dell’Eclettismo, forse nessuno come il neobarocco, si connota maggiormente quale fenomeno di gusto e di moda. Tra gli ultimi modelli ad affacciarsi alla cultura storicista dell’Ottocento, esso non ha infatti un retroscena teorico e di riflessione sui metodi e fini del progetto, non dispone dei cosiddetti “principi grammaticali” in base a cui potevano strutturarsi gli altri stili, e non è neppure corredato dalle serrate indagini di tipo archeologico e filologico proprie alle espressioni medievali e rinascimentali. Non è un caso, del resto, che il barocco nelle sue diverse declinazioni sia assente dalla Grammar of Ornament di Owen Jones che pure aveva guardato con estrema attenzione agli stili in una geografia estesa nello spazio e nel tempo, tanto che il suo percorso di ricerca pare arrestarsi davanti a una forma decorativa che, evidentemente, non sembrava dotata della ‘volontà organizzatrice’ sottesa alle altre espressioni artistiche1. Ringrazio Stefano Majnoni d'Intignano per aver messo a disposizione le carte private del nonno architetto Achille con rara generosità e disponibilità intellettuale. Un particolare ringraziamento anche all'Archivio Storico Civico Biblioteca Trivulziana, alla responsabile Isabella Fiorentini, a Luca Dossena e Barbara Gariboldi per l'aiuto nella ricerca e consultazione dei materiali documentari del Fondo Majnoni. 1

Cfr. The Grammar of Ornament by Owen Jones, Day and Son, London 1856 (tra i numerosi reprint cfr. The Grammar of Ornament. Illustrated by Examples from Various Styles of

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

A differenza degli stili nell’alveo dell’antico e del medioevo, il barocco non si prestava nemmeno al pensiero critico in rapporto alla storia e alla modernità che, ad esempio, aveva approfondito il gotico e il rinascimento, ed era entrato nell’orizzonte culturale degli architetti grazie a qualità di tipo formale. Se ne apprezzava la piacevolezza e la duttilità, gli sconfinamenti tra architettura e decorazione, l’adeguarsi ai luoghi più elitari e autorevoli come a quelli più frivoli e mutevoli, l’applicarsi con successo agli interni, all’addobbo, all’arredo e all’oggettistica2. Nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento la sua ripresa configura perciò un ‘neostile’ cui arride un successo più mondano che intellettuale e dove gli inevitabili rimandi alla tradizione e alla storia si intrecciano agevolmente con l’attualità e con le oscillazioni del gusto. Di tale successo l’architetto Achille Majnoni d’Intignano è stato uno tra i principali attori3, di fatto un protagonista con riguardo alla Lombardia e alla riformulazione di quella speciale inflessione regionale conosciuta con il nome di “barocchetto” che, a inizio Settecento, aveva attinto variamente da Roma, Parigi e Vienna e si era modulata in forme e spazi meno impegnativi e complessi rispetto alla radice barocca4. Accogliendo un ornato sciolto, giocato sulla libertà e vivacità del disegno, sulla semplicità e gradevolezza dei materiali, il barocchetto aveva trovato un campo assai fertile nelle nuove dimore signorili diffuse tra la città e la Brianza, diventata notoriamente tra Sei e Settecento, lo scenario elettivo delle “ville di delizia o palagi Ornament, Studio Edition, London 1989). Sul contributo di Jones e il suo significato per la storia dell’ornato, cfr. O. Selvafolta, Qualche osservazione su The Grammar of Ornament di Owen Jones, Londra 1856, in Architettura dell’Eclettismo. Studi storici, rilievo e restauro, teoria e prassi dell’architettura, a cura di L. Mozzoni e S. Santini, Atti del 10° convegno di Architettura dell’Eclettismo – Jesi 2011, Liguori Editore, Napoli 2014, pp. 241-269. 2 Un primo importante e ancor oggi imprescindibile contributo sui caratteri dello stile e la sua vocazione decorativa è quello di F. Kimball, The Creation of the Rococo, Philadelphia Museum of Art, Philadelphia 1943. 3 Per Achille Majnoni d’Intignano (1855-1935) cfr. il contributo Inventario delle carte di Achille e Maria Majnoni d’Intignano, a cura di R. Romanelli, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009, dove sono pubblicati i saggi di S. Majnoni Un ritratto di Achille Majnoni d’Intignano, pp.IX-XXI e di O. Selvafolta, Achille Majnoni d’Intignano architetto (1855-1935): un percorso tra le opere, i disegni, i documenti di archivio, pp. XXIII-LVI. Questi saggi sono stati ampiamente ripresi in contributi successivi di cui non si è potuto tenere conto all’epoca del convegno (2012). Altri riferimenti saranno citati nelle parti più pertinenti del testo. Per le fonti archivistiche cfr. la nota n. 9. 4 Cfr. quanto scrive al proposito R. Bossaglia, Temi e caratteri del Settecento lombardo, in Settecento Lombardo, a cura di Ead. e V. Terraroli, Electa, Milano 1991, pp.13-20.

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO

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camparecci” della nobiltà milanese5. Nel secondo Ottocento, Majnoni sarà uno dei suoi più apprezzati interpreti, recuperando mirabilmente nelle sue architetture la tradizione del vivere con agio, garbo e eleganza. Un accenno ai momenti cardine della sua biografia è necessario: Achille Majnoni d’Intignano nasce a Milano nel 1855 da nobile famiglia originaria di Erba Incino in Brianza. Nel 1878 si laurea al Politecnico di Milano nella Scuola Superiore di Architettura diretta da Camillo Boito; nel 1894 la sua carriera professionale riceve una definitiva ‘consacrazione’ con la nomina da parte di Umberto I a “Ingegnere-architetto a disposizione del Re”; in questa funzione egli lavora per numerose residenze reali, in particolare modo per la “Real Villa di Monza”. Dopo il regicidio nel 1900 e il sostanziale abbandono di Monza da parte dei Savoia, Majnoni continua ad occuparsi delle proprietà reali, ma intensifica i suoi impegni a favore di una clientela aristocratica ed alto borghese, per la quale costruisce e più spesso ristruttura ville, palazzi, giardini. Nel 1925 si ritira dalla professione; muore ad Erba Incino nella casa di famiglia nel 19356. Queste in estrema sintesi le coordinate della vita professionale di un architetto al cui attivo stanno più di un centinaio di opere per committenti che, a ben guardare, è quasi limitativo definire d’élite, visto che si tratta di casa reale e dei livelli più alti della nobiltà e delle istituzioni. Per circa cinquant’anni Achille Majnoni lavora infatti a contatto con personaggi autorevoli, con cenacoli di privilegio e prestigio, dove si muove agilmente in virtù dell’educazione e delle nobili ascendenze famigliari. Il suo nome è associato a luoghi sontuosi, alla reggia di Monza come al castello di Sarre in Valdaosta, al Quirinale come alle sedi delle ambasciate di Vienna e Parigi e alle raffinate dimore di campagna dell’aristocrazia; il suo indirizzo di casa e di studio è, dal 1897 al 1923, Palazzo Reale a Milano; le sue frequentazioni lo portano a contatto con gli eventi della storia d’Italia di cui in diverse occasioni è testimone in prima persona7.

5

Cfr. M. A. Dal Re, Ville di delizia o siano palagi camparecci nello Stato di Milano, Milano 1726 e1743, 2 voll. (ried. a cura di F. Bagatti Valsecchi, Polifilo, Milano 1963). 6 Cfr. O. Selvafolta, Achille Majnoni, cit., passim. Per riferimenti più specifici vedi più oltre. 7 In particolare si ricorda che il 29 giugno 1900 Majnoni fu testimone dell’attentato mortale a Umberto I. Dell’episodio egli scrisse un vivido e accorato ricordo: cfr. s.p.r., In margine alla storia. La forza del destino, in «Il Corriere del Ticino», 4 gennaio 1929.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

Gli studi su di lui tuttavia sono ancora piuttosto scarsi; non è facile, del resto, trattare di un architetto che, nonostante, o forse proprio a causa dei suoi incarichi così elevati, non ha divulgato il proprio lavoro: la nomina reale lo ha posto immancabilmente su un piano diverso rispetto agli altri progettisti, dandogli autorità, potere e prestigio, ma anche escludendolo dai normali percorsi della professione. Troppo alto il suo rango e troppo esclusiva la sua clientela perché egli cerchi la promozione di sé; troppo conscio dei doveri che gli derivano dalla posizione ufficiale perché partecipi ai dibattiti o ai numerosi concorsi che, in quei decenni, scandiscono le vicende dell’architettura e dell’urbanistica italiana; troppo impegnato nel progetto di interni, nell’allestimento e nella decorazione di eleganti ambiti privati, perché le sue opere si aprano a sguardi estranei e vengano pubblicate sulle riviste8. Grazie alla donazione dei disegni di progetto e di una raccolta di fotografie (dove tra l’altro compaiono anche tre vedute del palazzo Pianetti di Jesi) da parte della famiglia all’Archivio Storico Civico Biblioteca Trivulziana di Milano e grazie alla documentazione accuratamente conservata nell’archivio privato di Achille Majnoni9, è però possibile studiarne il ruolo in un ambito che, per quanto circoscritto tipologicamente e socialmente, è parte rilevante della cultura architettonica dell’epoca e si addice particolarmente al tema dei modelli di gusto, degli stili e delle mode, consentendo contemporaneamente di riflettere sulle strategie di immagine e di comunicazione messe in atto dalla casa reale e dalle élite sociali nei decenni postunitari. Come già accennato, Majnoni si laurea nel 1878 alla Scuola Superiore di Architettura (o Scuola di Architettura Civile), quando, è bene ricordarlo, egli fu tra i pochissimi che in quel periodo avevano scelto di frequentare l’impegnativo corso di laurea al Politecnico invece dell’Ac8 Per uno sguardo d’insieme sull’architettura e l’urbanistica del periodo cfr. A. Restucci, Città e architetture nell’Ottocento, in Storia dell’arte italiana, a cura di F.Zeri, parte II Dal Medioevo al Novecento, vol. II Dal Cinquecento all’Ottocento, II Settecento e Ottocento, Einaudi, Torino 1982, pp.725-790. Più recentemente Storia dell’architettura italiana. L’Ottocento a cura di Id., Electa, Milano 2005, 2 voll. e con riguardo al quadro regionale cfr. il mio Milano e la Lombardia, in Ivi, vol. I, pp.46-101. 9 Cfr. Archivio Storico Civico Milano – Fondo Majnoni d’Intignano [d’ora in poi ASCMi-FM]: il fondo contiene 3238 disegni che costituiscono la fonte primaria per conoscere l’opera architettonica di Achille Majnoni. Nel 2006 Stefano Majnoni ha donato all’Archivio Storico Civico anche il fondo di fotografie del nonno Achille. L’archivio privato di Achille Majnoni, sito a Marti (Pisa) [d’ora in poi AMM-FA] è stato estesamente studiato in Inventario delle carte di Achille…, cit., nel saggio di R. Romanelli, L’archivio di Achille Majnoni d’Intignano: carte lombarde in Toscana, pp. LVII-XCIV.

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO

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cademia di Belle Arti10. Allievo di Camillo Boito11, Majnoni segue il percorso formativo da lui delineato negli anni Sessanta e che resterà sostanzialmente invariato fino al primo. Fondamento della sua impostazione era la ricerca di una nuova ‘conciliazione’ tra forma e struttura attraverso la mediazione della storia, alla quale era assegnato un compito culturale e operativo insieme, capace di far crescere l’erudizione e le conoscenze e, nello stesso tempo, di stimolare l’invenzione e la progettualità. Tale cioè da fornire indirizzi e modelli all’esercizio dell’architettura contemporanea, fosse questa mirata alla novità espressiva o alla definizione di congruenti sintonie linguistico-compositive tra passato e presente, fosse questa impegnata nella riscoperta e restauro dei monumenti antichi. Non sfuggirà, per altro, come l’idea dello stretto connubio tra storia e progetto, potesse avere per Majnoni quasi il senso di una ‘vocazione spontanea’, in sintonia sia con gli orientamenti della cultura famigliare, sia con la contiguità, anche professionale, a persone e luoghi la cui autorevolezza e prestigio derivavano dalle tradizioni e dagli exempla virtutis del proprio passato. In questa prospettiva era ovviamente casa Savoia il referente ‘assoluto’ per l’architetto, all’origine di un impegno e di una dedizione che dall’inizio degli anni Novanta si protrassero fino agli anni Venti del Novecento. Contavano il rango aristocratico, un clima di reciproca fiducia e le influenti relazioni personali12, ma anche la solida 10

Nel 1878 Achille Majnoni è l’unico laureato della Scuola di Architettura del Politecnico. Sulla sua carriera scolastica cfr. Cfr. Archivio Storico del Politecnico di Milano, Registri: I° Allievi dal 1874-75 al 1878-79 da cui risulta che si iscrisse nel 1874-75 a Ingegneria Civile e che sospese poi “gli studi per malattia”. Dal 1875-76 al 1877-78 frequenta i tre anni della Scuola di Architettura Civile e si laurea con la valutazione complessiva di 7/10. Per la Scuola di Architettura del Politecnico cfr. V. Fontana, La scuola speciale di architettura (1865-1915), in Il Politecnico di Milano (1863-1914). Una scuola nella formazione della società industriale, Electa, Milano 1981, pp.228-246; cfr. nello stesso volume O. Selvafolta, L’Istituto Tecnico Superiore di Milano: metodi didattici e ordinamento interno, 1863-1914, pp.87-118 e Ead., La Scuola di architettura al Politecnico di Milano tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, in La trasmissione del sapere: maestri e allievi lungo la via Emilia, a cura di A. M. Guccini, Atti del Convegno, Giornate di Studi Mengoniani – Fontanelice 2006, Provincia di Bologna, Bologna 2011, pp. 81-112. 11 Nell’ampia bibliografia segnalo G. Zucconi, F. Castellani, Camillo Boito: un’architettura per l’Italia unita, Venezia, Marsilio, 2000; Camillo Boito un protagonista dell’Ottocento Italiano, a cura di G. Zucconi e T. Serena, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2002. 12 A proposito dei rapporti tra Majnoni e il re Umberto I, scrive Stefano Majnoni nel suo libro di memorie, Una educazione, Capodarcofermano edizioni, Capodarco di Fermo 20062, p.36: “Il suo rapporto con Umberto fu basato su un’ottima intesa, ma anche sull’intelligente artificio di mantenerla circoscritta nell’ambito delle sue prestazioni”. Tra le relazioni personali dell’architetto fu senz’altro influente l’amicizia con la duchessa Eugenia Attendolo Bolognini, poi Litta Visconti Arese, amante di Umberto I, cfr. S. Majnoni, Un ritratto, cit., pp. XII-XIV.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

competenza politecnica, implicitamente riconosciuta nella nomina a “Ingegnere-architetto a disposizione del Re” che sanciva, con atto ufficiale, l’apprezzamento per il modo in cui Majnoni aveva già condotto “l’esecuzione di importanti incarichi di lavori” e disponeva a che per il futuro il re si avvalesse della “sua opera tecnica”13. Contavano inoltre la vicinanza geografica e lo speciale sentimento di affinità che legava la tradizione aristocratica della villeggiatura in Brianza con la reggia di Monza: la villa per antonomasia, progettata da Giuseppe Piermarini, decorata da Giocondo Albertolli dagli anni Settanta del Settecento per l’arciduca Ferdinando d’Asburgo, e tornata a risplendere nel secondo Ottocento per i Savoia come dimora aristocratica al supremo livello14. Per essa Umberto I nutriva una speciale predilezione fin da quando era di stanza a Milano come giovane comandante della prima brigata di cavalleria. Diventata ufficialmente sua dal 1868 in occasione delle nozze con Margherita, la villa e il parco furono infine prescelti come abituale residenza estiva e, non raramente, con funzioni di corte al posto del meno apprezzato Palazzo Reale a Milano. Quale luogo di soggiorno reale, nonché centro di convegno e mondanità per personalità illustri e per l’aristocrazia lombarda, il complesso, negli ultimi decenni del secolo, fu oggetto di diversi interventi di “ristauri, modifiche, lavori artistici”, al fine di diventare più confortevole ed attraente per l’agio dei suoi ospiti, ma anche per la costruzione del consenso attorno all’idea di una dimora ‘affabile’, disponibile all’ospitalità, ai ricevimenti e alle feste, oltre i severi rituali del cerimoniale e dell’etichetta15. 13 Cfr. documento di nomina a “Ingegnere Architetto a disposizione del Re” e lettera del Ministro della Real Casa, Roma, 30 marzo 1894, entrambi in ASCMiFM cart. 12/240. 14 Tra le diverse e numerose pubblicazioni, che si sono susseguite sulla storia della Villa Reale di Monza, mi limito a segnalare una bibliografia essenziale, rimandando ad altri contributi nelle parti più specifiche del testo: La Villa Reale di Monza, a cura di F. De Giacomi, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 1999; P. Paleari, C. Vittone, La Villa Reale di Monza. Storia di una reggia europea, Vittone Editore, Monza 2006; La Villa, i Giardini e il Parco di Monza nel fondo disegni delle Residenze reali Lombarde, a cura di M. Rosa, Skira, Milano 2009. 15 La citazione è tratta da La Villa Reale di Monza, in Ville e castelli d’Italia. Lombardia e laghi, Tecnografica, Milano 1907, p. 28. Il duca Tommaso Gallarati Scotti ricorda come il ricevimento a Monza fosse ambito “da tutta la società eletta proveniente dalle ville magnifiche della Brianza” che trasformavano la villa in “un centro di eleganza e di vita cortigiana con splendori di ricevimento e equipaggi”(T. Gallarati Scotti, Interpretazioni e memorie, Mondadori, Milano 1960, p.49 e 50). Fonte particolarmente utile per conoscere molti dettagli della vita di corte a Monza è P. Paulucci, Alla corte di re Umberto. Diario segreto, a cura di G. Calcagno, Rusconi, Milano 1986. Cfr. inoltre i saggi di M. Rosa, L’uso della villa di Monza e del palazzo di città e di I. Botteri, Etichetta e cerimoniale di una corte estiva: entrambi in Milano 1848-1898. Ascesa e trasformazione della capitale morale, a cura di C. Mozzarelli e R. Pavoni, vol. Milano capitale sabauda. Milano tecnica. Milano vetrina della nuova Italia. La società milanese, Museo Bagatti Valsecchi – Marsilio, Venezia 2000, rispettivamente a pp.7-18 e a pp.19-42.

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO



Dal 1878, anno dell’ascesa al trono di Umberto I, in poi le opere di sistemazione erano state condotte dall’ingegnere di corte Luigi Tarantola, affiancato dal marchese Emanuele Pes di Villamarina, appassionato dilettante di architettura; i loro interventi tuttavia erano a volte risultati un po’ affrettati e non del tutto riusciti: “signorili sì”, ma non propriamente adeguati all’“elegante conforto di una quieta residenza regale”16. Sarà quindi Majnoni a correggerne le rigidezze, operando dapprima come collaboratore di Tarantola, poi come progettista ufficiale della reggia. Nel 1891, la sua firma compare su una serie di disegni acquerellati riguardanti alcune sale di rappresentanza al primo piano nobile, in particolare la “sala da pranzo della famiglia” e “la sala degli arazzi”, dove la stessa tecnica grafica evidenzia l’idea di un decoro più ‘morbido’, visivamente più ricco rispetto al puro revival neoclassico, stemperandone le possibili severità nella tenue coloritura all’acquarello, nei tratti sfumati, negli accenti lievi e quasi vaporosi di un Settecento memore del tempo di Watteau, di Fragonard e delle grazie rococò17. Si trattava in alcuni casi di apprestare ambienti ex novo, in altri di completare il décor delle “nobili sale” allestite con eleganza e raffinatezza a fine Settecento18: per queste ultime Majnoni era tenuto a rispettare i caratteri storico-artistici dell’architettura e dell’ornato, ma anche ad ‘incorporarli’ in insiemi più accoglienti e meglio abitabili. Nel febbraio del 1893 “L’Edilizia Moderna” sottolineava, in quello che è forse l’unico articolo dedicato a Majnoni apparso su una rivista di architettura, come egli avesse creato una nuova “armonia” in ambienti ascrivibili al “Luigi XVI italiano”, arricchendone le componenti e muovendosi con sapiente equilibrio sul sottile crinale che in quegli anni divideva la conservazione dal cambiamento e la copia dall’invenzione. “Come l’egregio architetto abbia soddisfatto a tale incarico, lo si scorge dalla […] sala degli Arazzi, così denominata perché vi collocò degli arazzi della prima metà dello scorso secolo, che giacevano nelle guardarobe reali, incorniciandoli di pannelli in legno scolpiti a soggetti arcadici e pastorali. La volta e la cornice d’imposta sono 16

Citazione da La Villa Reale di Monza, in Ville e castelli, cit., p. 29. Per i disegni di Achille Majnoni cfr. ASCMi-FM cart.1/35, 1/37-46 e, in particolare, le tavole 1/38-40 firmate e datate: Milano, 26 ottobre 1891. 18 Il riferimento è alla pubblicazione di G. Albertolli, Alcune decorazioni di nobili sale ed altri ornamenti, incisi da G. Mercoli e A.de Bernardis, Milano, 1787. Sull’ornato di Albertolli cfr. E. Colle, Giocondo Albertolli. I repertori di ornato, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2002; Id. e F. Mazzocca, Il trionfo dell’ornato. Giocondo Albertolli (1742-1839), catalogo della mostra, Rancate – Canton Ticino 2005, Silvana editoriale, Cinisello Balsamo 2005. 17

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

a stucchi; le porte sono scolpite in legno. La decorazione di questa sala è ottenuta con una larghezza di concetto e una parsimonia che rivelano nell’autore lo studio efficace di quello stile; l’amore con cui vi ha atteso gli ha fatto raggiungere nell’insieme una armonia assolutamente encomiabile”19. Tra gli ambienti progettati ex novo, o che subirono più radicali trasformazioni, si annoverano gli appartamenti privati di Umberto I e della regina Margherita, poco condizionati da preesistenti schemi neoclassici, bisognosi di ristrutturazioni funzionali, di aggiornamenti tecnici e di nuovi progetti decorativi, tali cioè da consentire all’architetto di affermarsi come un creatore di gusto e di stile20. La sistemazione della camera da letto del re è esemplare della sua propensione alla cosiddetta “arte dell’addobbo” come allestimento completo degli interni. Attento a creare accoglienti ed eleganti recessi privati, Majnoni separa lo spazio del riposo dal resto del locale inquadrandolo con un diaframma di colonne binate che movimenta lo spazio rettangolare e ne accentua il tono decorativo; studia inoltre i mobili, le porte, le boiserie, gli stucchi, le guarnizioni dorate, i tessuti e i ricami, dove i profili, le sagome, i contorni festonati e intagliati e, nell’insieme, gli sviluppi dell’ornato, progressivamente virano dal neoclassico verso uno stile oscillante tra il Luigi XIV e il Luigi XV21. In altri ambienti tale orientamento diventa proclamata adesione, intensificandosi nello scenario un po’ teatrale di luoghi sviluppati come forma, ma anche allestiti come spettacolo. Una fotografia della camera da letto di Margherita, pubblicata nel volume Ville e castelli d’Italia. 19 Particolari decorativi. Sala degli Arazzi nella Villa Reale di Monza, arch. Achille Mainoni d’Intignano, in «L’Edilizia Moderna», a. II, febbraio 1893, p.15. 20 Recentemente restaurata e riaperta al pubblico questa parte della villa è stata oggetto di numerosi studi, tra cui si segnalano in particolar modo quelli di Marina Rosa, già Soprintendente per i Beni Architettonici a Milano e, dal 2007, Presidente del Centro documentazione Residenze Reali Lombarde “Lionello Costanza Fattori”. Cfr. M. Rosa, L’appartamento di Umberto I. Villa Reale di Monza, a cura di Ead., Giorgio Mondadori, Milano 1994; R. Cassanelli, Il parco e la villa reale di Monza nella fotografia dell’Ottocento, Musei Civici di Monza, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 1999; M. Rosa, L’uso della villa di Monza, cit.; F. Süss, La Villa Reale di Monza: profilo storico, in Radiografia di un degrado. La Villa Reale di Monza alla vigilia del restauro, a cura di R. Cassanelli, T. Giansoldati Gaiani, Associazione per la Villa Reale di Monza, Monza, 2000, pp. 12-37; M. Ghirardi, Achille Majnoni d’Intignano e i suoi disegni per tessuti per la Villa Reale di Monza. Breve nota su una riscoperta, in «Rassegna di studi e di notizie», Milano – Castello Sforzesco, vol. XXX, a. XXXIII, 2006, pp. 169-183; M. Rosa, La Villa, i Giardini, cit. Cfr. inoltre (uscito dopo il convegno di Jesi 2012 al quale è stato presentato questo contribuito), La Villa Reale di Monza reggia estiva del Regno d’Italia, a cura di G. D’Amia e M. Rosa, BetaGamma, Viterbo 2012. 21 Cfr. M. Rosa, L’appartamento di Umberto I, cit., e ASCMi-FM Cart 11/123, Cart. 1/35 e 42.

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO

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Lombardia e Laghi del 1907, segnala come il complesso apparato del baldacchino, la ricchezza e varietà delle stoffe, lo svolgersi dei ricami e delle modanature, le linee dei cassettoni Luigi XV ed anche il dipinto moderno La Madonna dell’ulivo di Nicolò Barabino, rendano possibile sia l’agio del vivere, sia la sua rappresentazione22. Nello stesso volume si evidenzia altresì che le sale sistemate da Majnoni al piano nobile sono ricche di “cose squisite, freschissime, piene di gusto profuso con quadri di sommi moderni pittori, insieme alla massima comodità di mobili e servizi”23. Ci si riferisce cioè a stanze, dettagli, atmosfere che sono regali e elegantissimi, ma pur sempre ‘domestici’, dove accanto alla cultura aulica del tener corte e dello svolgere funzioni sovrane, si svolgono anche le predilezioni personali per l’arte, l’arredo, il confort. Non stupisce quindi leggere nella Guida di Monza e circondario del 1897 che in assenza dei sovrani il pubblico poteva essere ammesso alla visita e poteva seguire un itinerario che dalla biblioteca passava alla sala da bigliardo, dalla sala di ricevimento alla sala del trono (oramai usata “per la conversazione”), “dalla sala da pranzo alla sala da ballo dirimpetto il parco”24. Di questi ambienti si menzionano i vasi giapponesi, le ceramiche, i dipinti, i getti in bronzo rappresentanti “una biga russa, tre cosacchi e un tam tam giapponese”, uno “’splendido orologio di porcellana dono dell’Imperatore di Germania”, la miniatura del monumento a Vittorio Emanuele II inaugurato a Milano in piazza del Duomo nel 1896, un “organo americano”, “altri vasi giapponesi”, mobili coperti da belle stoffe esotiche, “un segreter [sic] tutto intarsiato di madreperla, dono della città di Milano”. Uscendo nel parco si era invitati ad apprezzare la semplicità della facies architettonica che esaltava per contrasto le ricche atmosfere interne, ricordando ancora: “i tappeti, gli arazzi preziosi, le rarità artistiche e storiche d’ogni specie, le sontuose suppellettili d’ogni genere” già “oggetto della nostra ammirazione”25. È sintomatico che si dia rilievo alle componenti di arredo, agli alle22 Cfr. La Villa Reale di Monza, in Ville e castelli, cit., p. 32. La stampa originale è conservata in ASCMi-FM-Fondo Fotografico (d’ora in poi FF). Il quadro menzionato era una delle tre repliche del celebre La Madonna dell’ulivo dipinto da Nicolò Barabino per la chiesa di Santa Maria della Cella a Sampierdarena ed era stata acquistato dalla Regina Margherita nel 1887 alla Mostra Nazionale di Belle Arti di Venezia. 23 La Villa Reale di Monza, in Ville e castelli, cit., p. 29. 24 Cfr. Z. Lucchini, G. Riva, Guida di Monza e circondario, storica, artistica, descrittiva, commerciale, Tip. Morosini, Monza 1897, p. 135. 25 Ibidem pp.135-136.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

stimenti più che all’architettura, agli abbellimenti più che all’ornato: ingredienti di un decoro e di un lusso eccelsi, ma non estranei alla più generale cultura dell’intérieur e tali da far sentire i visitatori più partecipi e meno distanti dai loro sovrani. I compiti di Majnoni “a disposizione del re” comprendevano la cura totale degli interni: il progetto d’insieme e di dettaglio, la parte tecnica e la parte artistica, il controllo delle opere edili e degli interventi decorativi, dei fornitori e degli artigiani, la scelta dell’arredo fisso e dell’arredo mobile, ivi compresi gli oggetti e le più varie e “sontuose suppellettili”. Lo rivelano le numerose lettere inviategli da Tito Mammoli “Conservatore superiore della Real Villa”, con ufficio nel “primo corridoio” della reggia26 che regolarmente, a partire dal 1892 fino a inizio anni anni Venti, ragguaglia l’architetto sui lavori in corso e contestualmente dà informazioni preziose sugli spostamenti dei sovrani, sui visitatori, sugli eventi, sui modi in cui “scorre la campagna” e sulle attività dei villeggianti27. La reggia è un cantiere continuo, segnato da demolizioni e costruzioni, dalle installazioni di caldaie e ascensori come dalle finiture decorative e dagli arrivi di mobili, oggetti d’arte e soprammobili: una pendola da mettere in biblioteca, stoffe e bronzi artistici da Parigi, cristalli e porcellane, ovvero tutta “la roba bella e di buon gusto” che solo Majnoni sapeva trovare e che tutti attendevano con felice anticipazione28. Nonostante i suoi passatempi preferiti fossero i cavalli, la caccia, gli ambienti militareschi e virili, Umberto I era solito spendere molto per gli acquisti di arredi e complementi, di dipinti e sculture: la stanza della biblioteca, annotava nel 1894 il suo aiutante di campo marchese Paolo Paulucci delle Roncole, gli era costata ben 100.000 lire per le boiserie pregiate, per gli stucchi, per i bronzi dorati, e per le rilegature di libri, anche se per lo più destinati a non essere letti29. Le testimonianze dell’interesse del sovrano per l’opera ‘globale’ di Majnoni sono numerose e fedelmente riportate da Mammoli: nell’a-

26

Ibidem p.135. Cfr. AMM-FA, n.163.3 dove sono conservate 207 fra lettere e biglietti di Tito Mammoli inviati a Majnoni dal 1892 al 1934, un anno prima della morte di quest’ultimo. Le notizie sulla reggia di Monza da parte di Mammoli arrivano sostanzialmente fino a inizio anni Venti, quando alla fine della guerra, la villa venne “retrocessa” al Demanio dello Stato da parte del re Vittorio Emanuele III. Cfr. in P. Paleari, C. Vittone, La Villa Reale di Monza, cit., il paragrafo Vittorio Emanuele III e la “liquidazione” della residenza reale di Monza, e la scheda di M. Rosa, Dispersione e ricerca degli arredi, pp.149-159. Furono “retrocessi” al Demanio anche il Palazzo e la Villa Reale di Milano. 28 Cfr. AMM-FA, n.163.3, Lettera del 19 agosto 1894 di Tito Mammoli a Achille Majnoni. 29 P. Paulucci, Alla corte di re Umberto, cit., p.106. 27

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO

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gosto del 1894 appena giunto a Monza, Umberto I chiede se l’architetto sia tornato da Londra e quali oggetti abbia inviato; li esamina poi uno ad uno e trova tutto “molto bello”; si informa sui tappeti in arrivo, sulle nuove ordinazioni dei servizi da tavola e sui mobili dorati da “mettere tra le finestre del salone”. Insieme alla regina o a componenti del suo entourage egli visita spesso gli appartamenti durante i lavori, dimostrandosi sempre soddisfatto di quanto si sta realizzando. Si legge ad esempio nella lettera inviata da Mammoli a Majnoni il 14 luglio del 1897, “Verso le 11 S.M. è venuto a vedere i lavori col conte Brambilla […] nel pomeriggio […] ha voluto rifare il giro insieme alla regina. Sono stati dappertutto adoperando l’ascensore grande […] e quelli piccoli che sono andati a meraviglia. Anche la regina ha trovato tutto bello e non faceva che ripetere espressioni di soddisfazione”30. A lavori ormai ultimati, nell’ottobre del 1898, “le LL.MM. abbraccetto [sic] come due sposini, furono a vedere tutti i nuovi alloggi, le scale, le toilettes, che io avevo fatto illuminare perché era già notte. Sento ancora le esclamazioni: oh com’è bello! oh com’è grazioso! Oh come sta bene!. Bellissimo! Comodissimo! Proprio bello! ripetuto cento volte dalla nostra graziosa regina”31. Merita di essere sottolineato l’interesse di documenti come questi che guardano dall’interno le architetture e i luoghi ufficiali del potere, seguendoli a volte in ‘tempo reale’ durante il loro farsi, oppure recependoli come sfondi di eventi grandi e minuti che intrecciano la storia collettiva con la dimensione privata, con i momenti dell’uso e le aspettative personali. Da queste note Majnoni emerge come una figura centrale nel ménage della villa, con un rapporto di sincero attaccamento alla famiglia reale, oltre che di completa dedizione al lavoro. Il 29 luglio 1900 l’attentato al Re, al quale egli assistette in prima persona, fu quindi una sciagura morale, prima ancora che materiale, lasciando un autentico vuoto di sentimenti e di affetti. Meno di due settimane dopo il regicidio, l’11 agosto 1900, Mammoli comunica che “si va rimettendo la villa a posto”, e che l’appartamento del “nostro povero sovrano è tornato come se si aspettasse l’arrivo da un giorno all’altro. E dire che non verrà più!”32. Di lì a breve invia all’architetto le misure per una “cassetta da rinchiudere gli ultimi abiti indossati 30

Cfr. AMM-FA, n.163.3, Lettera del 14 luglio 1897 di Tito Mammoli a Achille Majnoni. Cfr. AMM-FA, n.163.3, Lettera del 1° ottobre 1898 di Tito Mammoli a Achille Majnoni. 32 Cfr. AMM-FA, n.163.3, Lettera dell’11 agosto 1900 di Tito Mammoli a Achille Majnoni. 31

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

da S.M.”33 che serviranno per il progetto di un cofano-reliquiario richiesto dalla regina Margherita. Successivamente dolore, smarrimento e il senso di una “perdita incolmabile, “tragica e infame” 34, mentre le sale ormai disabitate della villa si riempiono di ombre. Le lettere dicono che la famiglia reale non tornerà più, che a Monza tuttavia la manutenzione continua sempre a cura di Majnoni, ma si capisce che il suo impegno per casa reale non è, né può più essere, di tipo esclusivo.

