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Italian Pages 766 [767] Year 2022
RES II
Reports, Excavations and Studies of the Archaeological Unit of the University G. d’Annunzio of Chieti-Pescara volume II
Archaeologiae Una storia al plurale Studi in memoria di Sara Santoro
a cura di
Sonia Antonelli, Vasco La Salvia, Maria Cristina Mancini, Oliva Menozzi, Marco Moderato, Maria Carla Somma
Archaeologiae Una storia al plurale Studi in memoria di Sara Santoro
a cura di
Sonia Antonelli, Vasco La Salvia, Maria Cristina Mancini, Oliva Menozzi, Marco Moderato, Maria Carla Somma
Archaeopress Archaeology
Archaeopress Publishing Ltd Summertown Pavilion 18-24 Middle Way Summertown Oxford OX2 7LG www.archaeopress.com
ISBN 978-1-80327-104-0 print edition ISBN 978-1-80327-297-9 (ebook)
© Università degli studi G. d’Annunzio and Archaeopress 2022
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Sommario Giuliano Volpe
Sara Santoro tra impegno universitario e impegno civile
Massimo Bianchi
Sara’s Long Wave
Sezione I
Semata, Schemata, Topoi
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9
Carmine Catenacci
Sappho, a vase painting and the poetry of parting
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11
Umberto Bultrighini
Scavi e scoperte, autopsia e ‘allopsia’ nella Periegesi di Pausania
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15
Elisabetta Dimauro
Pausania, 6.21.3-5: radici e disfatta di un pregiudizio
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23
Vincenzo d’Ercole
Il mito nel mondo italico: dalle spade dei Re ai semata dell’immortalità
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37
Patrizio Domenicucci
Cyrenaica and Latin Poetry
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49
Claudia Angelelli
Il mosaico fa la data? Possibilità e limiti di utilizzo degli schemi geometrici come indicatori di cronologia assoluta: il caso dei mosaici “severiani”
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55
Jeanne Marie Demarolle
Iconographie et épigraphie dans l’art funéraire gallo-romain: les vétérans en Gaule de l’Est
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67
Ferran Gris, Joaquín Ruiz de Arbulo
El Arco de Bará (Tarraco, Hispania citerior). Recuperando la imagen y el sentido de un monumento romano
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77
Raffaella Morselli
Guido Reni e lo studio della statuaria classica: metamorfosi dei modelli antichi
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89
Maria Giulia Aurigemma
Disegni, appunti, lezioni ed esposizioni per l’antico (e per il moderno) di un architetto francese tra fine ‘700 e inizio ‘800
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93
Ettore Janulardo
Arti e architetture italiane degli anni Trenta nella ricerca archeologica mediterranea: esempi dalla Libia e dall’Albania
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111
Oliva Menozzi
Kyrenaika Semata: ‘iconographic topoi’ between classical schemata and local tradition
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119
Sezione II
Archeologia in Adriatico
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139
Francis Tassaux
Archéologie, géographie et histoire de l’Adriatique antique, entre mer, lagunes, collines et montagnes
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141
Sandro De Maria
Cultura greca, maestranze provinciali e senatori peregrini a Suasa
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155
pag.
1 7
Gianluca Mastrocinque
Tra la casa e la tomba: nuovi elementi sul culto di Demetra ad Egnazia e in Messapia tra il IV secolo a.C. e l’età romana
Raffaella Cassano
pag.
167
Egnazia polo commerciale nella Puglia adriatica
»
181
Roberto Perna, Sofia Cingolani
Santuari e organizzazione del territorio in età romana nelle regiones V e VI adriatica. Il caso di Pollentia-Urbs Salvia
»
199
Enrico Giorgi, Francesco Belfiori
Nuovi scavi e ricerche nel santuario di Monte Rinaldo (FM)
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211
Piotr Dyczek
Scodra rediscovered
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219
R. Brancato, L. M. Caliò, D. Falco, A. Fino, A. Jaja, L. Piepoli
Ricerche topografiche a Byllis e nel suo territorio
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229
Afrim Hoti
Dyrrachium bizantina e il suo territorio (VI-VIII sec.)
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245
Elvana Metalla
Produzione e circolazione della ceramica altomedievale e medievale a Durazzo
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251
Sonia Antonelli
Connessioni adriatiche: la complessa vicenda del culto di San Pelino tra Corfinium e Dyrrachium
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263
Sezione III
Progetti e Ricerche
Marialaura Di Giovanni, Chiara Santarelli, Rennan Lemos
Analisi strutturale e studio dei riutilizzi nelle tombe tebane 187 e -348-
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281
MariaGiorgia Di Antonio
Lo scavo dei pozzi funerari nella Tomba di Neferhotep (TT49)
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289
Alice Dazzi
Acqua, diritto e rapporti di vicinato: il caso delle capita ciuitatum nelle province del Nord-est della Gallia
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295
Simona D’Arcangelo
La produzione laniera in Abruzzo in età romana: un primo inquadramento territoriale
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305
Gloria Bolzoni
Riflessioni sul sistema alimentare di Bliesbruck in età medio-imperiale a partire dal contesto dell’Ambitus 2011-2012
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317
Carmen Soria
Toponimi ad est di Limassol
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337
Marco Moderato
Il Campus Militaris di Corfinio (AQ): interpretazioni topografiche e dati stratigrafici a confronto
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341
Sezione IV
Valorizzazione, Progettazione, Disseminazione
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349
Antonella Coralini
Per lo studio delle insulae di Pompei, vent’anni dopo
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351
279
Marco Cavalieri, Carlo Nepi
Una progettazione culturale di valenza pubblica: il magistero di Sara Santoro e la valorizzazione della villa tardoantica di Aiano (San Gimignano – Siena)
Gabriella Paganelli
pag.
367
Dimensioni organizzative e prospettive del resilience nei lavori di Sara Santoro
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381
Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi, Eva Coïsson, Federica Ottoni
L’anfiteatro di Durazzo: dal rilievo integrato al restauro, per la valorizzazione di un’architettura archeologica
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393
Albert Ribera i Lacomba, Raymond Brulet
Les premières cathédrales en Europe occidentale, de la fouille à la valorisation patrimoniale d’après les exemples de Valence et de Tournai
»
411
Andrea Lombardinilo
Richard Sennett and «the new rhetoric of the People»: a Manzonian Path
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427
Cinzia Cavallari
Corfinio (AQ): una sfida per il futuro
»
437
Alessia Morigi
Il “ponte di pietra”. La stratificazione insediativa del settore del ponte antico di Parma tra processi di formazione urbana, recupero dell’area archeologica e rigenerazione della città contemporanea
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445
Eugenio Di Valerio
Dati preliminari dalle indagini nel comune di San Giovanni Lipioni (CH): le aree archeologiche di Colle Vernone e Il Monte
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457
Ilaria Zelante
I mosaici dell’antico territorio peligno: Tutela e valorizzazione
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477
Rocco D’Errico
I mosaici della Domus di Bacco a Teramo tra progetto di restauro e valorizzazione
»
485
Massimo Bianchi
Il concetto di parco archeologico secondo Sara
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497
Maria Cristina Mancini
I mosaici in Abruzzo: storia del Progetto TESSAbruzzo. Schedatura, studio e ricerca sui pavimenti musivi in area centro-italica dal IV a.C. al VI d.C.
»
511
Sezione V
Insediamento Minore
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521
Andrea R. Staffa
Crecchio dai Frentani ai Romani e oltre. Un esempio di centro “minore” di lunga durata in Abruzzo
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523
Luca Cherstich
Una testimonianza del santuario antico in località Cardetola di Crecchio: le fosse con materiali ellenistici
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555
Patrizia Basso
Insediamenti minori e necropoli rurali in Italia Cisalpina: qualche spunto di riflessione
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561
Rosanna Tuteri
Appunti sui centri minori in area peligna e sabina
Philippe Brunella, Jean-Paul Petit
pag.
571
Les agglomérations secondaires antiques de la cité de Mediomatriques (province de Gallia Belgica) et leur devenir au Moyen Âge
»
587
Simonetta Menchelli
Insediamenti maggiori e insediamenti minori nella complessità dei paesaggi antichi: le vallate dei fiumi Tenna, Ete ed Aso (Piceno meridionale)
»
605
Davide Aquilano, Katia Di Penta, Amalia Faustoferri
La media valle del Trigno: contributi per la ricostruzione storica del territorio
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617
Maria Carla Somma
Chiese ed alture in area abruzzese tra tarda antichità e altomedioevo. Una spia per leggere le trasformazioni dell’insediamento
»
639
Sezione VI
La metodologia e le scienze nella ricerca archeologica
»
653
Silvano Agostini
Archeometria tra ricerca, didattica ... e storia
»
655
Emanuela Ceccaroni, Fabrizio Galadini
Evidenze di terremoti antichi nell’Abruzzo interno: i risultati delle ricerche archeosismologiche
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665
Ruggero D’Anastasio, Joan Viciano, Luigi Capasso
Antropologia in Archeologia: alcuni esempi
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679
Enrico Giorgi, Anna Gamberini, Sara Morsiani
Fenomeni di acculturazione in area medio-adriatica: Lo studio della cultura materiale tra archeologia e archeometria
»
687
Tangari A. C., Agostini S., Marinangeli L., Baliva A., Pompilio L., Somma M.C.
Analisi preliminare delle malte di alcuni siti archeologici di Corfinio (AQ)
»
701
Francesco Stoppa
Interpretation of SEISMIC disasters in the Central Abruzzi (Italy) traditional culture
»
711
Enrico Zanini
Anatomia di un istante: la ceramica di un pozzo nero a Roma, il sacco dei Lanzichenecchi del 1527 e qualche idea sulle vite di un contesto archeologico
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727
Liborio Stuppia
Le prospettive della Archeogenetica
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737
Vasco La Salvia
Sensi e metallurgia: organi della percezione e valutazione tecnica nel Periodo della rivoluzione scientifica. Nuove riflessioni intorno ai filosofi e le macchine
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741
A vacanza conclusa. A vacanza conclusa dal treno vedere chi ancora sulla spiaggia gioca e si bagna. La loro vacanza non è ancora finita. Sarà cosi, sarà così lasciare la vita? Queste conchiglie Queste conchiglie che ho trovato saremo noi Noi acquietati, levigati senza più dolori dai bei colori Poseranno le orecchie su di noi per ascoltare che rumore fa il mare Sara Santoro Bianchi, 22 Agosto 2016
Giuliano Volpe
Sara Santoro tra impegno universitario e impegno civile Ci sono delle relazioni che non si vorrebbero fare. O dei testi che non si vorrebbero scrivere. Capita a tutti noi quando si è costretti a scrivere o a parlare di cose lontane dai propri interessi o perché non si ha tempo o non si ha voglia. Non è certamente questo il caso. È che continua a non essere facile parlare, anche ora che è passato un anno dalla scomparsa di Sara, di una persona assai cara alla quale sono/siamo tutti ancora tanto legati. Ed è bello vedere tanti amici e colleghi raccolti qui nella sua sede, insieme ai suoi allievi e collaboratori, a proseguire il suo impegno scientifico nei vari filoni che hanno caratterizzato il suo percorso di studi.
da Durazzo, poi a controllare le schede e a sistemare i reperti in una esemplificazione della stratigrafia della città. Ancora non riesco ad abituarmi all’idea che lei non sia qui con noi a discutere di archeologia e di tante altre cose. L’avevo poi incontrata al convegno di Bari e Egnazia sui paesaggi urbani e rurali e poi nella sua Cesena, dove ha voluto presentare il mio libro Patrimonio al futuro, discutendo come sempre in maniera libera e laica anche di questioni sulle quali si poteva non essere completamente d’accordo, ma con rispetto, curiosità, intelligenza, affetto; infine a giugno dello scorso anno, a Foggia, in occasione della discussione di una tesi di dottorato sul territorio di Durazzo di un suo allievo, Marco Moderato. Anche in queste ultime occasioni di incontro Sara era stata come sempre: allegra, solare, piena di voglia di fare, impegnata in mille progetti, serissima, rigorosa e gran lavoratrice ma sempre con il sorriso e la battuta pronta, legatissima ai suoi amati allievi. Era una vera maestra.
Conoscevo Sara da tanti anni, eravamo veri amici, ci volevamo bene e ci stimavamo molto. Recentemente, in occasione di un incontro in suo ricordo a Durazzo, mi è tornato alla mente un momento molto lontano, praticamente la prima volta che ci siamo veramente conosciuti: agli inizi della mia carriera, mi invitò a Parma, dove allora insegnava, a tenere una lezione sull’archeologia subacquea in un’aula affollatissima di studenti e all’inizio della lezione accadde un piccolo disastro (peraltro frequente in anni che paiono preistorici) con i carrelli di diapositive, che si rovesciarono confondendosi completamente; ero ‘nel pallone’, e lei con spirito serafico e con qualche battuta mi aiutò a risistemarle e la lezione fu un successo.
Così tempo fa mi aveva proposto di pubblicare con Edipuglia una serie di volumi sul progetto di ricerche a Durazzo, di cui è uscito recentemente Dyrrachium III di Barbara Sassi e un volume conclusivo di un progetto PRIN da lei coordinato, Emptor e mercator, che oggi mi fa piacere presentare in questa sede.
Ho avuto poi una sorta di privilegio, perché nel corso degli ultimi anni i nostri rapporti di collaborazione si erano intensificati, in particolare per il comune legame albanese, che si era venuto ad aggiungere ad una lunga serie di punti di contatto e di identità di vedute. Fu proprio Sara a sollecitare l’avvio di un progetto di ricerche archeologiche subacquee in Albania (e mi fa piacere mostrane uno dei prodotti di quella stagione di ricerche, il volume di Danilo Leone e Maria Turchiano, appena pubblicato). Prevalentemente ‘albanesi’ sono state le nostre varie occasioni di incontro nel corso di quest’ultimi tempi: come non ricordare che solo nell’aprile del 2016 eravamo in tanti a Tirana, per l’allestimento e l’inaugurazione della mostra delle missioni italiane, fortemente voluta dall’Istituto di cultura italiano presso l’Ambasciata, Antiche città e paesaggi di Albania. Un secolo di ricerche archeologiche italo-albanesi. Qytetet antike dhe prizazhi në Shqipëri. Nië shekull kërkimesh arkeologjike italo-shqiptare, il cui catalogo è stato pubblicato nella collana Adrias. Come non ricordare la sua attiva e come sempre entusiastica partecipazione a quella mostra, le ore trascorse ad allestire i pannelli e le vetrine. Vivo è il ricordo di Sara in attesa dei materiali provenienti
È praticamente l’ultima opera di Sara. Aveva curato il volume, esito di un convegno del 18-19 aprile 2013, aveva scritto l’introduzione e ben due suoi saggi, uno sulle tabernae nelle città e nei centri minori della Cisalpina, l’altro sugli insediamenti minori – un tema molto caro a Sara – e sul loro ruolo produttivo e commerciale (che abbiamo recuperato nel suo computer grazie al marito) fino al controllo delle prime bozze. Devo pubblicamente ringraziare i suoi allievi e stretti collaboratori Sonia Antonelli, Gloria Bolzoni, Alice Dazzi, Marco Moderato e Elisabetta Andreetti, per aver portato a compimento il lavoro con amore e competenza. Lo hanno fatto, come scrivono in premessa “quasi in punta di piedi, nel solco delle sue direttive e volontà, e come primo omaggio alla sua memoria”. Si tratta di un volume molto importante, con ben 33 contributi e oltre 40 autori, che, come scrive la stessa Sara, mira a superare le enormi carenze conoscitive sui luoghi e sulle rappresentazioni del commercio nella città antica. È a lungo mancata infatti “una riflessione sulla dipendenza di questo sistema commerciale stabile da esperienze greche e m agno-greche, sui caratteri della sua distribuzione nello spazio urbano, sulle tipologie e 1
Archaeologiae. Una storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro sulla loro trasformazione nel tempo, così come la messa in relazione del dato archeologico con gli aspetti giuridico-amministrativi della città antica e, sul versante degli studi sulla mentalità antica, con le forme, i codici e gli schemi dell’autorappresentazione e della comunicazione non verbale” (p. 10). Sembra quasi, infatti, che l’antico disprezzo ampiamente presente negli autori antichi per le figure dei commercianti e artigiani si sia spinto fino a tempi recenti nella sottovalutazione di questi temi, spesso affrontati solo negli aspetti giuridici o storico-economici, ma poco toccati dall’indagine archeologica, fino a tempi recenti più attratta dalle domus e dai grandi monumenti urbani.
Emergono, ancora, vari aspetti, dalla ‘ghettizzazione’ di alcuni settori produttivi alla concentrazione di specializzazioni affini fino alla difficile comprensione delle attività svolte nelle tabernae (commercio al dettaglio, produzione e/o manutenzione, rimessaggio o rifinitura di prodotti manifatturati, svolgimento di attività ‘intellettuali’ come l’ambulatorio medico o una attività scolastica o la rappresentanza commerciale). E, infine, la riflessione sulla dialettica fra acquirente e venditore, una sorta di duello sociale, insita nella formula giuridica latina ‘caveat emptor caveat mercator’. Mi fa piacere, anche in questa occasione, fare un cenno all’altro volume pubblicato dopo la scomparsa di Sara, il volume di Barbara Sassi, al quale Sara teneva moltissimo. E a giusta ragione. Si tratta, infatti, di un bel volume, molto importante e innovativo, in grado di proporre una lettura della vicenda urbana di Epidamnos-Dyrrachium nel lunghissimo periodo, dalla fine del VII secolo a.C. al VI secolo d.C., avvalendosi di tutti gli strumenti della moderna indagine archeologica, dalla geoarcheologia e geofisica all’analisi urbanistica, dall’aerofotointerpretazione alla ricognizione di superficie e allo scavo archeologico, dallo studio archeologico e archeometrico di varie classi di materiali all’approccio antropologico, con un uso integrato di fonti materiali, letterarie, epigrafiche, cartografiche, documentarie. Uno studio, insomma, di archeologa globale dei paesaggi urbani, che coniuga presentazione dei dati, interpretazione storica, elaborazione di strumenti preventivi e di programmazione. La base dei dati, in particolare la Carta Archeologica, è solida, ampia e di notevole interesse.
Tra le tante lamentele degli autori, come non ricordare quelle ad esempio di Plauto o Giovenale, per i classici fastidi provocati dalle attività produttive e commerciali?: ingombro, inquinamento, rumori, cattivi odori, pericoli d’incendio. O le critiche scagliate da Marziale contro l’arroganza dei bottegai e degli artigiani che dalle loro tabernae invadevano marciapiedi e strade, tanto che si rese necessario un provvedimento di Domiziano per porre rimedio a tali abusi: «il barbiere, il taverniere, il cuoco, il macellaio rispettano adesso il limite della loro soglia; abbiamo ritrovato la vera Roma laddove poco fa non vi era che una grande bottega». Peraltro questo aspetto fondamentale della città antica è parte dei quel lungo e appassionato (e a tratti ideologico) dibattito sulle tesi contrapposte della ‘città parassita’ (la Konsumstadt di Werner Sombart, Max Weber, Moses Finley) e della ‘città produttiva’ (di Arnold J. Toynbee e molti altri dopo di lui), recentemente ripreso, con posizioni opposte, da Philippe Leveau e Christian Goudineau, sulla «coppia concettuale città di consumatori/ città di produttori introdotta da [Karl] Bücher».
Due libri che fanno parte dell’eredità di Sara, che è in realtà molto più ampia e ricca e continuerà a dare molti frutti. I suoi interessi scientifici sono stati infatti assai ampi: si è occupata di insediamenti montani (fondamentali i suoi scavi dell’insediamento fortificato di Castelraimondo in Friuli), di ceramiche comuni, di archeologia della produzione e del commercio, con una grande apertura verso l’archeometria, di edilizia residenziale, di pittura antica e di molti altri aspetti dell’antichità.
L’ampia casistica analizzata, i diversi approcci presenti in una reale visione multidisciplinare, i contributi distribuiti nelle tre sezioni del libro, la prima dedicata agli spazi della produzione, del commercio e dell’abitazione, la seconda consacrata alle rappresentazioni della compravendita nell’Italia romana, la terza incentrata sulla produzione il commercio nei centri minori in Italia e nelle province, apporta una tale quantità di dati, di idee, di spunti di riflessione da far apparire evidente quanto certi stereotipi siano da rivedere. Emerge infatti un quadro assai complesso, che finalmente – è ancora Sara a parlare – “lega la topografia delle attività produttive e artigianali alla lettura sociale delle stesse. Ne risulta una vivace dinamica interna alla città, che coinvolge i differenti tipi di clientela, di passaggio o fissa e individua i condizionamenti imposti alla localizzazione delle botteghe da vari fattori, quali l’approvvigionamento delle materie prime e la disponibilità di risorse, come l’acqua, gli spazi scoperti di stoccaggio, le necessarie pendenze per il deflusso dei prodotti inquinanti” (p. 8).
Non è il caso di ripercorrere tutta la sua carriera. Qui tutti i presenti la conoscevano bene. Ma alcune tappe possono essere ricordate. Tutta la sua vita si è svolta nell’Università e per l’Università, non sentita però come un’entità chiusa e autoreferenziale. La sua origine è a Bologna, dove ha studiato e si è laureata nel 1973 in Lettere Classiche, conservando sempre con l’Alma Mater Studiorum un forte legame. Prima ricercatrice presso il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna nel 1975, poi trasferitasi a Parma come professore associato di Archeologia e storia dell’arte greca e romana, 2
G. Volpe
Sara Santoro tra impegno universitario e impegno civile
Archeologia delle Province Romane e Metodologia della ricerca archeologica, dal 1997 al 2009. Mantenne però l’insegnamento di Archeologia romana alla Scuola di Specializzazione in Archeologia dell’Università di Bologna (1998-1999). A Chieti dal 2009 come professore ordinario, ha lavorato tantissimo, svolgendo anche la funzione di Presidente del Corso di Studi Magistrale in Beni archeologici e storico-artistici (BASA).
Attivissima nel campo dei progetti, Sara aveva sempre almeno un progetto in preparazione e almeno uno in corso. Ha coordinato progetti CNR, MIUR-PRIN riguardanti la Gallia Cisalpina, Pompei e le strutture e gli spazi della vendita e del commercio nell’antichità. E’ stata coordinatore di varie ricerche europee (Culture 2000 e azioni integrate Italia- Spagna 2001), e coordinatore internazionale di un progetto europeo Tempus (TEMPUS IV CHTMBAL) che riuniva 11 università per la realizzazione di corsi di alta formazione nel settore della valorizzazione archeologica in area balcanica; è stata responsabile di unità di ricerca nei progetti TEMPUS IV- 2013- FLEPP e MODphD , aventi per oggetto la riforma dei curricula universitari e dei dottorati nel settore umanistico in area balcanica e centro asiatica.
Tra i suoi scavi più importanti, va ricordato quello del sito fortificato di Castelraimondo del Friuli dal 1988 al 2005, dove ha realizzato anche un innovativo Parco archeologico-culturale. E poi le ricerche a Pompei, dal 1998 al 2005, responsabile scientifico del progetto “insula del Centenario” dell’Università di Bologna, curando la pubblicazione di più volumi.
Ha organizzato convegni internazionali sull’insediamento minore alpino, sull’archeometria della ceramica, su problemi di coperture delle aree archeologiche, sul patrimonio archeologico albanese, sugli strumenti della salvaguardia del patrimonio archeologico, sull’archeometria applicata a Pompei ed una grande mostra internazionale su quest’ultimo sito (De Pompei à Bliesbruck: vivre en Europe romaine, Bliesbruck- Reinheim 2007). È autrice di oltre centosessanta pubblicazioni scientifiche.
L’altro amore di Sara è stata l’Albania e in particolare Durazzo. Dal 2001 al 2004 è stata responsabile scientifico del Progetto “Durres” dell’Università degli studi di Parma. Su invito delle autorità albanesi, si è occupata in particolare di interventi di formazione e aggiornamento di operatori e tecnici nel settore della tutela, del restauro, della promozione culturale. Inoltre, nel 2003-2004 ha coordinato la realizzazione di un fondamentale strumento di programmazione e gestione dello sviluppo urbano: la carta del rischio archeologico della città, su piattaforma G.I.S. Dal 2004 ha diretto il progetto pilota “Progettazione e realizzazione del Parco Archeologico Urbano di Durrës”, poi proseguito dal 2009 con l’Università di Chieti-Pescara. Ha diretto per tanti anni lo scavo dell’anfiteatro romano, in collaborazione con l’Istituto di Archeologia e l’istituto dei Monumenti di Cultura d’Albania, e cooperato alla realizzazione di numerosi scavi di emergenza in vari punti della città, oltre che diverse campagne di ricognizione nel comprensorio settentrionale del territorio regionale.
Di Sara apprezzavo l’energia, l’entusiasmo, la voglia di sperimentare, di innovare, la gioia di vivere anche quando è stata provata da dolori e problemi personali e accademici e professionali. Qui non posso nascondere uno dei tanti motivi di amarezza di Sara e anche di molti di noi. Avendo acquisito l’idoneità come Professore Ordinario la sua università di allora (Parma) non ritenne di chiamarla, rischiando addirittura che lei perdesse quella idoneità. Ricordo bene che allora, quando ero rettore dell’Università di Foggia, mi attivai presso l’allora collega Rettore dell’Università di Chieti perché fosse chiamata in quella Università, sostenendo che avrebbero fatto un affare. È così è stato, perché all’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, dove fu chiamata nel 2009, Sara ha dato tantissimo. In un mondo spesso avvelenato dalle invidie e dai dispetti, lei era aperta, chiara, generosa, leale. E negli ultimi mesi di vita, quando pur non parlando mai dei suoi problemi, chi le era più vicino aveva colto strani segnali, la sua preoccupazione principale era la prosecuzione del suo lavoro e anche il futuro dei suoi allievi.
Dal 2008 si sposta in Francia come co-direttore degli scavi del vicus di Bliesbruck, nel Parc Archéologique Européen di Bliesbruck-Reinheim (Moselle, France). Ma senza abbandonare l’Abruzzo dove dal 2014 era direttore scientifico dello scavo di Corfinio (AQ) - Campus S. Maria delle Grazie. Sara ha sempre avuto un respiro internazionale, facendo parte di diversi gruppi di ricerca (sulla ceramica romana, sul mosaico antico e sulla pittura romana). Ricordo a questo proposito un’esperienza comune, il coordinamento della sezione italiana del gruppo di lavoro sull’artigianato, Instrumentum, tenuto prima da me e poi da lei. È stata membro del comitato di redazione della rivista Caesarodunum e membro corrispondente della Société des Antiquaires de France. Ha fatto parte dello Standing Committee del network internazionale di ricerca LRCW ed è stata socio fondatore dell’Associazione Antropologia e Mondo Antico.
Come scrivono i suoi allievi in Emptor et mercator “Lavorare con Lei è stato un immenso privilegio: era vulcanica, attiva, propositiva, pronta al confronto e al contempo esigente e meticolosa nel rigore del metodo scientifico, nella ricerca dell’interdisciplinarità, sempre rivolta verso il futuro della nostra disciplina ma con la profonda consapevolezza della sua storia” (p. 5)
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Archaeologiae. Una storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Anche in questo lei era un vero docente universitario. In tutta la sua vita si è spesa per l’Università, nelle varie sedi nelle quali ha lavorato. Curando sempre tanto la didattica, organizzando tante iniziative, tra cui anche splendidi viaggi di studio e visite a siti e musei archeologici. Quella che oggi chiamiamo terza missione era da sempre parte integrante del suo impegno. Nella comunicazione e divulgazione, nella progettazione, realizzazione e direzione di musei (Museo Civico Archeologico di Bazzano che ha diretto dal 1982 al 1994) e parchi archeologici (il Parco archeologico-culturale di Castelraimondo del Friuli o si pensi al progetto di Parco archeologico Urbano di Durazzo), nello straordinario, difficilissimo, di analisi del potenziale archeologico di Durazzo e nella predisposizione di strumenti conoscitivi necessari per indirizzare con maggiore consapevolezza le scelte di pianificazione di una città che ha conosciuto e continua a conoscere una rapida e profonda trasformazione.
totali dal presente: il tempo che viviamo condiziona le nostre ricerche, proponendoci temi che sono il riflesso delle nostre attuali preoccupazioni. Noi siamo sempre figli del nostro tempo. E il problema centrale del nostro tempo, di questi nostri giorni, è quello della identità: identità del mondo occidentale rispetto a tutti gli altri mondi e in particolare all’islam mediterraneo, identità della nostra comunità rispetto agli immigrati. È chiaro che nella definizione identitaria – o nella sua ridefinizione – un ruolo fondamentale viene giocato dalla conoscenza o dalla costruzione del proprio passato, in termini storici e culturali”. Sara era pienamente consapevole dei rischi della ‘clava identitaria’: “l’identità etnica non possiede una sua consistenza ontologica ma è anch’essa una categoria concettuale, una costruzione simbolica che scaturisce da specifiche situazioni storiche. E, in effetti, l’uso inflazionato, le prospettive illusorie che l’«ossessione identitaria» ha creato e crea, hanno suscitato negli studi antropologici più recenti severe reazioni e prese di distanza da un insieme di concetti certamente utile dal punto di vista euristico, ma che va trattato con molta precauzione e vigilanza metodologica”. E metteva in guardia da un uso strumentale dell’archeologia e i rischi di un suo asservimento: “così all’archeologia si chiede, ancora oggi, in Paesi e regimi di forte ideologia nazionalista, di ricercare le più antiche tracce che attestino la presenza «originaria» di un popolo (gli Illiri, i Dardani, i Pelasgi) al fine di avvalorare la pretesa di legittimo possesso su un territorio”. Di qui un invito agli archeologi: “Nel nostro lavoro di archeologi vorremmo ribadire ancora una volta che solo la conoscenza scientificamente fondata dei contesti originari di creazione e dei processi storici di trasformazione dei valori che quel bene rappresenta consentono di collocarlo nella giusta prospettiva e di proporlo correttamente al pubblico, svincolato da fraintendimenti ideologici. È la storia che quel bene racconta, la storia come trasformazione e adattamento dell’uomo alle diverse condizioni ambientali e vicende politiche, la storia in tutte le sue declinazioni, nessuna esclusa, l’unico valore culturale che deve essere trasmesso. È la complessità della storia, il permanere e trasformarsi delle creazioni dell’uomo nel tempo che fa diventare documento, e dunque valore, un edificio, un oggetto, un paesaggio, un testo letterario, una canzone”.
Era questo uno degli aspetti che più apprezzavo di Sara: la sua viva attenzione ai temi della contemporaneità. Ci siamo sempre trovati in piena sintonia nel considerare necessario per noi archeologi il saper esprimere la volontà e la capacità di uscire dalle nostre nicchie (che non significa affatto rinunciare ai propri specialismi) e di elaborare strategie condivise, capaci di guardare al futuro, al rapporto con i cittadini e le comunità locali, ai progetti di sviluppo, al lavoro e alle professioni, insomma alla funzione pubblica dell’archeologia. Sara sapeva, cioè, riflettere sul ruolo dell’archeologia nel mondo contemporaneo, in una società, in profonda e tumultuosa trasformazione agli inizi del terzo millennio, un periodo dominato da paure e da conflitti, eppure ricco di opportunità e straordinariamente interessante. Avvertiva il rischio dell’eccessiva frammentazione, dell’autoreferenzialità e della separazione fra mondo della ricerca, della tutela, delle professioni e dell’economia, che, nonostante le numerose esperienze positive, le eccellenti competenze e gli importanti risultati scientifici conseguiti, hanno finito col perdere il legame con il mondo esterno, se non addirittura a porsi in antitesi: è per questo che l’archeologia ha perso sempre di più un (necessario) sostegno sociale. Eppure si può cogliere nella società attuale un grande bisogno di ‘archeologia’: sta agli archeologi, nel loro insieme, intercettare questo bisogno e fornire risposte adeguate a questa richiesta.
Sara, in definitiva, ci lascia non solo una straordinaria lezione di metodo, di passione per la ricerca e l’insegnamento, ma anche una preziosa lezione di etica dell’archeologia. Sara ha rappresentato un esempio, un modello, un testimone, come deve essere un vero maestro. Ha veramente insegnato, nel senso etimologico più pieno di lasciare un signum, culturale, civile, etico. Un esempio importante in una fase in cui l’Università è ancora una volta sotto tiro, con un’azione di discredito
Un esempio di questa sensibilità si coglie in un bel contributo pubblicato ne Il Mulino poco tempo prima della sua scomparsa: Archeologia, identità e guerra. Una splendida e profonda riflessione su alcune questioni drammaticamente attuali. L’archeologia – scrive Sara – consente di “viaggiare nel tempo, con un notevole coinvolgimento emotivo personale. Tuttavia, come tutti i viaggi, anche l’archeologia non consente fughe 4
G. Volpe
Sara Santoro tra impegno universitario e impegno civile
e a volte anche di diffamazione, alla quale purtroppo non si sottraggono anche alcuni colleghi.
L’etica dell’impegno nel presente, con la ferma convinzione che non ha senso studiare il passato senza un impegno nel presente.
Se in conclusione volessi indicare solo alcuni elementi principali della lezione etica di Sara potrei limitarmi a selezionarne tre:
Insomma quella di Sara è stata l’etica di quella che oggi chiamiamo archeologia pubblica che lei ha praticato da sempre, anche quando di archeologia pubblica non si parlava.
L’etica della apertura disciplinare: la concezione aperta della propria disciplina, la curiosità verso gli altri saperi, la consapevolezza al tempo stesso della importanza innanzitutto metodologica del proprio ambito disciplinare e della sua inadeguatezza a comprendere da solo, in maniera autoreferenziale, la complessità del passato.
Ci manca molto Sara. Ma certo non potremo mai dimenticare il suo stile, il suo modo di intendere il mestiere di archeologo e di docente, il suo impegno, il suo sorriso. Queste giornate che hanno raccolto alcuni dei suoi tanti amici italiani e stranieri sono solo uno dei tanti modi per ricordarla, per tenere viva la sua eredità scientifica e umana e per proseguire il suo impegno universitario e civile.
L’etica dell’attenzione verso il pubblico, inteso come gli studenti e anche come i cittadini nella loro complessità, la cura della comunicazione, il rigore del metodo accompagnato dalla chiarezza, la voglia di capire anche attraverso gli occhi e la sensibilità di chi ti ascolta o ti legge o visita un museo o un parco da noi progettato.
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Massimo Bianchi
Sara’s Long Wave There is a great temptation, wanting to write about Sara, about her enthusiastic work and what she left us as a scientific and human heritage, to talk about the past, especially in my case as I was lucky enough to share her path as a husband and life partner. In considering the numerous contributions gathered in these two volumes that testify to the great esteem and affection of people who had the opportunity to know her and work together, what I would like to remember is rather the future she left us: the ideas, the projects, the methodological and operational approach that still produces its effects today and projects itself into the years to come.
historical and cultural terms’, then ‘archaeology does not allow a total escapes from the present: the time in which we live affects our research, proposing themes that reflect our current concerns’.1 But it is not only Sara’s convinced orientation towards interdisciplinarity and community archaeology that project her into the future, of which the three years in which the PICASP project will develop represent only a first step. If today we consider the great themes of the humanities, from social responsibility, to communication, from the enhancement of cultural identities through the study of the past, to the recovery of the sense of history, everything that was brought to light and discussed in these three days of conference, acquires a meaning deeper and more fruitful.
It is very topical to have just received news, in these days, of the funding of an Erasmus + project, ‘Pilot courses in Practice Enterprise to implement the University-Enterprise Cooperation for the development of Caspian Area- PICASP’ which I prepared for the DISPUTER together with Oliva Menozzi and whose first submission started in 2017.
In this way everything assumes the scent of the future, the sense of the next venture, the spirit of adventure not only intellectual but also concrete that Sara left us and which will have a meaning in shaping what society will be in the coming years in which resilience will represent a primary challenge together with the recovery of culture as a central theme for new development. So I would like to underline the long wave of Sara’s work not only in the specific field of archeology to which she dedicated her life, but also in that future that it allowed us to design and in which, I am sure, it will continue to animate our intellectual and human adventures, placing them in a perspective worthy of being lived by all of us, even with the Sara we have known and esteemed.
The Project Consortium, of which D’Annunzio University is the leader, collected Sara’s teaching regarding interdisciplinarity and sense of community archaeology, together with the dense network of relationships that she assiduously cultivated with Universities, Research Centres and scholars worldwide. Personally, I experienced this success as a tribute to Sara who believed in these projects and of which she was an enthusiastic forerunner. At the base of the strategy that animated the project design, in addition to the visits made by Sara and me to those countries that allowed us to acquire a sense of the places, culture and sociability of the Caspian area, a fascinating aspect that led to the reductio ad unum of the planned activities and gave a sense to the commitment of the participants, was the intuition of that great historical-cultural container represented by the amber route which over the centuries has wound from the Baltic to the Caspian, passing through the great communication route represented by the Volga, reaching as far as the borders of China. Today this area has taken on the strategic importance of China’s penetration towards the West, but it also represented an opportunity to recover the cultural identities of the peoples located along this path and, for Europe, a challenge to reaffirm its role in the area.
So long Sara Cesena 24/08/2020
I remember that Sara wrote ‘In the definition of identity - or in its redefinition - a fundamental role is played by the knowledge and construction of one’s past, in
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Santoro S. Archeologia, identità e guerra, Il Mulino 4/2016.
SEZIONE I
Semata, Schemata, Topoi
a cura di
Oliva Menozzi
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Carmine Catenacci
Sappho, a vase painting and the poetry of parting Abstract: The paper exmaines a representation on a krater of Sappho, reading the complex iconographic schema in combination with specific verses of the poet. The painting is on an Attic calyx krater, now in Bochum, which dates around 480 BC. Interpretation of the vase has long focused only on Sappho, disregarding the rest of the composition. The poet is depicted on one side, with her name (ΣΑΦΦΟ). A female figure is painted on side B and is indicated by an inscription as ΗΕ ΠΑΙΣ “the girl”. The author of the paper attempts a different interpretation, taking into account both sides of the krater, as well as of the verses of the poet.
By around 500 B.C. the poetic image of Sappho had become a recurring figure in Attic pottery decoration. On four vases an inscription bearing her name makes identification certain. One of these is the calyx krater (today in Bochum) datable to circa 480 B.C. and attributed to the Tithonus Painter. The poet is depicted on one side (Figure 1a) elegantly dressed in a polka-dot chiton and a sakkos. In one hand she holds a barbitos and in the other a plectrum; a case for an aulos hangs from the stringed instrument. Sappho is walking, as we see from her raised heel and the fluttering of her dress at the hem, but she is glancing back, and her right arm too is outstretched in that direction. After the name (ΣΑΦΦΟ) there are traces of other letters and their interpretation1 is quite difficult.
more bringing the krater to the centre of discussion and renewing the critical reading of it, has persuasively maintained that the scenes on the two sides are interrelated and should be seen as a single narrative6. To the eye of the observer who walks around the krater, says Yatromanolakis, the painting depicts a subtle dramatisation of the unattainability of the beloved, in an eternal circle of vain pursuit. This image would then echo a situation that Sappho herself describes in her verses, and more precisely, in the principle of love declared in the Ode to Aphrodite (1, 21 ff. V.): ‘she who flees will soon pursue...’. An evocative interpretation, which has the merit of relating the painting to Sappho’s texts, but which seems unbalanced in a speculative sense and, so to speak, conceptualistic. ‘But on the vase there are no indications that Sappho is pursuing a beloved yet unruly girl’7.
The female figure painted on side B is identified by the inscription ΗΕ ΠΑΙΣ ‘the girl’ (Figure 1b)2. She wears the sakkos too, a polka-dot chiton and a himation which demurely covers her whole body. Like Sappho she is represented in the act of walking (we might name her Gradiva) and her head is turned in a backward glance. Her hands, at hip height, are slightly raising her himation. A gesture which recurs in the representation of various female figures3, but which in this specific case is reminiscent of the verses where Sappho claims gracefulness of gait for herself and her friends, deriding a rustic rival Andromeda precisely because she doesn’t know ‘how to pull her rags above the ankles’4.
Though not sharing the conclusion of Yatromanolakis’s analysis, Ferrari nonetheless interprets the two images likewise, in the light of their narrative complementariness, and maintains that the diptych represents a komos: ‘Sappho marks a dance step’, ‘both instrumental and singing performance will happen in the immediate future’ and ‘the girl represented on face B moves in the same direction as Sappho’8. But if we accept that ‘the general pattern is of young men moving from one symposium to another’, we are rather unsure about where the two women have come from and where they are going. Furthermore, in this case too, it is not usual for someone (the girl) following in the footsteps of another (Sappho) to look over her shoulder and not ahead.
Interpretation of the vase has long concentrated only on Sappho, said to be executing a dance step5. But Dimitrios Yatromanolakis, who deserves credit for once
Perhaps ΣΑΦΦΟ ΚΑΛΕ? The inscription was pointed out by Yatromanolakis 2001; cf. Chaniotis, Corsten, Stroud and Tybout 2009. ‘The girl’, expressly indicated as coprotagonist on the Bochum vase, is new evidence in favour of the fact that the privileged addressees of Sappho’s poetry are young girls, countering recent hypotheses aimed at denying this relationship: see Gentili, Catenacci 2007. 3 Cf. Franzoni 2006, 192. 4 Sappho 57 V. (transl. D.A. Campbell); Cf. ‘the lovely step’ (ἔρατον βᾶμα) of Anaktoria in Sappho fr. 16, 17 V., but also the women ἐλκεσίπεπλοι of Lesbos being judged for beauty, in Alcaeus 130b, 17 ff. V. 5 See e.g. Snyder 1997, 109 ff. 6 Yatromanolakis 2001, 165; cf. also Yatromanolakis 2005, Yatromanolakis 2007, 88 ff.; 103 ff. (with a pertinent discussion of several compositional schemes typical of the Tithonus Painter’s style). 7 Ferrari 2010, 100. 8 Ferrari 2010, 100 and 48 f.; for the general description cf. also Schefold 19972, 86. 1 2
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Archaeologiae. Una storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro most beautiful verses. In one ode we find (Sappho 94, 1-8 V.):
I shall put forward a different interpretation. The fundamental and characterising feature of the representation is that both figures are glancing back. Over and above their direction (opposite or the same) which may vary depending on one’s point of observation, it is unquestionable that both women are moving forward while looking back. If the movement of Sappho’s head might be hypothetically associated with a dancer’s pose, this does not apply to the girl on the other side. As for her, the cloak covering her body has a twofold iconographic value: it is the symbol of αἰδώς and denotes the figure as an object of erotic desire9, but also expresses the external setting of the scene10, which is to say a projection of the young girl into a space outside the Sapphic community. The lovely girl proceeds solemnly, raising her dress with elegance (she is not dancing): it is a distinctive sign of the training she has received and the style she has acquired among Sappho’s group.
τεθνάκην δ’ ἀδόλως θέλω· ἄ με ψισδομένα κατελίμπανεν _____ πόλλα καὶ τόδ’ ἔειπέ [μοι· ὤιμ’ ὠς δεῖνα πεπ[όνθ]αμεν, Ψάπφ’, ἦ μάν σ’ ἀέκοισ’ ἀπυλιμπάνω.
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______ τὰν δ’ ἔγω τάδ’ ἀμειβόμαν· χαίροισ’ ἔρχεο κἄμεθεν
Going back to the image of Sappho, the poet is holding the plectrum and barbitos, but far apart from each other, and her mouth is closed, as if she has finished playing and singing. Her right arm is outstretched, a gesture which is found in numerous vase paintings and which has different meanings: from dance movements to various situations ‘of relationship’ where it expresses tension or attention (indicating, inviting, taking one’s distance from somebody, marking the dramatic force of a moment etc.) right down to scenes of farewell (funeral valediction, departure of the warrior), as exemplified on an amphora by the same Painter of Tithonus where Nestor extends his right arm towards his son Antilochus who is armed and about to take his leave11.
μέμναισ’, οἶσθα γὰρ ὤς ‹σ›ε πεδήπομεν·12
‘Go and be happy’. The Bochum krater seems to reflect one of these recurring and traumatic moments of parting which Sappho captured with intensity in her poetry. The words of Rilke in The Notebooks of Malte Laurids Brigge come to mind: ‘By such noble partings her heart became part of Nature’, she who before they left her ‘had led the fragile loved ones to her couch and imbued them with the ardour of lovers’. Iconic text and poetic text intersect and integrate in the symposium. The image on the krater was not a simple ornament of the symposial gathering but interacted with its reality, with poetic memory, with the practice of song and the re-execution of Sappho’s poems.
In a word, the two women are walking forward but both are looking back, their eyes drawn by what they are moving away from. The girl, who has now learnt elegance of poise, is moving in an external space. The poet’s arm is extended in a gesture of attention and salutation. In my view the painting reproduces in figurative language one of the typical and most involving passages in the life of the group, about which Sappho sings with intense participation: the departure of a girl. Duplication of the act of retrospection, which is attributed to both figures, underscores the reciprocity of the feeling and emphasises its emotional range.
In the original value of the ode, poetry and recollection help to heal the wound of separation on the departure of a friend13. Words, sustained by music, transform emotional turmoil into song and story, channelling it into shared and ritual objective forms. At the same time, song has a paradigmatic meaning for the audience. The poetic I expresses facts, sensations and words in the first person, but the whole group identifies with the experiences and values it celebrates14. This function, at once consolatory and formative, coincides with the subdivision of many odes into three recurring passages: 1) initial statement of an openly or latently critical
Painful separation from a young girl, now seemingly ready for marriage, is the motif driving some of her
Yatromanolakis 2001, 166 f. As precisely noted by Ferrari 2010, 100. 11 And is giving a backward glance (Paris, Musée du Louvre G 213). 12 ‘And honestly I wish I were dead. She was leaving me with many tears and said this: «Oh what bad luck has been ours, Sappho; truly I leave against my will». I replied to her thus: «Go and fare well and remember me, for you know how we cared for you»’ (transl. D.A. Campbell). 13 ‘Sindrome da attacco di panico e terapia comunitaria: sui frgg. 31 e 2 V. di Saffo’ is the title of Ferrari 2001; see also Ferrari 2010, 171 ff. 14 The statements in the first person plural that shore up poem 94 V. (vv. 8; 11; 26) are not simple plural forms for the singular. 9
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C. Catenacci
Sappho, a vase painting and the poetry of parting
situation; 2) effusion on the theme ([self-]descriptive, evocative, mythical etc.) with ‘cathartic’ function; 3) finale with overcoming, or at least recovery and acceptance of the initial situation. The poem cannot end with emotional bewilderment and disorder but must conclude with the reestablishment of order in the poetic I and within the group.
2009 http://dx.doi.org/10.1163/1874-6772_seg_ a55_110 Ferrari F. 2001, ‘Sindrome da attacco di panico e terapia comunitaria: sui frgg. 31 e 2 V. di Saffo’, in Cannatà Fera M. and D’Alessio G.B. (eds.), I lirici greci. Forme della comunicazione e storia del testo, Proceedings of the Study Session, Messina 5-6 November 1999 (Messina), 47-61.
Sappho’s verses move and reassure her audience of friends. The so-called poems of remembrance ratify the irreversible ticking of time while also pointing to an atemporal horizon. Memory, vouchsafed by the art of the Muses, overcomes space and time. It ensures that the bond between each girl and the group will never be torn asunder, no matter the distance, and probably includes expectations for the life beyond15. Shared experience of the beautiful and the affects will live in memory and in the future as an inalienable and imperishable treasure.
Ferrari F. 2010, Sappho’s Gift: The Poet and Her Community (engl. transl Ann Arbor; Pisa 2007). Franzoni C. 2006, Tirannia dello sguardo. Corpo, gesto, espressione dell’arte greca (Torino). Gentili B. 1988, Poetry and Its public in Ancient Greece (engl. transl. Baltimore-London; Roma-Bari 1985). Gentili B. and Catenacci C. 2007, ‘Saffo ‘politicamente corretta’’, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica 115 (2007), 79-87. Perrotta G., Gentili B. and Catenacci C. 20073, Polinnia. Poesia greca arcaica (Messina-Firenze).
But the certainty of memory has an exemplary and formative value also in the present. The girls who are the audience of the moment imagine that their name, their beauty and remembrance of them, exalted in the timeless time of poetry, will also be cherished in their absence, when they are far away. Like Anaktoria and Arignota, their thoughts will turn nostalgically to their distant friends. And, like Anaktoria and Arignota, they will imagine being the subject of song and the ideal model for future friends of the group in the ineluctable cycle of encounters and bonds, leave-takings and remembrances imposed by community life. The more Sappho makes the distant girl long for the fine life of the group, so much more do the listening girls appreciate and love it. Nor is it inappropriate to associate the gesture of salutation on the Bochum krater with that of valediction in funeral scenes. Leaving the group is a ritual death16, followed by glory. Not very differently than for Achilles and the heroes of the epos, κλέος in the Sapphic community passes by way of the departure, real or symbolic death.
Schefold K. 19972, Bildnisse der antiken Dichter, Redner und Denker (Basel). Snyder J.M. 1997, ‘Sappho in Attic Vase Painting’, in Koloski-Ostrow A.O. and Lyons C.L. (eds.), Naked Truths: Women, Sexuality, and Gender in Classical Art and Archaeology (London-New York), 108-19. Yatromanolakis D. 2001, ‘Visualizing Poetry: An Early Representation of Sappho’, in Classical Philology 96 (2001), 159-68. Yatromanolakis D. 2005, ‘Contrapuntal Inscriptions’, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik 152 (2005), 16-29. Yatromanolakis D. 2007, Sappho in The Making. The Early Reception (Hellenic Studies Series 28; Cambridge Mass.-London).
BIBLIOGRAPHY Burzacchini G. 2007, ‘Saffo, il canto e l’oltretomba’, in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica 135 (2007), 37-56. Chaniotis A., Corsten T., Stroud R.S. and Tybout R.A. 2009, ‘SEG 55-110. Bochum. Dipinti on a krater by the Tithonos Painter, ca. 480-470 B.C.’, in Supplementum Epigraphicum Graecum (Current editors: Chaniotis A., Corsten T., Papazarkadas N., Tybout R.A.), (Leiden) Gentili 1988, 84; Ferrari 2010, 63 f.; differently, Burzacchini 2007 with bibliography. The recurring motif of death in Sappho’s poetry is embedded in ritual formulations (Gentili 1988, 85), also and especially in relation to separation from the group: see Sappho fr. 94; 95 V.; cf. also 31, 15 f. V. if the occasion for this poem lies in the impending departure of a girl destined for marriage (Perrotta, Gentili, Catenacci 20073, 130). 15 16
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Archaeologiae. Una storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Figure 1a.
Figure 1b.
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Umberto Bultrighini
Scavi e scoperte, autopsia e ‘allopsia’ nella Periegesi di Pausania Abstract: The contribution aims to illustrate how Pausanias can offer an enormous support for the archaeological research, as well as how recent discoveries and excavations can offer an opportunity for a reinterpretation of passes of the author. The combination of the idea of the ‘digging’ (orýssein) and of the ‘finding’ (heurískein, exeurískein) can be found as a combination in Pausanias, with a constant topographic approach. Moreover, monuments and places are generally contextualized, from different points of view, geographical, ethnographical, historical, including also information about finds and restoration (epanorthoun, anaskeuázein) concerning ‘archaic’ sites.
La finalità di Pausania, nell’elaborazione della sua Periegesi della Grecia, era quella di ripristinare il senso della grecità – una grecità passata ma attualizzata1 - a beneficio del pubblico coevo. Questa sostanziale operazione di recupero della grecità arcaica, classica e protoellenistica, viene concepita in un’epoca, il II sec. d. C., di valorizzazione, riscoperta, musealizzazione del mondo greco e delle sue tradizioni2. L’area cardinale del lavoro di Pausania, fisicamente impegnato in un percorso cognitivo di viaggio, corrisponde alla provincia romana di Acaia3; il metodo, di ispirazione erodotea, ha tra i fondamenti principali la raccolta dell’informazione attraverso i contatti sul campo, integrati con il personale bagaglio culturale4. Il tutto filtrato da un approccio storico, sul quale chiarezza estrema hanno fornito gli studi di Musti5. Credo vada sottolineato anche che il trend da storico Pausania lo esplicita a vari livelli, e che tra questi occorre annoverare il livello dell’attenzione per le dinamiche di quello che per noi è scontato caratterizzare come ‘rinvenimento archeologico’. Questo aspetto non va considerato solo in relazione all’uso che in età moderna e contemporanea si è fatto e si continua a fare dei dati forniti dalla Periegesi: si può tenerne conto anche sotto il profilo del metodo e delle attitudini di Pausania. Infatti, al di là della ben nota rilevanza che è oggi unanimemente riconosciuta alla Periegesi come bacino di indagine, verifica e confronto con la ricerca archeologica, va evidenziato come l’approccio di questo storico viaggiatore - uno storico viaggiatore che vive in un’epoca ben lontana e diversa da quella in cui aveva vissuto ed operato il suo grande modello di riferimento Erodoto -, abbia tra le sue basi un atteggiamento fortemente caratterizzato da una spontanea, ovvia ma nel contempo precorritrice, vocazione nei confronti della ancilla historiae per eccellenza, l’archeologia6.
Come è stato opportunamente osservato, le espressioni sintomatiche, in un piano di resa globale degli Helleniká perseguita attraverso il recupero e la fissazione della memoria, sono quelle che introducono l’idea di itinerario topografico-mentale; sono quelle inclusive della nozione verbale epexiénai o epexérchesthai (1.26.4; 6.1.2; 8.10.1), nelle quali è impegnato un concomitante senso di percorso reale e percorso logico e verbale7: in queste espressioni è sintetizzata una sorta di tensione che accompagna passo per passo il percorso conoscitivo e descrittivo di Pausania. Ora, in questa tensione rientra, e va sottolineata, un’attenzione ricorrente per l’orýttein, e lo heurískein nel territorio, una sensibilità per le dinamiche generali di scoperta-riscoperta dell’antico, per lo più in forma casuale ma conseguente comunque ad operazioni di scavo. Queste dinamiche fanno parte dell’esposizione pausaniana in due forme: come riscontro nell’immediatezza dell’attualità che Pausania attraversa nel suo itinerario di indagine e di cui dà conto, o nella funzione di elemento costitutivo di una rievocazione storica/mitistorica, in cui può intervenire la mediazione di una fonte scritta. In entrambi casi, i dati in questione contribuiscono di fatto e in modo decisivo ad arricchire il quadro complessivo che Pausania si propone di delineare; e di fatto costituiscono una ulteriore riprova dell’incidenza, nel piano programmatico e nel tessuto espositivo della Periegesi, dell’esperienza viva ricavata dal percorso reale sul campo. Indicazioni utili sono fornite da alcuni passi che possono essere richiamati a riprova generale di una ‘attitudine archeologica’ - e di una parallela attenzione alla ricostruzione topografica - del Periegeta. La rapida rassegna che qui propongo è ordinata secondo la distinzione tra le due forme o categorie che ho appena
Hutton 2010. Musti 20138¸ xxi s., xlviii s. liii s. 3 Bultrighini 1990b. 4 Dimauro 2014; 2015; 2016. 5 Vd. in particolare Musti 1984 e Musti 1996, 11 s. 6 Cfr. da ultima Pretzler 2007, 12 ss., 63, 94, 136 ss. 7 Musti, 1996 11 s.; Bultrighini 1996, 40 s. Cfr. Bultrighini 1990b. 1 2
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Archaeologiae. Una storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro riferimento ad uno dei temi per lui di particolare e ricorrente interesse, quello dei siti éremoi o anástatoi, deserti per abbandono o devastazione12. L’esternazione di Pausania appare assai significativa, perché investe l’area generale del suo metodo di ricerca e specificamente lo sforzo di ricostruzione topografica sulla base delle tradizioni sugli archaîa. L’abbandono dei siti è denunciata dal Periegeta come causa della difficoltà di ‘trovare’ i confini, di precisarne i contorni topografici. Si evince l’importanza assegnata da Pausania, tra gli elementi costitutivi dell’indagine e dell’esposizione, a qualcosa che ai suoi tempi era sostanzialmente già topografia antica. Come ha ben ribadito Hutton nella sua monografia del 2005, abbiamo fondate ragioni per riconoscere al Periegeta un genuino interesse alla determinazione ed esposizione di dati topografici, in perfetta sintonia con il suo lavoro di «attentive autopsy»13.
indicato, e i passi all’interno delle due tipologie sono elencati nella sequenza dei libri della Periegesi. 1. Un indicatore importante per l’individuazione dei luoghi rilevanti ai fini della nostra indagine è senz’altro l’incrocio/combinazione tra l’idea dello «scavare» (orýssein) e del «trovare (estraendo)» (heurískein, exeurískein). Un qualche significato può essere attribuito, ritengo, al fatto che l’uso pausaniano del verbo heurísko riguardi in larga misura i due versanti semantici dell’estrazione mineraria8 e quello della dinamica di reperimento dell’informazione, una dinamica inclusiva dell’idea di «appurare, arguire », ai fini di una interpretazione9. In questo secondo versante si iscrive l’exeurísko da cui in 2.28.2 si evince un’attitudine generale di Pausania alla ricerca topografica, che in questo caso è frustrata:
Analogo intreccio di radicamento locale di tradizioni legittimanti - con cui il Periegeta si confronta nel suo percorso - e ‘oggetto anomalo’, stavolta chiaramente nel segno del ritrovamento (casuale) nel territorio, è innescato dall’operazione di heurískesthai in 3.26.6:
Salendo al monte Corifo, si può osservare, lungo la strada, un albero di ulivo detto «ulivo contorto»: fu Eracle a piegarlo in tondo con la mano. Non saprei dire se Eracle volesse così segnare il confine agli Asinei dell’Argolide, perché neanche in altri luoghi è più possibile scoprire qualcosa di sicuro riguardo ai confini, quando si tratta di siti abbandonati10. Ai margini del territorio del santuario di Asclepio presso Epidauro11, sull’altura del Corifo il Periegeta vede un ulivo caratterizzato da una conformazione anomala che sarebbe stata frutto di un’azione intenzionale di Eracle. La notizia ha tutte le caratteristiche della tradizione radicata sul posto: Pausania registra senza riserve la memoria locale sull’iniziativa dell’eroe, ma esprime una sostanziale perplessità su ragioni e finalità con cui evidentemente questa tradizione attribuiva al gesto di Eracle; ragioni e finalità che dovevano costituire parte integrante delle rivendicazioni di appartenenza territoriale (e correlata affermazione di esclusione di éthne allogeni) avanzate dagli interlocutori incontrati da Pausania nel territorio. A questo si collega una riflessione personale, che Pausania introduce facendo
Scrivo qui quanto so che ebbe luogo ai miei tempi nella parte del territorio di Leuttra presso il mare. Un vento che aveva portato l’incendio in un bosco distrusse la maggior parte degli alberi, e quando il posto riapparve brullo, fu ritrovata una statua di Zeus Itomata eretta qui. I Messenii dicono che questa è la prova che Leuttra era in origine parte della Messenia. Ma è anche possibile che i Lacedemonii fossero fin dalle origini a Leuttra, e che Zeus Itomata fosse onorato da loro14. Un recupero casuale, oggetto di attenzione e occasione per un atteggiamento velatamente critico del Periegeta nei confronti delle tradizioni locali: tradizioni locali che
1.21.5; 1.42.5 e 6; 2.3.5; 3.21.4; 8.39.6. Dimauro 2016, 99 ss. 10 Trad. D. Musti. 11 Cfr. Torelli 1986, xviii e 306. 12 Musti 20138; cfr. Bultrighini 2017, 248 s. 13 Hutton 2005, 80 e ss. 14 Trad. D. Musti. 8 9
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sono state innescate in conseguenza e presumibilmente a ridosso del ritrovamento nel territorio. Si tratta di una statua di culto della divinità nazionale messenica, Zeus Itomata, ritrovata dopo la distruzione della vegetazione ad opera di un incendio. Pausania registra tutto questo nel libro dedicato alla Laconia, nella sezione relativa al luogo del ritrovamento, il territorio costiero di Leuttra, ma significativamente ricorda per prima la rivendicazione messenica di titolarità originaria dell’insediamento15. La tradizione con cui Pausania è venuto a contatto - con ogni probabilità evocata localmente per essere motivo di una contestazione che Pausania ricorda - in modo neutro ma come seconda alternativa - è relativa ad un fenomeno naturale e a un recupero che si sono verificati «ai suoi tempi», nell’arco della sua esistenza16. La statua, oggetto delle versioni contrastanti sostenute dai due éthne visceralmente nemici, è dunque un esempio di rinvenimento contemporaneo di materiale arcaico; ed è presentato in ogni caso come reperto di antichità veneranda, da collocarsi ad uno stato originario del territorio di contestata attribuzione: una pezza d’appoggio, in conclusione, ‘archeologica’, funzionale a rivendicazioni di carattere antitetico.
Ancora una volta sono in gioco tradizioni contrapposte, e il ricordo di un rinvenimento (la koróne, cornacchia, bronzea) durante uno scavo è l’argomento principale per sostenere una creazione onomastica autonoma18. L’ingerenza beotica è ben percepibile nella prima versione, che si basa sull’arrivo di un ecista da Coronea e su una trasformazione del nome di Corone rispetto ad una denominazione omerica (Epea) considerata originaria. Quest’ultima idea sembra essere smentita dall’evidenza numismatica19: la sensibilità di Pausania per il reperto archeologico, potremmo dire, lo indirizzava sulla buona strada per un’opzione a favore dello héteros lógos; tuttavia, come usuale (e ‘erodoteo’), il Periegeta si limita ad accostare le versioni.
Un ritrovamento casuale è anche quello che ricorda Pausania in 4.34.5 a proposito della denominazione della pólis messenica di Corone; qui è esplicitamente in gioco uno scavo, quello per impiantare le fondazioni dopo il rientro dei Messenii dalla diaspora:
E la chiamano non solo Orthia, ma anche Lygodesma, perché fu trovata in un cespuglio di giunchi, e la vermena, che vi si attorcigliò intorno, rese diritta ( ) la statua20.
Analoga incidenza del rinvenimento di reperto arcaico su una scelta onomastica si rileva in 3.16.11; è qui in gioco una epiclesi alternativa della statua di Artemide Orthia, proposta in una versione locale:
Le circostanze del recupero della statua sono anche alla base di una delle spiegazioni proposte per l’etimo dell’attributo Orthia; Pausania probabilmente mutua dall’informazione locale anche il peso particolare attribuito ad una comparsa casuale della statua di culto, al rinvenimento di un reperto a cui viene accreditato - per così dire, ‘d’ufficio’ - il requisito di ‘originarietà’. Per il recupero della statua di Artemide Orthia il livello indicato da Pausania è quello di una circostanza di epoca alta, mentre si torna alla contemporaneità (rispetto all’arco dell’esistenza del Periegeta) in un caso sicuramente sintomatico, e ben noto, evocato nel libro V (20, 4 e 27, 11). Qui Pausania ricorda a due riprese il ritrovamento (heurethênai, heuréthe) del corpo dell’oplita riparatosi, in fin di vita durante uno scontro con gli Spartani, nell’interstizio tra il tetto esterno e il soffitto ornamentale del tempio di Era ad Olimpia. La scoperta è collegata, in entrambi i passi, alla circostanza di lavori di riparazione architettonica,
Anticamente il nome era Epea, ma quando i Messenii furono riportati dai Tebani nel Peloponneso, si dice che Epimelide, inviatovi come fondatore, la chiamò Coronea perché egli veniva da Coronea di Beozia, ma che i Messenii fin dall’inizio distorsero il nome e ancor di più col tempo il loro errore s’impose. C’è anche un’altra versione, secondo la quale, mentre scavavano per fare le fondazioni delle mura, s’imbatterono in una cornacchia di bronzo17. Cfr. Torelli 1991, 284. Sul tema, vd. Habicht 19982, 176 ss.; Musti 2001, 43 ss. Trad. D. Musti. 18 Dimauro 2016, 62. 19 Torelli 1991, 265; Arafat 1996, 30. 20 Trad. D. Musti. 15 16 17
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Archaeologiae. Una storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro il restauro (epanorthouménon, anaskeuazoménes) del tetto danneggiato del tempio:
:
(9.1)
Al tempo mio accadde anche quanto segue: un senatore romano conseguì una vittoria olimpica; volendo lasciare a ricordo della vittoria una statua di bronzo con iscrizione, fece scavare per erigere una base, e quando lo scavo giunse vicinissimo al punto della colonna di Enomao. Quelli che scavavano trovarono in quel punto reliquie di armi, di freni e di morsi. (9.1) Queste cose le vidi scavare io stesso23.
Il racconto che riferiva Aristarco, esegeta di tutto ciò che concerne i giochi olimpici, non era bene ometterlo: diceva che durante la sua gioventù, mentre gli Elei erano intenti a restaurare il tetto danneggiato del santuario di Era, fu trovato nell’intercapedine fra la parte visibile del soffitto e quella che sostiene le tegole il cadavere di un oplita con delle ferite; quest’uomo aveva combattuto la battaglia che gli Elei avevano sostenuto dentro l’Altis contro i Lacedemonii.
Il contatto diretto con operazioni di scavo a finalità monumentale è qui dichiarato inequivocabilmente, e lo stesso vale per il reperimento di natura archeologica24; nella circostanza Pausania deve aver trovato più d’un motivo di interesse, dall’autopsia ‘fortunata’ al rapporto diretto con un passato greco recuperato in contemporanea col contatto sul campo nel suo percorso esplorativo. Lo scavo (oruxámenos) di un canale per deviare il corso del fiume Oronte in Siria è all’origine della scoperta (heuréthe) di un sarcofago di inusuali dimensioni: Pausania richiama questo dato nell’ambito di una discussione sulla natura dei Giganti, in 8. 29.3-4:
Fu in questa battaglia che spirò anche quell’uomo che, restaurandosi ai miei tempi il tetto dell’Heraion, fu trovato lì giacente con le armi21. L’attenzione per interventi di conservazione monumentale è in questo caso in forma esplicita collegata al contatto coevo con fonti di informazione diretta e sul campo (l’esegeta locale Aristarco, come ritengo di aver dimostrato in modo inequivocabile)22. Il caso forse più lampante di interazione diretta tra l’orýssein e lo heurískein in una prospettiva archeologica contemporanea - pur sempre nella forma di recupero casuale - è rappresentato, in 5.20.8-9, dalla notizia dei rinvenimenti frammentari verificatisi durante lo scavo pianificato da un senatore romano per costruire la base di una statua commemorativa della propria vittoria olimpica:
L’imperatore romano volle che fosse risalito dalle navi dal mare fino alla città di Antiochia e, fatto scavare con molta fatica e dispendio di denaro un canale adatto alla risalita, deviò in esso il fiume. (4) Prosciugato il vecchio letto, fu trovata in esso
Trad. G. Maddoli. Bultrighini 1990a, 219, 256 ss.; 2016, 121 ss. Cfr. Hutton 2005, 246 n. 15; Pretzler 2007, 36; Dimauro 2016, 76 e 98; cfr. contributo Dimauro in questa sede. 23 Trad. G. Maddoli. 24 Habicht 19982, 178 s.; Saladino 1995, xi; Maddoli 1995, 308; Maddoli 1995, 308; cfr. contributo Dimauro in questa sede. 21 22
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un’urna sepolcrale di terracotta, lunga più di undici cubiti; il cadavere aveva dimensioni proporzionate a quelle dell’urna e aveva caratteri umani in tutto il corpo. Il dio di Claro, quando i Siri giunsero per consultare l’oracolo, dichiarò che si trattava di Oronte e che questi era della stirpe degli Indi25.
) è significativamente in sintonia con la visione della politica achea che Pausania esplicita nel libro VII. 2. Una sicura mediazione scritta dell’informazione mutuata da Pausania è alla base, in 2.23.8, del riferimento alla bara di Arianna riemersa nel témenos di Dionisio Cretese :
Pausania, nel percorso verso Megalopoli che lo porta ad attraversare la regione di Trapezunte si imbatte, nel centro di Bathos, nella tradizione locale arcadica che colloca qui (e non in Tracia, come in Erodoto, 7.23) la lotta tra dei e Giganti26. Il ricordo del rinvenimento della cassa col cadavere gigantesco presso Antiochia è plausibilmente un pezzo forte della discussione, riguardo alla natura umana e non anguiforme dei Giganti, che Pausania deve aver intrattenuto con gli eruditi del luogo. Il riferimento è ad un rinvenimento di età contemporanea a Pausania27, e la sua attenzione alle operazioni di recupero di reperti ne risulta pienamente confermata.
Licea dice che, quando veniva ricostruito il tempio, si trovò una cassa in terracotta, che apparteneva ad Arianna: e aggiunge d’aver visto la cassa personalmente, al pari degli altri Argivi29. La notizia di questo heurískein in concomitanza con un intervento architettonico è mediata da una fonte scritta, l’«espositore argivo delle tradizioni locali»30 Licea. Nella fonte era segnalata una fase di restaurazione dell’edificio templare, ed era precisata un’esperienza autoptica: Pausania, di norma scettico nei confronti delle tradizioni locali argive, in questo caso sembra accettare acriticamente il dato, e dare un valore equivalente all’autopsia altrui (per così dire, una ‘allopsia’) rispetto alla propria.
Nel santuario della Despoina presso Licosura (8.36.937.12), Pausania è impressionato dal fatto che le statue della Despoina e di Demetra siano ricavate da un unico blocco di marmo; è a proposito della provenienza di quest’ultimo che sono introdotte le nozioni dello scavare (orýxantes) e del trovare (exeureîn), in sintomatico collegamento con quella del «dire» (légousin) ‘locale’ (8.37.3):
Di derivazione libresca è anche il ben noto processo di seppellimento e dissotterramento di un prezioso reperto sull’Itome, oggetto rilevante nella leggenda nazionale della liberazione della Messenia. In 4.20.4 si ricorda l’«oggetto segreto» la cui sopravvivenza, in base agli oracoli di Lico, avrebbe garantito ai Messenii il recupero della loro patria: l’eroe Aristomene avrebbe provveduto a seppellirlo (katóryxen) nel luogo più deserto del monte. Al momento del rientro dalla diaspora su iniziativa tebana, ad Epaminonda e poi ad Epitele, un vecchio «molto somigliante a un ierofante» (4.26.6) appare in sogno per esortare e dare istruzioni riguardo alla rifondazione di Messene (4.26.7-8):
(...) ma tutto è un unico blocco di marmo. Questo marmo non fu portato da loro, ma dicono di averlo trovato, secondo la visione di un sogno, all’interno del recinto, dopo aver scavato la terra28. È un «dire» con cui i presumibili interlocutori locali di Pausania mettono in campo uno scavo programmato, in base ad una prescrizione onirica. Pausania puntualmente registra il dato. Nel passo è contenuto in qualche modo tutto il repertorio dell’indagine pausaniana: l’informazione orale sul blocco di marmo su cui ritengo che il Periegeta abbia sollecitato ragguagli, in 37, 3, è immediatamente preceduta (37, 2) dalla menzione dell’iscrizione del rilievo rappresentante Polibio nel portico del santuario, il cui contenuto (
Trad. M. Moggi. Paus. 8.29.1. Cfr. Moggi 2003, 429; Osanna 2003, xxxviii e 428. L’imperatore cui si fa riferimento è probabilmente Lucio Vero, e non Tiberio, come a lungo si è ritenuto: vd. Jones 2000; cfr. Arafat 1996, 82. 28 Trad. M. Moggi. 29 Trad. D. Musti. 30 Paus. 1.13.8. 25 26 27
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Archaeologiae. Una storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro a proposito di oggetti attinenti ad epoca arcaica o mitistorica. Ciò vale, come è ovvio, per tutti i riferimenti al recupero delle ossa di personaggi rappresentativi di queste stesse epoche33. Tra questi ultimi, uno merita un’attenzione speciale, perché vale a confermare tendenze e attitudini di Pausania: la tendenza, in particolare, a riportare alla riflessione personale e coeva il dato antico, e la correlata attitudine archeologica. È questa fondamentale attitudine a indurlo a prodursi in una congettura sulla mancata conservazione di un bene culturale, un oggetto tradizionale e identitario come le ossa (anzi, per la precisione, l’osso, una scapola) di Pelope, in 5.13.4-6. A Epitele, figlio di Eschine, rivelava altre cose - gli Argivi lo avevano scelto come generale e incaricato di rifondare Messene -; quest’uomo, dunque, fu esortato dal sogno, dove trovasse un tasso e un mirto che crescevano sull’Itome, a scavare in mezzo e a tirare fuori la «vecchia» chiusa nel suo talamo di bronzo: ella infatti era estenuata e già quasi spirava. Faceva appena giorno, quando Epitele si recò sul luogo indicato e, scavando, si imbatté in un’idria di bronzo. (8) Avendola portata subito a Epaminonda, gli esponeva il sogno e lo esortava a rimuovere il coperchio per vedere cosa ci fosse dentro. Epaminonda, dopo aver sacrificato e rivolto preghiere alla visione apparsagli in sogno, cercò di aprire l’urna e, apertala, vi trovò dello stagno ridotto a foglio sottilissimo: era arrotolato come i libri. Vi erano scritti i misteri delle Grandi dee, e questo era il deposito di Aristomene31.
Pelope, oggetto di particolare culto nell’Altis ad Olimpia (5.13.1-3), viene coinvolto nella saga troiana dalla tradizione che parla di indovini che avrebbero prescritto agli Achei di procurarsi oltre alle frecce di Eracle anche un osso di Pelope quale condizione per la presa della città; la scapola di Pelope, fatta venire da Pisa, sarebbe andata persa nel naufragio della nave che la trasportava. A questo punto entra in scena il ritrovamento, questa volta in mare. Il pescatore Demarmeno tira su con la rete l’osso e successivamente lo restituisce agli Elei su indicazione della Pizia. Così Pausania, in 5.13.6, conclude l’esposizione delle vicende relative all’osso ripescato:
L’idria di bronzo sotterrata da Aristomene che conteneva il testo del rituale misterico di Andania è un reperto in qualche modo frutto di una campagna di scavo programmata e finalizzata. L’attenzione di Pausania è ovviamente forte, perché è questo ritrovamento, e la trascrizione del rituale su libri da parte dei membri del génos sacerdotale, a consentire l’avvio formale dei lavori per la fondazione di Messene (4.27.5)32.
La scapola di Pelope ai miei tempi era ormai sparita, secondo me perché era rimasta immersa troppo a lungo nelle profondità e col passar del tempo era stata danneggiata non poco dal mare34. Si può presumere che della complessa tradizione sulla scapola di Pelope Pausania abbia ascoltato ragguagli e interpretazioni da addetti al Pelopion nell’Altis o da esperti locali con cui si è, come usuale, confrontato35. Dunque, gliene hanno parlato probabilmente sul posto36, e l’argomento, l’oggetto del reperimento e soprattutto il livello cronologico del reperimento stesso rientrano
In queste interazioni tra fonti scritte e ‘archeologia casuale’ appare logica l’assenza del parametro di una più o meno relativa attualità del rinvenimento di reperti,
Trad. D. Musti. Vd. Bultrighini 2001 (in cui ho anticipato una chiara presa di posizione antitetica rispetto a dilaganti tendenze ipercritiche circa l’esistenza di una memoria storica messenica e la validità della nozione di syggéneia etnica; temi su cui intendo tornare diffusamente in prossimi lavori); cfr. Hutton 2010, 449 ss. 33 Cfr., in particolare, 9.38.3-4, a proposito del ritrovamento delle ossa di Esiodo: gli abitanti di Orcomeno, nel cui territorio Pausana vede la tomba del poeta, sostengono (phasí) che la Pizia, quale rimedio per una pestilenza, ne aveva prescritto il recupero e la traslazione da Naupatto: qui, sempre su indicazione della profetessa, sarebbe stata una cornacchia (una koròne, volatile caro alle tradizioni beotiche: cfr. sopra nel testo, a proposito di 4.34.5) a segnalare il luogo in cui le ossa si trovavano, in una cavità di una roccia. Analoga prescrizione delfica per una ricerca programmata di resti, quelli di Atteone, in 9.38.5: ancora circostanze legómena Orchomeníois; questi ultimi avrebbero provveduto, sempre sollecitati dalla Pizia, a realizzare una statua incatenata dello spettro che li perseguitava; di questa statua, Pausania tiene a precisare la personale autopsia ( ). 34 Trad. G. Maddoli. 35 Fondamentale ora Dimauro 2016, 16 ss. e passim. 36 Cfr. 6.22.1. Vd. Maddoli 1995, 255; Pretzler 2007, 142. 31 32
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nella categoria ‘altri tempi’. Ma questi ultimi Pausania li riporta al livello del kat’ emé: è il livello in cui la sua attitudine alla riattualizzazione dell’antico ha modo di operare efficacemente; qui, attraverso una congettura sulle motivazioni della scomparsa del reperto.
dell’oro e che essi furono ben contenti di avere lo scettro invece dell’oro. Da parte mia, sono convinto che lo scettro fu portato nella Focide da Elettra, figlia di Agamennone41. Pausania dà spazio a una tradizione locale, che appare assai elaborata, per le sue implicazioni sul piano dell’autoaffermazione propagandistica. Il ritrovamento parallelo dell’oro da parte dei Focesi, mentre i Beoti di Cheronea sarebbero stati maggiormente soddisfatti di essersi assicurati la veneranda reliquia di origine divina, mette in campo un confronto sottinteso tra contrapposte caratterialità etniche, tra devozione beotica e avidità focese. Dalla versione locale cheronese, in ogni caso, Pausania non sembra essere stato convinto, e dichiara la sua preferenza per la tradizione che faceva riferimento ad Elettra venuta in Beozia col consorte Pilade (cfr. 2.16.7).
Ancora ad area mitistorica, mediata e attualizzata dal confronto diretto con un interlocutore sul campo37, si riferisce una delle versioni ricordate da Pausania38 a proposito della natura del cosiddetto Tarassippo (lo «Spaventacavalli»), in 6.20.18:
Un egiziano diceva che Pelope aveva sepolto nel luogo che chiamano Tarassippo qualcosa che aveva ricevuto dal tebano Anfione, e che per effetto di questo oggetto sepolto, come allora si imbizzarrirono a Enomao, così ancora oggi le cavalle si imbizzarriscono a tutti; (…)39.
Quello del recupero dello scettro di Agamennone trasmesso a Pelope, è un caso, soprattutto, che appare opportuno evocare in chiusura di questa breve rassegna; l’abbinamento phasì…heurethénai mette in campo, ancora una volta e in forma lucida, il processo - onnipresente nella composizione della Periegesi di alternanza e interazione di autopsia e ‘allopsia’ (‘sostitutiva’ o ‘integrativa’) in tema di ritrovamenti legati a dinamiche di scavo.
Abbiamo qui la nozione univoca del ‘seppellire’, senza successiva estrazione. Pausania opta per una spiegazione diversa, e razionalistica, dell’epiteto Tarassippo40; a dare spazio a questa versione può averlo indotto, oltre alla natura di prodotto dell’investigazione con interlocutori sul campo, anche la dimensione per così dire pre-archeologica dell’oggetto seppellito in età mitistorica: oggetto indeterminato, ma perché, appunto, ‘non riscoperto’. Ben noto e conservato è invece lo scettro di Pelope, a parere di Pausania (9.41.1) unico reperto esistente di originaria produzione divina (Efesto: Hom. Il. 2.100 s.). A Cheronea la versione locale, che il Periegeta puntualmente registra e riferisce (9.40.12), ne sostiene un recupero in una zona di confine con la Focide:
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[I Cheronesi] narrano che fu rinvenuto ai confini fra il loro territorio e quello di Panopeo nella Focide, che insieme a questo i Focesi trovarono anche
Bultrighini U. 2016, “I tempi di Aristarco,” in Dimauro 2016, 119-137.
Dimauro 2016, 46 s.; cfr. Habicht 19982, 144 s. Cfr. Bultrighini 2017, 511 (ad Paus. 10.37.4). 39 Trad. G. Maddoli-M. Nafissi. 37 38 40 41
(6.20.18; cfr. Maddoli-Nafissi 1999, 349).
Trad. M. Moggi.
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Elisabetta Dimauro
Pausania, 6.21.3-5: radici e disfatta di un pregiudizio Abstract: Concerning the texts of Pausanias, the individuation of the main elements and meaning of the narrative system is certainly based on the acquisition and communication of the information, specifically speaking of the percourse of the trip and of the visit. The step of field survey for Pausanias was fundamental for construction and verification of the information. What generally the author is writing is the definitive result between ‘passive’ and ‘active’ interaction of the local information. The contribution aims to investigate specifically this attitude of field research of Pausanias, as part of his methodology of research.
Come ha ben stabilito uno dei massimi esperti contemporanei della Periegesi di Pausania, Domenico Musti, «il compito della critica di Pausania è, ancora e sempre, quello di individuare il “sistema” dell’autore, per poi operarne una funzionale scomposizione e disaggregazione, proprio per una migliore valutazione del senso e dell’attendibilità della singola notizia d’interesse storico o antiquario o archeologico»1. In questo programma metodologico di individuazione degli elementi del sistema espositivo pausaniano rientra un dato di base, attinente al criterio stesso di reperimento del materiale narrativo: ossia la comunicazione e l’acquisizione dell’informazione nel percorso del viaggio e della visita personale ai luoghi oggetto della trattazione2. Su questo criterio si è concentrato il mio recente lavoro monografico «So perché ho visto», Viaggio e informazione in Pausania, in cui ho proposto una serie di verifiche di una dinamica compositiva, nella Periegesi, che presuppone la comunicazione e l’informazione reperita sul campo.
che in realtà, a mio parere, se applicata sistematicamente alla Periegesi, mette in secondo piano, del lavoro di Pausania, proprio la caratteristica centrale, la caratteristica che ne rispecchia e ne rivela la peculiarità. 1. La peculiarità della Periegesi va individuata nel fatto che la lettura storica del paesaggio topografico-monumentale perseguita da Pausania ha tra le sue componenti genetiche fondamentali la ricerca sul campo attraverso la comunicazione e l’interazione diretta con l’informazione locale. E, come ho cercato di chiarire nel mio recente saggio, all’interno di questa dinamica il dato ‘specificamente letterario’, ossia la fonte scritta presumibile o direttamente evocata - da Pausania o, ed è questa una eventualità trascurata negli studi, dai suoi presumibili interlocutori - non deve assurgere a criterio ermeneutico/analitico esclusivo. Il dato che con certezza si può far risalire - o, assai spesso, si congettura risalga - ad una fonte risulta essere infatti spesso solo un tassello dell’interazione diretta con luoghi e soggetti con cui Pausania è venuto in contatto5. La (più o meno certa, assai spesso solo presunta) individuazione di una fonte non deve insomma far perdere di vista una base nel lavoro compositivo di Pausania, una componente dell’esperienza autoptica di viaggio che è solo una pervicace sottovalutazione della critica moderna a trascurare e ignorare in modo sistematico, ossia la più che probabile (quando non dichiarata, ben desumibile dal contesto) discussione orale con interlocutori presenti sul campo. Ed è all’interno di quest’ultima che può ragionevolmente risalire l’origine della citazione o reminiscenza letteraria-storiografica stessa, evocata nello scambio di informazioni e commenti che la particolare evidenza monumentale di volta in volta in qualche modo impone6.
È un aspetto per così dire completamente ‘bypassato’ dalla ipercritica di stampo wilamowitziano, su cui tornerò tra breve. Una prospettiva, certo, considerata ora obsoleta per quanto concerne la rivendicazione dell’esperienza autoptica di Pausania3; ma credo meriti ancora attenzione il fatto che l’aspetto centrale di questa prospettiva è l’attenzione esclusiva al prodotto letterario, la concentrazione dell’interesse solo sulla ricerca delle presumibili fonti scritte utilizzate dal Periegeta. A questo proposito, è interessante ricordare come a Musti si debba anche una cursoria ma assai significativa constatazione, a proposito dell’approccio usuale al testo pausaniano: «si tratta di un campo propizio (...) agli esercizi degli indòmiti cacciatori di fonti»4. La categoria evocata da questa formidabile e penetrante definizione è responsabile, da sempre, di una metodologia di analisi
Musti 20138, xlv. «Non si deve naturalmente rinunciare né alla ricerca delle fonti dell’autore né (tanto meno) all’individuazione dei dati di fatto reali» (ibid.). I «dati di fatto reali» nel caso della genesi della Periegesi pausaniana sono in primo luogo, a mio avviso, le interazioni di Pausania con l’informazione locale: cfr. oltre nel testo. 3 «The antiquated notion that Pausanias’s claim of autopsy are largely fictional can safely be characterized as defunct» (Hutton 2010, 425 n. 2). 4 Musti 20138, xxx. 5 Dimauro 2016, 18 s. e passim. 6 Di un caso emblematico, il racconto pausaniano dell’attacco dei Celti a Delfi nel 279 a. C., mi sono occupata in Dimauro 2014: cfr. in partic. 341 1 2
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Archaeologiae. Una Storia Al Plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Lo ha ben ricostruito Christian Habicht nella sua monografia del 1985. Wilamowitz ha maturato un’avversione per Pausania e per l’attendibilità della sua Periegesi a causa di una brutta figura in cui era incorso quando aveva accompagnato in Grecia nella primavera del 1873 il principe ereditario del ducato di Sassonia-Meiningen e altri dignitari. È stato Wilamowitz stesso, in epoca successiva, a ricordare questa esperienza, nelle sue Erinnerungen 1848-1914, pubblicate nel 192811. Accolto con entusiasmo dal ventiduenne Bernardo III di Sassonia e dal suo seguito come esperto riconosciuto, Wilamowitz, all’epoca giovane e rampante studioso venticinquenne, aveva tentato di fare da guida al gruppo nel tragitto da Olimpia all’Arcadia, utilizzando Pausania. Il tragitto lungo la riva destra del fiume Alfeo aveva posto subito dei problemi geografici e topografici: Wilamowitz dichiara di aver avuto con sé il testo di Pausania, su cui si era già preparato durante la precedente permanenza ad Atene (ma, come vedremo più avanti, già allora era ricorso al testo pausaniano con un atteggiamento che tradiva un pregiudizio di fondo):
Nel processo di formazione e strutturazione del prodotto della scrittura comunicativa, l’incidenza dei dati della tradizione letteraria che fanno parte del bagaglio culturale dell’erudito opera, come è ovvio, anche nel caso della Periegesi. Basti pensare alle sintesi storiche, strutturate per lo più a delineare un curriculum bellorum, che precedono le descrizioni e gli itinerari delle varie regioni, e basti pensare ai numerosi e a volte corposi excursus, dai capitoli dedicati alla storia ellenistica meno nota nel I libro a quelli dedicati alla Sardegna nel libro X7. Ma in uno storico viaggiatore come il Periegeta, il cui grande modello e punto di riferimento era Erodoto, la ripresa o la rielaborazione di materiali desunti dalla tradizione scritta devono essere considerate componenti minoritarie, in qualche modo collaterali e fondamentalmente integrative, rispetto alla registrazione della viva esperienza sul campo: inclusi, appunto, gli esiti di discussioni erudite ‘dal vivo’. Questo suggeriscono fortemente la natura dell’opera e la sua particolare genesi8. 2. In realtà, questa è una componente della personalità e del metodo di lavoro di Pausania che, una volta riconosciuta e valorizzata, può rivelarsi utile per chiudere il conto con i rischi di una rinnovata e mai sopita tendenza alla svalutazione pregiudiziale dell’attendibilità da riconoscere alle informazioni offerte nella Periegesi. Come è noto, l’iniziatore di un atteggiamento di chiusura preventiva nei confronti di Pausania è stato, tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento, il grande filologo Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf. Si può parlare di un vero e proprio accanimento di Wilamowitz e della sua scuola contro Pausania, a cui è stato perfino affibbiato l’epiteto di “impostore”, ad opera, in particolare, di August Kalkmann nel 18869. Ma, come è stato già puntualmente notato10, ma credo possa essere ribadito con ulteriori riflessioni, l’atteggiamento di Wilamowitz ha avuto una motivazione di natura psicologica e non propriamente scientifica.
Weiter ging es flussaufwarts. Es hatte schon so gefügt, dass die geographischen und topographischen Fragen mir vorgelegt wurden; ich hatte den Pausanias mit, auch in Athen mich etwas vorbereitet. So hatte ich Psophis nach der Erinnerung an Polybios trotz allen Zweifeln sicher erkannt. Aber hier am Alpheios wollte nichts stimmen, (...)12 È significativo che qui sia stabilito dal filologo tedesco un parallelo con un autore, Polibio, di cui viene dichiarata la totale affidabilità. Semplicemente grazie a una reminiscenza polibiana, dice Wilamowitz, nessun dubbio era sorto circa l’identificazione di Psofide. Psofide era situata sul lato occidentale dell’alto corso dell’Erimanto, più a nord di Erea: Polibio, al capitolo 70 del IV libro, fornisce in effetti indicazioni puntuali13 sull’ubicazione della località arcadica attaccata da Filippo V,
ss. (cfr. anche Dimauro 2015). A proposito dei libri sull’Elide di cui ci occuperemo in questo contributo, la modalità che risulta essere adottata da Pausania nell’utilizzo del suo venerato modello Erodoto è una modalità che comporta riecheggiamenti e integrazioni «sulla base dei monumenti, delle notizie da lui offerte» (Nafissi 1999, xxxii; cfr. 366, ad 6.22.2). 7 Cfr. Hutton 2005, 263. Su Paus. 10.17.1 ss.vd. Bultrighini 2017, 355 ss. Sul criterio pausaniano del curriculum bellorum cfr. Bultrighini 1986-1988, 304 s.; Alcock 1996, 251 ss.; Hutton 2005, 63 s., 302 s.; Dimauro 2015, 231 ss., con altri rif. bibl. 231 n. 1. 8 Cfr. Musti 20138, xxiv-xxv, xxxv, xlii-xliv; per il culto pausaniano del modulo storiografico erodoteo, ibid. xx-xxi, xxiii-xxiv. L’ipotesi di lavoro che si può proporre, riguardo alla presenza della cultura storiografica di Pausania nella sua Periegesi, è quella di riuscire ad individuare di volta in volta i canali di questa presenza nella struttura narrativa. Una verifica attenta di segnali all’interno del testo pausaniano pone di fronte alla scelta tra tre categorie: (1) la categoria della fonte utilizzata in modo tradizionale, ‘autonomo’ rispetto al lavoro periegetico; (2) la categoria della fonte integrata in una avanzata fase redazionale; (3) la categoria della fonte ‘verificata’ sul campo, nonché utilizzata e/o imposta dal confronto con gli interlocutori sul campo stesso. Considero la categoria (3) quella maggiormente operante nella concezione e genesi della Periegesi. Un caso esemplare è senza dubbio la già citata (nota 6) narrazione pausaniana dell’invasione celtica del 279 a. C. (Dimauro 2014). Cfr. Musti 20138, xxxii-xxxiii. 9 Vd. Musti 20138, xl-xli. 10 Habicht 19982, 165 ss. Cfr. in tempi più recenti Hutton 2005, 21 s. 11 Erinnerungen 1848-1914, Leipzig 1928. Cito dalla Berliner Ausgabe, 2013, 2.Auflage (Vollständiger, durchgesehener Neusatz bearbeitet und eingerichtet von Michael Holzinger). 12 Ibid., 140. Su quanto Wilamowitz precisa subito dopo, vd. oltre nel testo. 13 Polyb. 4.70, 3-10: (...) (...) , (...) (...).
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E. Dimauro
Pausania, 6.21.3-5: radici e disfatta di un pregiudizio
nel 219 a. C., nel corso della guerra sociale tra lega achea e lega etolica. Il parallelo, visto che mette in gioco una località situata parecchio più a nord - e dunque priva di attinenza topografica o logica stringente -, è chiaramente pretestuoso, e appare motivato da una esclusiva volontà di insinuare una valutazione comparativa sfavorevole circa l’attendibilità, sul piano topografico e geografico in generale, di tutto quanto riferito non da Polibio ma da Pausania. È interessante rilevare come proprio a proposito di Psofide Wilamowitz avrebbe potuto utilmente consultare Pausania: in 8.23.9-25.1, è trattato, oltre a questo centro, un percorso che partendo da Psofide aveva una meta conclusiva in Erea (8.25.12)14
die hellenische Geschichte, die hellenischen Menschen und vor allem ihre Götter verstehen zu können»17: quella del marzo 1873, dunque, era stata una partenza piena di aspettative. Lo si evince con chiarezza anche dall’accenno alla notte passata sulla nave nella baia di Pilo, a causa delle condizioni avverse del mare: il ricordo vivo è quello del gracidare onomatopeico delle rane nella commedia di Aristofane18. Ma di cosa invece Pausania evocasse alla sua immaginazione, e soprattutto alla sua considerazione, Wilamowitz lo fa intendere parlando della sua esperienza ad Atene: dove, per orientarsi sulla topografia, il filologo dichiara di essersi affidato al classico lavoro del 1821 di William Martin Leake19, «neben dem verwirrenden Pausanias». Trova modo qui di manifestarsi una diffidenza preconcetta per lo ‘sconcertante e confuso’ Pausania, ben prima dell’incidente di percorso nel tragitto Olimpia-Erea.
Wilamowitz, subito dopo il richiamo parallelo a Polibio, puntualizza come, una volta iniziato il tragitto lungo il fiume Alfeo, non ci fosse nulla che risultasse coincidere con le indicazioni di Pausania. È facile immaginare, ha argutamente commentato Habicht, quale considerazione all’illustre studioso sia stata riservata dai suoi compagni di viaggio. A rincarare in seguito la dose, suggerisce Habicht, ci fu il fatto che il già poco amato Schliemann fece le sue famose scoperte a Troia in quello stesso periodo: ciò avvenne esattamente pochi mesi dopo, nel maggio dello stesso anno 1873; e solo tre anni dopo, nel 1876, Schliemann fece le famose scoperte a Micene, e le fece proprio sulla base di un passo del II libro di Pausania15.
Sempre nelle Erinnungen, sono forniti gli estremi per capire la disposizione psicologica del giovane filologo anche nei confronti del ventiduenne rampollo della dinastia di Sassonia-Meiningen; una disposizione psicologica che fa in qualche modo il paio con la contrarietà suscitata in lui da Pausania. Del principe ereditario Bernardo III sappiamo che aveva da poco ultimato i suoi studi universitari di filologia classica e che poi per un ventennio continuò a viaggiare in Grecia e in Asia Minore, coltivando la sua passione per l’antichità greca. Per Wilamowitz, come risulta dal primo brano, l’arrivo di Bernardo in pompa magna costituì l’occasione per aggregarsi al suo viaggio a cavallo nel Peloponneso. Le notazioni introdotte da Wilamowitz nel suo racconto fanno trapelare, al di sotto della deferenza di rito nei confronti dell’autorità ducale, un sentimento di malcelata insofferenza. Qualche cosa traspare già dalla scenetta del principe che imprecando fa un sobbalzo dal suo morbido cuscino per eliminare qualche cimice e sveglia Wilamowitz accomodatosi sul pavimento, nella sosta notturna ad Andritzena, dopo l’attraversamento dell’Erimanto, del Ladon e dell’Alfeo20. Ma il vero dettaglio rivelatore è presente all’interno della rievocazione del tragitto tra Corinto e Fèneo, nell’Arcadia settentrionale. Il principe ereditario rivela in questa circostanza il suo progetto di scrivere una tragedia d’ispirazione e ambientazione classica: «ich glaube, einen Themistokles», aggiunge in tono elusivo Wilamowitz; e ricordando le perplessità personali espresse al riguardo, Wilamowitz precisa che queste ultime risultarono di fatto sgradite e indesiderate al ‘pur
Mi sembra interessante integrare il quadro delineato da Habicht con altri indizi che emergono da questa rievocazione che Wilamowitz fa del suo primo viaggio in Grecia, un viaggio di studio affrontato dal filologo tedesco tra marzo e maggio del 1873, nel periodo successivo alla laurea del 1870. Wilamowitz era in Italia dall’agosto del 1872 e si imbarcò a Napoli. Poco prima della sua partenza per la Grecia aveva visto arrivare, all’Istituto archeologico Germanico di Roma, Teodoro Mommsen, che un paio d’anni più tardi sarebbe diventato suo suocero, e che Wilamowitz ricorda di aver percepito come l’arrivo del sole16. Possiamo pensare a una condizione di entusiasmo cerebrale, viatico in perfetta sintonia con la disposizione psicologica del giovane studioso nell’imminenza del suo primo contatto col suolo ellenico. Al momento del ritorno in Italia Wilamowitz dichiarerà del resto di essersi sentito «nun erst befähigt zu sein,
Osanna 2003, xviii s., 401 ss.; Hutton 2005, 93. Paus. 2.16. 6. Vd. Torelli 1986, 266 s. 16 «damit ging eine Sonne auf, um die alles kreisen musste»; ciò «die Italiener ganz besonders», esternazione che non sembra esattamente di stima. 17 Wilamowitz 1928, 143. 18 «Der Dampfer konnte um Kap Matapan nicht herum, sondern musste umkehren und in Hafen von Navarino Schutz suchen. Da lagen wir eine Nacht; in der Lagune quakten die Frösche ein echt aristophanisches brekekekex, koax, koax» (Wilamowitz 1928, 137). 19 The Topography of Athens, with Some Remarks on its Antiquities, London 1821. Il quale Leake, peraltro, a sua volta aveva avuto una assai scarsa stima di Pausania: cfr. Hutton 2005, 22. 20 «Nachtquartier in einem vornehmen Hause in Andritzena. Der Prinz schlief in einem Bette, ich sehr gut auf dem Boden, erwachte nur einmal, als der Prinz fluchend aus den seidenen Kissen auffuhr und einige wenige der Wanzen umbrachte» (Wilamowitz 1928, 141). 14 15
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Archaeologiae. Una Storia Al Plurale. Studi in memoria di Sara Santoro cortese’ principe21. Si intravvede una disposizione di fondo analoga a quella nutrita dal grande filologo per Pausania, e forse è anche questo un fattore psicologico da tenere in considerazione.
un santuario; ma anche in questo caso si manifesta, nel suo modo di esprimersi, la tendenza a ridimensionare a tutti i costi Pausania, visto che Wilamowitz approfitta per evocare un caso di presunte sciatterie pausaniane, la descrizione dei templi di Marmarià a Delfi:
Dall’esperienza del primo viaggio in Grecia, e poi soprattutto dal momento dell’implicita valorizzazione che di Pausania significarono nel 1876 le scoperte di Schliemann a Micene, si data l’impegno attivo di Wilamowitz, in vari studi, per screditare il Periegeta. Wilamowitz per primo, e dopo lui vari studiosi della scuola di Berlino, hanno sostenuto, in base ad analisi di vari passi - su cui non a caso in seguito sono arrivate negli studi puntuali smentite -, che Pausania non riferisce testimonianze autoptiche; egli avrebbe copiato (male, e introducendo errori, fraintendimenti e confusioni) da un’opera periegetica di un altro autore - probabilmente Polemone di Ilio22 - risalente al II secolo a. C. Ciò veniva affermato in conseguenza del fatto che la Periegesi non si occupa di monumenti e opere d’arte successive a quel periodo. Quest’ultima, come è noto, è un’altra convinzione tanto diffusa nella critica moderna quanto non supportata dalla realtà del testo: certo Pausania è interessato in prima istanza a tutto ciò che testimonia il periodo arcaico, classico e protoellenistico, ma non mancano, a confermare la regola, eccezioni, con menzione di testimonianze monumentali e avvenimenti più recenti23.
(wenn man au Liederlichkeiten wie bei den Gebäuden der delphischen Marmariá auch gefasst sein muss)25. A proposito degli edifici di Marmarià, in realtà, non si tende oggi a riconoscere una particolare confusione da attribuire al Periegeta26. Ma anche nell’eventuale alternativa di un utilizzo dalle premesse ‘positive’, Wilamowitz non appare disposto a concedere la qualifica di affidabilità al lavoro del Periegeta. Pausania non deve essere poi in assoluto utilizzato, sostiene Wilamowitz, come guida: le guide il viaggiatore le trova sul posto, mentre il libro altro non è che un’integrazione, o meglio, in sostanza, un surrogato gradito al gusto dell’epoca (evidentemente nell’area micrasiatica), per fare a meno di viaggi in una madrepatria piccola e decaduta. Aleggia qui la prefigurazione dell’interpretazione robertiana e pasqualiana della Periegesi come pura pantodapè historía27. 3. L’atteggiamento ipercritico di Wilamowitz e della sua scuola, come s’è accennato, non ha avuto vita lunga, anche per le forti conferme che alla validità dell’informazione pausaniana sono venute dagli scavi archeologici e dai rinvenimenti epigrafici del XX secolo, a Delfi e ad Olimpia soprattutto, e in generale nel Peloponneso e in altre regioni del mondo greco28. In particolare dal secondo dopoguerra la rivalutazione di Pausania è stata sempre più profonda ed equilibrata, specie negli studi italiani, e specie dopo l’avvio dell’edizione critica e commentata per la Fondazione Lorenzo Valla, iniziata per impulso di Domenico Musti nel 1982 e conclusasi di recente con la pubblicazione dell’ultimo volume, il decimo libro della Periegesi, dedicato a Delfi e alla Focide29.
Ricordando l’episodio nelle Erinnungen, per il suo errore sulla strada Olimpia-Arcadia Wilamowitz se la prende con Pausania, pur dopo aver ammesso di non aver saputo all’epoca che il percorso di Pausania aveva seguito la direzione contraria (vd. oltre nel testo): Das war schon früher bemerkt, aber davon wusste ich nichts, und meine geringe Schätzung des auch jetzt noch von den meisten Archäologen kanonisierten Sophisten stammt von dieser Erfahrung24. Wilamowitz se la prende dunque in particolare anche con gli archeologi, rei di aver «canonizzato» questo autore, che per lui era solo un ‘sofista’. L’utilizzo della Periegesi, afferma in tono perentorio il filologo tedesco, è lecito quando si sono effettuati scavi di una città o di
Tuttavia si può dire che Wilamowitz e gli studiosi che hanno seguito in qualche modo la sua scia hanno lasciato il segno, e saltuariamente si constatano manifestazioni di un perdurante clima di sospetto e sfiducia nei
21 «Der Prinz verriet unterwegs, dass er den Plan zu einer Tragödie, ich glaube, einen Themistokles, in sich trug; meine Bedenken waren ihm unwillkommen, aber seine sehr jugendliche Liebenswürdigkeit ertrug sie» (Wilamowitz 1928, 139). 22 Musti 20138, xxxi; vd. ora Angelucci 2017, con equilibrata impostazione del problema del rapporto di Pausania e Polemone. 23 Musti 20138, li-liii; Nafissi 1999, xxiii s., xxvi; Hutton 2005, 19 s. 24 Wilamowitz 1928, 140-141. 25 Wilamowitz 1928, 141. 26 Sugli edifici di Marmarià il punto ora è stato fatto da Torelli e Bultrighini nel commento a 10.8.6: Torelli 2017, 267 ss.; Bultrighini 2017, 274 s. Cfr. Musti 20138, li-lii. 27 «(...) aber zum Führer taugt er schlecht, hat das auch nicht beabsichtigt: die Führer fand der Reisende an Ort und Stelle; das Buch war dann eine reiche und für den Zeitgeschmack geniessbare Ergänzung; im übrigen mochte es vielen die Reise in das kleine und verfallene Mutterland ersetzen» (Wilamowitz 1928, 141). Cfr. Musti 20138, xl-xli. 28 Cfr., i. a., Hutton 2005, 19 ss. 29 Bultrighini 2017, Torelli 2017.
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E. Dimauro
Pausania, 6.21.3-5: radici e disfatta di un pregiudizio
confronti del Periegeta30. Come anticipato sopra, una chiave per scardinare definitivamente il pregiudizio si può individuare proprio nella verifica dell’incidenza della comunicazione e interrelazione sul campo nel tessuto espositivo della Periegesi. Propongo perciò qui l’utilizzo di questa chiave proprio a proposito del passo che nel 1873 aveva sconcertato Wilamowitz innescando la sua opera denigratoria. Si potrà verificare la coerenza del metodo compositivo ed espositivo di Pausania; una coerenza che induce a mettere da parte o almeno a rendere poco congruenti le categorie di Verwirrung o simili.
là del monumento sono le rovine di edifici, dove dicono che fossero tenute le cavalle di Enomao. I confini della regione con l’Arcadia, attualmente confini per gli Elei, ma gli stessi in origine stabiliti per i Pisati, sono i seguenti. Attraversato il fiume Erimanto, nella zona della rupe cosiddetta di Sauro si trovano una tomba, quella di Sauro, e un santuario di Eracle, in rovina ai nostri giorni: dicono che Sauro maltrattava i viandanti e la gente che abitava nei dintorni, finché non ricevette da Eracle la giusta punizione. (4) All’altezza di questa rupe che prende il nome dal brigante, un fiume si getta da mezzogiorno nell’Alfeo proprio di fronte all’Erimanto: è questo fiume a segnare il confine della Pisatide con l’Arcadia e si chiama Diagonte. Procedendo per quaranta stadi oltre la rupe di Sauro c’è un tempio di Asclepio, detto Demeneto dal nome di colui che l’ha innalzato; anch’esso è in rovina; fu costruito sull’altura nei pressi dell’Alfeo. (5) Non lontano da questo tempio vi è il santuario di Dioniso Leucianite, cui scorre accanto il fiume Leuciania: si getta anch’esso nell’Alfeo e discende dal monte Foloe. A partire da questo punto, se attraverserai l’Alfeo, ti troverai nella Pisatide32.
Si tratta di tre paragrafi del ventunesimo capitolo del VI libro, il secondo dei due libri centrali dedicati ad Olimpia e all’Elide: (21.3)
Pausania con questi paragrafi termina la lunga trattazione di Olimpia iniziata al capitolo 10 del libro V. A questo punto introduce la sezione dedicata alla Pisatide, regione dell’Elide. Inizia con l’indicazione dei confini con l’Arcadia, ricordando prima che si tratta degli attuali confini con l’Elide intera, ma precisando, per poi ribadirlo alla fine del brano, che in origine erano i confini specifici tra Pisatide e Arcadia. Wilamowitz non aveva capito una cosa fondamentale. E perfino lui se ne è accorto in seguito, ma questo non è stato sufficiente per fargli cambiare di una virgola il giudizio su Pausania: Aber hier am Alpheios wollte nichts stimmen, konnte es auch nicht, denn Pausanias beschreibt den Weg in umgekehrter Richtung. Das war schon früher bemerkt, aber davon wusste ich nichts, (...)33. La cosa fondamentale è, appunto, che il percorso descritto dal Periegeta non continua, dopo la menzione del sepolcro e delle stalle di Enomao al di là del Cladeo, lungo la direzione dalla zona di Olimpia verso est. Una volta conclusa la trattazione del territorio di Olimpia,
(21.3) Attraversato il Cladeo c’è il sepolcro di Enomao31, un tumulo di terra cinto da pietre, e al di
In questo tenace ridimensionamento rientra anche, a mio avviso, la concezione di Pausania come «dependable dullard» o come autore di un mediocre tentativo di guida («the perception that still persists in some quarters that Pausanias is a tedious, unintelligent author whose aims and opinions are far less interesting that the factual information he provides», Hutton 2010, 424; cfr. Hutton 2005, 22 ss., 242 ss.). Cfr., e.g., Luraghi 2008, 94 ss., 99. 31 Sul legame di Enomao col Cladeo, raffigurato sull’angolo nord, sul lato di Enomao, del frontone orientale del tempio di Zeus ad Olimpia (Paus. 5.10.7), vd. Saladino 1995, 233. 32 Paus. 6.21. 3-5 (trad. G. Maddoli-M. Nafissi, lievem. modif.). 33 Wilamowitz 1928, 140. Cfr. lo sconcerto di Habicht 19982, 170 s. n. 31, per l’atteggiamento ostinato di Wilamowitz pur consapevole del proprio errore. 30
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Archaeologiae. Una Storia Al Plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Pausania persegue usualmente. Da un lato, la lettura storica del dato monumentale, perseguita in particolare quando ha a che fare con ereípia, ruderi; e, dall’altro, il procedimento fondamentale per ottenere questo risultato, ossia l’incessante lavoro sul campo e l’interazione con l’informazione locale, funzionale alla ricostruzione di quello che i ruderi rappresentano. I due légousi del paragrafo 3 si riferiscono esattamente a questa dinamica, ed entrano in gioco in concomitanza con la menzione di ereípia.
prima di passare alla trattazione del territorio della Pisatide, Pausania inizia descrizione e narrazione dai confini orientali della Pisatide, partendo, nell’esposizione, dall’Arcadia e dal percorso Erea-Olimpia. Da est ad ovest, quindi nella direzione opposta a quella che Wilamowitz erroneamente presupponeva nel passo pausaniano. Dopo un ultimo accenno alla zona di Olimpia e al sepolcro di Enomao, da collocare con ogni probabilità sulla riva destra del Cladeo, Pausania riprende il percorso da Erea ad Olimpia, attraversa l’Erimanto, e tutto lascia supporre che qui ci troviamo di fronte a un percorso ben noto a Pausania: in 8.26.3, infatti, dopo aver trattato di Erea, il Periegeta aggiunge
Gli ereípia al di là del tumulo di Enomao sono le stalle delle famose cavalle con cui il mitico re di Pisa batteva, nella sfida della corsa coi carri, tutti i pretendenti alla mano della figlia Ippodamia e li uccideva, fino all’arrivo di Pelope e alla corruzione dell’auriga di Enomao, Mirtilo, il quale provvide al sabotaggio del carro del re, e a provocarne la morte. Per la saga di Enomao Pausania poteva certo rifarsi ad una tradizione variegata e consolidata, dalla I Olimpica di Pindaro in poi37. Ma poiché il tema ricorre nella Periegesi, in più occasioni e in relazione a siti e monumenti diversi, è chiaro che Pausania è soprattutto attento a quello che non è nelle tradizioni ufficiali e comuni, e che può menzionare come integrativo. È quello che si verifica nel segmento testuale che aveva disorientato Wilamowitz, e più in generale nell’economia espositiva della periegesi elea: e si verifica con ogni evidenza grazie all’informazione locale legata ad un’evidenza monumentale.
Discendendo da Erea verso l’Elide, e allontanandoti quindici stadi da Erea, attraverserai il Ladone e, dopo circa venti stadi da questo, giungerai all’Erimanto34, e precisa che l’Erimanto era il confine fra Erea e l’Elide, mentre gli Elei sostenevano che il confine fosse segnato dalla tomba del primo vincitore olimpico nella corsa, Corebo. In ogni caso, la direttrice Erea-Erimanto costituiva nell’ottica del Periegeta un preciso punto di riferimento.
Va soprattutto considerata una straordinaria coincidenza, in questa sezione del libro VI, tra strategia testuale e rappresentazione di un percorso reale: il tutto risulta contrassegnato da un tratto unificante, coincidente con un complesso mitico dalla valenza di elemento fondante degli agoni: quello che coinvolge, appunto, l’archetipo delle corse col carro38 incarnato dal sovrano di Pisa Enomao39, da sua figlia Ippodamia e dal pretendente vittorioso Pelope. E su quanto peso nella sua visione ideologica e nel suo approccio al territorio eleo potesse assegnare al parametro dei giochi olimpici, Pausania lo esprime senza possibilità di dubbio in 5.10.1:
Nel percorso delineato nel libro VI, Pausania in prossimità della confluenza dell’Erimanto nell’Alfeo trova la tomba del brigante Sauro e le rovine di un tempio di Eracle; a questa altezza, sulla riva opposta dell’Alfeo, da sud, confluisce il Diagonte, che segna il confine Pisatide-Arcadia. Al di là di qualche incertezza che il testo di Pausania lascia in merito agli attraversamenti dell’Alfeo e al di là di qualche identificazione dei siti ancora incerta35, la logica e l’attendibilità del percorso descritto da Pausania è stato riconosciuto in modo unanime36. Non c’è nessun bisogno di pensare che Pausania inventi di sana pianta o che copi malamente una periegesi precedente. Ma questo lo dimostra anche la riconoscibilità, nell’insieme del passo, degli obbiettivi e del metodo che
Trad. M. Moggi. Saladino 1999, 355 s., 357 s. 36 Saladino 1999, xvi; Hutton 2005, 85. 37 Pind. Ol. 1.69 ss.; Soph. El. 504 ss.; Eur. Or. 988 ss.; Diod. 4.73; Apollod. ep. 2.4-9. 38 Cfr. Pind. Ol. 1.93 ss. Vd. Maddoli 1995, 231 con rif. bibl. 39 Enomao basileús di Pisa: Apollod. ep. 2.4, cfr. Diod. 4.73.1; in Pind. Ol. 10.45-51 il dominio di Enomao è inclusivo di Olimpia (cfr. Ol. 1. 70 ss.; 2.3-4; 3.9; 5.9; 6.4-5; 8.9; 13.29; 14.23). 34 35
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E. Dimauro
Pausania, 6.21.3-5: radici e disfatta di un pregiudizio
Molte cose tra i Greci hanno del miracoloso, alcune da vedere, altre da sentir raccontare: ma soprattutto v’è intervento divino quando essi celebrano i misteri di Eleusi e i giochi di Olimpia. (trad. G. Maddoli)
che «a quanto raccontano (kathà légousin)» - il che rinvia decisamente a tradizione locale42 - questa colonna aveva fatto parte della oikía di Enomao, distrutta da un fulmine43. L’appartenenza della colonna alla dimora di Enomao ad Olimpia era affermata, come Pausania non manca di registrare, da un’iscrizione su una placca di bronzo, probabilmente risalente ad età ellenistica44. Dal punto di vista dell’interazione dei due criteri45, quello della strategia espositiva e quello per così dire trainante dell’itinerario monumentale - per cui vanno messi in ogni caso in conto i principii assiologici di Pausania - si impongono due osservazioni:
L’omologazione dei giochi olimpici con i misteri eleusinii, da parte di un devoto e probabile iniziato come Pausania40, è assai indicativa. E la cosa da sottolineare è l’omologazione Eleusi-Olimpia come contenitori di ‘thaúmata massimi’ da vedere e di cui sentir dire. 4. Il segmento testuale che abbiamo preso in esame è, dal punto di vista della strategia espositiva, la ripresa del percorso periegetico vero e proprio nel territorio eleo al di fuori del suo centro più celebre già ampiamente trattato. Pausania riparte dalla definizione dei confini con l’Arcadia prima di entrare nella Pisatide; lo fa dopo le lunghe sezioni del libro V dedicate alla mitistoria e storia degli Elei, incentrata soprattutto sulle origini e sviluppi dei giochi (5.1.1-5.5.1; 5.7.6-5.9.6), con l’intermezzo periegetico nel percorso verso Olimpia che tocca centri e corsi d’acqua della Trifilia (5.5.35.7.3), e dopo la descrizione di Olimpia. L’itinerario all’interno del santuario inizia col tempio di Zeus (5.10.1) e si conclude, nel nostro passo (6.21.3), col ricordo del sepolcro e delle stalle di Enomao: nel segno di Enomao si era già introdotto uno spartiacque, in 6.18.7, tra il lungo elenco delle statue onorarie per gli atleti iniziato col libro VI e la ripresa della descrizione degli edifici del santuario. La sezione dedicata a statue dedicatorie riguardanti soggetti umani termina infatti col ricordo delle prôtai eikónes di atleti, quelle per l’egineta Prassidamante e per l’opunzio Ressibio, situate «non lontano dalla colonna di Enomao»41.
I. Le menzioni della colonna di Enomao (e in modo esplicito o implicito della casa del re pisate di cui la colonna era a livello di tradizione locale considerata come parte), in 5.20.6-8 e poi in 6.18.7, in qualche modo costituiscono preambolo e conclusione, e di fatto incorniciano46, la serie completa delle statue votive, secondo la disposizione gerarchica divine-umane, adottata da Pausania47; II. Contemporaneamente, il primo ricordo della colonna appare di fatto incastonato tra due delle più esplicite indicazioni (5.20.4-5/5.20.8) che la Periegesi fornisca sul contatto diretto di Pausania con luoghi e persone incontrate nel percorso periegetico. La prima di queste indicazioni (5.20.4-5) è quella che mette in gioco la narrazione del ritrovamento del cadavere, perfettamente conservato, di un oplita trascinatosi al riparo nell’Heraion, nell’interstizio tra il tetto esterno e il soffitto ornamentale, durante uno scontro nell’Altis con gli Spartani (cfr. 5. 27.11). Se nulla da eccepire sembra esserci sul Symbolcharakter rivestito dall’episodio all’interno dell’economia espositiva del libro V, in quanto l’oplita di IV sec. a. C. riportato alla luce testimonierebbe la vicinanza ideale di Pausania e della sua epoca all’età classica della Grecia48, è il caso tuttavia di non dimenticare, come sembra fare Schneider, che il
) la Su «quella che gli Elei chiamano ( colonna di Enomao» Pausania si era soffermato in dettaglio in 5.20.6-7, dopo aver descritto il tempio di Era e di quanto in esso conservato (5.16.1-5.20.3), precisando 40
Cfr. Maddoli 1995, 227 s.