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Majnoni arbitro del gusto. La diffusione del neobarocco nel milanese L’esperienza maturata a Monza agisce come un potente volano a favore di Majnoni, accrescendone la fama e il consenso nei circoli delle élite35. Dopo la morte del re egli è di fatto un architetto “assai richiesto”, come se, attraverso la sua opera, si potesse trasmettere ai committenti anche il prestigio di casa reale o come se, ha osservato con verve Rossana Bossaglia, «tutta la Brianza fosse pervasa dal brivido di farsi corte»36. Tranne poche eccezioni, la sua attività professionale riguarda quindi il progetto di dimore aristocratiche o comunque di grande agiatezza, passando dal palazzo di città alla villa di campagna, dalla costruzione ex novo alla sistemazione dell’esistente, dall’allestimento degli interni al disegno dei giardini. Anche in questi casi il suo engagement sfocia in un rapporto più personale con committenti che, generalmente, appartengono al suo stesso ceto: più che di clienti in senso classico, si tratta di ‘clienti-amici’, desiderosi del suo apporto e rispettosi delle sue decisioni; a costoro a volte è, in un certo senso, il marchese architetto Majnoni a offrire patronage, quasi ribaltando i ruoli tradizionali. Dai documenti dell’archivio privato di famiglia risulta chiaramente come senza il progetto, o anche solo senza il suo consiglio amichevole, appaiano impossibili non già le sistemazioni più importanti e i lavori più impegnativi, ma persino la scelta di un mobile, l’acquisto di una 33

Cfr. AMM-FA, n. 163.3, Lettera datata 1900 di Tito Mammoli a Achille Majnoni. Cfr. AMM-FA, n. 163.3, Lettera del 19 agosto 1900 di Tito Mammoli a Achille Majnoni. Lo sottolinea il nipote Stefano Majnoni, Una educazione, cit., pp. 36-37, a proposito del rapporto di Achille con re Umberto I: «I vantaggi che ne traeva erano evidenti e di tipo, si direbbe oggi, promozionale. La sua immagine di professionista ne veniva esaltata, la committenza estesa ed ulteriormente qualificata. Ma dal sovrano – a quanto mi risulta – non ebbe speciali favori che potessero condizionare la sua autonomia». 36 R. Bossaglia, L’arte. Dal Manierismo al primo Novecento, in Storia di Monza e della Brianza, vol.V, Il Polifilo, Milano 1970, p. 254. 34

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO

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suppellettile, la disposizione di un oggetto nelle stanze. Majnoni è cioè un vero arbitro del gusto, il cui parere estetico ed artistico garantisce distinzione ed eccellenza ai luoghi di un ceto sociale che, pur essendo da sempre il destinatario privilegiato del progetto di architettura, pur rappresentando di per sé un modello di riferimento, sente la necessità, in quei decenni segnati da pressanti cambiamenti strutturali e sociali, di riqualificare e riaffermare la propria immagine, anche affidandosi a un interprete autorevole e di sicura competenza. Si capiscono quindi i numerosi incarichi per riformare dimore già esistenti e adeguarle non soltanto alle esigenze del confort e dell’abitare moderno, ma anche ai modelli eccellenti di decoro trasmessi dalla ‘nuova’ Villa Reale di Monza: guardando cioè non all’architettura di Piermarini e agli ornati dell’Albertolli, bensì ai nuovi appartamenti dei Savoia, al loro accento neobarocco variegato da attraenti ‘contaminazioni’ eclettiche, già entrato nel gusto e incline a farsi moda. Le sue radici nelle “ville di delizia e palagi camparecci” del milanese avevano già fornito materia di interpretazione e progetto all’architetto, conte Emilio Alemagna che è lecito pensare abbia costituito un referente per il più giovane Majnoni. Legati da rapporti di amicizia, entrambi aristocratici, “educati sia al sentimento della magnificenza antica sia alle esigenze più ricercate dei nostri giorni”, entrambi possono a ragione ritenersi i protagonisti della “rinascita delle villeggiature signorili del XVII e XVIII secolo”, nel segno di una continuità stilistica che per loro poteva avere anche il valore di una continuità culturale ideologica 37. Scriveva nel 1892 la rivista «L’Edilizia Moderna»: «Abbiamo visto rivivere delle villeggiature signorili, del seicento e del settecento, modificate con ingegnosi accorgimenti, così da ottenere l’accordo e la fusione dei bisogni e dei comodi affatto speciali del presente nelle tradizionali forme artistiche del passato. Maestro felicissimo in questi studi è l’architetto Conte Emilio Alemagna, ed ha fatto scuola presso di noi. [...] Ispirandosi alle bellezza della architettura dei migliori palazzi del settecento ed alla grazia singolare delle grandiose e magnifiche ville 37

Le citazioni sono tratte da A. F., Villa Sessa a Cremella, in «L’Edilizia Moderna», a. I, dicembre 1892, p. 1. Per Alemagna cfr. C. Formenti, Conte Emilio Alemagna Architetto (1833-1910), in «L’Edilizia Moderna», a. XIX, novembre 1910, pp. 85-87. Per altre considerazioni sulle ville di Emilio Alemagna e di Achille Majnoni cfr. O. Selvafolta, Ville in Brianza tra Otto e Novecento: percorsi nell’architettura, negli stili e nel gusto decorativo, in Storia della Brianza, vol.III Architettura e territorio, a cura di A. Buratti Mazzotta, Cattaneo Editore, Oggiono 2008, pp. 356-429.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

signorili che in quell’epoca sorsero nei dintorni di Milano», egli «trovò modo di farne, a seconda del soggetto, la più felice applicazione», portando a «rivivere i migliori periodi dell’arte»38. Risultati simili ottiene anche Majnoni che, a sua volta, farà “rivivere” la stagione del primo Settecento nella maggior parte delle circa quaranta ville legate al suo nome e affrontate nel corso di circa quarant’anni di attività. Il tutto si esprime primariamente nel dominio del decoro, della funzionalità e del confort, puntando sulla gradevolezza degli effetti come sul reale miglioramento della qualità dell’abitare attraverso la buona articolazione della pianta, l’ammodernamento tecnico, la ricerca di una migliore interazione con l’ambiente circostante e, segnatamente, con i giardini nuovamente disegnati o valorizzati nella loro conformazione originaria. Senza entrare in merito alle singole realizzazioni, basterà notare a questo riguardo come a villa Arese ad Osnago, rimodernata negli anni Novanta dell’Ottocento, a Villa Radice Fossati a Erba, costruita ex novo nel primo decennio del Novecento e in numerosi altri esempi, l’aggiunta o la previsione di logge e terrazze, balaustre e scalinate, verande e pensiline, ringhiere in ferro battuto, corpi in aggetto, sono concepiti quali importanti elementi di transizione e di scambio tra interno ed esterno, tra luci e atmosfere, tra il costruito e il giardino inteso come parte dell’abitare o comunque come una sua importante prospettiva39. Inscindibile dal concetto stesso di villa il giardino esige almeno una breve considerazione nei progetti di Majnoni. Egli è per lo più favorevole alla fusione tra impianto formale e impianto paesaggistico, introducendo elementi naturalistici e irregolari nelle geometrie del giardino all’italiana e, al converso, assicurando un’ossatura architettonica alla naturalezza del giardino all’inglese40. Ma, in coerenza con 38

A.F., Villa Sessa, cit., p.1. Per queste realizzazioni cfr. i rispettivi disegni in ASCMi-FM: nelle cartt. 2; 6; 7; 8; 9; 11; 12. 40 Cfr. A. Terafina, Achille Majnoni e i giardini della Belle Epoque, in La memoria, il tempo, la storia nel giardino italiano fra ’800 e ’900, a cura di V. Cazzato, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1999, pp.87-98. Una prima testimonianza di tale approccio è la riforma del giardino di Erba Incino per la villa di famiglia, come ricorda il nipote Stefano: “sostenitore del giardino all’inglese, ne adottò il modulo anche per il giardino di Erba: grandi parchi, viali e vialetti a circoscriverli e fondali di alberi a far loro da cornice. Ma da buon rappresentante della Scuola neo-rococò o del barocchetto, seguace fedele dell’insegnamento che intende l’architettura come decorazione di una struttura, corresse l’integralismo naturalistico del giardino all’inglese e vi introdusse elementi decorativi di derivazione pre-romantica, congeniali al suo gusto settecentesco, utilizzando ornamenti assai diffusi nel giardini classici quali statue rappresentanti divinità mitologiche e tempietti”. S. Majnoni, Una educazione, cit., p. 24. 39

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO

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la ripresa stilistica del Settecento, la principale prerogativa dei suoi giardini è la riscoperta del disegno formale, così che gli esempi più importanti presentano sempre porzioni ad impianto regolare e suddivisioni geometriche, esibiscono parterre contenuti entro confini mistilinei e ‘istoriati’ da complesse broderie che si possono leggere come rivisitazioni eclettiche e intensificate dei “ricami vegetali” già raffigurati da Marc Antonio Dal Re nelle Ville di delizia e nella più ampia letteratura settecentesca sui giardini41. Il giardino di villa Emilia del marchese Brambilla a Castelnuovo d’Erba (conclusa nel 1914) come quello di villa Zervudachi a Oggebbio (i cui lavori si protrassero dal 1909 al1923), mostrano aiuole a profili sagomati entro cui piante e fiori a colori vivaci si compongono in motivi di losanghe, volute, ghirigori e festoni, quasi trasferendo alla natura i disegni pensati per gli ornati architettonici, per i ricami di una tappezzeria, per i ferri battuti o le pietre scolpite di una balaustra42. Quale architetto ‘devoto all’ornato’ Majnoni trova comunque il suo campo di elezione e riscuote il maggior successo nell’allestimento di interni, un settore certamente non marginale di creatività e esperienza, tra i più rappresentativi della cultura dell’epoca e delle sue inclinazioni di stile. È del resto negli interni che l’architettura acquisisce una più diretta dimensione sociale, che deve stabilire più strette relazioni tra la teoria e la prassi, tra le ragioni del disegno e le aspettative dei destinatari: che deve, in altre parole, confrontarsi con temi particolarmente qualificanti dell’opera di Majnoni direttamente attinenti agli ambiti del gusto e della moda. Vale la pena quindi accennare ad alcune caratteristiche. Si tratti di ristrutturare o costruire ex novo, i suoi progetti prendono sempre avvio dalle piante degli edifici alle quali imprime un ordinamento spaziale che supera le tradizionali enfilade di ambienti e lunghi corridoi di disimpegno, lavorando su una più articolata definizione funzionale degli ambienti, sulle possibilità di comunicazione reciproca, sulle correlazioni e le affinità d’uso. 41 Tra cui si veda, a titolo di esempio, A. J. Dézalliers d’Argenville, La théorie et la pratique du jardinage où l’on traite à fond des beaux jardins apellés communément les jardins de plaisance et de propreté, composés de parterres, de bosquets.... La Haye, 17091, Paris, Mariette, 1713 42 Cfr. in ASCMi-FM, i disegni: cart.4/1 e cart. 13/151 e 13/155. Per villa Zervudachi cfr. anche Oggebbio. I giardinieri del Pascià, in C. A. Pisoni, L. Parachini, S. Monferrini, D. Invernizzi, Amor di pianta. Giardinieri, floricoltori, vivaisti sul Verbano tra 1750 e 1950, Magazzeno Storico Verbanese, Verbania – Germignaga 2005, vol.I, pp.137-138. Ringrazio Valerio Cirio per questa segnalazione. Cfr. anche M. Cremona, Villa del Pascià. Storia di una residenza leggendaria, Comune di Oggebbio, Gravellona Toce, 2013.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

Perno dell’organizzazione d’insieme ed elemento distintivo è sovente l’atrio che alloggia la scala principale alla quale l’architetto, ove possibile, assegna sempre uno spazio rilevante. In sintonia con gli ammirati esempi delle dimore settecentesche la scala non è solo componente funzionale, bensì ‘figura’ caratterizzante di un decoro elegante e signorile, sebbene privo di accenti solenni: il percorso si sviluppa per lo più più con un’unica rampa che si svolge a nastro ed esalta lo snodarsi delle balaustre in legno o in ferro battuto, l’arrotondarsi degli angoli e l’invito “morbido” dei gradini risvoltanti “a ventaglio” sul pavimento43. Spesso le piante mostrano una ricercata fluidità spaziale che disegna sequenze e passaggi tra anticamera e antisala, tra sala da pranzo e salone da ricevere, tra biblioteca e studio, tra salotto e giardino: organizza cioè una rete di connessioni che interessa gli ambienti, ma anche i comportamenti, aderendo a un modello di distinzione rilassata, più incline all’agio del vivere che alla sontuosità dei cerimoniali. È significativo che nel fondo disegni di Majnoni figuri una cartella con l’intestazione “Porte e Archi”, dove è contenuta una grande varietà di soluzioni per le comunicazioni tra le stanze che denotano un’interessante ricerca di convergenze tra il decoro e l’uso diventando nel contempo il movente per aperture variamente sagomate, svolgimenti di cornici in stucco, modanature in pietra, motivi affrescati, nonchè per suggerire quelle dilatazioni spaziali proprie a molti ambienti settecenteschi44. In interni di questo tipo Majnoni si muove sul fronte di un ‘disegno totale’ per cui la cura delle finiture e delle lavorazioni, il controllo meticoloso dei dettagli materializzano anche una sorta di confort psicologico a vantaggio di una clientela facoltosa, rassicurata dalla cultura e competenza del progettista e dalla continuità con le tradizione di alto artigianato. Il che esige da parte dell’architetto strette alleanze con i mestieri dell’arte: con tappezzieri, ebanisti e falegnami, fabbri e bronzisti, stuccatori e decoratori ad affresco, scalpellini e scultori, quasi recuperando la fervida attività degli artefici che era stata uno fra gli aspetti peculiari al cantiere del barocchetto lombardo. La loro esperienza e sensibilità hanno fortemente contribuito a dar vita alle idee, a volte a suggerire e a precisare l’immagine stilistica delle architetture, nonché a determinare la cifra 43 L’espressione “a ventaglio” si trova in AMM-FA, n.159.20 lettera di “F. Figini” a Achille Majnoni riguardo la sistemazione della villa Rocca de’ Giorgi di Vistarino a Casteggio (Pavia). Scale simili sono progettate da Majnoni in altre residenze, tra cui: villa Falcò a Mombello, dal 1894; villa Rossi a Schio (1898); villa Trivulzio a Omate (1903-1906), villa Radice Fossati a Erba (1903-1907). 44 Cfr. in ASCMi-FM cart. 11, la sottocartella “Porte e Archi”.

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO

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espressiva del progettisti, a favorirne la riconoscibilità e a diffonderne il gusto attraverso i molteplici percorsi del loro lavoro. La storia dell’architettura deve dire ancora molto su questo tema, ma l’attenzione a Majnoni e ai documenti del suo lavoro può anche aiutare a risarcire di passati silenzi. Le sue opere intersecano infatti molte storie di professioni e di ruoli che emergono dalla lettura dei documenti. Primo fra tutti Ferdinando Figini che, dai primi anni Novanta fino agli ultimi lavori dell’architetto, è stato suo disegnatore e assistente45. Le lettere che egli scrive sono precise e puntuali, ricche di notizie, a volte corredate di minuscoli schizzi esplicativi: offrono nell’insieme uno straordinario spaccato di vita attiva che racconta metodi di lavoro, relazioni con i clienti, impresari edili, fornitori. Figini informa regolarmente sui cantieri aperti e sulle loro piccole e grandi evenienze, segnala che bisogna decidere velocemente per le porte e le maniglie di villa Trivulzio a Bellagio; dà notizia sulla disposizione di un parterre e la collocazione di una pompa idraulica nel giardino della villa De Conturbia a Como Malcacciata; rassicura sul procedere di una scala con parapetto in ferro battuto in villa Belinzaghi a Cernobbio46. È un collaboratore prezioso che, nel corso degli anni, acquisisce esperienza e sicurezza arrivando a un’ottima intesa con l’architetto. La compiutezza delle opere, la loro coerenza formale e qualità materiale provengono da quest’affiatamento e, come già accennato, dal lavoro dei numerosi artefici ed esecutori con cui Majnoni mantiene rapporti preferenziali e duraturi, rivolgendosi soprattutto al multiforme tessuto di arti e mestieri della regione. Tra i numerosi attori emergono ebanisti e mobilieri come Pietro Zaneletti, specialista in “mobili artistici”, segnalatosi all’Esposizione Italiana di Milano del 1881, autore di diversi arredi alla Villa Reale di Monza e in altre dimore47; i pittori decoratori Caremi (dal 1901 unitisi 45 In AMM-FA n.159.20 sono contenute 18 lettere e 3 cartoline postali di “F. Figini” a Majnoni, ma altre sue missive si possono trovare nelle cartelle riguardanti i diversi lavori da lui seguiti. Figini è un disegnatore esperto che, verosimilmente, ha frequentato i corsi di disegno architettonico in un’Accademia di Belle Arti: nell’indirizzargli le missive Majnoni usa il titolo di “professore”, mentre altrove si apprende che era stato insegnante di disegno “all’orfanotrofio” di Milano, cfr. AMM-FA n. 159.20, Lettera di F.Figini a Achille Majnoni, Milano, 6 gennaio 1935. 46 Cfr. in AMM-FA, n.159.20: Lettere di F.Figini a Achille Majnoni: Milano, 24 giugno 1899; Milano, 20 febbraio 1900; Milano, studio, 12 ottobre 1905. 47 Attivo fra l’altro, insieme a Giuseppe Speluzzi anche nella casa-museo Poldi Pezzoli di Milano, cfr. Notizie in A. De Gubernatis, Dizionario degli Artisti italiani viventi. Pittori, scultori e architetti, Successori le Monnier, Firenze 1889, ad vocem; O. Selvafolta, 1850-1890, in A Ponte, C. Paolini, O. Selvafolta, Il bello ‘ritrovato’. Gusto, ambienti, mobili dell’Ottocento, De Agostini, Novara 1990, pp. 454-467.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

con Bottaro e diventati Caremi & Bottaro) di Milano, specializzati in un repertorio di affreschi neosettecenteschi che si sviluppano negli interni con linee curve, andamenti asimmetrici, colori tenui e luminosi, transizioni multiple di forme, materiali e superfici. Di Bottaro sono numerosi i fregi dipinti sulle pareti, attorno alle porte e agli archi, oppure le decorazioni dei soffitti “a passasotto”, (una tipologia assai diffusa nel barocco lombardo ed in piena ripresa tra Ottocento e Novecento), dove il principale motivo decorativo si svolge con continuità sulle tavole poste sotto la trama a rilievo delle travi. Il sodalizio professionale con Majnoni è testimoniato da una raccolta di fotografie di lavori sulla quale l’architetto ha annotato: “Decorazione. Lavori eseguiti da Bottaro su disegni di A.Majnoni” e da documenti che ne segnalano la presenza in diversi cantieri: villa Cagnola alla Gazzada, il villino Bocconi, l’appartamento Albertini, casa Crespi a Milano…48. Meritano considerazione anche i numerosi fornitori che spesso hanno svolto il ruolo di veri e propri ‘agenti del gusto’ attraverso le capillari ramificazioni delle loro attività: sono coloro che procurano argenti inglesi, cristallerie austriache e boeme, mosaici e vetri veneziani, ceramiche toscane, oppure sono gli antiquari, come Urbino Vellutini di Firenze, Gastone Imbert di Milano, Vittorio Timolini e Galerie Sangiorgi di Roma49, che propongono o provvedono su richiesta arredi d’epoca, suppellettili e opere d’arte, attentamente scrutati e valutati da Majnoni in base alla sua rinomata competenza. A questo riguardo egli appare il più qualificato degli architetti, muovendosi agevolmente alle varie scale del progetto e proponendo soluzioni di proverbiale eleganza; nessuno sembra poi conoscere altrettanto bene il mondo delle arti decorative e individuarne le eccellenze, mentre i suoi contatti comprendono un tessuto sociale ricco e cosmopolita. Nell’insieme si delinea per suo tramite una sorta di internazionale del buon gusto confacente ai bisogni e alle strategie simboliche delle élite secondo una sostanziale convergenza di intenti e identità di valori che verrà definitivamente messa in crisi dal primo conflitto mondiale. La maggior parte degli oggetti antichi scelti da Majnoni appartiene ai secoli XVII e XVIII, in armonia con l’impronta stilistica degli ambienti e non è certo da trascurare l’ascendente dell’architetto e delle sue prestigiose realizzazioni per la rivalutazione e, implicitamente, per 48 Cfr. ASCMi-FM cart.12/197 contenente diverse fotografie di interni dipinti (senza indicazione dei lavori), su cui appare l’ex libris di Achille Majnoni e la sua nota manoscritta a matita “Decorazione. Lavori eseguiti da Bottaro su disegni di A.Majnoni”. 49 Cfr. AMM-FA, n. 176.2 con corrispondenza degli antiquari dal 1907 al 1928.

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO

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la conservazione di un patrimonio storico-artistico ancora poco considerato rispetto ad altre epoche. Può essere interessante notare, ad esempio, come una rivista importante e autorevole quale “Arte Italiana decorativa e industriale”, diretta da Camillo Boito, notoriamente non incline né al barocco né al neoclassico, bensì alla produzione artistica medievale e rinascimentale, inizi a pubblicare a fine secolo articoli su architetture, oggetti e ornati del Sei-Settecento, tanto che Alfredo Melani nel 1907 potrà affermare che “critici e storici oramai non fanno più il volto arcigno davanti al Barocco e al Rococò”50. Bisogna inoltre sottolineare come la ripresa di questi stili non interessasse soltanto l’aristocrazia, ma incontrasse anche il favore di una committenza borghese e alto borghese evidentemente propensa ad abbracciare un gusto che dal prestigio del passato poteva trasmettersi alle ricchezze del presente e, implicitamente, nobilitarne le prospettive. Senza l’opera di Alemagna e di Majnoni forse non sarebbero spiegabili dimore milanesi come quelle progettate tra Otto e Novecento dall’ingegnere Carlo Formenti per Giovanni Battista Pirelli e per Ernesto Breda: due grandi imprenditori, entrambi ingegneri politecnici, fabbricatore di prodotti in caucciù l’uno, titolare di officine meccaniche l’altro51. Le loro attività significano vasti opifici e numerosi operai, innovazioni tecniche e modernità di impianti, investimenti cospicui e perspicaci strategie produttive, richiedono cioè le attrezzature e i paesaggi severi della grande industria, mentre le loro case sono state desiderate e disegnate guardando, al barocco di “certe nostre ville […] del 1700 che si trovano sparse in gran numero nei dintorni di Milano”. Di conseguenza, esibiscono “svolazzi in stucco finemente modellati, opere in ferro battuto di assai elegante leggerezza”, soffitti dipinti da

50

«Arte Italiana Decorativa e Industriale», prestigiosa rivista diretta da Camillo Boito, fu pubblicata con il patrocinio del Ministero di Agricoltura Industria e Commercio ed uscì dal 1892 al 1911. Per la sua “filosofia” cfr. il mio: Boito e la rivista “Arte Italiana Decorativa e Industriale”: il primato della storia, in Camillo Boito. Un protagonista, cit., pp. 133-166. Tra gli articoli indicativi di una nuova attenzione al Settecento cfr. B. A. Deon, Un palazzo del Settecento in Milano, a. VIII, febbraio 1899; Note sull’arte dei tessuti. III Barocco. Rococo. Impero, a. XII, febbraio 1903; A. Luxoro, Gli stucchi del Seicento e Settecento in Liguria, a. XII, settembre 1903; A. Melani, Argenteria settecentesca, a. XIV, aprile 1905; l’articolo citato è di Id., Invenzioni decorative d’un secentista francese, in “Ivi”, a. XVI, maggio 1907, pp. 37-41 (cit. a p.37). 51 La casa di Giovanbattista Pirelli (1896-1898) si trovava in via Ponte Seveso, accanto allo stabilimento, quella di Ernesto Breda (1900-1902) in via Paleocapa. Cfr. La casa d’abitazione dello stabilimento Pirelli e C.o in Milano, in «L’Edilizia Moderna», a. XI, settembre 1902, pp. 49-51; C. F. [Carlo Formenti], La palazzina Breda. Milano, via Paleocapa 7. Arch. C. Formenti, in “Ivi”, a.XII, dicembre 1903, pp. 73-76.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

valenti decoratori (tra cui anche Caremi & Bottaro) e “altri efficaci ornamenti”, tipici di un neo stile appagante quale segno di status e di raggiunta agiatezza52. Non bisogna altresì dimenticare che a inizio Novecento, il neosettecento poteva entrare in sintonia anche con il liberty-floreale per la sensibilizzazione plastica delle superfici, la mobilità delle membrature, gli sviluppi asimmetrici, le linee dinamiche e sinuose, i passaggi multipli tra i materiali e le forme. Così da lanciare un ponte fra tradizione e modernità, come osservava Ugo Monneret de Villard a proposito della sezione belga all’Esposizione Internazionale del Sempione del 1906 a Milano, osservando che “Nelle linee generali e diremo quasi nello spirito, l’ architettura art nouveau […] ha un sapore di continuazione barocca, un Louis XV, rimodernato e ringiovanito, meno turgido e meno sensuale, più semplice e più costruttivamente logico”53. Tanto che un architetto come Alfredo Campanini, generalmente ascritto all’area modernista ed autore di uno tra i più famosi edifici Liberty milanesi del primo Novecento, saprà creare negli stessi anni un rococò tra i più conclamati e riusciti nei nuovi interni di palazzo Visconti di Modrone (già Bolagnos) a Milano, fatto riformare dal duca Giuseppe54. Si trattava in questo caso di un programma di ‘ridefinizione linguistica’ che intendeva riportare alla dignità di casa da nobile del primo Settecento un edificio fortemente trasformato nel corso dei secoli. Agendo sulla commistione tra nuovo e autentico in un quasi indissolubile intreccio di strati e figure, tecniche e epoche, egli aveva raggiunto un nuovo livello di ‘autenticità’, cui non erano estranei la riscoperta, lo studio, la rivalutazione culturale del barocchetto operati nel corso dell’Ottocento. Di fatto il gusto neobarocco, nelle diverse sfumature e varianti, continuò per i primi due decenni del Novecento ad essere una tra le opzioni favorite per l’architettura di villa, non raramente coesistendo con istanze più moderne. Basta pensare a Piero Portaluppi che attivo dagli anni Dieci, ‘getta un ponte’ con le generazioni precedenti negli incarichi per dimore di clienti alto borghesi (come i Bertarelli a Galbiate nel 1913 o i Fossati a Merate 1919), dove anche il disegno del giardino, non diversamente dagli esempi di Majnoni, tiene presente 52

Citazioni da C.F. [Carlo Formenti], La palazzina Breda. Cit., pp. 74-75. Ing. Ugo Monneret, Esposizione di Milano 1906. L’architettura moderna Belga, in «Il Monitore Tecnico», n. 28, 10 ottobre 1906, p. 543. 54 Cfr. Palazzo Visconti in via Cino del Duca, a cura di R. Cordani, I. Sirtori, Chimera Editore, Milano 2004. 53

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO

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le possibilità di un ideale accordo tra l’ornato neobarocco dell’architettura e le sagome dei parterre o gli orli arricciolati delle aiuole55. Ma forse ancora più significativo può essere l’esempio di Tomaso Buzzi che da Majnoni pare ‘ereditare’ anche lo scettro di architetto per le élite, lavorando, dalla fine degli anni Trenta agli anni 1970, per le ville di grandi famiglie con analoga eleganza e scioltezza di mano e accordando la sua sensibilità di architetto novecentista con l’ammirazione per la storia e i suoi alti modelli56. I nomi dei clienti che affollano il suo carnet di architetto del XX secolo sono del resto gli stessi o appartengono alla medesima ‘tipologia’ alla quale Majnoni aveva dedicato tanto lavoro nel corso della sua vita. Al momento della morte, nel 1935, egli non è più attivo da quasi un decennio che ha trascorso appartato nella villa di Erba Incino in un periodo di grandi trasformazioni politiche e sociali, quando anche il panorama dell’architettura e dell’arte si sta orientando verso le istanze di una modernità che l’anziano architetto non riconosce e di cui non si cura. I necrologi furono pochi e sintetici, sintomo di una ormai generale disattenzione nei suoi riguardi, seppure capaci di cogliere aspetti fondamentali del suo agire e delle sue migliori virtù: “Achille Majnoni d’Intignano [è stato] una figura di gentiluomo e di artista dello scorcio dell’Ottocento e dei primi del Novecento. Era uscito dal Politecnico di Milano ed è merito suo se nei lavori che egli condusse in molti palazzi di Milano e nelle grandi ville della Lombardia”, le “antiche dimore” furono riportate “alla dignità delle loro origini e del loro stile, fondendo con mano accorta e con sicura conoscenza, con un gusto sempre sobrio, le vecchie tendenze e le necessità nuove di un’epoca che si trasformava. Umberto I lo onorò della sua amicizia” e “lo volle nei restauri della villa di Monza, là dove il “Majnoni seppe senza eccedere nel fasto riaffermare la regalità e stabilì la sua fama”57.