. Su vari aspetti problematici relativi alla colonna di Enomao vd. Brulotte 1994, 53 ss. e Zizza 2006, 216 ss. con altri rif. bibl. 42 Saladino 1995, 307. Vd. Zizza 2006, 216 s. n. 3 con rif. bibl. 43 Cfr. 5.14.7, dove nella serie degli altari cui Pausania dedica una descrizione accurata (Saladino 1995, x s.) sono ricordati i due altari di Zeus Herkeios e di Zeus Keraunios, situati nel sito delle fondamenta della casa di Enomao e direttamente a lui collegati, per essere stati il primo da lui costruito - in base a quanto ephaíneto - e il secondo eretto - secondo la congettura personale del Periegeta (emoì dokeîn) - a memoria del fulmine che aveva distrutto la dimora del sovrano (cfr. Saladino 1995, 245, 264 s.). Al di là del valore di testimonianza del ruolo di un re pisate ad Olimpia, in questa ipotesi pausaniana sembra in ogni caso trapelare l’influsso generale esercitato da rappresentanti della tradizione elea con cui il Periegeta ha avuto stretti e intensi rapporti. Cfr. Zizza 2006, 221, 222 e n. 23, 223, con ampia bibl. 44 Brulotte 1994, 56 s.; Zizza 2006, 216 ss. 45 Cfr. sopra, conclusioni del punto 3 e, più oltre nel testo, del punto 6. 46 La serie degli anathémata, puntualmente distinti dagli andriántes di cui Pausania inizierà la trattazione a 6.1.1, inizia subito dopo la menzione del ‘rinvenimento archeologico’ in 5.20.8 (su cui vd. oltre nel testo) e la conclusione dell’itinerario nella parte settentrionale dell’Altis con il Metroon e il Philippeion, edifici entrambi contenenti statue di soggetti umani, imperatori e personaggi illustri (5.20.9-10, Saladino 1995, xi): tematicamente, una sorta di anticipazione della categoria statue non votive, di cui Pausania stesso dichiara di volersi occupare in un secondo momento (5.21.1). 47 «(...) spann Oinomaos-Säule einen Bogen vom Beginn bis zum Schlusspunkt des Kataloges figürlicher Weihgeschenke»: Schneider 1997, 500 s. (cit. da 501 n. 58). Cfr. Saladino 1999, ix; Nafissi 1999, xviii s. (il quale assai opportunamente osserva che l’applicazione di questa «gerarchia, del tutto tradizionale e sanzionata più volte dall’oracolo delfico» è effettuata «senza prescindere del tutto da una logica topografica e dunque più propriamente periegetica (e distinguere fra i due criteri pare talora difficile)». 48 Schneider 1997, 499 s. 41
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Archaeologiae. Una Storia Al Plurale. Studi in memoria di Sara Santoro «l’auriga di Pelope, al dire dei Trezenii, aveva nome Sfero, mentre la guida che era ad Olimpia diceva che fosse Cilla» (5.10.7) 55. Ippodamia figlia di Enomao figurava tra i numerosi soggetti dei dipinti di Paneno sui pannelli attorno al trono della statua di Zeus (5.11.6)56. Poco prima della menzione dei due altari di Zeus vicini e collegati alle fondamenta della oikía di Enomao (vd. sopra, nota 43), Pausania ricorda un altare di Efesto che «alcuni Elei attribuiscono a Zeus Areios»: e sono gli stessi che dicono che qui Enomao celebrò un sacrificio prima della gara contro i pretendenti di Ippodamia (5.14.6). Di Ippodamia si evoca il ruolo rappresentativo e centrale nell’atto costitutivo di gara e rituale femminili per Era (5.16.4 e 6); dopo la lunga trattazione dell’arca di Cipselo (5.17.5-5.19.10), tra gli álla anathémata presenti nell’Heraion è evocato, come primo, il letto «non grande, in gran parte ornato in avorio» che «dicono (légousin)» essere stato un giocattolo (paígnion) di Ippodamia (5.20.1). Analogamente, tra i soggetti raffigurati sull’arca, il mito («c’è Enomao in atto di inseguire Pelope, che ha con sé Ippodamia») era stato ricordato per primo: Pausania sceglie di iniziare la descrizione delle fasce orizzontali in cui era organizzata la decorazione dell’arca partendo da quella più bassa, e conferendo un rilievo particolare ad Enomao rispetto agli altri protagonisti della vicenda mitica (5.17.7)57. Tra le statue di Zeus, di Asopo e delle sue figlie dedicate dai Fliasii (5.22.6), figurava Arpina, che Pausania sa, in base a lógos di Elei e Fliasii, aver generato da Ares Enomao re della Pisatide58: gli ereípia della pólis di Arpina saranno una delle prime cose, nel percorso attraverso la Pisatide, evocate da Pausania, ancora pronto a registrare la voce (légousin) secondo cui sarebbe stato Enomao a fondare e a dare il nome di sua madre alla città (6.21.8: cfr. punto 5).
sito e l’informazione è dichiaratamente attribuita da Pausania all’esperienza e al contatto con l’informatore Aristarco. Si tratta un caso emblematico di «confronto dialettico con la fonte di informazione»49. Pausania è stato informato oralmente sull’episodio da un testimone oculare, e poi ha selezionato il dato come caso esemplare della categoria dell’áxion lógou. In 5.20.8, Pausania ricorda lo scavo fatto eseguire «ai suoi tempi (kat’emè)» da un senatore romano per erigere la base di una statua destinata a commemorare una sua vittoria olimpica; a ridosso della colonna di Enomao lo scavo aveva portato alla luce «reliquie di armi, di freni e di morsi»; il commento conclusivo di Pausania è inequivocabile: , «queste cose le vidi scavare io stesso»50. Non credo possa esserci spazio per dubbi sul fatto che «he was present at the time when the foundations for the monument were dug»51. Quel che riguarda il mito di Enomao esso mostra i segni di una presenza viva sul territorio di Olimpia e pertinente ad Olimpia, e Pausania registra fedelmente i momenti del suo personale vivo contatto. La localizzazione dell’allevatore di cavalli Enomao appare ovvia nell’Elide 52 , e quello che si ricava, dai capitoli dedicati da Pausania all’esposizione delle cose di Olimpia e dintorni, è che tutta la zona era permeata da Enomao, Ippodamia e Pelope53. Si tratta in effetti di un mito evocato costantemente, in relazione a precisi punti di riferimento del paesaggio monumentale54. Ciò è ben chiaro già nel libro V. In avvio all’illustrazione dei theorémata elei, Pausania descrive in dettaglio il soggetto del frontone principale (orientale) del tempio di Zeus (5.10.6-7). Il tema erano i preparativi per la gara tra Enomao e Pelope. Rilevante il fatto che a proposito del nome dell’auriga raffigurato al fianco di Pelope, Pausania apporti, in contrasto con una versione trezenia, una esplicita indicazione del contributo orale di un «esegeta che si trovava ad Olimpia»:
Di questa speciale ‘attenzione documentata sul campo’ ha costituito un polo di attrazione costante, come sembra più che logico, la posizione rilevante che veniva assegnata, ad Olimpia, a Pelope. L’eroe, precisa Pausania, ad Olimpia è onorato «da parte degli Elei sopra tutti gli eroi quanto Zeus su tutti gli altri dei»59. Di Pelope, nella
Bultrighini 1990, 219, 256 ss. (cit. da p. 258); Id. 2016, 121 ss.; Cfr. Maddoli 1995, 306 s.; Dimauro 2016, 98; cfr il contributo di Bultrighini in questa sede. 50 5.20.9, trad. G. Maddoli; cfr. il contributo di Bultrighini in questa sede. 51 Habicht 1985, 178. Sull’identificazione dell’anèr boulês tês Rhomaíon con L. Minicius Natalis e sulla compatibilità delle indicazioni che lo riguardano con la cronologia di Pausania vd. Id., 177-179 e Maddoli 1995, 308 con rif. bibl. 52 Hom., Od. 21.347. Lacroix 1976, 330 s. 53 Si può parlare di un’analogia con l’atmosfera intrisa di riferimenti ai Sette eschilei, verificabile ad Argo: cfr. Bultrighini 1990, 74 ss. con rif. bibl. 54 Pelope e Enomao rientrano tra i miti nella cui presentazione «si fa sentire il peso della tradizione locale: quei racconti e quei personaggi leggendari, pur radicati nella cultura panellenica, erano fondamentali per l’identità elea» (Nafissi 1999, xxxiii). 49
55
(trad. G. Maddoli). Cfr. Maddoli 1995, 233. Vd. Saladino 1995, 240 s. 57 Id. 1995, 295. 58 Ó Cultural identity> Recovery (and maintenance) of the community. Sara applied these concepts within the multidisciplinary approach that was Her being Archeologist and Her way of dealing in a scientific, direct and integrated way, the conservation and promotion of historical culture. We detect in this militant archeology the strong elements of resilience, such as the ability to cope with traumatic events and to positively reorganize activities using emerging opportunities. The resilience is characterized by the dimensions of catastrophic events that in the past produced effects that Archeology deals with. These dimensions refer to the time in which the event is located, to the organizational level involved and to the territorial dimension. At the beginning of Her career, Sara entwisted the excavations of Castelraimondo with the post-catastrophe of the 1976 Friuli earthquake. Putting the theme of resilience to the fore, She constantly reiterated the didactic function of archeology, not only as working method, but also for the recovery of the memory of catastrophic events, both large and small. In the study of post-disaster recovery processes, Sara was able to underline the importance of the reuse of materials and of the incorporation of buildings into the urban structure. We can’t neglect, in relation to the organizational aspects of Sara’s works, the scientific and operative association with her husband Massimo Bianchi, Full Professor of Business Organization at the University of Bologna. There are traces of this happy marriage also in the joint preparation and implementation of Tempus and Erasmus Projects for Cultural Enterprises, Cultural Tourism and the creation of Start-ups in archaeological and cultural heritage. An essential element to understand the meaning which Sara applied to the recovery of sites and materials, is the research and reconstruction of the historical and cultural roots of communities on which, She wrote, “The concepts of memory (tradition) and the construction of the identity of a community are bound together with the cultural heritage”. In Her life, this was the attitude of Sara to face seemingly insurmountable obstacles and difficulties. To be mentioned, about this, the definition of metis, founded in Her notes, from Les ruses de l’intelligence. La mètis des Grecs by Detienne and Vernant as the “Ability to adhere solidly to reality in a complex, chameleonic, ambiguous, ductile manner. That illusionistic force, that cunning and plasticity allow victory precisely where no solution or dissolution would make its way into the common intellect”.
PREMESSA
Il secondo aspetto è legato alla definizione di resilienza ed alle dimensioni organizzative degli eventi catastrofici che nel passato e nel presente hanno prodotto effetti sui fenomeni di cui l’archeologia si occupa, almeno nel senso che intendeva Sara con il suo pensiero e le sue opere.
Se per resilienza si intende la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente le attività individuali e comunitarie dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi cogliendo le opportunità positive che il futuro presenta, senza alienare la propria identità, allora non è difficile trovare nei lavori di Sara e nella sua archeologia militante, gli elementi forti di questa concezione.
Dal punto di vista organizzativo il problema della resilienza è collegato, nei suoi diversi aspetti, alle dimensioni nelle quali si inquadra un evento catastrofico.
Due questioni di metodo sono da definire preliminarmente. La prima riguarda il termine “lavori di Sara” con il quale si intendono sia le sue numerose pubblicazioni che le attività che svolse nel campo degli scavi archeologici e della promozione della cultura storica, in quello stretto connubio di teoria e pratica in cui manifestò con grande convinzione la sua forte personalità ed il suo grande amore per l’archeologia.
1
In particolare, rispetto alla freccia del tempo in cui l’evento è collocato (Fig.1), faremo riferimento a tre fasi distinte: la Prevenzione, la Reazione immediata all’emergenza ed il Dopo catastrofe1. Nella prima l’orizzonte decisionale di chi opera è molto vasto come accade, ad esempio, per i terremoti di cui non sono prevedibili né il momento in cui questi avverranno né la loro estensione ed intensità. Questa imprevedibilità rende incerta la misura del rischio e, di conseguenza, tutte le attività di prevenzione sono rivolte non tanto all’azzeramento
Bianchi, Paganelli 2014.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro da quelle locali alle nazionali e sovranazionali, tutte coinvolte in vario modo nelle fasi di prevenzione, emergenza e dopo catastrofe.
del rischio quanto alla riduzione della probabilità di un accadimento ed alla mitigazione dei suoi effetti. Così si possono prendere misure di sicurezza contro attentati terroristici o vandalismi rivolti ai beni culturali ma non esistono strumenti per evitarli completamente.
Organizzare gli interventi a questi diversi livelli non comporta solo la disponibilità diversa di risorse ma anche un diverso modo di disporne, più flessibile per individui e organizzazioni intermedie, più burocratico per quelle di governo, cosa che comporta anche tempi diversi di reazione, in genere inversamente proporzionali alla flessibilità.
D’altra parte, oltre a proteggere i beni culturali da danneggiamenti o distruzioni, si possono mitigare gli effetti di questi ultimi attraverso un’analitica rilevazione dei siti, edifici, monumenti e reperti, che ne permetta il recupero, la riproduzione e, in ultima analisi, ne conservi la memoria. A questo proposito la tecnologia ha raggiunto limiti sino a poco tempo fa difficilmente immaginabili per quanto riguarda l’acquisizione dei dati fotografici, dimensionali e di composizione dei materiali.
Indipendentemente dal livello organizzativo abbiamo poi la dimensione territoriale. Si va dall’evento catastrofico puntualmente circoscritto ad una località, sito, monumento o reperto archeologico, sino alla dimensione regionale, nazionale e multi-nazionale.
Sulla reazione immediata alla catastrofe sono stati studiati, invero con qualche incertezza2, approcci diversi che vanno dalla reperibilità immediata di mezzi e persone a questo scopo accantonate o dedicate, alla capacità di organizzare le risorse già disponibili nel territorio, per giungere infine a dare una significativa importanza e dignità organizzativa all’improvvisazione come alternativa al panico ed espressione di massima efficienza nell’utilizzo delle risorse comunque a disposizione3.
L’individuazione delle diverse dimensioni del resilience serve per inquadrare l’argomento tenendo conto delle condizioni in cui la resilienza deve esprimersi per essere fattibile e sostenibile senza escludere la compresenza ed interazione di problematiche attinenti i diversi aspetti. Ad esempio, un attentato terroristico ha una sua dimensione puntuale focalizzata sul sito in cui avviene ma coinvolge una dimensione sovranazionale nel caso le misure di prevenzione e recupero siano gestite con l’intervento di organizzazioni internazionali. Citiamo come esempio l’UNESCO che, non a caso, ha stilato l’elenco, continuamente aggiornato, dei luoghi patrimonio dell’umanità a rischio ed ha emanato normative, direttive o orientamenti internazionali per la prevenzione dei rischi6.
La varietà di strumenti che sono stati proposti per il dopo catastrofe ha aperto la strada alla considerazione della multidisciplinarietà quale approccio metodologico che si occupa di aspetti di carattere tecnico ingegneristico, economico, sociale, psicologico, storico e culturale per citarne alcuni4. Da notare che, con la recrudescenza del terrorismo, il materiale relativo alle emergenze ed alla prevenzione, nonché le simulazioni delle reazioni ad eventi catastrofici, sono diventati sempre meno disponibili in quanto coperti da segreto e cancellati dal WEB al fine di evitare di fornire informazioni utili agli stessi terroristi su come evitare ostacoli o per rendere ancora più catastrofiche le conseguenze degli attentati5.
Nel trattare degli aspetti organizzativi presenti nei lavori di Sara non si può trascurare il sodalizio operativo e scientifico che essa ebbe con il coniuge Massimo Bianchi, ordinario di Organizzazione Aziendale presso l’Università di Bologna e le esperienze condivise sia dal punto di vista dell’indagine scientifica che dell’attuazione operativa7. Di questo felice connubio troviamo tracce sin dal 1979 nella partecipazione di entrambi al Colloquio Internazionale organizzato da Raymond Chevallier presso l’Ecole Normale Supérieure di Parigi il 9-10 giugno 19798, nelle campagne di Scavo di Castelraimondo e Pantelleria e nella predisposizione ed attuazione di Progetti Tempus ed Erasmus per quanto riguarda le Imprese Culturali, il Turismo Culturale e la creazione di Start-up nel campo dei beni archeologici e
L’altra dimensione del resilience è il livello organizzativo con cui esso è affrontato. Questo spazia dall’individuo alle famiglie attraverso l’educazione/addestramento ad affrontare e superare gli eventi catastrofici, alle organizzazioni intermedie prevalentemente rappresentate da organizzazioni non governative, alle imprese e infine alle strutture di governo nelle loro diverse declinazioni,
Bianchi, Paganelli 2014; Bianchi 2018. Ciborra 2006. Caralli et alii 2010. 5 Un caso esemplare è dato dalla scomparsa del film 5:46 am, realizzato da Olivier Campagne in collaborazione con Vivien Balzi, che simulava le reazioni ad una ipotetica inondazione di Parigi (peraltro avvenuta nel 1911) e dal quale si potevano dedurre le strutture ed i modus operandi delle istituzioni preposte a fronteggiare le emergenze. Di questo resta pubblicato solo il video che riporta le impressionanti immagini fotografiche di Parigi inondata. 6 UNESCO 2004 List of World Heritage in Danger, Convention Concerning the Protection of the World Cultural and Natural Heritage, art. 11. 7 Bianchi 1976; Bianchi 1981; Bianchi 1996b; Santoro 1981. 8 Santoro 1979; Bianchi 1979. 2 3 4
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G. Paganelli
Dimensioni organizzative e prospettive del resilience nei lavori di Sara Santoro
culturali. In questa collaborazione si può senz’altro affermare si sia realizzata una sensibilizzazione reciproca dell’una nei confronti delle problematiche manageriali9 e, dell’altro, per la musealizzazione e gestione dei beni culturali10.
risultati degli scavi sono stati inseriti nel quadro più ampio degli insediamenti minori e di quelli di altura14, ma anche il suo intervento per il recupero del senso di identità della Comunità Locale e la promozione del Sito di Castelraimondo in Italia ed all’Estero.
A questa continua interazione si può attribuire la non altrimenti giustificabile coincidenza nel taglio del titolo di due pubblicazioni uscite quasi contemporaneamente nel 1979 su argomenti e con approcci completamente diversi quali Dinamica del popolamento ed evoluzione delle strutture territoriali nel riminese dalla preistoria all’eta’ tardoantica, uscito sulla Rivista di Archeologia III (Santoro 1979 c) e Dinamica del personale ed evoluzione delle strutture organizzative nelle industrie in Provincia di Modena, pubblicato da CLUEB Bologna nello stesso anno11 come pure Indici di rinnovamento e tecniche costruttive povere nell’edilizia residenziale romana dell’Italia Settentrionale12, in cui non si può non percepire l’eco delle ricerche condotte dal coniuge sul sistema degli indici di Rinnovamento di Hans Bolza13.
In particolare è stato ricordato che “In Castelraimondo la sfida era rappresentata dal coinvolgimento della comunità locale, falcidiata dalla catastrofe, nel recupero della consapevolezza delle proprie radici storiche e nell’essere consapevole del lavoro che si stava svolgendo sul sito, sino ad allora teatro di leggende e di scavi abusivi, nonché ricoperto da una vegetazione rigogliosa ed invasiva nel quale spiccavano come ferite aperte nel terreno e nella memoria storica, i buchi prodotti dagli insensati scavi dei tombaroli.”15
2. LA PREVENZIONE NATURALI
DELLE
CATASTROFI
Nel Corso di Metodologia e tecnica della ricerca archeologica, tenuto presso l’Università di Parma nell’Anno Accademico 2005-2006, Sara elencava fra gli scopi dell’Archeologia per quanto riguarda la conoscenza del territorio quelli di:
1. IL RECUPERO DEI SITI ARCHEOLOGICI DOPO GLI EVENTI CATASTROFICI Proprio all’inizio della sua carriera di Archeologa, Sara intrecciò la propria attività con il dopo catastrofe del Terremoto del Friuli del 1976 operando in Forgaria nel Friuli, la cui comunità, già stremata dall’emigrazione e dal calo demografico, era stata decimata dal terremoto e marginalizzata rispetto alle grandi direttrici di sviluppo economico della Regione. Nel 1988, quando sotto la direzione di Sara cominciò la campagna di scavi di Castelraimondo, la ricostruzione materiale del vicino abitato di Forgaria era stata in gran parte completata e le abitazioni temporanee sgomberate. Non è un caso che la squadra di archeologi, ricercatori e studenti, poté essere ospitata nell’edificio prefabbricato della scuola elementare donata dall’Austria.
• Prevenire gli effetti delle catastrofi ambientali (ed evitarle) • Conoscere e tutelare il patrimonio archeologico sepolto • Progettare lo sviluppo compatibile con l’ambiente e con il passato ponendo in primo piano proprio il tema che stiamo trattando. In almeno due occasioni, quelle della Carta del Rischio Archeologico di Pantelleria e della Città di Durres, Sara contribuì significativamente alla prevenzione di eventi catastrofici ai danni di beni culturali. In questo campo approfondì16 come l’archeosismica fornisse, rispetto alle fonti letterarie che parlavano genericamente di “terremuoto gagliardo” o a raffigurazioni di monumenti (Fig. 2), tracce:
Gli eventi di questo scavo e le attività correlate sono state il tema di numerosi convegni e seminari ed in particolare di quello organizzato il 5-6 maggio 2017 a Udine e Forgaria, dalla Società Friulana di Archeologia. In questo convegno, i cui atti sono in corso di pubblicazione presso i Quaderni Friulani di Archeologia, è stato ricordato e discusso il contributo dato da Sara non solo alla valorizzazione del sito di Castelraimondo di cui danno testimonianza i numerosi scritti nei quali i
• Obiettive • Precise nello spazio e nel tempo • Definenti il tipo di terremoto
Santoro 2010, 2013, 2014, 2015. Santoro 1981; Bianchi 1996a; Santoro 1996; Guermandi and Santoro 1996. 11 Bianchi 1979. 12 Santoro 1994. 13 Bianchi 2003. 14 Santoro 1991a, 1991b, 1991c, 1992a, 1992b,1994, 1995, 1997a,1997b, 1997c, 1998, 1999; Capoferro Cencetti and Santoro 1995; Guermandi and Santoro 1994. 15 Bianchi 2017. 16 Santoro 1995b; Guidoboni and Santoro 1996. 9
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro • Testimonianti la tendenza alla sismicità nel tempo (unico strumento di prevenzione)
3. IL RECUPERO MATERIALE NEL DOPO CATASTROFI
concetti che continuò a sottolineare nei corsi tenuti successivamente sull’argomento17. In questo campo la nostra Studiosa ribadì costantemente la funzione didattica dell’archeologia, non solo per il suo contenuto intrinseco di metodo di lavoro, ma anche per le sue valenze estrinseche derivanti dal recupero della memoria di eventi catastrofici grandi e piccoli. Sara era, ad esempio, molto preoccupata dell’urbanizzazione selvaggia di città come Durazzo, in cui gli scavi dell’anfiteatro avevano inequivocabilmente messo in evidenza crolli di origine sismica e derivanti da terremoti e maremoti verificatisi in epoca storica, rischio completamente ignorato dalla speculazione edilizia degli ultimi venti anni.
Dal punto di vista della gestione del post catastrofi e della capacità di una società di recuperare un assetto materiale confacente ad ulteriori sviluppi, è da rimarcare il contributo di Sara agli studi sui processi di reimpiego. Prima di questo mi piace ricordare la sua partecipazione, da studente liceale, a quella straordinaria mobilitazione giovanile che si ebbe in occasione dell’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966 e per la quale il giornalista Giovanni Grazzini coniò l’espressione “Angeli del fango”. Con questa indicava gli studenti che, su base volontaria e spontanea, si adoperavano per il recupero dei manoscritti danneggiati da mettere in sicurezza prima che subissero danni irrimediabili (Fig. 4). Sara non sapeva ancora che avrebbe dedicato la sua vita all’Archeologia, ma forse quei giorni ebbero una qualche influenza nella sua futura scelta della professione.
Sempre su questo tema ricordiamo il suo contributo alla Classificazione 1983 del Rischio Sismico della Regione Emilia Romagna sulla base di quanto accaduto nell’area di Sarsina a partire dall’epoca romana (Fig. 3)18.
Sin dai primi passi della sua carriera Sara ebbe a confrontarsi con le problematiche legate alla caduta dell’Impero Romano, senza dubbio uno degli eventi più catastrofici di cui gli scavi archeologici danno testimonianza. In questo ambito, un aspetto studiato è stato quello del reimpiego dei materiali e dell’inglobamento di edifici romani nel tessuto urbanistico delle città con una particolare attenzione per la diffusione delle attività di reimpiego. Sara ha avuto modo di sottolineare l’importanza dei processi di recupero del dopo catastrofe, che, dal punto di vista della diffusione ed entità, non si sono limitati ad iniziative individuali o di piccolo momento.
A questo si collega la predisposizione di progetti nei quali, per sostenere il partenariato di DISPUTER, venivano proposti le competenze dell’archeologia quale elemento indispensabile per la raccolta dati, l’interpretazione dei cambiamenti climatici19 e degli eventi catastrofici derivanti, nonché l’approccio multidisciplinare da seguire. Citiamo in proposito la presentazione dell’Università Gabriele D’Annunzio quale partner del progetto 2014 Erasmus+ DEGREE “Remote Dwelling’s Health Quality Assurance, Energy and Greenhouse Gas Emissions Savings Analytics”, partecipazione fortemente voluta da Sara quale responsabile dell’Unità Operativa di DISPUTER “ The UDA interdisciplinary contribution to the projects will introduces competent innovations in the designing and testing of models and data analysis with the aim to overcome limits of previous models on the sustainability of processes of saving energy and consumptions control. Those boundaries are connected, particularly in the analysis of big data deriving from recent innovation in computing science and data collection, to the scarce consideration of micro and macro dimensions linked from one side to the human behavior in communities and organizations and at the other to a more extended time perspective in which the problem has to be located”.
Il recupero di colonne in edifici ad uso religioso e civile, ad esempio, presupponeva un’organizzazione del lavoro che superava la dimensione artigianale. L’entità dei materiali ed i problemi logistici da superare per il trasporto del materiale recuperato, in località anche lontane dagli edifici distrutti o abbandonati, doveva richiedere un’organizzazione e pianificazione che il singolo operatore non poteva realizzare senza una rete di collaborazioni, mezzi di sollevamento e trasporto, nonché attrezzature adeguate. Si può quindi affermare che la gestione di questo recupero, considerata l’eterogeneità dei materiali ed il cambio di destinazione rispetto alla costruzione originaria, fosse altrettanto se non più complessa di quanto sarebbe stato necessario per realizzare edifici completamente nuovi.
Santoro 2004. Santoro 1979a, 1979b. 19 Ricordiamo nell’occasione i Progetti Tempus che Sara ha coordinato per DISPUTER: CHTMBAL (Network for Masters on Cultural Heritage in Albania and Kosovo Universities), FLEPP (Foreign Languages Education for Professional Purposes) e MODPhD (Modernizing the 3rd cycle at the University of Prishtina and Developing a PhD Program at the Faculty of Economics). 17 18
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Dimensioni organizzative e prospettive del resilience nei lavori di Sara Santoro
Un altro elemento non trascurabile è quello inerente la preservazione dei materiali, sistematicamente nascosti dopo le catastrofi, in attesa di tempi migliori. Uno di questi casi è dato dai pozzi-deposito Casini e Sgolfo di Bazzano, il cui contenuto è conservato e documentato nel Museo Civico Archeologico Arsenio Crespellani di Bazzano (Fig. 5) di cui Sara fu direttrice dal 1982 al 1994, e da quello di Gorzano, i cui materiali sono conservati presso il Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena20.
dalle Piccole e Medie Imprese. Nel 2002 con il marito Massimo promosse a Tirana, sotto l’egida dell’Istituto Commercio Estero e con la collaborazione dell’Università di Parma, dell’Università di Bologna, dell’Ambasciata d’Italia e di UNOPS24, una conferenza dal titolo “Le piccole e medie imprese nel recupero dei beni culturali” di cui fu la principale animatrice. L’idea cardine era rappresentata dal fatto che il tema del recupero dei Beni Culturali, depredati o distrutti nel periodo di anarchia succeduto alla caduta del regime di Enver Hoxha, potesse essere occasione per l’Albania, di sviluppo della piccola e media imprenditorialità.
Come è noto, il fenomeno dei pozzi-deposito presente nel territorio dell’Emilia centrale fra il fiume Secchia ed il Torrente Samoggia, si riferisce a pozzi costruiti in epoca Romana per l’approvvigionamento idrico e che, nel VI-VII secolo d.C., vengono privati della loro funzione ed utilizzati come nascondiglio di oggetti di uso quotidiano (vasi, strumenti, attrezzi) e di materiali preziosi. Si ipotizza che essi fossero stati costruiti dalle comunità rurali della zona quando il territorio divenne un’area di aspre contese tra Bizantini e Longobardi. L’intenzionalità della deposizione del materiale è stata dedotta sia dall’enorme quantità di oggetti, sia dalla presenza di strati di separazione incompatibile con un butto affrettato, ma derivante dalla volontà di effettuare il recupero una volta superato l’evento catastrofico.
Questa sensibilità, di cui si trova traccia nei suoi interventi per lo start up di imprese innovative nel settore turistico culturale, si manifestò nella progettazione e docenza dei Corsi di Formazione tenutisi nel 2009 a Elbasan (Settore Imprese turistico culturali)25 nell’ambito del progetto “Avvio alla formazione professionale con particolare riguardo per le categorie deboli”, nelle sue docenze di Simulimpresa, presso la Novosibirsk Technical University (Figg. 7-8)26, ed infine presso il CEUB - Centro Residenziale Universitario di Bertinoro dell’Università di Bologna (Progetto RESINT)27 e le Università di Prizren e Shkoder (progetto CHTMBAL)28. Il punto cardine di questo interesse per le Piccole e Medie Imprese, che una volta di più condivideva con il coniuge Massimo, è rappresentato dall’efficienza ed efficacia della piccola dimensione nell’organizzazione delle iniziative concernenti il patrimonio culturale. Questo avveniva non solo in relazione alla sua esperienza nell’organizzazione degli scavi in cui la gestione era necessariamente incentrata sul team working con la squadra degli operatori, ma anche nello studio delle attività riscontrate in Pompei, per il recupero edilizio successivo al terremoto del 62 d.C. e prima dell’eruzione catastrofica del 79 d.C. Questi lavori erano effettuati da piccole squadre di operai alcuni dei quali furono sorpresi dall’evento ancora vicini ai loro attrezzi di lavoro. Questo interesse per le piccole imprese lo ritroviamo nei recenti studi di Sara sul commercio al dettaglio nei centri urbani e minori della Gallia Cisalpina29 quasi sempre basato su imprese di dimensione famigliare.
Come rilevato in questa sede21, il recupero dei materiali a fini ricostruttivi deve essere considerato una pratica in competizione con le attività predatorie e di utilizzo dei bottini di guerra o delle scorrerie barbariche. Sara tenne presente anche questo aspetto nell’organizzazione delle attività promozionali del Parco di Bliesbrook - Reinheim con la mostra “Le Trésor des Barbares” del 2008 (Fig. 6)22 in cui sono state ricostruite le vicende legate alle scorrerie degli Alamanni nelle fattorie, ville e templi gallo romani fra il 242 e il 276 d.C.23.
4. IL RESILIENCE QUALE OCCASIONE DI VALORIZZAZIONE DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE Nel suo esordio in Albania, Sara espresse una volta di più una forte sensibilità nei confronti di quella diffusissima e fertile forma di attività economica rappresentata
Lenzi et al. 2016. Bianchi 2017. Dalla mostra “Le Trésor des Barbares”, Centro espositivo dell’European Archaeological Park di Bliesbruck- Reinheim, 2008. 23 Petit 2008. 24 UNOPS: United Nations Organization for Project Services. 25 Nell’ambito di questo progetto Sara contribuì alla costituzione dell’impresa Simulata ERT, Elbasan Renaissance Tour il cui scopo era quello di fornire servizi nel campo del turismo culturale. 26 In questo progetto Sara promosse e partecipò attivamente alla costituzione dell’Impresa Simulata Exotica Siberian Tourism per lo sviluppo del Turismo Culturale nell’area siberiana. 27 Progetto Knowledge Alliance - RESINT “Collaborative Reformation of Curricula on Resilience Management with Intelligent Systems in Open Source and Augmented Reality” (2014-2015). 28 Progetto Tempus JPCR - CHTMBAL “Network for Post Graduate Masters in Cultural Heritage and Tourism Management in Balkan Countries” (2012-2014). 29 Santoro 2017. 20 21 22
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro attraverso l’enfatizzazione del valore del proprio patrimonio e dell’idea di autenticità”32.
In tempi recenti le esperienze che si sono dovute affrontare nel Nostro Paese per il resilience del dopo terremoto, confermano che sia la velocità di recupero, sia la sua diffusione nelle comunità colpite da calamità naturali, sono legate all’attività delle piccole e medie imprese. Infatti la ripresa delle piccole attività commerciali ed artigianali che seguono la fine della fase di emergenza rappresenta il più tangibile e significativo segnale di avviamento di una sostenibile rinascita.
Fra gli estremi temporali rappresentati dall’inizio e dalla fine della sua attività di Archeologa, Sara ebbe più volte modo di verificare l’esistenza di forti resistenze alle attività di scavo e recupero e di iniziative ostili alla resilienza da parte di singoli o di gruppi di individui che temevano che questo recupero contrastasse con i propri interessi economici o di potere. È il caso dei vandalismi e sabotaggi subiti da Sara nel corso degli scavi e delle iniziative di conservazione/promozione dei siti33, ma anche del generico sciacallaggio che subentra agli eventi catastrofici nell’immediatezza dell’emergenza ed anche secoli dopo attraverso gli scavi abusivi, il furto ed il commercio illegale di beni culturali34.
5. IL COLLEGAMENTO CONOSCENZA STORICA > IDENTITÀ CULTURALE > RECUPERO (E MANTENIMENTO) DEL SENSO COMUNITARIO. Come già accennato, proprio all’inizio della sua carriera di Archeologa, Sara svolse la propria attività in Forgaria nel Friuli dopo il catastrofico terremoto del 1976. Sin dall’avvio degli scavi di Castelraimondo una delle prime preoccupazioni di Sara fu quella di coinvolgere la comunità locale nell’attività del gruppo di archeologi da Lei diretti30 e la sua principale motivazione fu rappresentata dal recupero del senso di identità dei Forgaresi attraverso la riscoperta delle loro radici storiche, identità che ancora a dieci anni dal terremoto, si presentava gravemente compromessa. La realizzazione del Parco Culturale di Castelraimondo, di cui fu l’animatrice, rappresenta la più compiuta opera di resilience da Lei attuata e risponde a quei criteri che, al termine della Sua carriera, così prematuramente interrotta, la indussero a riflessioni più generali sui rapporti fra archeologia, identità e guerra31.
In questo senso, Sara ebbe modo di analizzare, nella presentazione dei progetti internazionali in cui veniva richiesta l’individuazione e descrizione dei rischi e minacce che potevano mettere in discussione il progetto e l’ottenimento dei risultati, le diverse sfaccettature del resilience derivanti da ostacoli ed azioni contrarie. Tutti questi elementi sono ben riassunti nella matrice SWOT utilizzata per definire le strategie di progetto e con cui, in sede di predisposizione delle iniziative, ebbe modo di confrontarsi (Fig.9).
6. CONCLUSIONI La panoramica che è stata fatta degli incontri di Sara con il concetto e la pratica del resilience riporta solo una parte delle numerose occasioni in cui si confrontò, elaborò e contribuì ad introdurre questo concetto nell’Archeologia e negli studi storici. Tutte opportunità, di cui abbiamo dato conto e nelle quali ebbe modo di esprimere le sue grandi capacità scientifiche, professionali e soprattutto umane.
Gli sviluppi della storia moderna, con il rigurgito di movimenti iconoclastici, La posero una volta di più di fronte ad eventi distruttivi, questa volta particolarmente mirati alla demolizione e cancellazione sistematica della memoria storica. Così, in quello che rappresenta uno dei suoi ultimi lavori, ebbe ad affermare “Nel patrimonio archeologico, in particolare nella sua componente storico-artistica e monumentale, si riconosce la summa dei valori identitari di un popolo o di una comunità. Sia se lo si osserva dall’esterno – da turisti, da stranieri, eventualmente da nemici – sia che lo si viva dall’interno – come membri della stessa comunità. Gli oggetti simbolo … e i fatti immateriali … ritenuti caratteristici di una cultura/comunità servono come “marcatori” territoriali: laddove sono presenti e riconoscibili, là quella comunità è stata e dunque è legittimata a tornare.” Ed ancora “La risposta della popolazione locale all’attuale processo di globalizzazione passa frequentemente
Sono stati riportati fatti e circostanze materiali, nonché le numerose pubblicazioni nelle quali testimoniò questo suo interesse. A tutto questo manca però un elemento essenziale per comprendere il senso con cui si applicò, non solo al recupero di siti e materiali, ma anche alla ricerca e ricostruzione delle radici storiche e culturali nelle quali, come scrisse, “si legano i concetti di memoria (tradizione) e di costruzione dell’identità di una comunità come eredità culturale del passato”35. Questo senso è l’atteggiamento con il quale Sara condusse la sua vita anche di fronte ad ostacoli e difficoltà apparentemente insormontabili. Possiamo citare un
Bianchi 2017. Santoro 2016. Santoro 2016. 33 Bianchi 2017. 34 Bianchi 2018. 35 Santoro 2016. 30 31 32
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Dimensioni organizzative e prospettive del resilience nei lavori di Sara Santoro
appunto, da Lei tenuto ben in evidenza fra le sue carte, nel quale riportava, da Detienne e Vernant36, la definizione di metis come “capacità di aderire solidamente alla realtà in maniera complice, camaleontica, ambigua, duttile. Quella forza illusionistica, quell’astuzia e plasticità consentono la vittoria appunto là dove nessuna soluzione o scioglimento si farebbe strada nell’intelletto comune”. Ebbene, questo esprime al meglio il senso che emerge dall’attività di questa grande Archeologa di cui, solo in minima parte, sono stata in grado di scrivere con l’efficacia che La contraddistingueva.
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Dimensioni organizzative e prospettive del resilience nei lavori di Sara Santoro
Fig. 1 – Le dimensioni delle attività di Resilienza
Fig. 2 - Bassorilievo di Pompei raffigurante il terremoto del 62 d.C.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 3 - Segni di eventi sismici nella necropoli di Sarsina e mappa dei terremoti avvenuti nella zona in epoca storica
Fig. 4 - “Gli Angeli del fango” al lavoro presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
Fig. 5 - Materiali dai pozzi di Deposito del Museo Civico Archeologico Crespellani di Bazzano (VI-VII secolo d.C.)
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Dimensioni organizzative e prospettive del resilience nei lavori di Sara Santoro
Fig. 6 - La ricostruzione di un carro contenente il bottino delle scorrerie del 242-246 d.C. effettuate dagli Alamanni nell’area Gallo Romana3
Fig. 7/8 - Sara docente nella classe di Simulimpresa in Turismo Culturale a Novosibirsk, dicembre 2002
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 9 - Matrice SWOT nel resilience (Dalla presentazione Tseed).
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Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi, Eva Coïsson, Federica Ottoni
L’anfiteatro di Durazzo: dal rilievo integrato al restauro, per la valorizzazione di un’architettura archeologica
Abstract: The paper presents the interdisciplinary studies conducted on the Durres Amphitheatre between 2004 and 2015 by the team of the University of Parma, as part of the “Durrës Project”, initiated by Sara Santoro in 2003, and of the Internationalization project, launched in 2005 in cooperation with the Polytechnic of Tirana and related to the “Survey of the Amphitheatre of Durres: knowledge of a monument for the valorisation of world cultural heritage”. In the missions conducted, which involved over the years numerous undergraduate and PhD students, the integrated surveys were performed on archaeological, architectural and urban excavations. Afterwards, based on the data collected, the thematic readings of the conditions of material and structural degradation and a critical analysis of the previous restoration interventions were achieved. This knowledge phase provided the necessary basis to develop guidelines aimed at the conservation of the monument and identifying the most urgent securing interventions.
INTRODUZIONE
manufatto, utilizzando anche gli strumenti concettuali dell’analisi grafica ed il confronto con manufatti analoghi per ipotizzare le dimensioni del sedime d’impianto e delle gerarchie funzionali degli spazi dell’anfiteatro.
A partire dal “Progetto Durrës”1 coordinato da Sara Santoro - allora docente all’Università degli Studi di Parma - e dalle collaborazioni avviate nel 2003 attorno al tema dell’anfiteatro romano, è nata nel tempo l’esigenza di ampliare ed integrare le conoscenze non solo sulla parte archeologica del monumento, ma anche sulla parte architettonica, al fine del suo recupero funzionale e della sua valorizzazione all’interno di un più ampio processo di riqualificazione urbana. Da subito, è emersa con evidenza la necessità di un rilievo topografico ed architettonico del monumento come base conoscitiva su cui costruire ogni ipotesi interpretativa, prima, e progettuale, poi.
Ulteriore obiettivo del rilievo è stato quello di rendere disponibile la documentazione di base necessaria al progetto di conservazione di un monumento di tale importanza, verificando la possibilità della valorizzazione della parte in vista attraverso un congruo riuso funzionale e soprattutto attraverso la programmazione di interventi di restauro e manutenzione che ne consentissero la messa in sicurezza e la conservazione. La campagna di studi finalizzati al restauro dell’anfiteatro, condotta dal gruppo di ricerca coordinato dal prof. Carlo Blasi4, ha consentito di evidenziare in modo puntuale sul rilievo geometrico precedentemente prodotto le zone che necessitavano di varie tipologie di interventi.
Nel 20052 è stato cofinanziato dal MIUR e dall’Università di Parma un progetto di Internazionalizzazione, coordinato da Paolo Giandebiaggi, in cooperazione con il Politecnico di Tirana, relativo al “Rilievo dell’anfiteatro di Durazzo: conoscenza di un monumento per la valorizzazione del patrimonio culturale mondiale”, nell’ambito del quale i lavori di rilievo e di studio iniziati nel 20043 sono proseguiti attraverso la collaborazione tra diversi partners italiani e albanesi.
CENNI STORICI L’anfiteatro di Durazzo è uno dei più grandi della penisola balcanica e l’unico in Albania ad ora conosciuto. È situato nel settore ovest della città antica, adiacente alle mura bizantine; parzialmente addossato alla collina, per la restante parte è costruito su sostruzioni concamerate. È stato scoperto nel 1966 dall’archeologo Vangjel Toçi e scavato negli anni immediatamente
Obiettivo primario del rilievo condotto sull’anfiteatro dall’equipe dell’Università degli Studi di Parma è stato quello di disporre di dati metrici e formali che consentissero di comprendere la configurazione originaria del
1 Accordo di Cooperazione Internazionale per la salvaguardia del patrimonio archeologico di Durazzo, stipulato tra Università di Parma, UNOPS, Museo Archeologico di Durazzo, Istituto di Archeologia dell’Accademia delle Scienze, Municipalità di Durazzo e Istituto dei Monumenti di Cultura del Ministero dello Sport e Giovani della Repubblica di Albania, a cura degli archeologi allora attivi presso l’Università di Parma coordinati e diretti dalla Prof. Sara Santoro. 2 Attività di rilievo architettonico e urbano legate al Progetto di Internazionalizzazione (2005-2007): resp. Scientifico prof. Paolo Giandebiaggi; coordinamento scientifico di tutte le attività: prof.ssa Chiara Vernizzi e arch. Andrea Ghiretti; arch. Maria Melly, arch. Andrea Zerbi, arch. Ilaria Fioretti, arch. Daniela Paltrinieri, arch. Cecilia Tedeschi, arch. Maria Carmen Nuzzo, arch. Daniela Bozzarelli, arch. Sabrina Capra, arch. Elisa Mattei, arch. Valeria Sdraiati. 3 Prima campagna di rilievo topografico (2004): resp. Scientifico prof. Paolo Giandebiaggi; prof.ssa Michela Rossi, arch. Andrea Ghiretti, arch. Cecilia Tedeschi, geom. Gabriele Campanini. 4 Il gruppo di ricerca era composto da: arch. Elisa Adorni, ing. Stefano Alfieri, arch. Matteo Carobbi, prof.ssa Eva Coisson, prof.ssa Federica Ottoni, oltre a numerosi tesisti dell’Università di Parma nell’arco degli ultimi dieci anni.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro successivi per due terzi della sua estensione5. L’arena, messa in luce in minima parte, era cinta da un podium; la cavea era articolata in maenianum primum e secundum separati fra loro da una praecintio poco pronunciata, mentre una più ampia li separava da una probabile summa cavea 6, di cui sembra non restare traccia. L’edificio è costruito in opus coementicium e rivestito di opus mixtum di bande di laterizi e incertum in pietra; le gradinate, in calcare, sono state completamente asportate, ma ne restano parzialmente le impronte sulla struttura in opus coementicium.
collina, con un sistema di percorsi interni realizzati per un terzo scavando gallerie e per la restante parte entro le sostruzioni concamerate ad anelli concentrici, con scale e vomitoria non simmetrici. Della grande galleria settentrionale che si addentra nella collina non si conosceva ancora la funzione (passante o di deposito cieco) né l’eventuale corrispondente meridionale, così che non risultava chiara né l’esatta dimensione dell’edificio né l’articolazione e il sistema di distribuzione interno. Uno dei temi di ricerca importanti riguardanti questo monumento era costituito, quindi, dalla ricostruzione della geometria dell’edificio e dallo studio dei sistemi distributivi interni.
Secondo lo scopritore, la costruzione dovrebbe essere avvenuta sotto Traiano (98-117 d.C.)7; il suo abbandono a partire dalla seconda metà del IV sec. d.C. sembra essere stato determinato non solo dalla proibizione di mettere in scena spettacoli gladiatorii ma ancor più dai danni causati dal terremoto del 346 d.C.8, ai quali comunque si cercò di rimediare con interventi di restauro il cui riconoscimento ha costituito uno degli obiettivi del programma di ricerca. Cessata la funzione di luogo per spettacoli, e non chiarita un’eventuale funzione difensiva assunta in rapporto alle mura bizantine, costruite fra la fine del V e gli inizi del VI sec. d.C.9 e che corrono adiacenti al suo perimetro esterno, l’arena e le gallerie dell’anfiteatro divennero area di necropoli (a partire almeno dal VII secolo10), ma forse anche di abitazione, e comunque sede di culto cristiano: fra VI e X secolo, in una delle camere interne, in corrispondenza dell’asse minore fu costruita una piccola cappella, decorata da pitture e mosaici di controversa interpretazione e datazione. Una seconda cappella, interamente affrescata con pitture del X-XIV secolo ormai illeggibili, si trova sul lato opposto. Una terza piccola cappella, un piccolo spazio rettangolare absidato, si apre come la precedente sul corridoio anulare di servizio, il più basso, probabilmente a livello dell’arena.
IL RILIEVO INTEGRATO La mancanza di indicazioni precise riguardo alla stabilità del manufatto e degli edifici limitrofi e la scarsa attendibilità e frammentarietà della documentazione grafica esistente, hanno richiesto la redazione di un rilievo topografico dell’edificato e della geometria delle parti scavate del manufatto a partire dal quale poter elaborare una prima proposta di messa in sicurezza. Proprio la sovrapposizione e continuità tra i resti dell’edificio antico e il tessuto edilizio della città ottomana ha evidenziato la necessità di iniziare da un rilievo topografico comprendente tutto l’intorno urbano. L’acquisizione dei dati planimetrici è stata finalizzata all’individuazione dell’ossatura che descrive il profilo planimetrico dell’anfiteatro e delle tracce degli elementi generatori di tale profilo. Le modalità operative di questo rilievo sono state quelle classiche del rilievo indiretto basate sull’utilizzo di una stazione totale. A partire dai 9 vertici della poligonale chiusa esterna all’anfiteatro, sono state individuate ulteriori stazioni all’interno dell’arena, con aggiunta di punti definiti secondo il concetto della “stazione libera”, vincolati alla compensazione fatta durante il calcolo della poligonale principale, e ad essa collegati. Questi punti, vertici di una poligonale aperta di ordine secondario, erano indispensabili per poter entrare da strette aperture, anche all’interno delle gallerie, fornici ed ambulacri, offrendo un futuro collegamento a rilievi diretti di dettaglio. Nel complesso è stata rilevata la posizione topografica di oltre 1.000 punti.
L’anfiteatro era conosciuto, e forse in parte visibile, ancora nel 1508: è citato dal Barletius nella sua Biografia dello Scanderbeg11; poi scomparve, sepolto dal terreno della collina. Sul pendio e sui pochi ruderi emergenti furono costruite case, sia in epoca turca che ancora nel XX secolo. Le dimensioni12 e l’articolazione, interna ed esterna, dell’edificio non erano chiare a causa dello scavo parziale, che aveva rimesso in luce solo una limitata porzione di perimetro dell’arena, e dell’anomalia costruttiva determinata dal parziale addossarsi dell’edificio alla
Toçi 1971, 40-41. Golvin 1988. 7 L’ipotesi, accolta anche dal Golvin, si basa sul materiale prevalente trovato negli scavi, sulla tecnica edilizia e su un ragionamento induttivo che parte dall’iscrizione CIL III, 607 oggi perduta e di trascrizione incerta, che cita un munus gladiatorium. 8 Sui terremoti di Durazzo: Guidoboni. Comastri, Traina et alii 1994; Santoro, Hoti, Monti, Shehi 2003. 9 Gutteridge, Hoti, Hurst 2001, 391-410. 10 Toçi 1971. 11 Bartletius 1508-1510. 12 In letteratura si presume un asse maggiore lungo m 136, ed una capienza di 15-20.000 spettatori: Golvin 1988, 203. 5 6
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L’anfiteatro di Durazzo: dal rilievo integrato al restauro, per la valorizzazione di un’architettura archeologica
La scala prescelta per la restituzione grafica d’insieme (1:200 – 1:500) offre contemporaneamente una discreta leggibilità delle forme dell’architettura e il controllo dell’intorno urbano.
ormai solo da opus caementicium e ampi rappezzi frutto di recenti restauri, quindi senza più gradinate. A conclusione di queste campagne di rilievo il quadro dei resti dell’anfiteatro poteva dirsi sostanzialmente completo. Tuttavia, non essendo emerse strutture chiaramente appartenenti alla facciata del monumento, la posizione della stessa risultava ancora incerta e quindi non determinata esattamente la sua dimensione complessiva. La stessa organizzazione funzionale non si poteva dire risolta, essendo le parti rilevabili quelle posizionate nelle zone di raccordo tra la parte costruita in elevazione e la parte di anfiteatro adagiata al fianco della collina. Questo rende tali strutture anomale rispetto alla scansione presumibilmente regolare delle altre parti, dovendosi confrontare con le irregolarità morfologiche del terreno. La ricostruzione attuata attraverso un rilievo diretto, seppur supportato da punti topografici, non ha consentito una precisione sufficiente per poter discernere le leggere differenze tra una forma ovale piuttosto che una forma ellissoidale.
Nel rilievo delle parti interne e in quelle più minute dell’anfiteatro si è fatto ricorso a metodologie integrate di rilevamento, che partendo dalla base misurata topograficamente hanno consentito di completare la definizione di elementi più circoscritti mediante tecniche di rilievo diretto. Sono state definite la geometria e la posizione esatta dei resti della struttura antica e degli edifici circostanti, che in parte ricadono all’interno della superficie dell’arena e delle sue gradinate; il lavoro pertanto ha riguardato la parte già scavata e le strutture murarie evidenti dei resti del monumento archeologico, nonché la posizione delle recinzioni e degli edifici che si trovano nell’immediato intorno dell’attuale area archeologica. A questa prima campagna di rilevamento ne sono seguite altre che, attraverso parziali rilievi diretti, hanno consentito di restituire le forme delle gradinate già portate alla luce, la porzione visibile del muro del podio, che circonda la parte maggiormente scavata dell’arena, le gallerie interne conosciute e percorribili, l’andamento dei setti murari radiali della parte nord-est, dove si riconoscono accessi a gallerie sotterranee di uso privato o non accessibili. Particolare attenzione è stata rivolta al rilievo della galleria nord, che individua l’asse maggiore dell’ovale e alla determinazione e verifica dell’asse minore, che pare coincidere con l’asse della cappella ricavata nella parte occidentale. È importante notare come, in modo simile ad altri casi più conosciuti, sulle rovine dell’anfiteatro, col tempo, siano sorti numerosi edifici che ne hanno coperto le tracce, nonostante il tessuto urbano mostri evidenti relazioni con la presenza di un manufatto a tracciamento curvo e di assi radiali. È inoltre evidente dalle planimetrie redatte dopo la restituzione, che molte di queste case hanno utilizzato i muri dell’antico complesso come fondazioni o come muri dei piani inferiori su cui gli abitanti hanno proseguito l’edificazione dei piani superiori.
Nel 201213 è stata quindi effettuata un’ulteriore campagna di rilievo sull’anfiteatro, mediante l’utilizzo di un laser scanner 3D. Essendo già in possesso di un rilievo topografico molto dettagliato che inquadrava tutta l’area e gli edifici adiacenti, si è scelto di concentrare le stazioni di scansione intorno alla zona dei nuovi scavi, al centro dell’arena e negli ambienti voltati. Anche queste stazioni sono state concatenate tra di loro sempre a formare triangoli chiusi ed in alcuni casi ricalcano punti stazione ancora presenti dal rilievo del 2006. L’unione delle 22 nuvole di punti provenienti dalle scansioni ha permesso di avere una visione tridimensionale complessiva dell’intero monumento e dell’immediato intorno con margini di errore contenuti al di sotto del centimetro. In questa nuvola complessiva si possono leggere tutte le strutture dell’anfiteatro contemporaneamente, in una sorta di radiografia del costruito che rende semitrasparenti le strutture superficiali lasciando intravvedere le parti sottostanti. Nella zona degli scavi archeologici, mai rilevati prima, sono evidenti i due muri che delimitano la galleria centrale, allineati ed opposti alla grande galleria nord ancora voltata, anche se in parte ricostruita; alla destra di questi, porzioni di scale e dei primi 4 fornici. A sud della cappella bizantina, di datazione incerta, sono riconoscibili 10 muri delimitanti altrettanti fornici: quest’area, compresa tra l’asse trasversale ovest e l’asse centrale sud, sembra essere la parte di monumento più riutilizzata e rimaneggiata a scopo militare, sacrale ed infine abitativo fino al XIII secolo14.
Le 12 sezioni, con andamento radiale, documentano in maniera esaustiva tutta l’area dell’attuale ingresso, utilizzata per le visite del pubblico: sono state prodotte integrando le misurazioni dirette, prese principalmente nei locali coperti, con i punti acquisiti mediante l’utilizzo della stazione totale, atti a descrivere l’andamento informe della parte esterna della cavea, costituita
13 Prima campagna di rilievo tridimensionale (Laserscanner, 2012): resp. Scientifico prof. Paolo Giandebiaggi; coordinamento scientifico di tutte le attività: prof.ssa Chiara Vernizzi e arch. Andrea Ghiretti; arch. Claudia Ceruti. 14 Santoro 2003, 193; Bowes, Hoti 2003, 388-393.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro costituito da più di 6,9 milioni di facce; da esso, sono state realizzate due ortofoto ad alta risoluzione (dimensione del pixel 0.5 mm).
Ad integrazione della campagna di rilevamento tramite laser scanner 3D condotta nel luglio 2012, nel maggio 201515 è stata effettuata una ulteriore serie di scansioni, al fine di completare la descrizione dell’area nord-est, a suo tempo ancora parzialmente inaccessibile, soprattutto nella zona dei vomitori ancora oggi utilizzati come cantine private. A fronte di nuove tecnologie e competenze a disposizione del gruppo di ricerca e maturate nei tre anni, sono state proposte nuove metodologie di indagine e rilievo integrato per affrontare aree del complesso ritenute maggiormente impegnative e problematiche. Per completare i dati già rilevati tramite 22 scansioni nel 2012, sempre utilizzando lo scanner Leica Scanstation C10 in dotazione al DIA dell’Università degli Studi di Parma, sono state effettuate ulteriori 14 scansioni sia all’esterno, nella zona della cavea, sia all’interno di vomitori, ambulacri e cappelle presenti nell’area nord-est. Le scansioni sono poi state collegate tra loro e con quelle eseguite nella campagna di rilievo del 2012, costituendo un unico modello 3D a nuvola di punti, successivamente elaborato con il software Cyclone. Sono state inoltre effettuate altre 3 scansioni nella zona degli scavi posti a sud-est, già rilevati nel 2012, come aggiornamento ed integrazione dei nuovi ritrovamenti effettuati da allora. Un’ulteriore scansione 3D è stata effettuata all’interno della cappella bizantina, nella zona dei mosaici del VI secolo d.C., dei quali sono state scattate anche una serie di foto ad alta risoluzione poi trattate con Agisoft Photoscan.
Il rilievo dell’anfiteatro Durazzo si è rivelato un caso studio interessante da un punto di vista metodologico, in quanto il gruppo di ricerca ha acquisito una cospicua quantità di materiale grafico e fotografico, documentando anche fasi successive dello scavo archeologico.
L’ANALISI GRAFICA Nel tentativo di ricostruire la geometria complessiva dell’anfiteatro, le differenze nella larghezza dei fornici hanno inizialmente posto molti dubbi per risolvere i quali si è dovuto ricorrere ad un confronto con altri anfiteatri per cercare di comprendere quali fossero le costanti e quali le variabili di questa tipologia architettonica così caratteristica ma anche così varia sia per dimensioni che per tipologia costruttiva e localizzazione geografica. Punto di partenza è stato il confronto bibliografico con gli anfiteatri di simili dimensioni, in cui il libro L’Amphithéâtre romain di J C Golvin16 è stata la fonte privilegiata: dal confronto tra le varie strutture indagate, è emerso che la larghezza dei fornici è sempre costante in facciata, ad eccezione di quelli sull’asse principale che rappresentavano le due grandi porte di ingresso e uscita.
Durante l’ultima campagna di rilevamento svoltasi nel maggio 2015, è stata effettuata una prova di acquisizione di immagini di tutta la cavea dell’anfiteatro, utilizzando una Nikon D3X ad alta risoluzione con grandangolo. La sequenza di immagini è stata ottenuta muovendo la fotocamera lungo un percorso ellittico seguendo i bordi del podio interno, con basi di presa quasi costanti tra fotogrammi successivi e mantenendo il piano immagine verticale e approssimativamente parallelo alla sezione dei passaggi. La sequenza di immagini finale è costituita da 49 immagini, orientate automaticamente. Per definire il sistema di riferimento della restituzione e orientare in modo assoluto il blocco di immagini, sono stati estratti alcuni punti d’appoggio dalla nuvola di punti prodotta dal laser scanner. Alla fine del procedimento di orientamento (“structure from motion”), sempre con Agisoft Photoscan, è stato prodotto il DSM dell’anfiteatro. Per la ricostruzione del mosaico, sono state acquisite due sequenze pseudo-nadirali rettilinee, a circa 1,5 metri dall’oggetto. La dimensione del pixel sull’oggetto era quindi molto piccola (0,25 mm circa), consentendo una risoluzione molto elevata e una buona precisione nella restituzione finale. Il DSM finale del mosaico, ottenuto con la pipeline Agisoft Photoscan, è
Dai dati desumibili dal rilievo è stato possibile identificare e tracciare un asse longitudinale partendo dall’asse della grande galleria nord e prolungandolo fino ad arrivare al centro dei due muri delimitanti la galleria sud scoperti dai recenti scavi. La corrispondenza e l’allineamento sono risultati pressoché perfetti. Spiccando una perpendicolare dalla mezzeria di quest’asse, si arriva precisamente sulla mezzeria della cappella bizantina. Gli assi dei muri delimitanti i fornici a sud nei pressi dei nuovi scavi archeologici, puntano tutti verso una piccola area posta sull’asse longitudinale dell’anfiteatro; gli assi dei muri delimitanti i fornici nella zona della cappella bizantina si incrociano, con qualche approssimazione, in un punto sull’asse trasversale. Gli assi dei fornici non puntano tutti sullo stesso centro bensì su quattro centri diversi, i centri dell’ovale che genera il perimetro sia dell’arena che del complesso stesso. Questo fatto porta a una riduzione delle differenze di passo tra i muri, più ci si allontana dai centri su cui convergono, fino a trovare una regolarità sulla facciata
Seconda campagna di rilievo tridimensionale (Laserscanner e fotomodellazione, 2015): resp. Scientifico prof.ssa Chiara Vernizzi, prof. Riccardo Roncella, prof. Andrea Zerbi. 16 Golvin 1988, 284-288. 15
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L’anfiteatro di Durazzo: dal rilievo integrato al restauro, per la valorizzazione di un’architettura archeologica
nella scansione dei fornici che suddividono in cunei la cavea dell’anfiteatro.
Costruendo, secondo quanto illustrato, un ovale i cui centri sono situati sugli estremi delle ipotenuse dei quattro triangoli sacri disposti simmetricamente con gli angoli retti sull’origine degli assi, utilizzando misure intere per i raggi degli archi di circonferenza che hanno centro sull’asse maggiore, si ottiene una serie di ovali concentrici con misure degli assi espresse da numeri interi.
Un modulo costante nella suddivisione del perimetro dell’anfiteatro si ha solo in facciata e si perde negli ambulacri più interni; oggi la facciata è completamente scomparsa ma per trovare il numero dei fornici in cui è diviso l’anfiteatro sarebbe stato indispensabile partire da essa. Per individuarne la posizione si è partiti dalla più facile identificazione del perimetro dell’arena, ripercorrendo un ipotetico processo di tracciamento del monumento avvenuto prima del reale processo costruttivo. Dai quattro centri identificati sugli assi si sono trovate le porzioni di cerchio che meglio approssimavano i muri di confine dell’arena esistenti.
Il cateto pari a tre moduli veniva disteso sull’asse maggiore e quello pari a quattro moduli sull’asse minore. Molti dei principali anfiteatri hanno un rapporto tra larghezza e lunghezza dell’arena che tende a 5/3, rapporto generato proprio dall’uso del triangolo pitagorico17. Per continuare a ripercorrere il processo di tracciamento utilizzato dai gromatici romani per impostare sul terreno le basi del monumento, un altro problema si è imposto come non trascurabile. Nel caso specifico di questo anfiteatro, il terreno su cui sorgeva non è piano. Circa la metà della cavea si adagia al fianco di una collina prospiciente il mare e la pianura su cui sorge la città. Se questo posizionamento ha portato indubbi risparmi dal punto di vista costruttivo, ha però complicato il progetto iniziale, spezzandone la completa regolarità e simmetria compositiva e obbligando a trovare soluzioni specifiche per risolvere i punti di raccordo tra terreno e architettura. Voler mantenere una perfetta regolarità nella scansione compositiva della facciata e dell’impianto planimetrico nonostante i problemi legati alle specificità della conformazione orografica del sedime, deve aver complicato notevolmente il processo di tracciamento iniziale sul terreno e condizionato la scelta della metodologia utilizzata. Alla fine, la scelta dell’ovale o dell’ellisse condizionava infatti più il tracciamento sul terreno che non la forma dell’anfiteatro.
Sul rilievo sono poi stati identificati una serie di punti che rappresentavano la massima estensione del monumento emerso: un punto a nord, fuori dall’attuale recinto dell’anfiteatro. (I lavori di ammodernamento della piazza della bashkia hanno infatti messo in luce una piccola porzione di muro chiaramente databile all’epoca romana). Un altro punto rappresentato dalla massima estensione della volta della galleria centrale nord. Un terzo nel grande muro tangente le mura bizantine ad est, a fianco dell’attuale ingresso alla zona archeologica. L’ultimo nella struttura più esterna emersa dai recenti scavi. Tutti questi punti, pur non descrivendo da soli né una curva né un profilo, si trovano perfettamente allineati su un ovale parallelo a quello dell’arena. Prolungando gli assi dei fornici trovati fino a definire questo ovale si è riscontrata la regolarità del modulo di facciata, dividendo l’ovale stesso in 72 cunei uguali, la cui larghezza corrisponde a quella dei fornici. A conferma di questa impostazione geometrica si è verificato che il triangolo formato da due dei quattro centri dell’ovale e dall’incrocio dei due assi principali, il cosiddetto triangolo generatore, la base per il tracciamento dell’anfiteatro, è un triangolo rettangolo con i lati in rapporto 3:4:5. Un triangolo di questo tipo è stato sempre presente nella tradizione ed era noto come “triangolo sacro”, le cui dimensioni formano la prima terna pitagorica utilizzata spesso per assicurare l’ortogonalità di angoli ed elementi geometrici facilmente misurabili ed esprimibili con numeri composti da una quantità finita di cifre. Sul prolungamento dell’ipotenusa si trova il punto di raccordo tra i due archi.
Come già accennato in precedenza, un primo sommario orientamento ci viene fornito dall’analisi comparata di tutti gli anfiteatri fin ora studiati da cui si rileva che la forma ellittica sembra essere spesso utilizzata nei casi più piccoli localizzati in contesti provinciali o militari posti su terreni piani. In questi casi infatti il metodo del giardiniere18 può funzionare perfettamente e risulterebbe rapidissimo, non creando problemi legati alla lunghezza delle funi necessarie e trascurabili dilatazioni della cavea in corrispondenza dell’asse minore19. Questo non funziona per gli anfiteatri più importanti, di dimensioni maggiori come quello di Durazzo, città che nel I secolo era sicuramente un importantissimo
Wilson Jones 2007, 9. La proprietà che identifica (o definisce) l’ellisse è che per ogni suo punto la somma dei segmenti che uniscono il punto ai due fuochi è costante ed è uguale all’asse maggiore (l’ellisse è il luogo dei punti per i quali risulta costante la somma delle distanze da due punti interni detti fuochi). Questa proprietà può essere messa in pratica per disegnare l’ellisse col metodo del giardiniere: si piantano in terra due pioli ad una certa distanza tra loro e si uniscono con una cordicella più lunga della distanza stessa; si tende poi la cordicella spingendola con un terzo piolo che viene spostato verso destra e verso sinistra per disegnare prima mezza ellisse e poi l’altra metà. L’asse maggiore sarà uguale alla lunghezza della cordicella usata. 19 Non è possibile disegnare due ellissi parallele a sé stesse senza variarne i fuochi. Quindi utilizzando un metodo di tracciamento basato sui fuochi, come quello del giardiniere, si ottengono ellissi che tendono al cerchio. 17 18
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro scavo archeologico all’aperto e al tempo stesso un monumento architettonico - è quella di conciliare le esigenze di conservazione con quelle di pubblicità dello scavo, inteso come esperimento di conoscenza e insieme con la necessità di rendere questo laboratorio di conservazione sicuro e visitabile. La conservazione dei materiali archeologici comincia infatti già sullo scavo, così come la pianificazione delle esigenze di consolidamento. Alla programmazione dei singoli interventi che rispondono alle diverse patologie si accosta sempre una visione generale del progetto che deve derivare dall’analisi delle condizioni del contesto: reperti e sito diventano allora un’unità archeologica da conservare, compatibilmente con l’uso previsto. Un programma conservativo si articola in indagini conoscitive, rilievi, monitoraggi sullo stato di conservazione dei materiali e del manufatto nel suo complesso che, attraverso lo studio dei meccanismi degenerativi, permetta di stabilire le operazioni necessarie alla diagnosi prima e all’intervento poi. Al rilievo geometrico degli elementi costitutivi dell’anfiteatro, è seguita quindi un’attenta analisi preliminare delle murature e del loro degrado, volta ad indagare lo stato del dissesto esistente, che permettesse di stilarne una mappatura articolata. Sinteticamente, il rilievo materico-patologico condotto sull’anfiteatro ha messo in evidenza diversi fenomeni di degrado, per lo più connessi alla costante presenza di acqua:
porto alla partenza della via Egnazia a pochissima distanza da Roma. Nel caso specifico di Durazzo si propende per la forma ovale: una volta individuato l’asse longitudinale nordsud, su terreno piano, poteva essere impostato l’asse trasversale, almeno fino ai margini dell’arena, assicurandone la perpendicolarità per mezzo del triangolo pitagorico, probabilmente lo stesso utilizzato poi per individuare i 4 centri dell’ovale. Non a caso tutti 4 i centri generatori si trovano all’interno del terreno sicuramente piano dell’arena. Il centro dell’arco di cerchio maggiore si trova a 18,97 m sull’asse trasversale dall’incrocio dei due assi. L’altro centro è sull’asse longitudinale a 14,23 m. Si ritiene necessario ricondurre le misure dei rilievi all’unità di misura lineare utilizzata all’epoca, il piede romano, per conoscere a pieno la filosofia progettuale degli antichi anche nella definizione degli spazi secondari, per un’analisi storico-critica, per l’attribuzione e la datazione delle opere20: il “piede”, in quanto appartenente a un sistema antropometrico, variava alquanto in relazione alle misure medie di una popolazione. Per questo, si è soliti operare all’interno di un ambito di diverse possibilità con un valore compreso tra 29,3 e 29,8 centimetri; nel caso specifico di Durazzo si è considerato un coefficiente di trasformazione piede/metro lineare pari a 29,64 cm. Dividendo le due misure degli assi per 29,64 si scopre che il centro dell’arco di cerchio maggiore si trova esattamente a 64 piedi sull’asse trasversale mentre l’altro centro è a 48 piedi. Considerando che queste sono le misure dei due cateti del triangolo 3:4:5 è semplice ricavare il modulo di base uguale a un numero intero di piedi romani pari a 16. Ad ulteriore conferma della correttezza delle ipotesi fatte notiamo che la misura del modulo corrisponde esattamente alla larghezza della galleria principale.
– diffusa presenza di agenti biodeteriogeni in più parti della muratura; – diffuso fenomeno di efflorescenza delle murature, con la formazione di patine superficiali; – diffuso stato di degrado della malta, con pericolo generalizzato di distacco delle pietre dai sistemi voltati, soprattutto nell’ambulacro inferiore; – generale fenomeno di infiltrazione d’acqua, sia per capillarità che per percolazione, con conseguente dilavamento della malta, soprattutto nelle zone inferiori dell’anfiteatro;
Prolungando gli spezzoni di muri radiali rilevati fino ad incrociare la facciata esterna si è potuto trovare una misura che dividesse esattamente in 72 parti uguali la facciata dell’anfiteatro. Riflettendo su cosa poteva aver determinato la scelta di tale numero è risultato che dividendo in 72 parti il perimetro esterno si otteneva una misura pari a circa 4,7 m ovvero 16 piedi romani, ritrovando ancora una volta il modulo iniziale. Questo sembra confermare definitivamente la correttezza dell’impostazione geometrica.
– localizzato stato fessurativo collegato a cinematismi di rotazione delle pareti per cedimenti differenziali. In base a queste analisi, sulle singole pareti del manufatto, si è articolato un piano di intervento attraverso successive operazioni di preconsolidamento, pulitura, consolidamento e protezione finale. L’originale apparato decorativo ha lasciato il posto quasi ovunque, nel corso dei secoli e sotto l’azione degradante del tempo e del terreno, alla struttura, che si è trasformata nella nuova superficie di “rivestimento”. La funzione strutturale diventa allora elemento decorativo, da preservare e proteggere, quasi assumesse dignità architettonica ed estetica, non più solo funzionale.
DALLA CONOSCENZA ALLE PROPOSTE DI INTERVENTO CONSERVATIVO La sfida del consolidamento all’interno di uno scavo archeologico - e l’anfiteatro romano di Durazzo è uno 20
Duvernoy 2002, 81.
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L’anfiteatro di Durazzo: dal rilievo integrato al restauro, per la valorizzazione di un’architettura archeologica
Il piano del consolidamento strutturale quindi si sovrappone e si confonde con quello del restauro e della protezione superficiale, traducendosi in una serie di interventi accomunati dalla finalità conservativa della materia che compone questo monumento. Il quadro fessurativo riscontrato, pur diffuso e spesso profondo, non sembra compromettere seriamente l’equilibrio statico complessivo della struttura. Per orientamento e geometria, tali lesioni fanno ipotizzare possibili meccanismi rotazionali, diversi a seconda delle condizioni di vincolo ma generalmente imputabili a cedimenti differenziali uniti a spinte statiche di strutture voltate. In alcune zone, lesioni a 45° verso l’interno dell’anfiteatro evidenziano un progressivo abbassamento degli ambulacri inferiori, del tutto compatibile con la natura argillosa del terreno (spesso saturo d’acqua) su cui poggia l’intera struttura. Altre lesioni, opposte per orientamento e posizione, testimoniano invece un meccanismo di rotazione dei fornici verso l’esterno, probabilmente imputabile al peso delle costruzioni che nel tempo si sono appoggiate all’anfiteatro stesso, determinandone un cedimento differenziale. È evidente come tali fenomeni risultino intensificati dalla costante infiltrazione d’acqua nelle pareti, dilavando la malta presente e modificando la portanza del terreno.
a comprendere i temi delle coperture, delle opere per la fruizione in sicurezza da parte dei visitatori e per la regimentazione delle acque, motore primo del decadimento del monumento.
IPOTESI PER LA RIFUNZIONALIZZAZIONE Consci che la conservazione sia solo un primo passo, che rischia di avere breve respiro se rimane fine a sé stesso, il lavoro è proseguito con l’obiettivo di valorizzare il monumento, l’area archeologica circostante e l’intero comparto urbano, sviluppando diverse ipotesi di ottimizzazione dei percorsi di fruizione e di riqualificazione dell’anfiteatro e del suo intorno. Questa fase ha visto il coinvolgimento di numerosi studenti dell’Università di Parma nelle varie attività di studio e ricerca condotte nel corso negli anni, sfociate in numerose tesi di laurea e di dottorato di ricerca interdisciplinari. Il progetto di internazionalizzazione ha infatti permesso di coinvolgere diversi studenti e tesisti, che hanno preso parte alle attività in situ e che, a partire da questa particolare esperienza, hanno completato il proprio iter di studi elaborando una tesi di laurea su questo particolare monumento. Tra queste tesi, si richiamano in particolare quelle di Sabrina Capra, Valeria Sdraiati, Elisa Mattei, Maria Cristina Grilli e Francesca Macchiarulo, che hanno affrontato il tema del restauro e della rifunzionalizzazione dell’anfiteatro e del suo intorno, sviluppando differenti proposte progettuali.
A completare il percorso di conoscenza, al rilievo di questo quadro fessurativo si è associata un’analisi dell’evoluzione nel tempo. In questo senso, l’applicazione sulle lesioni critiche di alcuni testimoni in stucco di gesso, opportunamente mascherati per non intaccarne l’immagine complessiva, costituisce un semplificato sistema di monitoraggio, seppur rudimentale, che a distanza di tempo può rilevare l’evoluzione delle lesioni stesse e quindi il conseguente livello di rischio dei cinematismi ipotizzati, consentendo, in mancanza di segnali preoccupanti, di evitare interventi sulle fondazioni che sarebbero inevitabilmente pesanti e costosi.
Le tesi di Grilli e Macchiarulo – ultime in ordine temporale – si sono focalizzate sulla necessità di restituire all’anfiteatro una maggiore leggibilità, nella convinzione che senza una comprensione e un riconoscimento del valore di questo monumento non ci potrà essere una sua riaffermazione all’interno del contesto contemporaneo. In particolare, la tesi di Maria Cristina Grilli21 si è concentrata sulla riconnessione dell’anfiteatro con il contesto urbano in cui è stato inglobato nel corso del tempo: una riqualificazione reciproca, in cui gli interventi previsti sulle strade e sulle abitazioni circostanti hanno un riflesso positivo sulla percezione e sulla fruibilità del monumento intercluso. Ecco allora che la demolizione di alcuni edifici insistenti direttamente sull’arena (in parte nel frattempo effettivamente realizzata) e la rimozione del terreno in eccesso permetteranno di cogliere nella sua interezza il perimetro del podio e quindi di leggere chiaramente la geometria ordinatrice di tutta la struttura; geometria poi ripresa da una nuova barriera perimetrale (con struttura lignea e tamponature in parte opache e in parte trasparenti) che dovrebbe andare a delimitare sui lati est ed ovest la visuale dall’interno verso le abitazioni e strade adiacenti,
Lo spirito con cui vengono previsti interventi di conservazione su uno scavo archeologico, come anche questo di Durazzo, è quello sperimentale. Il cantiere diventa così una occasione di ricerca sul comportamento dei materiali antichi e sulla compatibilità di quelli nuovi, contribuendo a completarne e tramandarne la conoscenza. Che poi è il fine ultimo di ogni intervento di conservazione. Questa fase di conoscenza ha fornito le indispensabili basi per sviluppare linee guida finalizzate alla conservazione del monumento. Le indicazioni hanno riguardato dapprima gli aspetti più immediati di conservazione dei materiali e di consolidamento delle strutture (sia in corso di scavo che già emerse), per poi giungere
Maria Cristina Grilli; Frammenti del passato, tracce del futuro: ipotesi per la riconnessione dell’anfiteatro romani di Durazzo al suo contesto, tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Parma, Parma, A.A. 2014-2015, relatrice prof.ssa ing. Eva Coïsson.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro destinate ad ospitare il pubblico – pensate nel rispetto dei principi di autenticità e reversibilità – è stata colta anche l’occasione di incrementare ulteriormente la leggibilità dell’anfiteatro, inserendo nella parte orientale delle nuove gradinate che suggeriscono all’osservatore la conformazione originale del monumento e della sua organizzazione.
migliorando il comportamento acustico da un lato e inserendo porzioni di giardino verticale dall’altro, verso l’abitato. Le stesse strade, opportunamente riprogettate, permetterebbero un migliore deflusso degli scarichi fognari e delle acque meteoriche, evitando l’attuale ruscellamento all’interno delle strutture archeologiche. Per i fronti degli edifici circostanti, sono proposte specifiche linee guida di intervento per riqualificare il contesto eliminandone gli elementi incongrui e rendendolo più omogeneo, con l’obiettivo di farlo diventare una quinta neutra sulla quale l’architettura storica risalterà maggiormente. Infine, per favorire la riappropriazione del monumento da parte della popolazione, la tesi si conclude con una proposta per la riorganizzazione dell’accesso all’anfiteatro dalla piazza principale: nuove rampe - che seguono ancora le geometrie riscoperte dell’anfiteatro - e un punto di belvedere da cui può iniziare il nuovo percorso di visita archeologica.
I tre lavori di Sabrina Capra, Valeria Sdraiati ed Elisa Mattei, temporalmente precedenti, sono nati in modo coordinato, mediante l’organizzazione di un progetto di massima di suddivisione delle funzioni e dei percorsi all’interno dell’edificio, che ha evidenziato in particolare tre temi: – il parco archeologico (la sistemazione del sito, per renderlo visitabile e quindi “museo di sé stesso”); – la sala spettacolo (posta all’interno dell’arena, per accogliere eventi culturali, teatrali e musicali);
La tesi di Francesca Macchiarulo22 inizia sostanzialmente dove termina la precedente, con la quale è strettamente interrelata: una volta ricucito il rapporto tra anfiteatro e città, rimangono da definire le modalità di intervento sul monumento in sé. La tesi ha quindi affrontato il progetto di restauro a tutto tondo, sia per gli aspetti legati alla conservazione del materiale archeologico, sia per la valorizzazione di una architettura mutila ma ancora piena di risorse. Ripartendo da una attenta analisi del degrado e del dissesto, aggiornata rispetto alle campagne di analisi precedenti, la tesi ha analizzato criticamente le diverse fasi di restauro già subite dall’anfiteatro nei suoi pochi decenni di vita “riemersa”, per poi individuare le migliori soluzioni di consolidamento materico e strutturale. Constatato che la maggior parte delle problematiche sono legate alla presenza di acqua non adeguatamente regimentata, le proposte hanno puntualmente indicato soluzioni tecniche (tubazioni, pozzetti, pompe) ed architettoniche (pavimentazioni, coperture) per proteggere le strutture murarie dalle infiltrazioni e per allontanare le acque, opportunamente convogliate, dall’arena. Infine, nella consapevolezza che un uso compatibile del monumento contribuisce a garantirgli manutenzione e quindi conservazione a lungo termine, l’attenzione si è spostata sul ruolo del progetto architettonico per restituire l’anfiteatro alla sua originale vocazione: ospitare spettacoli. In questo modo, oltre all’uso turistico come museo di sé stesso (che viene comunque mantenuto e migliorato) il progetto vuole contribuire ad aumentare la fruizione da parte della cittadinanza – che oggi lo guarda con un certo disinteresse – aumentandone la sensibilità e quindi l’attenzione conservativa. Nel progetto delle strutture
– il museo archeologico (all’interno delle gallerie attualmente scavate, poste a sud ovest). Le tre funzioni individuate necessiterebbero di altrettanti ingressi e percorsi che in alcuni punti andrebbero ad intersecarsi; da qui, l’esigenza di affrontare in modo congiunto l’interazione dei percorsi. In tutti e tre i casi, il primo e necessario intervento preliminare a qualunque altra azione progettuale, sarebbe la demolizione dei due edifici che insistono uno sull’arena e l’altro sulla zona degli scavi archeologici. Altro intervento necessario e preliminare sarebbe il liberare l’arena dal terreno di riporto in essa presente, per ristabilire la quota originaria dell’arena stessa. In estrema sintesi, la tesi di Sabrina Capra23 affronta il tema della creazione del percorso archeologico che si dipana attraverso il monumento mediante l’inserimento di una passerella collocata nella cavea, che consente ai visitatori di compiere un giro completo tutto intorno all’anfiteatro: le passerelle in vetro strutturale, i gradini, i corrimano con i rispettivi profilati di acciaio di sostegno, sono state attentamente dimensionate e verificate strutturalmente, fino ai minimi dettagli relativi ai particolari d’aggancio, tanto da potersi definire come progetto pronto per l’esecuzione in cantiere. Anche l’illuminazione dei percorsi è stata oggetto di grande attenzione, nella piena consapevolezza del suo importante ruolo nella percezione del monumento archeologico. La tesi di laurea di Valeria Sdraiati24 riguarda la creazione di uno spazio collettivo da utilizzare come location
Francesca Macchiarulo; L’anfiteatro di Durazzo: documento da salvare, monumento da vivere, tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Parma, Parma, A.A. 2014-2015, relatrice prof.ssa ing. Eva Coïsson. Capra Sabrina; Rilievo e analisi dell’Anfiteatro di Durazzo: Valutazione della visitabilità archeologica, tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Parma, Parma, A.A. 2005-2006, relatore prof. Arch. Paolo Giandebiaggi, correlatore prof. Ing. Gianni Royer Carfagni. 24 Sdraiati Valeria; Rilievo e analisi dell’Anfiteatro di Durazzo: valutazione di riuso dell’arena, tesi di laurea discussa presso la Facoltà di 22 23
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L’anfiteatro di Durazzo: dal rilievo integrato al restauro, per la valorizzazione di un’architettura archeologica
per concerti, spettacoli e altre manifestazioni all’aperto; in sintesi, in questa proposta progettuale, l’arena diviene il luogo in cui posizionare la platea; la galleria nord diviene il luogo ove si localizzeranno invece i camerini e i vari locali di servizio. Considerando la condizione attuale dell’edificio, non si è ritenuto di utilizzare la cavea, come era in origine, per la disposizione dei posti a sedere per il pubblico, per non alterare i già compromessi resti dell’anfiteatro. Sarebbe inoltre impossibile rispettare le normative in materia di sicurezza nel dimensionamento dei posti e dei percorsi. Per questa ragione, pur nella consapevolezza della non correttezza filologica e concettuale della scelta, si è preferito prevedere di collocare gli spettatori nell’arena: le antiche funzioni vengono così ad essere quasi capovolte, ma l’intervento mira, prima di tutto, a tutelare e a valorizzare i resti del manufatto, rendendoli la cornice naturale degli spettacoli previsti.
ospitando funzioni che lo valorizzino, anche mediante l’utilizzo sapiente di tecniche costruttive contemporanee, che rispettino le preesistenze, consentendone una lettura ed una comprensione profonda.
CONCLUSIONI La conoscenza di un organismo complesso come quello dell’anfiteatro romano di Durazzo difficilmente può dirsi conclusa in un dato momento, in quanto ogni studio settoriale condotto su di esso, in tempi e con modalità diverse, continua ad accrescere il patrimonio di informazioni che si sono stratificate nei secoli, chiarendo o, talvolta, confondendo le interpretazioni che nel tempo sono state date ad un monumento così articolato. Il processo di conoscenza diviene così strumento operativo, sistema di regole generali e pratiche attuative in grado di orientare l’azione di chi è chiamato ad intervenire al fine della conservazione e valorizzazione del monumento, affrontando la sfida di far convivere le ragioni della tutela con quelle dello sviluppo sostenibile di un patrimonio di grandi valenze storiche e culturali per una intera comunità.
La tesi di Elisa Mattei25, infine, prende le mosse da una considerazione fondamentale: l’anfiteatro, che si prevede di destinare parzialmente a sede museale, è in realtà, esso stesso, museo. Sono le volte, i corsi di mattoni, gli archi rampanti, gli elementi che rendono importante l’oggetto stesso, quindi risulta essere di primaria importanza la conservazione preventiva del manufatto, recuperando per quanto possibile, mediante interventi mirati di risanamento, i materiali originari. Il percorso museale proposto nel progetto prevede di collocare l’allestimento nelle gallerie accessibili dalle tre scale presenti sul lato sud ovest; a questi tre momenti espositivi, dislocati nei tre ambulacri, se ne aggiunge un quarto dislocato nei vani dei fornici 12 e 13 accessibili utilizzando un ascensore, collocato nel vano dove ora è situata la stanza per il custode. La ritmicità dei fornici sarà suggerita dalla presenza di corpi illuminanti, vero e proprio fulcro progettuale di tutto l’allestimento, in quanto per il museo è necessario pensare ad un’illuminazione diffusa, mentre per i pannelli e le vetrine, nelle quali esporre gli oggetti rinvenuti nell’anfiteatro, attualmente conservati presso il Museo Archeologico, è necessaria un’illuminazione puntuale.
È quindi ancor più evidente come questo necessiti di un approccio intrinsecamente trasversale tra competenze diverse: archeologi, architetti, ingegneri e specialisti del restauro, topografi, ma anche sociologi, economisti e amministratori, soggetti coinvolti a tutti i livelli nella gestione di un manufatto così delicato, sia dal punto di vista materiale che immateriale. La possibilità di interfacciarsi costantemente con competenze disciplinari diverse, che riguardano l’archeologia e la geologia, l’urbanistica ed il restauro è stata un punto di forza del lungo lavoro svolto sull’anfiteatro, che ha consentito di aumentare il livello di conoscenza globale su un manufatto di tale complessità, anche attraverso numerose tesi di laurea e attività connesse al Dottorato di ricerca che negli anni sono state svolte sull’anfiteatro, elaborando proposte per un recupero e un riuso dell’anfiteatro che ne permettesse una riappropriazione da parte della cittadinanza e dei visitatori non solo come museo di sé stesso, ma anche come elemento attrattivo e vitale.
Anche attraverso l’analisi di questi progetti, per certi aspetti forse un po’ ingenui, emerge come, grazie ad un attento percorso di conoscenza che parte dal rilievo architettonico puntuale, è possibile comprendere lo stato attuale del monumento, della sua struttura, della sua collocazione rispetto alla città e delle forme di degrado cui è soggetto. Ciò per delineare diverse modalità di intervento che possano definirsi congrue rispetto alle vocazioni del monumento stesso, che si fa “suggeritore” del modo più adeguato di intervenire su di esso,
Esperienze come queste dimostrano l’importanza di un approccio non settoriale ma interdisciplinare per lo studio e la protezione di questi meravigliosi “oggetti di arte e di storia” e sottolineano ancora una volta il ruolo delle università, che non è di semplice
Architettura dell’Università degli Studi di Parma, Parma, A.A. 2005-2006, relatore prof. Arch. Paolo Giandebiaggi, correlatore arch. Andrea Ghiretti. 25 Mattei Elisa; Rilievo e analisi dell’Anfiteatro di Durazzo: valutazione del riuso e dell’allestimento museale, tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Parma, Parma, A.A. 2006-2007, relatore prof. Arch. Paolo Giandebiaggi, correlatore prof. Peter Hohenstatt.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro “istruzione superiore”, ma di fruttuoso contatto tra ricerca e formazione.
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Figura 1 – Viste dell’anfiteatro di Durazzo (foto di Chiara Vernizzi).
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Fig. 2. Sopra: Planivolumetrico dell’area circostante l’anfiteatro scala originale del disegno 1:200; sotto: Sovrapposizione planimetrica dei vomitori e degli ambulacri ai vari livelli, scala originale del disegno 1:200 (elaborazioni grafiche di Andrea Ghiretti).
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Fig. 3. Semi-sezione trasversale sul fornice n. 15 nella zona sud-ovest, scala originale del disegno 1:200 (elaborazione grafica di Andrea Ghiretti).
Fig. 4. Sopra: Veduta tridimensionale del modello a nuvola di punti derivante dalla campagna di rilievi del 2012 (elaborazione grafica Andrea Ghiretti); sotto: ricostruzione fotogrammetrica della cavea (elaborazione grafica Riccardo Roncella).
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Fig. 5. Vista planimetrica della nuvola di punti prodotta dal laser scanner sulla quale si evidenzia lo schema geometrico fondamentale dell’anfiteatro: la divisione in 72 fornici, i quattro punti, centri delle circonferenze generatrici gli ovali, il triangolo formato dagli stessi punti e il modulo alla base della realizzazione del monumento (elaborazione grafica Andrea Ghiretti).
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Fig. 6. Diversi esempi del degrado che affligge l’anfiteatro, per lo più connessi alla presenza di acqua di percolazione e umidità di risalita.
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Fig. 7. Una tavola di mappatura del degrado con riferimenti alle schede di intervento per ciascuna patologia.
Fig. 8. Involuzione dei restauri dell’anfiteatro nel tempo, dai vetrini di Toçi nel segno del rispetto dell’autenticità, ai rappezzi cementizi che causano nuovi degradi.
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Fig. 9. Le proposte per riconnettere l’anfiteatro all’ambiente urbano, enfatizzando le geometrie generatrici e mitigando l’impatto delle costruzioni più recenti (dalla tesi di Maria Cristina Grilli).
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Fig. 10. Le proposte di valorizzazione dell’anfiteatro nelle immagini tratte dalle tesi di laurea di: Sabrina Capra, sul Parco Archeologico; Valeria Sdraiati sull’Area Spettacolo; Elisa Mattei, sul Museo Archeologico.
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Albert Ribera i Lacomba et Raymond Brulet
Les premières cathédrales en Europe occidentale, de la fouille à la valorisation patrimoniale d’après les exemples de Valence et de Tournai Abstract: The Almoina and the Prison of San Vicente excavations are very close to the actual cathedral of Valencia (Spain). After more than 30 years of studies on the origins of the first Christian topography of Valencia, it was essential to approach the episcopal group of the Late-Antiquity period. The main investigation concerned the construction project of the first half of the 6th century and its clear relationship with the urban grid of the Roman period. This large urban ensemble now appears, especially in the most important cases, as the cathedral, the baptistery and the mausoleum, perfectly fitted and linked to the previous plot. These buildings are visited in the Almoina Archaeological Center in the front to the actual cathedral. The cathedral of Tournai (Belgium) was recently explored as well as its surroundings areas as part of a long program of the church restoration. In addition to the important elements left by the Roman city such as thermal baths and domus, it is mostly the foundations of all the old basilicas located under the Romanesque cathedral that have been brought to the light on this occasion: series of churches from early-Christian, Merovingian, Carolingian and 11th c. In Tournai, the archaeological site to visit is located exclusively under the medieval cathedral.
1. Introduction
situation qui se présente le plus souvent. En effet, les cathédrales médiévales ont vieilli; elles nécessitent des restaurations de plus en plus importantes et les aménagements urbains voisins de ces édifices sont des projets qui deviennent aussi de plus en plus fréquents et préoccupants (fig. 1). Ces chantiers liés à l’édifice principal ou à l’espace environnant entraînent automatiquement un peu partout la programmation de chantiers archéologiques considérés non seulement du point de vue de l’apport d’informations nouvelles qu’ils pourront donner sur le plan historique, mais aussi du point de vue de l’aide qu’ils pourront apporter à la connaissance de l’église en cours de restauration. Au final, les découvertes débouchent sur la problématique de la conservation des vestiges qui méritent d’être valorisés, vu leur intérêt presque toujours extraordinaire. La réponse qui est apportée à cette question passe, en principe, par la création d’une crypte ou d’un soussol archéologique lorsque la profondeur des vestiges anciens est suffisante pour l’organisation d’un circuit de visite. La crypte en question peut être construite dans l’emprise du monument, comme à Tournai ; elle peut être étendue aux zones périphériques qui abritent toujours une partie du complexe cultuel ancien plus étendu que l’église actuelle, comme à Genève, à Paris ou Valence (fig. 2).
Sara Santoro a toujours été attentive à la question du devenir des vestiges archéologiques, une fois passé le temps de l’exploration et des études. Au nombre des structures archéologiques qui méritent une valorisation particulière, figurent les restes anciens découverts dans l’environnement des cathédrales et, parfois, à l’intérieur même de ces prestigieux édifices religieux. Les cathédrales médiévales en Europe occidentale recèlent dans leurs sous-sols ou dans leur voisinage immédiat des structures archéologiques qui offrent un intérêt historique souvent exceptionnel. Presque toujours implanté dans le cœur de la cité, ce monument emblématique fait partie de l’histoire de la ville et l’accompagne depuis ses origines, au moins à partir de l’Antiquité tardive. Il fournit donc des informations qui permettent d’expliquer l’évolution du noyau urbain séculaire depuis l’Antiquité jusqu’aux Temps modernes et c’est donc un site qui offre une longévité sans commune mesure. Le quartier urbain correspondant est central et accueille donc souvent des bâtiments officiels à l’époque romaine, ensuite il se mue en complexe religieux dédié au culte chrétien, doté de plusieures églises qui sont reconstruites plusieurs fois. Lorsque nous avons affaire à la dernière cathédrale aujourd’hui conservée depuis l’époque médiévale, les structures souterraines s’associent à celles qui sont en élévation pour conférer au monument une valeur patrimoniale inestimable que l’on peut visiter.
L’espace muséal ainsi créé autorise d’y placer des moyens audiovisuels modernes bien nécessaires pour faire comprendre et revivre aux visiteurs l’aspect présenté par les édifices anciens quand ils étaient encore debout.
Actuellement, la volonté des archéologues, des architectes et des gestionnaires du patrimoine est de collaborer pour conserver intact l’essentiel de vestiges archéologiques découverts ou de créer des zones de réserves archéologiques. Mais, en fait, c’est la première
Une enquête récente présentée successivement à Tournai, à Valence et à Tarragone, dans une exposition 411
Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro intitulée «De Tournai a València: L’arqueologia de les primeres catedrals d’Europa », a permis la confrontation d’une vingtaine d’exemples de fouilles et de présentation au public des structures patrimoniales mises au jour dans des sites cathédraux en Allemagne, Belgique, Espagne, France, Italie, Portugal et Suisse. On ne peut pas reprendre en détail tous ces cas qui offrent de nombreuses variantes dans les découvertes, les périodes concernées et les modes de mises en valeur des sites, mais il nous a paru indiqué de présenter ici les deux expériences vécues à Tournai et à Valence puis d’en tirer quelques enseignements généraux.
exhumées et déplacées, on peut dire que des restes romains sont apparus, y compris la voie principale, le cardo secondaire avec une partie des façades des deux côtés de la rue et un portique. Pour la période wisigothique, des sépultures et pour la période islamique, des murs orientés nord-sud. Les témoins chrétiens correspondent au cimetière de la paroisse de San Pedro avec ses sépultures. Il y a aussi un puits de l’ère moderne, bien qu’il réutilise probablement en partie une construction islamique antérieure. Ces structures ont été mises en valeur dans un espace muséal inauguré en 2016.
Ces deux exemples sont en effet totalement différents. À Valence, il s’agit d’une fouille de très grande surface, dans le centre de la ville ancienne, qui a été menée à côté de la cathédrale, mais le complexe religieux antique était beaucoup plus étendu à l’origine, ce qui fait que des structures cultuelles ont aussi été examinées en dehors de la cathédrale. En outre, comme on se situe au cœur de la vieille ville, les vestiges archéologiques découverts appartiennent à toute une série de périodes chronologiques distinctes.
Les vestiges de la cathédrale de l’Antiquité tardive ont été localisés près de l’édifice médiéval, vers l’est, dans les fouilles du site de l’ancienne Almoina, de la Prison de San Vicente et de la Place de l’Almoina. L’intervention archéologique à Valence a deux facettes: l’identification de la cathédrale ancienne au sein du groupe épiscopal et la découverte d’éléments urbanistiques importants de la ville antique. L’enquête archéologique a permis de localiser les bâtiments les plus significatifs de l’ancien groupe épiscopal, formé par une cathédrale à trois nefs, flanquée de galeries à chevets polygonaux, deux bâtiments cruciformes avec fonction funéraire ou mausolée au sud et au nord, un baptistère imposant. De plus, une abside en fer à cheval se superpose au bâtiment romain lié au martyre de Saint Vincent et autour duquel le premier cimetière sera agrandi.
À Tournai, on se trouve aussi au centre du castrum romain. Mais c’est essentiellement l’intérieur de la cathédrale du XIIe siècle qui a été investiguée, parce que les fouilles ont surtout été ordonnées dans le cadre du projet de restauration du monument, indispensable au vu des graves désordres constatés, qui se déroule sur plusieurs dizaines d’années. Ce qui différencie également Valence de Tournai tient à la surface de la zone archéologique mise en valeur ; à Tournai, le fait de ne présenter que des vestiges en sous-sol de la cathédrale réduit les espaces de circulation. Enfin, à Tournai, le projet de valorisation du patrimoine archéologique est à l’étude et donc non encore réalisé, au contraire de Valence, où l’espace muséal a été créé quelques années après la fin des fouilles. Comme toujours, le processus de création de cryptes archéologiques en rapport avec les cathédrales est long et dépend de l’efficacité de la coordination entre un nombre considérable d’acteurs et de responsables.
L’origine du noyau épiscopal est située dans la zone sudest du forum romain (fig. 4). On retrouve ici, à partir du IVe siècle, les premiers vestiges matériels du culte et de la christianisation des espaces publics. En ce qui concerne la cathédrale ancienne, l’abside a été localisée, elle est formée par une grande fondation semi-circulaire de deux mètres de large et de 14 m de diamètre, construite avec de grandes pierres de taille et des restes de fûts de colonne réutilisés, renforcés par des contreforts externes. Sur le sous-sol précédent se dresse un mur formé par une double paroi de petites pierres de taille à remplissage interne. C’était un grand bâtiment avec un plan basilical à trois nefs, les côtés latéraux étant entourés de galeries processionnelles pour le parcours des pèlerins et des fidèles, reliés aux bâtiments cruciformes situés de chaque côté du chevet, soit un mausolée et un baptistère, tous précédés par un large atrium qui occupait l’espace de la basilique du forum antique (fig. 5).
2. LE CAS DE VALENCE 2.1. Les fouilles et les découvertes Les fouilles récentes à l’intérieur de la cathédrale elle-même ont rendu possible de restituer une séquence archéologique continue de l’époque de la fondation de la ville jusqu’à nos jours (fig. 3), même si les niveaux les plus anciens n’ont pas pu toujours être atteints pour préserver les structures que nous pouvons maintenant visiter. En ce qui concerne les découvertes, à la fois celles qui peuvent être vues in situ et celles qui ont été
Le baptistère a été construit au milieu du VIe siècle, à l’extrémité nord du chevet de la cathédrale. Il a envahi et occupé une rue importante, le cardo maximus, jusqu’alors respectée, bien que quand il a été projeté, il 412
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Les premières cathédrales en Europe occidentale, de la fouille à la valorisation patrimoniale d’après les exemples de Valence et de Tournai a fonctionné par la suite jusqu’à ce qu’elle soit transformée en mosquée au Xe siècle.
a pris en compte la route et les bâtiments romains encore existants, en particulier le sanctuaire d’Asclepios. Sa proximité et sa relation avec le sanctuaire thermal n’étaient ni accidentelles, ni nouvelles, car il y a des indications de l’existence d’un premier baptistère plus ancien placé dans le sanctuaire païen. La transformation des bains thermaux en baptistère était courante dans les premiers siècles du christianisme. Bien que nous ne connaissions que la partie nord du bâtiment, il semble avoir un plan en croix, avec un chevet droit ou courbé à l’est (fig. 6). Le mur nord présente une ouverture verticale remarquable, étroite et allongée, située au niveau du trottoir d’origine, avec une pente marquée vers l’extérieur. Il a été interprété comme un canal pour conduire les eaux à l’extérieur, à un point où il serait recueilli par les fidèles.
La cathédrale Santa María a été construite à partir de 1262, là où se trouvait une ancienne mosquée, la première phase de ces travaux se terminant au début du XIVe siècle. Dans la seconde moitié de ce siècle, la salle capitulaire fut élevée et les travaux de la Torre Mayor ou de Micalet commencèrent, laissant les deux bâtiments au pied de la cathédrale reliés par un atrium. C’est au XVe siècle que la cathédrale a atteint son apogée et, depuis 1437, elle accueille le Saint Graal et a agrandit ses trois nefs et construit de nouvelles chapelles gothiques. La cathédrale actuelle ne se trouve donc pas sur l’ancienne cathédrale, située vers l’est, mais sur la mosquée de la dernière période islamique (XIIe et XIIIe siècles), dont elle a conservé l’orientation sud-ouest/nord-est.
Un mausolée, édifice funéraire cruciforme, est éton nemment conservé dans toute son emprise et une bonne partie de son élévation, à l’extrémité sud du chevet de la cathédrale et en relation avec celui-ci. Dénommé crypte archéologique «Cárcel de San Vicente», on suppose qu’il était destiné à l’enterrement de l’évêque Justinien et, probablement du même martyr Vicente. Il a une structure centrale en forme de croix et un système de nefs avec voûte en berceau. La nef plus large, est divisée en sections séparées par des pilastres attachés créant de petits espaces latéraux ou des niches qui, dans le cas de la section la plus proche du transept, apparaissent comme arcosolium qui contrecarrent les poussées diverses ; ceux-ci servaient à loger les sarcophages des derniers évêques, formant un couloir funéraire qui était relié à la cathédrale. Dans le sous-sol du centre du transept, séparé par une double ligne de cancels, se trouve une tombe faite de gros blocs de pierre en forme de ciste dans laquelle ont été retrouvés les ossements d’un homme d’environ 50 ans, décédé au milieu du VIe siècle (fig. 7).
2.2. Le cas de Valence : la valorisation Au nord de la cathédrale actuelle, les fouilles de l’Almoina ont été mises en valeur dans un espace muséal inauguré en 2007 (fig. 9). La riche hétérogénéité de l’espace de l’Almoina est sa principale caractéristique, mais aussi un défi : diachronie, superposition, complexité, bref, beaucoup d’histoire et d’architecture réunies dans un petit espace. Normalement, les musées et les espaces visitables se réfèrent à une époque, un thème ou un bâtiment. À l’Almoina, plusieurs bâtiments d’âges et de fonctions différents permettent de traiter des problèmes historiques, archéologiques, urbains ou religieux dans leur ensemble. Le but n’a pas été seulement d’expliquer les fouilles de l’Almoina, mais à partir d’elles, comme un fil extraordinaire, de faire comprendre l’évolution de la ville ellemême et de ses phases les plus anciennes. Il s’agit plus d’un musée d’histoire urbaine ou d’un site compris dans un sens global, c’est-à-dire Valence, que d’un centre d’interprétation d’une fouille dans un espace limité par des bâtiments contemporains. Le principal défi a été de rendre cette diversité complexe compréhensible par les visiteurs. Le système mis au point a consisté à regrouper chaque période dans des espaces différents. D’une manière générale, les phases médiévale et islamique sont présentées au rez-de-chaussée ; les époques romaine et wisigothique dans le sous-sol.
L’une des particularités du groupe épiscopal de Valence est sa forte composante funéraire, qui doit être mise en relation avec le lieu du martyre de Saint Vincent, rapidement vénéré, et qui depuis le Ve siècle, était déjà un pôle d’attraction pour les fidèles à s’y faire enterrer (ad sanctos). Cette spécificité de Valence favorisera l’installation précoce de cimetières à l’intérieur des villes (fig. 8). Trois phases de la nécropole dans la cité épiscopale ont été identifiées, dans une période qui s’étend du milieu du Ve siècle à la fin du VIIIe siècle.
On a eu recours à des évocations audiovisuelles pour les bâtiments et à des maquettes expliquant l’urbanisme de chaque époque. Empruntant les routes romaines dans la majeure partie du parcours, la visite ressemble à une promenade à travers la ville romaine en suivant le même itinéraire que celui utilisé il y a 2.000 ans. Mais le caractère de cet espace exige que les visiteurs fassent un voyage dans une direction contrainte par des passerelles. On explique également l’environnement urbain
Enfin, entre 711 et 715, les musulmans prirent le contrôle de l’Hispanie wisigothique, mais un accord fut trouvé avec les chrétiens. Le mausolée de l’évêque Justinien a été reconverti, à partir du Xe siècle, en bain (hammam) et le baptistère a été intégré dans la forteresse comme tour. On suppose que la grande cathédrale
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro de consolidation de l’église actuelle, comme le jet grouting; des sondages blindés à grande profondeur pour examiner la base des fondations romanes, puis, enfin, l’ouverture du sol en grandes surfaces (fig. 11). Les enregistrements devaient être opérés dans des espaces malheureusement confinés, parce que les fondations sous forme de murs de chaînage, pour supporter les colonnades de l’église, découpent la fouille en petits secteurs, affaiblissant la vue et la compréhension du site.
des vestiges qui sont présentés, car la plupart d’entre eux font partie de complexes architecturaux qui dépassent la zone occupée par le Centre archéologique, comme ce serait le cas de la rue romaine, du forum romain, du cirque, du groupe épiscopal wisigothique et du grand ensemble palatin de l’Alcázar islamique1. Dans les environs immédiats, en plus de la cathédrale, de la basilique des Desamparados et de l’Almudín m édiéval, il y a des petits sites historiques et archéologiques intéressants, certains uniques en leur genre comme la prison de San Vicente, qui malgré son nom est un mausolée cruciforme de l›époque wisigothique, probablement le tombeau de San Vicente2 (fig. 10).
Par chance, des fouilles furent aussi conduites juste à côté de la cathédrale, dans l’espace de l’ancien cloître médiéval, ce qui a permis de mettre au jour beaucoup de structures datées du Ve siècle et du début de la période mérovingienne (fig. 12). Au total, même si la zone étudiée n’est pas très étendue, des éléments très significatifs de chaque grande période historique ont été retrouvés.
Dans les récents travaux archéologiques de la cathédrale actuelle, la fouille a été divisée en cinq espaces: du sud (adjacent à la salle de salle du chapitre) au nord (la citerne). La fouille a conduit à l’enlèvement de la plupart des sédiments dans ces sous-espaces, en préservant de nombreux éléments de construction apparus, y compris une rue romaine dans une direction nord-sud, qui devrait constituer l’axe de la ville, une fontaine et les seuils et les façades de certains bâtiments.
Pour l’époque romaine tardive, moment important où la ville s’affirme comme un caput civitatis, l’emplacement de la future cathédrale est aussi le cœur de la ville antique où ont été mis au jour édifice thermal d’époque constantinienne (première moitié du IVe siècle) (fig. 13), puis une maison aristocratique vers la fin du même siècle. On sait que la situation évolue considérablement pendant le Ve siècle, dans cette région marquée par les invasions et les installations de peuples germaniques. On suit parfaitement cette crise qui se manifeste par la reconstruction de bâtiments dans des techniques qui nous éloignent des standards de l’Antiquité, avec le recours à l’opus africanum (fig. 14).
En vue de la visite, tout le sous-sol archéologique a été équipé d’une passerelle métallique par laquelle on peut atteindre tous les espaces fouillés, qui ont été équipés d’autant de mesures de contrôle, de sécurité et d’éclairage que nécessaire. La zone dans laquelle on se déplace n’est pas très grande, avec seulement une superficie d’environ 160 m2. La visibilité est dégagée, on dispose d’une hauteur libre de 2,50 m.
Les traces et de divers artisanats caractérisent une occupation du site au début du VIe siècle, dans des niveaux de terres noires, avant qu’il ne soit le siège d’une basilique paléochrétienne, retrouvée au centre de la cathédrale romane, avec solea et ambon du VeVIe siècles (fig. 15). À partir de là, les vestiges d’églises successives se superposent dans les entrailles de la cathédrale médiévale et les résultats sont exceptionnellement parlants en termes de chronologie relative.
3. LE CAS DE TOURNAI 3.1. Les fouilles et les découvertes Jamais étudié le sous-sol de la cathédrale de Tournai a été exploré, ou ses abords, à partir de 1996 par l’Université de Louvain et la Direction de l’archéologie de la Région wallonne. Il s’agissait, d’abord, de premières reconnaissances au sein de la cathédrale elle-même, en vue de sa restauration.
Toute une série de cathédrales se succédant au même endroit développent des plans de plus en plus grands s’inscrivent dans le monument médiéval, comme des poupées russes (fig. 16). Pour la période carolingienne, on note, vers le milieu du IXe siècle, une église présentant un plan sophistiqué avec de nombreuses exèdres, selon une physionomie qui est influencée par les modèles monastiques. Puis une cathédrale est construite à l’An Mil, une première cathédrale romane d’une certaine ampleur, comportant un transept étroit, massif et deux tours en façade. Deux séries de marches donnent
Puis les interventions archéologiques ont suivi les impératifs du chantier de la restauration, avant ou après sa mise en œuvre, à l’exception de quelques opérations de fouilles préventives ou programmées exécutées avec davantage de réussite sur des superficies de plus en plus significatives. On a donc fait appel à une grande variété d’approches, la prospection électrique, les carottages selon un programme très étendu pour détecter la profondeur du roc, information dont avaient besoin les restaurateurs pour décider des techniques 1 2
Ribera 2010, Ribera 2012. Ribera 2008. Pour plus d’informations, consulter le site de la Mairie de Valence: www.valencia.es.
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accès successivement à l’espace réservé aux chanoines et au cœur intégrant, sous l’autel, une chambre reliquaire (fig. 17). Trois chevets hémicirculaires sont identifiés. Deux évêques du XIe siècle ont été inhumés dans cette église, au pied de l’autel3.
celle-ci, avec des conséquences importantes quant à la vision plus ou moins dégagée que l’on peut avoir sur les structures anciennes et quant au mode de circulation dans la crypte. Ce qui relie tous ces projets, c’est le souci de prendre à témoin, pour mieux comprendre l’histoire de la ville, chaque vestige pouvant être rattaché à une page historique de la cité, voire du premier millénaire dans le pays correspondant. Enfin, l’effort porte désormais aujourd’hui sur l’utilisation appropriée des techniques modernes de représentation du passé, par les images virtuelles ou de réalité améliorée.
3.2. Le cas de Tournai : la valorisation Le projet de mise en valeur ne concerne que le site du sous-sol de la cathédrale médiévale, dans sa partie fouillée, soit une portion de la nef centrale avant le transept et toute la nef nord (fig. 18). La surface totale à valoriser est petite, mais tous les états historiques ou archéologiques y sont représentés depuis l’époque romaine jusqu’au XIIe siècle, sous la forme d’au moins un témoin digne d’intérêt: des vestiges appartenant à des thermes du IVe siècle, et une domus (fin IVe-début Ve s.), une basilique paléochrétienne (Ve s.), des basiliques du Haut Moyen-Âge avec réfection carolingienne, un baptistère du Xe siècle, une cathédrale de l’An Mil. Un choix est donc opéré sur un nombre limité d’éléments à montrer aux visiteurs.
BIBLIOGRAPHIE Brulet, R. et al. 2012. La cathédrale Notre-Dame de Tournai. L’archéologie du site et des monuments anciens, vol. 1-3, Cadres généraux, structures et états (Études et Documents. Archéologie, 27-29; Namur). Brulet, R. (ed.) 2014. La cathédrale de Tournai à chœur ouvert (Carnet du Patrimoine, 124; Namur).
Chaque structure valorisée est en relation avec un monument antique ou avec une église ancienne qu’il faut pouvoir restituer avec des images au point de vue planimétrique et du volume, si non le visiteur ne comprendrait pas la signification des tronçons de murs découverts. Un autre objectif très important est celui de relier chaque édifice ancien à une séquence historique précise. Le cœur de ville a, par le biais de son site cathédral, été le théâtre de toutes les évolutions et transformations historiques de la cité. On peut sensibiliser le visiteur à l’histoire de Tournai en lui racontant l’histoire de chaque monument ou morceau de monument conservé à cet endroit.
Ribera, A. 2008. “La primera topografía cristiana de Valencia (Hispania Carthaginensis)”, Rivista di Archeologia Cristiana. Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana. (Città del Vaticano), 377-434. Ribera, A. 2010. “El centro Arqueológico de l’Almoina. Valencia” 5. Encuentro internacional. Actualidad en Museografía (Palencia 2009), 67-82. Ribera, A. 2012. “Centro Arqueológico de la Almoina en Valencia”, in A. Ancona, A. Contino, R. Sebastiani (eds.). Archeologia e Città. Riflessione sulla valorizzazione dei siti archeologici in aree urbane. (Roma), 37-45.
Au plan technique, le circuit de visite des structures est linéaire et étroit, il nécessite des percements dans les murs latéraux de la cathédrale romane. Un projet existe aussi de faire débuter la visite par une galerie reconstituée du cloître roman qui pourrait servir à étendre un peu la surface muséale pour y placer des maquettes, à cacher l’entrée de la crypte archéologique et à remeubler quelque peu cette zone abandonnée qui doit nécessairement faire l’objet d’un réaménagement urbain et aussi une circulation combinée vers les galeries à l’intérieur de la cathédrale (fig. 19).
4. CONCLUSIONS
Parmi d’autres projets muséaux, les deux cas présentés illustrent à leur manière deux situations différentes, voir opposées. Il s’agit d’aménagements exécutés dans le centre urbain à fort potentiel archéologique où pour l’un, on a surtout opéré des fouilles à l’extérieur de la cathédrale actuelle et pour l’autre à l’intérieur de 3
Brulet et al. 2010; Brulet 2014.
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Fig. 1. La cathédrale Notre-Dame de Tournai en cours de restauration (2017).
Fig. 2. La cathédrale de Valence et les travaux de construction du Centre archéologique de l’Almoina (2004-2005).
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Fig. 3. Les fouilles archéologiques de l’Almoina en 2003, avant la construction du Centre archéologique de l’Almoina.
Fig. 4. Les fouilles archéologiques de l’Almoina. Plan des structures du IVe siècle ap. J.-C.
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Fig. 5. Plan restitué des vestiges de la cathédrale wisigothique de Valence et de ses annexes.
Fig. 6. Reconstitution graphique du baptistère de Valence au VIe siècle ap. J.-C.
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Fig. 7. Le mausolée du VIe siècle ap. J.-C., connu sous le nom de « prison de San Vicente».
Fig. 8. Les fouilles archéologiques de l’Almoina : sépultures de la première nécropole de la zone épiscopale du Ve au VIe siècle.
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Fig. 9. Vue sur le Centre archéologique de l’Almoina à Valence et la place adjacente.
Fig. 10. Vue sur les aménagements internes du Centre archéologique de l’Almoina à Valence, avec mise en valeur des structures anciennes et des passerelles de visite.
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Fig. 11. La cathédrale romane (bleu) et gothique (rouge) de Tournai et emplacements des fouilles archéologiques (en noir) dans la cathédrale et à ses abords.
Fig. 12. Vue générale sur les fouilles archéologiques conduites à l’extérieur de la cathédrale de Tournai, dans l’ancien cloître.
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Fig. 13. Cuve gallo-romaine des thermes romains retrouvés dans le site à Tournai (IVe siècle ap. J.-C.).
Fig. 14. Construction en opus africanum découverte à côté de la cathédrale de Tournai (Ve siècle ap. J.-C.).
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Fig. 15. Tournai: au pied du chœur des basiliques paléochrétienne et mérovingienne, on a retrouvé les fondations de deux soleas et ambons superposés (VIe et début VIIe s. ap. J.-C.).
Fig. 16. Reconstitution graphique de synthèse d’une église ancienne occupant l’emplacement des basiliques plus anciennes et, plus tard les nefs de la cathédrale romane de Tournai. Il s’agit ici de la cathédrale carolingienne.
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Fig. 17. Vue générale sur l’avant-chœur fouillé des églises anciennes de Tournai. Les vestiges appartiennent à différentes périodes jusqu’au milieu du XIe s. ap. J.-C.).
Fig. 18. Vue d’ensemble sur les fouilles de la nef nord romane de Tournai où on remarque la profondeur des vestiges anciens et les difficultés rencontrées pour la mise en valeur de cette zone.
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Fig. 19. Plan des structures archéologiques de différentes périodes figurant aujourd’hui dans le sous-sol de la nef nord et centre de la cathédrale romane de Tournai, à mettre en valeur.
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Fig. 20. Reconstitution graphique de synthèse du baptistère wisigothique de Valence, à côté de la cathédrale dans son état actuel.
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Andrea Lombardinilo
Richard Sennett and ‘the new rhetoric of the People’: a Manzonian Path
Abstract: This essay aims to analyse the modern relationship between cultural displacement and social narration focusing on Richard Sennett’s references to Manzoni expressed in The Foreigner (2011) from a socio-cultural perspective. According to Sennett, Manzoni’s concept was that a people, a volk, may help in understanding the effects of Italian colonialisms during the Risorgimento: ‘This anthropological image of a volk is an epochal event in modern social imagery and rhetoric’. Hence the opportunity to further investigate the relationship between post-colonialism and displacement in the post-modern age starting from Sennett’s work. His reflection on Manzoni’s conception of ʽpeople’ provided both narrative, symbolic and ethical points of consideration, with particular regard to the development of the historic novel as a significant medium of collective representations.
SENNETT AND THE HISTORICAL ROAD TO EXILE
linked to the diffusion of capitalism. On the other hand, in The Foreigner he emphasises the historical processes feeding the evolution of social environments, with special regard to the different forms of exiles or isolation. To the fore is the issue of being an outcast in a foreign country or city, compelled to forego cultural and interactional habits. In the first essay Sennett dwells on the life in Venice ‘at the dawn of the sixteenth century, as the city became the seat of a global trading empire’5.
During his sociological research, Richard Sennett has constantly paid attention to the interactional and social features of cities for the purpose of analyzing cohabitation dynamics in urban environments1. To the fore is the concept of citizenship and eradication in modern times, bound to shift the way men shape their social relationships as described in two essays published in 2011, collected in the short volume titled The Foreigner: Two Essays on Exile in which Sennett deals with the consequences of exile deemed as a coercive condition2.
He wonders how it was possible for a lot of people to carve out their lives in a hostile place in the light of the great number of foreign people converging there in those years. Sennett clearly refers to the Jewish community. The second essay ‘is about foreigners, and forgiveness, closer in time to us’. This second essay revolves around Alexander Herzen, the famous Russian reformist compelled to drift from city to city in Europe, finally spending much of his life in exile in Britain. Both essays allow us to reflect not only on the conditions of exiles in two different historical phases, but also to dwell on the close relationship between cultural identity and civil features in the presence of socio-cultural emergency.
Furthermore, he focuses on the historical factors that in the past fueled the migratory phenomenon, influenced by several factors, especially those connected to the search for economic, political, and religious freedom. In these essays Sennett further investigates a number of issues he focused on in two previous books, The Craftsman (2008) and The Corrosion of Character (1998), in order to probe the incoming changes fostered by the passing of traditional identity patterns. The loss of ancient manual skills, together with the enhancement of means of transportation and communication, led to the advent of the so-called flexible man. The latter is globalised and hyper-connected and more suited to mobility than he used to be3.
The struggle for freedom arises when the basic rights of cohabitation are lacking, overcome by the predominant issues of power and supremacy6. It is worth emphasizing that the essays refer to two different Italian contexts, the Venetian Republic of the sixteenth century and national revolts occurring in Italy in the first half of the nineteenth century. What is the connection between these two different historical moments? Sennett remarks on the harsh conditions in which the Jews had to live inside the Ghetto in Venice, confined within the boundaries of a limited area. Soon after, he focuses on the risks run by the Italian patriots during the national
The construction of the multicultural framework of our times strictly depends on the openness to a different way to arrange social interactions, more and more molded by the semiotic and perceptive complexity belonging to communities4. On the one hand, in The Craftsman Sennett tried to expose the deep cultural changes connected to the electric revolution, while in The Corrosion of Character he focused on the significant economic innovations Sennett 1994. Sennett 2011. Jenkins 2006; Touraine 2004; Thompson 1995. 4 Giddens 1995; Habermas 1962. 5 Sennett 2011, vii. 6 Marini 2017; Pareto 1916. 1 2 3
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro painting. The juxtaposition between law and common sense can be seen in the collision of sundry cultural patterns, emphasised by the cannibalistic tendency of Shylock. To the fore is the role of the Jewish community in Renaissance Venice who ‘had become indeed enigmas to their Christian contemporaries, who no longer saw Jews routinely in their midst’11.
revolts in 1848, which fueled the abundance of political exiles persecuted by those in power7. In particular, Sennett analyses the hardships people endured during the revolts in the first half of the nineteenth, which laid the foundations of national independencies throughout Europe, including Italy. In this sense, Sennett deals with the social and cultural consequences of exile, whose impact on individual and collective existences acquires a real symbolic relevance, marked by the construction of the national identities.
Their slaughter in 1636 showed the uncontrolled force that the mob may have in specific situations, especially when it is animated by religious and economic reasons. The same rage caused people to assault bakeries in downtown Milan in the seventeenth century, as recounted by Manzoni in his masterpiece, The Betrothed. The sociology of masses cannot underestimate the representation of mass movements in literature and poetry without neglecting the sociological influence of literary narrations12, as Scipio Sighele befittingly emphasised in his Literature and Sociology (1914).
The nationalism which began to find its voice in the Revolution of 1848 marks a distinct version of collective identity in our civilisation: nationality becomes an anthropological phenomenon to which political activity is, at best, a servant: the nation becomes an ethos, the rule of nomos in Greek terms8. The construction of nationalities implies the strengthening of cultural roots which legitimate the sense of inclusion and the right to claim freedom and autonomy. In the meantime, the modern concept of nation requires a new interpretation of the collective role of a people, posed as an active social actor. For this reason Sennett remarks that ‘in 1848, the idea of a nation as a political codex was rejected by the revolutionary nationalists: they believed that a nation is enacted instead by custom, by the manners and mores of a volk’9.
From this point of view, the representation of the mass movements animating Milan during the Spanish occupation reveals plenty of precious sociological insights, as far as literature may mirror the phenomenology of human organisations13. Furthermore, sentiments inspired the narration of human experiences, dragged by the force of universal feelings and faiths. Therefore, it is not by chance that in the second essay the sociologist hints at Manzoni’s civil commitment regarding the construction of modern national identity. In his novel, as well as in his theoretical writings and dramas, the negative tradition of denied rights mingles with the hope of a better life that poor people may cling to thanks to Christian faith.
The sense of belonging to a community cannot set aside the whole set of symbols and emblems handed down from the past, functional to the enforcement of old traditions and bygone opulence, then overwhelmed by the law of the fittest. It is not by chance that historians and writers of the first half of the nineteenth century contributed to the recovery of medieval traditions set as the backdrop of claims of independence and freedom. The historical novels written by Walter Scott are not only an effective narrative medium inspired by a reliable reconstruction of history, but also attest the will to exploit history as a collective stimulus, bound to facilitate the process of recognition in a framework of common values10.
In other words, Manzoni assumes a central role in the ideological and political issues linked to the independence processes leading to the national unification achieved in 1860. Thus, Sennett’s discourse revolves around the importance that writers and politicians gained in the construction of national identity, since they were so addicted to the civil and cultural claims of their people. As a matter of fact, the sociological analysis of the foreigner, embodied by Alexander Herzen, is preceded by the description of life in Paris at the end of the nineteenth century14. The French capital (together with London) became a magnet for political exiles, who had the chance to become part of a cosmopolitan environment.
This is why in the first essay Sennett evokes the figure of Shakespeare, with particular regard to The Merchant of Venice. It is well known how strong the influence of Shakespeare’s plays and dramas was in the historical revival of the nineteenth century, in both literature and Fortis 1980. Sennett 2011, 57. 9 Sennett 2011, 58. 10 Lombardinilo 2014; Eco 1978. 11 Sennett 2011, 38. 12 Ragone 2000. 13 Morcellini 2016; Zottoli 1942. 14 Benjamin 1936. 7 8
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Hence the focus on the national movements that laid the basis of the general independence processes during the second half of the nineteenth century, to the extent that writers and intellectuals contributed to the crystallisation of a solid collective citizenship. The change - unlike what happened before - resides in the assessment of the values of the poor, opposed to the luxury and ostentation of the upper classes. The French Revolution marks the momentary upset of the aristocratic world ruled by the great European courts, destined to be revitalised by the restoration of the monarchy in France.
engenders the phenomenon of displacement. The list of political exiles or those imprisoned attests to the dimension of the process of displacement boosted by political persecution, more and more interlaced with religious hatred. The specter of persecution permeates Manzoni’s vision of history, as demonstrated in many places of his novel16. And Sennett’s survey on modern nationalism starts from the Paris of the first half of the nineteenth century as depicted by Manet. Manzoni spent five years in that city (from 1805 to 1810), where he took part in the meetings of the Idéologues. He lived a sort of exile, readily exploited by Sennett for the purpose of explaining what it means to be a foreigner in a foreign land, and that culture is fundamental in the construction of a collective identity, at home or abroad.
Despite the return of the old powers, the restored balances were about to be wiped out by the recrudescence of nationalisms, founded on the democratic instances of freedom. In this sense, the celebration of popular values poses as a communicative tool, inspired by the need to unify men by means of common symbolic patterns. This is why Sennett assumes that, before the French revolution, ‘National honour was to be found in artifice’. Wealth and splendor were the main features of monarchic power.
‘THE PEOPLE ARE SILENT’: NOTES ON THE SOCIOLOGY OF IDENTITY ‘This painting certainly makes a modernist promise: disturbance will infuse value into experience. But how could this promise of displacement be kept off the canvas of the streets?’17. At the beginning of The Foreigner, Sennett hints at the well-known painting in which Edouard Manet immortalises the barmaid of the Folies-Bergère. His aim is to catch a particular detail of the sparkling social life marking such a bubbly place: ‘It was comfortable and homey, a home away from, very far away from, the rigours of the family home’18.