55

Sull’opera di Portaluppi, cfr. Piero Portaluppi Linea errante nell’architettura del Novecento, a cura di L. Molinari e Fondazione Piero Portaluppi, catalogo della mostra – Triennale di Milano, settembre 2003-gennaio 2004, Skira, Milano 2003; per considerazioni sul tema cfr. in Ivi, il mio La formazione e il primo decennio di attività di Piero Portaluppi, 1910-1920, pp. 151-163. 56 Cfr. Tomaso Buzzi. Il principe degli architetti 1900-1981, a cura di A. G. Cassani, Milano, Electa, 2008. 57 Cfr. La morte dell’arch. Majnoni d’Intignano nelle cui braccia spirò Umberto I, in «Corriere della Sera», 16 febbraio 1935; necrologi analoghi compaiono anche su «L’Ambrosiano», 17 febbraio 1935, «L’Italia», 17 febbraio 1935 e «La Nazione», 17-18 febbraio 1935.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

1. Achille Majnoni d’Intignano, 1900 ca. Foto Vasari, Roma. AMM-FA.

2. Veduta della Galleria degli Stucchi di Palazzo Pianetti a Jesi, nella raccolta fotografica di Achille Majnoni d’Intignano. Milano, ASCMi-FM. Fondo fotografico 7.

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO



3. Disegno per la Sala da pranzo della Villa Reale di Monza, Milano 16 ottobre 1891, Arch. A Majnoni. ASCMi-FM cart. 1/38.

4. Sala da pranzo della Villa Reale di Monza. ASCMi-FM, Fondo Fotografico 11/12.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

5. Disegno per la Sala degli arazzi della Villa Reale di Monza, Milano, 26 ottobre 1891. ASCMi-FM cart. 1/40.

6. La Sala degli arazzi nella Villa Reale di Monza. ASCMi-FM, Fondo Fotografico, 11/9.

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO



7. Porta e specchiera nella Sala degli arazzi della Villa Reale di Monza. ASCMi-FM, Fondo Fotografico, 11/27.

8. Disegno per la camera da letto di Um- 9. Dettaglio delle colonne nella camera berto I nella Villa Reale di Monza. ASC- da letto di Umberto I nella Villa Reale di Mi-FM, cart. 1/123. Monza. ASCMi-FM, cart. 1/35.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

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

10. Dettaglio di una porta nella camera da letto di Umberto I nella Villa Reale di Monza. ASCMi-FM cart. 1/42.

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO



11. La Sala del trono nella Villa Reale di Monza. ASCMi-FM, Fondo fotografico, 11/18.

12. La camera da letto della regina Margherita nella Villa Reale di Monza. Sulla parete a sinistra il dipinto la Madonna dell’ulivo. ASCMi-FM, Fondo fotografico, 11/5.

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

ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

13. Disegno per la biblioteca di Umberto I nella Villa Reale di Monza. ASCMi-FM, cart.1/46.

14. La biblioteca di Umberto I nella Villa Reale di Monza. ASCMi-FM, Fondo fotografico, 11/2.

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO



15. Portico nella facciata di villa Arese ad Osnago. ASCMi-FM cart.7/26.

16. Disegno per un parterre nel giardino di villa Zervudachi ad Oggebbio. ASCMi-FM cart.13/134.

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

ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

17-18. Disegni per porte. ASCMi-FM cart.11/178 e cart.1/10.

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO



19. Schizzo per una alcova. ASCMi-FM cart.11.

20. Esempio di soffitto a passasotto affrescato da Bottaro di Milano. ASCMi-FM, Fondo fotografico, 12/197.

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

ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

21. Interno della villa di Don Costanzo Cagnola a Gazzada. ASCMi-FM, Fondo fotografico, 20/1.

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L’ARCHITETTO ACHILLE MAJNONI D’INTIGNANO

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22. Progetto di Carlo Formenti per la palazzina Pirelli, Milano 1896. ASCMi-Ornato fabbriche II serie.

23. Sala da pranzo nella palazzina Pirelli a Milano. «L’Edilizia Moderna», 1902.

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TU VUOI FARE L’OTTOMANO. OCCIDENTE E VICINO ORIENTE NELL’INDUSTRIA D’EPOCA VITTORIANA

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di Elena Dellapiana

L’interesse per il mondo arabo-ottomano, presto sfociato in una vera e propria mania, tocca la cultura occidentale fin dall’inizio del XVIII secolo, producendo opere storiche, letterarie, pittoriche, architettoniche, tutte sedotte dal tocco esotico e in qualche modo misterioso di un sistema che si recepisce “altro” ma ugualmente portatore di raffinatezza di pensiero e di segno1. Dal 1704 Antoine Galland pubblica la traduzione francese delle Mille e una notte che si diffonde in Europa fino all’edizione inglese, in sedici volumi, pubblicata a partire dal 1885, in piena epoca vittoriana, con il pruriginoso titolo di The Secrets of Arabian Nights da Richard Francis Burton. In questo lasso di tempo la passione per abbigliamenti, ambientazioni e oggetti à la turque contagia artisti e intellettuali, ma anche osservatori e compratori e dall’esclusivo alveo delle corti e dei budoir diviene oggetto del desiderio anche tra la media e piccola borghesia europea che ama circondarsi di ninnoli, tessuti e grafiche che rimandino al magico, lontano mondo della principessa Sherazade, di Alì Baba e dei giardini segreti. Evidentemente la radicale trasformazione della produzione e del mercato che si verifica con la seconda rivoluzione industriale e con il rafforzamento degli imperi, nella prima metà del XIX secolo, muta le dinamiche e i modi di guardare al lontano e medio oriente che smette di essere un’entità più o meno letteraria e diviene concretamente un partner, terra di conquista, luogo di produzione, potenza economica. 1

Sull’orientalismo, da svariati punti di vista, è ancora un punto di riferimento il saggio di E. Said, Orientalism, London, Penguin, 1977.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

In particolare i rapporti tra l’impero Ottomano e quello Inglese si definiscono nel 1838, con la firma dell’accordo commerciale di Balta Limani2 che sancisce, di fatto, una sorta di esclusiva inglese nei rapporti di importazione e lavorazione industriale in terra turca di materie prime inglesi, come il cotone, provenienti dalle colonie asiatiche. Questa soluzione è favorita dal processo innescato a partire dal 1833 per volere del sultano Mahmud II che avvia un’ampia e articolata modernizzazione industriale del paese impiantando manifatture nei dintorni di Istambul, allineate per uso di macchinari e tecnologie agli standard europei, come la manifattura di tessuti e abbigliamento militare e civile Feshane. Dopo di lui il sultano Abuau-Mejid aveva creato due nuove fabbriche: la “Porcellane imperiali Beykoz” e la “Fabbrica del Vetro”. Fabbriche tessili munite di moderni telai, produzione di tappeti, ceramiche e vetri, tutti dotati del marchio Eser-i-Istambul (fatto a Istambul) sono pensate per soddisfare una vasta clientela nell’Europa occidentale. È una conseguenza quasi automatica la partecipazione dell’Impero Ottomano alla Prima Esposizione Universale che si tiene a Londra nel 1851, sia per i rapporti commerciali avviati sia per il ruolo anti-russo che la Gran Bretagna affida all’area anatolica e che porterà negli anni successivi alla guerra di Crimea (1854-56)3. Oltre alle motivazioni di ordine politico4, vale forse la pena di ricordare che l’Esposizione londinese, voluta da Henry Cole e dal principe consorte Albert, ha come obiettivo mostrare, tra l’altro, merci di produzione industriale, economiche, seriali, di buona qualità formale. Come osservato da Nikolaus Pevsner, il Crystal Palace si regge su un fragile servizio da tè, quello disegnato da Cole, con lo pseudonimo di Felix Summerly, per le manifatture Minton nel 1846, che racchiude tutte le caratteristiche del buon prodotto industriale, così come erano emerse dai dibattiti in seno alla Society of Arts, dove tutto aveva avuto inizio5.

2 G. Turan, Turkey in the Great Exhibition of 1851, in “Design Issues”, Massachusset Institute of Technology, 25, 1, 2009, p. 64. 3 F. Vanke, Degrees of Otherness: The Ottoman Empire and China at the Great Exhibition of 1851, in J. A. Auerbach, P. H. Hoffenberg, Britain, the Empire, and the World at the Great Exhibition of 1851, London, Ashgate, 2008, pp. 191-206. 4 J. A. Auerbach, The Great Exhibition of 1851. A nation on display, Yale University Press, 1999. 5 N. Pevsner, High Victorian Design, London, Architectural Press, 1951, p. 13; sulla qualità delle merci, oltre al volume di Pevsner, ancora attualissimo, L. Kriegel, Grand Designs. Labor, Empire, and the Museum in Victorian Culture, Durham & London, Duke University Press, 2007, pp. 86-125.

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

L’impero ottomano si allinea in toto all’assetto proposto dal comitato organizzatore e si mostra intenzionato a esibire la produttività del suo territorio, dimostrarne l’abilità artistica e, soprattutto, il processo di modernizzazione, che sottende una operazione di occidentalizzazione, avviata dal sultano Abd-ul-Mejid, figura centrale anche nell’ingresso dei turchi all’esposizione londinese e buon amico personale della regina Vittoria6. La procedura di selezione delle merci e delle manifatture, voluta dal sultano, la classificazione delle stesse, la capillare opera di informazione in tutte le province dell’impero per sollecitare produttori e possidenti a inviare i propri tesori con la prospettiva di vendere e avviare canali di esportazione, tutto viene esaltato come benedetto da un ordine occidentale, esattamente come si lodavano i cambiamenti che il sultano stava via via introducendo nella vita quotidiana della corte, se non del popolo. Il processo che porta a caricare le merci sulla fregata a vapore che le trasferisce fino al porto di Southampton, pare funzionare bene e la reazione degli osservatori inglesi, in merito al metodo, è più che positiva: The inductive system thus adapted by an Oriental people, might have been worthily imitated by other nations. This serious [attempt] can be read with facility, and instructive are the tongues of the trees and the sermons of the stones of the Ottoman Empire. The dye woods are numerous. The grains and other vegetable produce are varied; and their balsam, resins, and pharmaceutical preparations of considerable value. … The systematic arrangement adopted proves, however, that the Turk might become an apt student in inductive science; and it is not improbable but that the interest felt in the city of Sultan in this gathering under the auspices of the consort of the Queen of England, may have its influence in leading back to the East that kind of learning which has had a general bearing towards the Western regions of the earth.7

Il padiglione turco, ospitato nell’ala orientale del Crystal Palace, insieme a Egitto, Persia e Grecia, è progettato da Gottfried Semper, l’allestimento si articola con la supervisione di Zohrab e Major8 e viene anch’esso bene accolto: «The Turks have arranged their exhibition with much art. It resembles a beautiful bazaar, lighter and more coquettish than their own, in which the goods are displayed after the 6

Turan, Turkey in the Great Exhibition, cit. p. 66. R. Hunt, The Science of the exhibition, in “Art Journal, Illustrated Catalogue”, i-xvi, p. xiv 8 S. Germaner, Attendance of the Ottoman Empire into International Exhibition and its Cultural Results, in “History and Society” 95 (1991), 290. 7

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Eastern fashion»9. L’aspetto di bazaar10 che tanto affascina cronisti e visitatori corrisponde alla fortuna di alcuni pezzi esposti, tutti legati alla tradizione figurativa ottomana e alle lavorazioni artigianali: manufatti tessili ricamati a motivi floreali e vesti riccamente istoriate vengono acquistati dal costituendo museo di Ornamental Arts11; ancora i prodotti tessili, ricevono premi alla fine dell’esposizione per il loro carattere di ingenuità, novità, economicità, facilità di manutenzione, durata, qualità del lavoro applicatovi e così via. Le reazioni sono concentrate tutte sull’aspetto più folkloristico, legato ancora al fascino esotico delle notti arabe. Tuttavia non tutte le recensioni sono positive e non provengono certo da critici trascurabili: Owen Jones, proprio in base alle merci turche esposte a Londra afferma, nei capitoli dedicati alle decorazioni islamiche della sua Grammar of Ornaments12, come queste non siano all’altezza delle decorazioni moresche o arabe, e come siano colpevoli, tra l’altro, di essersi recentemente troppo assoggettate al gusto europeo. Non stupisce dunque che Jones prosegua affermando che gli unici decori turchi accettabili si trovino nei tappeti. Egli stigmatizza l’uso di superfici scolpite ad altorilievo tipiche delle calligrafie coraniche, solo occasionalmente usate nel moresco e invece presenza costante nella decorazione turca. La differenza tra le diverse provenienze “maomettane”, asserisce, risiede in piccole sfumature di equilibri nelle curve con maggiore o minore grazia, apprezzando le quali si possono distinguere i «lavori dei raffinati e spirituali persiani, dei non meno raffinati ma riflessivi arabi, o dei turchi senza immaginazione»13. Il giudizio impietoso di Jones, espresso dopo la conclusione del conflitto in Crimea, tende a ribaltare il prolungato interesse da parte degli studiosi, degli archeologi e degli storici dell’arte, che avevano dedicato alla storia e all’arte ottomane moltissime, approfondite opere come la storia dei 9 The illustrated exhibitor ... comprising sketches ... of the principal exhibits of the Great Exhibition of ... 1851, London, 1851. 10 Questo tipo di allestimento proseguirà la sua fortuna fino alle esposizioni del XX secolo; O. Selvafolta, Le esposizioni e l’Oriente-Bazar, in M. A. Giusti, E. Godoli (a cura di), L’orientalismo nell’architettura italiana tra Ottocento e Novecento, Firenze, M&M, 1999, pp. 183-194. 11 I pezzi risultano nell’inventario dell’odierno Victoria and Albert Museum; sulla sua costituzione, da ultimo, Kriegel, Grand Design, cit., pp. 16-159; sul rapporto tra il museo e l’esposizione, C. H. Gibbs-Smith, V&A Museum, The Great Exhibition of 1851, 2nd ed. London, H.M.S.O., 1981. 12 O. Jones, The Grammar of Ornament, London, Day & Son, 1856, rispettivamente ai capitoli IV, IX, X e XI. 13 Jones, The Grammar, cit.p. 63 (ed London, Quaritch, 1910).

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turchi ottomani di Edward Scheperd Creasy, pubblicata nel 185414 o le indagini sulle arti di Jules Bourgoin o Leon de Parvillé, comparse poco più tardi, insieme a una miriade di cataloghi di esposizioni di oggetti, soprattutto ceramiche, ospitate in musei e sedi di associazioni15. Matthew Digby Wyatt16 nel suo bilancio sulle arti industriali del XIX secolo – ancora mutuato sulle merci esposte alla Great Exhibition, di cui era segretario generale – esprime ugualmente qualche riserva sulla produzione turca, in relazione all’eccessiva occidentalizzazione dei prodotti. Dunque il quadro che la produzione ottomana fornisce agli osservatori europei suscita da una parte l’antico fascino esercitato dall’esotismo, dall’altro la percezione di un impero in via di disfacimento da una parte e di occidentalizzazione dall’altra. La stampa satirica si era già espressa sull’impossibilità di applicare i principi degli stati moderni nei domini musulmani fin dalle campagne napoleoniche in Egitto17 e all’apertura della Great Ehxibition, nonostante gli apparenti buoni rapporti tra i due imperi, il foglio “Punch”, non è tenero con i paesi maomettani, rappresentati con personaggi folkloristici e cavalcature improbabili, equiparabili solo agli odiati yankee, ai quali si riconosce però un alto grado di industrializzazione18. Tuttavia il gusto europeo continua a guardar con favore ai prodotti ottomani, nonostante le riserve di altro genere, e la richiesta sul mercato, potenziata dalla straordinaria diffusione di modelli antichi, soprattutto le amatissime ceramiche provenienti all’area di Iznik, l’antica Nicea, continua a essere pressante. A fronte del perdurare della passione che permette di parlare addirittura di arabofilia19, le industrie turche non sembrano disponibili, 14 E. S. Creasy, History of the Ottoman Turks. From the Beginnin of their Empire to the present Time, London, Bentley, 1854, POHM. 15 E. Dellapiana, Odaliscas, esmaltes y lustres: las fuentes orientales de las céramicas europeas, in J. Calatrava, G. Zucconi (a cura di), Orientalismo. Arte y arquitectura entre Granada y Venecia, Madrid, Abada, 2012, pp. 247-264; Rémi Labrusse (a cura di), Purs décors? Arts de l’Islam, regards du XIXe siècle, Paris, Musée des Arts Décoratifs, 2007. 16 M. Digby Wyatt, The industrial arts of the nineteenth century: a series of illustrations of the choicest specimens produced by every nation at the Great Exhibition of Works of Industry, London, Day & Son, 1853 Vol. 2. 17 Per esempio la sapida rappresentazione di un francese in berretto frigio che brandisce la dichiarazione dei diritti dell’uomo, impalato da un gruppo di nativi: J. Gillray, Theologie à la turque. The Pale of the Church of Mahomet, incisione 1799, Metropolitan Museum of Art, New York, inv. 53.685.45. 18 “The Punch”, 20 (1851), The great Derby Race for eighteen hundred and fifty-one. 19 A. Hagedorn, Auf Der Suche Nach Dem Neuen Stil: Der Einfluss Der Osmanischen Kunst Auf Die Europaische Keramik Im 19. Jahrhundert, Berlin, Stiftung Preussischer Kulturbesitz, Wissenshaftszentrum – Gemeinsame Dienste, 1998.

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o adatte ad accontentare gli europei. Le fabbriche impiantate intorno alla capitale infatti, se usano, in modo spesso moderno e allineato alle manifatture occidentali, tecniche tradizionali riconoscibili e di grande fortuna, non le sviluppano poi come il mercato occidentale si aspetterebbe. La lavorazione del vetro trasparente o opalino istoriati in oro praticata a Beykoz, eredità dei contatti con Venezia e del latticino veneziano, o della terza cottura nella ceramica per ottenere l’effetto metallizzato del lustro, entrambe ricercatissime e interamente perdute in occidente, vengono utilizzate per realizzare oggetti completamente e ingenuamente appiattiti sul gusto occidentale. Teiere, servizi da tavola e vetri che potrebbero essere prodotti nelle manifatture europee di Meissen o Sévres20 e si connotano solo per l’uso di figurine dipinte o applicate che evocano il panorama di Istambul o barbuti sultani non sono adatte al raffinato palato di un pubblico che ha potuto prendere contatto con gli esempi di XVI secolo, quando dalle fornaci anatoliche provenivano pezzi diffusi e apprezzati in tutta Europa. Così i produttori europei che in alcuni casi si affacciavano al panorama industriale dopo sperimentazioni a scala poco più che artigianale, si dedicano alla ricerca dei segreti della produzione medio-orientale per impiegarli nella fabbricazione di imitazioni, quando non veri e propri falsi, da immettere sul mercato. Questo obiettivo è ricercato coltivando sapientemente la ricerca storica di stampo illuminista, la classificazione e lo sviluppo delle tecniche. Leon de Laborde, critico e curatore della collezione di antichità del Louvre su incarico di Luigi Filippo, così si esprime, dopo l’esposizione di Londra del 1851 sulla manifattura inglese Minton: «What has this industrial artist produced? In the first place, excellent crockery for common use, at a very moderate cost; in these the shapes were the main object, and so he has succeded in suiting them to their different purposes. He began by studing the Ceramic art by Greecks and Etruscan, that of the English and French middle ages, of the Italians, of the fifthteenth and sixteenth centuries, of Bernard Palissy, and of the manifacures of Rouen and Nevers, and by borrowing from each one of them ideas, forms, and models, he had succeded in composing a combination at once charming, applicable to all uses, and within to rich of the poor as well

20 Diversi pezzi marcati Eser-i-Istambul rinunciano addirittura alla decorazione legata al mondo ottomano o all’antica Costantinopoli, producendo copie di ceramiche bavaresi o riletture europee delle porcellane cinesi; V&A Museum, Tazza, piattino e coperchio in porcellana, inv. da C.165 a B-1929; da C.160 a B-1909.

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as the rich»21. È evidente l’aspetto commerciale insieme a quello del progetto e l’aggressiva industria britannica si spinge anche a produrre piatti e vasi con pseudoiscrizioni arabe – verosimilmente copiate dagli antichi prodotti cinesi per il mercato arabo – da vendersi nei paesi a predominanza musulmana, evidentemente non adeguatamente serviti dalla produzione interna22. In tutti i paesi europei, grazie alla ripresa proprio delle tecniche di produzione della faïence, maiolica invetriata, con caratteristiche non molto dissimili dalla porcellana, ma con un ciclo di lavorazione e decorazione estremamente più semplice e economico, e dunque meno soggetto all’intervento manuale e artistico, si avviano produzioni non solo di ispirazione orientale, ma spesso di vera e propria copia, al limite del plagio. La straordinaria produzione di repertori di modelli facilita tale processo, insieme alla crescente importanza che le collezioni di oggetti d’uso quotidiano assumono, con l’esplicito scopo di svolgere azione pedagogica tanto sui semplici visitatori, quanto sugli addetti al ciclo produttivo, gli artieri23. In Inghilterra lungo tutta l’epoca vittoriana le scuole di arti decorative e industriali ordinano a manifatture turche o persiane la realizzazione, in pezzature abbondanti, di tessuti o ceramiche copie di oggetti antichi conservati nelle collezioni, da utilizzare come modelli per gli studenti24. Relativamente ai repertori di provenienza anatolica, le splendide tavole di Collinot e de Beaumont, che esplorano tutte le aree di origine possibili, sulle tracce di Jones ma con l’ovvio inserimento del Giappone, riportano elementi proposti «all’arte e alle industrie»25. Lo stesso Collinot, insieme al suo storico socio, aveva pubblicato fin dal 1859 un primo repertorio di modelli da impiegare nelle arti applicate all’industria26 e pochi anni dopo aveva stabilito una propria manifattura ceramica a Boulogne sur Seine, depositando un brevetto nel 1864 per la produzione di maioliche cloisonné, una semplificazione degli

21

In P. Butry, Chef d’oevres of the industrial arts, New York, Appleton & co, 1869, p. 121. Un esempio è il piatto prodotto da Copeland &C nel 1853, decorato con iscrizioni blu, a sola imitazione dei versetti coranici; Victoria&Albert Museum, London, inv. C.50-1982. 23 C. Accornero, E. Dellapiana, Il Regio Museo Industriale di Torino tra cultura tecnica e diffusione del buon gusto, Torino, CRISIS, 2001. 24 V&A Museum, Piatti prodotti a Isafahan su modello di originali di Iznik, inv. 125-1899. 25 E. V. Collinot et A. de Beaumont, Ornements Turcs. Recueil de dessin pour l’art et l’industrie, Paris, Canson, 1883. 26 Idd., Recueil de dessins pour l’art et l’industrie, Paris, Langlois, 1859. 22

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

smalti di provenienza orientale27. La tecnica avvia negli anni Settanta, una amplissima produzione di ceramiche di ispirazione orientale in tutte le zone della Francia, da Bordeaux a Longwy28. Collinot aveva inoltre, inaugurando la sua produzione, realizzato, su disegno di de Beaumont, pannelli in ceramica “nello stile di Iznik”, dove calligrafie e motivi floreali vanno a comporre elementi di grande effetto decorativo, oltre a molti oggetti, vere e proprie repliche di piatti, lampade, bottiglie e brocche. Un processo simile si riconosce nella quasi contemporanea attività di Théodore Deck che nel 1856 apre una manifattura nei pressi di Parigi in società con il fratello e il nipote e inizia ad occuparsi delle tecniche di lavorazione ceramica del passato abbandonate dagli artigiani, impegnandosi a riscoprirne i segreti e i procedimenti, lavorando con ossidi e terre a tentare di riprodurre i lustri rinascimentali quanto le maioliche invetriate orientali e islamiche29. Sono queste ultime che impegnano maggiormente il lavoro del ceramista lorenese che giunge infine a individuare come caratteristico delle ceramiche del vicino oriente un rivestimento costituito da un pellicola bianca a base alcalina contenente ossido di stagno. La decorazione, realizzata in colori a smalto, ricoperta da uno strato trasparente, produce luminosi effetti traslucidi. Dopo molti tentativi Deck riesce a rivaleggiare con la tavolozza vivida di colori caratteristici delle ceramiche islamiche creando, tra l’altro, il famoso “bleu de Deck”, uno smalto turchese profondo blu, con cloruro di potassio, carbonato di sodio e gesso30. Il successo degli oggetti di Collinot e Deck, nella decade tra gli anni Sessanta e Settanta è strepitoso, insieme a quello di Minton &Co, dove stava facendo il suo praticantato Cristopher Dresser31, ed è evidentemente legato alla rivivificazione delle tecniche produttive, perdute come nel caso della chiusura delle manifatture turche, dimenticate come in quello della decorazione a lustro moresca o da semplificare come nel caso degli smalti cloisoinné. 27

Brevet n° 64 600 du 30 septembre 1864 d’Eugène-Victor Collinot; E. Tornier, C. Chevillot (a cura di), La Faïencerie Collinot et Cie, Paris, s.e., 2010. 28 J. G. Peiffer, Emaux, d’Istanbul à Longwy. L’Europe de la Faïence, Thionville, G. Klopp, 1995; Hagedorn, Auf Der Suche Nach Dem Neuen Stil, cit. 29   A. Fay-Hallé, B. Hedel-Samson, Théodore Deck, Marseille, Impr. de la Ville, 1980; E. Tornier, J.-L. Gaillemin (a cura di), La Fabrique des frères Deck, Paris, s.e., 2010. 30 F. Todd Harlow, Théodore Deck and the Islamic Style, in “Saudi Aramco World”, July/ August 1992, pp. 8-15. 31 S. J. Oshinsky. Christopher Dresser (1834–1904), in Heilbrunn Timeline of Art History, New York, The Metropolitan Museum of Art, 2000.

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Minton & Co., manifattura lodata da Laborde, inizia la sua produzione di oggetti di ispirazione ottomana negli anni sessanta, unica tra le aziende inglesi. Questa attività si avvia in seguito alla costituzione di una collezione da parte del suo direttore artistico, Léon Arnoux, che raccoglie esempi di ceramiche e terraglie provenienti da tutto il mondo; si possono così ritrovare vasi e piatti prodotti che costituiscono delle vere e proprie copie degli originali, in particolare ottomani, conservati negli archivi dell’azienda32. Nonostante siano molto più costosi, anche gli oggetti in vetro dipinti in oro e smalti su base trasparente, hanno grande successo e, rispetto ai vetri prodotti in Turchia sono molto più fedeli all’estetica orientale; Philippe-Joseph Brocard fa uscire dalla sua bottega lampade da moschea, vasi e bottiglie ricercate da collezionisti come i Rothshild33, e ancora piatti e vasi, più adatti nelle forme all’uso borghese, ma inconfondibilmente ottomani vengono prodotto dalla manifattura viennese Lobmeyr34, fino ai pezzi prodotti in Italia ancora negli anni Ottanta, come quelli di Giuseppe Parvis, che da un ventennio presenta, spesso premiato, i suoi straordinari ambienti orientali35. La capacità di ripetere ed eguagliare le tecniche produttive orientali è, da parte degli artigiani-produttori europei, inversamente proporzionale al grado di “decadenza” dei distretti originari che viene riconosciuta anche nelle terre di provenienza dei modelli replicati. Il Kedive egiziano commissiona ceramiche alla manifattura Cantagalli di Firenze, alla londinese de Morgan e all’ungherese Vilmos Zsolnay; i sultani ottomani si rivolgono a Deck per i rivestimenti di palazzi, mausolei e persino delle moschee. Per i “servizi resi al revival” delle ceramiche persiane Collinot riceve dallo Scià di Persia una medaglia d’onore nel 1865; infine Hippolyte Boulenger, direttore della grande fabbrica di maiolica a Choisy– le–Roi, reduce dal successo dei rivestimenti delle stazioni del metrò di Parigi e qualificato per le sue capacità tecniche e imprenditoriali, più 32 V&A Museum, Vaso a bottiglia, prodotto a Stoke-on-Trent, 1862, inv. 8098-1863; il modello, identico e proveniente dalle produzioni di Iznik del XVI secolo è conservato anch’esso presso la collezione di ceramiche in stile Iznik del Victoria&Albert Museum, inv. 728-1893. 33 M. Queiroz Ribeiro, J. Hallet, Mamluk Glass in the Calouste, Lisbon, Museu Calouste, 1999. 34 W. Neuwirth, Lobmeyr. Shöner als Bergkristall. Glas-Legende, Vienna, Selbstverlag, 1999. 35 Giuseppe Parvis, Candeliere in rame argentato e vetro smaltato, 1884, Vercelli, Museo Borgogna, inv. 1903; S. Cretella, L’Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884 e le arti decorative, tesi di dottorato in Discipline artistico, musicali e dello spettacolo, Università degli Studi di Torino, XXIV ciclo, 2011, tutor V. Terraroli; su Parvis, Selvafolta, Le esposizioni, cit., pp. 191-192.