By contrast, the ideology of the nation preached by Kossuth, Manzoni, Garibaldi, Mickiewicz and Louis Blanc – that the people should glory in their ordinary selves in their marketing, feasting, praying, harvesting – meant that honor was to be found in authenticity rather than in artifice15. Authenticity and sentiments are the founding marks of Romanticism, whose symbolic feature resides in the recovery of authentic feelings and gestures peculiar to medieval society. In this period Dante takes on the figure of a poetical myth and a civil icon, especially thanks to his experience of exile. Thus, when Manzoni decides to normalise the Italian language in accordance with clear communicative priorities, he resorts to the Florentine idiom, as Dante, Boccaccio and Petrarca had done before him. This happens because the unity of a people also depends on the availability of a unified language, especially in a land as fragmented as Italy was before 1860.
The mirror allows the spectator to observe what happens in front of the barmaid and behind the painter. Such a theatrical scene is pivoted on the contrast between the laughter of the customers enjoying themselves in the coffee-shop and the sadness in the barmaid’s eyes, represented by Manet with such poetic realism. On the one hand, Manet represents the spirit of (apparent) cohesion among men, on the other hand he draws the sense of displacement of human beings in an unfamiliar environment. In the background is the whirlwind life of the metropolis, described by Simmel19 through his aesthetic and sociological sensitivity. Displacement is one of the featuring aspects marking life in the metropolis:
The construction of the ‘new rhetoric of the People’ stems not only from the sacrifice of so many intellectuals, journalists and writers compelled to go into exile abroad. It was also influenced by the propagandistic action fueled by political conspirators, capable of implementing their democratic vision of a better world founded on a different conception of justice. Nevertheless, the struggle for independence
In painting the city, Manet is an artist of displacements. It is in his understanding of displacement that the artist speaks to us socially, today as in his own time; his art challenges certain assumptions we may make in describing people
Sennett 2011, 59-60. Macchia 1994; Spinazzola 1992; Randazzo 1961. 17 Sennett 2011, 54. 18 Sennett 2011, 50. 19 Simmel 1903. 15 16
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro The nationalism which began to find its voice in the Revolution of 1848 marks a distinct version of collective identity in our civilization: nationality becomes an anthropological phenomenon to which political activity is, at best, a servant; the nation becomes an ethos, the rule of nomos in Greek terms; that is, the sheer rule of custom; and it is almost a crime to interfere with the sacredness of custom through political decision-making of diplomatic negotiation24.
who are displaced economically or politically; the immigrant, the exile, the expatriate 20. Paris, the capital of the nineteenth century, provides the sociologist with a series of suggestions inspired by the phenomenon of urban convergence. The latter is fueled by exiles and political refugees. Immigrants, exiles and expatriates are three groups of complementary social actors, compelled to undergo the sense of displacement caused by departure from home. In this sense, the metaphor of the mirror means the awareness of loneliness and solitude marking the condition of exiles. Manet’s barmaid seems to confess to the audience her silent and respectable melancholy: ‘I look in a mirror and see someone who is not myself ’21.
Custom is the keyword of the national faiths begotten by the consequences of both the French and the American revolutions. Custom implies culture, religion, sentiment, behavior, rituals and traditions, interlaced by an unfathomable sense of belonging. Furthermore, myths and symbols contribute to the construction of a collective web linking together men who share the same expectations. The belief in a better future reinforces the sense of citizenship, pivoted on common rites and values. From this point of view, literary contributions appear fundamental as well as undeniable, to the extent that historical novels of the first half of the nineteenth century mark the recovery of ancient gestures, endowed with a high symbolic meaning25.
Nevertheless, the mirror distorts things and people, allowing the viewer to catch a different point of view of daily life. As Sennett carefully underlines, ‘Displacement creates value: reflexive value, that is a value given to the viewer as part of the thing seen’22. This is what happens to the Italian political émigrés gathered in Paris from 1840 on, joined in 1846 by a contingent of Greeks. Intellectuals and writers mingle with sailors and politicians in the struggle for the independence of their own countries. ‘We might think of this as a pre-modern world of foreigners’, supported by the cultural action fueled by universities, cultural centers, academies and public clubs. Furthermore, ‘the right to political asylum was first codified in its modern form’23 precisely in this historical phase.
According to Sennett, custom is the sheer advantage of nationalism engendered in Paris thanks to the convergence of writers and intellectuals forced to escape from their countries. Cultural issues loom over political affairs. The latter are no longer deemed as a priority compared to the need to unite a people through cultural values:
The pressure of public opinion would have made it easier to earn money and moved the French government to support the exiles’ efforts. Perhaps, for the first time in its secular history, Paris started not to hinder the persecuted foreigners. On the contrary, they were hosted with sympathy and curiosity, thanks to the spontaneity of their national involvement. The birth of modern nationalism marks the rough path leading to independence, despite the thousands of lives sacrificed in the name of cultural and civil freedom.
The doctrine of nationalism which crystallized in 1848 gives a geographic imperative to the concept of culture itself: habit, faith, pleasure, ritual – all depend upon enactment in a particular territory. More, the place which nourishes rituals is a place composed of people like oneself, people with whom one can share without explaining. Territory thus becomes synonymous with identity26. The analysis carried out by Bauman on the role of public opinion in modern times shows how relevant the construction of a firm social unconscious is to feed the sense of cultural sharing. It is necessary to build a nationalism capable of implementing rights and laws. In this sense, Romanticism claims the importance of interiority and feelings in the safeguard of collective identity, more and more enforced by the perception
After all, the Revolution of 1848 began in Paris and lasted four months. The repercussions invested Central Europe, and Italy too. In this sense, the national contradictions were destined to turn violent, in accordance with the patriotic instances of occupied territories. The rights of the poorest classes start to gain recognition by means of a new collective awareness, founded on the appreciation of ancestral values and symbols: Sennett 2011, 47-48. Sennett 2011, 52. 22 Sennett 2011, 53. 23 Sennett 2011, 55. 24 Sennett 2011, 56-57. 25 Bourdieu 1992; Adorno 1974; Auerbach 1953. 26 Sennett 2011, 58. 20 21
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of common needs. Therefore, Sennett emphasises the role of the ‘volk’ in the social imaginary of modern nationalisms in reference to the inequalities of the social world27. It was their trust in the myth of the ‘volk’ that stimulated other writers and intellectuals (as well as Byron and Pellico) to fight for their patriotic ideals28.
civil and political actor, but also a narrative subject, as Manzoni attests in The Betrothed. For the first time in a novel, the ‘volk’ poses as the real narrative actor, ruled by the unfathomable influence of providence and awareness of its own cultural identity. This is why Sennett presumes that the crowd of peasants dominating the narrative scenery of The Betrothed is useful to affirm the redemption of the poor and the losers in the presence of a transcendental force. This latter is destined to rule the course of history. Vico’s discourse on historical circumstances destined to fall into oblivion only to return allows Sennett to interpret Manzoni’s religiosity as a sort of Romantic sentimentalism. The aim is to celebrate the pure values of the people. Exiles, the defeated, the infirm, the unfortunate can hope to be redeemed through their cultural and sentimental sharing, sufficient to achieve the reign of the blessed.
The celebration of ‘the noble savage’ voiced by Rousseau long before the outbreak of the 1848 Revolution hints at the Romantic tendency to retrieve the ancestral values embodied in the spirit of the past. The lesson learned from history may help us understand the detrimental effects of passivity and obedience. Cohabitation with strangers increases the sense of multicultural citizenship that slowly takes root in the Age of Enlightenment thanks to a new faith in reason29. The lack of self-consciousness poses as a featuring virtue of the ‘volk’, celebrated by the Romantic writers in the light of its spontaneity. Hence the discovery of the social relevance of the masses, so effectively described by Manzoni in his novel. A people’s fury may break out when the abuse of power, mystifications and oppression overstep the mark. In the presence of an unbearable burden, sooner or later men revolt against power, so as not to succumb to interference. The struggle for life is nourished by faith in values and myths, inherited by the ‘Volk’ thanks to the old popular beliefs, as remarked by Lukács30. To the fore is the construction of modern identity through the exaltation of popular culture:
This is what Manzoni can teach Sennett, ever ready to underline the importance of the historical novel in the construction of a public opinion that is really sensitive to the life of the poorest. The diffusion of the historical novel confirms that ‘Of course no change in ideology occurs as a simple switch from one form of belief to another’34. In the same way, the acquisition of a new mindset, that of the hosting country, requires long practice and a particular readiness to include the foreigner in a different socio-cultural environment. The Austrian-Hungarian occupation of Italy shows the impossibility of being accepted in a foreign land, marked by a congeries of fragmented identities:
This anthropological image of a volk is an epochal event in modern social imagery and rhetoric. Nineteenth-century rationalism established what we might call the modern ground-rule for having an identity. You have the strongest identity when you aren’t aware you ʽhaveʼ it; you just are it. That is, you are most yourself when you are least aware of yourself31.
In Manzoni’s writings on the Italian peasantry, his rural countrymen sometimes appear as the real Italians because, removed from the cities which were the seats of Austro-Hungarian power, they have guarded the practices of an earlier, free Italy. In this they are like Rousseau’s noble savage – selfconscious guardians of what is in fact a superior culture. And then, sometimes Manzoni writes as Tolstoy will later write, the peasantry is morally superior because peasants have no awareness of themselves in time and history, and are free of the gnawing poison of too much thought, of thinking beyond the confines of life as it is given. The peasant does not look in the mirror of history; he simply is. The People are silent35.
Sennett quotes both Rousseau and Kant in order to convey how strong multiculturalism is at the dawn of modernity32. Additionally, he cites Isaiah Berlin’s essay Vico and Herder, ‘those two eighteenth-century forerunners of nineteenth-century nationalism’33. The acknowledgment of human differences grows stronger in the Age of Enlightenment, so as to fuel the concept of a nation based on assorted anthropological features. Hence the chance to turn the people not only into a
According to Sennett, the peasants have a precise
Sennett 2003. Langella 2005. 29 Adorno and Horkheimer 1944. 30 O’Brien 1969. 31 Sennett 2011, 61. 32 Latour 2009; Maffesoli 2003. 33 Sennett 2011, 64. 34 Sennett 2011, 63. 35 Sennett 2011, 63. 27 28
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro are constructed upon the basis of an unfathomable sense of belonging: ‘The nation also, simply, is’38.
sociological feature, founded on the condemnation of poverty and expiation. Both Manzoni and Tolstoy innovate the literary scene in the light of a new way to narrate human events, filtered through the lens of charity and pity. In particular, Manzoni provides the poor and the peasants with the chance to redeem their unfortunate condition.
MANZONI AND THE ‘REVENGE OF THE PEOPLE’: SOCIOLOGICAL NOTES As underlined by Sennett, Manzoni’s writings can be interpreted as an outstanding narrative laboratory, inspired by the will to exalt the popular spirit of selfsacrifice39. The transformation of the latter into an active narrative actor marks Manzoni’s artistic commitment, fueled by Christian trust in eternal salvation. This is why Mario Morcellini defines Manzoni’s novel ‘a breviary of modernity’. For the first time on the literary scenario, ‘a population gains an active narrative role, by refusing of any additional element or episodic factor of narration. With Manzoni the population no longer represents the human substrate upon which the writer makes his fortunate, wealthy characters dwell’40. The originality of Manzoni’s choice had already been reaffirmed by Antonio Gramsci as well, who presumed that the poorest was the real narrative actor featured in the novel41.
To the fore is the specter of displacement and privation peculiar to the lower classes, especially when men have to abandon their own countries to find fortune elsewhere. In this sense, the lack of an historical identity allows the People to be silent and morally strong, as Manzoni demonstrates not only in the novel, but also in his dramas and essays. After all, the inability to investigate history means the peasants do not have to elaborate fake superstructures that risk depriving them of their essential moral identity. Both The Betrothed and War and Peace are two outstanding historical narrations, inspired by the liberation of poor people from oppression. When Sennett points out that ‘People are silent’, he intends to remark that the people have no voice until someone succeeds in restoring their pride in their own existence.
The redemption of the oppressed also depends on the acknowledgment of public opinion in reference to the survival of the lower classes, exalted by Romantics in compliance with their authentic values and rituals. Their epic is a real cultural catharsis, fueled by the need to unify men by sharing common myths. Hence the interlacing of Rousseau’s myth of ‘the noble savage’ with Vico’s metaphor of historical recourses, both destined to be renewed by the Romantic concept of the state of nature. Of course, novelists’ interest in the phenomenology of crowds foreshadows the birth of the sociology of masses at the end of the nineteenth century. Gustav Le Bon, Gabriel Tarde, and Scipio Sighele are the forerunners of the study of masses42. The titles of their main works seem to allude to ‘an antagonism of meanings: mass as a group against the élite; crowd as an unshaped and irrational aggregate’43.
Hence the legendary role of national heroes. They had the merit of claiming the importance of the people in the affirmation of human rights, including freedom and independence. The contribution of writers and intellectuals also attests the overwhelming attraction of patriotism in a historical phase marked by unification processes. Censorship could be bypassed by alluding to present times through the mirror of history. In other words, Manzoni defines the historical setting of his novel so as to conceal current events behind the mask of the Baroque age. In that period Spanish occupation rules Italy’s events. The narrative web binding together events and characters aims to exalt the lack of historical inheritance of peasants, driven to protest only when hunger and oppression become unbearable36. For these reasons Sennett deems Manzoni to be one of the founders of the rhetoric of nationalism, founded on popular rituals and mores: ‘In the rhetoric of nationalism which took form in the nineteenth century, the spontaneity and lack of cosmopolitan self-consciousness of the people was linked in turn to a conception of national time’37.Time and space mark the real essence of the poorest, as well as of exiles and refugees. In the background is the mirage of nation, conceived as a wholly cultural and civil destiny. Nations
Long before the publication of their volumes, Manzoni provides a reliable representation of mass movements, inspired by the will to denounce not only the frequently criminal nature of its action, but also to legitimate the need to protest against the abuses of power begetting suffering and desperation. For the first time in literature, the people have real self-awareness of their social function. This factor cannot be underestimated by rulers and governors. The consequences of famine in
Langella 2005. Sennett 2011, 63. 38 Sennett 2011, 63. 39 Nigro 1996. 40 Morcellini 2016, 17. 41 Gramsci 1948. 42 Moscovici 1985; Nye 1974. 43 Morcellini 2016, 19-20. 36 37
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the summer of 1628 in Milan inspire some of the most fascinating narrations in European literature. To the fore is the contrast between the Spanish rulers and the Italian people, who assault the bakeries, ill-supplied because of the scant harvest:
engagement, influenced by the will to celebrate popular modernity: ‘Manzoni knows well that there is a moment in history in which collective emancipation needs a narration’49. Emancipation of the people deserves to rise to a narrative topic, so as to be implemented by mainstream media. Hence, the cinematic and television adaptations of some of the greatest novels of the nineteenth century.
‘We are Christians also,’ said one; ‘and have a right to eat bread as well as other people’: so saying, he took a loaf and bit it; the rest followed his example; and it is unnecessary to add, that in a few moments the contents of the basket had disappeared. Those who had not been able to secure any for themselves were irritated at the sight of their neighbours’ gains, and animated by the facility of the enterprise, went in search of other boys with baskets; as many, therefore, as they met were stopped and plundered44.
The Betrothed makes no exception, thanks to the ethic and moral education of the author. The world of humble people reveals such significant sociological insights, well emphasised by Manzoni in chapter XII of his novel: ‘In popular tumults there are always some who, from heated passion, or fanaticism, or wicked design, do what they can to push things to the worst; proposing and promoting the most barbarous counsels, and assisting to stir the fire whenever it appears to slacken’50. The eternal force of evil becomes stronger and stronger when individual guilt is concealed by the confusion stemming from collective actions (Bauman 2001). In this way men can hide themselves, thanks to the confusion made by the unruly crowd:
Possibly, the realism (also interpreted as a kind of antirealism)45 of Manzoni’s description lays the foundations of the forthcoming studies upon masses. Fundamentally, the representation of the crowd as an uncontrolled collective movement, ruled by the same instinct that pushes animals to hunt their prey, may evoke the metaphor of the pack exploited by Canetti in his Crowds and Power (1960). The pack is an ‘older unit’ in which crowds are still one: ‘It consists of a group of men in a state of excitement whose fiercest wish is to be more. In whatever they undertake together, whether hunting or fighting, they would fare better if there were more of them’46.
But, on the other hand, there are always those who, perhaps with equal ardour, and equal perseverance, employ their efforts for the production of contrary effects; some led by friendship or partiality for the persons in danger, others without other impulse than that of horror of bloodshed and atrocity51. The Manichean nature of crowds is clearly focused on by Manzoni in accordance with the vision of a contradictory world, bolstered by the struggle for supremacy and survival. The invasion of Spanish troops and the peasants and poor people taking to the streets show the consequences of displacement involving migrating masses. It is not by chance that in the Observations upon the Catholic Morality Manzoni deals with the ‘oscillations of collective movements, confirming the interest for the cultural role of the people in the shifting scenario of history’52.
After all, in reference to the masses, Benjamin used to remark that ‘the era of the migration of peoples, an era which saw the rise of the late-Roman art industry and the Vienna Genesis, developed not only an art different from that of antiquity but also a different perception’47. The assault on the bakeries, narrated by Manzoni in chapter XII of the novel, provides a realistic representation of the instinctual force gathering men together. Their purpose is to achieve what cannot be deniable. Bread is the symbol of life, engendered by the encounter between nature and men. The different units forming masses mingle and blend in accordance with a primeval instinct, comparable to the feral force guiding animals in hunting their prey. Manzoni aims to demonstrate that the people are inspired by both bad and good intentions, as Eco48 tries to pinpoint in his semiotic analysis of the novel.
The concealed action fueled by providence allows the writer to observe and explain why people tend to revolt. This happens when the boundary between life and death risks becoming thinner and thinner. The sharing of values and rituals lays the foundations of modern nationalisms, as Sennett punctually points out
This is one of the most innovative elements of his literary Manzoni 1834, 144. Oliva 2007. 46 Canetti 1960, 93. 47 Benjamin 1936, 23. 48 Eco2007. 49 Morcellini 2016, 21. 50 Manzoni 1834, 153. 51 Manzoni 1834, 153. 52 Morcellini 2016, 26. 44 45
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro most humble people, ‘the novel has foreshadowed and transmitted a surprisingly modern idea of Italian identity, so complex as to be shaped in the historical phase during which it was written’56. The interpretation of The Betrothed as ‘a meeting of united Italy’ helps the contemporary reader understand the prophetic role of Manzoni’s writings (both prose and poetry) in building the modern Italian identity.
by highlighting the role of independence heroes such as Garibaldi and Kossuth. The construction of modern identity would not have been possible without the narration of social and civil expectations of the people. In the meantime, the struggle for freedom may entail abandoning one’s homeland and exile. The cultural alienation produced by migrations and colonialisms can be foreshadowed by the sense of displacement caused by the political banishments of the 1848 Revolution. The inclusion of exiles, as well as the integration of different people, is one of the main teachings of Manzoni’s writings, which help us analyse the birth of national countries through the balance of cultural and anthropological differences.
Some of his characters embody the essence of Italian behavioral paradigms probed by the writer57, to the extent that he is inspired by Shakespeare’s dramaturgical mindset58. This is paramount to Sennett, especially when he focuses on the conditions of foreigners during the 1848 revolt. In the background is the construction of a uniformed people, founded on the sharing of language, values, symbols, religion. In this sense, ‘the rhetoric of nationalism took a people’s rituals, beliefs and mores to represent forms of being rather than doing, to make Heidegger’s distinction’59.
In this sense, Sennett is right when he argues that ‘this universal citizen seeks the stimulation of foreign scenes, and learns what is common, universal, in all of them’53. Great writers have the merit of representing the human tendency to gather in a collective totality, enforced by the will to pursue individual happiness. Chapter XII of The Betrothed shows the power of masses when urged forward by the need for survival. And the contraposition between good and bad actors is one of the marking features of the sociology of masses at the end of the twentieth century, as seen in the works by Canetti and Riesman54.
The reference to the German philosopher attests the force achieved by the rhetoric of nationalism in the twentieth century, marked by the advent of totalitarianisms, post-colonialisms and new flows of migrations60. Post-modernity emphasises the ever-changing spirit of adjustment of the poorest, usually condemned to displacement in order to find a better way to live. This is one of Manzoni’s civil and sociological insights, exploited by Sennett to explain the contemporary condition of displaced people.
From this point of view, Manzoni furnishes the modern representations of the new social actor engendered by the advent of nationalisms and industrial revolutions. The power of the fittest is bound to be overwhelmed by faith, not only in God, but also in brotherhood and diversity:
CONCLUSION. PLACE MODERN TIMES
AND
DISPLACE
IN
The two essays collected in The Foreigner provide a sociohistorical interpretation of outcast people, examined according to two different points of view: one offered by the Jewish community in Renaissance Venice, the second illustrated by the exiles and refugees gathered in Paris, ‘capital of the nineteenth century’.
The mass, then, is ever composed of a mixed assemblage, who, by indefinite gradations, hold to one or the other extreme; prompt to rage or compassion, to adoration or execration, according as the occasion presents itself for the development of either of these sentiments: life and death are the words involuntarily uttered, and with equal facility; and he succeeds in persuading them that such an one does not deserve to be quartered, has but little more to do, to convince them that he ought to be carried in triumph55.
In particular, the image of the Russian exile Alexander Herzen evokes the construction of modern nationalisms before the achievement of national independencies, fueled by the sharing of popular values. Manzoni and Tolstoy innovated the literary strategy by narrating the course of history in accordance with the hopes and expectations of humble people, including peasants and farm workers. This is the moment when the discourse
In the light of its sociological substrate, founded on particular attention for the destiny of the poorest and Sennett 2011, 62-63. Canetti and Riesman 1950. 55 Manzoni 1834, 153. 56 Morcellini 2016, 22. 57 Lombardinilo 2014. 58 Bloom 2011, 46-47. 59 Sennett 2011, 63. 60 Brunetti and Derobertis 2014; Habermas 2004; Loomba 1998. 53 54
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on the future of a people takes form and substance, destined to build the ‘new rhetoric of the people’ begotten in the twentieth century.
outcasts in the unfathomable course of human events. Every people needs an audience to be socially active, regardless of any geographical or historical contexts: ‘Place and displace; the virtue of being yourself in place, and the vice of looking at yourself somewhere else’65.
When Sennett dwells on Manzoni’s poetic conception, he reminds us that the ‘peasant does not look in the mirror of history; he simply is. The People are silent’. This is the moment when popular imagery starts to branch out from the celebration of the anthropological and popular imaginary61. The dialectics between residues and derivations developed by Pareto might be applied to the analysis of popular movements as well, by highlighting the relevance of residues in the construction of social environments. In his two surveys on the condition of exiles, Sennett aims to demonstrate that national identities cannot exist without significant narrative processes, inspired by the need to assess rituals and values of peoples’ communities. National heroes are important as well as writers and poets, inspired by the craving to tell of human events, both collective and individual.
The metaphor of displacement developed by Sennett (also) thanks to Manzoni’s teaching is functional to explain the social complexity of our times, marked by the unending phenomena of colonialisms and migrations66, framed in the era marked by the end of great narrations67.
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From Vico to Heidegger, without forgetting Herder, Rousseau, Kant, Tolstoy, Delacroix and Manet, Sennett underlines the anthropological image of the ‘volk’ offered by the Romantic writers and in particular by Manzoni. This ‘is an epochal event in modern social imagery and rhetoric’. His statement is highly significant from a sociological perspective, since it helps us realise the ‘metamorphosis of post-colonialism’ fostered by the civil and cultural frameworks of contemporary migrations62.
Baudrillard, J. 1974. La Société de Consommation. Ses Mythes Ses Structures (Paris). Bauman, Z. 2005. Liquid life: Living in an Age of Uncertainty (Cambridge). Bauman, Z. 2001. The Individualized Society (Cambridge, UK). Beck, U. 2016. The Metamorphosis of the World (Cambridge and Malden).
In the background is the evolution of globalisation and consumerism, framed into the macro-context of communicative innovations63. This is why every collective emancipation requires a narration. ‘This principle was re-discovered in the story of media: when subjects grow older, they claim to have access to public visibility and they want a symbolic acknowledgment of their own features’64. As a matter of fact, the myth of crowds depends on their public representations which media may exploit in the light of their iconic features.
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When the 1848 Revolution breaks out, Manzoni’s novel is already an editorial success, to be enhanced by the second edition published in 1840. His main legacy resides in the celebration of the people. This is why ‘the people should glory’ in their common activities and existences. This aspect is emphasised by Sennett in his sociological endeavor to unveil the difficulties of foreigners and
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Cinzia Cavallari
Corfinio (AQ): una sfida per il futuro Abstract: Protection and enhancement of Corfinio (AQ) represents an extraordinary challenge, in consideration of the enormous potential of this site, rich not only in archaeological and cultural heritage but also of strong identity values. For encouraging the use of Corfinio’s assets it is necessary to document, enhance and disseminate the archaeological heritage acquired thanks to past research and recent stratigraphic investigations. This result will be achieved especially if it is integrated with other cultural initiatives in this territory, with respect to which common planning is fundamental. Like this it will be possible to integrate the cultural poles to the community to which they belong, bringing them closer to a vast heterogeneous level of audience. Sara Santoro’s professionalism, relational skills and humanity have created a “School” able to spread its method, contributing in a way significant to the enhancement of the Archaeological Heritage in Abruzzo.
all’interno di un parco archeologico integrato da un complesso di strutture culturali1.
Tutelare e valorizzare Corfinio rappresenta una sfida straordinaria, in considerazione dell’enorme potenzialità di questo sito, ricco non solo di beni archeologici e culturali (figg. 1-2) ma anche di forti valori identitari.
Oggi è possibile fare un bilancio degli obiettivi raggiunti (Museo Civico Archeologico “Antonio de Nino” e parco archeologico “Don Nicola Colella”, articolato nei tre siti di Piano S. Giacomo, Fonte S. Ippolito e Tempio italico), esporre gli ultimi risultati della ricerca scientifica e rilanciare un piano condiviso tramite rinnovate creatività progettuali e capacità operative.
Le indagini a Corfinio (AQ) furono avviate nell’Ottocento da Antonio De Nino (1833-1907), considerato tra i padri dell’archeologia, delle ricerche storiche e demo-etno-antropologiche in Abruzzo, insostituibile fonte documentaria per l’amico Gabriele D’Annunzio; allo studioso, consapevole dell’importanza delle istituzioni museali, custodi della memoria storica di un territorio, si deve l’apertura, nel complesso di San Pelino, del primo nucleo espositivo dei reperti di Corfinio.
Dopo una fase dedicata a interventi di tutela e di valorizzazione delle aree archeologiche di Piano S. Giacomo2 e di Fonte S. Ippolito3, a partire dal 2013 le indagini archeologiche sono state riprese mediante progetti di ricerca della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo, poi Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo con esclusione della città dell’Aquila e dei Comuni del Cratere (sede di Chieti), affidati in concessione all’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara (responsabile scientifico Maria Carla Somma).
Negli anni Trenta del Novecento gli scavi proseguirono sotto la guida del Reverendo Nicola Colella, il quale approfondì lo studio sulla topografia dell’antica Corfinium. Nei decenni successivi le indagini e le attività di tutela sono proseguite sotto la direzione scientifica della Soprintendenza. Tra il 1988 e il 1994 Corfinio è stata oggetto di una serie coordinata e programmata di ricerche e di scavi archeologici riconducibili all’impegno comune della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo (direzione scientifica di Adele Campanelli), dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro (Giovanna De Palma e Maria Concetta Laurenti), della Regione Abruzzo, della Comunità montana Peligna, del Comune di Corfinio, dell’Università “La Sapienza” di Roma, dell’Università di Catania (Edoardo Tortorici) e dell’Università degli Studi di Chieti (responsabile scientifico per l’età medievale Anna Maria Giuntella). Il progetto, complesso e articolato, si proponeva di realizzare itinerari turistici
Grazie a una proficua sinergia tra gli enti coinvolti è stato possibile avviare esplorazioni in diversi settori, caratterizzati da emergenze di età tardoantica e medievale (complesso della cattedrale di San Pelino e Fonte S. Ippolito). Per l’età classica Maria Carla Somma ha coinvolto la collega Sara Santoro, dimostrando lungimiranza e generosità nella condivisione di una progettualità complessa e ricca di prospettive future (area del campus/ S. Maria delle Grazie). I risultati delle indagini sono in corso di studio e sono stati preliminarmente presentati in occasione di iniziative e di convegni4; tali ricerche, infatti, unitamente agli
Brunetti 2007. Cardellicchio, Cavallari, Ceccaroni 2016 (anni 2011-2013, Responsabile Unico del Procedimento Ada Cardellicchio, Funzionario Archeologo Emanuela Ceccaroni). 3 Tulipani 2014 (anno 2011, direzione scientifica di Emanuela Ceccaroni). 4 Antonelli 2015; Antonelli, Somma 2015; Cavallari 2015; La Salvia, Antonelli 2015; La Salvia, Mancini 2015; La Salvia, Moderato, Pompilio 2015; La Salvia, Somma 2015; Moderato, Tornese 2015; Somma 2015; Somma, Antonelli 2015; Somma, Antonelli, Casolino 2015; interventi di Sara 1 2
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro inventariazione, catalogazione, conservazione, restauro, comunicazione, immagazzinamento, esposizione, ecc. Occorre pianificare la gestione dei monumenti, delle emergenze e dei musei in maniera complessiva, tenendo conto non solo del fatto che i beni culturali devono essere tutelati ma anche dell’eventualità che il deterioramento delle condizioni di un sito possa rendere meno piacevole la visita ai turisti (fig. 7): perciò la politica di accoglienza deve essere perfettamente coordinata con le altre attività di gestione, come le indagini e la conservazione.
interventi di tutela (apposizione di vincoli, restauri e piani di manutenzione) sono state comunicate al vasto pubblico durante le aperture straordinarie di tutte le aree archeologiche (San Pelino, Piano S. Giacomo, S. Ippolito, Tempio italico e campus) in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio (29-30 settembre 20125, 28 settembre 2013 e 20 settembre 2014, figg. 3-4), di giornate di studio e approfondimento organizzate a Corfinio il 27 ottobre 2012, il 21 settembre 2013 e il 15 novembre 2014 (figg. 5-6) e in eventi analoghi. La Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo, grazie alla fattiva collaborazione con la Diocesi di Sulmona-Valva (Vescovo Angelo Spina), con l’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di ChietiPescara (responsabili scientifici Maria Carla Somma e Sara Santoro), con il Comune di Corfinio (Sindaco Massimo Colangelo), con il Museo Civico Archeologico “Antonio De Nino”, con l’Archeoclub d’Italia-sede di Sulmona (Presidente Alessandro Bencivenga), con l’Associazione Cuore dei Confini (Presidente Tiziana Taucci), con altri alleati istituzionali e con forme di “cittadinanza attiva” intende così valorizzare l’enorme potenzialità di questo sito, portatore di forti valori identitari.
Gli elementi che determinano l’importanza di una scoperta archeologica possono apparire ovvi ma oggi acquista enorme importanza il contributo offerto da altre parti in causa (i residenti, i commercianti, le fabbriche, le fondazioni bancarie del luogo, le associazioni, gli enti di ricerca e gli istituti scolastici) coinvolti nella tutela e nella valorizzazione di un sito. La gestione nel suo complesso dovrà conservare e valorizzare nel miglior modo possibile gli elementi che definiscono l’importanza culturale del genius loci, tenendo conto delle condizioni specifiche e del sistema amministrativo di appartenenza. Per risultare efficace la pianificazione deve essere flessibile, mediante un modello ciclico e reiterabile. Il patrimonio archeologico, infatti, è fragile e non rinnovabile ed è soggetto a numerosi rischi già prima di essere individuato, durante la scoperta e fino al momento della presentazione al pubblico.
Infatti, l’antica Corfinium, importante centro in età protostorica, fu alleata di Roma fino al I sec. a.C. Durante la Guerra Sociale (91-88 a. C.) questo sito peligno fu scelto come capitale della Lega Italica, l’alleanza tra tutti i popoli già socii dei Romani, che rivendicavano da Roma il riconoscimento dei diritti di cittadinanza. Proprio nella metropoli dei Peligni fu pronunciato per la prima volta il nome ITALIA a identificare la nazione nel suo complesso, e qui fu coniata la prima moneta in argento recante questa iscrizione.
La comunicazione di queste attività, purtroppo, dipende spesso dai fattori di vulnerabilità dei beni stessi. Infatti, il timore di rendere pubblico il lavoro di ricerca, soprattutto nella fase di scavo, spesso ha bloccato il processo di comunicazione, impedendo la partecipazione attiva di vari attori, fondamentali per la gestione condivisa e coordinata dei beni culturali.
In presenza di notevoli difficoltà, imputabili prevalentemente alle scarse risorse da spendere in una zona caratterizzata da varie evidenze diffuse e potenzialmente fruibili, si è rivelata vincente una strategia comune, volta all’attivazione di sinergie tra enti con compiti istituzionali diversi: Soprintendenza, Università, Amministrazioni locali, comunità scientifica, professionisti e cittadini.
Il “reclutamento” dei cittadini appare una risorsa indispensabile per alcuni aspetti della tutela e della valorizzazione; il processo non sarà immediato ma è possibile ipotizzare una serie di progetti e di iniziative da realizzare con un cronoprogramma non troppo rigido. Solo in questo modo sarà possibile trasmettere la consapevolezza della necessità di proteggere il nostro patrimonio culturale e paesaggistico. L’interesse e la passione civica costituiscono l’elemento risolutore per la valorizzazione di aree di complessa gestione e di manutenzione incessante.
Nella maggior parte dei Paesi in cui il sottosuolo archeologico appartiene per legge allo Stato, la responsabilità della gestione e la tutela dei siti e dei monumenti viene assunta dagli enti governativi nazionali o locali, con collaborazioni esterne, sempre più frequenti. Contrariamente a quanto si ritiene comunemente, gestire aree e musei archeologici implica numerose attività e non solo la presenza di visitatori: scavi,
Santoro, Marco Moderato, “Corfinio romana: ricerche nel campus-S. Maria delle Grazie” e di Maria Carla Somma, “Da Corfinio a Pentima” nell’ambito del Convegno internazionale di studi a dieci anni dalla scomparsa di Anna Maria Giuntella “Ancient Modern Towns - I centri urbani a continuità di vita: archeologia e valorizzazione (Chieti-Corfinio, 30 settembre-2 ottobre 2015). 5 Cavallari 2016.
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C. Cavallari
Corfinio (AQ): una sfida per il futuro
Valorizzare, per il legislatore italiano, significa promuovere la conoscenza attraverso forme di uso in grado di tutelare l’integrità dei beni. Tale processo può essere inteso come promozione di relazioni, tra il bene oggetto di valorizzazione e i cittadini, al fine di stimolare la nascita di un interesse da parte di un soggetto produttivo nei confronti del bene stesso: questo interesse si sintetizza in chiave economica nella disponibilità a pagare per usufruirne o soltanto per avere la sicurezza di mantenerne l’esistenza.
efficaci per la diversificazione dei messaggi veicolati verso pubblici differenziati per età e per interessi. La proposta culturale di Corfinio è straordinaria: una domus (recentemente interpretata come edificio a destinazione pubblica) di età romana caratterizzata da pavimenti musivi di notevole qualità6, due aree sacre (un edificio di culto italico di III sec. a.C. dedicato a Ercole in loc. Fonte S. Ippolito, dove sono riconoscibili tracce di continuità devozionale cristiana, coerentemente con la dedica al martire Ippolito7 e un tempio di età romana ubicato nel centro urbano), la cattedrale romanica8, il centro storico in cui sono evidenti i segni del glorioso passato di età romana (teatro ed edifici pubblici inglobati nelle strutture medievali e moderne) e la periferia, caratterizzata dalla presenza di imponenti sepolcri e di monumenti funerari.
Nella ricerca e promozione di relazioni è opportuno considerare due tipi di contesto, quello territoriale e quello tematico. Le relazioni, infatti, avvengono sul territorio, con un’intensità in genere inversamente proporzionale alla distanza, per cui, a mano a mano che ci si allontana dal bene culturale, anche l’interesse dei cittadini diminuisce.
Gestire tali aree comporta numerosi interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, necessari non solo per la conservazione delle emergenze ma anche per la valorizzazione e per la proposta turistica; anche in questo caso la conclusione è che la cura quotidiana dei beni può essere garantita solo grazie alla collaborazione dei cittadini e al coinvolgimento delle associazioni locali.
Nel bilancio tra costi e opportunità, tuttavia, emerge spesso un eccessivo onere della manutenzione e della conservazione a fronte di un limitato interesse da parte della comunità di cittadini a tutelare e fruire del bene. Il problema di chi si occupa di valorizzazione del patrimonio culturale non si conclude quindi con la riflessione sui possibili usi ai quali sottoporre il bene ma comporta la ricerca di soggetti interessati a stabilire una relazione con il bene, sia per quanto riguarda la cura e la tutela, sia per quanto riguarda la fruizione.
La crescente importanza di condividere informazioni e conoscenza, l’approccio ai contenuti generati dagli utenti, rappresenta senza dubbio una grande opportunità, e, nello stesso tempo una sfida per un processo di rinnovamento che riguarda non solo la promozione e la comunicazione ma l’intera organizzazione delle aree archeologiche e dei musei che vogliano essere realmente partecipativi, attivando un dialogo tra la comunità scientifica, i professionisti e un pubblico sempre più vasto.
A Corfinio, dopo circa 20 anni di sospensione di indagini archeologiche programmate, dal 2013 sono state riprese le ricerche. L’Università di Chieti (Dipartimento di Scienze Psicologiche, Umanistiche e del Territorio, Facoltà di Scienze dei Beni Culturali), ha ottenuto in concessione lo scavo di settori molto significativi (Cattedrale di S. Pelino, Fonte S. Ippolito e area del campus/ S. Maria delle Grazie) di questo antico centro, in cui è possibile cogliere il cambiamento dall’età classica all’età moderna. Con le indagini in corso, sono state organizzate visite guidate, durante le quali i visitatori sono stati condotti alla scoperta del “dietro le quinte”. In tali occasioni è stato possibile accedere gratuitamente - con la guida di archeologi professionisti e con la collaborazione di vari enti (Università, Soprintendenza e associazioni locali) a luoghi di straordinaria importanza (figg. 3-4), solitamente chiusi per mancanza di personale dedicato. L’esperienza, decisamente positiva, incoraggia a proseguire nella strada della sinergia e a rilanciare l’offerta mediante progetti di apertura regolare al pubblico. Tali operazioni e, in particolare, i comunicati stampa e le interviste sulle Reti nazionale (RAI 3) e sulle emittenti locali (Onda TV di Sulmona, filmati su YouTube) si sono rivelati particolarmente
La Soprintendenza deve perseguire una forma di comunicazione capace di farsi strategia, in grado di collaborare al raggiungimento degli obiettivi riconoscendo il cittadino e le imprese come interlocutori e l’efficacia e la qualità dei servizi come traguardo. Questa forma di comunicazione deve prendere le mosse dall’esempio concreto dell’Amministrazione, deve rinunciare a essere convincente per diventare credibile; nella prassi devono emergere atti concreti e non solo esercizi teorici, finalizzati a creare maggiore consapevolezza per tutti i soggetti coinvolti. In tale comunicazione parlare e ascoltare assumono lo stesso valore, nell’ambito di una disciplina non autoreferenziale e di un esercizio consapevole: il fine sarà quello di fornire non una pubblicità democratica dei servizi ma una concreta opportunità di dialogare alla pari con tutti e di produrre conoscenza. Sicuramente si tratta di una comunicazione “scomoda”
Valenti 2012; Agostini, Rossi 2016, 87-90. Campanelli, Orfanelli, Riccitelli 1997; Campanelli 2008; Biella 2012; Tulipani 2014; Somma, Antonelli 2015; Somma, Antonelli, Casolino 2015. 8 Somma, Antonelli 2015. 6 7
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro perché toglie a tutti, cittadini compresi, alibi e giustificazioni di ogni genere; inoltre, per essere efficace e avere valore ufficiale, essa deve necessariamente entrare in sintonia con gli elementi decisivi del cambiamento. Nel caso di Corfinio si tratta di stabilire rapporti diretti tra comunicazione e tecnologie, tra comunicazione e formazione, tra comunicazione e partecipazione. Sono questi i motori il cui funzionamento garantisce un rinnovato sistema pubblico che dovrà saper esprimere e favorire un insieme di opportunità per tutti e non mantenere piccoli privilegi per pochi. In conclusione, dovremo essere in grado di raccontare il nostro Paese a noi stessi e al mondo attraverso strumenti chiari, accattivanti e, possibilmente, multimediali. Dobbiamo imparare a metterci nei panni del pubblico, sempre più distratto da molteplici offerte e con poco tempo libero a disposizione: da ciò deriva l’importanza di proposte in cui cultura e divertimento siano strettamente interrelati, in cui sia possibile innescare una “gara civica” (in cui Stato e privati possano, debbano collaborare) con aperture all’Università, alla società civile e alle libere associazioni.
della mia nomina a Funzionario Archeologo presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo. Nel corso degli ultimi trent’anni ho potuto constatare che la sua professionalità, le sue capacità relazionali e la sua umanità hanno creato una “Scuola” in grado di diffondere e di valorizzare il suo metodo.
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L’esperienza avviata da Maria Carla Somma insieme a Sara Santoro ha costituito un arricchimento non solo scientifico ma anche umano, che non sfuggirà ai potenziali turisti.
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Per favorire la fruizione del patrimonio di Corfinio occorre documentare, valorizzare e divulgare - in maniera accattivante e facilmente comprensibile - il patrimonio archeologico acquisito grazie alle ricerche del passato e alle recenti indagini stratigrafiche. In questo modo sarà possibile integrare i poli culturali nella comunità di appartenenza, avvicinandoli a vasti ed eterogenei livelli di pubblico, concorrendo così a migliorare il ruolo educativo dei siti e dei musei archeologici. Questo risultato sarà tanto più facilmente raggiunto quanto più esso si integrerà con le altre iniziative culturali del territorio, rispetto al quale è determinante una programmazione comune.
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Nel caso di Corfinio si tratta di stabilire rapporti sinergici tra comunicazione e semplificazione e di evidenziare l’origine antica di ogni vera comunicazione, ossia il suo essere componente insostituibile di reali e forti processi relazionali.
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APPENDICE Ho conosciuto Sara Santoro nel 1984, quando lei era Ricercatrice presso l’Università degli Studi Bologna e io, studentessa del corso di Archeologia e storia dell’arte romana (Docente Prof.ssa Daniela Scagliarini), ho avuto il privilegio di poter frequentare un suo seminario. In seguito ho avuto l’opportunità di incrociare nuovamente il suo cammino nel triennio 2012-2015, in occasione
Cavallari, C. 2016. “Aperture e visite guidate a Corfinio in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio, Quaderni di Archeologia d’Abruzzo, 4/2012, 270.
440
C. Cavallari
Corfinio (AQ): una sfida per il futuro
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 1. Cartografia della regione Abruzzo con posizionamento di Corfinio (elaborazione di Marina Pietrangeli, Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo-Chieti).
Fig. 2. Cartografia di Corfinio (viabilità e siti archeologici).
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C. Cavallari
Corfinio (AQ): una sfida per il futuro
Fig. 3. Programma delle aperture del 28 settembre 2013 a Corfinio in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio (GEP) (elaborazione di Marina Pietrangeli, SABAP dell’Abruzzo-Chieti).
GIORNATE EUROPEE DEL PATRIMONIO MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELL'ABRUZZO
DIOCESI DI SULMONA - VALVA COMUNE DI CORFINIO UNIVERSITÀ degli STUDI “G. D’ANNUNZIO” di Chieti-Pescara - DiSPUTer MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO ANTONIO DE NINO ARCHEOCLUB D’ITALIA - SEDE DI SULMONA ASSOCIAZIONE CUORE DEI CONFINI
i
20 settembre 2014 SOPRINTENDENZA per i BENI ARCHEOLOGICI dell'ABRUZZO
TESORI CORFINIUM di
CORFINIO (AQ) - 20 settembre 2014 apertura straordinaria e visite guidate gratuite alle aree archeologiche e al Museo Civico Antonio De Nino Nell'arco della giornata sarà possibile visitare, in via del tutto eccezionale, l’intero parco archeologico, la Cattedrale e il Museo dell’antica Corfinio secondo la seguente programmazione:
Area archeologica di Piano San Giacomo via Popedio - ore 10.00-12.00; 15.00-18.00
Tempio Italico
S.P. Corfiniense - ore 10.00-12.00; 15.00-18.00
Area archeologica di Fonte Sant’Ippolito grafica di Marina Pietrangeli - SBAA
ritrovo in piazza Corfinio ore 15.30
Cattedrale e area archeologica di San Pelino in corso di scavo (UdA - DiSPUTer) via Italica - ore 10.00-17.00
Museo Civico Archeologico Antonio De Nino via del Liceo, 2 - ore 10.00-12.00; 16.00-19.00
invito
In caso di maltempo non è garantita la visita al Tempio Italico e a Fonte Sant’Ippolito
info: CUORE DEI CONFINI tel.3809023742 - calendario delle iniziative www.archeoabruzzo.beniculturali.it/
Fig. 4. Programma delle aperture del 20 settembre 2014 a Corfinio in occasione delle GEP (elaborazione di Marina Pietrangeli, SABAP dell’Abruzzo-Chieti).
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
CORFINIO 2.0 UNA NUOVA STAGIONE DI RICERCHE E SINERGIE
GIORNATA DI STUDI CORFINIO (AQ) - 15 novembre 2014
Sala Conferenze Banca di Credito Cooperativo, S.S. 5 Tiburtina Valeria ore 10.00 SALUTO DELLE AUTORITÀ ore 10.20-13.00 La Diocesi di Sulmona-Valva nel tempo
Mons. A. Spina, Vescovo della Diocesi di Sulmona-Valva
Presentazione del progetto “Archeologia a Corfinio” M. C. Somma - UdA, C. Cavallari - SBAA
Tutela, valorizzazione e fruizione Il Regime vincolistico dei beni immobili - V. Scarci - SBAA Programmazione urbanistica e beni archeologici S. Berardi
Un decennio di didattica museale a Corfinio
L. Brunetti - Museo Civico Archeologico Antonio De Nino
MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELL’ABRUZZO SBAA - SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHEOLOGICI DELL'ABRUZZO SBAP - SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHITETTONICI E PAESAGGISTICI PER L’ABRUZZO DIOCESI DI SULMONA-VALVA COMUNE DI CORFINIO UdA - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI G. D’ANNUNZIO DI CHIETI-PESCARA DiSPUTer MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO ANTONIO DE NINO
Valorizzazione e promozione del patrimonio archeologico di Corfinio
ARCHEOCLUB D’ITALIA SEDE DI SULMONA
Il Sistema museale della Valle Peligna: attuazione e prospettive
ASSOCIAZIONE CUORE DEI CONFINI
A. Antonucci - Associazione Cuore dei Confini E. Ceccaroni - SBAA
ore 15,00-18,00 Le nuove indagini dell'Università di Chieti-Pescara a Corfinio Indagini geofisiche e remote sensing per la conoscenza dell’area di S. Pelino M. Moderato, L. Pompilio, E. di Valerio, L. Marinangeli
Le indagini nel campus: motivazioni, primi risultati, prospettive - S. Santoro Il rilievo, la restituzione 3D e il restauro dei “Morroni” C. Cavallari - SBAA, E. di Valerio, D. Palumbo
Gli scavi nell’area retrostante la Basilica Valvense S. Antonelli, V. La Salvia, M.C. Somma
S. Ippolito, una lettura delle fasi post classiche grafica di Marina Pietrangeli - SBAA
S. Antonelli, M.C. Somma
Nuovi dati dallo studio delle monete di Corfinio - M.C. Mancini Programma di censimento dei materiali lapidei architettonici di età classica nell’area di S. Pelino e nel Lapidario - O. Menozzi Archeometria e diagnostica dei lapidei in opera nel complesso di S. Pelino S. Agostini - SBAA
Conclusioni
Fig. 5. Programma della giornata di Studi del 21 settembre 2013 (elaborazione di Marina Pietrangeli, SABAP dell’Abruzzo-Chieti).
Fig. 6. Programma della giornata di Studi del 15 novembre 2014 (elaborazione di Marina Pietrangeli, SABAP dell’Abruzzo-Chieti).
Fig. 7. Sara Santoro e Maria Carla Somma in visita al Tempio italico di Corfinio, aperto in occasione delle GEP 2014. L’archeologa Angelina De Laurenzi (allora Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo), nel ricostruire la storia del sito, evidenzia le criticità dell’area, soggetta a incessanti e onerose operazioni di manutenzione e diserbo.
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Alessia Morigi
Il “ponte di pietra”. La stratificazione insediativa del settore del ponte antico di Parma tra processi di formazione urbana, recupero dell’area archeologica e rigenerazione della città contemporanea Abstract: The Parma ancient bridge is the only ancient building still visible in the old town center. It’s also the subject of a recent study that aims to provide an analysis of its redevelopment and setting-up project. The restoration offers the opportunity to save the monument from degradation, to focus on the stratification of this particular urban sector and on the history of its discovery and planning and finally to study its contribution to urban transformation and regeneration of the contemporary city of Parma.
La maglia urbana della Parma odierna si apre a comprendere, in funzione baricentrica, il corso attuale del torrente omonimo, che divide fisicamente i due settori del centro storico e del cosiddetto Oltretorrente. Nella sistemazione postantica, la riorganizzazione della città ha, infatti, visto la riunione dei due comparti che, in origine, rappresentavano invece due poli geograficamente e qualitativamente distinti. Ad est del torrente si collocava la colonia romana, che vedeva, ad ovest, la sua proiezione suburbana, oltre il guado fluviale. A cerniera tra il polo insediativo istituzionale e la sua appendice al di là del torrente, il ponte scavalcava il corso d’acqua prolungando il segmento urbano della via Emilia in direzione di Piacenza (fig. 1).
il monumento stratificando la diacronia di forme e funzioni e che accende una luce determinante sui tempi e le modalità della genesi della città antica. Infine, raccogliendo e facendo da volano ai dati dello scavo, il ponte diviene recentemente oggetto di un progetto di più ampio respiro che, in un articolato programma di rigenerazione urbana, mira a conferire spessore alla componente archeologica declinandola anche sul fronte espositivo e dell’alta formazione e restituendola a una platea cittadina allargata. Il settore intorno al ponte rappresenta, quindi, per le sue stesse caratteristiche topografiche, urbanistiche, architettoniche e di interesse scientifico, un esempio eclatante delle potenzialità espressive dei contesti archeologici di ambito urbano come serbatoio per la ricostruzione diacronica della consistenza e semantica degli spazi ma anche come presupposto per il conferimento a quegli stessi spazi di nuovi contenuti e significati partendo dal palinsesto antico e in coerenza con la loro identità originaria1.
A questa fotografia non parlante della realtà abitativa parmigiana corrisponde, come naturale, una meno lineare ma più esplicita stratificazione insediativa, che materializza sul terreno i 2200 anni dalla fondazione della colonia ad oggi. In particolare, il quadrante urbano intorno al ponte intercetta, nella sua contiguità al corso d’acqua sul quale sorse la città, l’epicentro simbolico e fisico della nascita dell’insediamento fin dalla fase preromana. La sopravvivenza del ponte romano localizza, inoltre, in questo settore l’unico monumento tuttora visibile della fase di occupazione antica (fig. 2). Il ponte addensa, a sua volta, il più cospicuo e articolato dibattito sul recupero, la valorizzazione e la fruizione dell’area archeologica che lo circonda, unica per collocazione urbana e dimensione monumentale. Grazie alla sua rilevanza strategica, il settore diventa quindi teatro di uno scavo esteso, che contestualizza
Il valore aggiunto è tanto più rilevante se si considera il trend delle città con continuità di vita nell’Italia del Nord, che non conservano se non sporadicamente traccia della facies antica e che spesso ne riducono la presenza a una rovina senza voce per l’interruzione forzata del rapporto biunivoco che un tempo la legava allo spazio circostante in un chiaro e comprensibile sistema di connessioni morfologiche, volumetriche e linguistiche2. Nel caso del ponte, lo spazio torna parlante grazie alla riedizione critica dell’area archeologica,
Sul tema della città come luogo dell’identità, nelle sue svariate declinazioni storiche, sociali e progettuali, ad esempio Mazzuconi 1967; Wrigley 1978; Rossi 1987; Andreev 1989, 167-177; Assmann 1997; Le Goff 1998; Ricci 1999, 97-127; Benci, Gennari and Iacomoni 2007; Scavone 2009. Sulle ricadute positive della corretta gestione dei siti archeologici per la trasmissione dei valori della democrazia, ad esempio, in seno ad ampio dibattito, Montanari 2015, Pavolini 2017; Volpe 2017, 399-403; Settis 2017, Volpe 2019; Volpe 2020. 2 Sulla storia del significato e della percezione della rovina, Barbanera 2013, con bibliografia precedente; sul senso della rovina antica in una società che, a sua volta, produce velocemente rovine, Roth, Lyons and Merewether 1997, 18-20. Sull’esigenza di restituire ai monumenti il 1
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro a Parma diretto al guado verso forse un primo ponte di legno, adombra la presenza di una occupazione già tra IV o III secolo a.C.4. La fondazione di Parma nel 183 a.C. da parte di Marco Emilio Lepido, nell’ambito di una politica di integrazione e in funzione antiligure, si ambienta quindi in quella galassia di abitati circostanti che già nel 187 a.C., prima della deduzione della colonia, aveva catalizzato il corso della via Emilia.
con una comunicazione polifonica garantita dalla contestualizzazione del monumento al suo ambiente in antico, dal suo recupero dalla precedente situazione di degrado e dalla sua gestione da parte dell’Università di Parma entro uno spazio programmato nell’ambito del protocollo d’intesa Aemilia 187 a. C. tra Università di Parma, MiBACT e Comune di Parma. In questa cornice, il primo e più qualificante aspetto del settore ponte è il suo contributo alla ricostruzione delle fasi originarie dell’insediamento e a quelle di fondazione della colonia romana. La nascita della città si lega, storicamente e in una prospettiva generale, all’approccio al mondo celtico della regione cisalpina e alle strutture create da Roma per il controllo di uno spazio di importanza strategica. Dopo le guerre annibaliche, la fame di terre delle genti italiche si attenuò in favore di guerre preventive che scongiurassero una nuova invasione dell’Italia. L’assenza di possibili coloni da insediare al nord per creare una cintura di sicurezza favorì il rapporto con le popolazioni locali, che, come nel caso dei Celti transpadani, pur sconfitti ottennero un foedus che garantiva formale indipendenza, in vista di un futuro inglobamento come cittadini. La confisca di una porzione dell’agro boico permise la deduzione di Parma, fondata in funzione difensiva ma poco invasiva rispetto alle popolazioni locali per la ridotta assegnazione di terre ad ogni singolo capofamiglia. Parma e le svariate colonie messe in sequenza dall’asse della via Emilia ebbero, quindi, il compito iniziale di sorvegliare la linea dell’Appennino, che, per la prima volta nella storia di Roma, chiudeva l’Italia politica in funzione di limes3.
Limitandoci ai settori prossimi al guado, svariati rinvenimenti documentano questi snodi della storia insediativa. A sinistra del fiume, in via D’Azeglio, è da tempo nota un’area dove, al di sotto di una frequentazione di età imperiale, si collocavano fondazioni in ciottoli di età preromana5, con rinvenimenti ceramici di tradizione celtica. Nello stesso settore, prospiciente Borgo Tanzi, l’ex Anagrafe, nell’area dell’ex Convento di S. Teresa, ha visto un recentissimo scavo estensivo che ha restituito materiale repubblicano precedente l’impianto di un quartiere artigianale di età imperiale e un idoletto votivo riconducibile a un orizzonte emiliano occidentale fin dal VI sec. a.C.6, per una cronologia dal IV al III sec. a.C. Nelle vicinanze, in piazza Matteotti, è stato rinvenuto un bronzetto di età ellenistica che potrebbe, secondo recenti interpretazioni, riportare a un momento precedente la tradizionale attribuzione al II sec. a.C.7 Lungo la riva destra del torrente, a sud della via consolare, in via del Conservatorio, sotto gli strati repubblicani sono affiorati resti dell’abitato capannicolo preromano, per una datazione tra V e IV sec. a.C.8 E’, tuttavia, lo scavo del settore intorno al ponte, a nord della via Emilia, ad accendere la luce più recente e importante sulla nascita della città. In piazza Ghiaia, le indagini hanno infatti restituito tracce di frequentazione preromana datate con certezza per la presenza di monete del III sec. a.C. nell’ambito di un ripostiglio di doni votivi, presumibilmente posto su di un isolotto nell’alveo fluviale, percorso anche in età precoloniale a giudicare dal rinvenimento di monete puniche9. Rinvenimenti riconducibili a questa fase sono, peraltro, spalmati su tutta la città. Lo scavo sotto la Cassa di Risparmio, in piazza Garibaldi, autorizza a pensare a un deposito votivo con ceramica celtica e già attivo nel III sec. a.C.10 In borgo Tommasini, strati romani sigillano un ulteriore deposito votivo di grandi falci in ferro11, come da rito propiziatorio celtico. Un santuario di
Di questa ampia e talora evanescente sequenza storica l’archeologia documenta la concreta traduzione sul terreno. Tutto il settore a ridosso del guado fluviale è, infatti, costellato da una serie di attestazioni che non è possibile se non sintetizzare in questa sede ma che circostanziano ben oltre le scarne notizie storiche le progressive tappe della nascita di Parma. In un momento in cui Roma risale verso il Po, prima della fondazione delle due colonie di Piacenza e Cremona nel 219 a.C., l’insediamento preromano si colloca attorno al guado del torrente, che scavalca con una preferenza già spiccata verso la riva destra. Lo stesso andamento non rettilineo della via Emilia, che nel 187 a. C., prima della deduzione della colonia, si orienta esplicitamente
contesto, in seno ad ampio dibattito, Carandini 2017. 3 Brizzi 2018, 73-80. 4 I dati archeologici sulla città preromana sono stati presentati nella mostra “Storie della prima Parma”, Locatelli, Malnati and Maras 2013, 69-70; per i dati stratigrafici sul settore del guado, in particolare Malnati, Catarsi and Pedrelli 2013, 71-72. 5 Marini Calvani 1978, 32-33. 6 Locatelli 2013, 38. 7 Malnati and Marchi 2018, 97-112. 8 Malnati and Marchi 2018, 97-112. 9 Poggi 2013, 71-75. 10 Marini Calvani 2012a, 38-39; Marini Calvani 2013, 80-82. 11 Capelli 2013, 70.
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A. Morigi
Il “ponte di pietra”. La stratificazione insediativa del settore del ponte antico di Parma tra processi di formazione urbana, recupero dell’area archeologica e rigenerazione della città contemporanea
Demetra e Kore è stato scavato in viale Tanara12 e ha restituito ceramica a vernice nera di III sec. a.C., monete repubblicane e celtiche, statuette votive in terracotta con confronti in area centro-italica e magno-greca13, per una complessiva datazione del contesto alla fine del III sec. a.C.
scavo dell’ex Anagrafe ha restituito contesti funerari repubblicani24. Come già per la fase preromana, la fisionomia della Parma repubblicana è ulteriormente precisata anche dai rinvenimenti di altri siti entro l’abitato. Presso la Cassa di Risparmio è venuto in luce il Capitolium nella sua veste più antica25. Lo scavo ha anche restituito i resti fittili della decorazione della prima fase del tempio, contemporanea alla fondazione della colonia26. A quest’epoca devono essere attribuiti resti di sacrifici di fondazione inquadrabili nella tradizione romana27. L’elevato standard qualitativo delle dotazioni repubblicane appare in chiaro anche negli scavi di Palazzo Sanvitale e in borgo Tommasini28.
Scendendo dalla fase preromana a quella romana, comparti urbani lungo le due rive del torrente offrono dati molto importanti anche per la Parma repubblicana14, rispetto alla quale accendono luci fondamentali sul contesto geoambientale della fase di fondazione e sull’assetto infrastrutturale della colonia primitiva, entrambi indispensabili per inquadrare tempi e dinamiche della genesi dell’insediamento. Ad est del fiume, gli scavi di via del Conservatorio hanno restituito un tratto delle mura repubblicane della città e di una porta urbica, defunzionalizzate in età imperiale, quando il limite urbano fu spostato più a sud15. Le mura mostrano mattoni posteriori a quelli impiegati altrove in regione nel III secolo a.C. e simili ad altri collegati con la fondazione della città16 documentati tra Cassa di Risparmio17 e santuario di viale Tanara18. Entro il circuito murario si conservava ancora traccia del vallo ad ulteriore potenziamento della cortina difensiva in mattoni19, mentre intorno si distribuivano sepolture a carattere anche rituale a protezione della porta20. Delle mura non è certa la presenza sul lato occidentale, lungo il corso del Parma, difeso forse ad aggere o palizzate. A nord invece sembrerebbe certa la loro esistenza21, così come ad est, dove in età augustea venne ricostruita una porta sulla via Emilia22.
Ad una valutazione di sintesi, i rinvenimenti intorno al ponte appaiono immediatamente diagnostici ai fini della comprensione della costruzione della forma urbana di Parma. In termini di storia insediativa, il rinvenimento di una stipe votiva con materiali databili tra III e II sec. a.C. sembrerebbe in connessione con un guado sul torrente, con monete e oggetti metallici gettati alla divinità fluviale come offerta di risarcimento per l’attraversamento, in linea con il rinvenimento di blocchi di travertino pertinenti gli elementi strutturali di un sacello o un altare. Se in età preromana il guado era forse su un isolotto circondato dall’acqua, una seconda stipe votiva sembra, invece, in uso ancora nella prima età imperiale. La fisionomia precoloniale e coloniale dell’area è ulteriormente definita dai dati utili alla ricomposizione del contesto geoambientale. In sede stratigrafica è stato confermato il ripetuto slittamento dell’alveo del torrente già in antico e la presenza di strutture provvisionali di difesa delle sue sponde succedutesi nel tempo a seguirne gli spostamenti, come mostrano i diversi livelli alluvionali e le tracce dei vari alvei fluviali. Almeno fino alla fine del II sec. d.C., il torrente correva più ad ovest del previsto, ponendo interrogativi sulla morfologia originaria del ponte, cui potrebbero essere state aggiunte alcune arcate in un secondo momento29.
Dalla stessa parte del fiume, il guado in corrispondenza di piazza Ghiaia pare in uso per tutta l’età repubblicana grazie a un ponte in legno, forse sostituito da un altro ponte durante il primo Impero, documentato da un pilone in mattoni a marcare l’attraversamento della via Emilia. Le indagini stratigrafiche hanno inoltre evidenziato opere di sistemazione spondale in legno, certamente di età repubblicana, sul lato sinistro del torrente23. Sempre nell’Oltretorrente, anche lo Labate, Malnati and Palazzini 2017, 42-46. Malnati and Marchi 2013, 86-88. Catarsi and Malnati 2013, 62-66. 15 I dati completi dello scavo sono in corso di pubblicazione. 16 Malnati and Marchi 2018, 97-112. 17 Macellari 2012, 41; Forte 2013, 84-85. 18 Marchi 2013, 88. 19 Malnati and Marchi 2018, 97-112. 20 Marchi and Serchia 2019. 21 Bianchi and Catarsi Dall’Aglio 2004, 26-29; 47-49. 22 L’epigrafe è oggi perduta, CIL XI 1062. 23 Malnati, Catarsi and Pedrelli 2013, 71-72. 24 Malnati and Marchi 2018, 97-112. 25 Corradi Cervi 1957, 240-250. 26 Marini Calvani 2012b, 61-64. 27 Marini Calvani 2012b, 61-64. 28 Guidorzi 2013, 69-70. 29 Catarsi 2009, 408. 12 13 14
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro vicolo dei Mulini31. Questa complessa rete di itinerari e percorsi materializza bene l’importanza del settore in esame in termini di dinamiche e collegamenti anche territoriali e, proprio per questo, la sua forte tenuta nel tempo.
Sempre in base alla stratigrafia, la difesa spondale più antica, costituita da una serie di pali lignei, allineati in senso nord-ovest/sud-est, infissi verticalmente nelle argille di base, rimanda ad età repubblicana per la presenza nella fondazione di un asse datato intorno al 211 a. C. Una seconda palizzata lignea, con andamento nord-sud e inquadrabile alla prima età imperiale, è stata localizzata al centro circa del cantiere e potrebbe essere stata introdotta a seguito di un repentino spostamento del fiume, come indirettamente testimoniato dalla presenza di grossi blocchi di pietra lavorata e materiali architettonici di spoglio posizionati a rinforzo dei pali. Altre strutture lignee, tra le quali forse un pontile di attracco, restano per ora imprecisate.
In questa cornice assolutamente strategica per la viabilità dell’Emilia occidentale, prima dello scavo il ponte era noto per essere stato costruito in età augustea, come cerniera tra la zona nella quale sorgeva la colonia romana, ora centro storico, e l’immediato suburbio, oggi noto come quartiere dell’Oltretorrente32. Il ponte raccordava, infatti, i due tratti dell’antica via Aemilia, ora via D’Azeglio e via Mazzini, separati dal corso del fiume. Dopo la sua costruzione, la storia della continuità d’uso sopravvive a singhiozzo nella notizia di un ripristino teodoriciano, non documentato esattamente come la fase augustea, con una cesura fino al 1177 quando un’alluvione ne ostruì le arcate e il torrente Parma slittò verso ovest, lasciando in secca il ponte, che venne sostituito più a monte dal nuovo pons Salariorum33. Con un ulteriore balzo cronologico, il monumento ricompare su un sigillo circolare del XIV secolo appartenente alla corporazione dei merciai parmigiani, con nel campo una struttura a tre arcate, coperta e sormontata da edifici34 (fig. 3). Nel 1547, il duca Pier Luigi Farnese fece abbattere le superfetazioni, per lo più private, che si erano insediate sulle arcate antiche e fece inoltre prolungare il ponte, ripristinando così l’originario percorso della via Emilia. Il pons Salariorum, già danneggiato nel 1403, cadde in disuso e nel 1553 finì in rovina.
Le risultanze dello scavo comprendono anche i resti di un pilone di ponte di epoca romana in conglomerato cementizio e paramento in mattoni, per il quale è stata avanzata l’ipotesi di una costruzione nella prima età imperiale e successivo crollo a seguito di un’alluvione di seria portata allo scorcio del II sec. d.C.: la stratigrafia ha confermato che si tratta di un’infrastruttura precedente al ponte attualmente visibile sotto via Mazzini, il che ci riporta al monumento simbolo del settore e alla storia della sua progressiva strutturazione morfologica, topografica e itineraria. Dal punto di vista anche solo della simbologia degli spazi, i percorsi dell’acqua e i punti di scavalcamento delle acque sono tradizionalmente depositari di forte e radicata continuità con l’antico. Lo conferma, in città, la riorganizzazione medievale delle canalizzazioni e delle acque urbane sul palinsesto teodoriciano del Canale Maggiore e del Canale Comune, con importanti ricadute sulla circolazione stradale. Gli elementi di continuità sono, inevitabilmente, rappresentati soprattutto dalle strade, ove il ponte irraggia oggi un fascio di percorsi tra i quali, rispettivamente, la via Emilia stessa, oggi via D’Azeglio, e le strade per Cremona e Luni, la prima lungo il settore della palazzina dell’anagrafe comunale, la seconda lungo via Bixio, più un asse diretto a Vicofertile lungo l’attuale via Imbriani; il settore suburbano investito dalle diramazioni della via consolare è quello dell’Oltretorrente, rivitalizzato dagli attraversamenti stradali grazie a un fiorire di quartieri produttivi e imponenti opere di bonifica30. Poco prima di innestarsi sul ponte, la stessa via Emilia nel suo tratto urbano funge da baricentro per la via per Brescello, lungo l’odierno borgo del Parmigianino, per la strada per la valle dell’Enza, nell’area all’incrocio delle moderne via della Repubblica e via Petrarca e, indirettamente, per la strada per la valle del Parma nell’allineamento degli attuali borgo Santa Fiora e
Su questi scarni riferimenti si innesta quanto restituito dallo scavo. Stando ai nuovi dati disponibili, la preesistenza di una pila precedente il ponte di pietra come lo vediamo oggi e costruita nella prima età imperiale mette in forse la tradizionale datazione del nucleo romano del monumento ad età augustea. Lo stesso slittamento dell’alveo suggerisce, inoltre, l’ipotesi di progressive integrazioni alle arcate, che nella loro fisionomia attuale mostrano evidenti tracce di reimpieghi e rifacimenti, in corso di studio muovendo dal rilievo fotogrammetrico aggiornato dell’edificio in vista, recentemente realizzato da chi scrive in collaborazione con A. M. Tedeschi. Per le parti non più in vista è, invece, necessario affidarsi preliminarmente alle fonti archivistiche, non essendo per ora accessibili le vecchie cantine sotto la moderna via Emilia, in parte cementificate nel tentativo di consolidare la strada soprastante. Le strutture del ponte romano finirono infatti, nel tempo, per essere assorbite dal tessuto urbano e le arcate furono progressivamente
Catarsi and Malavasi 2006. Catarsi 2002, 100; Dall’Aglio 2009, 570-596; Morigi 2009, 691-693; Catarsi 2009, 457-459; Morigi 2012, 101-122; Morigi 2015a, 44-53. 32 Corradi Cervi 1963, 3-4; Catarsi Dall’Aglio 1993, 431-445; Catarsi and Dall’Aglio 1993, 218-219; Catarsi 2009, 405-408; Morigi 2009, 688-691. 33 Corradi Cervi 1963, 3; Banzola 1976, 27. 34 Catarsi 2006, 256. 30 31
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A. Morigi
Il “ponte di pietra”. La stratificazione insediativa del settore del ponte antico di Parma tra processi di formazione urbana, recupero dell’area archeologica e rigenerazione della città contemporanea
ostruite, ad eccezione di quella più alta, lasciata aperta per consentire di attraversare il settore attualmente noto come Ghiaia, ovvero l’antica glarea, cioè il letto del fiume, ormai definitivamente in secca e adibito a mercato35. Per ricomporre la fisionomia originaria del ponte o, almeno, una sua parte, è quindi necessario fare riferimento al serbatoio iconografico delle carte dell’Archivio Storico Comunale di Parma, recentemente pubblicate in forma sintetica36.
traffico su ruote alle arcate sottostanti. Il dibattito vede contrapporsi C.A. Quintavalle e M. Corradi Cervi, l’uno correttamente schierato in difesa del complesso delle strutture antiche, l’altro propenso a tutelare i soli ruderi superstiti verso il torrente. Il protrarsi degli scassi urbani finisce per mettere in luce due arcate e i relativi pilastri nell’isolato tra via Oberdan e strada Mazzini, con successivi blocco dei lavori imposto dalla Soprintendenza, visita dell’ispettore ministeriale e proposta di un ventaglio di progetti di scandaglio e valorizzazione dell’edificio antico. Prevedibili ulteriori cedimenti della sede stradale inducono tuttavia a un’ordinanza di rinterro delle strutture, definitivamente sepolte ad eccezione delle due ultime luci, che vengono incluse nel sottopasso di recente costruzione. La grandiosità delle arcate, ben evidente negli scatti fotografici dell’epoca, stride con il loro definitivo seppellimento nel sotterraneo, che le sottrae alla vista e costringe a una prospettiva falsata e a inevitabili derive di degrado e abbandono (fig. 4).
Comprese le due attualmente in vista nel sottopasso di via Mazzini, il ponte conta dieci arcate, la settima delle quali da est distrutta durante l’ultima guerra. Le pile presentano il rostro frangiflutti verso monte. Pile ed arcate a tutto sesto non sono uniformi e la stessa sede stradale risponde a due diverse ampiezze, così come ampiamente disomogenea per progressivi interventi e rifacimenti con materiale di reimpiego è la tecnica edilizia37. La morfologia a schiena d’asino imposta dal progressivo innalzamento del piano stradale da est a ovest e la localizzazione al centro dell’attuale alveo del torrente del nodo ovest di irraggiamento delle strade verso il territorio hanno ripetutamente indotto a ipotizzare una prosecuzione del ponte ad ovest in direzione dell’attuale Oltretorrente38.
A corredo e ulteriore testimonianza degli avvenimenti di quel periodo, una nutrita serie di rilevamenti effettuati tra anni Cinquanta e anni Sessanta testimonia il progredire dei lavori. Si tratta di documenti fondamentali perché sono gli unici a consentire una ricostruzione di dettaglio della morfologia e tipologia del ponte. Una cospicua serie di schizzi illustra le progressive fasi di perfezionamento del rilievo, disegnate a mano con ampia rassegna di dettagli utili a inquadrare tipologia e caratteri costruttivi dell’intero corpo di fabbrica. Seguono le mappe degli anni Sessanta, che mostrano ulteriori aspetti tecnici dei ruderi emersi. Si tratta di documenti fondamentali proprio per la filiera che delineano, che non segue un andamento incrementale ma che spalma nei diversi disegni riferimenti tecnici e costruttivi rilevanti per l’interpretazione del monumento (fig. 5).
Le carte d’archivio sono particolarmente importanti non solo per lo studio dell’edificio ma, anche per la storia della sua sistemazione e tutela che offre uno specchio del dibattito sull’approccio alla gestione del rudere urbano decontestualizzato nella seconda metà del secolo scorso. Un primo slot di documenti, inquadrabili agli anni Cinquanta, scritti a mano e con rilievi in forma di schizzo ricchissimi di note a margine sulla natura dei danni e sull’intreccio tra murature antiche e non, documenta la scoperta del ponte grazie al casuale smottamento della soprastante via Mazzini. Il cedimento della sede carrabile consente di mettere in luce porzioni dell’edificio precedentemente non visibili e sostanzialmente perdute in quanto inglobate nelle cantine. La diffusione degli interventi di ricognizione e rilievo nei sotterranei del centro storico è estesa a praticamente tutto il decumano massimo urbano di via Mazzini e al cardine massimo di via Cavour.
Le carte degli anni Sessanta sono la miglior prova della confusione e del degrado delle istituzioni che produsse l’abbandono delle strutture antiche e il loro definitivo seppellimento. Le esigenze di immediata agibilità della via Emilia, la scarsa e poco consapevole comunicazione tra amministrazioni locali e responsabili ministeriali e un generale clima di scontro produssero punti di vista non comunicanti tra chi voleva evitare danni al traffico urbano e chi si prodigava per una reale salvaguardia del ponte antico. Ne derivò il definitivo abbandono di qualsiasi prospettiva di passeggiata archeologica a cielo aperto e la cancellazione del ponte dalla vista.
Al debutto degli anni Sessanta, il clamore sollevato dai problemi connessi alla fruizione della via Emilia moderna che correva sopra il ponte arriva alla stampa39. Il Comune di Parma decide, infatti, di allargare strada Mazzini arretrando la fronte dei palazzi senza preventivare alcun rilievo o protezione dal danno del
Corradi Cervi 1967, 17. Morigi 2016b, 809-822; Morigi and Tedeschi 2018, 355-374. 37 Sulla morfologia e la tecnica edilizia del ponte, le sintesi in Catarsi and Dall’Aglio 1993, 218-219; Catarsi 1993, 431-445; Galliazzo 1993, 135; Pellegrini 1995, 160; Coralini 1997, 74-75; Catarsi 2009, 405-408; Morigi 2009, 688-691. 38 Catarsi 2009, 405-408. 39 Per l’integrazione di questi documenti con le relazioni conservate presso l’Archivio dell’attuale Soprintendenza SABAP PR-PC e con la rassegna stampa dell’epoca, Catarsi 1993. 35 36
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro nel sottopasso sotto la via Emilia moderna41. Il fine è quello di un approccio scientifico e al contempo dinamico al monumento, che dovrebbe coagulare intorno a sé la ricerca archeologica dell’Università di Parma e degli enti che si occupano di tutela del patrimonio archeologico ma anche il quotidiano di chi, grazie al canale pervio tra ponte e area mercatale, praticherà anche occasionalmente un antico parlante (figg. 6-7-8-9).
È questa la situazione dalla quale è partito il più recente progetto di progettazione urbana40, che riallaccia il dialogo costruttivo tra enti preposti alla ricerca, alla tutela del patrimonio culturale e all’amministrazione della città. Il presupposto è la consapevolezza del bene archeologico come bene comune, valore aggiunto nella promozione della vitalità cittadina e palinsesto di eventuali rigenerazioni urbane in contesti con continuità di vita. Con il protocollo d’intesa del 25 novembre 2014 fra il Comune, Università, Direzione Regionale e Soprintendenza, prende forma il progetto di riqualificazione dell’intero settore intorno al monumento antico.
Lungo il lato sud della galleria si aprono, infatti, tre spazi principali interconnessi nei quali dovrebbe ambientarsi l’attività dell’Università: una sala principale idonea per lezioni e conferenze, una galleria laboratoriale sviluppata a lato del ponte romano e separata dalle teche espositive, il punto informativo ParmaUniverCity affacciato direttamente sulla nuova piazza ribassata aperta tra “Ghiaia grande” e “Ghiaia piccola” (figg. 10-11). In posizione baricentrica tra i tre spazi e in funzione di segnacolo topografico a garanzia della percezione dell’area archeologica dal piano della moderna via Emilia, si proietta verso viale Toscanini una lanterna multifunzione: pozzo luce per gli spazi ipogei durante la giornata, segnacolo del ponte sottostante, diffusore a ciclo continuo e in tempo reale delle attività dell’Università di Parma. Per coerenza linguistica, la lanterna ospita un reperto lapideo romano pertinente lo spazio urbano nel quale è dislocata l’area archeologica, in modo da richiamarne esistenza e consistenza all’incrocio tra il Lungoparma e la via Emilia, cioè nel punto di snodo turistico tra il traffico pedonale e su ruote cittadino e quello proveniente dalla stazione ferroviaria. Per la sua stessa ubicazione, la lanterna rappresenta anche un volano per il vicino Complesso Monumentale della Pilotta, principale serbatoio delle antichità parmigiane e inevitabile riferimento ottico e museale per chi dal ponte potrà poi proseguire a piedi, in area pedonale, la visita verso il Museo Archeologico semplicemente attraversando l’area mercatale che lo separa dal monumento42 (fig. 12).
L’idea è quella di una riconnessione, attraverso lo spazio del ponte romano, di una vasta area mercatale tra piazza Ghiaia e borgo Romagnosi. Per le sue stesse caratteristiche di area archeologica a carattere monumentale, in posizione baricentrica tra centro storico e Oltretorrente e lungo l’asse portante della via Emilia, se ne progetta la gestione da parte dell’Università di Parma in funzione di spazio culturale aperto alla cittadinanza. Successivamente ad un preliminare alla fine del 2014, nel novembre 2015 viene presentato in Comune e nel gennaio 2016 alla città il progetto Aemilia 187 a.C. Nella sua forma finale, esso prevede la creazione di uno spazio urbano su più livelli, fortemente integrati fra loro, lungo un percorso museale permanente, spalmato intorno al ponte romano a condensazione dei reperti ritrovati nello scavo in piazza Ghiaia. Da una prospettiva più ampia, si apre un collegamento immediato, sia visivo che fisico, tra Lungoparma, piazza Ghiaia e ponte romano, sul quale è puntato il cannocchiale ottico. Da una prospettiva più ravvicinata, per consentire una completa visione del manufatto, sul lato sud una passerella leggera permette di vedere da vicino ponte e teche espositive; sul lato ovest una seconda passerella consente di camminare ad una quota superiore a quella del ponte recuperando la visione del pilone dall’alto impedita dallo schiacciamento dell’involucro dell’attuale sottopasso; sul lato nord un’ulteriore scala scende a livello del torrente, consentendo la creazione di un nuovo percorso sotto il ponte; il lato est, con l’abbassamento e l’apertura verso borgo Romagnosi, diventa infine il percorso pedonale principale di collegamento fra la “Ghiaia grande” e la “Ghiaia piccola”, garantendo un reale e continuo flusso di persone intorno al ponte e scongiurando definitivamente l’isolamento al quale era stato costretto sigillato
La profonda correlazione tra gli ambienti di nuova realizzazione e la galleria urbana e la forte coerenza linguistica di tutta l’area è stata intenzionalmente finalizzata all’intreccio tra Università e cittadinanza nel segno del significato anche attuale dell’antico, della sua valenza pubblica, delle potenziali ricadute civiche e di III Missione del paesaggio urbano della colonia come depositario dell’identità della città, che
Morigi and Tedeschi 2018, 355-374. Nelle more della stampa, Morigi, articolo in volume Città e metamorfosi. Si vedano i progetti coordinati dal Comune di Parma (2015) Progetto per l’abbassamento di Borgo Romagnosi e la riqualificazione del Ponte Romano «Spazio socio-culturale “Aemilia 187 a. C.” e abbassamento di Borgo Romagnosi e (2016) Ghiaia-Romagnosi dal Ponte Romano - Lavori Pubblici (Parma); si veda il contributo di Alessia Morigi (2017) in “Aemilia 187 a.C. Recupero del sottopasso del ponte romano”, tavola rotonda nell’ambito di “Il futuro della memoria: sei luoghi per la città. Forum permanente per lo sviluppo di politiche territoriali integrate. Rassegna sulla rigenerazione urbana” (Parma, 15 febbraio-1 marzo 2017), organizzato dal Comune di Parma in collaborazione con Università di Parma, Polo Museale dell’Emilia-Romagna e Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Parma; Morigi and Tedeschi 2018, 355-374. 42 Sulla via Emilia storica, di recente e in una prospettiva diacronica, Capurso and Cantoni 2018. Sulla diacronia della via Emilia, nell’attraversamento urbano e non, tra gli altri Quintelli 2001; Vernizzi 2004; Quintelli 2008a, 216-219; Quintelli 2008b, 190-215; Farinelli 2009, 47-70, Quintelli 2020. 40 41
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A. Morigi
Il “ponte di pietra”. La stratificazione insediativa del settore del ponte antico di Parma tra processi di formazione urbana, recupero dell’area archeologica e rigenerazione della città contemporanea
nasce e tuttora vive lungo la via consolare43. Per quanto riguarda l’antichistica, il nuovo progetto consentirà, inoltre, di fare ricerca e alta formazione archeologica direttamente all’interno dell’area archeologica. Al monumento romano la nuova galleria urbana integrerà infatti diversi luoghi espositivi e narrativi, progettati e realizzati da chi scrive in collaborazione con i colleghi dell’attuale Soprintendenza SABAP PR-PC44 e frutto di un quadriennale intenso lavoro, dal 2014 fino all’inaugurazione nell’ottobre 201845, di raccordo con l’ideatore e coordinatore del protocollo C. Quintelli, con i responsabili del progetto architettonico A.M. Tedeschi e F. Bocchialini e con il promotore e responsabile dell’allestimento di ParmaUniverCity P. Giandebiaggi. Fra gli spazi universitari e la nuova passerella lungo il lato sud e lungo il lato ovest, grandi teche alloggiano alcuni reperti recuperati durante gli scavi di piazza Ghiaia, così come alla quota dell’alveo: i rinvenimenti si trovano, quindi, esposti perfettamente in contesto, e, anzi, restituiranno al suo contesto il ponte, finora privato della stratificazione storica e dei riferimenti volumetrici dello spazio che gli apparteneva in antico. Sul lato nord, grazie alla scala che scende al livello dell’alveo del torrente consentendo un inedito percorso sotto al ponte romano, è prevista l’esposizione di ulteriori reperti.
inevitabilmente, dalla percezione che la comunità sa, anche a più livelli, ricavarne, il progetto Aemilia 187 a.C. può, in sostanza, contribuire a riequilibrare, in termini dialogici, il diffuso gap tra soggetto ricevente, potenzialmente insensibile per grado di acculturazione allo stimolo dell’antico, e soggetto emittente, spesso ridotto a rovina decontestualizzata non parlante. In questo scambio osmotico tra città antica e postantica che, nella loro progressiva stratificazione, determinano il prodotto finito dell’abitato contemporaneo, i temi dell’archeologia della città, della valorizzazione del monumento antico e della rigenerazione urbana contemporanea si intrecciano su un terreno sempre più stabile restituendo a dinamiche di causa-effetto il progressivo divenire della strutturazione dell’abitato in senso urbano46. L’edificio antico è, così, percepito e recuperato non per il solo valore intrinseco ma come epicentro di un insieme parlante declinabile nel ventaglio di significati assunti durante le diverse fasi storiche. Andando oltre il banale effetto spot, la monumentalità non resta l’unico punto di forza per la sopravvivenza del rudere ma rende meno liquida la trama della città contemporanea, contribuisce a riqualificarla contro il rischio sempre incombente del moderno degrado e argina l’endemica e quanto mai attuale diffusione dei non luoghi47. Archeologia urbana e progettazione urbana contemporanea insieme, quindi, come antidoto al declassamento dell’antico da tessuto connettivo dell’identità collettiva a imbarazzante ostacolo da rimuovere, al consumo inconsapevole dei centri storici e, soprattutto, alla progressiva desertificazione degli spazi significanti48.
In tutta la galleria, numerosi pannelli informativi ricostruiscono, inoltre, la fisionomia archeologica della città e del suo territorio, con focus rispettivamente sull’ambito urbano di Parma romana (conquista romana e fondazione; spazio forense; edifici monumentali; Parma tardoantica), sul territorio della colonia romana (organizzazione territoriale; pianura; collina; montagna), sulle infrastrutture strade (il sistema stradale; la costruzione delle strade; le necropoli) e ponte (storia del ponte; riscoperta del ponte), sullo scavo di piazza Ghiaia (lo scavo; i doni alle divinità; le difese spondali; il capitello di lesena; il pilone di ponte) (fig. 12).
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43 La componente scientifica e quella educativa e di terza missione sono state incrociate a partire dal Programma “Fare Campus-Campus Explora”, che chi scrive ha coordinato come delegata del Rettore, e nella cornice del Programma “S.F.E.R.A. Spazi e Forme dell’Emilia Romagna Antica”, entro i quali il progetto sul ponte sperimenta itinerari scientifici, educativi e divulgativi condivisi per il rilancio ad ampio spettro del distretto universitario a partire dalla sua fisionomia e identità primitive [in Quintelli 2015a, 331-339; Morigi 2016a, 81-114; Quintelli 2017, 6-17; Quintelli 2018; Morigi 2018, 113-134]. 44 In particolare Flavia Giberti e Patrizia Raggio, con il supporto di Manuela Catarsi in rappresentanza della Deputazione di Storia Patria per le Province Parmensi. 45 L’inaugurazione del ponte è stata occasione della settimana di eventi archeologici Un ponte tra Università e citta’. Manifestazioni per l’inaugurazione dello spazio Aemilia 187 a.C. (Parma, 7-14 ottobre 2018), promosse congiuntamente da Università di Parma e Comune di Parma con il coordinamento scientifico e organizzativo di chi scrive. 46 Quintelli 2015b, 10-18; Morigi 2015b, 277-28; Morigi 2018, 113-134. 47 In seno ad ampia bibliografia, sulla necessità di restituire attualità al linguaggio del patrimonio archeologico, ad esempio il recentissimo Volpe 2018a, 103-106; 183-185 e, più in generale, Volpe 2016. 48 Questo il senso anche del Simposio Internazionale Fondare e ri-fondare: origine e sviluppo della città di Parma. Costruzione di un’identità policentrica lungo la via Emilia tra Parma, Reggio e Modena, organizzato da chi scrive e da C. Quintelli durante il suo mandato come Pro Rettore con delega all’Edilizia e all’insediamento urbano su incarico di Comune di Parma e Università di Parma in occasione delle celebrazioni per Parma 2200 e nella cornice del programma MMCC – 2200 anni lungo la via Emilia (www.2200anniemilia.it). Oltre la dimensione urbana, sempre in contesto regionale, ad esempio Quintelli 2014. Sulla visione globale del paesaggio e sull’opportunità del coinvolgimento di competenze disciplinari trasversali, ad esempio G. Volpe, in Volpe 2018a, 103-106; 183-185; Volpe 2018b, 47-62.
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Fig. 2. Il ponte nel nuovo allestimento
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Fig. 3. Sigillo dei Merciai parmigiani con immagine del ponte nel XIV secolo
Fig. 4. Il ponte negli scavi che ne misero in luce lo sviluppo sotto l’odierna via Emilia
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A. Morigi
Il “ponte di pietra”. La stratificazione insediativa del settore del ponte antico di Parma tra processi di formazione urbana, recupero dell’area archeologica e rigenerazione della città contemporanea
Fig. 5. Il ponte negli schizzi conservati presso l’Archivio Storico Comunale di Parma
Fig. 6. Il ponte nel suo prospetto verso Piazza Ghiaia e verso il torrente Parma nella nuova sistemazione prevista dal Progetto Aemilia 187 a.C.
Fig. 7. L’accesso all’area del ponte verso Borgo Romagnosi nella nuova sistemazione prevista dal Progetto Aemilia 187 a.C.
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Fig. 8. Il ponte nel nuovo allestimento previsto dal Progetto Aemilia 187 a.C.
Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 9. Il ponte nel nuovo allestimento previsto dal Progetto Aemilia 187 a.C.
Fig. 11. Conglomerato in ghiaia con inclusi dallo scavo della Ghiaia
Fig. 10. Torso in marmo proveniente dallo scavo della Ghiaia
Fig. 12. La lanterna a richiamo dell’area archeologica del ponte all’incrocio tra via Emilia e torrente Parma
IL PONTE
THE BRIDGE
LA RISCOPERTA DEL PONTE
LA STORIA DEL PONTE
Lo scavalcamento del torrente Parma, originariamente effettuato tramite un guado, dall’età romana fu realizzato attraverso un ponte, che collegava la colonia al suo suburbio, posto nell’attuale Oltretorrente. Secondo la tradizione locale, esso sarebbe stato costruito lungo la via Emilia sul torrente Parma in epoca augustea per poi essere restaurato dal re goto Teodorico. La sua vita fu particolarmente lunga: rimase, infatti, in funzione per più di mille anni, anche grazie alla sua posizione sull’Emilia, asse portante della viabilità non solo parmense, ma dell’intera regione. Nel 1177 o 1180 un’alluvione ne ostruì però le arcate e il torrente cambiò il proprio corso, spostandosi nell’alveo attuale. L’antico ponte rimasto in secca fu sostituito dal pons Salariorum o Mocum, costruito poco più a monte. Ancora nella prima metà del XIV secolo, l’immagine della struttura era raffigurata nel sigillo circolare della corporazione dei merciai parmigiani, come un ponte a tre arcate, coperto e sormontato dalle case e botteghe dei merciai, così come descritto intorno al 1324.
Undici arcate di un ponte in pietra furono riportate in luce negli anni Sessanta del 1900 durante i lavori di allargamento di Via Mazzini, tra via Oberdan e il torrente, per essere poi nuovamente rinterrate a fine lavori ad eccezione di due sole, leggermente disassate tra loro, lasciate in vista nel sottopasso posto all’estremità ovest della strada. L’analisi tecnica proposta nell’occasione restituisce pile di misure diverse (con rostro frangi fIutti solo a monte), in conglomerato cementizio rivestito da blocchi squadrati a collegare arcate a tutto sesto realizzate in pietrame di varia pezzatura con luci di ampiezza eterogenea dai 9 agli 11 m.
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1960s during the work to widen
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Ponte di Mezzo con l’edicola di S. Giovanni Nepomuceno Raccolta Sanseverini ASPr
Nel 1547, il duca Pier Luigi Farnese lo fece prolungare ripristinando l’originario percorso della via Emilia e demolì gli edifici, per lo più privati, che si erano sviluppati sulle strutture antiche. Il ponte romano finì per essere assorbito dal tessuto urbano, con progressiva ostruzione delle numerose arcate che lo contraddistinguevano quando era ancora funzionante ad eccezione di una, che consentiva il collegamento tra due aree del vecchio greto, le odierne Ghiaia grande e piccola.
-Tutte le fotografieResti di pile del ponte di pietra rinvenuti negli anni Sessanta in occasione degli sterri in strada Mazzini CSAC, archivio Tosi
La riscoperta del ponte
Eleven arches from a stone bridge were uncovered in the
Il Pons Lapidis e il Pons Salarium
Originally crossed by a ford, from Roman times onwards the River Parma was crossed by means of a bridge, which connected the colony to its outskirts, where Oltretorrente is today. According to local tradition, this was built on the via Emilia over the River Parma in the time of Augustus and later re-built by King Theodoric of the Ostrogoths. It lasted for a very long time: indeed, it remained in use for over 1,000 years, thanks in part to its location on the Via Emilia, which gave access to Parma but also to the entire region. However, in 1177 or 1180 a flood blocked the arches and the river altered its course to where it flows today. Now that the ancient bridge no longer crossed the river, it was replaced by the pons Salariorum or Mocum, which was built further upstream.Then in the first half of the 14th century, the image of the bridge was represented in the round seal of the guild of Parma’s haberdashers, as a bridge with three arches, with a roof and the haberdashers’ houses and shops on top of it, as described in about 1324. In 1547, Duke Pier Luigi Farnese had it extended, reinstating the original route of the Via Emilia, and demolished the buildings, mainly privately owned, that had been built on the old bridge. The roman bridge was eventually absorbed into the urban fabric; the various arches that gave it its character while it was still in use were gradually closed up, except for one, which linked two sections of the old river bank, which correspond to today’s Ghiaia Grande and Ghiaia Piccola.
L’edificio sosteneva una sede stradale di circa 4,60 m, che si restringeva a 3,80 m verso il centro del manufatto; in capo al ponte si apriva un’area di sosta. Analisi archeometriche condotte sulle due arcate superstiti hanno fornito datazioni che individuano una costruzione in epoca tardoantica. Scavi recenti realizzati in Piazza Ghiaia hanno portato in luce, sigillato da un potente livello di ghiaie, i resti di un pilone con l’attacco di un’arcata in conglomerato cementizio e paramento in mattoni. Il cedimento di questo ponte, probabilmente costruito nella prima età imperiale ad una quota inferiore a quella delle pile musealizzate, si deve forse ad un’alluvione catastrofica sul finire del II sec. d.C.
Sigillo della corporazione dei merciai della città di Parma Prima metà XIV sec. d.C. Foto SAER Complesso monumentale della Pilotta
Fig. 13. La storia insediativa del ponte nel pannello illustrativo realizzato nell’ambito del Progetto Aemilia 187 a.C.
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Via Mazzini, between Via Oberdan and the river, and later all but two of them were covered up when the works were completed. They were slightly off kilter and left on view in the subway at the westernmost end of the street. Studies carried out at the time revealed piers of different sizes (with a breakwater only upstream) made from a cement mixture covered in square slabs linking rounded arches made from stones of various sizes with spans varying from 9 to 11 m. The bridge supported a road that was about 4.60 m wide which narrowed to 3.8 m wide towards the centre of the bridge; at the top of the bridge there was a rest area. Archaeometric studies carried out on the two remaining arches date the construction as being from late antiquity. Recent excavations carried out in Piazza Ghiaia have uncovered the remains of a pier covered with a substantial amount of gravel and attached to an arch made from a cement mixture and a brick parapet. The collapse of this bridge, which was probably built in the early Imperial Age at a lower height than that of the piers on display in the museum, was perhaps the result of a catastrophic flood at the end of the 2nd century A.D.
Eugenio Di Valerio
Dati preliminari dalle indagini nel comune di San Giovanni Lipioni (CH): le aree archeologiche di Colle Vernone e Il Monte Abstract: The Sanctuary at ‘il Monte’ of San Giovanni Lipioni represents a new interesting context, both as example of joined project in close collaboration among institutions, for the identification of the role of the minor settlements within the ancient territorial system in a quite mountainous and remote context, as well as for the study of the pavement in opus caementicium with geometric decoration which has been found in the shrine. The territorial context is particularly interesting for investigating the role of the extra-urban sanctuaries in a mountainous Samnite area, rich in minor settlement and fortified centers. Concerning the pavement, the so-called “cementizi a base fittile” represents an element of monumentalisation less evident than other floor techniques but they assume historical value, giving the possibility to individuate their evolutionary trajectory and their distribution in a diachronic sense throughout the peninsula. The example of San Giovanni Lipioni allows us to add a further interesting step to the knowledge of the preliminary phases of distribution in central-southern Italy of cement pavements decorated with white limestone tesserae. The choice to present in this context this study is mainly due to the interest of late Sara Santoro both for the role of the minor settlement and for ancient mosaic and decorated pavements.
IL CONTESTO TERRITORIALE: RICERCHE E STUDI
esatta e le altre numerose implicazioni di questa importante opera della bronzistica antica; ci si limiterà solo ad evidenziare che la statua, a cui la testa appartiene, doveva essere originariamente collocata in un importante luogo di culto, del quale quindi si sottolinea la sicura presenza8.
Nel 20121, nell’ambito dell’esercizio delle funzioni di tutela da parte dell’allora Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo2, sono stati eseguiti saggi archeologici preventivi in località Il Monte3 nel Comune di San Giovanni Lipioni (CH). A seguito dei primi rinvenimenti, ulteriori indagini sono proseguite negli anni 2016, 2017 e 2018, in collaborazione con l’Amministrazione Comunale locale4 e l’Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara5. Da questa collaborazione è nato un progetto pluriennale di ricognizioni nel territorio che ha portato, finora, all’individuazione di un centro fortificato e allo scavo estensivo di un santuario nel quale è stata riconosciuta una frequentazione tra IV e I secolo a.C.6
Nel 1953 un ulteriore rinvenimento ha messo in risalto l’importanza di questo contesto territoriale: alcune colonne con capitelli dorici, databili ad età ellenistica, sono state rinvenute in Contrada Mandrile, loc. Inforchie Vecchie, nel vicino Comune di Castelguidone compreso nell’agro antico di San Giovanni Lipioni9 (fig. 1.1). Una ampia ricognizione topografica, agli inizi degli anni ’70, ha interessato parte del territorio dell’antico municipio di Tereventum; i dati raccolti sono confluiti in una pubblicazione10 in cui si segnalano già numerose presenze archeologiche nel territorio tra cui l’importante sito in loc. Inforchie Vecchie (fig. 1.1) a cui l’Autore attribuisce peraltro la provenienza della testa bronzea
Il territorio era già ben noto per il famoso rinvenimento, nel 1847, della testa bronzea conservata alla Bibliothèque Nationale de France, nel Département des monnais, médailles et antiques7. Si rimanda ad altra sede la discussione circa le problematiche inerenti la datazione, la provenienza
Indagini temporaneamente sospese per cause metereologiche e logistiche riprese poi nel 2014. Con la Direzione Scientifica della Dott.ssa Amalia Faustoferri. Per un inquadramento dettagliato del popolamento antico del territorio e storia degli studi vedi il contributo di A. Faustoferri nel presente volume. 4 Al Sindaco, all’Amministrazione Comunale tutta ed alla Proloco di San Giovanni Lipioni va un necessario quanto sentito ringraziamento per la disponibilità e il fondamentale apporto logistico senza i quali non si sarebbe potuta approfondire l’indagine archeologica. 5 Un ringraziamento alla sezione Archeologia del DiSPUter (docenti, ricercatori e tecnici) che hanno che hanno reso possibile, mediante la collaborazione tra tutti gli enti interessati, l’avvio delle indagini in concessione. Grazie, infine, allo speciale contributo degli studenti del Corso di Laurea Magistrale in Beni Culturali Archeologici: C. Renzetti, D. Di Bartolomeo, E. Rossi, F. Vernarelli, F. Iorio, F. Belfiglio, G. Cavallo, G. Pavone, G. Campitelli, I. Zelante, L. Guidi, M. Di Febbo, M. Pileri, N. Di Girolamo, P. Sablone, S. Civitarese, S. Raspagliesi, S. Balassone, S. Mucci, V. Maglie. 6 Di Valerio 2017, 479-486. Dalla pubblicazione dell’articolo del 2017 la prosecuzione degli scavi ha permesso di definire ulteriormente alcuni aspetti stratigrafici e strutturali; eventuali discrepanze riscontrabili vanno intese come aggiornamenti dei lavori precedentemente pubblicati. 7 Inv. n. 857; Colonna 1957, 567-569; Id. 1958, 303; Adam 1984; Picciani 1995, 24-27; Strazzulla 1997, 8-13; Faustoferri 2009, 316; La Rocca - Presicce 2011, 152; Lyons 2015; Haumesser 2017, 657-658, fig. 36.5; Faustoferri supra. 8 Quale che fosse la provenienza del reperto, la presenza della statua può essere ricondotta a una struttura templare forse non dissimile da quella esplorata e presentata in questa sede. 9 Aquilano 1997, 17-18; Faustoferri supra. 10 Matteini Chiari 1974; vedi da ultimo Fratianni 2010. 1 2 3
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro conservata alla Bibliothèque Nationale de France11; questa stessa ipotesi, riproposta anche nel recente lavoro di Fratianni12, non è tuttavia unanimemente condivisa dalla comunità scientifica. Secondo recenti acquisizioni le summenzionate colonne, inizialmente appartenenti ad un edificio templare, sarebbero state trasportate da un altro luogo e riutilizzate nella chiesa che sorgeva sul sito in questione13.
Il quadro archeologico del territorio si è andato arricchendo grazie a segnalazioni ascrivibili ad età preromana e Romana, nelle aree di Manzella-Orto dei Monaci e Colle Vernone (fig. 1.5-6), mentre ascrivibili a fasi medievali sono i rinvenimenti nelle chiese di Santa Liberata, Santa Maria delle Grazie e nella Chiesa del Purgatorio22 (fig. 1.7-9). Inoltre, scavi di emergenza hanno portato in luce numerose sepolture databili alla prima età imperale nella già menzionata area di Colle Ciampette e, nel 2008, due tombe di età arcaica e strutture relative ad un’area sacra presso Fonte S. Angelo (fig. 1.10), nel Comune di Torrebruna.
Un ulteriore importantissimo rinvenimento in questo contesto è menzionato da L. Picciani14, proprio in località Il Monte, ai piedi dell’altura, (fig. 1.2) e consiste in una statuetta bronzea di Eracle in assalto, inizialmente interpretata come un cacciatore15. La statuetta, rinvenuta negli anni ’80 del secolo scorso ai piedi dell’altura, è realizzata mediante fusione piena, misura circa 14 cm di altezza e presenta la divinità con la leonté sull’avambraccio sinistro e il braccio destro alzato e flesso a brandire la perduta clava. La gamba destra, rigida, portata in dietro e quella sinistra, flessa, portata in avanti, rendono l’idea della posa in assalto. Il collo massiccio sostiene una piccola testa ovale incorniciata da ciocche ben rilevate; i tratti fisiognomici sono molto accentuati così come i dettagli anatomici del busto: clavicole in rilievo, petto in evidenza, ombelico incavato e creste iliache del bacino sporgenti. L’oggetto appartiene ad una vasta produzione di votivi bronzei che si sviluppò fra le popolazioni umbro-sabelliche fra il VI e il II-I sec. a.C. secolo a.C. stimolata da importazioni etrusche e dall’apporto della componente magnogreca campana16. L’esemplare in questione, per le notevoli affinità che presenta con il più famoso esemplare da Trivento17, benché risulti più piccolo e di fattura meno pregevole, può essere datato in via del tutto preliminare ad età medio-ellenistica18.
I rinvenimenti più recenti nell’area risalgono al 2017 e riguardano l’ultimo lembo di una necropoli di epoca arcaica individuata in località Fonte Micune (fig. 1.11) nel Comune di Torrebruna23. Il sepolcreto ha restituito una coppia di kardiophylakes tipo Paglieta e, al margine dell’area funeraria, i resti di una strada antica24 che consentiva il collegamento con il sito fortificato di Colle Vernone. Le numerose ricerche hanno quindi messo in luce, negli anni, un sistema insediativo articolato, in cui il ruolo di santuari e di insediamenti minori, in combinazione con una ramificata e, ad oggi ancora poco conosciuta, rete viaria fungevano da scheletro portante dell’assetto territoriale e dello sfruttamento del territorio. Questa breve rassegna degli studi sul territorio conferma, inoltre, quanto la ricerca archeologica ha spesso segnalato per il Sannio interno, caratterizzato da un complesso sistema di insediamenti fortificati, gerarchicamente organizzati25, che presentano una forte interazione con il contesto geomorfologico e la viabilità.
Nel 1992, due progetti di ricognizione, relativi all’area della Comunità Montana dell’Alto Vastese, hanno segnalato due siti di interesse in località Il Monte19 e Quercia Lozzi20 (fig. 1.3); in seguito, nel 1998, la Soprintendenza Archeologica intervenne in loc. Colle Ciampette (fig. 1.4) per eseguire il recupero di due sepolture di epoca romana individuate in maniera casuale durante lavori agricoli21.
Insediamenti fortificati ampi e altri di minore entità hanno giocato un ruolo di hub con funzioni differenziate all’interno di un complesso network in cui appaiono preponderanti le necessità di controllo, difesa e sfruttamento del territorio. Dal central place, ai rifugi temporanei e stagionali, alle fortificazioni militari, ai punti di avvistamento e controllo, tutti i centri
Id. 1974, 177 Fratianni 2010, 171-173. Faustoferri supra. 14 Picciani 1995, 27. 15 Tale reperto secondo Aquilano proverrebbe invece dal declivio orientale del centro abitato di San Giovanni, in loc. Foresta; vedi Aquilano 2007, 4. 16 Per l produzioni più antiche cfr. in generale Colonna 1970. 17 Conservato presso il Museo Sannitico di Campobasso, Inv. 1002; Di Niro 1978, 30-32; Isernia 1980, 237-238; Capini and De Niro 1991, 167; Di Niro 2007, 210. 18 Sulle statuette di Ercole di questa fase cfr. Colonna 1975, 172-177; Biella 2016, 1-28 19 In quell’occasione fu rinvenuto anche un frammento di kalypter; vedi Faustoferri supra. 20 La ricognizione fu eseguita da D. Aquilano, E. Marino della Fazia, P. Riccitelli e P. Spaziano; vedi Aquilano supra. 21 Faustoferri 1997, 14-16; Faustoferri 2009, 316. 22 Aquilano 2007, 2-5. 23 Faustoferri 2018; Faustoferri supra. 24 Probabilmente un braccio minore del tratturo Ateleta-Biferno che attraversava il territorio passando per Torrebruna e Celenza. 25 La Regina 1974, 271-282; Caiazza 1995, 27-34; Menozzi and Fossataro 2006, 31-36; Faustoferri et al. 2010, 419-427; Letta 2010, 65-69; Steak 2013, 137-162. 11 12 13
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E. Di Valerio
Dati preliminari dalle indagini nel comune di San Giovanni Lipioni (CH): le aree archeologiche di Colle Vernone e Il Monte
fortificati appaiono parimenti collocati su sommità collinari e crinali26. Le cinte murarie di questi hub erano spesso completate dalle difese naturali determinate dall’orografia ed erano poste a controllo delle vie naturali, dei percorsi intervallivi e dei passi montani obbligati27. La protezione del territorio contemplava, oltre alla salvaguardia delle vie di comunicazione, dei terreni agricoli e dei pascoli, anche il controllo degli armenti e delle aeree sacre28 nelle quali, non di rado, erano presenti edifici destinati a contenere le offerte votive e i proventi della riscossione delle decime29 che venivano tesaurizzate per rimanere a disposizione in caso di necessità30. In un areale così vasto i centri fortificati erano quindi collocati secondo attente pianificazioni, con un intento di reciproca intervisibilità e di copertura totale del territorio e delle greggi che in esso pascolavano31.
questi santuari hanno continuato a mantenere la propria funzione aggregativa e di punti di riferimento per le comunità locali ancora per qualche tempo. Il progetto di scavo e ricognizione nel Comune San Giovanni Lipioni, in questi ultimi anni, si è concentrato su due fondamentali siti del territorio: il piccolo centro fortificato di Colle Vernone35 e l’area sacra in loc. Il Monte.
IL CENTRO FORTIFICATO DI COLLE VERNONE Le notevoli difficoltà, per quanto riguarda il rilievo e lo studio delle evidenze archeologiche, sono dovute maggiormente alla fitta vegetazione presente sulla cima del colle; ciononostante sono ben visibili diverse strutture murarie con funzioni differenziate: sia di sostegno alle terrazze, che regolarizzano l’insediamento e ne ampliano le aree sfruttabili, sia relative al circuito difensivo vero e proprio36. Tali strutture presentano una tecnica muraria a secco, con pietre di medie e grandi dimensioni (fig. 2). Come per altri centri fortificati italici l’apparato difensivo della cinta era probabilmente completato da opere lignee delle quali non restano purtroppo tracce visibili.
In questo quadro insediativo, fortemente caratterizzato da abitati rurali isolati32 e siti fortificati gerarchizzati, i santuari hanno assunto nel tempo anche un ruolo fondamentale come centri di aggregazione contribuendo al processo di autodeterminazione etnica delle comunità che vivevano in modo sparso nell’entroterra montuoso33. Tutte le assemblee più importanti, siano esse politiche, economiche o religiose, avevano luogo nei santuari maggiori, come suggerito talvolta dalla presenza di teatri in alcuni contesti di maggiori dimensioni34. Anche dopo la Guerra Sociale (91-88 a.C.), pur con la graduale scomparsa delle più antiche sovrastrutture amministrative territoriali tipiche della touta italica,
La fortificazione di Colle Vernone (quota 717 m s.l.m. circa), come diversi altri esempi nell’ambito dell’Italia centrale adriatica, è formata da almeno due cinte
Oakley 1995. La Regina1970, 196; Faustoferri et al. 2010, 419-427. 28 Caiazza1995, 31. 29 In riferimento al santuario di Schiavi d’Abruzzo vedi La Regina 2006, 47-53. 30 Sebbene il termine thesauros sia carico di implicazioni attinenti al modello greco che non rispecchiano appieno né la funzione né la rappresentatività degli edifici atti a contenere gli ex voto nei santuari delle comunità sabelliche, esso viene talvolta utilizzato per descrivere questo genere di edifici, la cui funzione principale sembrerebbe essere quella della custodia delle donazioni e delle riscossioni. Oltre al più noto caso di Pietrabbondante (La Regina 2014 con bibliografia di riferimento), anche all’interno di alcuni santuari minori sono noti edifici con funzioni simili: cfr. San Giovanni in Galdo (Coarelli and La Regina 1984), loc. Porcareccia di Vacri (La Torre 1997, 54-56), Ocriticum – Cansano (Strazzulla 2013, 59), Ercole Curino a Sulmona (Lapenna et al. 2010, 240), ecc. 31 Il criterio dell’intervisibilità era una conditio sine qua non per il buon funzionamento della rete difensiva; il limite semmai poteva essere rappresentato dalla tipologia di comunicazioni adottato tra i diversi nodi del sistema. Non si hanno notizie dettagliate in merito, tuttavia è verosimile che il sistema impiegato fosse più complesso del semplice segnale luminoso. Un esempio da tenere presente è quello ideato nel IV sec. a.C. da Enea Tattico e descrittoci da Polibio (Polib. X, 44) che consentiva la trasmissione di messaggi preimpostati anche di natura complessa. In questo modo potevano essere comunicati non solo gli spostamenti o l’avvicinarsi di truppe e la loro natura ma potevano anche essere impartiti ordini per raccordare le azioni belliche. L’esistenza di un “codice” di comunicazione appare come una necessità imprescindibile in relazione al tipo di combattimento adottato dalle popolazioni italiche basato su interventi repentini, agguati e incursioni da coordinare; cfr. Di Stefano 2001, 139. 32 Al di fuori dei centri fortificati esistevano certamente singole abitazioni rurali o aggregati di poche capanne raramente oggetto di ricerche sistematiche; questo aspetto, sebbene poco edito, è spesso attestato da rinvenimenti frutto di operazioni di salvaguardia da parte della Soprintendenza. Durante gli anni di attività professionale dello scrivente sono stati rinvenuti almeno tre contesti simili nelle province di Chieti (Civitaluparella) e Pescara (Collecorvino e Spoltore); si tratta normalmente di resti di abitazioni isolate o di piccoli aggregati di tre o quattro capanne, talvolta con piccoli annessi produttivi, databili tra IV e II sec. a.C. In qualche caso i rinvenimenti sono riportati dai notiziari delle Soprintendenze in forma di dati preliminari (Cherstich 2019, 287-289; Cherstich 2010, 559-564; Rosati 2011, 418-420) o sono desumibili dai risultati di progetti di ricognizione territoriale su vasta scala (Barker 1995; Bradley 2005; Menozzi and Fossataro 2006; Bradley, Fossataro and Menozzi 2008; Wilson 2008; Lock 2008; Bradley et al. 2011). Alla presenza di questi abitati sparsi isolati fa probabilmente riscontro la presenza sul territorio di un gran numero di piccoli nuclei funerari difficilmente riconducibili ad abitati fortificati d’altura. 33 Tra gli altri cfr. Letta1992, 109-124; Oakley 1995; Tagliamonte 2012, 97-108. Sul problema delle entità etniche cfr. anche La Regina 1981; Jehne – Linke - Rüpke 2013, 275-295; Scopacasa 2014, 69-87. 34 Cfr. Pietrabbondante (IS): La Regina 2014, con bibliografia di riferimento; Monte San Nicola di Pietravairano (CE): Tagliamonte 2012a. 35 Da non confondersi con l’omonima località nei pressi di Pietrabbondante (IS) che ha restituito nel 1975 un’ara in calcare con iscrizione osca. Cfr. Crawford 2011. 36 Lo studio e la mappatura del sito fortificato sono tutt’ora in corso. 26 27
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro aree, l’antichità del percorso sembra avvalorata dalla concentrazione dell’addensarsi delle segnalazioni archeologiche lungo il suo tracciato.
concentriche delle quali la più esterna notevolmente danneggiata e riconoscibile solo in alcuni brevi tratti37. L’estensione dell’area circoscritta dal circuito fortificato più interno, ben conservato, è di circa 1100 m², con un perimetro che si estende per circa 120 m. Il sito si presenta come una piccola fortificazione d’altura con marcate funzioni militari che potrebbe aver svolto, all’occasione, anche un ruolo di rifugio stagionale o temporaneo per le greggi in movimento lungo il tratturo38. Dalla conformazione del territorio circostante risulta tuttavia predominante il ruolo di controllo esercitato dalla fortificazione di Colle Vernone sulla via di penetrazione est-ovest che sfrutta la vallata fluviale del Trigno; parimenti evidente risulta lo stretto legame con l’area sacra in loc. Il Monte al quale si collega mediante una viabilità di crinale (fig. 1.c). Questi dati appaiono fondamentali per la definizione delle funzioni di questo genere di piccole fortificazioni39; il fatto di essere affacciate su vie di lunga percorrenza e non in diretto rapporto con queste e di essere servite da una viabilità minore locale ci dà certamente la misura del ruolo che strutture come queste dovevano esercitare sul territorio: un ruolo prevalentemente legato all’avvistamento e alla comunicazione a distanza mediante espedienti basati sull’intervisibilità con altri centri40.
IL SANTUARIO IN LOC. “IL MONTE” Nonostante le numerose attestazioni, gli scavi sistematici ed estensivi si sono concentrati in particolare sul santuario che, allo stato attuale delle ricerche, sembra articolato in due aree (fig. 3): una dedicata ad un culto all’aperto (Saggio β, area B) e una interessata dalla presenza di un sacello coperto (Saggio β, area A).
SAGGIO β, AREA B La prima struttura ad essere stata indagata, nel 2016, è stata un’edicola votiva a naiskos (fig. 3 “a”) di circa 5,8 m di lunghezza x 1,1 m di larghezza43, il cui scavo ha restituito una certa quantità di ex-voto databili tra inizio IV e II sec. a.C. Il naiskos fronteggia un ampio focolare (fig. 3 “d”) relativo alle fasi del culto che venivano celebrate all’aperto. Tra i molti materiali rinvenuti sotto il crollo del naiskos, ancora in fase di studio, alcuni meritano una menzione in questa sede per la loro rappresentatività.
L’ubicazione della fortificazione di Colle Vernone, inoltre, ci permette di ipotizzare che il piccolo centro abbia rivestito un ruolo di nodo intervallivo all’interno di un network di siti fortificati che hanno gestito e difeso il territorio e le sue risorse tra VI e I sec. a.C.
Tra gli elementi più interessanti un bronzetto raffigurante Cerbero (Rep. 0001, fig. 4) con uno schema iconografico noto e standardizzato che lo rappresenta con zampe leonine e coda terminante a protome di serpente, munito di tre teste: quella centrale, retrospiciente, presenta un lungo collo con demarcazione al garrese, quella sinistra si discosta orizzontalmente dal corpo dell’animale piegandosi all’indietro mentre, la testa destra, protesa in avanti, si fonde nel sottogola con la zampa corrispondente sollevata.
La relazione tra l’insediamento di Colle Vernone e l’area funeraria rinvenuta in loc. Fonte Micune41 (distanti 1km ca. l’uno dall’altra) è assicurata dalla presenza di un braccio del Tratturo Ateleta-Biferno (fig. 1.a) ancora funzionante e visibile anche sulle cartografie IGM42 (fig. 1.b). Sebbene ciò non costituisca necessariamente un presupposto per mettere in relazione diretta le due
37 Lo stato di conservazione non è sufficiente per tentare di definire l’ampiezza complessiva del sito che tuttavia potrebbe superare i 2000 m2; cfr. Di Valerio 2017, 481. 38 Al momento non sono attestate cisterne in prossimità del centro fortificato tuttavia, la presenza di una sorgente a F.te Micune (a quota 793 m s.l.m.), permette di ipotizzare, per l’approvvigionamento idrico, lo sfruttamento di piccole sorgenti locali mediante canalizzazioni a caduta. Non è da sottovalutare infine il cambiamento del tempo del regime idrico locale; le paleosorgenti potrebbero non necessariamente corrispondere alle risorgenze attualmente attive. 39 Sulle problematiche inerenti al popolamento cfr. Steak 2013. 40 Una situazione topografica simile è riscontrabile peraltro in area Pratuttia fra i comuni di Cermignano e Penna Sant’Andrea (TE) nell’area sacra in loc. Monte Giove dove, ai più famosi rinvenimenti dell’area funeraria e del santuario, entrambi in uso fra fine VII e inizio III a.C., si affianca un abitato fortificato d’altura ancora inedito e praticamente sconosciuto, in collegamento con il santuario mediante una viabilità di crinale. L’individuazione dell’abitato si deve ad un progetto congiunto delle Università Federico II di Napoli e G. D’Annunzio di Chieti, diretto dal Prof. A. Naso e dalla Prof.ssa O. Menozzi con la collaborazione delle Dott.sse M. Zinni, M. Bonadies e dello scrivente. Anche in questo caso il recinto fortificato sembra avere caratteristiche prevalentemente militari, con un perimetro di circa 200 m ed un’area che non superava probabilmente i 2000 m². Solo approfondite indagini di tipo stratigrafico potrebbero chiarire meglio eventuali articolazioni interne e dettagli cronologico-funzionali di questi siti fortificati. Per l’area sacra e la necropoli di Monte Giove - Penna Sant’Andrea cfr. Cianfarani - Franchi Dell’orto – La Regina 1978, 347-348, tavv. CXLI-CXLII; Prosdocimi 1979, 137-142; La Regina 1981, 129-137; Marinetti 1985, 117-140, 215-223; La Regina 1986, 125-130; d’Ercole 1986, 131-135. 41 Faustoferri 2018; Faustoferri supra. 42 Foglio 154, tavoletta IV, quadrante SO. 43 Corrispondente a circa 21 x 4 piedi in riferimento al pes italicus (o oscus) di 27,5 cm desunto dalle notizie tramandateci da Varrone, De re rust., 1, 10, da Frontino, De limit. (Trasl. Blume - Lachmann – Rudorff 1848, 30; Libertini 2018, 73) e da Igino, De cond. agr. (trasl. Blume - Lachmann – Rudorff 1848, 122; Libertini 2018, 163).
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Dati preliminari dalle indagini nel comune di San Giovanni Lipioni (CH): le aree archeologiche di Colle Vernone e Il Monte
Il torso è reso plasticamente con vita stretta, le zampe leonine, solide e ben tornite, terminano in una sfera che poggia sul basamento di fusione; la coda, come un serpente, si innalza piegandosi verso la testa centrale. Il tipo trova confronti diretti con tre esemplari: il primo conservato a Londra nel British Museum44, il secondo nella Bibliothèque nationale a Parigi45 il terzo è un esemplare conservato nel Kunsthistorisches Museum di Vienna46; quest’ultimo, nella poetica descrizione di E. von Sacken riferita alle teste, fornisce il quadro preciso del prototipo originario: “la testa di mezzo si alza come per fiutare, la seconda, con le orecchie abbassate, insidiosamente in agguato, torna indietro, la terza esprime una certa noncuranza leccandosi la zampa”47.
in un esemplare conservato nel Museo Sannitico di Campobasso (inv.1153)49. Dalla vicinanza dei due rinvenimenti e dalle dimensioni comparabili, il piedistallo potrebbe essere stato il supporto sul quale poggiava il Cerbero stesso; basi di questo genere, seppure con varianti formali, sono spesso pertinenti a bronzetti umbro-sabellici sin da epoca arcaica e fino al II-I a.C. Alcuni rinvenimenti monetali dallo stesso contesto stratigrafico ci aiutano tuttavia a chiarire la cronologia del deposito, in particolare: – Rep. 0031: sestante della serie librale della Ruota del peso di 42 g. da riferirsi all’espansione della potenza terrestre di Roma per opera di Appio Claudio Cieco che, nel 312 a.C. apriva la via Appia che da Roma conduceva a Capua. Il Crawford50 data queste emissioni agli anni compresi tra il 265 e il 242 a.C., indicando un peso standard dell’asse di gr. 270 circa. mentre l’Haeberlin51 proponeva gli anni 312-286 a.C. indicando un peso medio del sestante di gr. 44,49, confrontabile con l’esemplare da San Giovanni Lipioni;
Le matrici dei tre esemplari, per quanto ispirati allo stesso modello, appaiono lievemente diverse in alcuni dettagli, tanto da potersi considerare varianti iconografiche ma derivanti da un prototipo comune. In particolare, nell’esemplare del British Museum, mancante purtroppo della coda, è evidente come la testa destra sia intenta a leccare la zampa corrispondente sollevata e accostata alle fauci. L’esemplare francese, per quanto ben conservato, risulta di fattura lievemente più grossolana perdendosi la relazione diretta tra la testa destra, protesa in avanti, e la zampa destra sollevata tanto che nella descrizione l’esemplare viene descritto come “…marchant vers la gauche”48. Anche la coda diviene più spessa alla base e fortemente rastremata verso l’altra estremità perdendo la protome serpentiforme; in questo esemplare si perde, in sostanza, l’impostazione originaria del prototipo al quale sembrerebbe meglio corrispondere l’esemplare del British Museum. Il bronzetto rinvenuto a San Giovanni Lipioni, come quello viennese, sembrerebbe essere molto vicino al prototipo originario.