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che per consonanze formali, viene interpellato per la decorazione di una parte della nuova moschea di Istambul (Yeni Cami)36. La stessa gloria viene riservata ai ceramisti in Europa: Deck diventa nel 1887 il direttore delle manifatture di Sévres, Dresser assume lo stesso ruolo presso Londos, il maggior mercante di arti orientali in Europa, e viene invitato dal governo giapponese, in quanto rappresentante ufficiale del South Kensigton Museum, a pronunciarsi sulla qualità delle nuove industrie, dopo aver visitato ben sessantotto manifatture nell’impero del sol levante37. Entrambi arrivano a definire un proprio approccio teorico, Deck nel 1887, con La Faïence 38, Dresser a più riprese con The Art of Decorative Design (1862), Principles of Decorative Design (1873), Studies in Design (1876), Modern Ornamentation (1886) e con la sua opera-compendio: Japan: Its Architecture, Art, and Art Manufactures (1882)39. Essi chiudono approssimativamente negli stessi anni un percorso che prende avvio dalla pratica e dall’esplorazione di nuovi/antichi sistemi di produzione, per giungere a ampie disamine anche storiche che narrano in un caso un materiale, la maiolica, nell’altro un’area geografica e culturale, il Giappone. Tra i due estremi del percorso si riconosce, come per tutti gli altri protagonisti di questa stagione la tappa fondamentale della preoccupazione non soltanto per le tecniche produttive, ma soprattutto per i modi: l’industria moderna. Gli studi botanici e l’approccio razionalista ai modelli naturali, cari a tutta la cultura figurativa europea, da Jones a Selvatico, passando per la Catalunia e la Baviera, patrimonio di tutti i personaggi fin qui citati – Dresser è autore delle tavole botaniche della Grammar di Owen Jones – vanno per molti di essi a confluire in un interesse fortissimo anche se non esclusivo per le decorazioni di provenienza orientale, a costo di, in mancanza della produzione originale, realizzarne delle copie di tipo industriale che, ovviamente, ne cancellano in parte il fascino romantico e esotico. La ragione di questo indirizzo può risiedere in due ordini di motivi: il primo è squisitamente culturale, travalica, o affina, la pur potente 36

Hagedorn, Auf Der Suche, cit., p. 177. H. Lyons, Christopher Dresser: the people’s designer--1834-1904, London, Antique Collectors’ Club, 2005; M. Whiteway (a cura di), Shock of the Old: Christopher Dresser’s Design Revolution. Exhibition catalogue. London, V&A Publications, 2004. 38 T. Deck, La Faïence, Paris, Maison Quantin, 1887. 39 Tutte le opere di Christopher Dresser, sono pubblicate a Londra da Longmans Green e a New York da Scilbner and Welford. 37

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arabofilia e trae le sue origini nel dibattito francese sull’istituzione dei musei in seno all’Assemblea Nazionale all’indomani della Rivoluzione. Il criterio di scelta dei pezzi da inserire nella collezione del Louvre, guidato dall’egittologo Alexandre Lenoire e dal suo intellettuale di riferimento, Antoine Court de Gébelin, privilegia opere e oggetti di ispirazione naturale ritenendo la natura una fonte di ispirazione valida e ecumenica, alternativa a quelle religiose e, di fatto, traduzione dell’ateismo filosofico di matrice tardo-illuminista40. Elementi naturali, semplificati nella loro lettura grafica e dunque resi più primitivi, arcaici, risultano essere maggiormente aderenti a una interpretazione che tende sempre più a far coincidere il termine “primitivo” con “moderno”. Il secondo motivo è meno concettuale e più pratico e operativo, legato al tema dell’industrializzazione o, quantomeno, della produzione per fasi; decori e forme derivate dalla rappresentazione stilizzata della natura semplificano notevolmente il processo di progetto e di creazione, soprattutto in virtù della loro ripetibilità. Molti dei protagonisti della stagione dei brevetti e della riscoperta delle tecniche per la lavorazione di terra e vetro, spiegano in seguito le proprie opere proprio in questo senso. Collinot e de Beaumont, ad esempio, appongono in calce a una delle tavole a soggetto “persiano” che compongono la loro Encyclopédie la didascalia esplicativa «Combinaison des lignes geometriques à l’aide desquelles il est facile d’obtenir des dessins complets, se modifiant à l’infini, en variant les couleurs» 41. Combinazione di linee e modularità, replicabile addirittura all’infinito, emergono come caratteri tipici della decorazione islamica. Su registri più poetici, Deck descrive i soggetti ricorrenti di quelle che ancora nel 1887, definisce ceramiche persiane: «des sujets de marine et d’architecture, et surtout la fleur ornemanisée et d’apres le naturel. La rose, la tulipe, l’oeillet d’Indie, le symbolique cypès, la jacinthe, l’anémone, le raisin se presentent avec des couleurs réelles ou conventionelles, mais toujours harmonieuses, dans des disposition variées à l’infini, car jamais le meme decor n’est répété deux fois»42. La possibilità di infinite combinazioni di forme e colori, evidenziata dai due grandi fautori della decorazione orientale, si presta bene alla ripetizione per ottenere superfici adatte al rivestimento, nei tessuti, 40 D. Poulot, Une histoire des musées de France, Paris, La Découverte, 2005-2008, pp. 106 e sgg. 41 E. Collinot et A. de Beaumont, Encyclopédie des arts décoratifs de l’Orient: Ornements de la Perse, Paris, Canson, 1880, pl. 1. 42 Deck, La Faïence, cit., p. 28.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

nelle ceramiche e nelle carte, oltre che negli oggetti seriali, di uso quotidiano, come i servizi da tavola, rinunciando alla ricercatezza e alla preziosità dei materiali di supporto, sostituiti da altri più economici e resistenti, con un equivalente risultato in quanto a qualità formale. Alla porcellana si sostituisce la maiolica invetriata, ai damaschi ricamati i velluti tessuti o stampati. La forte richiesta di oggetti ottomani, nonostante la cessazione o la sostituzione della produzione nella loro terra di origine combina dunque la paletta di colori tipica di Iznik, la rappresentazione della flora esotica, che comporta la necessità di usare tratti meno sottili e difficili da apporre su materiali di supporto più semplici ed economici della porcellana o delle sete, oltre che al culto del giardino, aspetto caratteristico della figuratività islamica che non poteva rappresentare soggetti umani, ha come effetto che il repertorio decorativo ottomano ben si presti in Europa a un ulteriore filtro di semplificazione dovuto al processo di produzione industriale. È il caso delle manifatture dedicate in particolare alla produzione di elementi per il rivestimento, come Collinot, celebre per i suoi pannelli decorativi ornamentali “stile Iznik”, ma soprattutto della toscana Cantagalli, le cui mattonelle in maiolica di gusto ottomano continuano a esser prodotte ancora oltre la svolta del secolo con grande fortuna commerciale43. La fabbrica Cantagalli, presente a Firenze fin dal XVII secolo con una produzione inizialmente di forni per la cottura della maiolica e in seguito autorizzata a produrre stoviglie in terraglia, si trasforma in insediamento industriale sotto la guida di Ulisse a partire dal 1878, ottenendo rapidamente premi e riconoscimenti in molte esposizioni nazionali e internazionali. La specificità della manifattura fiorentina consiste nell’imprenditoralità del suo proprietario che si affida presto a responsabili della decorazione ed egli stesso si occupa di organizzare il reperimento dei modelli con varie modalità, di incontrare i colleghi, di assicurarsi la presenza alle esposizioni, oltre che, ovviamente le commesse e la comunicazione. Cantagalli avvia la produzione industriale della maiolica acquisendo i metodi sperimentati dalla concorrente Ginori e concentrandosi sulle ceramiche da rivestimento 43 M. V. Fontana, L’imitazione europea della ceramica ottomana di Iznik. La fabbrica ottocentesca fiorentina «Figli di G. Cantagalli», in U. Marazzi (a cura di), La conoscenza dell’Asia e dell’Africa in Italia nei secoli XVIII e XIX, voll.I, tomo II, Napoli, Intercontinentalia, 1984; G. Conti, G. Cefariello Grosso, La maiolica Cantagalli e le manifatture ceramiche fiorentine, Roma, De Luca, 1990; L. Frescobaldi Malechini, O. Rucellai (a cura di), Il Risorgimento della maiolica italiana: Ginori e Cantagalli, catalogo della mostra, Firenze, Polistampa, 2011.

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di cui può vantare un buon catalogo fin dagli anni Ottanta. Ulisse si reca in visita a molte manifatture europee, prende contatti con noti ceramologhi, come Drury Fortnum, Lessing, Böde e Wallis, incarica i propri addetti della visita di collezioni di ceramiche in Italia e all’estero e raggiunge egli stesso i luoghi della produzione storica delle maioliche mediorientali. Il risultato è che, oltre a presentare vasellame di ispirazione ottomana44, nel catalogo delle mattonelle, databile alla fine del secolo, insieme a esempi riconducibili alle produzioni tradizionali italiane un notevole numero, più di una cinquantina, un quarto sul totale, provengono da modelli islamici, con una forte prevalenza di quelli turchi45. Con i fratelli Castellani a Roma46, presso i quali si forma anche Pio Fabri, un vero “campione” dei pezzi in stile Iznik47, Cantagalli costituisce l’esempio più eclatante dell’influenza orientale sugli oggetti d’uso e la “componentistica” architettonica in Italia. La destinazione delle mattonelle a completare e ornare gli edifici, per le caratteristiche funzionali della ceramica invetriata e per l’intrinseca possibilità di conferire decoro mediante processi produttivi industriali è esplicita nel testo a corredo del catalogo: «Le nostre mattonelle sono adoperate nei rivestimenti di scuderie, cucine, gabinetti da bagno, cliniche, ospedali ecc ecc. I signori Architetti le impegnano con molto effetto artistico nelle decorazioni esterne delle facciate, coperture di tettoie, e di cupole. Si ricevono commissioni su piante e prospetti, per pavimenti e fregi, rivestimenti completi di stanze e di Caminetti»48. Alla svolta del secolo il gusto ottomano, è ormai parte integrante di cataloghi e liste di acquisto europee, in maniera del tutto indipendente dalla madre patria avviata verso un inarrestabile processo di occidentalizzazione. Le turquerie entrano nelle case degli abitanti del vecchio mondo, in forma di copie o di reinterpretazioni, soprattutto miniaturizzazioni, per renderle utilizzabili e consone al nuovo modo di abitare in una inversione di processo che orientalizza, nonostante le valutazioni negative di altro tenore, il mondo occidentale.

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Questo avviene all’esposizione di Londra del 1888. G. Curatola, M. Spallazani, Mattonelle islamiche. Esemplari d’epoca e loro fortuna nella manifattura Cantagalli, Firenze, SPES, 1985. 46 R. Cristini, Esotici eclettismi. Ceramica e ceramisti del secondo Ottocento romano (18701911), Roma, Davide Ghaleb, 2007. 47 Pio Fabri, Vaso in stile Iznik, 1884, Torino, Museo Civico d’Arte Antica – Palazzo Madama, inv. 1087/C. 48 Catalogo delle mattonelle smaltate e dei rivestimenti architettonici, Bergamo, s.d., Istituto Italiano di Arti Grafiche, p. 1. 45

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

1. Henry Cole (Felix Summerly) servizio da the per Minton, 1846, bone china.

2. Padiglione Turco a Londra 1851, The illustrated exhibitor ... comprising sketches ... of the principal exhibits of the Great Exhibition of ... 1851 London, 1851.

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3. Imperial Fez Factory, Istambul, ca 1880, fotografia Abdullah Fréres, Library of Congress, Print and Photogtaphs Division, Washington DC, cph 3b25425.

4. Vetro smaltato, 1860 ca., Beykoz Imperial Factory, collezione privata.

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5. Telo da bagno, lino ricamato in seta e filo metallico, produzione turca, 1850 ca. V&A Museum, 757-1853; Copyright: © V&A Images. All Rights Reserved.

6. Vetro opalino smaltato, 1860 ca, Beykoz Imperial Factory, collezione privata.

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7. Teiera Eres-i-Istambul, maiolica smaltata, ca 1870; collezione privata.

8. Tazza, Coperchio e piattino, porcellana smaltata, dorata e modellata, Eres-i-Istambul, seconda metà XIX secolo; V&A Museum, C.160-B-1909; Copyright: © V&A Images. All Rights Reserved.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

9. Coppetta in porcellana smaltata in oro con calcomania, Eres-i-Istambul; collezione privata.

10. T. Deck, piatto in maiolica stile Iznik, 1865; V&A Museum, 226-1896; Copyright: © V&A Images. All Rights Reserved.

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11. Minton & co, Stroke-on-Trent, Bottiliglia in stile Iznik, Bone china smaltata e rifinita dopo l’invetriatura, ca 1862; V&A Museum, 8098-1863; Copyright: © V&A Images. All Rights Reserved.

12. Minton, Hollis & co, Stroke-on-Trent, mattonella stampata in nero e dipinta a colori, 1875; V&A Museum, C.202-1976; Copyright: © V&A Images. All Rights Reserved.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

13. T. Deck, Vaso in forma di lampada da moschea, maiolica smaltata, 1870 ca,; collezione privata.

14. P.J. Brocard, Parigi, Vaso in forma di lampada da moschea, vetro trasparente dorato e smaltato, 1897; © Trustees of the British Museum.

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15. Pio Fabri, Vaso in stile Iznik, 1884 c., terraglia, h 36,5 cm, Torino, Museo Civico d’Arte Antica - Palazzo Madama (inv. 1087/C).

16. Giuseppe Parvis, Candeliere, 1884 c., rame argentato e vetro smaltato, h. tot. 60 cm; base: h 36 × 16 cm; vetro: h 25 × 15,5 cm, Vercelli, Museo Borgogna (inv. 1903).

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

17. Ulisse Cantagalli, Firenze, Piatto in maiolica dipinta e invetriata, 1892; V&A Museum, 308-1982; Copyright: © V&A Images. All Rights Reserved.

18. Ulisse Cantagalli, Firenze, Catalogo delle mattonelle smaltate e dei rivestimenti architettonici, Bergamo, Istituto Italiano di Arti Grafiche, s. d. (ma c. 1890), tav. XXI.

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SUL GUSTO IN TOSCANA TRA ECLETTISMO E ART DÉCO

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di Mauro Cozzi

Rispetto al Liberty del quale, anche in Toscana, s’è detto e ridetto – e frainteso, accreditando come liberty testimonianze neoeclettiche – gli Arts Déco sono stati meno studiati. Nella loro geografia e nella consistenza dei vari settori merceologici, nella morfologia e nella evoluzione che essi manifestarono. Manca un quadro di riferimento a scala regionale, capace di riconnettere autori anche molto noti ed opere di per conto loro magari ben trattate, ad una riflessione sul contesto nel quale si sviluppò questa importante e non breve stagione del gusto. Localmente gli Arts Déco costituiscono una modernità gradita. Il Liberty, specie se lo si intende in senso proprio, quale versione italiana di uno Art Nouveau cosciente dei contenuti e dei significati internazionalmente acquisiti, aveva suscitato in Toscana uno scarso consenso, seppure con due figure di spicco come Galileo Chini, artista significativo anche per quanto intendo dire qui, e Giovanni Michelazzi che nella realtà è figura isolata, sostanzialmente estranea alle cronache e al dibattito artistico cittadino. Il resto del Modernismo a Firenze, a Pistoia, a Lucca per non dire di Viareggio e di tutta la fascia costiera, è fenomeno largamente contaminato ovvero caratterizzato da deliberate interpretazioni neoeclettiche, con le quali si rendevano presentabili ad un pubblico medio e alto borghese, le anticlassiche libertà che si erano viste a Bruxelles e a Parigi, o “tutto il ferravecchio che forse viene da Darmstadt”, non a caso fatto oggetto delle aspre critiche nazionalistiche che Adolfo De Carolis affida alle pagine del «Leonardo»1. Gli Arts Déco, fenomeno del quale si ebbe piena coscienza solo più 1

A. De Karolis, L’arte nova, in «Leonardo», a. I (1903), n. 1, p. 5.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

tardi, intercettavano invece un gradimento largo e l’interesse di molte industrie artistiche, specie di quelle generalmente afferenti ai beni per la casa e alla decorazione architettonica, nella fattispecie di alcune speciali tipologie edilizie, nonché, come avremo modo di vedere, anche all’arredo dei primi transatlantici italiani. Una questione si affaccia a proposito del gusto in Toscana e di un più equilibrato e veritiero bilancio dell’industria artistica nazionale. Ossia la poca centralità generalmente assegnata a Firenze e alla provincia toscana negli anni che immediatamente precedono la ‘costruzione’ del Moderno, perché il dibattito si polarizza su Milano e su Roma, poco considerando una città già “punta di diamante” della cultura letteraria italiana e tra i luoghi di elezione anche per una avanguardia come quella futurista2, ma tuttavia poco considerata per le arti decorative e l’architettura. Penso invece che si dovrebbe riconoscerle un ruolo non marginale per più comparti della produzione e con i molti suoi artigianati, con i molti suoi artisti, la funzione di un’officina sperimentale per la messa a punto della fisionomia di quello che sarà lo “Stile 1925” in Italia. Con l’apporto di progettisti senz’altro di primo piano, quali Ponti, Piacentini o Balzamo Stella3 che fecero in Toscana alcune delle loro prime esperienze; ma anche con svariate dinastie di toscani come quelle dei Chini o dei Coppedè, alle quali si unirono altri operatori noti o meno noti, che non sempre ebbero l’occasione di significative biennali monzesi e veneziane o la cassa di risonanza delle riviste di settore: penso ad artisti come Giulio Bargellini, Francesco Mossmeyer, Giulio Rosso, Ezio Giovannozzi, Giuseppe Piombanti Ammannati, Ezio Anichini o ad un decoratore praticamente sconosciuto come Luigi Arcangeli che ritrovo ora in più episodi; penso alla filiera di artisti attivi nel vetro, per manifatture come la De Matteis e la Felice Quentin, la Tolleri o la Polloni,4 a “fabbri” come gli Zalaffi, i Franci, i Biondi

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Il Futurismo attraverso la Toscana. Architettura, arti visive, letteratura, musica, cinema e teatro, cat. della mostra (Livorno, Museo Civico “G. Fattori”, 25 gennaio-30 aprile 2000), a cura di E. Crispolti, Silvana Ed., Milano 2000. 3 Per la presenza e l’attività di Guido Balzamo Stella in Toscana, vedasi Storia dell’Istituto d’Arte di Firenze (1869 -1989), a cura di V. Cappelli e S. Soldani, Leo S. Olschki, Firenze 1994. 4 Nonostante alcune significative carenze negli studi (come, ad esempio, per Giovannozzi o per Rosso) su questi autori esiste una certa letteratura, anche di qualità: un riassuntivo ragguaglio in Arti fiorentine. La grande storia dell’artigianato. Il Novecento, vol. VI, a cura di G. Fossi, Cassa di Risparmio, Firenze 2003.

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SUL GUSTO IN TOSCANA TRA ECLETTISMO E ART DÉCO

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i Ridi5; ad interi comparti merceologici come quello ceramico dove non ci saranno solo la Cantagalli, le Manifatture di San Lorenzo dei Chini o la Richard-Ginori. Quest’ultima indubbiamente motore di un “pontismo” di peso nazionale e internazionale, troppo noto per doverlo commentare qui, ma evidentemente significativo per quanto stiamo dicendo. E ancora, tra i vari distretti produttivi, ‘industrie’ come quelle dell’alabastro di Volterra che nella secolare alternanza di periodi prosperi e di decadenza, veniva ora rimessa in auge dalla esotica rarità di quelle pietre6. Nell’insieme di queste due giornate di studi, e ancor di più nella serie ormai storica dei convegni di Jesi sull’Eclettismo, mi preme non solo avanzare una riflessione sulla fertilità delle arti decorative toscane prima e subito dopo la Grande Guerra, ma anche insistere sulla continuità rispetto al tessuto imprenditoriale formatosi nella seconda metà dell’Ottocento. Un intraprendere che era stato allora del tutto rinnovato se non inventato di sana pianta; orientato, determinato nella sua fenomenologia dal valore aggiunto dell’arte, non solo per via delle grandi tradizioni artistiche locali, ma per tutta una serie di carenze strutturali e organizzative, e per una certa qual persistente mentalità che, salvo poche eccezioni, rendevano la dimensione del laboratorio artistico, della piccola o media manifattura, quella più adatta e più facilmente perseguibile per il lavoro toscano. C’era stato un vero e proprio “progetto Rinascimento” – mi è capitato di sostenerlo svariati anni fa – nella forma di uno specifico revival apprezzato, come è noto, nella Penisola e soprattutto Oltralpe, in tutta l’Europa e nelle Americhe7, che aveva fatto prosperare tale variegato comparto del lavoro. Un brulicante schieramento manifatturiero che anche al di là delle statistiche e salvo pochi prodotti di spicco, veniva poco evidenziato dalla letteratura ma che aveva determinato il progresso di interi comparti merceolo-

5 R. Franchi, I ferri battuti in Toscana, Edizioni dell’Ente per le Attività toscane, Firenze 1925. 6 Esistono molte varietà di pietre classificate come alabastro. Per le vicende e gli autori, anche di spicco, come Ottorino Aloisio o Bruno La Padula, che contribuiranno a questo speciale comparto merceologico, ora avviato ad un periodo economicamente ed artisticamente fertile, rimanderei al mio Alabastro. Volterra dal Settecento all’Art Déco, Cantini, Firenze 1986. 7 Su questo corposo revival, R. G. Wilson, Expression of identity in The American Renaissance 1876 -1917, cat. della mostra (Brooklyn Museum, 13 ottobre – 30 dicembre 1979), New York, Pantheon Books 1979, pp. 10-25. Reviving the Renaissance; The use and abuse of the past in nineteenth-century Italian art and decoration, a cura di R. Pavoni, University Press, Cambrige 1997, e quanto argomentato da Massimiliano Savorra in questo stesso convegno.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

gici8. Un mercato però, che ad inizio secolo s’era trovato in conflitto con le produzioni moderne estere, specie austriache e francesi, con quello Art Nouveau, come s’è detto, antitetico rispetto alla tradizione e al fasto mediceo dei manufatti toscani. Anche quando, come nel caso delle splendide “imitazioni” ottocentesche della Cantagalli, quel fasto, per niente dozzinale e derivato da una consapevole filologia, si era posto talvolta come propedeutico all’arte nuova9; anche quando il tema di una possibile coesistenza tra vecchio e nuovo (non a caso, si potrebbe osservare, Alfredo Melani10 era pistoiese), seduceva le arti toscane in quel passaggio d’anni costituendo un dato caratterizzante del modernismo di Giulio Bargellini o di Galileo Chini, giusto per dire di due tra i più qualitativi artisti tra coloro che potranno mostrare una precoce disponibilità verso gli Arts Déco. Chini, che intraprende in più settori dell’industria artistica e si trova assai legato alle cose toscane del primo ventennio del secolo, ma nel contempo anche ad occasioni di carattere internazionale, è tra i primi ad intercettare un gusto déco, sia nella ceramica che nella vetrata artistica. Questa era una novità per l’industria di famiglia, le Fornaci di San Lorenzo11, anche se era pratica artistica con una certa fortuna in Toscana, ripresa almeno dalla metà dell’Ottocento, da quando, il pisano Guglielmo Botti, più o meno negli anni delle vetrate preraffaellite o di Giuseppe Bertini a Milano, sosteneva di aver riesumato l’antica ricetta per dipingere il vetro “a gran fuoco;” da quando Ulisse De Matteis in società con Natale Bruschi e con il negoziante e vetraio Francini, aveva aperto il suo atelier a Firenze e con l’aiuto della moglie Veronica e della figlia Elettra, aveva dato corpo ad una bottega di riconosciuta qualità12. Azienda che aveva visto la collaborazione di 8 M. Cozzi, L’industria dell’arte. Materiali e prodotti della Toscana unita, Edifir, Firenze, 1995. 9 G. Conti, La maiolica Cantagalli, in La maiolica Cantagalli e le manifatture ceramiche fiorentine, a cura di G. Conti e G. Cefariello Grosso, Cassa di Risparmio, Firenze 1990, pp. 12-141. 10 Il tema delle “due estetiche” in E. Bairati, D. Riva, Il Liberty in Italia, Laterza, Bari 1985, p. 7 e pp. 179-181. 11 La Società in accomandita semplice Manifattura Fornaci di San Lorenzo Chini & Co, costituita nel 1906 (in certo qual modo prosecuzione della celebre Arte della Ceramica di Galileo Chini e soci, fondata nel 1896 e della successiva Manifattura di Fontebuoni), alle ceramiche giustapponeva ora le vetrate artistiche. Chino Chini aveva da tempo iniziato ad interessarsi di questo settore, con la consulenza del farmacista e chimico senese Bernardino Pepi che, come il chimico fiorentino Emilio Bechi o il pistoiese Ferdinando Venturi, veniva supportando con esperimenti scientifici, l’analisi e l’applicazione degli antichi ricettari. 12 Per un breve ragguaglio sugli esordi della vetrata artistica in rapporto alla Toscana del medio Ottocento, dalle vetrate per il Battistero di Pisa al diffondersi di questa attività a

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altri artisti e che ora, dall’inizio del secolo incrociava il lavoro e quindi la direzione artistica di Ezio Giovannozzi, artista cui peraltro non è stata ancora ben riconosciuta la qualità che fu capace di esprimere in questo settore delle arti decorative13. Con la De Matteis, dall’inizio del secolo, gareggiava la Felice Quentin che a vetri industriali di vario tipo e agli specchi, aveva ora giustapposto i vetri dipinti da Francesco Mossmeyer e da Giulio Bargellini e quindi da Leonardo Mossmeyer e da Giulio Rosso; con l’interessamento di Felice Carena anche da Bruno Bramanti, da Gianni Vagnetti, da Giovanni Colacicchi e insomma di una parte cospicua dell’intellighenzia artistica toscana14, in una storia che proseguirà fino al secondo dopoguerra coinvolgendo artisti quali Marcello Avenali, Domenico Cantatore, Salvatore Fiume, Aligi Sassu. De Matteis, Quentin, Fornaci San Lorenzo e già da questi anni venti, Polloni (manifattura ancora oggi attiva)15 vengono così a formare un nucleo che per quantità e qualità di lavori svolti in molte parti d’Italia e all’estero, potrà senz’altro accreditare Firenze – come si legge in certa pubblicistica coeva, che non ha solo un valore reclamistico – quale “sede della rinascita della vetrata artistica italiana”16. Nella difficoltà di articolare nello spazio di questo contributo, un racconto trasversale rispetto a più settori merceologici, vorrei comunque proseguire proprio sulla vetrata artistica e da un pezzo di Francesco Mossmeyer che rappresenta i quattro Evangelisti17, precedente, credo, al 1910, il quale non solo testimonia il passaggio da un medievalismo libertyario e simbolista (peraltro coerente col carattere sacro del soggetto), ad una linea geometrizzante, déco, mostrando anche come la legatura in piombo, il doppio “U” che sottolinea e tiene uniti i vari pezzi della composizione, contribuisca ad esprimere questo gusto, ovvero come la tecnica della vetrata quasi naturalmente con esso dialoghi. Firenze, cfr. L’industria dell’arte… cit., p. 130-132 e passim. Vedasi inoltre A. Ugolini, Le vetrate artistiche a Firenze tra Ottocento e Novecento. Guida e itinerari, Edifir, Firenze 2002. 13 C. Cresti, Trasparenze liberty e déco a Firenze, in «Antichità viva» a. XXIV (1985), nn. 1-3, pp. 200-205. Soprattutto i recenti studi di Silvia Ciappi, in particolare, Vetro e vetrate a Firenze, in La grande storia dell’artigianato… cit., pp. 119-130. 14 L. Mannini, Vetrate da esposizione. Artisti toscani per la Quentin, in Artista. Critica dell’arte in Toscana 2006, Le Lettere, Firenze, pp. 118-127. 15 F. Gurrieri, A. Lenzi, A. Becattini, L’officina dei maestri vetrai: la bottega dei Polloni a Firenze, Polistampa, Firenze 2003. 16 La vetrata moderna/Glass windows and decorated glass, a cura della manifattura F. Quentin di Firenze, s.e. 1928, pagine non numerate. 17 La vetrata moderna… cit.

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Risalenti alla prima produzione delle Fornaci San Lorenzo dei Chini, si conoscono le vetrate eseguite intorno al 1907-8, per un villino di via Jacopo Nardi a Firenze, pubblicate poi in Modelli d’Arte Decorativa18, che ben testimoniano la conversione ad un gusto più secco e geometrico, e nello stesso tempo si sottraggono alla routine rinascimentale con la quale Chini si trova ad intervenire nelle vetrate del fiorentino Palazzo delle Poste di via Pellicceria o in quelle per il Teatro della Nuova Borsa a Genova, sottostante la sala delle contrattazioni, teatro e sala, allestiti con i disegni di Adolfo Coppedè che ha chiamato a raccolta per questo cantiere – tra i più “arcirimbombantissimi” e “arcifanfani”, per dirla con le aggettivazioni di D’Annunzio, tra quelli coppedeiani – più esponenti dell’industria artistica fiorentina. Vetrate perdute queste genovesi, che a quanto si può intravedere dai disegni e dalle foto d’epoca, dovevano più sobriamente intonarsi alla tracotante rappresentatività richiesta dalla committenza, entro la quale Chini era peraltro in grado di muoversi, avendo appunto eseguito lavori per varie sedi bancarie e postali. D’altronde né Chini né Coppedè dovevano troppo credere a tutto quel mostruoso accumulo di ornati: scenografica messa in scena della quale due ex figli del popolo come loro, potevano perfino sorridere. Magari brindando con il rusticano boccale in gres salato19, preparato dall’ornatista mugellano quale omaggio per l’architetto che gli ha offerto il lavoro. Le vetrate di via Nardi, pur nella evidente differenza di poetica e di soggetto, potrebbero essere paragonate a quelle coeve che Giulio Bargellini esegue per il teatro della villa Targioni a Calenzano e che, distrutte anch’esse nella seconda guerra mondiale, ci sono note per via di una pubblicità della Felice Quentin e per il confronto con alcuni “cartoni” dello stesso artista20. Ma se per Bargellini il vetro dipinto, a quanto se ne sa, non trova molte altre significative occasioni, nel caso delle Fornaci San Lorenzo dei Chini questa attività ha un largo campo di applicazione, come ormai la letteratura, abbondantissima su questo operatore toscano e sulle sue diverse imprese, è in grado di documen18

Modelli d’arte decorativa, a. V, n. 3, Bestetti e Tumminelli, Torino, s.d. (c. 1915). Del boccale (qui riprodotto) ignoro la collocazione attuale. Fu fotografato all’inizio degli anni settanta quando si trovava nella villa di Parugiano a Montemurlo, con gli altri materiali dell’archivio dell’architetto. 20 Cinque pittori di Calenzano. Giulio Bargellini, Umberto Mannini, Pietro Parigi, Otello Fratoni, Mario Caciotti, cat. della mostra (Palazzo comunale, Calenzano maggio-giugno 1985) a cura di A. Parrochi e G. Gentilini, Palagi, Firenze 1985. Si vedano in particolare Platone e Ulisse, cartoni per i finti arazzi e Santa Lucia, dipinto ad olio per la cappella della stessa villa. 19

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tare. Dalle notissime Terme Berzieri e da più alberghi a Salsomaggiore dove è frequentemente impegnato con l’architetto Ugo Giusti, ai molti lavori di Montecatini; dalle Terme di Porretta, a Viareggio, da più chiese in Mugello,Chini interviene non solo con estesi cicli di tempere murali, ma anche con inserti ceramici ed esotici fregi in gres smaltato o appunto con vetrate che dalle terme, ai palazzi pubblici, ai cimiteri21, testimoniano per tempo la possibile estensione di un gusto che sarà poi battezzato dalla esposizione di Parigi del 1925. Non solo Galileo per la verità, ma anche il più giovane cugino Tito a cui si devono, per esempio, le rutilanti vetrate dell’albergo Roma nella fiorentina piazza di Santa Maria Novella, allestito su disegno ancora di Ugo Giusti nel 1922, che testimoniano con putti, canestri di frutta, pesci e vari fregi geometrici, la consolidata marca espressiva chiniana22. A comprovare tale primato nel vetro dipinto e la fortuna del gusto déco è obbligatorio un cenno alla estesa attività di Ezio Giovannozzi che a differenza di quella del fratello ingegnere, autore di molte opere edilizie e importanti stabilimenti industriali, non ha trovato ai tempi suoi, e tutto sommato – come si diceva – nemmeno oggi, grandi riscontri critici né troppi apprezzamenti. Del Giovannozzi, quale artista in forza alla De Matteis, si possono qui ricordare opere come la splendida, classicheggiante vetrata con Cristo che entra a Gerusalemme eseguita nel 1911, per la Episcopal Church di Saint James di via degli Orti Oricellari a Firenze; nel dopoguerra lo troviamo, tra i pochi premiati toscani, all’esposizione di Monza del 1923, con una sala da pranzo che come scrive Roberto Papini «collega il rustico col tradizionale, nel mobilio, nel soffitto, nelle vetrate, nel camino»23. Ma nel corso degli anni Venti, le belle vetrate eseguite per il giardino d’inverno dell’Hotel Exelsior, o quelle per il dirimpettaio Grand Hotel 21 Nella ormai sterminata bibliografia su questo artista toscano, oltre a Galileo Chini. Dipinti, decorazioni, ceramiche, a cura di F. Benzi e G. Cefariello Grosso, Electa, Milano 1988; La Manifattura Chini, a cura di R. Monti e G. Cefariello Grosso, De Luca, RomaMilano 1989; I Chini a Borgo San Lorenzo. Storia e produzione di una manifattura mugellana, Opus Libri, Firenze 1993. 22 Il lavoro è noto. Vedasi comunque S. Ciappi, Vetro e vetrate… cit., pp. 112-113. Colgo l’occasione per ringraziare la proprietà dell’albergo Roma e l’amministratore Gennaro Aurienna in particolare, per la gentile disponibilità. 23 R. Papini, Le arti a Monza nel MCMXXIII, Istituto d’Arti Grafiche, Bergamo 1923, p. 27. «Allineato – prosegue il critico pistoiese – alla generale tendenza semplificatoria e geometrizzante dell’architettura e della decorazione che, ha un valore sentimentale più che estetico. Rappresenta cioè il desiderio di creare ambienti semplici ed intimi, di ritrovare attraverso le manifestazioni umili ed ingenue, le caratteristiche della razza, di ricondurre gli artisti ad una maggiore aderenza alla vita.»