– Repp. 0024 e 0028: due esemplari di obolo in argento da Phistelia databili alla seconda metà del IV sec. a.C. con al dritto una testa maschile imberbe vista frontalmente, senza collo e con capelli corti; al rovescio un delfino a destra, un chicco di grano o orzo, un mitilo; con in legenda etnico in Osco – FISTELIS 52; il peso è di circa 0,37 gr. Queste coniazioni, diffuse soprattutto nel Sannio interno, servirono probabilmente a soddisfare i bisogni monetari delle popolazioni sannitiche.53 L’omogeneità cronologica del deposito, con materiali compresi tra la seconda metà del IV e la fine del III sec. a.C., costringe a rivedere la datazione di questa serie di bronzetti raffiguranti Cerbero che difficilmente potrebbe discostarsi di molto dall’ambito del III sec. a.C. e, in ogni caso, arrivare al più tardi al I a.C., epoca in cui l’intera area appare ormai in abbandono.
Tutti gli esemplari finora conosciuti sono privi del contesto di provenienza e sono stati variamente datati tra I e II sec. d.C. Il Cerbero da San Giovanni Lipioni sembrerebbe l’unico proveniente da uno scavo sistematico e costringerebbe ad una revisione di tutte le datazioni finora proposte per gli esemplari conosciuti.
Lo scavo del crollo del naiskos ha permesso altresì il recupero di alcuni frammenti di coroplastica, pertinenti sia ad elementi della decorazione architettonica che
Nella stessa unità stratigrafica del Cerbero, in prossimità di quest’ultimo, è stato rinvenuto una piccola base bronzea (Rep.0003) che trova un preciso confronto
44 Datato su base stilistica tra I e II sec. d.C.: BM Bronzes no. 950; LIMC (1992) VI.2, pl.15, n.67; LIMC (1992) 24-32, s.v. Kerberos (S. Woodford and J. Spier). 45 Datato su base stilistica tra I e II sec. d.C.: Babelon - Blanchet 1895, 340-341, n. 793. 46 von Sacken, 1871, 122, tav. 52.8. 47 Ibid. 48 Babelon - Blanchet 1895, 340-341, n. 793. 49 L’oggetto proviene da Gambatesa (CB) ma il luogo esatto del rinvenimento non è noto: Sogliano 1889, 150 n.1153; Di Niro 2007, 222-223, n. 458. Il progetto di ricognizione recentemente intrapreso dall’Università Federico II di Napoli e diretto dal Prof. A. Naso potrebbe gettare luce sui dettagli del popolamento antico dell’area. 50 Crowford 1974, 141, 716, 24/7. 51 Haeberlin 1910, 57-63. 52 Sanbon 1903, 333 n.831 a. 53 Campana 2007, 241-242.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro ciascuna variano tra 2,5 e 3 cm. La trama risulta molto regolare con elementi posizionati a distanza di circa 9/10 cm l’uno dall’altro (figg. 3 e 7). Il pavimento si conserva ancora tenace, nonostante le numerose fratture dovute ai movimenti del terreno ed alla pressione esercitata, dal basso verso l’alto, dalle radici di querce presenti nelle vicinanze.
a statuette tipo tanagrine, oltre che ad una probabile pinax, inquadrabili in via preliminare tra IV e II sec. a.C. I restanti ex-voto notevoli, rinvenuti finora, sono tutti appartenenti alla sfera bellica54; in particolare: – Rep. 0007: gancio in bronzo con corpo a palmetta ed uncino a punta di freccia appartenente ad un cinturone del tipo cosiddetto sannitico55 e databile all’intero arco del IV sec. a.C.56 (fig. 5);
In posizione centrale rispetto al perimetro dell’ambiente si trova uno pseudo-emblema (figg. 3 e 8) racchiuso da una doppia cornice realizzata con tessere bianche. Dall’esterno verso l’interno, la prima è realizzata con tessere calcaree più piccole disposte in linea semplice61. La fascia tra la prima e la seconda cornice è campita da un cementizio a base fittile con scaglie di calcare bianco62. La seconda cornice è formata da tessere bianche anch’esse irregolari, di modulo maggiore, disposte in linea semplice63. Sul lato corto, infine, vi sono due linee alternate realizzate rispettivamente con tessere irregolari fittili e in calcare bianco.
– Rep. 0026: cinturone in bronzo che presenta ganci fusi nella fascia, con uncino a forma di protome animale e una ricca decorazione geometrica incisa (fig. 6) inquadrabile entro la prima metà del IV sec. a.C.57 – Rep. 0013: punta di lancia in ferro foliata e costolata, lunga circa 25 cm, mancante della parte in cui normalmente si trovava l’innesto a cannone; l’oggetto è di difficile datazione anche per il cattivo stato di conservazione, tuttavia, appare coerente con oggetti di V e IV sec. a.C.58.
Il campo centrale dello pseudo-emblema presenta un elemento floreale a sei petali64, il motivo è inscritto in un cerchio, entrambi realizzati con grandi tessere irregolari di calcare bianco su fondo campito da tessere in terracotta. Agli angoli del motivo centrale, solo sul lato sinistro, sono presenti due tessere in calcare bianco, di forma irregolare piuttosto tondeggiante, a campire lo spazio risultante tra il cerchio e il quadrato.
SAGGIO β, AREA A Il naiskos “a” è collocato di fronte ad un piccolo Sacello individuato già nel 2014 ma oggetto di indagini sistematiche nella campagna di scavo 2017 (fig. 3 “b”). Il Sacello, di forma rettangolare, misura 4,7 x 3,6 m59 ed è costruito in mattoni crudi su zoccolo realizzato in opus incertum legato da terra; l’ingresso avveniva mediante un’apertura ampia circa 260 cm60 orientata a sud-est in direzione del naiskos (figg. 3 e 16). In origine il piccolo edificio presentava le pareti interne stuccate e dipinte. I resti degli intonaci recuperati attestano l’uso del giallo, del nero e del rosso.
Dietro allo pseudo-emblema, sul fondo del sacello vi è un incasso quadrangolare che probabilmente ospitava in origine un altare ligneo (figg. 3 e 7). A testimonianza della presenza di tale suppellettile mobile sono stati rinvenuti piccoli chiodi e borchie in ferro, da riferirsi probabilmente al suddetto altare ligneo, sul quale erano poggiate, al momento del crollo, una lucerna a volute tipo Deneveau Rom. IV-C65 (Rep. 0069 fig. 9) ed una piccola coppa in ceramica comune acroma a fondo convesso, con orlo svasato e labbro introflesso (Rep. 0087, fig. 10)66.
Il pavimento del sacello, conservato per circa il 70%, è realizzato in opus caementicium su base fittile di colore rossastro, nel quale tessere musive calcaree bianche, poste a distanza omogenea, costituiscono un reticolo punteggiato. Le tessere quadrangolari sono orientate parallelamente ai muri perimetrali e le misure di
Sul significato della presenza nei santuari sannitici di ex-voto attinenti alla sfera bellica cfr. Tagliamonte 2004, 95-125. Si rimanda ad altra sede la discussione sulle discrepanze cronologiche, sul significato simbolico e sulle implicazioni sociali dei cinturoni. Cfr. in generale Romito 1995, 12-13; Sannibale 1995, id. 1998 con indicazioni bibliografiche pregresse. 56 Suano-Burn 1986, 2; Suano1991, 135-139, tipo 1b; Romito 1995, tav VI, 7, tav. XIII, b; Sannibale 1998, tipo I.1. 57 Suano-Burn 1986, 3; Papi 1988, 152-154; Suano 1991, 135-139, tipo 8; Sannibale 1998, tipo III.1; cfr. anche Papi 1979, fig. 30. 58 Potrebbe trattarsi di un’arma da getto del tipo Weidig IV.H.2 o IV.H.3: cfr, Weidig 2014, 160-186. 59 Corrispondenti a circa 17 x 13 piedi. 60 Corrispondenti a circa 9 piedi. 61 Décor I, DM 1a. 62 Décor I, DM 103a var. 63 Décor I, DM 1a. 64 Décor II, DM 257b. 65 Deneveau 1969, 121. 66 L’oggetto è confrontabile con un rinvenimento proveniente dalla tomba n. 44 della necropoli in loc. Taverna di Schiavi d’Abruzzo (CH) che, per l’associazione con una lucerna tipo Esquilino e una coppetta a vernice nera tipo Morel 1223 c1 o 1225 b1, potrebbe essere datata agli anni a cavallo tra II e I sec. a.C.: cfr. Riccitelli 2006, 85, fig.12. 54 55
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Dati preliminari dalle indagini nel comune di San Giovanni Lipioni (CH): le aree archeologiche di Colle Vernone e Il Monte
I confronti, per quanto concerne il pavimento del sacello, si possono riscontrare in tutto l’areale di influenza sannitica, dall’Abruzzo meridionale al Molise e alla Campania67 ma anche nel Latium vetus 68.
materiale ceramico, cronologicamente databile non oltre il III sec. a.C. 73 Tra i contesti più antichi in colonie di ambito medio-italico va annoverato anche il caso di Alba Fucens74 (AQ) che conserva un’interessante pavimentazione al di sotto della Basilica Romana. Questa è costituita da un cementizio a base fittile con tessere quadrate (1,5 x 1,5 cm) in marmo bianco, stavolta disposte in senso obliquo, a formare un reticolo regolare ad una distanza di circa 9 cm l’una dall’altra.
Un confronto stringente è certamente il pavimento del cosiddetto thesauros del santuario di loc. Porcarecccia di Vacri (CH) 69, in cui l’opus caementicium di colore rossastro è decorato da tessere analoghe che formano rosette, mentre lo pseudo-emblema è caratterizzato da cerchi concentrici racchiusi entro una cornice quadrangolare. Tale pavimentazione è stata datata alla seconda metà del II secolo a.C. e, oltre ad esser simile al pavimento di San Giovanni Lipioni per tecnica di realizzazione e schema decorativo, presenta anch’esso un incasso quadrangolare destinato ad accogliere un’ara o una statua di culto sul fondo della cella.
In generale bisogna sottolineare che i pavimenti in battuto cementizio a base fittile, pur rappresentando un elemento di monumentalizzazione meno vistoso rispetto ad altre tecniche, come quelle musive, assumono particolare importanza tecnica nel tracciarne le linee evolutive nonché la diffusione in Italia centro-meridionale. In tal senso è possibile seguirne le principali linee di trasmissione ed evoluzione dei motivi dalla Sicilia, che presenta i più antichi esemplari, al Lazio e al Samnium, con una diretta e fondamentale mediazione della Campania75. Gli esemplari più antichi trovati in Sicilia datati con precisione su basi stratigrafiche, sono ascrivibili al IV secolo a.C. Già dal III secolo a.C. cominciano ad apparire in Italia centro-meridionale 76 , e sembrerebbe che proprio la regione del Samnium abbia giocato un importante ruolo nella trasmissione di questa tecnica al Lazio e a Roma stessa.
Anche a Larino70 (CB, loc. Piano San Leonardo, Via Iovine, vano 2) è stato rinvenuto un analogo pavimento in opus caementicium con decorazione punteggiata geometrica in tessere chiare, che può esser utilizzato come confronto in un contesto di prossimità geografica. Tra gli esempi più rappresentativi di tali pavimentazioni va considerato quello della domus ubicata presso il quartiere settentrionale della città di Fregellae - Arce (FR). Si tratta di un rivestimento in cementizio a base fittile decorato da un punteggiato di tessere bianche interrotto da uno pseudo-emblema realizzato in tessere bianche e rosse, le prime in calcare e le seconde in terracotta. Il motivo è delimitato da una linea di tessere bianche ed una di tessere rosse che circoscrivono un motivo geometrico costituito da un fiore a sei elementi71 non contigui rappresentati da petali affusolati72 in rosso su fondo bianco. Il pavimento è stato asportato e, al momento del distacco, al di sotto dello pseudo-emblema è stato rinvenuto un deposito votivo contenente
Interessante in tal senso è l’indicazione di Plinio relativa a questi pavimenti, che definisce “barbarica atque subtegulanea, in Italia festucis pavita”77, attestandone quindi la natura “straniera”, il fatto che fossero progettati per spazi interni, e l’idea che il mondo Italico avesse contribuito nell’evoluzione della tecnica esecutiva di tali pavimenti con l’utilizzo della mazzeranga78.
Cfr. Pompei, Casa dei cubicoli floreali o del frutteto regio I, insula 9.5, ala 7: cementizio punteggiato da grosse tessere nere inserite in posizione obliqua rispetto alle pareti (III-II sec. a.C.): PPM, II 1990, 10-11, fig.15; Casa a schiera, regio I, insula 9.10, corridoio 8: cementizio a base fittile punteggiato di tessere bianche inserite in posizione perpendicolare rispetto alle pareti (II a.C.): PPM, II, 1990, 145; Casa di Cerere, regio I, insula 9.13, tratto nord del cubicolo h: cementizio a base fittile ravvivato da scaglie di calcare rosso e nero, con due filari di grosse tessere distanziate (III-II sec. a.C.): PPM, II, 1990, 205; Casa non meglio identificata, regio I, insula 10.2.3, tablinio 6: cementizio a base fittile punteggiato di tessere bianche con andamento perpendicolare rispetto alle pareti (II sec. a.C.): PPM, II 1990, 239; Casa con atrio tuscanico, regio I, insula 16.4, tablinio 6, tratto sud-est: cementizio a base fittile punteggiato di tessere bianche piuttosto irregolari, inserite in posizione obliqua rispetto alle pareti; tappeto centrale con rete di meandri e quadrati concentrici con crocetta centrale (inizio II sec. a.C.): PPM, II, 1990, 1017. Cfr. Sepino (CB), santuario S. Pietro di Cantoni, cementizio della cella del tempio (fine IV-inizi III sec. a.C.): Matteini Chiari 1994, 23-29. 68 Ad esempio, ad Ostia, nelle Casette Repubblicane (I, IX, 1), domus A, ambienti B, C, D e H: Becatti 1961, 19-20, n. 24, tav. IV; Morricone Mantini 1973, 14, tav. III, 43. Nel Tempio dell’Ara Rotonda (I, XV, 6), cella, IV livello: Zevi 1970, 110. A Privernum nella Domus della Soglia nilotica, ambiente 3: Cancellieri 2010, 74. 69 La Torre 1989, 144-145, fig. 56; La Torre 1997, 54-56; Salcuni 2008, 278; Salcuni 2012, 134, fig. 151; Cirrone 2016, 449-458. 70 Stelluti 1988, 159-166, figg. 133-139. 71 Décor II, 257b. 72 Décor II, DM 257b. 73 Coarelli 1995, 21, fig. 12; De Albentis - Furiani 1997, 40-41; Pesando 1997, 280. 74 De Visscher et alii, 1954, 105, tav. IX, 2; Liberatore 2004, 137. 75 Lauter 1999, 58; Morricone Mantini 1973, 601-605. 76 Privernum, Domus della Soglia nilotica, ambiente 3: Cancellieri 2010, 74; Ostia, Casette Repubblicane (I, IX, 1), domus A, amb. B, C, D, H: Becatti 1961, 19-20, n. 24, tav. IV; Morricone – Matini 1973, 14, tav. III, 43. 77 Plin. Nat. Hist. 36, 185. 78 Cfr. nota precedente. 67
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro tegole negli strati di crollo, poteva trattarsi, piuttosto che di un temenos, di un portico coperto che cingeva il sacello su tre lati83. Nonostante sia stata indagata sono una porzione dell’intero complesso è stato possibile proporre un’ipotesi ricostruttiva (fig. 16).
Dai primi esempi meno elaborati si passò evidentemente ad uno sviluppo di tali pavimenti con decorazioni variegate dovute all’utilizzo di frammenti lapidei, scaglie irregolari, tessere più regolari, che creano solitamente schemata decorativi a contrasto con il fondo rossastro del caementicium a base fittile: dalle semplici cornici alle decorazioni geometriche, sino ad elementi decorativi sempre più elaborati, che potevano includere iscrizioni, motivi geometrici, decorazioni vegetali o animali. Durante la fase tardo-repubblicana questi pavimenti in caementicium con motivi ornamentali geometrici furono di fondamentale importanza per l’evoluzione del repertorio geometrico dei mosaici in bianco e nero.
Possibili confronti per l’impianto planimetrico sono costituiti dal Santuario in loc. Passo Porcari di Atessa (CH) 84, dal cosiddetto thesauros del Santuario in loc. Porcareccia di Vacri85 (CH), databile agli anni tra II-I sec. a.C. 86, dal santuario di Feronia in loc. Poggioragone di Loreto Aprutino (PE)87, dal Tempio C in loc. Tesoro di Luco dei Marsi (AQ)88 e dal Tempio L di Pietrabbondante (CB) (o Santuario Orientale)89.
La cronologia di questa tipologia ben specifica di pavimentazioni è stata rivista di recente sulla base di scavi e di elementi stratigrafici, con i più antichi esemplari in Sicilia, ascrivibili a contesti Punici79 fino agli esempi di poco successivi della Campania, di Fregellae80 e del Palatino81.
Sul lato nord-est del sacello, l’unico interamente conservato, gli scavi, ancora in corso all’interno di quest’area hanno messo in luce un’apertura d’ingresso di c.a. 1,2 m90 e un focolare di forma grossomodo circolare (fig. 3 “f ”), del diametro di circa 1m, costituito da un basamento di tegole appositamente ritagliate.
Gli esemplari più vicini al pavimento del Sacello di San Giovanni Lipioni sono stati datati ad un periodo compreso tra III e II secolo a.C. (Fregellae in primis). Nel caso specifico, l’irregolarità della forma delle tesserae, realizzate grossolanamente, sembra suggerire una cronologia abbastanza alta, confermata dalla datazione del contesto e della stratigrafia di scavo che sembrerebbe circoscrivere il pavimento alla seconda metà del III secolo a.C. In questo periodo per molti santuari di area sabellica si assiste ad una monumentalizzazione degli edifici sacri, che in precedenza presentavano culti a cielo aperto, con altari e/o naiskoi e probabilmente strutture lignee entro un temenos.
Dall’area “c” provengono, tra gli altri: – Rep. 0149: fiasca/bottiglia monoansata, a corpo globulare e con collo corto in ceramica comune, di una tipologia databile, in generale, tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale (fig. 11). Si tratta di una variante di una forma largamente attestata a Pompei91 normalmente interpretata come fiasca da vino, tuttavia, viste le ridotte dimensioni (h 14,5 cm), l’esemplare da San Giovanni Lipioni potrebbe essere stato utilizzato per contenere oli ed essenze per finalità rituali92. – Rep. 0092: turibulum93 con impasto da fuoco costituito da un’ampia vasca carenata decorata esternamente da cordonature su orlo e carena e sorretta da un alto piede ad anello (fig. 12). Internamente, nella vasca, sono presenti quattro decorazioni plastiche costituite da protomi femminili, disposte in maniera simmetrica radiale, alternate a elementi vegetali
Nelle campagne 2017 e 2018, attorno al Sacello, è stata messa in luce una struttura muraria a delimitare originariamente un’area di circa 8,3 x 16,5 m82, realizzata con la medesima tecnica costruttiva (fig. 3 “c”). Dai dati preliminari di scavo, vista la notevole presenza di
Grandi 2001, 71-86. Coarelli 1995, 17-30; Vincenti 2008, 41. 81 Papi 1995, 337-352; Pensabene 1995, 321-336. 82 Corrispondente a circa 30 x 60 piedi. 83 Si tratta di un dato preliminare che deve trovare ulteriori conferme dalla prosecuzione delle indagini nonché dallo studio delle superfici coperte in rapporto al quantitativo di tegole rinvenute. 84 Fabbricotti 1983, 85-119; Fabbricotti 1991, 211 ss.; Fabbricotti 1997, 75. 85 Esclusivamente per quanto riguarda il sacello vedi La Torre 1997, 54-56; Cirrone 2016, 449-458. 86 Sardella 2015, 261-292. 87 Staffa 1998, 44-51; Staffa 2004, 41. 88 Campanelli - Pennetta 2006. 89 La Regina 2014, 175-177. 90 Corrispondente a 4,5 piedi. 91 Gasperetti 1996, 38-40, n.1250 var. 92 Circostanza che sembrerebbe avvalorata dal rinvenimento di forme simili in due tombe della necropoli di Porto Recanati; cfr. Gasperetti 1996, 40, con bibliografia di riferimento. 93 Olcese 2003, 91, con bibliografia di riferimento. 79 80
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Dati preliminari dalle indagini nel comune di San Giovanni Lipioni (CH): le aree archeologiche di Colle Vernone e Il Monte
incisi a crudo94. La presenza di annerimenti da fuoco sulle pareti interne e nella zona dell’orlo permette di ipotizzarne un utilizzo come braciere per essenze o altre sostanze odorose.
dei bacini interregionali (Fiume Trigno) e del Progetto IFFI98, i fenomeni franosi, come pure quelli di erosione, risultano diffusi e caratterizzano nel loro insieme l’instabilità dell’area e la predisposizione a movimenti di massa sia superficiali sia profondi. Di norma l’accelerazione dei movimenti gravitativi avviene in coincidenza con periodi piovosi prolungati nel tempo o con eventi caratterizzati da apporti notevoli in un breve periodo temporale, normalmente prima del pieno inverno. Frane di scivolamento sono segnalate inoltre a seguito dello scioglimento rapido delle nevi e con terreni già saturi.
– Rep. 0082: skyphos con invetriatura piombifera e decorazione plastica (fig. 13) di probabile produzione microasiatica, confrontabile con un pezzo di provenienza ignota conservato presso i Musei Civici di Pavia95. Due esemplari di simili produzioni, uno skyphos ed un kantharos, sono conservati presso l’Archaeological Museum of Lemesos di Cipro96. Il kantharos in particolare presenta la medesima decorazione dell’esemplare da San Giovanni Lipioni, costituita da serie orizzontali di ovuli.
Il sito archeologico di San Giovanni Lipioni offre una testimonianza di danneggiamento delle strutture determinato da un movimento franoso99. In particolare, sono ben evidenti settori di “affossamento” e di “sollevamento” che hanno interessato le strutture in elevato e i pavimenti determinandone il cedimento. I crolli appaiono orientati secondo il verso di azione principale del movimento franoso, mentre le strutture conservate hanno subito traslazioni, flessioni o sollevamenti in relazione al loro orientamento in rapporto ai movimenti gravitativi (fig. 14). In generale i setti murari con andamento parallelo al fronte franoso hanno subito un sollevamento e un’inclinazione di circa 13° sull’azimut fino al ribaltamento; i setti murari perpendicolari invece hanno subito un sollevamento fino a 1m (in caso di strutture non vincolate) e deformazioni e ondulazioni (in caso di strutture vincolate). Queste ultime, operando un’azione frenante rispetto al movimento franoso hanno deviato il fronte di frana innescando un movimento rotazionale.
A questi importanti reperti va aggiunto un bronzetto raffigurante Ercole in assalto frutto di un rinvenimento sporadico a seguito di forti piogge97.
CONTESTO GEOLOGICO E GEOMETRIA DEL CROLLO DELLE STRUTTURE MURARIE Il santuario in loc. Il Monte è ubicato sugli affioramenti della Formazione Tufillo (parte dell’unità strutturale Tufillo) caratterizzata da alternanza di differenti litotipi carbonatici: i principali costituiti da calcari, marne, limi calcarei, litoareniti a clasti e cemento carbonatici. In particolare, l’intervallo stratigrafico della Formazione Tufillo affiorante nell’area dello scavo, e più in generale nell’area di San Giovanni Lipioni, è caratterizzato dall’alternanza di strati medi e sottili di peliti, marne e calcari a grana fine (calcilutiti), questi ultimi assenti negli affioramenti attorno all’area di scavo. È ben osservabile la costante fratturazione pervasiva con spaziatura metrica e decimetrica, che interessa i litotipi più litoidi. La giacitura nel tratto di versante dell’area dello scavo, prossima allo spartiacque, è costantemente a frana poggio con pendenze talora inferiori talora superiori a quella del pendio. Tutt’oggi, com’è anche rilevabile dalle cartografie del Piano di assetto idrogeologico
Dal punto di vista cronologico, i reperti che offrono un terminus post quem sono quelli rinvenuti all’interno del crollo delle strutture murarie del sacello; tali reperti sono ascrivibili per lo più tra il I secolo a.C. e il I sec. d.C.; particolarmente significativi sono una fibula a cerniera del tipo Alesia (Rep. 0153) con arco traforato tipo Demetz 1a2100 ed una coppetta troncoconica in sigillata italica (Rep. 0174, fig. 15), con bollo in cartiglio
94 Si tratta di recipienti dalla foggia molto caratteristica, talvolta conformati a calice, utilizzati prevalentemente in ambito sacro per la combustione di sostanze organiche, come documenta la presenza di ceneri nere molto grasse sulla vasca interna di numerosi esemplari. L’esemplare in questione presenta consistenti tracce di annerimento da fuoco all’interno della vasca. 95 Maccabruni 1987, 167-189, fig. 2 96 Lo skyphos è alto 6,4 cm con un diametro all’orlo di 8,9 cm ed è stato trovato nel villaggio di Episkopi presso la necropoli di Moundanoi nella chora di Kourion; (inv. n. T.12 / 21, LM 213/21); il kantharos, alto 9,5 cm e con diametro all’orlo di 8,8 cm, proviene dal villaggio di Vasa Koilaniou nel distretto di Limassol (inv. n. T.2 / 1, LM227 / 1). Entrambi gli esemplari provengono da botteghe di Tarso in Cilicia e sono stati datati al I sec. d.C.: cfr. Gushan et. al. 2015, 104-105; in generale sulla circolazione di queste produzioni cfr. Hochuli-Gysel 1976; Hochuli-Gysel 2002, 303-319. Si ringrazia il Direttore dell’Archaeological Museum of Lemesos Dott. Yiannis Violaris per le esaustive quanto precise informazioni riportate in questa nota. 97 Vedi Faustoferri supra; a questo si deve aggiungere il già citato rinvenimento menzionato in Picciani 1995, 27 proveniente dalle pendici de Il Monte. 98 https://www.progettoiffi.isprambiente.it/ 99 Un confronto in questo senso è rappresentato oltre che dal santuario preromano dedicato alla dea Feronia in loc. Poggioragone di Loreto Aprutino (PE) in uso dal IV sec. a.C. e sepolto da una frana rotativa intorno alla prima metà del III sec. d.C.: Staffa 1998, 44-51, nonché dal santuario in loc. Macchia Porcara di Casalbore: Johannowsky 1991. 100 Demetz 1999.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro rettangolare ANI[---]101, entrambi rinvenuti sull’interfaccia superficiale del crollo, a riprova di una sporadica e limitata frequentazione dell’area anche dopo il bellum italicum. Dopo la Guerra Sociale numerosi centri minori lungo bracci secondari della rete tratturale si contraggono o sono abbandonati a favore di centri su percorsi d’importanza emergente; non tutti i santuari sono abbandonati ma spesso assumono diverse caratteristiche architettoniche o di funzione territoriale. Il santuario in loc. Il Monte di San Giovanni Lipioni, probabilmente in virtù della vicinanza al tratturo Ateleta-Biferno, non sembrerebbe subire il medesimo esito se non a seguito dell’evento franoso precedentemente descritto.
Il secondo evento è testimoniato da un’epigrafe che ricorda la ricostruzione da parte di Caio Sulmonio Primo e Caio Sulmonio Fortunato, a seguito di un terremoto all’inizio del II sec. d.C., della pesa pubblica del pagus di Interpromium, sito ubicato nel territorio tra Scafa (PE) e San Valentino (PE)104.
Solo con la prosecuzione degli scavi si potrà spiegare meglio l’evoluzione e la funzione del santuario attraverso i secoli e all’interno del suo contesto areale. Tuttavia, già il quadro preliminare, delinea un ruolo non secondario di questo santuario nel contesto territoriale, se non altro per l’importazione e la trasmissione di modelli architettonici e schemi iconografici dai contesti limitrofi. Ciò che invece appare chiaramente è che l’evento franoso che determinò l’abbandono definitivo dell’area è da ricondursi cronologicamente al I sec. d.C. In questo intervallo cronologico il santuario era certamente ancora in uso; ciò sembrerebbe confermato dal basso indice di frammentazione e dal fatto che i reperti rinvenuti erano ubicati in prossimità delle loro presunte sedi originarie.
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Un dato interessante è rappresentato dalle evidenze delle micro-variazioni climatiche desunte dall’osservazione di numerose significative discontinuità fisiche a loro volta riscontrate in molte sezioni stratigrafiche di contesti archeologici. I risultati sembrano concordare sull’esistenza di un periodo caldo-secco in Italia centro-meridionale tra II e IV sec. d.C.102; un dato che permetterebbe di ipotizzare che il movimento gravitativo possa essere stato di natura sismo-indotta.
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Il primo, accaduto alla fine del I sec. d.C., è testimoniato da un’epigrafe rinvenuta presso Circello (BN) che ricorda la deposizione, da parte del senato e del popolo dei Liguri Baebiani, di una statua in onore di un patrocinatore che aveva finanziato la ricostruzione delle terme della loro città distrutte da un terremoto103.
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101 Si tratta di una piccola coppa troncoconica con parete dal profilo leggermente convesso, labbro arrotondato leggermente estroflesso e fondo esternamente convesso. Il bollo ANI[…] viene associato a produzioni aretine circolanti dalla seconda metà del I sec. a.C. fino ad età augustea: cfr. Maselli Scotti 1977, n. 20. In alternativa il bollo potrebbe riferirsi al ceramista padano Albanus, attestato più spesso come ALBANI, ALB/ANI, ALBA o ALBN, sia in planta pedis che non, operante nel I sec. d.C.: cfr. Cipriano - Sandrini 2005, nn.1-4. 102 Ortolani - Pagliuca 2007, 14-18. 103 Intensità epicentrale: 9.5, intensità massima: 9.5, magnitudo equivalente: 6.2: Guidoboni 1989; Guidoboni - Comastri - Traina 1994, 227. 104 Intensità epicentrale: 9.5, intensità massima: 9.5, magnitudo equivalente: 6.2: Id. 1994, 228.
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Fig. 1. Presenze archeologiche nell’area.
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E. Di Valerio
Dati preliminari dalle indagini nel comune di San Giovanni Lipioni (CH): le aree archeologiche di Colle Vernone e Il Monte
FIG. 2 – Porzione della cinta muraria di Colle Vernone.
Fig. 3. Planimetria del saggio in loc. Il Monte.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 4. Rep. 0001.
Fig. 5. Rep. 0007.
Fig. 6. Rep. 0026.
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E. Di Valerio
Dati preliminari dalle indagini nel comune di San Giovanni Lipioni (CH): le aree archeologiche di Colle Vernone e Il Monte
Fig. 7. Sacello con pavimentazione.
Fig. 8. Pseudo-emblema all’interno della pavimentazione del sacello.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 9. Rep. 0069. FIG. 11 – Rep. 0149.
Fig. 10. Rep. 0087.
FIG. 12 – Rep. 0092.
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E. Di Valerio
Dati preliminari dalle indagini nel comune di San Giovanni Lipioni (CH): le aree archeologiche di Colle Vernone e Il Monte
FIG. 13 – Rep. 0082.
FIG. 14 – Sezioni delle geometrie di crollo delle strutture.
FIG. 15 – Rep. 0174.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
FIG. 16 – Planimetria ricostruttiva preliminare del santuario in loc. Il Monte
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Ilaria Zelante
I mosaici dell’antico territorio peligno: Tutela e valorizzazione Alla prof.ssa Sara Santoro, relatrice della mia tesi che, con la sua enorme passione e capacità divulgativa, ha fatto nascere e crescere in me l’amore per le pavimentazioni musive e i cui preziosi insegnamenti guidano tutt’oggi le mie ricerche in quest’ambito. Abstract: aesthetic and antiquarian approaches used in the past centuries have been replaced by historical-conservative method, aimed to the conscious restitution of the formal and historical features of the artefacts. Through the mosaics of the Peligno’s region, will be provided documentary evidence of the evolution of this approach, with examples ranging from the 19th to the 21st century: by the so called “tecnica a strappo”, applied to recover the mosaics in the early 19th century, to the increasingly numerous cases of preservation and valorization in situ of the last years.
INTRODUZIONE
le problematiche ad essi connesse stimolarono, inoltre, sull’esempio del modello francese, un fiorire di associazioni a carattere nazionale, il cui scopo era quello di promuovere luoghi d’incontro e di confronto fra specialisti del settore. Nel 1990 venne costituita l’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico (AISCOM), grazie alla quale la conoscenza del patrimonio musivo italiano è cresciuta in modo esponenziale5.
Fino alla metà del secolo scorso gli studi sul mosaico antico furono dominati da letture antiquarie basate, esclusivamente, su analisi stilistiche tout court. L’interesse della maggior parte degli studiosi era dunque rivolto al mosaico figurato, ricco di spunti per indagini iconografiche e iconologiche. Lo studio di quelle immagini permetteva, in effetti, non solo di formulare riflessioni di carattere storico-artistico, ma anche di trarre considerazioni sulla cultura e società di quel tempo1.
Fu proprio a seguito del XVII Colloquio AISCOM, tenutosi a Teramo nel marzo 2011, e del grande entusiasmo scientifico da questo suscitato, che la Cattedra di Archeologia Classica dell’Università G. d’Annunzio di Chieti istituì, nel 2012, un gruppo di ricerca sul mosaico, portando avanti in due anni accademici il Laboratorio di Diagnostica, Documentazione e Restauro dei mosaici delle Terme di Chieti, in stretta collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo6. Nel 2015, grazie al progetto regionale di alta formazione “Talenti per l’Archeologia” PO FSE ABRUZZO 2007-2013, con percorso formativo (master) di II livello sul tema “Archeologia del Mosaico”, è stato possibile colmare una lacuna documentaria e conoscitiva relativa ai mosaici dell’Abruzzo7. La lunga fase di tirocinio legata al master, svolta da parte di dieci allievi
Fu H. Stern, durante il I Colloquio AIEMA tenutosi a Parigi nel 1963, a sottolineare la necessità di sviluppare approcci più sistematici per lo studio di questa categoria di manufatti2. La prospettiva settoriale aveva comportato che molti altri aspetti relativi ai rivestimenti pavimentali rimanessero del tutto al margine del dibattito come, ad esempio, l’importanza assunta da tutte le categorie di rivestimento3, il valore inscindibile della struttura pavimentale dal proprio contesto architettonico, lo studio dell’ornato geometrico e degli accorgimenti tecnico-esecutivi, fondamentali per la conoscenza dei processi artigianali4. Il rinnovato interesse per i rivestimenti pavimentali e
Ghedini 2005, 329-330. Come, ad esempio, la necessità di individuare un metodo utile alla classificazione degli elementi ornamentali, l’importanza di una definizione terminologica, l’idea di elaborare uno strumento per la raccolta della documentazione in modalità oggettiva. Ghedini, Clementi 2001, 661. 3 Cementizi, commessi laterizi, sectilia e tessellati a decorazione geometrica, non solo figurata. Solo i pioneristici studi di Marion Blake, già nel 1930, avevano dato importanza a pavimentazioni con ornato di tipo geometrico. Ghedini, Bueno, Didoné 2011, 261-262. 4 Ghedini, Baggio, Toso 1998, 177; Bueno, Lugari 2014. 5 Ghedini 2016, p. 4. 6 Il gruppo di lavoro, costituito da studenti e collaboratori, è stato diretto dalla prof.ssa Sara Santoro, e coordinato dalla dott.ssa M.C. Mancini, per l’ambito universitario; il Dr. Geol. S. Agostini, la dott.ssa A. Rossi e la dott.ssa S. Lapenna responsabili per la Soprintendenza, mentre l’intervento di restauro è stato coordinato dalla restauratrice I. Pierigè. 7 Mancini, Santoro 2017, 333-335. 1 2
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro In questo contributo, esaminando i dati estrapolati dalle schede, sarà possibile ottenere un’analisi quantitativa dei manufatti conservati e musealizzati in situ, ma anche di tutti quelli rimossi dalle loro aree d’origine e collocati in musei, magazzini o andati perduti nel tempo. L’analisi si concentrerà sui rivestimenti pavimentali di area peligna, cercando di delineare, in modo sintetico, i diversi approcci che nel tempo ne hanno caratterizzato gli interventi di tutela e valorizzazione.
selezionati per il corso, si è concentrata sulla schedatura sistematica dei mosaici presenti nella regione, secondo le modalità della Banca Dati TESS8, sistema messo a punto dall’Università di Padova. La collaborazione fra i due gruppi di ricerca, a cui si è aggiunto quello dell’Università di Teramo9 per gli aspetti di applicazione della Virtual Reality per la valorizzazione dei beni culturali, ha dato luogo alla creazione del LabDAM, Laboratorio di Documentazione e Archeometria del Mosaico, come centro di ricerca inter-ateneo (Università di Chieti, Teramo e Padova), presso il quale è stata effettuata la schedatura TESS10. I primi dati di tipo statistico-quantitativo emersi dalla compilazione delle schede, con alcune osservazioni e riflessioni su aree particolarmente interessanti per le notevoli evidenze, sono stati presentati al XXII Colloquio AISCOM, tenutosi a Matera nel 2016.
CONSERVAZIONE E MUSEALIZZAZIONE DEI PIANI PAVIMENTALI ANTICHI: UN APPROCCIO ANTIQUARIO Strappo, rinterro e demolizione dei pavimenti qualificano la maggior parte degli interventi conservativi realizzati nel territorio peligno, dal XIX fino a buona parte del XX secolo.
Su questo panorama di riferimento e avendo preso parte a tutte queste iniziative e progetti fin dal 2012, si è inserito il lavoro per la tesi magistrale di chi scrive. Sul modello dei volumi realizzati da F. Rinaldi e M. Bueno per l’individuazione della cultura musiva del Veneto e della Toscana11, è stato svolto uno studio simile su una limitata area della regione Abruzzo: l’antico territorio peligno12. I principali risultati emersi da questo lavoro sono stati presentati al XXIII Colloquio AISCOM, tenutosi a Narni (TR) nel 201713.
Le cause della sistematica decontestualizzazione dei piani pavimentali sono da identificarsi, in primo luogo, nella difficoltà tecnica del tempo di conservare in situ strutture così delicate. Il secondo fattore, invece, è sicuramente da identificare nella scarsa attenzione rivolta al contesto di provenienza e al dato storico-stratigrafico16. È solo recentemente, infatti, che il termine “contesto” è diventato un fattore preminente nelle indagini: le sequenze stratigrafiche, l’ubicazione, la funzione, la planimetria e le fasi di vita dell’edificio di provenienza sono considerati, oggi, informazioni dalle quali non è possibile prescindere per una piena comprensione della cultura musiva di un territorio17. Diversamente dalle pitture o dagli apparati scultorei, i mosaici sono stati percepiti per lungo tempo come unità decorative autonome e, pertanto, soggetti alla pratica dello strappo in modo incondizionato, così da poter essere esposti come quadri alle pareti dei musei, elemento distintivo dei criteri di allestimento della museografia storica18.
Pavimentazioni provenienti dalla stessa area, trattate solo marginalmente nella tesi, così come nel resto delle pubblicazioni fino ad ora edite e invece ricche di elementi di elevato interesse, sono tutt’oggi oggetto di approfonditi studi. Sono state completate, ad esempio, le indagini relative all’analisi tecnica e stilistica dell’apparato decorativo per il mosaico con maschera oceanica da Sulmona, che hanno condotto, tra gli altri risultati, ad una nuova ipotesi cronologica14. Altro campo conoscitivo emerso dal censimento sistematico delle pavimentazioni abruzzesi nell’ambito del Progetto Tess è stato quello relativo alla tutela, alla valorizzazione e alla fruizione. L’insieme dei “dati anagrafici” 15 dei manufatti inseriti nelle schede ha contribuito a definire il quadro della distribuzione delle evidenze archeologiche, mettendo in luce la condizione attuale dei reperti.
La dispendiosa opera di distacco dei pavimenti musivi, unita alle problematiche connesse a questo tipo di intervento e alle difficoltà riscontrate nella conservazione di manufatti di dimensioni ingombranti, non raramente, ha comportato la scelta di sezionarli, distaccandone solo la parte considerata di maggior
8 Il Progetto TESS, diretto dalla prof.ssa F. Ghedini e coordinato dalla dott.ssa C. Angelelli, è stato creato con lo scopo di realizzare un censimento di ogni tipologia di rivestimento pavimentale attestata in Italia, nonché utile base di partenza per indagini su altri possibili campi conoscitivi. Ghedini et alii 2016. 9 Coordinato dalla prof.ssa R. Morselli. 10 Le schede sono consultabili sul portale TESS, http://tess.beniculturali.unipd.it. 11 Bueno 2011 e Rinaldi 2007. 12 Con la definizione “antico territorio peligno” si intende l’attuale conca Peligna e la Valle Subequana. È stata presa in considerazione anche località Capo Pescara, che fa riferimento al territorio di Popoli (PE), in quanto importante snodo viario tra le aree culturali vestine e peligne. 13 Zelante 2018. 14 Zelante 2021 c.s. 15 Luogo di collocazione, se in situ o in altra sede e se la pavimentazione è visibile e pertanto fruibile; stato di conservazione; stato giuridico; numero di inventario ecc. 16 Bueno, Cuniglio 2016, 44. 17 Corlàita Scagliarini 1974-1976, 5-8. 18 Coralini 2005, 23.
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I. Zelante
mosaici dell’antico territorio peligno: Tutela e valorizzazione
pregio, rappresentata solitamente dall’emblema/pseudoemblema centrale.
il distacco della pavimentazione in tessellato geometrico bicromo con inserti marmorei25, rinvenuto in via Italica a Corfinium nel 188826. La scelta è stata effettuata in tempi in cui tale categoria di rivestimenti rientrava ancora nel novero delle tecniche povere e pertanto oggetto di sistematico rinterro. Il primo a compiere questa pioneristica operazione di tutela è stato Antonio De Nino. Non sappiamo con precisione se tale scelta è stata dettata dalla piena consapevolezza dell’importanza rivestita da questa tipologia di manufatto o, più probabilmente, da una semplice coincidenza. Seppur isolata, tuttavia, resta una precoce testimonianza ad un approccio che diventerà prassi solo a partire dalla fine del secolo successivo.
Tra gli esempi più significativi di questo approccio di stampo segnatamente antiquario, si ricorda il caso della pavimentazione rinvenuta nell’antico municipium di Sulmo nel 1903, in via Acuti19. Della pavimentazione, composta da più pannelli giustapposti caratterizzati da diversi motivi geometrici, è stata documentata, distaccata e conservata solo la parte relativa allo pseudoemblema centrale20. Altro esempio è da individuare nel lacerto musivo policromo, a decorazione geometrico-figurata21, riportato in luce nel 1932 nella zona suburbana di Sulmo, in via Matteotti22. Al momento della scoperta, in base a quanto riportato da Van Wonterghem, le dimensioni del rivestimento pavimentale erano di 3,70 x 2,40 m. Ad essere note sono anche alcune foto scattate al momento del rinvenimento, che ci mostrano una decorazione figurata centrale inserita in un campo con motivi di tipo geometrico. Anche in questo caso è stata effettuata una scelta basata su criteri di tipo estetico, a discapito della stesura meno appariscente, quale era quella geometrica. Ad essere distaccata, pertanto, è stata solo la parte dello pseudoemblema. Il frammento oggi conservato ha infatti dimensioni di 1,40 x 2,20 m (fig. 1).
CONSERVAZIONE E MUSEALIZZAZIONE IN SITU DEI PIANI PAVIMENTALI ANTICHI: ALCUNE CONSIDERAZIONI Dalla seconda metà del XX secolo, grazie alle nuove conquiste metodologiche degli studi sul mosaico antico, ad un approccio di tipo antiquario si è venuto a sostituire un atteggiamento di tipo storico-conservativo. Con l’affermazione del concetto di pavimento-struttura, più attento al suo valore di documento storico legato al contesto architettonico di appartenenza, il mosaico inizia ad essere considerato nella sua piena dimensione tridimensionale e, in quanto tale, dove possibile, valorizzato in situ.
Entrambi i lacerti sono oggi esposti nella sezione romana del Museo Civico di Sulmona, nel Palazzo della SS. Annunziata. Il settore archeologico del Museo, inserito nel percorso di visita alla città già dalla fine dell’Ottocento, è stato nuovamente allestito nel 2011. Le pavimentazioni, inserite in contenitori che ne nascondono il supporto sottostante, sono disposte a terra mostrando, di fatto, una concezione di musealizzazione di stampo moderno.
I criteri di conservazione e musealizzazione in situ impongono un’attenzione maggiore nei confronti dei manufatti archeologici, notevolmente superiore a quella impiegata per la loro conservazione in contesti chiusi come i musei. La scelta di conservare in situ comprende, infatti, oltre all’attuazione di operazioni di pronto intervento, di attività di restauro e periodica manutenzione, anche l’installazione di sistemi di protezione stagionale o di coperture architettoniche, che assicurino sia la conservazione che la fruizione dei resti antichi.
I pavimenti non distaccati, anche se impreziositi da disegni geometrici, sono invece stati oggetto di rinterro, in molti casi senza un’adeguata documentazione. È questo il caso, per citare gli esempi più rappresentativi, della pavimentazione di viale Roosevelt23 a Sulmona, o di quelle individuate presso la strada provinciale Castelvecchio Subequo-Gagliano Aterno24.
Fin dalle prime fasi di un rinvenimento, dunque, necessità primaria è quella di individuare un iter progettuale, dove è prioritaria la funzione protettiva e conservativa della copertura, sia essa temporanea o permanente27. Le scelte non potranno mai essere univoche, ma ogni caso dovrà essere valutato in quanto ogni bene archeologico ha delle proprie specificità28.
Se alla base della selezione di operazioni di distacco o rinterro furono sempre i criteri estetici a prevalere sugli aspetti storico-documentari, degno di nota è stato
De Nino 1903, 623. L’esistenza di ulteriori motivi geometrici caratterizzanti il campo decorativo della medesima pavimentazione, sono stati scoperti solo nel 1997, grazie ad un nuovo intervento effettuato nella medesima zona. Tuteri 2011, 76. 21 Zelante c.s., 566-568. 22 Van Wonterghem 1984, 234-235. 23 Piccirilli 1912, 149-150. 24 De Nino 1898, 72. 25 Décor I, 123c. 26 De Nino 1888, 645. 27 Tedeschi 1996, 11. 28 Cacace et alii 2006, 45-64. 19 20
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Gli sforzi fatti per valorizzare i rivestimenti musivi, in contesti urbani ed extraurbani, in musei e in parchi archeologici, si contraddicono con il caso della domus romana rinvenuta in largo Salvatore Tommasi, a Sulmona. Lo scavo effettuato nel 2006 ha restituito una sequenza di vari ambienti, dei quali si è conservata una piccola porzione delle murature in opera reticolata, con intonaco dipinto nei toni del rosso e del nero e sette rivestimenti pavimentali, sia in tessellato che in cementizio34.
Il più diffuso sistema di protezione in situ è sicuramente la tettoia29. In area peligna questa tipologia di copertura la ritroviamo a tutela di rivestimenti pavimentali, come quelli del santuario extraurbano di Castel di Ieri (fig. 2) e quelli di Piano S. Giacomo a Corfinio. Quest’ultima è stata oggetto di una campagna di monitoraggio microclimatico e di rilevamento di qualità dell’aria, all’interno di un progetto di ricerca scientifica per lo sviluppo di una metodologia finalizzata alla progettazione di coperture di protezione, messo in pratica dall’ISCR e conclusosi nel 200230.
L’area del rinvenimento è situata in una stretta stradina di fronte la biblioteca comunale, nelle immediate vicinanze di Corso Ovidio e Piazza XX Settembre, in pieno centro storico. Anche se al momento della scoperta l’area fu immediatamente segnalata come significativamente importante dalla stessa Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo, ben presto, a causa della mancanza di fondi, fu ricoperta, recintata e abbandonata. Dopo cinque anni dalla scoperta di questa domus, l’amministrazione comunale è riuscita ad ottenere dei fondi (160.000 euro), decidendo finalmente di valorizzare e musealizzare l’intera area.
I criteri impiegati per l’uso della tettoia, che rientra certamente tra i sistemi di copertura maggiormente efficaci per la conservazione dei rivestimenti pavimentali in situ, sono, ancora tutt’oggi, in costante aggiornamento31. Ancora troppo spesso, infatti, le tettoie vengono realizzate secondo una progettazione che mira alla musealizzazione dell’area archeologica, dove i valori formali ed estetici prevalgono su quelli conservativi. Tutto questo ha, inevitabilmente, delle ripercussioni sui manufatti, compromettendo la loro salvaguardia e integrità. Nella casistica delle musealizzazioni in situ effettuate nel corso del XX-XXI secolo in area peligna, rientrano sicuramente quelle realizzate in contesti urbani. È questo il caso, ad esempio, delle pavimentazioni relative alla Domus di Arianna o di quelle rinvenute sotto la Chiesa di S. Gaetano, nella città di Sulmona.
Come illustrato all’inizio del paragrafo, la pratica solitamente seguita oggi quando ci si trova dinanzi a questo tipo di ritrovamenti, è la conservazione in situ e, anche per questo caso infatti, è stata dichiarata la volontà di adottare tale soluzione. Il progetto approvato e realizzato dal comune per “valorizzare” i resti archeologici, tuttavia, ha portato alla realizzazione di due percorsi pedonali, una parte di pavimentazione erbosa, soluzioni illuminotecniche, installazione di cartelli illustrativi, qualche posto auto e nuovi arredi urbani.
I resti della Domus di Arianna sono stati riportati alla luce durante i lavori di ristrutturazione di un locale al pianterreno del Palazzo della SS. Annunziata, tra il 1991 e il 1993. L’area, interamente musealizzata, costituisce il punto conclusivo del percorso museale archeologico che si sviluppa all’interno del Palazzo. Al fine di consentirne una più chiara lettura, le varie fasi cronologiche delle strutture murarie sono evidenziate da malta di diverso colore. Una passerella metallica soprelevata consente al visitatore di attraversare l’intero sito e di osservare da vicino i diversi livelli stratigrafici. Su appositi pannelli sistemati lungo le pareti sono state parzialmente ricomposte le pitture che abbellivano la Domus32 (fig. 3).
Sorge però spontanea una domanda: l’intento originario non era quello di valorizzare e musealizzare i resti archeologici?
I mosaici nella Chiesa di S. Gaetano, dopo l’intervento di consolidamento e restauro, sono oggi visibili mediante una pavimentazione in vetro33.
Considerando che vi erano fondi sufficienti per realizzare il “microparcomuseale” e che l’antica struttura sorgeva proprio dinanzi la biblioteca comunale, luogo
Il 23 luglio 2012 si è tenuta la cerimonia d’inaugurazione che ha “mostrato all’intera città gli interventi di recupero realizzati: un “microparcomuseale” urbano, flessibile e multifunzionale che ha come compito principale quello di informare. Sono tre le direttrici seguite dai progettisti: comunicazione, mobilità e valorizzazione del verde”35 (fig. 4-5-6).
29 La letteratura sull’argomento è piuttosto vasta e si rimanda ad essa per approfondire un tema abbastanza articolato sia per gli aspetti di tutela/conservazione che di valorizzazione/musealizzazione. Laurenti 2006. 30 Citterio, Giani 2006, 175-178. 31 Difficoltà si continuano a riscontrare nel far conciliare la conservazione con la fruizione, l’aspetto formale ed estetico delle nuove istallazioni e la necessità di interferire il meno possibile con il costruito archeologico. 32 Ad essere rappresentati erano l’unione di Dioniso e Arianna, la disputa tra Eros e Pan e altri miti e simboli del ciclo dionisiaco. Tuteri 1995, 72-74; Tuteri 1999, 361-376. 33 La chiesa, in cui si svolgono funzioni religiose con rito ortodosso, è aperta a domeniche alterne. Nel caso la si volesse visitare in altri giorni, l’apertura è consentita solo su previa richiesta. 34 Tuteri, Violante, Pizzoferrato 2012, 93-102. 35 Le parole riportate sono state tratte da un articolo presente sulla pagina ufficiale del comune di Sulmona (www.comune.sulmona.aq.it).
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I. Zelante
mosaici dell’antico territorio peligno: Tutela e valorizzazione
di studio, di ricerca e di custodia della memoria passata, non sarebbe stato meglio garantire la visibilità della domus sottostante? Restituire veramente alla comunità cittadina e ai numerosi turisti che ogni anno si recano a visitare questo splendido comune abruzzese, la domus con i suoi mosaici? Recandosi in questo luogo, oggi, non si ha assolutamente la percezione di quanto ritrovato, restando solo un angolo di città simile a molti altri. Questo caso è, dunque, una palese dimostrazione che la tutela e la valorizzazione comportano un impegno di cui si deve avere consapevolezza.
Bueno, M. and Cuniglio, L. 2016. “I pavimenti romani e la loro tutela e valorizzazione: prime considerazioni sull’esperienza toscana”, Restauro Archeologico 22, 37-55. Bueno, M. and Lugari, A. 2014. “Per una definizione della cultura musiva di Aquileia: schemi geometrici e tecniche esecutive nelle prassi di bottega della prima età imperiale”, in C. Angelelli (ed.) Atti del XIX Colloquio dell’Associazione italiana per lo studio e la conservazione del mosaico. Isernia, 13-16 marzo 2013 (Roma) 487-496. Cacace, C., D’Agostino, S., Ferroni, A.M., Laurenti, M.C. 2006. “La vulnerabilità archeologica: efficienza e adeguatezza delle coperture di protezione”, in M.C. Laurenti (ed.) Le coperture delle aree archeologiche: Museo Aperto (Roma) 45-64.
CONCLUSIONI Come messo in luce nei paragrafi precedenti, l’elaborato non ha la pretesa di esporre nuove soluzioni in campo di tutela e valorizzazione, né di proporre nuove tecnologie per la conservazione dei rivestimenti pavimentali in situ. Il suo obiettivo è quello di delineare i diversi approcci che nel tempo hanno caratterizzato gli interventi di tutela e valorizzazione dell’area peligna: da quelli più datati, quali il distacco dei manufatti con esposizione al di fuori del contesto di origine, a quelli più recenti di conservazione in situ, all’interno di aree archeologiche di libera fruizione o di aree accessibili su richiesta o ancora inseriti all’interno di percorsi museali.
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Altro dato emerso è il quadro della collocazione attuale del patrimonio musivo peligno, con la relativa stima quantitativa. Dei 74 piani pavimentali, databili tra l’età tardorepubblicana e l’età tardoantica, riconducibili a un totale di 31 contesti edilizi, a loro volta distribuiti tra 3 centri urbani (municipia), 3 santuari extraurbani e un vicus36, 24 sono conservati e musealizzati in situ, mentre 3 sono stati distaccati e conservati in museo. Una pavimentazione, quella rinvenuta in via Barbato a Sulmona, è stata distaccata e, stando a quanto riportato dalla documentazione edita37, dovrebbe essere conservata nei magazzini del Museo Civico. Le pavimentazioni conservate in situ, ma non visibili, sono 15, quelle disperse o non documentabili sono 31 (fig. 7-8).
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È possibile affermare, dunque, che il gruppo più consistente, complici soprattutto le errate pratiche del passato, è quello dei pavimenti dispersi o ricoperti, con oltre 47 unità. Ad essere visibili in situ o in museo sono, invece, 27 pavimentazioni.
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Fig. 1. Lacerto musivo con maschera oceanica conservato presso il Museo Civico di Sulmona (foto autore).
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I. Zelante
mosaici dell’antico territorio peligno: Tutela e valorizzazione
Fig. 2. Copertura pavimenti santuario extraurbano Castel di Ieri (foto rete).
Fig. 3. Musealizzazione Domus di Arianna, Sulmona (foto autore).
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 4. Ricostruzione virtuale del progetto “microparcomuseale” di Sulmona (foto www.comune.sulmona.aq.it).
Fig. 5-6. Largo Salvatore Tommasi (foto www.comune.sulmona.aq.it).
Fig. 7-8. Grafico distribuzione attuale del patrimonio musivo peligno (elaborazione autore).
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Rocco D’Errico
I mosaici della Domus di Bacco a Teramo tra progetto di restauro e valorizzazione
Abstract: The domus of Bacchus is dating to the Roman Imperial period and is located in the city centre of Teramo, in northern Abruzzo. Only three rooms are still preserved of the original structure: the largest one has a concrete pavement with insertions of marble slabs. A second room preserves a black and white mosaic consisting of a wide perimeter band with white tesserae followed by a frame with black tesserae and a diamond motif decoration with a star composition in the centre. In the third room there is a mosaic with white tesserae and a black perimeter band. In the centre a polychrome pseudo-emblem is presenting the representation of the bust of Bacchus. The face of the god is that of a young man.The mosaicists used tesserae in bright colors, not only lithic but also made of glass paste, different shades of pink and orange prevail for the face, while traces of blue and green for the realization of the vine leaves and feral elements. The representation of Bacchus is enclosed by a double frame with black tiles and a pinkish internal meander on a white background.
L’interesse di chi scrive per i mosaici della domus di Bacco di Teramo nasce dalla partecipazione alle lezioni del laboratorio di restauro del corso di specializzazione in Archeologia del Mosaico “Talenti per l’Archeologia”1, di cui la professoressa Santoro, sempre molto attiva nello studio dei mosaici antichi, era responsabile scientifico2. Vorrei omaggiare la sua memoria presentando i risultati del lavoro di studio e restauro dei mosaici della Domus di Bacco e del progetto di valorizzazione del patrimonio musivo teramano Teramomusiva3.
Nel 2015 la conservazione delle strutture (Fig. 13) della domus era ancora buona, ma era evidente che fosse assolutamente necessario un intervento di manutenzione e pulizia per conservarle al meglio e renderle fruibili. Infatti negli anni, favoriti dall’umidità dell’ambiente, si erano sviluppati numerosi attacchi di biodeteriogeni e si era accumulata una grande quantità di depositi costituiti da polvere, cenere, rifiuti vari ed escrementi di piccoli animali, che contribuivano a creare un ambiente ideale per la proliferazione di ulteriori agenti deteriogeni di vario genere. Un intervento di manutenzione era assolutamente urgente soprattutto sui resti pavimentali di tessellato e battuto cementizio, la cui conservazione sarebbe stata compromessa per sempre se lasciati a lungo in quelle condizioni.
LA DOMUS Verso la metà degli anni ‘90 del secolo scorso in via dei mille, nel centro storico della città di Teramo, durante i lavori di costruzione di un edificio di civile abitazione, nello scavo dei seminterrati adibiti a stalli per le automobili, sono stati riportati alla luce tre ambienti (Fig. 1) pertinenti ad una domus romana di epoca imperiale. Essi sono solo una parte della domus che doveva essere molto più grande e forse proseguiva negli ambienti posti a breve distanza ritrovati nella zona ex Lisciani, oggi Domus dei delfini. Le strutture murarie sono realizzate in opus mixtum (Fig. 3) con grossi ciottoli di fiume, tegole e mattoni e conservano parte degli intonaci policromi (Fig. 16) che sembrano avere una decorazione geometrica. Secondo il dott. Angeletti, allora funzionario responsabile dello scavo e autore delle prime e più estese pubblicazioni sulla domus, tutti gli ambienti sembrano appartenere alla stessa fase di costruzione, sembra però almeno per i mosaici poco plausibile la datazione proposta al sec. I a.C.4
Gli allievi del corso, con la collaborazione e la supervisione della restauratrice dott. A. Donatucci, hanno eseguito l’intervento di manutenzione e pulizia dei resti pavimentali, partendo dalla rimozione dei detriti e delle polveri, alla eliminazione graduale degli agenti biodeteriogeni, intervenendo prima con la stesura a pennello di un blando erbicida e poi con la rimozione meccanica con spazzole dei residui biologici ormai inattivi. Dopo aver effettuato alcuni saggi di pulizia (Fig. 22) si è deciso di pulire i mosaici con impacchi di polpa di cellulosa bagnata, a seconda della superficie e del tipo di sporco da rimuovere, con EDTA Tetrasodico o con Carbonato di Ammonio. Dopo aver rimosso gli impacchi è stata effettuata una pulizia meccanica con bisturi, spazzole, spugne Wishab. Per consolidare e proteggere il mosaico è stato infine applicato un leggero strato protettivo di una resina acrilica Acryl ME.5
Progetto regionale di alta formazione “Talenti per l’Archeologia” PO FSE ABRUZZO 2007-2013, percorso formativo (master) di II livello sul tema “Archeologia del Mosaico”. 2 Mancini, Santoro 2017. 3 D’Errico 2015. 4 Angeletti 2006, Angeletti 2012. 5 Un ringraziamento particolare alla restauratrice dott. A. Donatucci, della ditta Encausto srl, per messo a disposizione i dati sugli interventi eseguiti. 1
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro L’intervento di manutenzione dei resti pavimentali ci ha dato l’occasione di osservarli meglio e di acquisire nuovi dati che possano dare interessanti spunti di studio, infatti finalmente possiamo mettere a disposizione degli studiosi una documentazione fotografica che possa consentire uno studio più approfondito.
centro del tappeto musivo, la rendeva visibile anche dopo aver disposto i triclini vicino alle pareti ai lati della stanza. Anche nel nostro caso la posizione centrale dello pseudoemblema potrebbe indicare che l’ambiente 2 era un triclinio, magari estivo vista la grande apertura posta davanti ad un grande ambiente scoperto, forse un peristilio (Fig. 2).