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

di piazza Ognissanti a Firenze, le vetrate di Montecatini (dove le pitture che interamente coprono l’intradosso della cupola della tribuna dell’orchestra nelle Terme del Tettuccio rappresentano forse la maggior gloria del Giovannozzi), l’intervento nella monumentale sede romana delle Assicurazioni Generali, dove i suoi vetri moderni stemperano il serioso cinquecentismo del fratello24, i tantissimi altri lavori eseguiti per la De Matteis testimoniano pienamente un gusto festoso, mondano con policromie accese e soggetti allineati alle varie occasioni. D’altronde l’artista declina tali geometriche e forti soluzioni decorative, anche nel richiamo delle cruente battaglie della Grande Guerra, nella vetrata, che fa da sfondo al Monumento alla Madre Italiana scolpito da Libero Andreotti nella basilica di Santa Croce25. A testimoniare, come la intrinseca mondanità di quel gusto, non fosse ritenuta incompatibile con il luogo e il senso di una così toccante commemorazione. * * * I luoghi di svago o di benessere, gli stabilimenti termali, i grandi alberghi o intere città della vacanza, costituiscono, come si sa, il naturale terreno di cultura degli Arts Déco, anche prima della guerra e degli anni cosiddetti “ruggenti.” Quelli del charleston, del Jazz, del gin, della prima cocaina che viene dagli States, del lusso artefatto delle crociere e delle ciniche e disimpegnate consolazioni mondane di “pescecani” arricchiti con la guerra, ma anche gli anni nei quali il fasto esotico e qualche eccesso decorativo, potranno servire alla gente per superare, per rimuovere fin dove era possibile, il mostruoso dramma appena concluso. Un ‘sentire’ e conseguentemente un gusto, che già aveva trovato e che continuava a trovare nel cinema e nei cinematografi, significativi elementi di riscontro, tanto che due cinema-teatri fiorentini, possono essere proposti come esemplari di questi anni e nello stesso tempo confermare quella intrigante continuità tra Eclettismo e Arts Déco, di cui si diceva. Due locali noti, intendiamoci, e nelle loro articolate

24 R. Bossaglia, Il gusto degli anni venti nella decorazione in I settantacinque anni dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1987, pp. 265-312. 25 Nella cappella, oltre alla importante Pietà di Andreotti che con i bassorilievi delle pareti laterali era uscita dai concorsi del 1924 1925 e alla vetrata eseguita dalla De Matteis sui cartoni, appunto, del Giovannozzi, vanno notate le lampade a mensola in vetro opalescente della Venini nonché il pavimento in marmi rari apprestato dallo storico Opificio delle Pietre Dure. Oltre alle cronache giornalistiche dell’inizio di dicembre 1926, S. Ciappi, Le vetrate ‘eroiche’ a Firenze (1920-1940) tra gloria patria e umana pietas, in «DecArt. Rivista di arti decorative», n. 2, ottobre 2004, pp. 127-135.

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SUL GUSTO IN TOSCANA TRA ECLETTISMO E ART DÉCO

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vicende costruttive, fatti oggetto di studi anche recenti26 sui quali ho tuttavia delle cose e delle riflessioni da aggiungere. Il cinema teatro Savoia (oggi Odeon), una delle poche sale rimaste attive nel centro di Firenze, è indubbiamente un monumento del Déco italiano. Una architettura che si risolve in un interno suntuoso, ricavato dal cortile del quattrocentesco Palazzo dello Strozzino e da un giustapposto corpo di fabbrica eretto nell’ambito della malfamata ricostruzione di Mercato Vecchio. Senza il rischio di essere smentiti, e nonostante la banalità della scatola muraria che lo contiene, si può anzi affermare che questo interno è il pezzo migliore di quella sciagurata “grande operazione urbanistica”. Il cantiere risaliva a prima della guerra. Nel 1914, i fratelli Chiari per la costruzione, appunto, di una sala cinematografica e teatrale, avevano fatto riferimento a progettisti accreditati per tale genere di edifici: ad Adolfo Coppedè “mago della decorazione,” appena reduce dal successo del teatro della Nuova Borsa di Genova e da due consecutivi premi Martelli per l’architettura, e all’ingegnere Attilio Muggia, cattedratico bolognese, impresario e specialista del calcestruzzo armato, pratico delle economie e delle prestazioni che questa tecnica costruttiva poteva garantire per tale genere di locali27. Nel maggio di questo 2012, le prove di collaudo eseguite in ottemperanza alla legge che richiede la certificazione delle strutture28, hanno felicemente confermato alcune risultanze dell’archivio; in altri termini si è potuto dimostrare che i disegni tecnici ritrovati nell’archivio Muggia, effettivamente corrispondono alla interne ossature, solo in parte visibili, della galleria, della platea e del sottostante Bal Tabarin. E che dunque il gran numero di progetti di Adolfo Coppedè, conservati nell’omonimo fondo dell’Archivio di Stato di Firenze29, non sono semplicemente 26 Per un bilancio vedasi «La Nuova Città», numero monografico della rivista fondata da Giovanni Michelucci, ottava serie, n. 13, 2007, dedicato alle architetture dei cinema e Buio in sala. Architetture dei cinema in Toscana, cat. della mostra (Viareggio Centro congressi Principe di Piemonte, 13 luglio-5 settembre 2007) a cura di M. A. Giusti e S. Caccia, Maschietto ed., Firenze 2007. 27 M. Cozzi, Costruzione e ornato nei cinematografi dell’area fiorentina, in «La Nuova Città», cit., pp. 17-32; L. Pigliaru, Il cinema teatro Savoia da Coppedè a Piacentini, ivi, pp. 3343. Sulla figura dell’ingegnere, ma non per quest’opera, Attilio Muggia. Una storia per gli ingegneri, a cura di M. B. Bettazzi, P. Lipparini, Editrice Compositori, Bologna 2010. 28 “Verifica e certificazione di idoneità statica del locale”, ai sensi del D. M. 14 gennaio 2008. 29 Nel fondo Adolfo Coppedé dell’Archivio di Stato di Firenze, si conservano oltre cinquanta disegni e schizzi sicuramente riferibili al Savoia. Due tavole delle strutture in calcestruzzo armato sono invece presso l’Archivio dell’Ordine degli Architetti, Paesaggisti e Pianificatori della Provincia di Bologna (non inventariato).

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un’ipotesi di progetto né un progetto subito interrotto, bensì la prova di un cantiere, almeno al grezzo, quasi concluso. Tali disegni, piante, sezioni, prospettive magniloquenti, particolari strutturali e decorativi che giungono fino agli schizzi per i manifesti della serata inaugurale (secondo quella integrale progettualità giovannoniana con la quale l’architetto serviva i suoi committenti), quasi confermano quanto è sinteticamente annotato nell’autografo elenco dei lavori del Coppedè: “la struttura del teatro Savoia le cui decorazioni si devono a Marcello Piacentini”. Quasi a volersi riappropriare di un’opera, della sostanza di un’opera, che nel dicembre del 1922, anche con un certo clamore30, specie dopo il Cinema Corso di San Lorenzo in Lucina a Roma, il primo cinematografo moderno italiano, segnala il talento del trentanovenne Piacentini. Che rimane, intendiamoci, l’autore del Savoia, il progettista capace di coordinare il lavoro dell’architetto Ghino Venturi che lo affianca, e della schiera di artisti e di decoratori, per lo più toscani, che collaborano alla messa a punto dell’elegante complesso. Scultori come Antonio Maraini che esegue le tre statue in legno policromato sopra il boccascena, o come Bernardo Morescalchi che plasma i telamoni in cemento patinato bronzo, nella lampada segnaletica posta all’esterno; o come Giuseppe Gronchi che con un piglio quasi coppedeiano, modella i monumentali capitelli delle colonne binate che sorreggono la volta e l’elegantissimo cassettonato del foyer, al primo piano. Dalla grande cupola in vetri opalescenti della Quentin che si apre in due metà scorrendo su binari, dai molti lavori di ebanisteria della ditta Giannini di Pistoia, della Barsi di Firenze e in particolare dell’intagliatore Umberto Bartoli, fino agli arazzi preparati su cartoni di Matilde Festa o al telone del sipario dell’antico Setificio Fiorentino, il ‘regista’ Piacentini controlla e declina l’eclettica sapienza di questo manipolo di artisti, secondo il più monumentale e solenne registro art déco che viene impreziosito e reso qualitativo da sapienze artigiane collocate indietro nel tempo, nella tradizione dell’intaglio ottocentesco toscano. In tutto il Savoia, le perdute decorazioni dei locali sotterranei del Bal-Tabarin, eseguite da Giulio Rosso – documentate, a quanto ne so, solo dalle riproduzioni di Mario Tinti –31, si distaccano però da questa 30 Escludendo le cronache dei quotidiani, M. Tinti, Il teatro Savoja in Firenze, Bestetti e Tumminelli, Milano-Roma, 1922; R. Papini, Vecchio e nuovo in un teatro fiorentino, «Il Mondo», 15 dicembre 1922; M. Tinti, Il cinema teatro Savoja a Firenze, in «Architettura e Arti Decorative», a. II, fasc. VI, febbraio 1923, pp. 207-216; L. Angelini, Cronache fiorentine. Il nuovo teatro Savoia a Firenze, in «Emporium», n. 340, aprile 1923, pp. 268-272. 31 M. Tinti, Il teatro Savoja…, cit. pp. 31-34. Il pittore fiorentino, specie sul finire degli anni venti, riscuoterà ampi consensi da parte della critica per i suoi interventi: G. Ponti, Giulio Rosso pensionato, in «Domus», a. I, n. 11, novembre 1928, p. 20; idem, Pitture murali di Giulio Rosso,

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continuità. Nell’opera del giovane pittore fiorentino, classe 1897, quasi in assonanza col lavoro, con l’inedita freschezza che giovane Ponti sta per portare nelle ceramiche della Richard Ginori, subentra un’ironia leggera, un semplificato approccio al disegno e perfino una perdita di mestiere, che indubbiamente segnalano il cambio generazionale. Fatta salva la giovanile esuberanza di Rosso, all’apertura degli anni venti, il Savoia conferma la eclettica varietà degli influssi che possono essere ricompresi e tenuti insieme da questo “Stile 1925”: il medievalismo, il “carattere quattrocentesco” del contenitore come l’esotismo di certe interne decorazioni. Caratteri medievali ed esotismi che con più smaccata evidenza, si ritrovano in un altro locale fiorentino di poco precedente, anch’esso degno della ribalta nazionale32, ovvero il cinema-teatro-sferisterio Alhambra di piazza Beccaria, vera e propria cittadella dello spettacolo e dello sport, purtroppo sostituita, negli anni sessanta, dalla sede del quotidiano La Nazione. Il complesso, sorto alla fine del XIX secolo e passato attraverso più ristrutturazioni, trovava dopo il 1919, in contemporanea con quello che sembrava essere un promettente avvio dell’industria cinematografica cittadina, un suo stabile assetto. Adolfo Coppedè, in procinto di essere sostituito, come s’è visto, nel cantiere del Savoia, ottiene questa imponente commessa dalla Società Immobiliare Fiorenza ed è ancora affiancato dalla Società per Costruzioni Cementizie, nella cui sede fiorentina fa il suo esordio il trentenne Pier Luigi Nervi. Ragion per cui questo cantiere e segnatamente la volta con travi reticolari estradossate del padiglione del giuoco della Pelota, hanno suscitato interesse anche nei recenti studi sull’ingegnere33. Interessa tuttavia qui il linguaggio in «Domus», a.I, n. 3, marzo 1928, pp. 24-25; R. Papini, La nave “Aurora”, in «Domus», a. II, n. 2, febbraio 1929, p. 19; idem, Casa Gould in Roma architettata da Giuseppe Capponi, in «Domus», a. II, n. 12, dicembre 1929, p. 26; O. Belsito Prini, La decorazione murale. Pannelli di Giulio Rosso per un ristorante bolognese, in «La casa bella», a. II, n. 3, marzo 1929, pp. 33-35; C. Albini, Interni di Giulio Rosso, in «Domus», a.II, n.11, novembre 1929, pp.16-19. Quello in oggetto risulterebbe il primo lavoro dell’artista poco più che ventenne, di cui si ha notizia. Inesistenti o quasi i contributi recenti (tra i quali spicca il già ricordato scritto di Lucia Mannini), si può osservare che il clima cui Rosso fa riferimento e la stupefatta, spiritosa semplicità dei suoi lavori, trovano evidente riscontro in Gio Ponti e senz’altro in un altro artista fiorentino della sua generazione cui, qualche anno fa, è stato dedicato un volume: Il ruralismo magico di Giuseppe Piombanti Ammannati, a cura di M. Pratesi, Polistampa, Firenze 2006. 32 L’Alhambra, nel suo rutilante eclettismo, forse l’opera migliore di Adolfo Coppedè, viene allora pubblicata ne «L’architettura italiana» (a. XVI, 1921, n. 9, tav. 33-34) ed è oggetto di più articoli del quotidiano «La Nazione», in particolare di una brillante ‘difesa’ di Ferdinando Paolieri, ivi, 8 giugno 1921. 33 C. Greco, Pier Luigi Nervi. Dai primi brevetti al Palazzo delle Esposizioni di Torino 19171948, Lucerna, Quart ed. 2008, pp. 40-43; F. Lensi, Le strutture per lo spettacolo e lo sport in

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ispano-moresco della sala cinematografica e del suo ingresso, del teatro all’aperto e del suo monumentale arcoscenio e le varie versioni di progetto del prospetto della stessa Pelota. Al di là del contributo di Nervi, non sappiamo troppo sui collaboratori che affiancarono Coppedè nella costruzione e nella decorazione di questo complesso34, nel suo clamoroso eclettismo moresco, sorprendentemente amalgamato da una marca déco. Che appare esplicita nelle pitture dell’arcoscenio o in quelle analoghe all’interno, eseguite dal pittore pistoiese Luigi Arcangioli documentate da alcune foto d’epoca35. Un Déco contaminato dai più vari influssi che trova all’apertura degli anni venti, altre occasioni importanti, anche per via dei documenti progettuali, dei disegni di interni di ragguardevole qualità che emergono da tali occasioni. Sempre che, fuori di ogni preclusione di buono o di cattivo gusto e naturalmente di correttezza di stile, li si riferisca alle finalità, al contesto e al pubblico cui erano destinati. Si tratta, come s’è anticipato, delle classi di lusso dei transatlantici allestiti a partire dai primissimi anni venti e affidate dal Lloyd Sabaudo e dalla Compagnia Cosulich, alla Casa Artistica dei Coppedè. Occasione di lavoro nella quale risultano attivi tutti e quattro i membri di questa famiglia di artisti, e che si traduce nei molti ambienti realizzati per il Conte Rosso, il Conte Verde, il Conte Biancamano e, un poco più tardi e insieme con altri progettisti, del Conte Grande per il Lloyd Sabaudo e poi del Conte di Savoia per la Società Italia; quindi dei piroscafi Saturnia e Vulcania per conto della Cosulich, nonché di tutta una serie di lavori parziali o di commesse poi rientrate che generano comunque una notevole documentazione36. Toscana, in Cantiere Nervi: la costruzione di una identità, atti del convegno (Parma, Ferrara, Bologna, 24-26 novembre 2010), a cura di G. Bianchino e D. Costi, Skira, Milano-Ginevra 2012, pp.158-161. 34 M. Cozzi, Costruzione e ornato… cit. pp. 22-25 e note. 35 Luigi Arcangeli, nel primo decennio del secolo, risulta attivo nel cantiere della Cassa di Risparmio di Pistoia; nella medesima città, nella decorazione del villino Pacini e in quella della palazzina d’ingresso della fabbrica San Giorgio, eseguita col progetto di Gino Coppedè nel 1908, e più tardi, nelle decorazioni del Palazzo comunale di Montecatini Terme. Con Adolfo Coppedè, Arcangeli aveva già collaborato nel 1913, nelle decorazioni del cinema teatro Brancaccio di via Merulana a Roma. Dopo la demolizione dell’Alhambra nel 1961, le foto del fondo Coppedè cit. e quelle più tarde rintracciate presso l’archivio Locchi (1937, L 925/ 2 e sgg.), costituiscono, per quanto sappiamo, l’unica documentazione disponibile su questi interni. 36 Nonostante i materiali iconografici e le notizie, talvolta anche dettagliate, che nel frattempo sono stati resi disponibili su un tema che evidentemente appassiona anche un pubblico non specialistico (vedasi infra n.41), rimanderei alle schede e ai commenti contenuti in R. Bossaglia, M. Cozzi, I Coppedè (Sagep, Genova 1982, pp. 125-137; pp.

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Ritorno su questo tema per mostrare alcuni disegni inediti, per insistere ancora sui paradossi e sugli eccessi di queste realizzazioni, ma anche per riflettere su come – felicemente, tutto sommato, sia dal punto di un rimarchevole fenomeno del gusto, che da quello imprenditoriale – l’eclettismo ancora attraversi questa stagione. Come si sa, prima di Gustavo Pulitzer Finali e di una diversa concezione del progetto che, anche in Italia, investirà Navi e Case37, queste erano ancora “città galleggianti,” concepite come palazzi o grandi alberghi, ivi comprese certe convenzioni che consigliavano moresca la sala da fumo, sontuosamente barocco il salone delle feste, tre-quattrocentesca la “rosticceria” e casomai un poco più moderna la veranda, come appunto nel Conte Rosso o nel Conte Verde. Era un calcolo deliberato – la permanenza di questi “stili” nelle classi di lusso di tali navi – premiato specialmente dalla clientela americana, estasiata da tanto décor, dallo spessore storico di siffatti arredi, i primi dei quali potevano fregiarsi dell’ulteriore titolo d’essere stati eseguiti a Firenze38. Un calcolo cinico, per niente sminuito dalla evidenza caricaturale, dalla incongruenza rispetto al luogo e alla funzione, confermato dal fatto che alcuni disegni di progetto, più scopertamente improntati allo “Stile 1925,” erano stati scartati dalla committenza. Nell’incerto equilibrio di tali mediazioni, gli interni più significativi mi sembrano quelli del Conte Grande. Si tratta dell’ultimo della serie dei “Conti” realizzati per il Lloyd Sabaudo (il Conte di Savoia, come il gemello Rex sarà appunto commissionato dalla nuova società Italia), interamente dallo Stabilimento Tecnico Triestino. Ormai nel pieno del fascismo «Prova amplissima e inconfutabile del genio dei figli d’Italia […] solo che una volontà superiore faccia appello alle intime energie della razza,» come recita «Trieste marinara». Impostato 267-272 e passim) per un complessivo ragguaglio su questi incarichi e per un inventario dei documenti che li riguardano, oggi depositati presso il già ricordato fondo Coppedè dell’ASF, salvo poche tavole transitate in alcune aste, che si trovano presso altre collezioni pubbliche o private. 37 Gustavo Pulitzer Finali. Il disegno della nave: allestimenti interni 1925-1967, a cura di D. Riccesi, Marsilio, Venezia 1987. 38 Come si legge ne «L’Illustrazione Italiana» (XLIX, 1922, p. 516) a proposito del Conte Rosso, il cui scafo era stato costruito a Glasgow nei cantieri Beardmore, il lavoro di allestimento interno della prima classe era stato subappaltato ai numerosi laboratori artigiani del quartiere fiorentino di Santa Croce: «Cento carri ferroviari trasportarono gli importanti lavori dalla Toscana a Genova. Qui un piroscafo li avviò alla lontana patria di Maria Stuarda, scortati dai loro artefici, tra la grande meraviglia dei rudi operai scozzesi». Evidentemente, come già nell’Ottocento, alla superiore tecnologia anglosassone, si poteva solo giustapporre il valore dell’arte e il nome di Firenze.

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nel 1926 e terminato nel 1928, stazza 25 mila tonnellate, con circa 500 uomini di equipaggio, trasporta 1718 passeggeri: 578 in prima classe, 420 in seconda, 720 in terza. Soprattutto ai primi sono destinati gli arredi progettati dallo studio Coppedè e da Armando Brasini, ma all’allestimento contribuiscono anche lo Studio Triestino Stuard, ossia Pulitzer Finali, e la ditta Monti di Milano39. Un crescendo di lusso e una esagerazione di decori, nella prima classe, che trovano il loro clou nel salone delle feste che quasi surclassando i recenti fasti della mostra parigina, esprime come nel Savoia piacentiniano, una piena e fluida contaminazione tra cinquecentismo, esotismo e Arts Déco. Contribuiscono senz’altro i pannelli dipinti da Luigi Arcangioli, pervasi da una grazia elegante che rimanda a certe copertine realizzate da Ezio Anichini per «Scena Illustrata» ovvero a tutta la valorosa scuola toscana dell’illustrazione40. La gran quantità di influssi riscontrabili in questa creazione del “made in Italy”, dal salone delle feste che occupa in altezza tre degli otto ponti della nave, e che ha “decorazioni tenute in stile floreale che ricordano quelle vinciane del Castello Sforzesco,” alla sala da musica, dal fumoir alla veranda presidiata da draghi intagliati in legno e dorati, fino al ristorante interpretato”in stile etrusco romano modernizzato, con squisito gusto di eleganza e modernità” da Brasini, inaspettatamente costituiscono un unicum, riescono a stare insieme e a coinvolgere il pubblico in quella fantasmagorica messa in scena. Il transatlantico infatti, destinato alla rotta Genova – New York, riscuote l’attenzione della stampa quotidiana e di quella specializzata, non solo per le sue prestazioni tecniche, ma anche per le opere d’arte e le decorazioni che contiene. Se è vero che di qui a breve, la tracotante abbondanza di questi interni, esemplarmente suscita la riprovazione dei fautori di una nuova e più ragionevole concezione degli allestimenti navali e in tempi recenti, tra lo stupefatto e il disgustato, sofisticate esercitazioni critiche volte a decifrare l’amalgama di tanti stili e di così diversi influssi41, alcuni ambienti del Conte Grande appartenendo agli 39 «Trieste Marinara», a.VI, n. 1-2, gennaio febbraio1928, numero monografico dedicato al Conte Grande; La visita al Conte Grande, nuovo colosso dell’Italia marinara ne «Il Piccolo di Trieste» 22 febbraio 1928; nello stesso quotidiano, anche gli articoli che compaiono il 7, il 21 e il 22 di febbraio. Gli arredi vengono realizzati dalla falegnameria del Cantiere di San Marco e, a quanto si legge, dalla ditta Monti di Milano che esegue ventitre cabine di lusso della prima classe. 40 Cfr. Il Déco in Italia, cit., regesto degli operatori, tra i quali Anichini però non figura. 41 A riprova del costante appeal di questo tema, se non a premessa di qualche attuale eccesso decorativo: Le città galleggianti: Navi e crociere negli anni trenta, a cura di R.

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Arts Déco più monumentali, indubitabilmente testimoniano il gusto degli anni venti. Mentre l’esposizione parigina, anch’essa peraltro largamente contaminata e talvolta pervasa di eclettismi, battezzava ufficialmente tale gusto, queste navi, sale cinematografiche e alberghi, stabilimenti termali o perfino certe sedi bancarie o assicurative, esprimevano questa ultima possibilità di stile, riattivavano con inedita novità, i materiali, i mestieri e i linguaggi dell’eclettismo, prima della pialla dei Razionalisti e di uno “stile liscio” – per dirla con il cinismo di Coppedè – che era venuto e stava venendo sempre più di moda.

Prinzhofer, Milano, Longanesi 1978; «Rassegna» (Transatlantici), a. XII, n. 44, dicembre 1990; M. Eliseo, P. Piccione, Transatlantici: storia delle grandi navi passeggeri italiane navi passeggeri italiane, Genova, Tormena 2003; M. Fochessati, Gli arredi e le decorazioni navali, in Il déco in Italia, cat. della mostra (Roma, Chiostro del Bramante, 20 marzo – 13 giugno 2004) a cura di F. Benzi, Milano, Electa 2004, pp. 294-301; M. Eliseo, W. H. Miller, Transatlantici tra le due guerre: l’epoca d’oro delle navi di linea, Milano, Hoepli 2004; C. Donzel, Transatlantici. L’età d’oro, Novara, De Agostini, 2006.

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1. L. Mossmeyer, vetrata con i quattro Evangelisti rappresentati secondo l’iconologia medievale, c. 1910. Da La vetrata moderna...cit.

2. B. Bramanti e G. Vagnetti, progetto della saletta per la III Biennale di Monza. Da Manifattura Quentin...cit.

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3. T. Chini, per la Manifattura Fornaci di San Lorenzo Chini &C., particolare di una vetrata dell’albergo Roma a Firenze, 1922.

4. E. Giovannozzi, per l’Officina vetraria De Matteis, particolare di una vetrata nella Sala del Consiglio. Palazzo dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni a Roma, 1927.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

5a-c. C. Chini, boccale in gres salato, con base. Manifattura Fornaci di San Lorenzo Chini & C., c.1910.

6. A. Coppedè, schizzi per il manifesto di inaugurazione del Cinema – Teatro Savoia a Firenze, particolare, c. 1915. ASF, Fondo A. Coppedè.

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7. A. Coppedè, pianta e sezione del Cinema – Teatro Savoia, 1914-15. ASF, Fondo A. Coppedè.

8. M. Piacentini, il Cinema Teatro Savoia (oggi Odeon). Stato attuale.

9a-b. G.Rosso, decorazioni murali eseguite a fresco, nel Bal Tabarin sottostante il Cinema Teatro Savoia. Da M. Tinti, op. cit.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

10. Il teatro all’aperto dell’Alhambra a Firenze, in una fotografia d’epoca (G. Brogi).

11. L. Arcangeli,una delle tempere murali eseguite all’interno del piroscafo Conte Verde, 1923. Fotografia d’epoca (G.Brogi).

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SUL GUSTO IN TOSCANA TRA ECLETTISMO E ART DÉCO

12. Conte Grande, il salone delle feste in una fotografia d’epoca (F. Barsotti).

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

13. L. Arcangeli, Le fonti della vita, tempera nella sala delle feste del Conte Grande, 1927. Fotografia d’epoca (F. Barsotti), particolare.

14. Conte Grande, sala del Ristorante di prima classe, allestito su disegno di A. Brasini. Fotografia d’epoca.

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IL GUSTO DEL DENARO STOCLET E SCHIFFER HOFFMANN E VÁGÓ

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di Zsuzsanna Ordasi

A Vienna nel 1857 scaturisce la decisione di costruire la ferrovia cittadina (Stadtbahn) per agevolare il traffico cittadino senza passaggi a livello. Nel 1892 si forma il Comitato dei Trasporti il quale nel 1894 nomina Otto Wagner (1841-1918) progettista generale (Generalplaner) e consigliere artistico dei lavori. Wagner progetta anche gli edifici delle fermate, prima in stile neorinascimentale, poi, nel 1896-1900, nel nuovo stile Secession che egli propone come adatto ai tempi moderni, sia con i suoi scritti1 e con le sue opere sia attraverso l’insegnamento, e tramite i suoi geniali allievi come Joseph Olbrich e Josef Hoffmann, e i seguaci come József Vágó. Per i grandiosi lavori della ferrovia urbana si concentrano a Vienna esperti dall’Europa, ma soprattutto dalle città dell’Impero Austro-Ungarico. E ciò vale non soltanto per i lavoratori specializzati e manovali, ma anche per gli ingegneri, mentre giocano un ruolo primario i banchieri. Tra i banchieri che rendevano finanziariamente realizzabile questo innovativo progetto di collegare le stazioni ferroviarie della città con le linee interne, si trovano due uomini eccezionali che diventano importanti anche per la loro attività nel campo dell’arte. Uno è Adolphe Stoclet di Bruxelles, l’altro è Miksa Schiffer di Budapest. Entrambi arrivano a Vienna come banchieri, ma con laurea in ingegneria ferroviaria. A parte il loro incontro a Vienna, la loro vita mostra numerose somiglianze e molte affinità. 1

Otto Wagner, Moderne Architektur, Wien 1895.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

Adolphe René Louis Stoclet nasce a Saint Gilles nel 1871. Si laurea a Bruxelles in ingegneria civile con la specializzazione ferroviaria. Nel 1894 si reca a Milano per partecipare ai lavori della Ferrovia Nord. Sposa Suzanne Stevens, figlia del critico d’arte Arthur Stevens e cugina di Alfred e Joseph Stevens, pittori attivi a Parigi. Stoclet asseconda l’interesse per l’arte della moglie e insieme realizzano una grande collezione di arte in cui sono presenti i «Primitivi», cioè opere di pittori italiani del ’300 e ’400, nonché gli «esotici», ossia stampe giapponesi e anche oggetti di vario genere. Nel 1902 Stoclet si reca a Vienna per riorganizzare la ferrovia Vienna-Aspan e ci rimane due anni. Vede le opere della Wiener Secession, la nuova arte viennese e, attraverso il pittore Carl Moll, divenuto amico della moglie, conosce gli artisti anche personalmente. Ha intenzione di costruirsi una villa nella Hohe Warte, nella nuova zona delle ville, ma nel 1904 viene richiamato a Bruxelles. Non rinuncia alla villa “viennese”, la fa costruire nella sua città invitando gli artisti le cui opere lo hanno colpito per la loro novità, sobrietà e modernità. Per collocare la villa sceglie una zona appena fuori dal centro, il grande viale (Avenue de Tervueren/Tervurenlaan) subito dopo il parco della città. Miksa Schiffer nasce a Budapest nel 1867, si laurea in ingegneria al Politecnico di Budapest e già dal 1891 svolge un’attività imprenditoriale creando una società con i fratelli Vilmos e Mór Grünwald, uomini d’affari nell’edilizia. Sposa la figlia di Vilmos Grünwald e con la moglie, Sarolta Grünwald, creano una grande collezione d’arte basandosi sui consigli del noto storico d’arte Simon Meller. Nella collezione figuravano pitture ungheresi e austriache dell’800, fiamminghe del ’600, sculture in bronzo del Rinascimento e del Barocco italiano e fiammingo, nonché oggetti in porcellana e in argento, tappeti orientali e transilvani2. Prima di decidere di costruire una villa per la sua famiglia, ormai numerosa con le quattro figlie, Schiffer abitava in un grande appartamento sull’elegante viale Sugár (oggi Andrássy), la Champ-Elysées di Budapest progettata e costruita per i festeggiamenti del Millennium (1896). L’ultimo tratto verso il Piazzale degli Eroi e le vie laterali viene popolato da famiglie aristocratiche o di industriali, residenti in ville di uno o due piani, le quali mostrano stili diversi da quello dello storicismo perché vicine alle nuove soluzioni della Szecesszió, l’Art nouveau con evidenti richiami all’arte popolare ungherese. Schiffer decide di costruire la sua villa 2

La ricca collezione è andata persa dopo la morte di Schiffer, avvenuta nel 1944.

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IL GUSTO DEL DENARO. STOCLET E SCHIFFER. HOFFMANN E VÁGÓ

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in quest’ambiente caratterizzato da nuove costruzioni art nouveau, nella vicinanza del Parco della città ma in una via laterale3. Come la vita e la carriera dei due imprenditori s’intrecciano, anche gli architetti si incontrano nella vita e nell’architettura e le loro ville mostrano moltissime affinità. Stoclet invita Josef Hoffmann (1870-1956), uno dei migliori allievi di Otto Wagner, l’architetto viennese che ha rivoluzionato l’architettura a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento4. Schiffer commissiona la costruzione della sua villa a József Vágó (1877-1947)5, uno dei migliori seguaci degli insegnamenti di Otto Wagner nonché amico di Hoffmann. I due architetti si conoscevano, potevano incontrarsi a Vienna o anche a Budapest, tutti e due hanno lavorato per la ditta Prag Rudniker6, la fortunata ditta di sedie e poltrone in vimini che distribuiva i suoi prodotti attraverso i negozi delle grandi città dell’Impero Austro-Ungarico. Inoltre, Hoffmann ha costruito una villa a Budapest, la villa Pikler, nel 1908-09, che è una significativa testimonianza della Wiener Werkstätte, in quanto Hoffmann ha ideato e progettato in tutti i particolari l’edificio e anche tutto l’arredamento. József Vágó nel capitolo su Vienna del suo libro Attraverso le città (Városokon keresztül, 1930) non solo menziona Josef Hoffmann come un assistente divenuto di fama mondiale di Otto Wagner, sottolineando che Hoffmann ha anticipato le semplici forme geometriche dell’arte architettonica costruttiva, ma descrive anche un loro incontro: «Oggi ho pranzato con Josef Hoffmann. Egli è ancora uno dei pioneri, degli avi, degli eroi […]. Abbiamo chiacchierato del più e del meno, della sorte e dei problemi del mondo, della grande miseria degli artisti e dell’arte.»7 Ma questo incontro è molto posteriore alla costruzione 3

via Munkácsy 19/b. A. Sarnitz, Josef Hoffmann 1870-1956. Taschen, Köln 2007 (con apposita bibliografia). 5 A. Lambrichs, Jozsef Vago (1877-1947): Un architecte hongrois dans la tourmente européenne. AAM Éditions, Bruxelles 2003 ; G. Doti – M. L. Neri – Z. Ordasi – M. G. Turco, Un architetto ungherese a Roma. József Vágó 1920-1926. Aracne Editore, Roma 2012 (con bibliografia). 6 La ditta Prag Rudniker fu fondata nel 1877 in Rudnik Galizien (Leopoli, oggi Polonia), nel 1886 la direzione si trasferisce a Vienna. Le fabbriche erano a Vienna, Budapest, Praga e Rudnik. Produceva mobili in vimini con un mercato in tutto l’Impero Austro-Ungarico. Tra i disegnatori della ditta figuravano artisti come p.e. Koloman Moser, architetti come József Vágó, Josef Hoffmann e i suoi allievi come Hans Vollmer, Wilhelm Schidt, l’italiano Josef Zotti e altri. 7 J. Vágó, Városokon keresztül (Attraverso le città). Biró Miklós Kiadóváll, Budapest 1930, p. 73. 4

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

delle loro famose ville, infatti, la conversazione avviene nella seconda metà degli anni ’20, in un periodo quando ambedue gli architetti hanno dovuto affrontare molte difficoltà. Adolphe Stoclet commissiona la costruzione della sua villa8 a Bruxelles a Josef Hoffmann, all’architetto viennese di cui aveva già visto delle opere a Vienna. Hoffmann nella Hohe Warte aveva già costrui­ to ville per Carl Moll e per Kolo Moser nel 1900-1901, la Doppelwohnhaus, nel 1901 la Wohnhaus Spitzer e soprattutto la seconda casa di Carl Moll nel 1906. L’architetto con questi edifici prende le distanze da Wagner, unisce l’insegnamento del grande maestro con quello di Mackintosh sulla casa inglese e con quello che ha visto nel Mediterraneo: forma il suo linguaggio personale che è caratterizzato dalla semplicità che deriva soprattutto dalla variazione delle forme geometriche e dall’uso del colore bianco. Schiffer commissiona la costruzione della sua villa9 a Budapest a József Vágó, architetto, insieme con il fratello László, di importanti palazzi d’abitazione nella zona centrale della capitale. Per József Vágó la villa di Schiffer non è solo il primo lavoro che realizza da solo, ma è anche la prima villa. In nessun documento si trova il motivo per cui Schiffer abbia scelto Vágó tra gli architetti ungheresi esperti anche in costruzione di ville secondo il nuovo stile Szecesszió. Non è da escludere che glielo abbia proposto proprio Hoffmann, ma è probabile che anche Schiffer, impegnato nelle costruzioni di Budapest pure come imprenditore, poteva conoscere Vágó come progettista di numerosi palazzi d’abitazione e anche edifici pubblici a Budapest.10 Gli lascia mano libera e gli mette a disposizione un budget indefinito come ha fatto anche Stoclet con Hoffmann. La libertà di non dover badare alle spese, ma di dover soddisfare il committente nelle sue intenzioni permette a entrambi gli architetti di realizzare un vero Gesamtkunstwerk in cui, superando le decorazioni della Secession, trovano una fusione perfetta le varie arti. Ambedue gli architetti rispondono alla sfida di costruire un capolavoro che coincide con l’idea del committente e anche con la modernità dei tempi. 8

Realizzazione della villa Stoclet: 1905-1911. Realizzazione della villa Schiffer: 1910-1912. Tra i lavori di József Vágó, in collaborazione con suo fratello László (1901-1911), spiccano i palazzi d’abitazione a Budapest (via Síp 16; via Bartók 14; via Visegrádi 17; piazza Boráros 3; via Mester 3; palazzo Gutenberg, 1907, ma soprattutto il Teatrino nel Parco Civico e il Salone Nazionale), in collaborazione con Zsigmond Quittner il palazzo delle Assicurazioni Gresham (1904). Vedi: A. Lambrichs, Jozsef Vago (1877-1947): Un architecte hongrois dans la tourmente européenne. op. cit.; G. Doti – M. L. Neri – Z. Ordasi – M. G. Turco, Un architetto ungherese a Roma. József Vágó 1920-1926, op. cit. 9

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IL GUSTO DEL DENARO. STOCLET E SCHIFFER. HOFFMANN E VÁGÓ

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Stoclet ha chiesto a Hoffmann una casa per la famiglia, oltre che una dimora adatta per una vita di società, un luogo capace di offrire spazi intimi per la vita privata e nello stesso tempo adeguata anche ad ospitare la collezione d’arte e corrispondente alla rappresentanza e alle attività culturali dei coniugi.11 Anche nella villa di Schiffer dovevano trovare spazio gli oggetti d’arte, anche questa villa doveva offrirsi per gli incontri, ma, nello stesso tempo, doveva soddisfare le esigenze di una famiglia assai numerosa per la vita quotidiana.12 Per corrispondere alla tripla funzione richiesta dai committenti, ambedue gli architetti progettano i loro edifici che già nella loro forma e soprattutto nella distribuzione degli spazi interni mostrano notevoli novità. La forma base di entrambe le ville è il rettangolo, completato con il semicerchio, che nel caso della villa Stoclet comprende tre grandi spazi, il grande salone, la sala da pranzo e la sala della musica, mentre nel caso della villa Schiffer, invece, collega al pianoterra il piccolo salotto con il grande salone di forma quadrata e di dimensioni variabili. Hoffmann posiziona questo rettangolo chiuso con varie forme absidali nel centro dell’edificio, Vágó invece, lo sviluppa in senso orizzontale al lato, attaccando la serie di locali al grande spazio aperto della hall. Ma nello stesso tempo, questo corpo dell’edificio costituisce un corpo a sé stante e pure si collega organicamente al cubo che definisce la forma anche della facciata verso la strada unendosi a un semicilindro a due piani, articolato con semicolonne, che sembra quasi una torre. Come nella villa Stoclet, anche nella villa Schiffer la facciata è di forma asimmetrica, ciò rende l’edificio insolito nel contesto delle ville d’epoca. L’alternarsi delle forme geometriche conferisce all’edificio un certo dinamismo. Il rivestimento dei muri mira alla semplicità: ambedue gli architetti si ispirano alle opere di Wagner quando coprono i muri esterni con lastre di marmo bianco senza decorazioni e senza cornici attorno agli infissi. Hoffmann adopera stecche di bronzo per delineare le grandi superfici agli spigoli e ciò costituisce l’unica decorazione dei muri, mentre Vágó gioca con 11

Sulla villa Stoclet cfr. A. Muntoni, Il palazzo Stoclet di Josef Hoffmann, 1905-1911. Bonsignori, Roma 1989; F. Kurrent – A. Strobl, Das Palais Stoclet in Brüssel von Josef Hoffmann: mit dem berühten Fries von Gustav Klimt. Verl. Galerie Welz, Salzburg 1991; G. Fanelli – R. Gargiani, Storia dell’architettura contemporanea. Laterza, Roma-Bari 1998. 12 Sulla villa Schiffer cfr. E. Gábor – I. Nagy – I. Sármány, A Budapesti Schiffer-villa. Egy késő szecessziós villa rekonstrukciója. in E. Gábor, Az Andrássy út körül. Osiris – BFL, Budapest 2010, pp. 353-374.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

le finestre di vario formato. In questo modo i muri sembrano leggeri, superfici quasi “astratti”. La planimetria della villa Stoclet è molto articolata, ma ai singoli piani i vani sono distribuiti senza una gerarchia: si alternano stanze rettangolari e quadrate che terminano in semicerchio. A pianoterra nel centro si trova il grande quadrato della hall a doppia altezza, divisa con snelle colonne in cemento armato, arredata con poltrone in pelle scamosciata, tavoli e altri mobili in legno. Qui sono sistemate le opere d’arte della collezione Stoclet: oggetti di marmo, alabastro, seta cinese, ma opere d’arte sono distribuite anche in altri locali. Dalla hall si giunge nei due locali più importanti per la vita di società: la sala della musica e la sala da pranzo. Hoffmann ne ha progettato tutti i particolari, dalle poltrone rosso porpora al pianoforte Bösendorfer della sala della musica, al grande tavolo e sedie per venti persone della sala da pranzo, nonché il rivestimento delle pareti, il pavimento e i tappeti con i suoi tipici motivi a scacchiera. Hoffmann preparava i bozzetti e faceva realizzare ogni singolo oggetto della casa dagli artigiani del laboratorio Wiener Werkstatte a Vienna e spediva pezzo per pezzo a Bruxelles. Per la decorazione della sala da pranzo Stoclet voleva il pittore più famoso, più amato della Secession Viennese, Gustav Klimt13 (18621918) che realizza un’opera straordinaria: «Su un variopinto prato fiorito cresce una forma arborea ricca di mille rami fortemente stilizzati con uccelli fra i tralci dorati arricciati all’insù, intrecciati a potenti figure. Quest’ultime, soprattutto per l’efficacia e la magnificenza dei colori, dettero a Klimt l’occasione di dimostrare la sua ispirazione decorativa secondo un’arte caratteristica, strana, nuova»14, – così descrive Hoffmann i pannelli a mosaico del suo amico. L’arte si fonde con l’architettura anche all’esterno: la torre emerge organicamente dal corpo orizzontale dell’edificio, si eleva fino a una lanterna di bronzo ornata con quattro statue realizzate dallo scultore Franz Metzner (1870-1919). Anche Vágó colloca il grande salone al pianoterra e lo divide in diversi locali. Ma il cuore della casa è la hall, il primo grande spazio dove si giunge entrando attraverso l’ingresso principale dell’edificio. La hall si sviluppa su due piani, è un vano spazioso e anche luminoso,

13 14

F. Whitford, Klimt. Thames & Hudson, London 1990. G. Neri, La casa modernissima del banchiere Adolphe, in «Il Sole 24 Ore», 25 marzo 2012.

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IL GUSTO DEL DENARO. STOCLET E SCHIFFER. HOFFMANN E VÁGÓ

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dotato di un muro di vetro colorato al lato nord-ovest della villa.15 Da qui si aprono le porte nello studio del proprietario, sempre attraverso un piccolo locale intermedio, e nel grande salone articolato con porte scorrevoli; inoltre, sempre da questa grande hall partono le scale in legno per giungere al piano di sopra dove si trovano le stanze dei coniugi, delle figlie e della loro tata. Questa hall è anche il punto dove si concentrano le grandiose opere d’arte, prima di tutto la parete a nord-ovest con la grande vetrata che evoca l’Arcadia. Questa finestra di vetri colorati di 50 m2 è stata realizzata dal famoso artista di vetri colorati Miksa Róth16 su cartoni di Károly Kernstok17, pittore di grande talento, uno dei migliori esponenti dell’avanguardia ungherese. Nella hall un’altra grande opera pittorica copre quasi un’intera parete, quella sopra il doppio arco delle porte che conducono nello studio del proprietario, il pannello dello stesso Kernstok che rappresenta la figura idealizzata dell’ingegnere moderno identificata con la persona di Schiffer. Di fronte alla grande vetrata, tra le due porte ad arco che conducono nel grande salone, si trova un vaso di marmo di Carrara per le piante posto su colonne, i cui bassorilievi raffigurano figure femminili e maschili. Lo scultore di questo vaso è Vilmos Fémes Beck (1885-1918)18, autore di molte opere scultoree anche in diverse altre costruzioni di Vágó, ma collaboratore a Darmstadt anche di Olbrich nella realizzazione dei suoi famosi mobili. Il centro visivo della hall era costituito dalla vasca di marmo19 rettangolare con due sculture in bronzo dello stesso scultore Vilmos Fémes Beck. Questa vasca non era solo decorativa, ma aveva una funzione pratica: garantiva l’umidificazione necessaria dei locali, cioè neutralizzava l’aria secca emessa dal riscaldamento centralizzato i cui radiatori erano inseriti nel muro sopra le porte in modo che sembrassero decorazioni in armonia con il resto dell’ambiente. Il pavimento della hall è di marmo, decorato con intarsi raffiguranti motivi stilizzati presi dall’arte popolare ungherese come fiori e uccelli. La parete della hall, invece, è coperta di piastrelle verdi di ceramica Le dimensioni della hall sono 13,0 × 9,5 m., l’altezza è di 7,4 m. Miksa Róth, 1865-1944. Artista di vetri e mosaici colorati, diverse volte premiato alle Esposizioni Universali come nel 1902 a Torino, nel 1904 a St. Louis ecc. A Budapest gli è dedicato il museo Róth Miksa Emlékház in via Nefelejcs 26 (www.rothmuseum.hu). 17 Károly Kernstok, 1873-1940. B. Horváth, Kernstok Károly, Budapest 1997. 18 Sullo scultore Vilmos Fémes Beck cfr. l’articolo in Magyar Iparművészet, 1912; I. Nagy, Fémes Beck Vilmos (1885-1918), in Művészettörténeti Értesítő, 1985/3-4. 19 La vasca non c’è più, il suo perimetro è segnato nel pavimento di marmo. 15 16

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

della fabbrica Zsolnay di Pécs, la fabbrica dove si realizzavano le ceramiche colorate di varia composizione20. Da questo vano elegantemente decorato, attraverso le porte ad arco con vetro di cristallo, si entra nel grande salone orientato a sudest, ed è il vano destinato alla vita di società, agli eventi di rappresentanza.21 Il grande salone si articola su quattro vani unificabili attraverso porte scorrevoli. Il locale centrale di 10 × 6 m. costituiva il nucleo principale dove accogliere gli ospiti. Nelle nicchie delle tre finestre sul lato lungo, che sulla facciata si presentano come bow window, un altro elemento tipico delle costruzioni di Vágó, si trovavano dei piccoli box con tavolino e due sedie, mentre nella nicchia di forma quadrata accanto al grande arco dell’ingresso era inserito un set di mobili con sopra il dipinto di József Rippl Rónai (1861-1927) rappresentante la moglie e le quattro figlie di Schiffer nel giardino davanti alla casa.22 Questa soluzione di comporre angoli intimi in uno spazio ampio deriva dall’invenzione dell’Arts and Crafts; in Ungheria, ma nemmeno nelle ville di Vienna si conoscono esempi simili precedenti a questa sistemazione di Vágó. Schiudendo le porte girevoli verso il giardino dietro la villa prima si arrivava nella sala della musica (5 × 6 m.) dopo la quale, sempre attraverso una porta scorrevole, si trovava la sala da pranzo (7,5 × 6 m.) aperta con un balcone verso il giardino23. Al lato opposto, verso il giardino davanti alla villa sempre dal grande salone si apriva il vano rialzato di due gradini che ha la forma di semicerchio, elemento importante anche nella forma esterna della costruzione. Una tale sistemazione dei vani è una assoluta novità nella distribuzione degli spazi nelle ville d’epoca. Vágó abbandona la tradizionale collocazione del salone nel centro dell’edificio e colloca questi spazi in sequenza lungo il lato sud-est della costruzione. A pianoterra si trovava ancora l’ampio studio di Schiffer con un balcone che dava sul giardino verso la strada. Il vano dello studio è

20

M. Millisits (a cura di), Budapest színes város – Zsolnay kerámiák. Catalogo mostra, Ernst Múzeum, Budapest 2006; T. Zsolnay, Zsolnay: a gyár és a család története, 1863-1948. Corvina, Budapest 1980. 21 Dai documenti e racconti sulla vita della famiglia Schiffer si evince che nel salone non sono state organizzate grandi feste con molti ospiti. Comunicazione di Anikó Dvorszky, curatrice della villa. 22 Anche i mobili sono stati realizzati su disegni di Vágó e da artigiani ungheresi. 23 Il tratto della sala da pranzo, con gli appositi piccoli vani contenenti il moderno montavivande elettrico collegato alla cucina sistemato nel seminterrato e quello per preparare i vassoi, è stato modificato, oggi accoglie gli uffici della gestione della villa.

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collocato sopra l’appartamento nel seminterrato24 destinato ai domestici e sopra il semplice ingresso senza decorazioni della villa. Questa parte dell’edificio mostra la forma di un doppio cuboide composto dal quadrato alzato in verticale dello zoccolo che arriva fino al parapetto del balcone e i due piani dell’edificio estesi in orizzontale, mentre il lungo lato a forma quadrata a sud-est dell’edificio si chiude con un semicilindro che comprende il piccolo salone verso il giardino a sud. Unendo queste due forme geometriche Vágó si associa all’idea di mostrare la distribuzione degli spazi interni anche all’esterno e ciò lo avvicina alle soluzioni proclamate dagli architetti dell’architettura moderna che consideravano importante adattare la forma alla funzione. Vágó in tutti gli spazi interni della villa presta particolare attenzione ai particolari: progetta tutti gli arredi, le lampade, i radiatori con la rete che li ricopre, i rivestimenti delle pareti in legno pregiato e decorato con motivi di fiori stilizzati, le porte con le vetrate con motivi floreali, le porte e i mobili con decorazione ad intarsio, le pitture e le decorazioni, le maniglie delle serrature che sono uguali in tutto il palazzo e riportano le iniziali di Miksa Schiffer. Nella serie di finestre a semicerchio del piccolo salotto, come anche su quella dello studio, colloca il monogramma di Schiffer e le figure di colomba, il motivo tipico delle opere dell’architetto. Le finestre con le figure di uccelli su rami con foglie garantiscono un collegamento diretto con la natura del giardino sul quale si aprono. Le camere private dei famigliari del piano primo si susseguono sopra il grande salone e non sono meno elaborate. L’architetto ha progettato gli interni per ogni membro della famiglia secondo le loro esigenze e il loro carattere. Questi interni sono le tre stanze per i figli, le due camere da letto per i genitori e i due bagni.25 Qui lo stile è più vicino all’Art Déco che alla Secession, si nota una semplificazione delle decorazioni che pure rimangono armoniche e sono differenti nelle singole stanze. Gli unici motivi con cui Vágó offre un tributo al maestro Lechner26, con cui ha sviluppato il suo linguaggio personale radicato nel Szecesszió, sono le decorazioni con fiori e uccelli in ceramica di Zsolnay delle colonne del balcone del piano sulla facciata laterale dell’edificio dove gli ornamenti sono ispirati all’arte popolare ungherese. 24 Nel seminterrato erano sistemati l’appartamento dei domestici, la cucina con la dispensa, il vano con la caldaia e la stanza del biliardo. 25 Accanto alle stanze dei figli, dalla scala si accedeva nella stanza della tata. 26 Ödön Lechner (1845-1914), architetto, “padre” del Szecesszió. Cfr. József Sisa, Ödön Lechner. Catalogo mostra, Iparművészeti Múzeum, Budapest 2014.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

Vágó per realizzare quest’opera complessa ha risposto al richiamo della nuova modernità, ha invitato gli artisti con cui condivideva le idee sulla nuova arte e sul nuovo atteggiamento dell’artista. Quest’integrazione delle diverse arti, dall’architettura alla pittura e alle arti applicate rende l’opera di Vágó un maestoso esempio di Gesamtkunstwerk, come anche l’opera di Hoffmann a Bruxelles. Queste due ville costituiscono la testimonianza di un particolare momento dell’architettura e della concezione dell’arte in generale per diversi aspetti: – I due imprenditori, esageratamente ricchi, personaggi della nuova borghesia, figli e loro stessi promotori del progresso industriale ed economico, affidano il loro sogno a due architetti innovatori dell’arte che abbraccia tutti i rami e generi delle arti e le fonde in un insieme armonico. – I due imprenditori, figure dell’era moderna, chiedono un’opera d’arte totale, adeguata alla loro posizione nella società e corrispondente allo spirito dei tempi moderni. Chiedono un’opera che soddisfa tutte le loro esigenze: casa per la famiglia, casa per la rappresentanza, museo per la loro collezione di oggetti d’arte di vario genere. – I due imprenditori, committenti dell’opera, sono aperti alle nuove tendenze dell’arte, anzi, ne diventano protettori e promotori in quanto tutta l’opera viene realizzata nello stesso stile: dall’architettura all’arredamento, agli oggetti vari del moderno design. – I due imprenditori garantiscono totale libertà agli architetti, mettono a loro disposizione un budget indefinito per poter pretendere un capolavoro. – I due imprenditori mostrano totale fiducia nell’architetto, capo e organizzatore di tutti i lavori. – I due architetti, studiando la vita, l’attività, le esigenze e il carattere dei committenti, realizzano opere di straordinaria qualità in cui valorizzano le loro eccezionali capacità e fantasie artistiche ma anche il dovuto senso pratico. – I due architetti, con queste opere speciali, acquistano un ruolo e una posizione particolare nella società moderna. – I due architetti, grazie a questi lavori di così grandi dimensioni che abbracciano tutti i campi dell’arte, diventano le nuove figure dell’architettura moderna, l’architetto che in un Gesamtkunstwerk realizza l’unità delle arti.

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Nella Villa Stoclet e nella Villa Schiffer il gusto e il denaro si incontrano fortunatamente, il committente moderno trova il suo partner nell’architetto moderno e insieme realizzano una straordinaria opera che in tutto corrisponde al richiamo dei tempi moderni.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

1. Villa Stoclet a Bruxelles, 1905-1911, arch: Josef Hoffmann. Foto d’epoca.

2. Villa Stoclet a Bruxelles, 1905-1911, arch: Josef Hoffmann. Stato odierno.

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IL GUSTO DEL DENARO. STOCLET E SCHIFFER. HOFFMANN E VÁGÓ

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3. Villa Stoclet. Planimetria.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

4. Villa Stoclet. Il grande salone. Foto d’epoca.

5. Villa Stoclet. La sala da pranzo. Pannelli decorativi di Gustav Klimt.

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IL GUSTO DEL DENARO. STOCLET E SCHIFFER. HOFFMANN E VÁGÓ

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6. Villa Schiffer a Budapest, 1910-1911. Arch: József Vágó. Foto d’epoca.

7. Villa Schiffer a Budapest, 1910-1911. Arch: József Vágó. Stato odierno.

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

ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

8. Villa Schiffer. Planimetrie.

9. Villa Schiffer. La hall. Vetrata di Károly Kernstok, sculture di Vilmos Fémes Beck. Foto d’epoca.

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IL GUSTO DEL DENARO. STOCLET E SCHIFFER. HOFFMANN E VÁGÓ



10. Villa Schiffer. La hall. Stato odierno.

11. Villa Schiffer. La hall. Le porte per il salone grande e la ringhiera in legno del piano di sopra. Stato odierno.

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

ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

12. Villa Schiffer. Il grande salone. Foto d’epoca.

13. Villa Schiffer. La finestra con motivi floreali e uccelli del piccolo salone al pianoterra. Stato odierno.

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IL GUSTO DEL DENARO. STOCLET E SCHIFFER. HOFFMANN E VÁGÓ



14. Villa Schiffer. Iniziali di Miksa Schiffer sulla finestra del suo studio a pianoterra.

15. Villa Schiffer. La facciata sud-est della villa. Stato odierno.

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CALMA, LUSSO, VOLUTTÀ. MODE E STILI DELLE CASE DI MODA A PARIGI TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

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di Sergio Pace

Ah! Quelle antiquité!!! Oh! Quelle folie que la nouveauté…1 Il y a quelques jours, je vais chez ma couturière, j’y vois des toilettes ravissantes … Je demande pour qui elles sont … «Pour la vicomtesse Lanjuinais» … Hier j’apprend la mort de cette pauvre jeune femme. C’est affreux, on n’a même pas le temps de porter ses robes.2 La mode se démode. Le style, jamais.3

Mentre è alle prese con la normalizzazione della lingua francese e delle arti in genere, il 30 marzo 1675 Luigi XIV trova anche il tempo per normalizzare la professione del sarto. Accanto al mestiere di tagliatore (tailleur), esercitato da uomini e donne per vestire uomini e donne, aggiunge quello di couturière, anzi di maîtresse couturière, opportunamente organizzato in una corporazione, per consentire alle donne d’essere vestite da altre donne, cosa ritenuta plus convenable et bienséant4: unica 1

Didascalia alla cosiddetta Satira sugli Incroyables, incisione su carta, Alexis Chataigner dis., François-Jules-Gabriel Depeuille inc., 1797, Londra: The British Museum, «Prints & Drawings», 1892, 0714.755. 2 «Le Moniteur de la Mode», n. 1, luglio 1870 3 Attribuita a Gabrielle Bonheur (alias Coco) Chanel. 4 Alexandre De Garsault, «Art de la Couturière», in Descriptions des Arts et Métiers, Paris, 1769. Cfr. Janet Arnold, La coupe et la fabrication des vêtements féminins au XVIIIe siècle,

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

eccezione, i fabbricanti di corsetti, necessariamente maschi per la difficoltà fisica di piegare le ossa di balena. Anche così l’alta moda è nata, con i propri riti e le proprie culture, simboliche e materiali: ed è nata a Parigi. Qui prospererà a lungo, fino all’invenzione della modernità. Tutto accade intorno alla metà dell’Ottocento, nell’arco di un paio d’anni: la moda contemporanea nasce in tempi rapidissimi, sempre a Parigi. All’Esposizione Universale del 1855 è presentata con successo la Singer Sewing Machine, brevettata, grazie all’uso di un ago mobile, da Isaac Merrit Singer solo quattro anni prima negli Stati Uniti. Nella stessa occasione Charles Frederick Worth, sarto di nascita inglese ma attivo presso il magasin de nouveauté di Gagelin, al 93 di Rue de Richelieu a Parigi, stupisce il pubblico con un manteau de cour ispirato all’antichità classica5. Sarà questo il biglietto da visita che gli permetterà di entrare in contatto con Pauline von Metternich, moglie dell’ambasciatore austriaco nonché amica e confidente di Eugenia de Montijo, moglie di Napoleone III e dunque imperatrice dei francesi: grazie ai favori di quest’ultima, nel 1864 Worth – che nel frattempo ha aperto, assieme a Otto Bobergh, una maison al numero 7 di Rue de la Paix – è nominato couturier di corte. Nell’arco di un paio d’anni nasce, così, la moda contemporanea, divisa tra una confezione prête-à-porter sempre più invadente, nelle boutiques e poi nei grandi magazzini (impressionante la sequenza d’inaugurazioni: Le Bon Marché nel 1852, il Magasin du Louvre nel 1855, il Bazar de l’Hôtel de Ville nel 1856, Au Printemps nel 1865, La Samaritaine nel 1869)6, e una couture sur mesures concepita per un ceto sociale – per alcuni versi, quasi una casta dominante – composto da donne talvolta dalle straordinarie ambizioni culturali e sociali, nonché dalle disponibilità economiche pressoché illimitate7, da parte un gruppo assai limitato di creatori (maschi) che, a differenza del passato, riesce a inventare e ribaltare modelli e tendenze, senza farsi condizionare del tutto dalla in La mode en France 1715-1815. De Louis XV à Napoléon Ier, Paris: La Bibliothèque des Arts, 1990, pp. 126-134, part. p. 126. 5 Sulla maison Worth cfr. Gaston Worth, La couture et la confection des vêtements de femme, Paris: Chaix, 1895; e Jean-Philippe Worth, A Century of Fashion, 1928; sulla straordinaria collezione di bozzetti e modelli conservati al Victoria & Albert Museum di Londra cfr. anche Valerie D. Mendes, Amy De La Haye (a cura di), The House of Worth 1890-1956: Portrait of an Archive, New York: Abrams, 2014. 6 Michael Miller, The Bon Marché: Bourgeois Culture and the Department Store 1869-1920, New York-London: Princeton University Press, 1981. 7 Octave Uzanne, La française du siècle. Mode, moeurs, usages, Paris: Quantin, 1886; Id., La française du siècle. La femme et la mode: métamorphoses de la Parisienne de 1792 à 1892, Paris: Quantin, 1893.

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CALMA, LUSSO, VOLUTTÀ

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propria clientela ma, anzi, riuscendo a innescare processi di emulazione fino allora inediti8. In questo quadro, Worth diventa il prototipo del couturier contemporaneo soprattutto perché rappresenta l’inversione dei ruoli tra creatore e cliente: adesso è il primo che impone le proprie scelte alla seconda, che può (soltanto) scegliere tra quanto le viene offerto. È una mutazione completa, parallela a quella avvenuta nell’industria dell’abbigliamento: «un articolo che poi diventa di moda non compare solo sporadicamente: al contrario si producono degli articoli perché diventino di moda»9. Da esecutore di abiti, il couturier diviene inventore, creatore: in una parola, artista. Il ritratto fotografico di Worth à la Rembrandt, eseguito da Félix Nadar e pubblicato su L’Illustration nel marzo 1895, non è che la testimonianza ultima di una geniale costruzione o invenzione dell’identità. Ma c’è di più. Worth trasforma anche il modo di presentare gli abiti, introducendo una novità che diverrà essenziale per l’evoluzione degli spazi di una maison. Fino a questo momento, il vestito riesce ad animarsi soltanto quando è indossato da colei che lo compra: prima è destinato all’immobilità del manichino, a grandezza naturale o ridotta, come le poupées de mode – bambole di cera, legno o porcellana che, acquistate a Parigi e diffuse in tutta Europa fin dal Settecento, cambiano d’abito di stagione in stagione10. Con Worth arriva una novità sensazionale: fin dai tempi della sua collaborazione con la maison Gagelin, al termine degli anni quaranta, prende l’abitudine di far indossare gli abiti a una mannequin in carne e ossa (all’inizio sua moglie, Maria Vernet), destinata a defiler davanti alle clienti in estasi. L’abito si anima nelle stanze della maison, davanti agli occhi di clienti ansiose quanto esigenti: d’altra parte, dal punto di vista creativo, ogni vestito adesso è chiamato ad assecondare il movimento di chi l’indossa. Il successo è straordinario, tanto da trasformare la casa di moda da un piccolo laboratorio artigianale in un’azienda che nel 1870 conta oltre mille dipendenti.

8 Elizabeth Ann Coleman (a cura di), The Opulent Era: Fashions of Worth, Doucet, and Pingat, catalogo della mostra (New York: 1 dicembre 1989 – 26 febbraio 1990), New York – London: Thames and Hudson, 1989. Cfr. anche Carlo Marco Belfanti, Civiltà della moda, Bologna: Il Mulino, 2008, pp. 175-177. 9 Georg Simmel, Zur Psychologie der Mode: Soziologische Studie, in «Die Zeit. Wiener Wochenschrift für Politik, Volkswirtschaft, Wissenschaft und Kunst», vol. V, n. 54, 1895, pp. 22-24; trad. it.: La moda, in La moda e altri saggi di cultura filosofica, Milano: Longanesi, 1985, pp. 29-52, part. p. 32. 10 Daniel Roche, La culture des apparences, Paris: Fayard, 1989; trad. it.: Il linguaggio della moda, Torino: Einaudi, 1991, pp. 468-469. In questa prospettiva è difficile prescindere, in ogni caso, da Roland Barthes, Système de la mode, Paris: Seuil, 1967.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

Tra Secondo Impero e III Repubblica, al numero 7 di Rue de la Paix si dà appuntamento una clientela ricca e cosmopolita, protagonista di una sociabilité che anche nel décor dell’appartamento trova uno specchio del proprio decor individuale e collettivo. Non è che, nei decenni passati, le clienti non visitassero le boutiques e gli ateliers delle modiste, distribuite sull’intero tessuto cittadino tra in Rue Montorgueil, Rue des Petits Champs o Rue Sainte-Anne11: tuttavia, ancora agli inizi dell’Ottocento, questi locali dispongono di spazi angusti dove si sovrappongono la lavorazione, la confezione e la vendita. Le nuove modalità di produzione e vendita impongono la definizione di nuovi spazi, dove ogni fase del processo trova il suo luogo, secondo un principio di protoindustrializzazione visibile sia alla piccola sia alla grande scala. Sotto lo stesso tetto sono riuniti i depositi dei tessuti, gli ateliers, le cabine e i salottini di prova, i saloni di vendita, secondo una sequenza che si fa via via più chiara12. Il cuore vero della maison diventa così il salone, dove ricevere le clienti, variazione sul tema del salone dove si ricevono gli ospiti, negli interni della bourgeoisie élégante. E tuttavia non si tratta di spazi identici: le apparenze ingannano, talvolta. Il salone da ricevimento in casa prevede una serie di riti e convenzioni che il salone della maison può escludere, lasciando il posto alla contemplazione degli abiti e, eventualmente, ad atteggiamenti confidenziali. L’universo decorativo, restituito dai diari e dalle lettere delle clienti più affezionate, è straordinariamente old fashioned: il Settecento di Luigi XVI pare ancora presente, nei soffitti dorati come negli arredi tardorococò, nelle boiseries raffinate come nei pavimenti di (finto) marmo. Come in altri luoghi frequentati dall’alta società di fine Ottocento, tuttavia, l’immaginario figurativo racconta solo una parte della storia: la modernità è altrove, ad esempio nelle molteplici fonti di luce, a soffitto o ad abat-jour, che rischiarano la stanza in modo tale da simulare quel che sarà il salone da ballo dove l’abito sarà indossato. Come in altri casi nel corso del lungo Ottocento eclettico, la modernità è nascosta nelle pieghe della distribuzione o degli impianti. Le case di moda parigine non fanno eccezione: di là dai saloni da parata, si svolge una vita complessa, in spazi spesso rigidamente gerarchizzati 11 Paris. Boutiques d’hier, cataogo della mostra (Parigi: 16 maggio – 17 ottobre 1977), Paris: Editions des Musées Nationaux, 1977, p. 27. 12 Christian Zippi, La Casa d’Alta Moda: nascita e affermazione di un allestimento d’interni commerciale, tesi di laurea magistrale in Architettura (relatori: Annalisa Dameri e Sergio Pace), Politecnico di Torino, anno accademico 2010-11, s.n.p.

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CALMA, LUSSO, VOLUTTÀ

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secondo le funzioni di una catena produttiva complessa. Miniaturizzazione di un’organizzazione scientifica del lavoro che tarderà poco ad arrivare, il processo d’ideazione, realizzazione, presentazione e vendita di un abito di alta moda si svolge tutto in spazi chiusi, spesso invisibili, per trovare poi la propria massima visibilità nel salon de vente e nelle stanze adiacenti. Purtroppo le testimonianze non sono mai tanto generose: se si eccettuano le memorie personali, è difficile che gli ambienti di una casa di moda siano raccontati nel dettaglio. Per essere uno dei luoghi emblematici della borghesia urbana di secondo Ottocento, ne rimangono pochissime rappresentazioni superstiti – se naturalmente si eccettua la letteratura, in particolare diaristica13. Una fiorentissima stampa periodica in qualche modo, tuttavia, aiuta. Alla ricerca del tempo fuggevole, fin dal XVIII secolo, sono innumerevoli le riviste che, in Francia, incanalano le correnti del gusto e della moda14. A Parigi «Le Nouveau Mercure Galant» è inaugurata nel 1710, ma è nel 1828 che è creata la prima rivista dedicata agli abiti, all’eleganza e al tempo libero: patrocinata dalla Duchessa du Barry e diretta da Émile de Girardin, «La Mode» è destinata a diventare il testo sacro dell’alta borghesia francese del Secondo Impero15. A questo, tuttavia, si aggiungono innumerevoli giornali, gazzette, settimanali, mensili che dispensano consigli di bon ton a un pubblico assai bene informato, cui spesso sono anche mostrati i modelli degli abiti e delle pettinature più in voga, grazie a bozzetti incisi e per lo più colorati. È attraverso tali sequenze di immagini che è anche possibile ricostruire le ambientazioni in cui tali modelli sono collocati. Nella maggior parte dei casi, si tratta di piccoli dettagli – una ringhiera, una sedia, una scrivania, un pianoforte, un vaso di fiori – che tuttavia consentono di ricostruire un décor de l’interieur che si può presumere appartenga agli immaginari del couturier e della cliente, al tempo stesso. Oltre a quel che si può intravedere nelle pagine delle riviste illustrate, tuttavia, poche altre fonti sono efficaci come un volume pubblicato nel 1910 da uno storico e critico d’arte molto bene informato, Léon Roger-Milès (1859-1928), un artista alla moda, Alfred L. Jungbluth 13 L’esempio più conociuto rimane Émile Zola, Au Bonheur des Dames, Paris: Chrpentier, 1883. 14 Roche, op. cit., pp. 464-500. 15 La rivista è pubblicata fino al 1854 e poi nel 1856-62, con il titolo di «La Mode Nouvelle»: cfr. E. de Grenville, Histoire du journal La Mode, Paris: Bureau du Journal La Mode Nouvelle, 1861.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

(1865-1914) e un fotografo di moda, Jacques Gabriel Agié. Proprio nell’apparato di fotografie, Les Créateurs de la Mode conserva una straordinaria galleria d’immagini, utili per raccontare un mondo ancora misterioso, dietro le apparenze fastose16. Una casa di mode parigina, a fine Ottocento, è l’unione di due mondi separati, che si sfiorano soltanto quando couturier e cliente entrano in contatto. Gli spazi sono separati, differenti: solo al couturier e ai suoi assistenti diretti è dato passare da una parte all’altra del velo, pressoché invisibile, che separa la produzione dalla vendita. Colei che va a trovare il creatore per chiedergli di disegnare un abito per un’occasione qualsiasi è accolta al primo piano della maison, in saloni che molto da vicino dovrebbero ricordare i saloni di casa propria (appunto) o addirittura qualche salone a corte per sfarzo ed eleganza. In genere si tratta di due stanze assai ampie e possibilmente attigue: nel salon de essayage l’abito è prima indossato dalle mannequins, che sfilano per mostrarne i pregi, e quindi misurato sul corpo della cliente medesima; poi il piccolo corteo – il couturier e il suo seguito, la cliente con almeno una dama di compagnia e un’assistente – passa nel salon de vente, dove sono scelti i tessuti, le rifiniture, gli accessori di complemento. Qui si conclude la vendita vera a propria. Nel frattempo, altrove nell’edificio, in ateliers assai più somiglianti a una piccola fabbrica che non ai saloni di una reggia, l’abito è disegnato, lavorato e confezionato. Il contrasto, tra gli stucchi e gli ori dei salons e l’ambiente di lavoro degli ateliers, non potrebbe essere più evidente. Da una parte, regnano incontrastati couturier e cliente, senza che nulla all’apparenza possa turbare un’intesa quasi confidenziale; dall’altra una rigida gerarchia di ruoli e mansioni, tra couturier e lavoranti di varia natura, è riflessa in una sequenza di spazi identificati da destinazioni d’uso inequivocabili, oltre che da una rigida divisione di genere. Disegnatori, ricamatrici, bustaie, modiste, pellicciai, jupières… ciascuno trova il proprio posto di lavoro nei piani superiori della maison, vera e propria piccola casa anche per operaie e operai che passano molte ore al giorno tra quelle pareti quasi domestiche (al punto da offrire, in alcuni casi, un vero e proprio refettorio). Che cosa tiene uniti ambienti tanto diversi tra loro, di là dal deus ex machina del loro creatore? Nonostante le apparenze, salons e ateliers sono ambienti di lavoro, destinati alla produzione e vendita di una merce, sia 16

Les créateurs de la mode. Dessins et documents de Jungbluth, texte de L. Roger-Milès, Paris: Ch. Eggimann, 1910.

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CALMA, LUSSO, VOLUTTÀ

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pure assai sofisticata. Alcuni dispositivi sono identici, ad esempio l’attenzione nei confronti della luce naturale e/o artificiale: con un’applique Luigi XVI o con una lampadina opalescente, con una copertura zenitale vetrata o con una coppia di specchi dorati riflessi l’uno nell’altro, occorre sempre garantire il massimo della visibilità e il minimo delle ombre a chi crea, a chi lavora e a chi compra, indistintamente. Allo stesso modo la disposizione dei singoli elementi di arredo, umili o pregiati che siano, deve garantire la convivenza di molte operaie al lavoro nel medesimo tempo, da un lato, e, dall’altro, la possibilità per le clienti e le loro amiche di guardarsi ed essere guardate con comodità, possibilmente simulando gli ambienti e i decori dove quegli abiti vivranno, durante un ricevimento a corte o una prima all’Opéra. Così, ripercorrendo le stanze di una maison di moda nel secondo Ottocento parigino, si ha la possibilità di osservare un sistema produttivo e commerciale, distributivo e spaziale di grande complessità. In un microcosmo davvero ridotto – raramente una casa di moda occupa più di un hôtel della città hausmanniana – sono disposti in sequenza gli spazi produttivi e amministrativi (come in un’industria), di rappresentanza e di servizio (come in un’abitazione) o, forse ancora meglio, il palcoscenico e il retropalco (come in un teatro). L’architettura asseconda tale dualità, riconducendola a unità solo grazie all’immancabile nozione di carattere, che condiziona tutta l’architettura europea fino alla fine della prima guerra mondiale. La casa di mode, tuttavia, sembra realizzare il sogno eclettico, vestendosi di abiti eleganti là dove è necessario, proprio come le sue clienti. La moda stessa pare lo specchio dell’architettura eclettica, nella misura in cui misura il tempo e lo spazio attraverso una serie d’istantanee. Ogni edificio – piccolo o grande, pubblico o privato, fastoso o modesto – ha quasi il dovere morale di mostrarsi adatto al proprio carattere, vale a dire al tempo e al luogo che è chiamato a interpretare. Una banca non può che sembrare una banca, e così una stazione ferroviaria o un museo: l’apoteosi della nozione di carattere, in modo persino schematico, avviene sul Ring di Vienna, dove ogni cosa appare al suo posto, nel tempo e nello spazio, ma anche nella maison di Charles Worth, dove ogni stanza appare commisurata – nelle dimensioni e nell’ornamentazione – a quel che vi si svolge ogni giorno, secondo un rituale degno di un’azione teatrale ripetuta a ogni replica. Così è la moda, d’altronde. Grazie a una fervida quanto ferrea immaginazione tipologica, ogni occasione ha la propria tenue, e guai a confondere un pranzo con una cena di gala, un abito da dimanche

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

à la champagne con uno da grande soirée all’opera. Essere adatti al luogo e all’occasione in cui ci si trova diventa presto uno dei cardini dell’eleganza parigina, persino al di là del reddito o dell’appartenenza sociale: esattamente come accade in architettura, del resto. Ecco che, nell’abbigliamento come nell’architettura d’interni la questione degli stili storici finisce in secondo piano, utile soltanto per raccontare una storia dell’architettura che sempre più si avvicina a una narrazione darwiniana. Il passato è lì, adatto a qualche circostanza e come tale va inteso e, semmai, riutilizzato: come una foggia o un tessuto. Nell’enfasi creativa dei couturiers tra Secondo Impero e III Repubblica, uno spazio piuttosto rilevante occupano gli abiti (soprattutto da sera o da ballo) che sfoggiano echi di un passato anche lontano. Molto spesso, parti dell’abito – le maniche, ad esempio – sono eredità dirette, anche se decontestualizzate, dell’abbigliamento in voga durante il Rinascimento, il regno di Luigi XVI o il primo Impero: «si [danno] denominazioni antiche a nuove creazioni per iscriverle nella tradizione»17, secondo un’operazione di invenzione o reinvenzione del passato, caratteristiche di un ancien régime che tarda a terminare, nonostante ogni rivoluzione. Tutt’altro che nostalgica, l’architettura come la moda di secondo Ottocento è per se moderna. La moda, in particolare, è etimologicamente moderna, perché racconta il presente in maniera infallibile: «il suo problema non è essere o non essere; la moda è contemporaneamente essere e non essere, essa sta sempre sullo spartiacque di passato e futuro e ci dà, finché in voga, una così forte sensazione del presente come pochi altri fenomeni sanno darci»18. Moderna poiché destinata al tempo presente, al momento. Piuttosto, grazie a feuilletons, elzeviri, illustrazioni, fotografie, quadri, nell’abbigliamento come nell’architettura d’interni finisce per imporsi un’idea di eleganza disinvolta definita chic, con un termine di difficile etimologia che proprio il Secondo Impero lascia entrare nel linguaggio quotidiano: «non è semplicemente essere eleganti, essere fashionable come pure si amava dire. [Lo chic] è soprattutto l’arte consumata di teatralizzare la propria esistenza, ritualizzare la propria vita, codificare i propri discorsi. L’arte d’avere al momento giusto l’atteggiamento e il carattere più convenienti, d’essere là dove è più opportuno mostrar17 Catherine Join-Diéterle, Les derniers feux de la vie de salon, in Ead. (a cura di), Robes du soir, catalogo della mostra (Parigi: 27 giugno – 28 ottobre 1990), Paris: Paris-Musées, 1990, pp. 47-81, part. 76-77 [T.d.A.]. 18 Simmel, op. cit., p. 37.

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CALMA, LUSSO, VOLUTTÀ

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si»19. L’importanza dell’aspetto teatrale della moda, con la conseguente suddivisione in attori e spettatori, è sottolineata da Georg Simmel, nel 1895 acuto osservatore degli spazi fisici e simbolici di una società che ha ritualizzato ormai i propri comportamenti in tal senso: «l’essenza della moda consiste nel fatto di essere praticata solo da una parte, mentre la totalità del gruppo si trova in cammino verso di essa». È lo stile – inteso come carattere della persona, ma anche dell’architettura o dell’abito – quel che interessa la società opulenta tra Secondo Impero e III Repubblica, ed è soprattutto lo stile (di pochi) quel che (a tutti) interessa imitare. Anche da questo punto di vista, a fine Ottocento moda e architettura paiono narrare la stessa storia. Sembra lasciarlo intuire anche Simmel, la cui interpretazione della moda forse può – anche solo provocatoriamente – indicare la strada di un’interpretazione meno convenzionale dell’architettura eclettica. La tensione tra imitazione e distinzione, sottolineata nel 1895 da Simmel per intendere i fenomeni di moda, può aiutare ancora a comprendere come anche l’eclettismo viva sul crinale che separa il permanente dal transitorio, la conservazione dalla trasformazione, la tradizione dall’innovazione. «Tutta la storia della società può essere svolta sul filo della lotta e del compromesso, delle conciliazioni, lentamente conquistate e rapidamente perdute, tra la fusione [die Verschmelzung] con il nostro gruppo sociale e la distinzione individuale [die individuelle Heraushebung]. […] Nell’incarnazione sociale di questi contrasti, un lato di essi è solitamente costituito dalla tendenza psicologica all’imitazione [die Nachahmung]»20. In eterna tensione tra generale e particolare, collettivo e individuale, la moda «integra l’insignificanza della persona, l’incapacità di individualizzare la propria esistenza, con l’appartenere a una cerchia che viene caratterizzata, evidenziata e resa in qualche modo omogenea agli occhi della coscienza pubblica»21. Anche l’architettura eclettica vive della tensione tra l’appartenenza a un genere e l’ostentazione di una propria individualità. Il carattere è proprio quel dispositivo che le consente avere un proprio carattere pur rimanendo sempre conveniente, opportuna, intonata alla circostanza. L’alta società del lungo Ottocento borghese, ereditando dall’aristocrazia di antico regime vezzi e capricci, ricchezze e attitudini ostentate talora fino al Novecento inoltrato, eredita anche dal citoyen della Rivo19 Marylène Delbourg-Delphis, Le Chic et le Look. Histoire de la mode féminine et des mœurs de 1850 à nos jours, Paris: Hachette, 1981, pp. 9-14, part. p. 10 [T.d.A.]. 20 Simmel, op. cit., pp. 29-30. 21 Ivi, p. 43.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

luzione francese la consapevolezza dell’individualità di ciascuno, della capacità di scelta su cui ognuno può contare. L’architettura eclettica vive su questo difficile crinale. D’altronde, molto spesso gli storici dell’architettura si sono affannati a cercare un termine d’inizio per l’eclettismo. Dopo le scoperte ercolanesi, prima della Rivoluzione Francese, a Restaurazione compiuta … l’incertezza regna sovrana. Eppure, forse, un termine può essere individuato in modo facile, a patto – certo – di uscire dal seminato dell’architettura e accettare la sfida di un altro piccolo ragionamento analogico. Il giorno 8 del mese di brumaio dell’anno II, cioè il 29 ottobre 1793, la Convezione Nazionale emana un decreto dedicato «agli abiti delle persone dei due sessi», dove è scritto che «nessuna persona dell’uno o dell’altro sesso potrà costringere un cittadino a vestirsi in maniera particolare» poiché «ciascuno è libero di portare l’abito o l’abbigliamento del suo sesso che gli sembri migliore». Que bon lui semble – in questa piccola formula di libertà, che tiene assieme le idee di opportunità e convenienza, ma anche di piacere e gusto individuale, pare racchiusa l’essenza stessa di architettura svincolata dall’ortodossia del pensiero unico, disposta ad assecondare con molta rapidità ogni cambiamento. «L’universo della moda è forse l’ultima utopia del XIX secolo. Mondo in miniatura, con i suoi eroi, le sue creature e i suoi tenori, i suoi codici dell’apparenza intendono controbilanciare le leggi della realtà politica, economica e sociale. Prodotto del capitalismo trionfante, la moda sembra a ogni istante denunciarne l’astrazione, il rigore e la capacità di dimenticare: quel microcosmo, che il Secondo Impero elabora con una minuzia quasi ridicola, non è soltanto il miraggio che le borghesie desiderano per sognare meglio, bensì il mondo in miniatura su cui si ha l’illusione d’avere presa, dove ci si conosce, e forse il paradiso di tutti i paradisi perduti»22.

22

Delbourg-Delphis, op. cit., p. 66 [T.d.A.].

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LA “MODA” DEI BAGNI DI MARE E I QUARTIERI DI LUSSO PER I TURISTI. IL CASO DI NAPOLI

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di Gemma Belli

Finalmente […] il grande problema balneo marino di questa nostra Città si avvia rapido e sicuro alla sua più splendida soluzione, e Napoli, la Città delle Fate e delle Sirene, per consenso unanime di natura e di uomini si trasformerà fra due o tre anni, al più lontano, nella più affascinante stazione balneare del Mediterraneo; fiera Essa di continuare le tradizioni dell’ineffabile passato, inquadrato nella grande cornice distesa da Cuma e Baia ad Oplonti, Ercolano e Pompei1.

Lanciata dall’aristocrazia inglese, sulla scia degli studi scientifici condotti sui bagni marini, e sul modello delle Spa2, la moda dei bagni di mare si diffonde nel continente soprattutto grazie ai turisti britannici che solcano gli itinerari del Grand Tour 3. Consigliati sin dall’antichità per la cura di numerose malattie, verso la metà del Settecento i bagni iniziano a essere propagandati dal dottor John Floyer, negli stessi anni in cui un altro medico inglese, Richard Russell, costruisce sulla spiaggia di Brighton il Royal Albion Hôtel per sottoporre i suoi pazienti a 1 P. Cozzolino, Napoli Balneare, in Napoli! Storia – Costumi – Igiene – Clima – Edilizia – Risanamento – Statistica – Industria, Cav. Aurelio Tocco Editore, Napoli 1895, p. 93. 2 A partire dalla fortuna della città termale belga, divenuta nel Settecento una meta ricercata dalla nobiltà europea, Spa diviene un termine generico con cui indicare i luoghi del termalismo, dapprima in inglese e poi in altre lingue. 3 Sull’invenzione del mare e sulla nascita della civiltà balneare si vedano soprattutto: G. Triani, Pelle di luna, pelle di sole. Nascita e storia della civiltà balneare 1700-1946, Marsilio Editori, Venezia 1988; A. Corbin, L’invenzione del mare: l’Occidente e il fascino della spiaggia, 1750-1840, Marsilio Editori, Venezia 1990; Id., L’invenzione del tempo libero, 1850-1960, Laterza, Roma-Bari 1996. Per una storia del turismo, oltre agli Annali del turismo curati da A. Berrino, si vedano: P. Battilani, Vacanze di pochi, vacanze di tutti, Il Mulino, Bologna 2001; Ead., Storia del turismo, Laterza, Roma-Bari 2003.

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terapie a base di acqua salina4. La società erudita del tempo comincia così ad avvicinarsi alle spiagge e al mare, e da pratica curativa il bagno si trasforma rapidamente in un vero e proprio evento mondano, dando impulso a un nuovo tipo di socialità che si esplica attorno agli stabilimenti balneari. Questi, oltre a consentire la balneazione, rispondono all’esigenza dei ceti emergenti di godere di nuovi spazi per il loisir. A partire dal 1820 la moda e le tipologie architettoniche balneari si diffondono nei paesi industrialmente più sviluppati e dotati di efficienti vie di comunicazione5, cambiando rapidamente il volto di molti piccoli centri costieri e trasformandoli in città balneari con strutture architettoniche e urbanistiche sino a quel momento inedite. Se, riproponendo l’ideale romantico della natura come mezzo per la purificazione del corpo e dello spirito, la matrice ideologica della città balneare è settecentesca, il suo sviluppo e la sua struttura morfologica e architettonica appaiono tipicamente ottocenteschi. Infatti – rileva Guido Zucconi – la città balneare si costituisce riprendendo i concetti urbanistici delle capitali europee del XIX secolo, sostituendo le architetture monumentali con gli elementi emblematici della cura: il Kursaal, lo stabilimento dei bagni, la promenade assurgono così ad autentici fatti urbani, organizzatori della struttura morfologica della città6. In Italia la moda desta grande curiosità. Il primo trattato pubblicato sul tema nel 1817 offre una traduzione delle teorie di Alexander Peter Buchan7, poi riprese dal medico lucchese Giuseppe Giannelli, autore nel 1833 di un celebre Manuale per i bagni di mare8 e promotore dello stabilimento balneare di Viareggio inaugurato nel 1828. Il primo centro della penisola in cui si pubblicizzano le cure marine è Livorno, dove vengono anche realizzati idonei stabilimenti galleggianti i quali, assieme ai coevi esempi di Viareggio, costituiscono il prototipo della cura all’aria aperta e delle bagnature. Nello stesso periodo la moda 4 Nel 1715 John Floyer (1649-1734) pubblica lo studio The History of Cold Bathing, successivamente all’inchiesta An Enquiry into the Right Use and Abuse of the Hot, Cold and Temperate Baths in England, apparsa nel 1697. Nel 1750 Richard Russell (1687-1759) pubblica De Tabe Glandulari; il volume, scritto in latino, è poi tradotto in inglese nel 1752 con il titolo Glandular Diseases, or a Dissertation on the Use of Sea Water in the Affections of the Glands. 5 Tra i primi stabilimenti che sorgono sulle coste europee va segnalato quello grandioso di Dieppe in Normandia costruito nel 1822, seguito da quelli di Dunkerque e Calais in Francia, quelli tedeschi di Bad Doberan e Varnemünde, e quelli olandesi di Scheveningen. 6 G. Zucconi, La città dell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 146-147. 7 A. P. Buchan, Trattato sopra i bagni d’acqua di mare con osservazioni sopra l’uso de’ bagni caldi del sig. A.P. Buchan. Tradotto per la prima volta in italiano dalla seconda edizione inglese con note del traduttore, dalla tipografia Nistri, Pisa 1817. 8 G. Giannelli, Manuale per i bagni di mare, Ducale Tipografia Bertini, Lucca 1833.

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approda pure a Venezia, dove già due decenni dopo saranno segnalate colonie di bagnanti forestieri. La diffusione del fenomeno e la nascita di nuove località di svago lungo le coste sono incentivati nella seconda metà del secolo dallo sviluppo della ferrovia. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta iniziano a sorgere i primi insediamenti balneari stabili di una certa rilevanza anche a Genova e a Viareggio; e nell’arco di un ventennio il litorale romagnolo vede l’affermarsi di Marina di Ravenna, Riccione, Cesenatico, Cervia e Cattolica, collegate nel 1889 dalla linea ferrata costiera Rimini-Ravenna-Ferrara alla rete padana. Il modello di organizzazione spaziale della vita balneare che si afferma in Italia deriva da quello inglese, sia pure con aspetti specifici. Lo stabilimento è situato in genere su una piattaforma e prevede una serie di camerini separati per sesso. Le piattaforme sono costruzioni stagionali in legno che vengono smontate e ritirate durante l’inverno, essendo la stagionalità delle attrezzature dell’arenile una specifica caratteristica delle coste mediterranee. Collocato sulla spiaggia e collegato al pontile, sorge spesso l’edificio del Kursaal, dotato di sale da ballo e terrazze. Il tutto, con un linguaggio architettonico generalmente ispirato agli stili orientali, rivisitati in un’ottica floreale. Le strutture per alloggiare i villeggianti coincidono dapprincipio con le ville che punteggiano i litorali. All’inizio, infatti, ci si affaccia sul mare con lo stesso spirito con cui ci si reca in «villa» in campagna: la famiglia al completo è, cioè, alloggiata nel villino di proprietà, oppure preso in affitto. Solo in un secondo momento inizia a diffondersi il Grand Hôtel, sistemazione confortevole e di rappresentanza particolarmente adatta a una clientela fluttuante, quale quella rappresentata dalla nuova e dinamica borghesia industriale. Anche a Napoli la pratica dell’idroterapia comincia a diffondersi dalla fine del Settecento. Nel caso specifico la “riscoperta” dell’acqua, sulla scorta delle teorie illuministiche, rappresenta anche un motivo di continuità con le più antiche e gloriose civiltà che lungo il litorale flegreo avevano già intrapreso le pratiche dei bagni termali. I primi bagni sorgono al ponte della Maddalena, a Santa Lucia e al Chiatamone. In epoca murattiana, poi, ne vengono impiantati altri anche nei pressi della Villa Reale, allo “sbarcatoio della Vittoria”, destinati a diventare nell’arco di breve tempo uno dei luoghi più frequentati della città. Con l’affermazione della vita mondana inizia altresì la pubblicazione di «Strenna estiva pei bagnanti e villeggianti», una sorta di diario in cui è descritta la giornata tipica di un soggior-

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no al mare. E si sviluppa pure una moda relativa al vestiario, con indumenti particolarmente complicati, obbligo del cappello di paglia per mantenere la pelle candida (poi sostituito da cuffie da bagno), e scarpette legate ai polpacci da stringhe incrociate9. Di conseguenza durante tutta la prima metà dell’Ottocento nel capoluogo campano si moltiplicano le iniziative per riqualificare gli antichi poli marittimi, attrezzare gli scali cittadini e renderli competitivi con gli altri della penisola e del Mediterraneo. Già con le Appuntazioni per lo Abbellimento di Napoli del 1839 Ferdinando II, oltre a prevedere un collegamento collinare tra la città e l’area occidentale, programma la riqualificazione della fascia litoranea da oriente a occidente, anche con il trasferimento dei pescatori e dei marinai dalle spiagge del Chiatamone, Santa Lucia e Mergellina, da ristrutturare e ampliare, in un nuovo insediamento ipotizzato nella piana di Bagnoli10. Dalla seconda metà dell’Ottocento, poi, non pochi intellettuali avanzano l’idea che Napoli debba trarre dal settore turistico, piuttosto che da quello industriale verso cui sarà orientata, la sua principale fonte di reddito, divenendo una città del loisir sul modello europeo. È interessante osservare come nel capoluogo partenopeo la moda dei bagni di mare si sposi con la ricerca di una moderna struttura per la città e con gli obiettivi perseguiti dalla coeva cultura urbanistica di matrice igienista. Essa è, infatti, capace di contribuire a migliorare la salute dei napoletani, periodicamente afflitti da malattie ed epidemie a causa dalla scarsa pulizia di luoghi e persone. Così, anche molti dei programmi di risanamento urbano, resi particolarmente urgenti dall’epidemia di colera del settembre 1884, accanto allo sventramento delle aree malsane, contemplano la creazione di luoghi atti a rilanciare la città come meta turistico-balneare. Malgrado ciò gli interventi attuati causeranno la scomparsa di quasi tutte le spiagge del litorale, dal Carmine alla Marinella, frequentate fino ad allora da almeno ventimila persone dei ceti più poveri, conservando le sole spiagge di Chiaia e Posillipo, appannaggio delle classi più abbienti11. 9 Cfr. M. Sirago, Matilde Serao e il “saper vivere… marino”. La balneazione a Napoli tra Ottocento e Novecento, La Quercia Editore, Napoli 2010. 10 In tale collegamento è riconoscibile in embrione il corso Maria Teresa (poi Vittorio Emanuele), poi eseguito a partire dal 1853; cfr. A. Buccaro, Architetture e programmi turistico-commerciali per la costa occidentale napoletana tra Otto e Novecento, in A. Berrino (a cura di), Per una storia del turismo nel Mezzogiorno d’Italia. XIX-XX secolo, Secondo seminario, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Napoli 2001, pp. 95-104. 11 In merito al trasferimento degli stabilimenti balneari napoletani esternamente al perimetro della città, «L’Illustrazione italiana» riporta: «negli anni scorsi tutte quelle grosse

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Il desiderio di marcare una svolta nello sviluppo della città in direzione turistico-balneare è talmente forte, che anche taluni progetti volti a risolvere problemi di mobilità evidenziano la chiara volontà di attrarre flussi turistici. Si pensi ad esempio alle famose ipotesi di Adolfo Avena per una funicolare aerea tra via Roma e il corso Vittorio Emanuele prima, e tra via Roma e il Vomero poi, pensata essa stessa come elemento di attrazione, perché in grado di proporre una fruizione diversa della città, dei suoi monumenti e scorci panoramici12, alla stregua della Tour Eiffel o dei ponti americani. Anche in assenza di veri e propri committenti, progettisti e imprenditori, o spesso progettisti-imprenditori, avanzano proposte finalizzate a dare impulso alle attività turistico-balneari. Un’analisi dei progetti, molti dei quali pubblicizzati mediante opuscoli a stampa, lo conferma. Ed evidenzia quante proposte siano “offerte” spontaneamente, al di fuori di ogni incarico, talvolta in relazione a vaghissimi e non vincolanti inviti da parte del Municipio a suggerire idee, testimoniando la solidità della classe professionale dei tecnici e del relativo sapere, e per contro la fragilità degli amministratori e del sistema decisionale13.

baracche in legno, con rara modestia detti stabilimenti balneari, erano in fila lungo la spiaggia della villa; ma ora lì ci hanno fatto una strada lunga, sterminata, monotona che sarà una bella cosa ma che ha fatto sì che per ritrovare gli stabilimenti sullodati bisogna correre sino a Posillipo e Mergellina, perché ve ne sono è vero altri a S. Lucia e al ridotto del Castel dell’Uovo; ma siamo lì, il mondo elegante ha scelto Mergellina, e bon gré mal gré bisogna andar lì a costo di farvi abbrustolire dal sole, ma andarci beninteso in un tram che vi conduce per la vile somma di trenta centesimi»; cfr. Corriere di Napoli, in «L’Illustrazione italiana», 13 agosto 1876, cit. in G. Triani, Pelle di luna…, cit., p. 49. 12 A. Avena, S. Sorrentino, Di una funicolare aerea tra via Roma ed il Corso Vittorio Emanuele, Tip. Economica, Napoli 1885; A. Avena, Di una tramvia elevata a trazione elettrica su viadotto orizzontale, s.n., s.l. 1889; Id., Progetto di una tramvia elevata a trazione elettrica tra Via Roma ed il Corso V. E. dell’Ing. A. Avena, s.n., s.l. 1889; Id., Ferrovia elettrica dalla Galleria Umberto I al Vomero, Tip. Trani, Napoli 1890; Id., Ferrovia del Vomero. Progetto dell’ing. A. Avena, Tip. A. Trani, Napoli 1893. 13 Recenti studi intrapresi da Fabio Mangone hanno messo in luce come nel periodo tra l’Unità d’Italia e il secondo conflitto mondiale a Napoli proliferino molteplici proposte progettuali spontanee che, seppur rimaste su carta, ebbero all’epoca una notevole circolazione, incidendo chiaramente nel dibattito urbanistico. Si vedano in merito: F. Mangone, Chiaja, Monte Echia e Santa Lucia. La Napoli mancata in un secolo di progetti urbanistici, 1860-1958, Grimaldi & C. Editori, Napoli 2009; F. Mangone, Centro storico, Marina e Quartieri spagnoli. Progetti e ipotesi di ristrutturazione della Napoli storica, 1860-1937, Grimaldi & C. Editori, Napoli 2010; F. Mangone, G. Belli, Posillipo, Fuorigrotta e Bagnoli. Progetti urbanistici per la Napoli del mito, 1860-1935, Grimaldi & C. Editori, Napoli 2011; F. Mangone, G. Belli, Capodimonte, Materdei, Vomero. Idee e progetti urbanistici per la Napoli collinare, 1860-1936, Grimaldi & C. Editori, Napoli 2012.

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Così, dopo le ipotesi di ridisegno del waterfront, presentate da Gaetano Genovese nel 1858 e da Errico Alvino nel 186214, nel 1864 Giustino Fiocca illustra un Progetto per lo ampliamento più proprio della città di Napoli con la creazione di un nobile e vasto quartiere e del modo come eseguirlo15. Vi è immaginato un rione per 80 mila abitanti delle classi medie e agiate, prefigurata la sistemazione del lungomare mediante la contrazione della Villa alla sola zona compresa tra piazza Vittoria e San Pasquale, e il suo avanzamento verso la nuova linea di costa creata con una vasta operazione di colmata. Accresciuta nel suo ruolo di centro della socialità e del loisir del quartiere, la Villa vede sorgere proprio «nella parte della riva del mare che sta dinanzi» un grande stabilimento balneare permanente, che sostituisce «quella informe serie di baracche in legname, ove con molto incomodo e non molta decenza si prendono i bagni di mare»16. Il fabbricato è arricchito da un’ampia loggia-belvedere, ideata come un’attrazione per gli stranieri in città, abbellita da piantagioni e giardini a ristoro dei bagnanti, e connotata da un corpo centrale quadrato con esedra e due lunghi bracci laterali estesi parallelamente alla linea di costa. Al progetto di Fiocca segue l’offerta di Antonio Gabrielli, presentata il 15 gennaio 1864, in cui è nuovamente immaginato l’ampliamento della Villa ed è prefigurata la creazione di un lungomare con sei rotonde, la maggiore delle quali destinata a ospitare un complesso costituito da due alberghi e da uno stabilimento balneare. Anche in questo caso il progetto è integrato dalla proposta di realizzazione di un quartiere residenziale signorile a Mergellina. Nel 1873 l’ingegnere francese Émile Pélard presenta un’ipotesi per edificare sulla spiaggia antistante alla Villa Reale uno stabilimento balneare in muratura destinato alle classi agiate, e alla Marinella un altro simile riservato alle classi più povere17. Due anni dopo Errico Alvino, assieme a Ercole Lauria e a Gaetano Bruno, illustra due differenti proposte di sistemazione della Villa. 14

Cfr. A. Buccaro, Architetture e programmi turistico-commerciali per la costa occidentale napoletana…, cit., p. 100. 15 G. Fiocca, Progetto per lo ampliamento più proprio della città di Napoli con la creazione di un nobile e vasto quartiere e del modo come eseguirlo – per Giustino Fiocca, Gaetano Nobile, Napoli 1861. 16 Si veda in merito l’analisi compiuta da Davide Cutolo, in F. Mangone, Chiaia…, cit., p. 96. 17 S. Iandolo, La Villa comunale di Napoli e le sue trasformazioni tra Otto e Novecento, Dottorato in Storia dell’architettura e della città, Università degli Studi di Napoli Federico II, XXIV ciclo, 2011. A tale lavoro si rimanda per la più generale lettura che l’autrice compie del rapporto tra la Villa comunale napoletana e il mare.

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In particolare la seconda (datata settembre), seguendo le indicazioni del Consiglio Comunale, propone una differente riflessione sul tema del lungomare, poiché considera che via Caracciolo, giunta a piazza Vittoria, possa proseguire il suo percorso all’interno della Villa riapparendo al termine: il passeggio lungo il mare viene così riservato ai soli pedoni18. Nello stesso periodo anche Antonio Curri, da poco stabilitosi definitivamente a Napoli, progetta uno stabilimento balneare nei pressi del complesso dell’Ospizio marino19. Nel 1883 Luigi Lops propone la realizzazione del nuovo rione Santa Lucia20. Il suo programma muove da un’accorata presa di coscienza delle condizioni di degrado nella contrada omonima, che con i suoi «cenci e le sue lordure», accostati alle «case e gli alberghi più sontuosi», causa uno stridente contrasto in quello che all’epoca è, nonostante tutto, il più elegante rione della città21. Il disegno prevede l’edificazione di un più modesto quartiere denominato Rione Duca di Genova, in cui trasferire la colonia marinara, e la contemporanea realizzazione del signorile Rione Principe di Napoli. Il primo è concepito come una sorta di falansterio composto da diciassette fabbricati disposti in due file di nove insule, di cui quella centrale doppia è segnata da un loggiato continuo, centro di socialità per i residenti. Il secondo rione, invece, è costituito da edifici di grande dimensione distribuiti lungo la nuova via Principe di Napoli che collega Santa Lucia alla sommità della collina con andamento sinuoso. Connessa al già citato progetto di Lops è la proposta formulata dall’ingegnere Pasquale Cozzolino per un Grande Casino balneare al Chiatamone, pubblicata nel 1886. Infatti, la colmata del porto e la costruzione del nuovo quartiere previsti dal progetto di Lops non avrebbero più permesso l’istallazione durante la stagione estiva delle cabine lignee per i bagni di mare. Cozzolino, pertanto, immagina di realizzare uno stabilimento balneare permanente lungo via Partenope, in corrispondenza dell’istmo di Castel dell’Ovo. La struttura è ritenuta essenziale per attrarre la «larga colonia di quegli esteri che 18

Ibid. Cfr. F. Mangone (a cura di), Antonio Curri: un architetto artista tra Alberobello e Napoli, Electa-Napoli, Napoli 1999. 20 L. Lops, I nuovi rioni Principe di Napoli e Duca di Genova, Furchheim, Napoli 1883. Circa la realizzazione del quartiere Santa Lucia, cfr. F. Mangone, La presenza delle Generali nel quartiere Santa Lucia di Napoli, in «Storia dell’urbanistica», n. 8, 2016, pp. 143-159. 21 Cfr. la relativa scheda curata da Davide Cutolo, in F. Mangone, Chiaia…, cit., p. 105. 19

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nell’oggi appena salutano questa Città, senza rimanervi a lungo»22. L’area prescelta si estende per 10 mila metri quadrati e su di essa è prevista la realizzazione di cabine, in muratura e in legno, capaci di ospitare sino a 10 mila bagnanti al giorno. La platea è di forma rettangolare, con avancorpi a emiciclo sul mare, ed è collegata alla soprastante via Partenope da rampe carrabili e gradonate. Al centro è collocato lo stabilimento vero e proprio, esteso su un’area di 4 mila metri quadrati, e articolato in numerosi ambienti distribuiti attorno a una grande rotonda centrale, su cui si innestano esedre e porticati culminanti in giardini con fontane e torri-minareto ai lati. Il tutto con un lessico memore dell’esotismo arabeggiante già visibile nel progetto del Palazzo di cristallo di Lamont Young. Poiché la finalità del progetto non è solamente quella di creare una «attraente casa di salute, per tutte le sorte di bagni igienici e medicamentosi»23, ma di richiamare in città in tutte le stagioni una proficua colonia di forestieri e provinciali, il programma funzionale persegue una notevole flessibilità degli spazi: la rotonda centrale, ad esempio, può essere adibita a teatro o circo equestre nella stagione invernale, ospitando un’ampia piscina natatoria in estate. Gli altri ambienti sono poi studiati all’insegna del benessere fisico o del loisir: dagli spazi per i bagni medicamentosi ai luoghi per le attività sportive, dalle sale di lettura ai caffè e ai ristoranti aperti su ampie terrazze panoramiche. Due anni dopo Cozzolino pubblicherà un altro opuscolo intitolato Relazione sopra i tre stabilimenti balneari a costruirsi, in seguito alla concessione del 4 settembre 1888 con cui il Comune gli affida la costruzione di tre stabilimenti balneari, sulla base del progetto di massima precedentemente approvato24. Gli impianti vengono collocati alla Maddalena, al largo della Vittoria a Chiaia e a Posillipo nei pressi del palazzo Donn’Anna. Quello di Chiaia è l’edificio maggiore: eretto su una banchina di circa 35 × 125 metri, accoglie una molteplicità di funzioni all’interno dei numerosi ambienti, distribuiti attorno a una grande rotonda centrale, simile a quella già prevista nel progetto del casino al Chiatamone. L’ingresso principale è segnato da un’esedra che intende richiamare il motivo della terrazza presente lungo via Caracciolo. Da qui due porticati, uno pedonale e l’altro carrabile, raggiungono il cuore dell’edificio, il cui livello superiore è servito da due grandi scale di accesso. L’ampia 22

P. Cozzolino, Napoli Balneare…, cit., p. 95. Id., Grande Casino balneare al Chiatamone…, cit. 24 Id., Relazione sopra i tre stabilimenti balneari a costruirsi (concessione 4 settembre 1888), De Angelis, Napoli 1888. 23

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rotonda centrale, rivestita con pannelli di legno colorati e protetta da idonei velari di copertura, è concepita come sala d’aspetto e disimpegno tra i camerini e i locali da bagno retrostanti, ma può anche essere adibita a sala teatrale o circo equestre. Tra la rotonda e l’accesso allo stabilimento da via Caracciolo trovano poi posto caffè, ristoranti, sale da lettura, da biliardo e fumoirs. Le ali dei bagni prevedono ancora lunghi ballatoi (connessi al corpo centrale in virtù di piccole rotonde), i quali distribuiscono gli spogliatoi «sulla destra per le donne, sulla sinistra per gli uomini». Infine, gli specchi d’acqua in corrispondenza di ogni ala sono articolati in numerose vasche indipendenti da una serie di setti divisori. Nel frattempo, nel 1883, Lamont Young aveva illustrato la celebre proposta di Ferrovia Metropolitana e Campi Flegrei25, prevedendo attrezzature di soggiorno e svago proprio sui terreni che saranno occupati dall’Ilva ai primi del Novecento. Accanto al progetto di una ferrovia metropolitana costituita da due tronchi (uno a servizio della città bassa, l’altro a servizio della città collinare), il geniale architetto di origini britanniche ipotizza la realizzazione dei rioni Venezia e Campi Flegrei. L’obiettivo è quello di trasformare la città in una stazione balneare e climatologica a livello europeo, per attirare una facoltosa clientela, mediante creazione di un paesaggio artificiale, così come anni prima avevano fatto Jean Alphand alle Buttes-Chaumont (1867) o Frederick Law Olmsted al Central Park di New York (1858). Il Rione Venezia è, infatti, il risultato dell’espansione della città lungo la costa di Posillipo, eseguita mediante un’imponente colmata a mare. La via Caracciolo è prolungata per circa 1500 metri e i nuovi suoli vengono suddivisi in undici isole, separate da canali comunicanti che garantiscono alle costruzioni preesistenti di conservare un accesso diretto al mare. Su ogni isola i blocchi edilizi occupano una superficie pari a 1/4 della disponibile, essendo sempre circondati da giardini. Mediante un traforo-canale il rione Venezia è collegato al nuovo quartiere dei Campi Flegrei: una “struttura” mista di abitazioni, architetture espositive e per il divertimento, ubicata nella zona di Coroglio, dotata all’epoca di un bellissimo panorama, di mare limpido, di una straordinaria distesa di sabbia e di un’importante presenza di acque termali. La sistemazione del rione è il frutto di una straordinaria invenzione dell’architetto. Essa prevede un’articolazione in cinque aree terrazzate, leggermente in pendio e digradanti verso il mare con salti di quota di circa 8 25

L. Young, Ferrovia Metropolitana e Campi Flegrei, Tipografia Angelo Trani, Napoli 1883.

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metri. Su una superficie di oltre 170 ettari sono distribuite differenti tipologie edilizie: dalle residenze multipiano di lusso ai villini; dalle istallazioni idroterapiche per lo sfruttamento delle acque termali agli stabilimenti balneari; dagli alberghi agli edifici per esposizione. Anche in questo caso il rapporto tra superficie coperta e scoperta è circa 1/4: attorno agli edifici sono, infatti, immaginati ampi polmoni di verde, oltre a sei vasti giardini pubblici, tra cui uno tropicale, uno all’inglese e un altro all’italiana. In posizione baricentrica tra la spiaggia e le sorgenti minerali, e nei pressi della stazione della metropolitana, sorge l’albergo, ispirato sia ai modelli costruiti in Inghilterra in corrispondenza dei terminali delle ferrovie, che agli hôtel sorti nelle grandi località balneari americane26. Lo stabilimento per i bagni marini è invece caratterizzato da una struttura articolata in tre corpi di fabbrica: il primo è ubicato sulla spiaggia a 20 metri dalla riva; il secondo è eretto direttamente in mare e il terzo funge da elemento di raccordo tra i due. Il primo blocco comprende l’ingresso e le due ali adibite a spogliatoi, realizzate parte in muratura e parte in legno. Esso prevede un accesso diretto al mare senza attraversare la spiaggia, perché le ali si prolungano verso l’acqua per una lunghezza di circa 60 metri, concludendosi ciascuna in una piattaforma ottagonale con scale per la discesa diretta. Lo stesso scopo è perseguito grazie a un ulteriore prolungamento in acqua del passeggiatoio che termina con uno spiazzo circolare munito di scale per i nuotatori. Le ali abbracciano anche un tratto di spiaggia dove un’armatura in ferro sostenuta da colonne in ghisa avrebbe consentito nella stagione estiva l’uso di tendaggi per proteggere i bagnanti dal sole. Sono previsti in maniera simmetrica servizi raddoppiati: conformemente agli usi italiani Young destina un’ala alle donne e ai ragazzi, e l’altra agli uomini. Nell’ipotesi che tale abitudine possa modificarsi con il tempo, «e vincendo i vecchi pregiudizi, uniformarsi [alle usanze] di altre contrade», l’architetto progetta però di conservare un canale di comunicazione tra le due spiagge per mantenere separati e disgiunti gli spogliatoi, ma permettere ai bagnanti l’accesso dall’una all’altra spiaggia. Il secondo corpo di fabbrica si compone di due edifici simmetrici distinti anch’essi per sesso, con piscine private e collettive, un vestibolo 26

Cfr. G. Alisio, Lamont Young. Utopia e realtà nell’urbanistica napoletana dell’Ottocento, Officina Edizioni, Roma 1978, pp. 47-55.

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d’ingresso e un salone d’attesa: quest’ultimo si affaccia su un molo che, alto un metro rispetto alla superficie dell’acqua, si protrae per circa 400 metri, concludendosi con un’ampia rotonda. Tale pontile è inoltre percorso in tutta la sua estensione da una teoria di colonnine in ghisa, che sorreggono una terrazza direttamente raggiungibile dall’esterno da tutti i frequentatori dei Campi Flegrei. Questa struttura, che prevede anche una serie di scalette per la discesa a mare, evidenzia la volontà di creare un luogo con una visuale privilegiata verso i Campi Flegrei, il golfo e le isole, e al contempo il rione progettato dall’architetto. Il terzo edificio è quello da cui si diramano tutti i differenti corpi di fabbrica: il suo nucleo adibito a caffè e ristorante sorge attorno a un grande giardino, mentre dalle sue coperture si raggiunge la pensilina in ferro sul mare. Riguardo ai materiali va sottolineata la dicotomia ancora irrisolta tra architettura e tecnologia, per cui spesso i nuovi materiali sono generalmente impiegati nelle sole coperture e nelle strutture provvisorie e utilitarie27. Nel 1915 Lamont Young progetterà anche un enorme complesso alberghiero a Pizzofalcone. Questo prevederà al livello inferiore un palazzo per uffici dalle desuete forme neorinascimentali, e alla quota della collina un Grand Hôtel dalle forme neoindiane, con elaborate decorazioni in maiolica, bow-vindows e un’enorme cupola-belvedere con struttura in ferro memore del padiglione di Brighton28. Nel 1887 viene pubblicato dall’ingegnere Giulio Dary e dall’imprenditore Laforest il progetto di nuovi quartieri nell’area delimitata tra porto Sannazaro e la spiaggia di Coroglio29. Mantenendo inalterata la posizione della Villa comunale, il progetto prevede una vasta colmata per costruire un quartiere residenziale da destinare alle classi aristocratiche e «alle ricche colonie di stranieri, cui si intende offrire piaceri e distrazioni che trovansi altrove, ma che qui mancano completamente […] tutte quelle comodità che gli stranieri riuniscono nella sola parola “comfortable”»30. I rioni per i marinai vengono spostati nel tratto tra capo Posillipo e Coroglio, cosicché il nuovo quartiere di lusso può disporsi su una superficie di circa 450 mila metri quadrati con circa 20 chilometri di nuove strade. Esso risulta separato dalle costruzioni esistenti sulla collina di Posillipo da un canale navigabile 27

Ibid. Ivi, pp. 99-102. 29 G. Dary, J. Laforest, La nuova Napoli. Progetto di nuovi rioni fra porto Sannazaro e la spiaggia di Coroglio, Stabilmento Tipografico Fratelli Ferrante, Napoli 1887. 30 Ivi, p. 4. 28

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ampio circa 50 metri. Lungo la nuova linea di costa è ipotizzata una strada lungomare estesa per circa 3 chilometri, segnata nel suo sviluppo da un fronte uniforme di edifici con terrazze. Il quartiere è poi dotato, in termini di loisir, di un «vasto stabilimento di piaceri»31, sul modello delle stazioni balneari e termali europee, con teatro, casinò, circo monumentale, e interamente circondato da giardini. La ricca articolazione si riferisce pure in questo caso al modello offerto dal padiglione di Brighton e pure lo skyline ne evoca il linguaggio improntato all’architettura orientale. Pur non parlando espressamente di quartiere per i turisti, anche il progetto di Nicola Daspuro, Gennaro Sommella e Luigi Lops32 si pone come obiettivo la trasformazione di Napoli in una stazione balneare di prim’ordine, sostenendo lo sviluppo della città nel versante occidentale. Asse portante del disegno è un lunghissimo rettilineo carrabile di circa 7 chilometri (ispirato all’asse ferroviario della Ciudad lineal disegnata da Arturo Soria y Mata nel 1882), il quale partendo dall’angolo tra via Partenope e il Chiatamone raggiunge la costa di Bagnoli generando tre differenti zone di ampliamento, di cui due interne alla città e una esterna, progettate come altrettante piccole città autonome, e complessivamente destinate a 30 mila persone. Di queste la prima, ricavata con una cospicua colmata a mare nella conca di Chiaia e caratterizzata da un tessuto edificato disposto su grossi lotti, viene destinata a un quartiere per ceti abbienti. Nello stesso anno gli ingegneri Gustavo Scielzo ed Eduardo Talamo pubblicano un progetto fondato sul prolungamento di via Caracciolo33, «la più bella passeggiata che forse esista in Europa»34, sino al capo Posillipo. Come nel progetto Dary-Laforest, nell’area del porto Sannazaro è previsto un nuovo rione di lusso di eccezionale bellezza per le classi agiate e per i turisti35, nel quale si coniughino bellezze della natura e ricercatezze della vita moderna. La nuova litoranea, larga ben 20 metri, nasce in corrispondenza del porto Sannazaro e raggiunge il capo Posillipo con un percorso di circa 3 chilometri, opportunamente protetto dal mare da una scogliera e da un molo. 31

Ivi, p. 12. N. Daspuro, G. Sommella, L. Lops, Excelsior: ampliamento della città di Napoli, Bellisario, Napoli 1887. 33 G. Scielzo, E. Talamo, La via Caracciolo prolungata fino al Capo di Posillipo: progetto di un nuovo rione, degl’ingegneri Gustavo Scielzo ed Eduardo Talamo, Stab. Tip. De Angelis & figlio, Napoli 1887. 34 Ivi, p. 4. 35 Ibid. 32

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Parallelamente, in posizione interna, corrono altre due arterie ampie 20 metri. A metà del percorso della banchina litoranea è poi previsto un suo prolungamento per circa 70 metri a creare una vasta area verde con stabilimenti balneari e discese a mare. Questo nuovo «centro di vita e movimento»36 viene anche arricchito da una piazza con politeama e da altri due slarghi pubblici con giardini. Il caso di Napoli si presenta dunque interessante per osservare come l’“invenzione” del mare e la diffusione della moda dei bagni offrano innumerevoli sollecitazioni al progetto urbano. Richiedendo appositi spazi per la pratica della balneazione, cui si pensa pure in momenti particolarmente difficili nella storia della città, come l’epidemia di colera del 1884; ma anche con la pianificazione di adeguate strutture ricettive: tanto i Grand Hôtel, quanto quartieri capaci di proporsi come attrazione per i turisti, o a essi esplicitamente destinati. La forma urbis persegue principi di eleganza, di decoro, di seducente modernità, talvolta di valorizzazione delle vedute paesistiche. Il tutto con un atteggiamento spesso molto disinibito nei confronti delle preesistenze. Tali quartieri, così come in altre città balneari del Mediterraneo, fanno coincidere il proprio baricentro funzionale con lo stabilimento dei bagni, che accentra una molteplicità di funzioni nate all’insegna di un utilizzo terapeutico delle risorse marine37. Ma soprattutto, necessitando di spazi ampi e salubri, parchi e giardini, attrezzature e attrazioni obbligatoriamente poste in prossimità della spiaggia, sono pensati in contrapposizione al vecchio centro, che con il suo corredo di vicoli e di disordine pittoresco non è in grado di accoglierli. Così a Napoli la ville balnéaire è sempre programmata “accanto” alla città esistente, prediligendo il versante occidentale della città, deputato ad accogliere lo sviluppo dell’edilizia borghese in generale. E se il tema della residenza è sviluppato preferendo l’idea di nouvelle ville come ardita sfida della tecnica alla natura, e tale sfida è spesso simboleggiata anche dall’organizzazione razionale del suolo, è interessante osservare che il rapporto intessuto con la spiaggia si rifà preferibilmente all’esempio offerto dalla Promenade des Anglais di Nizza. Quel lungomare carrabile che circa un secolo dopo l’urbanista Luigi Piccinato non esiterà a definire l’«illustre capostipite della nutrita discendenza straripata in Italia […] [e che] se logico a Nizza, come 36 37

Ivi, p. 6. G. Zucconi, La città dell’Ottocento..., cit., pp. 146-147.

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teatro del passeggio promiscuo di pedoni e ornatissimi cocchi dei ricchi villeggianti, […] diviene assurdo oggi trasformato in una Indianapolis in miniatura, ove ha libero sfogo la maleducata esuberanza di centauri e automobilisti»38. Un modello che diverrà dunque fecondo nel territorio italiano, generando spesso tra mare e retroterra una vera e propria cesura amplificata dal traffico veicolare.

38

L. Piccinato, Frenesia di litoranee, in «Italia-domani», 4 gennaio 1959, ora in Id., Scritti vari. 1925-74, 1975-77, s.e., Roma 1977, 3 voll., pp. 1115-1117.

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1. Napoli, stabilimenti balneari a Santa Lucia, foto di fine Ottocento.

2. Napoli, stabilimenti balneari a Posillipo, foto di inizi Novecento.

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3. G. Fiocca, Progetto per lo ampliamento più proprio della città di Napoli con la creazione di un nobile e vasto quartiere e del modo come eseguirlo, 1864. Planimetria.

4. E. Alvino, E. Lauria, G. Bruno, Proposte per la sistemazione della Villa comunale e di piazza Vittoria, settembre 1875. Planimetria.

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5. L. Lops, I nuovi rioni Principe di Napoli e Duca di Genova, 1883. Planimetria.

6. P. Cozzolino, Progetto della grande Stazione Balneare Marina alla Vittoria, 1888. Veduta prospettica.

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7. L. Young, Ferrovia Metropolitana e Campi Flegrei, 1883. Rione Campi Flegrei: una veduta del lago grande con l’albergo Termine e gli edifici dello stabilimento termo-minerale.

8. L. Young, Ferrovia Metropolitana e Campi Flegrei, 1883. Rione Campi Flegrei: lo stabilimento balneare.

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LA “MODA” DEI BAGNI DI MARE E I QUARTIERI DI LUSSO PER I TURISTI

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9. L. Young, Ferrovia Metropolitana e Campi Flegrei, 1883. Rione Campi Flegrei: la spiaggia riservata alle donne nello stabilimento balneare.

10. L. Young, Ferrovia Metropolitana e Campi Flegrei, 1883. Rione Campi Flegrei: lo stabilimento balneare e il lungo pontile con Posillipo e Nisida sullo sfondo.

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11. L. Young, Grand Hôtel Monte Echia, 1915. Foto del plastico.

12. G. Dary, J. Laforest, La nuova Napoli. Progetto di nuovi rioni fra porto Sannazaro e la spiaggia di Coroglio, 1887. Planimetria.

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13. G. Dary, J. Laforest, La nuova Napoli. Progetto di nuovi rioni fra porto Sannazaro e la spiaggia di Coroglio, 1887. Veduta prospettica.

14. N. Daspuro, G. Sommella, L. Lops, Excelsior: ampliamento della città di Napoli, 1887. Planimetria.

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ARCHITETTURA DELL’ECLETTISMO

15. G. Scielzo, E. Talamo, La via Caracciolo prolungata fino al Capo di Posillipo: progetto di un nuovo rione, degl’ingegneri Gustavo Scielzo ed Eduardo Talamo, 1887.

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GLI AUTORI Gemma Belli, architetto, dottore di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica, è ricercatore universitario di Storia dell’Architettura. Insegna Storia dell’Urbanistica al Dipartimento di Architettura della Scuola Politecnica e delle Scienze di Base dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Simonetta Ciranna, architetto, dottore di ricerca in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici, è professore associato di Storia dell’Architettura. Insegna Storia dell’Architettura al Dipartimento di Ingegneria civile, edile-architettura, ambientale dell’Università degli Studi dell’Aquila. Mauro Cozzi, architetto, è professore associato di Storia dell’Architettura. Insegna Storia dell’Architettura presso la scuola di Ingegneria dell’Università degli Studi di Firenze. Elena Dellapiana, architetto, è professore associato di Storia dell’Architettura. Insegna Storia dell’Architettura e del Design al Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino. Andrea Maglio, architetto, è professore associato di Storia dell’Architettura. Insegna Storia dell’Architettura al Dipartimento di Architettura della Scuola Politecnica e delle Scienze di Base dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Zsuzsanna Ordasi, dottore di ricerca, storica dell’arte, è professore associato presso l’Università degli Studi di Eötvös Lóránd (ELTE, Budapest, Ungheria). Insegna Storia dell’Architettura contemporanea. Sergio Pace, architetto, è professore ordinario di Storia dell’Architettura. Insegna Storia dell’Architettura al Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino.

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GLI AUTORI

Luciano Patetta, architetto, è professore emerito di Storia dell’Architettura al Politecnico di Milano. Massimiliano Savorra, architetto, dottore di ricerca, è professore associato di Storia dell’architettura. Insegna Storia dell’Architettura all’Università degli Studi del Molise.

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Ornella Selvafolta, architetto, è professore ordinario di Storia dell’Architettura. Insegna storia dell’architettura 2 alla Scuola di Ingegneria edile-Architettura del Politecnico di Milano.

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Problemi e metodi di architettura

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N. Cross, L’architetto automatizzato E. Panofsky, Architettura gotica e filosofia scolastica P. Steadman, L’evoluzione del design L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), L’architettura dell’eclettismo. La diffusione e l’emigrazione di artisti italiani nel Nuovo Mondo L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Tradizioni e regionalismi. Aspetti dell’eclettismo in Italia L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Il mito del progresso e l’evoluzione tecnologica L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Il disegno e le architetture della città eclettica P. Ramacciotti, Strutture e sistemi del messaggio architettonico F. La Regina, Il restauro dell’architettura, l’architettura del restauro L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Architettura dell’eclettismo. La dimensione mondiale L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Architettura dell’eclettismo. Il rapporto con le arti L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Architettura dell’eclettismo. Il rapporto con le arti nel XX secolo L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Architettura dell’eclettismo. Il rapporto tra l’architettura e le arti (1930-1960) L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Architettura dell’eclettismo. Il teatro dell’Ottocento e del primo Novecento. Architettura, tecniche teatrali e pubblico L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Architettura dell’eclettismo. Il dibattito sull’architettura per l’Italia unita, sui quadri storici, i monumenti celebrativi e il restauro degli edifici L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Architettura dell’eclettismo. Studi storici, rilievo e restauro, teoria e prassi dell’architettura L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Architettura dell’eclettismo. I grandi protagonisti L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Architettura dell’eclettismo. Ornamento e decorazione nell’architettura L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Architettura dell’eclettismo. Esiste un eclettismo contemporaneo? Moderno e postmoderno A. Laurìa (a cura di), Piccoli Spazi Urbani. Valorizzazione degli spazi residuali in contesti storici e qualità sociale L. Mozzoni, S. Santini (a cura di), Architettura dell’eclettismo. Il gusto e la moda. Progettazione e committenza

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I

termini gusto e moda, escludendo atteggiamenti e scelte d’élite d’epoche più lontane, appaiono ripetutamente a cominciare dal Settecento e – usati in forma dispregiativa nelle polemiche contro il Barocco – assumono una dimensione addirittura invadente nell’Ottocento, in particolare in occasione delle Esposizioni internazionali a cominciare da quella di Londra nel Crystal Palace del 1851. Eppure gusto e moda, presenze dominanti nell’architettura di palazzi e ville per la ricerca del lusso, nuova categoria estetica della committenza borghese della seconda metà dell’Ottocento, resteranno fuori dalle grandi polemiche dei critici e degli architetti sull’Eclettismo, e saranno ritenuti estranei alla problematica e teoria dell’architettura.

ISSN 1972-0289



PROBLEMI E METODI DI ARCHITETTURA 21

L S

oretta Mozzoni, direttrice di Pinacoteca, storica dell’arte, è autrice, in particolare, di pubblicazioni su Lorenzo Lotto.

tefano Santini, architetto, è dottore di ricerca in Ingegneria edile-Architettura.

In copertina: L. Young, Ferrovia Metropolitana e Campi Flegrei, 1883. Rione Campi Flegrei: una veduta del lago grande con l’albergo Termine e gli edifici dello stabilimento termo-minerale.

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