IL MOSAICO DI BACCO
Le tessere del mosaico dell’ambiente 2 hanno una dimensione minima di 3,4 mm e una dimensione massima di 12 mm, quelle che compongono il volto del dio sono di dimensione massima di 5 mm e hanno una dimensione media di 4 mm e, solo alcune, minima di 3,4 mm, mentre le tessere della cornice e del tappeto musivo sono di circa 1 cm.
L’ambiente 2 era posto al centro di altri due, infatti presenta sia un’apertura laterale verso l’ambiente 1 e sia verso l’attuale muro di contenimento dietro al quale probabilmente ci dovrebbe essere un altro vano pertinente alla domus. L’ambiente 2 è pavimentato con un tessellato policromo figurato (Fig. 12), composto da una fascia monocroma (Décor I, 1y) a tessere Bianche seguita da una fascia monocroma (Décor I, 1y) a tessere nere che incorniciano il tappeto musivo in tessellato monocromo (Décor I, 105b), con tessere bianche, a ordito a filari spezzali. Nel campo centrale incorniciato da una doppia linea (Décor I, 1i) di tessere nere seguita da una greca delineata (Décor I, 30c) di colore rosato su fondo bianco, seguita da una doppia linea (Décor I, 1i) di tessere nere, si trova lo pseudoemblema in tessellato policromo che raffigura il busto del dio Bacco (Fig. 23) con corona di pampini e pelle ferina sulle spalle, i tratti del volto, delicati e giovanili, sono appena caratterizzati, i colori sono molto sobri, predominano il rosato, l’arancio, con tracce di azzurro e verde, entrambi in pasta vitrea, per la realizzazione dei pampini e della pelle ferina, mentre sono evidenti le sottolineature in nero. Nell’esecuzione dello pseudoemblema si è utilizzata la tecnica della disposizione centripeta delle tessere, infatti le tessere di dimensioni più grandi sono disposte a file regolari a ridosso della cornice esterna mentre quelle che circondano la figura del dio presentano dimensioni minori e sono disposte su allineamenti che seguono e si adattano al contorno della figura.
La figura del dio Bacco (Fig. 23) seppur legata a modelli e contorni classici, di probabile pertinenza ellenistica, tecnicamente non presenta più le accortezze dei mosaici ellenistici, non ha i dettagli chiaroscurali, e la qualità pittorica dei mosaici in opus vermiculatum. Infatti se una delle caratteristiche peculiari dei vermiculata, è la grandezza delle tessere inferiore ai 4 mm, lo pseudoemblema raffigurante il Bacco non rientra affatto in questa tipologia di mosaico. La mancanza di un intento realistico rende lo pseudoemblema molto diverso dal vicino emblema del mosaico del leone dell’omonima domus teramana, in cui è chiara la volontà di imitare il realismo e i chiaroscuri dal gusto pittorico. Invece nella figura di Bacco le forme del volto sono talmente approssimate da essere chiaramente riconoscibili solo da una distanza di almeno 1,5 m, ad esempio l’occhio è composto da tre tessere di colore diverso e quindi è riconoscibile solo guardando tutto il volto da lontano. Purtroppo non avendo a disposizione i dati raccolti durante lo scavo stratigrafico del sito, finora gelosamente custoditi dalla Soprintendenza, per la datazione dei mosaici ci si dovrà affidare in questo contesto solo ad una pura analisi stilistica con tutti i limiti che questo tipo di metodologia comporta. L’analisi è per di più complicata dall’assenza di confronti puntuali con altri mosaici o pitture parietali. La scarsezza di dati pubblicati sul mosaico non aiuta nella datazione. Inoltre la proposta del dott. Angeletti di collocare il mosaico al I sec. a.C. sembra assai improbabile oltre a non essere accompagnata da nessuna giustificazione6, risulta invece più plausibile la proposta di Maria Cristina Mancini di datare i resti pavimentali della domus agli inizi del I sec. d.C.7
La soglia presenta un pavimento in tessellato bicromo con motivi geometrici, una linea doppia (Décor I, 1i) di tessere nere incornicia un motivo decorativo composto da losanghe, di tessere nere, inscritte tra due pelte affrontate inscritte, alternate a rettangoli, di tessere nere, poggiati sul lato corto caricati da una losanga, di tessere bianche, inscritta. La figura di Dioniso è sicuramente un tema assai diffuso nei mosaici e nelle pitture parietali delle abitazioni romane, forse perché legato a temi connessi ai piaceri della vita. Ne abbiamo numerosi esempi nei primi secoli dell’impero, come quello nel tessellato policromo del triclinio della domus di Dioniso a Brescia di II sec. d.C., ove la posizione della raffigurazione della divinità, al 6 7
Il mosaico di Bacco sembra stilisticamente rispondere alla tendenza che tra il I e il II sec. d.C. rende le raffigurazioni nei mosaici romani sempre più sintetiche e astratte, e pur mantenendo un minimo di realismo tendono ad essere sempre più stilizzate; potrebbe
Angeletti 2006, p.133, Angeletti 2012, pp.10,11. Mancini 2009, p. 80.
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R. D’Errico
I mosaici della Domus di Bacco a Teramo tra progetto di restauro e valorizzazione
quindi essere stato creato nella media età imperiale come peraltro sostenuto già dal Salcuni, secondo cui comunque la realizzazione corsiva ed inesperta della figura di Dioniso non consente un inquadramento cronologico preciso8. La dimensione delle tessere dei pavimenti della domus di Bacco in media tra i 5 e i 10 mm, potrebbe essere forse un altro indizio per una datazione alla media età imperiale, infatti le tessere nei mosaici romani della penisola italica diventano sempre più grandi dopo il I sec. d.C., si passa gradualmente dai pochi millimetri dell’opus vermiculatum ad 1 cm e oltre nei mosaici a grandi tessere sempre più frequenti dal II sec. d.C.
sono numerose e di diversi colori: verde, verde-grigio, celeste, blu, rosso, rosa, giallo11 (Figg. 24, 26, 27). L’ampio uso di tessere di pasta vitrea porta sicuramente la datazione del mosaico a un periodo posteriore a quello repubblicano. Vale la pena di formulare un’ulteriore ipotesi di datazione considerando che negli ambienti italici tra I e II sec d.C. il mosaico in bianco e nero tende a prevalere sul mosaico policromo e solo dopo l’età antoniniana si riaffermano i mosaici policromi con esempi notevoli nell’età dei severi. Forse lo pseudoemblema del dio Bacco potrebbe appartenere a questa epoca ed essere pertinente ad una fase di vita della domus successiva a quella del mosaico geometrico dell’ambiente 1. Del resto la città di Interamnia come testimoniano numerosi ritrovamenti archeologici, tra cui il meraviglioso busto dell’imperatore Settimio Severo, era una città florida almeno fino all’età dei Severi, e quindi sarebbe plausibile la presenza di un’edilizia privata di pregio come la domus di Bacco. Purtroppo in assenza di confronti puntuali e dati archeometrici più precisi, si possono fare solo ipotesi. Si auspica di stimolare un dibattito che possa portare alla formulazione di una datazione più puntuale.
La rappresentazione del Dio, seppure gradevole, presenta diverse incertezze realizzative, a partire dal riquadro che incornicia il busto che non è al centro della stanza ed è di forma trapezoidale irregolare e non quadrato, alla realizzazione degli occhi e di altri particolari con tessere di colore inadatto, alla scarsezza di dettaglio e realisticità di alcuni particolari tanto da renderli di dubbia identificazione, come ad esempio le decorazioni da cui fuoriesce il collo di Dioniso che ad alcuni sono sembrati brandelli di pelle ferina9 e ad altri una sorta di calice di foglie10, la cui colorazione è assai vivace e fantasiosa con colori che vanno dal giallo intenso al blu, dal rosso all’arancione. La figura del Dio viene rappresentata con il volto di un giovane reso con ombreggiature e con un disegno assai stilizzato e indeterminato. Poco realistico e confuso è anche il disegno della capigliatura ricca di pampini, di acini d’uva, o forse di bacche di edera, con sulla fronte quello che sembra un nastro rosso e arancione. A parte la rappresentazione di scorcio del volto, non vi è nessun tentativo di conferire profondità, privilegiando linee di contorno decise, ma poco realistiche, sembra che l’artista abbia voluto stilizzare e semplificare l’iconografia del Dioniso, senza indugiare nei particolari ma riproducendo in maniera riconoscibile i principali caratteri identificativi della divinità. Più che come una rappresentazione realistica l’immagine è stata forse pensata come un semplice simbolo, decorazione, in cui fosse riconoscibile l’effige del Dio.
L’AMBIENTE 1 E IL MOSAICO GEOMETRICO Nell’ambiente 1 è presente un pavimento in tessellato bicromo geometrico, composto di tessere bianche e nere (Fig. 4). La fascia perimetrale è costituita da un’ampia fascia di tessere monocrome bianche (Décor I, 1y), il campo centrale è costituito da una fascia monocroma di tessere nere (Décor I, 1y) seguita da una fascia monocroma (Décor I, 1y) di tessere nere, che incorniciano una composizione triassiale di losanghe adiacenti, con effetto di stelle di sei losanghe, delineata (Décor I, 211a), le losanghe sono a loro volta campite da un’altra losanga disegnata con due file di tessere nere e campita di tessere bianche. Il mosaico presenta notevoli integrazioni del disegno realizzate con tessere diverse che testimoniano un restauro realizzato in antico del pavimento. In una lacuna è visibile il substrato del pavimento con il disegno preparatorio inciso. Un confronto assai puntuale per questo schema decorativo lo possiamo trovare, sempre in Abruzzo, a Sulmona in uno dei mosaici della domus di Largo Tommasi12. Entrambi i mosaici sembrano aver creato un’elaborazione in bianco e nero dell’antico motivo decorativo dei cubi prospettici, assai diffuso nei mosaici policromi già dal I sec. a.C., infatti la combinazione di più losanghe di
Per il mosaico di Bacco i mosaicisti hanno utilizzato sia materiali litici e sia di pasta vitrea, le tessere bianche del fondo sono di calcare, mentre quelle nere sono di roccia vulcanica, forse basalto; la formazione di scaglie indica che le tessere arancioni (rosato) sono di calcare marnoso (Fig. 25). Inoltre vi sono tessere grigio scuro, forse utilizzate negli interventi di restauro in antico, di calcare arenario (Figg. 5, 7, 10). Le tessere di pasta vitrea
Salcuni 2012, p. 91. Angeletti 2012, pp.10,11. Salcuni 2012. 11 Tutti dati e le conclusioni sul materiale di cui sono composte le tessere sono stati realizzati e assai gentilmente concessi dal geologo S. Agostini, docente dell’università G. d’Annunzio Chieti. 12 Tuteri, Violante, Pizzoferrato 2012. 8 9
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro dimensione di circa 2 cm (Fig. 14) disposte in composizione ortogonale di squame adiacenti (Décor I, 215a).
uguali dimensioni genera stelle a sei punte che creano l’effetto visivo complessivo dei cubi prospettici. Il fatto che questo motivo decorativo sia un’evoluzione dell’antico motivo a cubi prospettici che viene in qualche modo fuso con i più recenti motivi a stelle composte da losanghe mi porta a pensare che il mosaico possa essere datato tra la seconda metà del I sec. d.C. e il II sec. d.C. La soglia è composta da una linea tripla (Décor I, 1 t) di tessere bianche seguita da una cornice composta da una fascia monocroma (Décor I, 1y) di tessere nere, seguita da una fascia monocroma (Décor I, 1y) di tessere nere che incornicia una fascia monocroma (Décor I, 1y) di tessere nere. La parte di pavimento in comune tra l’ambiente 1 e 3, è pavimentata con un breve tratto di tessellato rustico di scaglie monocrome (Fig. 11), opus segmentatum monocromo (Décor I, 102a), che si inserisce proprio tra il tessellato dell’ambiente 1 e il battuto cementizio dell’ambiente 3. L’ambiente 1 era collegato con una piccola apertura all’ambiente 2, mentre l’alloggiamento di un cardine della porta sul basolo di pietra rimasto testimonia che l’ingresso verso l’ambiente 3 era protetto da una porta (Fig. 11). Le mura sono state quasi del tutto rasate e rimangono solo minime tracce d’intonaco giallo ocra decorate da una linea di colore bruno (Fig. 16), che possono far immaginare la presenza sulle pareti di decorazioni geometriche.
I RESTAURI ANTICHI Nei pavimenti a mosaico sollecitati dall’azione meccanica del calpestio, e dai lenti ma inesorabili movimenti impercettibili del substrato, l’asportazione anche di poche tessere dell’ordito può causare un deleterio effetto domino in grado di smontare l’intera superficie, quindi per limitare i danni è necessario un intervento di restauro tempestivo13. I mosaici della domus di Bacco hanno subito diversi interventi di restauro in antico che possono indicare una lunga frequentazione dell’abitazione oppure possono essere dovuti a eventi sismici, come sembrerebbe indicare la non planarità dei due pavimenti, che presentano diversi avallamenti e rialzi, forse dovuta alla liquefazione dei suoli sottostanti durante un evento sismico con effetti cosismici collaterali anche lenti. Seguendo la classificazione degli interventi di restauro elaborata dal David14 per i mosaici di Ostia, possiamo distinguere nella domus di Bacco due varianti delle categorie principali: A, risarcimenti o rappezzi, B, ricostruzioni che prevedono l’uso della stessa tecnica del mosaico originale per le riparazioni (Fig. 31). Il tappeto musivo dell’ambiente 2 presenta numerosi interventi di restauro a tessitura mimetica (Fig. 21), tipologia A1, che sono chiaramente riconoscibili sia per il cambio di tessitura e sia per l’utilizzo di tessere di colore e dimensione diversa (Fig. 6). Addirittura in un rimaneggiamento a tessitura punteggiata, tipologia A2, del fondo bianco sono state inserite numerose tessere di colore nero messe in posizione casuale (Fig. 20). La soglia del mosaico dell’ambiente 2 presenta una riparazione (Fig. 30) assai estesa in cui il motivo originale di tre cornici quadrangolari formate da linee a tre file di tessere nere su fondo bianco, inserite l’una dentro l’altra e separate da due cornici composte da due file di tessere bianche, veniva sostituito dal motivo a losanghe, inscritte tra due pelte affrontate, alternate a rettangoli, caricati da una losanga inscritta. Nel mosaico geometrico dell’ambiente 1 è perfettamente conservato il disegno preparatorio inciso (Figg. 7, 8, 9) sullo strato di malta su cui venivano posizionate le tessere. Lo spazio è stato squadrato e suddiviso con grande precisione per riportare in maniera efficace la decorazione geometrica, sicuramente non ha fatto un lavoro altrettanto preciso la squadra di mosaicisti che ha lavorato nell’ambiente a fianco creando in maniera assai imprecisa la cornice in cui è inserito lo p seudoemblema con l’effige di Dioniso. Il mosaico dell’ambiente 1, composto da tessere bianche
L’AMBIENTE 3 L’ambiente 3 per le sue grandi dimensioni e la tipologia di residui pavimentali era molto probabilmente aperto, forse era un peristilio (Fig. 2), anche se sembra non si siano trovate tracce di un colonnato, su cui si affacciavano gli ambienti della domus. L’ambiente presenta diverse tipologie di pavimenti, la maggior parte della superficie è coperta da un battuto cementizio a base litica con inserti litici, nelle zone laterali a ridosso del muro di cinta sono chiaramente visibili delle composizioni a croce di 5 tessere nere (Fig. 28) e degli inserti litici di marmo di colori vari, alcuni a forma di cuore (Fig. 29). Nella parte del pavimento antistante l’ingresso dell’ambiente 2 il battuto cementizio lascia il posto ad un opus scutulatum policromo (Figg. 17, 18) su fondo di tessellato rustico monocromo (Décor I, 102d). Verso il centro dell’ambiente 3 ai bordi del pavimento in signino ad una quota leggermente inferiore è posta una pavimentazione composta da due strisce, che probabilmente si congiungevano formando un angolo retto, composte ognuna di almeno 6 linee di laterizi posti a spina di pesce, opus spicatum (Figg. 2, 15, 19). Nella parte centrale d ell’ambiente esterno si trovano delle tessere quadrate di pietra e terracotta della
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Lugari 2017. David 2001.
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I mosaici della Domus di Bacco a Teramo tra progetto di restauro e valorizzazione
in calcare e nere in pietra vulcanica, forse basalto, è stato integrato in numerose parti con tessere grigio scuro di arenaria fine (Fig. 5).
(edd.) Atti del XXII Colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico, Matera 16-19 marzo 2016 (Tivoli). Lugari, A. 2017. “Analisi tecnica dell’evoluzione delle metodologie costruttive delle decorazioni pavimentali dal periodo medio repubblicano al primo Impero”, in C. Angelelli, D. Massara, A. Paribeni (edd.) Atti del XXII Colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico, Matera 16-19 marzo 2016 (Tivoli).
CONCLUSIONI Questo contributo nasce dalla necessità di non rendere vano il lavoro svolto dall’equipe di studenti e docenti del corso “Talenti per l’Archeologia” che guidati dalla prof. Santoro hanno approfondito gli studi e messo in atto un intervento di pulizia e restauro conservativo dei resti pavimentali della domus di Bacco. Le poche pubblicazioni dedicate a questo sito sono per lo più delle presentazioni preliminari o delle schede molto sintetiche che non mettono a disposizione degli studiosi sufficienti dati per farsi una propria opinione. Il primario intento di questo contributo è mettere a disposizione degli studiosi la documentazione raccolta per consentire un più approfondito studio per valorizzare il patrimonio archeologico della domus. Infatti il progetto Teramomusiva15, completato durante il tirocinio del suddetto corso, vuole proporre una musealizzazione diffusa nel centro storico della città di Teramo dedicata ai numerosi siti archeologici molto spesso ricchi di resti pavimentali di gran pregio. Si tratta quindi un percorso archeologico dedicato ai mosaici, che oltre a consentire ai visitatori di ammirare pregevoli esempi dell’arte musiva romana, consenta loro di comprendere come fosse strutturato il quartiere residenziale di Interamnia tra il periodo tardo repubblicano e l’età imperiale16.
Mancini, M. C. 2009. “Pavimentazioni e decorazioni musive italico-romane di Interamnia Praetuttiorum”, in Quaderni di Archeologia d’Abruzzo. Notiziario della Soprintendenza per beni archeologici dell’Abruzzo, 1. Mancini, M.C., Santoro, S. 2017. “Il Progetto TESS in Abruzzo. Distribuzione, tipologia e cronologia dei pavimenti musivi in area centro adriatica (III sec. a.C. - IV sec. d.C.): primi risultati della ricerca”, in C. Angelelli, D. Massara and A. Paribeni (edd.) Atti del XXII Colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico. Matera, 16-19 marzo 2016 (Tivoli). Salcuni, A. 2012. Pitture parietali e pavimenti decorati di epoca romana in Abruzzo (Bonn). Tuteri, R., Violante, S., Pizzoferrato, O. 2012. “Sulmona: pavimenti della domus di Largo Salvatore Tommasi”, in F. Guidobaldi and G. Tozzi (edd.) Atti del XVII Colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico. Teramo, 10-12 marzo 2011 (Tivoli).
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Il portale web teramomusiva.it, url: https://www.teramomusiva.it/, è il fulcro del percorso archeologico dedicato ai mosaici teramani, oltre ada avere virtual tour, la mappa del percorso e pagine dedicate ai siti archeologici del centro storico di Teramo, ha anche informazioni accessorie per i turisti su altri monumenti e sulle attrazioni enogastronomiche. La domus di Bacco ha una pagina dedicata con una ricca galleria fotografica, url: https://www.teramomusiva.it/index.php/mosaici/. 16 D’Errico 2017. 15
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 1. Pianta dell’area di scavo della domus di Bacco (da Angeletti 2006)
Ambiente 2
Ambiente 1
Ambiente 3
Fig. 2. Proposta di ricostruzione dei tre ambienti della domus (elaborazione Autore).
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I mosaici della Domus di Bacco a Teramo tra progetto di restauro e valorizzazione
Fig. 3. Veduta generale dell’area di scavo, dopo i lavori di pulizia e consolidamento dei mosaici.
Fig. 4. Mosaico geometrico dell’ambiente 1.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 5. Ambiente 1, particolare di un intervento di risarcimento.
Fig. 6. Ambiente 1, particolare di un intervento di risarcimento.
Fig. 7. Ambiente 1, particolare del mosaico geometrico, sono evidenti i restauri antichi e il disegno preparatorio nelle lacune.
Fig. 8. Ambiente 1, particolare del substrato del mosaico con con le incisioni del disegno preparatorio.
Fig. 9. Ambiente 1, particolare del substrato del mosaico con con le incisioni del disegno preparatorio.
Fig. 10. Ambiente 1, particolare di un intervento di risarcimento con tessere grigie.
Fig. 11. Ambiente 1, soglia.
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I mosaici della Domus di Bacco a Teramo tra progetto di restauro e valorizzazione
Fig. 12. Ambiente 2, mosaico con pseudoemblema di Bacco.
Fig. 13 Il sito della domus di Bacco prima dei nostri interventi di pulizia e manutenzione si presentava in un preoccupante stato di abbandono, numerosi erano i problemi di conservazione prodotti da depositi di detriti, dall’umidità e dagli attacchi biologici.
493
Fig. 14. Ambiente 3, grandi tessere di ceramica disposti in composizione ortogonale di squame adiacenti.
Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 15. Ambiente 3, opus spicatum.
Fig. 16. Ambiente 1, particolare della decorazione parietale.
Fig. 17. Ambiente 2, soglia.
Fig. 18. Ambiente 2, soglia.
Fig. 19. Ambiente 3, particolare dell’opus spicatum.
Fig. 20. Ambiente 2, particolare di un intervento di risarcimento.
Fig. 21. Ambiente 2, particolare di un intervento di risarcimento.
Fig. 22. Ambiente 2, particolare di un saggio di pulitura.
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I mosaici della Domus di Bacco a Teramo tra progetto di restauro e valorizzazione
Fig. 23. Il volto del Bacco raffigurato nello pseudoemblema del mosaico dell’ambiente 2.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 24. Particolare della figura di Bacco, tessere blu e verdi di pasta vitrea.
Fig. 25. Particolare della cornice dello pseudoemblema.
Fig. 26. Particolare della figura di Bacco.
Fig. 27. Particolare della figura di Bacco, le tessere nere, gialle e verdi sono di pasta vitrea.
Fig. 28. Particolare battuto cementizio a base litica dell’ambiente 3.
Fig. 29. Particolare battuto cementizio a base litica dell’ambiente 3.
Fig. 30. Soglia ambiente 2, particolare del restauro antico che ha portato alla sostituzione del precedente motivo decorativo.
Fig. 31. Particolare tappeto musivo ambiente 2.
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Massimo Bianchi
Il concetto di parco archeologico secondo Sara Abstract: This paper explores the path followed by Sara Santoro in the development of her concept of archaeological park and the experiences She conducted to this regard. It started from the first excavation in Castelraimondo of Friuli, to the contribution given to the Park Archeologique of Bliesbruck-Reinheim, passing through the experiences in the Centenary Insula of Pompei, in the Scauri site of Pantelleria and, finally, in the recovery of the Roman Amphitheater of Durres. As husband, I was a privileged observer of this scientific and human challenge. As enthusiast of Archeology and researcher of Business Organization I shared her studies and experiences making, with Sara, a bridge between these two disciplines and having, from the beginning of our careers, countless of feedbacks and opportunities of mutual enrichment. This is a reason to rethink the Sara’s concept about the archaeological park and the organizational and managerial aspects of her activity and her convinced projection towards the research, the promotion of cultural heritage and the dissemination of the knowledge of ancient history. The concept of Archaeological Park, according to Sara’s thought, has many facets as the theme of this conference suggests, with a variety of approaches applied in her writings and activities. This path begins from the involvement of the local community and the scientific community as exemplarily implemented in Castelraimondo. Another pillar is the knowledge of the ground trough an attentive and intelligent survey. This knowledge of the terrain was oriented to the identification of its pivots, both from the point of view of the excavation strategy and the design of visit paths that become a story about the people who lived in ancient times the park places and exploited it in their different aspects. The ability to imagine the life of the past through an exhibition aimed at spreading knowledge as an element of attraction for the public and scholars, is essential to understand Sara’s concept of park. It is also relevant her interpretation of what discovered by the excavations and the characterization of the sites to enhance their usability at all levels. In the today’s world, with messages and images increasingly entrusted to fleeting means such as databases and computer media, what is striking in this archaeologist, is her care in combining the preservation of the historical memory with the sustainability of practical solutions for the maintenance of structures and materials against the ravages of time and the damages more or less intentionally caused. To all this concepts, we have to add the awareness of a Park that has to deal not only with the attraction of scholars and visitors, but also with the reactions of acceptance or rejection coming from the surrounding society and depending on the strategy of its realization. The concept of Archaeological Park led Sara naturally to the Cultural Enterprise in its various aspects and, more generally, to that idea of multidisciplinary and militant Archaeology that drove her in the course of a life too soon interrupted.
ABSTRACT
di archeologa militante e che ha cercato, sino ai suoi ultimi giorni di vita, di trasmettere a colleghi, studenti, operatori culturali e gente comune nella sua grande proiezione verso la ricerca, la promozione dei beni culturali e la diffusione della conoscenza della storia antica.
Questo paper si propone di ripercorrere il percorso seguito da Sara Santoro nello sviluppo del suo concetto di parco archeologico e le esperienze da Lei condotte in proposito, dal primo scavo impegnativo che diede origine al Parco Culturale di Castelraimondo nel Friuli, al contributo dato al Park Archeologique de BliesbruckReinheim, passando per le esperienze dell’Insula del Centenario in Pompei, del sito di Scauri Scalo in Pantelleria e, infine, per quelle legate al recupero dell’Anfiteatro Romano di Durazzo.
INTRODUZIONE Pur essendo la visione di parco di Sara già compiuta nella realizzazione di Castelraimondo, ognuna delle successive esperienze risulta significativa per dare risalto ad alcuni concetti base dai quali non si è mai discostata nel corso della sua attività sul campo ed in particolare:
Di tutto questo sono stato privilegiato osservatore e, qualche volta, compartecipe sia come coniuge che come appassionato di archeologia e ricercatore di Organizzazione Aziendale, con la quale insieme a Sara trovammo sin dall’inizio delle nostre carriere, innumerevoli riscontri e occasioni di reciproco arricchimento1. Per questo ho voluto riprendere la concezione che Sara aveva del parco archeologico e degli aspetti organizzativi e gestionali che hanno caratterizzato la Sua attività
– La ricognizione di superficie per la localizzazione dei siti più idonei per gli scavi e la realizzazione del parco, insieme con lo studio continuo dei materiali alla luce dei progressi scientifici e tecnologici che possono permettere nuove informazioni e ipotesi interpretative.
Cfr. ad es. il numero speciale della rivista in.ar.cos, a cura di M. Bianchi, e dedicato ad organizzazione e storia, che riporta contributi di entrambi: Santoro 1981; Bianchi 1981a, 1981b.
1
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro rappresentati dagli archeologi provenienti in gran parte da altre regioni o dall’estero.
– L’attenzione per la realizzazione del parco nei suoi diversi aspetti concreti, in modo da garantirne il mantenimento e la sostenibilità nel tempo. – L’importanza di procedere, sin dell’inizio dei lavori, all’opera di divulgazione presso la popolazione locale quale prima fase della promozione del parco e della sua valorizzazione. – Il coinvolgimento della comunità scientifica secondo un approccio multidisciplinare e con il progressivo ricorso, a seconda delle problematiche emergenti, a studiosi e professionisti di diversa estrazione scientifica e tecnica,
Tener conto di queste difficoltà, comuni a molti siti, diventa essenziale per realizzare un percorso adeguato a preservare e valorizzare un’area di interesse archeologico e per affrontare il problema in termini di “parco” contestualizzando l’intervento. In questo senso le specificità strategiche cui Sara rivolse subito la sua attenzione furono: 1. il coinvolgimento della comunità locale; 2. la conoscenza diretta del terreno per l’individuazione dei “punti forti” dello scavo e della successiva ambientazione, con particolare riguardo per l’accesso e la percorribilità; 3. la concezione di parco come espressione di responsabilità nei confronti della propria identità culturale; 4. la promozione del parco nell’immaginario collettivo per la sua valorizzazione e la sua capacità di attrazione nei confronti di fruitori effettivi e potenziali; 5. la sostenibilità e mantenimento delle strutture in termini di preservazione del sito e di riparo dai danneggiamenti.
Il cardine del pensiero di Sara sul parco culturale era quello di ritenerlo, nelle sue diverse declinazioni, come uno strumento di iniziative legate, in senso più ampio, al progresso della conoscenza storica ed alla creazione di un network focalizzato sul bacino territoriale entro cui il parco è inserito al fine di assicurarne non solo la continuità economico-finanziaria ma anche la fruizione da parte di pubblico e studiosi. Esaminiamo ora, caso per caso, le tappe di questo percorso.
LA RILEVANZA DI UN PARCO ARCHEOLOGICO, STORICO O CULTURALE PER LA VALORIZZAZIONE DEL SENSO DI IDENTITÀ LOCALE. IL PARCO CULTURALE DI ZUC ‘SCJARAMONT) (1988 – 2005)
Sin dall’inizio della prima campagna di scavo in Castelraimondo, una cura particolare, al di là degli aspetti strettamente tecnici, fu posta sull’apertura di un dialogo diretto con le persone del luogo, indipendentemente dal loro ruolo ufficiale. A questo proposito Sara individuò nelle funzioni religiose della parrocchia del vicino abitato di Forgaria un momento in cui, almeno una parte della comunità locale, si ritrovava con regolarità. A questo scopo presenziò, insieme al gruppo di ricercatori e studenti che partecipavano agli scavi, alla messa di domenica al termine della quale presentò l’iniziativa spiegando cosa ci si proponeva di fare ed i motivi per cui quella e le estati successive, la vita locale sarebbe stata animata dalla piccola e variegata compagnia di archeologi con cui la popolazione del paese avrebbe convissuto per qualche tempo. Soprattutto parlò di Castelraimondo e dell’importanza per tutti del lavoro che si andava facendo. Sempre nella comunità locale si preoccupò di individuare i personaggi che conservavano la memoria storica dei luoghi o che, per ragioni professionali, si erano occupati del territorio ed in particolare del colle di Castelraimondo. A questo proposito Sara si spinse ad entrare in contatto con quello che la vox populi indicava come il più importante tombarolo del luogo e che alimentava la leggenda di un mitico “vitello d’oro” sepolto nel colle di Castelraimondo.
Quando agli inizi del 1988 visitò il colle di Castelraimondo nel Friuli, una delle prime impressioni di Sara fu quella della difficoltà di una campagna archeologica rivolta a riportare alla luce quello che rimaneva della antropizzazione del sito. Lo strato di terreno disponibile per lo scavo era estremamente ridotto ed in alcuni casi limitato a poche decine di centimetri sopra la roccia base. La vegetazione invadente e lussureggiante di un bosco incolto aveva invaso il luogo da tempo immemorabile. Gli accessi al luogo si presentavano quanto mai precari e avrebbero comportato il trasporto a mano di strumenti e materiali, dal termine della strada di accesso, sino alla sommità del colle. Soprattutto la preoccupavano le ferite inferte al sito da sconsiderati e caotici scavi abusivi2. Anche l’appoggio della comunità locale appariva problematico. Il vicino abitato di Forgaria nel Friuli, svuotato da decenni di emigrazione e in crisi demografica, era stato distrutto dal terremoto del 1976 e la popolazione decimata, alle prese con problemi di sopravvivenza, sembrava indifferente alla ricerca delle proprie radici storico-culturali. Semmai poteva presentare simpatie e connivenze con i tombaroli in quanto elementi inseriti nel contesto locale a differenza degli “estranei”
2
Santoro Bianchi 1992.
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M. Bianchi
Il concetto di parco archeologico secondo Sara
Dal punto di vista istituzionale fu fondamentale allacciare buone relazioni con l’Amministrazione Comunale, la Pro Loco, la Società Friulana di Archeologia e la Soprintendenza ai beni archeologici del Friuli Venezia Giulia, per citare alcuni.
carta consegnata a quei tempi al Comune di Pantelleria, ma purtroppo, almeno sino ad oggi, non pubblicata. In Scauri, a parte il giacimento sottomarino di Pantellerian Ware, nell’area attinente il porto non sembrava ci fossero materiali interessanti o comunque indicativi per scegliere un luogo in cui procedere ad eventuali scavi.
Quello che le vicende di altri parchi sembrano insegnare è che i rapporti con il sistema locale non sono rilevanti solo dal punto di vista dell’accettazione e supporto dell’iniziativa, ma anche quale prevenzione o almeno attenuazione di danneggiamenti, sabotaggi o vandalismi che possono derivare, non solo da interessi contrari alla creazione di un parco, ma anche da un atteggiamento negativo nei confronti di quello che può essere interpretato come un corpo estraneo alla cultura locale. Questo rischio esiste sempre, come insegnano i casi della Città della Scienza di Napoli distrutta da un incendio doloso e dagli atti intimidatori cui anche gli Scavi di Castelraimondo non furono indenni3.
Ora, in quell’estate del 1998, partendo dalla sinistra dell’imboccatura del porto (Fig.1) procedemmo insieme al gruppo degli allievi convolti nel campo scuola che si sarebbe occupato degli scavi, passeggiando sino alle case dell’abitato. Mentre si discuteva con Leonardo, Gabriella Guiducci e gli altri della squadra, sulla scarsità di elementi su cui procedere, la sempre vigile attenzione di Sara cominciò ad essere attratta dal terreno su cui stavamo camminando. “Ma questa è l’ansa di un’anfora!” osservò e, subito dopo, “Questo è un frammento del bordo di una lucerna! “e poi “Guarda lì, una sigillata!” e così via. La ricerca dei materiali proseguì con sempre maggiore partecipazione ed entusiasmo dei presenti che facevano a gara nel riconoscere altri reperti che erano stati sotto gli occhi di tutti, ma che non erano stati sino ad allora notati. Per farla breve, fummo costretti a mendicare al vicino ristorante alcune sportine di plastica per contenere il materiale che andavamo raccogliendo e ci ritrovammo alla fine del percorso ad averne riempite almeno quattro. Fatto più rilevante, al termine del tragitto, Sara decise: “Qui dobbiamo scavare!” Ed in effetti gli scavi, iniziati nel luogo indicato in Fig. 2, portarono alla scoperta di una villa marittima tardo repubblicana, utilizzata sino in periodo tardo imperiale8.
LA RICOGNIZIONE DI SUPERFICIE E LO STUDIO DEI MATERIALI. GLI SCAVI AL PORTO DI SCAURI IN PANTELLERIA (1998-2000) La campagna di scavi in Pantelleria4 iniziò così: Dopo l’usuale fase di preparazione e soluzione dei problemi logistici, burocratici e di reclutamento della squadra, una mattina andammo a visitare il porto di Scauri come uno dei punti sui quali si era focalizzata l’attenzione degli archeologi che ci avevano preceduti. Il gruppo coordinato da Sara era intervenuto nell’ambito di una campagna di scavi condotta dal compianto Maurizio Tosi5. Era con noi Leonardo Abelli6 un appassionato di archeologia subacquea che attraverso lo “specchio”, una cassetta con il fondo di vetro che permetteva di vedere sott’acqua, ci fece osservare lo sterminato tappeto di pantellerian ware che ricopriva i fondali del porto.
Racconto questo episodio avendo avuto la fortuna di assistere ad eventi simili9 nei quali si manifestò tutto il talento di Sara nell’osservazione dei luoghi e nella ricognizione di superficie10 il cui ruolo, negli scavi di Pantelleria, è stato messo in particolare risalto da Alberto Monti, che diventerà in seguito uno dei suoi più stretti collaboratori11. È ancora più significativo che quella particolare area del sito di Scauri Scalo non avesse sino ad
La missione di allora avveniva a seguito di precedenti campagne di rilevazione di superfice e di scavo condotte da Tosi in siti diversi dell’isola e che condussero alla realizzazione della carta archeologica di Pantelleria7,
Per ben due volte i pneumatici dell’auto di Sara, parcheggiata alla base dello scavo, furono tagliate per non parlare poi del taglio dell’albero che ombreggiava la panchina che era stata posta all’ingresso degli scavi, in occasione della sistemazione della strada di accesso. 4 Santoro 1998, 2002, 2003, 2005. 5 Santoro Bianchi 1998a, 1998b. 6 Abelli 2014, Abelli et alii 2006. 7 Cattani et alii 2004. 8 L’episodio è riferito a pag. 38 “È stato immediatamente notato che lo stretto sentiero che, partendo dal Ristorante “La Vela” dove sono le scalee e, costeggia il mare sino a Punta San Gaetano, presentava – nell’estate del 1988 – un’altissima concentrazione di materiale ceramico: soprattutto Pantellerian Ware ma, anche ceramica comune, anfore, terra sigillata africana e italica. Tale evidenza è spiegabile come deposito di colluvio dei terrazzi soprastanti.” Santoro and Guiducci 2003. 9 Nella relazione presentata alla Università di Parma Sara riporta “Nell’area del porto di Scauri , sul lato orientale ed in località Scalo, lungo il sentiero demaniale è stato individuato uno straordinario addensamento di frammenti ceramici di varie epoche e produzioni (dalla vernice nera alla sigillata aretina, alla sigillata chiara africana, alla Pantellerian Ware, con prevalenza di queste ultime due classi, e frammenti anforari). Lungo lo stesso sentiero, in località Scalo, sono state individuate strutture edilizie allineate, con pareti scavate nella roccia lavica, che potrebbero essere i magazzini relativi alla fase tardoantica (IV-VI sec.d.C) da porre in relazione con un approdo a scalea, riconoscibile nella roccia stessa. Per accertarne la natura, è stato programmato come seconda fase uno scavo stratigrafico per saggi in alcune di queste strutture per la successiva campagna estiva 1999”, Santoro Bianchi 1998. 10 Santoro and Guiducci 2003. 11 Monti 2002a. 3
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro punti forti sinora portati alla luce, una torre medioevale la cui costruzione o ristrutturazione viene fatta risalire al VI secolo d.C. ed un edificio sottostante, a ridosso della cinta fortificata. In quel frangente ho avuto modo di constatare che fra questi due edifici, convenientemente restaurati e coperti, distanti poche decine di metri, ma separati da un forte dislivello del terreno, non fosse stato realizzato alcun passaggio percorribile men che agevolmente. Questo, nonostante fossero passati alcuni anni dai lavori di consolidamento e copertura degli edifici, indicati come imminenti nel febbraio del 2009 e successivamente effettuati17. Sembra quindi di poter dire, in questo caso, che non si sia ritenuta prioritaria l’immediata fruizione del sito una volta terminati i lavori di recupero e consolidamento.
allora attratto l’attenzione degli archeologi nonostante la predisposizione della Carta Archeologica dell’Isola avesse richiesto estensive ricognizioni di superficie12. Da profano mi pare di dire una cosa scontata nel sottolineare che l’osservazione sul terreno debba essere una delle attitudini fondamentali di un archeologo e che sicuramente in Sara questa attenzione fosse particolarmente sviluppata. Senz’altro ebbe ad esercitarla sin dall’inizio della sua carriera quando partecipò al rilevamento degli insediamenti storici della valle del Savio13 e svolse il riordino di musei locali fra i quali ricordo quelli di Galeata e di Lodi14, dai cui magazzini emersero reperti altrimenti trascurati. Come ebbe modo di affermare, nel corso delle Lezioni tenute a Parma su Metodologia e Tecnica della ricerca archeologica15, la ricognizione di superficie e l’esame ottico del sito costituiscono una Metodologia di indagine diversa, parallela, non solo preliminare allo scavo, come nello studio del materiale giacente presso musei e relativi depositi, è fondamentale la considerazione di tutti gli elementi circostanti, riconducibili ai reperti.
Sottolineiamo che per Castelraimondo, come osserva Ghetti, “l’esposizione permanente dei reperti fu allestita nel contiguo paese in concomitanza con l’inizio dei lavori”18. Analogamente, l’individuazione dei percorsi di visita e la predisposizione delle strutture necessarie per il camminamento, sono stati elementi cardine della sistemazione del sito di Castelraimondo e della successiva realizzazione del parco il cui progetto complessivo fu presentato pubblicamente appena due anni dopo l’inizio degli scavi19 e realizzato negli anni successivi (Fig. 4)20.
Per quanto riguarda lo specifico del Parco Archeologico, l’importanza della ricognizione sul terreno emerge nell’individuazione dei percorsi di fruizione accessibili ed agevoli per i visitatori, che a sua volta è essenziale ai fini della progettazione e realizzazione delle strutture. Questo aspetto, sottolineato da Pratelli per il Parco Culturale di Castelraimondo16, e di cui diremo in seguito, non deve sembrare banale di fronte alla rilevanza dei materiali e siti che possono essere riportati alla luce, né nella prospettiva di una loro agevole fruizione da parte del pubblico.
LA REALIZZAZIONE E SOSTENIBILITÀ NEL TEMPO DEI PARCHI ARCHEOLOGICI. POMPEI INSULA DEL CENTENARIO (1999-2005) La gestione del Progetto Insula del Centenario in Pompei21 di cui, con la Direzione di Daniela Scagliarini Corlàita, Sara è stata Responsabile Scientifico Operativo, presentò non pochi problemi legati alle particolari condizioni climatiche della zona. In particolare il progetto presentò difficoltà di scelta dei materiali da utilizzare per la copertura del sito, per il recupero e protezione degli affreschi22, nonché per il mantenimento dei pigmenti e della base delle pitture. Per entrambe le soluzioni erano
Pochi mesi fa, per il Convegno di Verzegnis sui Parchi Archeologici (Società Archeologica Friulana, 26 agosto 2017), ho avuto occasione di visitare il sito del colle Mazeit (Fig. 3), riconosciuto come risultato di un popolamento risalente all’eneolitico e per certi versi attinente al sito di Castel Raimondo. Il luogo è incentrato sui due
Monti 2002b, 2003. Santoro 1978, 1979. 14 Di Caprio and Santoro Bianchi 1983. 15 Santoro 2005. 16 Pratelli and Santoro 1999. 17 “Il proseguimento dei lavori prevede la messa in opera di una passerella in elementi metallici atta, quindi, a non impedire la visione dei sottostanti ruderi, ubicata a circa tre metri dalla superficie interna della torre e a 2,50 dalla linea. La passerella sarà facilmente fruibile tramite una scaletta metallica posizionata sul lato nord della torre: permetterà al visitatore di percorrere tutti e quattro i lati della struttura, di osservare dall’alto i ruderi e di godere della vista panoramica, che è la stessa dei tempi in cui la torre era posta a controllo della via Iulia Augusta. Inizieranno, quindi, le operazioni di consolidamento, ristrutturazione e copertura del villaggio fortificato sottostante. «A lavori ultimati si potrà offrire ai visitatori la possibilità di effettuare un viaggio nel passato, attraverso la ricostruzione di ambienti e di attività che vanno dalla capanna dell’età del bronzo, al magazzino di un fonditore di bronzi, alle case celtiche e romane, alla torre medioevale ed alla vita che vi si conduceva»” Il Messaggero Veneto, 1.02.2009. 18 Ghetti 1999. 19 Il progetto nelle sue linee generali è stato pubblicato nel Castelraimondo. Scavi 1988-1990, volume II ed è stato curato oltre che da Sara, da Alberto Pratelli e Anna M. Capoferro Cencetti dell’Università di Bologna, Dipartimento di Archeologia. Fu presentato pubblicamente già in occasione dell’apertura della piccola mostra archeologica organizzata presso il Municipio di Forgaria il 25 aprile 1990 e finanziato nell’ambito dei programmi europei Interreg II e Interreg III Italia-Austria. 20 Pratelli and Santoro 1999. 21 Santoro 2007. 22 Santopuoli 2004. 12 13
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M. Bianchi
Il concetto di parco archeologico secondo Sara
da valutare le diverse alternative. Per la ricopertura Sara si orientò su lastre di policarbonato, un materiale allora innovativo e sperimentato in Pompei da Santopuoli. Ricordo che Sara pervenne a questa scelta dopo una sofferta comparazione con altre tecniche e la ponderazione di vantaggi e svantaggi di ogni soluzione. In particolare La preoccupava la sostenibilità nel tempo dei materiali e per questo visitò diversi siti della zona onde verificare, in simili condizioni climatiche, quale era lo stato delle coperture a distanza di anni dalla loro messa in opera ed allo stesso tempo gli effetti sui materiali da proteggere.
e/o mitigare queste reazioni è un problema di cui l’agenda delle attività per la realizzazione di un parco archeologico deve tenere conto. Non a caso, in ambito organizzativo, si affronta il problema considerando ogni progetto o iniziativa innovativa nel campo del resilience come un’arena nella quale si scontrano diverse idee e soggetti portatori di interessi e metodologie contrastanti suscettibili di produrre negative ed estreme conseguenze26.
IL PARCO COME ESPRESSIONE DI RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DELLA PROPRIA IDENTITÀ CULTURALE. DURAZZO (2004 – 2016)
Per quanto riguarda la soluzione adottata per il restauro e la protezione degli affreschi, Sara rimase alquanto turbata quando, a distanza di poche settimane dalla realizzazione dell’intervento, l’affresco localizzato a sinistra entrando nella casa del Centenario, un affresco su fondo nero cui era stato applicato (da parte di una nuova ditta fornitrice) un prodotto di nuova formulazione, risultò irrimediabilmente ammalorato. Lo sconcerto fu tale che, dopo aver proceduto ad ulteriori analisi, Sara ipotizzò un vero e proprio sabotaggio della sperimentazione attuata, con l’applicazione intenzionale di solventi o detergenti corrosivi.
Abbiamo detto del rilievo dato da Sara all’importanza di procedere presso la popolazione locale e sin dall’avvio degli scavi, all’opera di divulgazione dell’attività in corso quale prima fase della promozione della conoscenza del sito e della sua valorizzazione. Parallelamente a questo Sara credeva fortemente nella necessità di coinvolgere la comunità scientifica secondo un approccio multidisciplinare, con la progressiva apertura a studiosi e professionisti da reclutare a seconda delle problematiche emergenti.
Racconto tutto questo per sottolineare, una volta di più, sia l’attenzione dedicata da Sara alla sostenibilità nel tempo degli interventi di recupero, restauro e musealizzazione a cielo aperto, ma anche le difficoltà, non solo tecniche, che l’attuazione di interventi esterni alle confortevoli e relativamente sicure pareti di un museo, possono presentare. Difficoltà in cui si riscontra, una volta di più, il sopraggiungere di ostacoli e interessi contrastanti, da parte dell’ambiente umano e sociale con cui la creazione di un parco deve fare i conti23.
Anche negli scavi dell’Anfiteatro di Durres, l’aspetto relativo al recupero di questo monumento di dimensioni imperiali, che nel tempo era diventato una vera e propria fogna a cielo aperto (Fig. 6), divenne per Sara l’occasione di contribuire alla rinascita della cultura di un Paese che veniva da anni di disordine durante i quali numerosi siti e musei erano stati spogliati di materiali preziosissimi per la storia e la cultura albanese, mentre un’edilizia selvaggia procedeva alla cementificazione di aree di grande valore storico ed archeologico.
Nello sviluppo di progetti cui partecipò sia come Grant Holder che come Partner, Sara ebbe più volte a considerare questi elementi ostili, apparentemente imprevedibili, il cui possibile accadere è previsto nella stessa modulistica utilizzata per la submission dei progetti all’ente finanziatore. In questa modulistica viene utilizzata la Logical Framework Matrix24 ispirata alla matrice SWOT25 rivolta ad evidenziare i diversi fattori, positivi e negativi, da considerare nella programmazione delle attività (Fig. 5).
In questo intervento, gli aspetti operativi relativi alla bonifica del sito ed al restauro del monumento prevalsero nell’immediato, ma già a pochi mesi dal recupero di condizioni minime di agibilità e dallo sgombero dei fornici e dei corridoi interni dell’anfiteatro da materiale alluvionale, immondizie e crolli, Sara pose il problema della rivitalizzazione di un sito da secoli abbandonato ad una totale incuria. Nacque così nel 2003, con la collaborazione dell’Istituto Italiano di Cultura di Tirana, un’impresa che poco tempo prima sembrava impossibile: L’organizzazione della mostra “Durres – 3.000 Anni di Civilta’. Orgoglio e responsabilità”27. Si trattò di una pietra miliare per
La creazione di un parco può infatti scontrarsi, non solo con dissensi circa la sua realizzazione e le modalità da seguire, ma anche con l’opposizione di interessi poco trasparenti e rivolti al mantenimento dello status quo o alla realizzazione di soluzioni concorrenti. Il prevenire
Ferri and Zan 2014. https://eacea.ec.europa.eu/sites/eacea-site/files/2018-Instructions for applicants -22-12-2017, p. 36. L’analisi SWOT viene utilizzata nella pianificazione strategica per mettere in evidenza e valutare i punti di forza (Strengths), le debolezze (Weaknesses), le opportunità (Opportunities) e le minacce (Threats) di un progetto, di un’impresa o di una organizzazione. 26 Bianchi 2018. 27 Durres, 2 agosto- 30 ottobre 2003; Agrosi, Santoro et alii 2003. 23 24 25
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro dell’anfiteatro33, attraverso la fondazione di EDD, EpidamnoDyrrachiumDurres, un’associazione non profit che doveva rappresentare il braccio operativo del progetto di recupero e che coinvolgeva i rappresentanti locali della cultura, delle istituzioni e dell’imprenditoria, al fine di dare continuità alle iniziative originatesi dagli scavi ed al collegamento con progetti esistenti e futuri.
il risveglio della cultura della neonata Repubblica di Albania, ancora scossa dal periodo di anarchia succeduto al crollo del Regime di Henver Hoxha, a cui Sara si dedicò con la competenza l’energia e l’entusiasmo che La contraddistinguevano. La sfida era rappresentata dalle difficili condizioni nelle quali la mostra doveva essere organizzata ma soprattutto dal significato politico della manifestazione. Si trattava infatti di convincere istituzioni, comunità locale ed opinione pubblica nazionale ed internazionale, che questo risorgimento dell’Albania, che era il tema della mostra, poteva avvenire basandosi non solo sull’orgoglio di conoscere e possedere questa eredità culturale, ma anche sulla responsabilità di difenderla e valorizzarla dopo tanti scempi 28.
DALLA REALIZZAZIONE DEL PARCO ALLA SUA PROMOZIONE NELL’IMMAGINARIO COLLETTIVO. BLIESBRUCK-REIHNEIM (2005 2016) È stata da sempre l’idea di Sara che un parco, nelle sue diverse declinazioni, rappresentasse uno strumento di iniziative legate al generale progresso della conoscenza storica ed alla creazione di un network di collaborazioni focalizzate sul bacino territoriale entro cui il parco è inserito, rivolte ad assicurarne la continuità non solo economico-finanziaria ma anche il progresso nella conoscenza dei luoghi e nella loro fruizione34. Passare dalla teoria alla pratica non è tuttavia facile quando si tratta di agganciare, specie a livello internazionale, l’attenzione della audience scientifico-professionale e non.
La mostra, allestita nei corridoi dell’anfiteatro appena ripuliti e resi agibili e con soluzioni efficaci ma di fortuna di cui Sara curò personalmente il montaggio (Fig. 7), richiamò da subito un pubblico numeroso. All’inaugurazione, presenziò l’allora Ministro Albanese per la Cultura, Arte Dada e partecipò, inaspettatamente, un gruppo di Arbëreshë29 provenienti da Porto Cannone, che espressero tutta la loro commozione nel ritrovare un’Albania impegnata in questa significativa impresa, contrastante con la negativa immagine che ancora persisteva nell’opinione pubblica internazionale. La mostra rappresentò anche una coraggiosa denuncia degli scempi del patrimonio culturale di Durazzo cui era dedicata una sezione della mostra. Sicuramente l’iniziativa fu di grande impulso per il progetto, realizzato negli anni seguenti, della carta del rischio archeologico collegata al nuovo piano urbanistico della città e purtroppo a tutt’oggi ampiamente disattesa30.
Oggi sono ormai affermati i concetti di Marketing Emozionale35, che pongono alla base del processo di fruizione, apprendimento e vendita di un prodotto, la realizzazione di un’esperienza memorabile che il consumatore/utente deve sperimentare, tale da superare le sue aspettative e anticipi i suoi desideri inconsci, soddisfacendoli al tempo stesso. Questo approccio rende in qualche modo indipendenti le caratteristiche intrinseche del prodotto/servizio dalla sua capacità di attrarre il destinatario. Allo stesso modo, per quanto riguarda i Parchi Culturali o qualsiasi altra forma di musealizzazione, la conoscenza ed attrattività di un sito dipendono dalle emozioni che esso può suscitare e, ancor prima, dalla sua rinomanza e capacità di far decidere le persone di andare a visitarlo, sobbarcandosi il disagio e il costo di un viaggio, particolarmente qualora il sito si trovi in posti fuori mano o poco conosciuti.
L’impresa culturale è un soggetto centrale nelle attività di Sara la quale riteneva gli scavi fossero non solo occasione di raccolta di materiali utili per la comunità accademica o per un ristretto novero di studiosi, ma anche, per le comunità locali, un’opportunità di riscoperta della propria identità e di innesco di un nuovo sviluppo sociale ed economico. Per questo, nel quadro delle iniziative allora intraprese da UNOPS31 e Tauleda-Durres32, Sara volle stimolare l’iniziativa locale per un recupero globale del monumento e la costituzione di un parco archeologico
Questo era il caso del Parco Archeologico di BliesbruckReinheim, nella regione della Mosella, al confine fra Francia e Germania, pur conosciuto presso gli addetti ai
Non si può dimenticare a questo proposito il grande supporto dato da Silvia Fadda, allora Responsabile dell’Ufficio UNOPS (United Nations Organization for Project Services) di Durazzo, grande amica di Sara e sua assidua consigliera, nel districarsi fra le innumerevoli difficoltà Istituzionali e burocratiche che si dovevano superare. Santoro 2016. 29 Minoranza etno-linguistica albanese, storicamente stanziata in Italia meridionale e insulare, che ha conservato le tradizioni albanesi del XV e XVIII secolo, periodo in cui si trasferirono in Italia a seguito della conquista ottomana. 30 Santoro et alii 2003. 31 United Nations Organization for Project Services. 32 TAULEDA Local Economic Development Agency (Durres). 33 Giandebiaggi 2007. 34 Santoro 2010. 35 Schmitt 1999. 28
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M. Bianchi
Il concetto di parco archeologico secondo Sara
lavori come centro di eccellenza della musealizzazione all’aperto.
di organizzare il viaggio di una delegazione del Parco di Blesbruck-Reinheim durante il quale avvenne, nel 2829 maggio 2002, l’incontro con Pietro Giovanni Guzzo, allora Soprintendente Archeologo di Napoli e Pompei.
Fra le più importanti strutture del parco presso il quale Sara è stata dal 2005 al 2016 co-direttore degli scavi del vicus gallo-romano, nell’ambito di una convenzione di collaborazione scientifico-didattica fra Università di Chieti e Conseil General du Departement de la Moselle, sono da annoverare la musealizzazione delle terme romane ed il centro espositivo (nel sito web nemmeno indicato come museo) insieme a discreti servizi di accoglienza.
Il Sovrintendente aveva avuto modo di apprezzare le doti scientifiche, organizzatrici e umane di Sara dal 1999, per il già citato progetto dell’Insula del Centenario. È dai colloqui con Guzzo che nacque la folle idea di organizzare una mostra che unisse Pompei a Bliesbruck-Reinheim. La prima reazione del Sovrintendente Archeologo di Napoli e Pompei, uomo di grande cultura ed iniziativa, pur aperto a stimolanti e non convenzionali avventure culturali, fu quello di un moderato scetticismo. Poche cose sembravano comuni a questi due siti: Pompei universalmente nota a pubblico e studiosi, Bliesbruck conosciuta a livello regionale e prevalentemente dagli addetti ai lavori. Pompei vicina al centro della romanità e Bliesbruck come sito di una cittadina di provincia dell’Impero, di cui a tutt’oggi non si conosce il nome. Pompei in cui ogni minuto della catastrofe che congelò sino ai tempi nostri abitanti, animali ed oggetti, é stato ricostruito fin nei minimi particolari mentre di buona parte degli edifici di Bliesbruck la destinazione è incerta. Pompei ricchissima di reperti mentre, a paragone, la cittadina della Mosella é povera di ritrovamenti e con tracce di edifici ormai scarnificate da innumerevoli arature.
Nonostante questo, a parte un piccolo turismo legato agli eventi della prima guerra mondiale ed una blanda attrazione naturalistica per passeggiate e trekking, Bliesbruck-Reinheim non poteva vantare in campo archeologico una rinomanza internazionale a livello di Roma, Atene, Pompei, Ercolano, o Delfi per citarne alcuni. Così, per la promozione del parco, insieme a Jean Paul Petit, Philippe Brunella e Pietro Giovanni Guzzo, allora Soprintendente Archeologo di Napoli e Pompei, Sara ideò ed organizzò, nell’aprile del 2007, la straordinaria mostra “De Pompei a Bliesbruck. Vivre en Europe Romaine”36. Il racconto dell’origine di questa manifestazione inizia nel 1992 quando Sara partecipò, su invito di Jeanne Marie Demarolle, dell’Academie de Metz, al Convegno di Limoges su “Les Agglomeration Secondaires en Gaule, Belgique et des Germaines”37 in cui conobbe Jean Paul Petit, Philippe Brunella e Philippe Leroy, Presidente del Parco della Mosella.
Si poteva ipotizzare con un qualche fondamento che entrambe le città, anche se per un breve periodo, fossero coeve considerando la nascita della Bliesbruck romana intorno al discriminante a.C./ d.C. e prosperata per alcuni secoli dopo quel 79 d.C. che distrusse la cittadina campana cui sopravvisse almeno sino al III secolo d.C. Un incoraggiamento al connubio Bliesbruck-Pompei derivò dal confronto fra l’ornamento del manico di un secchio in bronzo che riproduce un pappagallo, ritrovato a Pompei nella casa di Marcus Fabius Rufus e un analogo frammento ritrovato a Bliesbruck39. Non a caso entrambi i reperti furono riprodotti nella copertina del Volume della Mostra Vivre en Europe Romaine (Fig.8).
Le ragioni di questo incontro venivano da lontano. Innanzitutto dall’interesse dimostrato da Sara, sin dall’inizio della sua carriera, per i cosiddetti siti archeologici minori, interesse che ebbe la sua prima realizzazione negli Scavi di Castelraimondo. Il secondo motivo, altrettanto importante fu, sin dal 1987, la conoscenza e la reciproca stima con Raymond Chevallier coltivata sino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2004, in un sodalizio a distanza che li trovò a condividere molti temi di ricerca38. Chevallier introdusse Sara agli studi di Caesarodunum ed alla conoscenza di Jeanne Marie Demarolle membro del Comitato Scientifico della Rivista. Accadde così che Jeanne Marie invitò Sara al fatidico convegno di Limoges del 1992 in cui furono poste le basi del grande evento “Vivre en Europe Romaine”.
Quello che alla fine convinse il Sovrintendente Guzzo fu la sfida rappresentata da questa impresa alquanto audace40, ma in qualche modo comprensibile. Lo sforzo condotto, sino ad allora, dagli archeologi di Bliesbruck era stato quello di immaginare come potevano essere abitati, arredati, utilizzati, quegli edifici in alcuni casi appena tracciati sul terreno e quale significato si poteva dare ad alcune strutture altrimenti di difficile interpretazione. Trarre dunque da questa collaborazione nuovi
Nel 1999 Philippe Leroy, promotore di una strategia Europea del Parco della Mosella, propose Sara per il Consiglio Scientifico del Parco e poco dopo La incaricò
Petit and Santoro 2007. Petit and Mangin 1994 Atlas des agglomerations secondaires de la Gaule Belgique et des Germanies. 38 Guermandi and Santoro 1994. 39 Santoro and Petit 2007. 40 Guzzo 2007. 36 37
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro compiuta espressione del concetto di parco perseguita da Sara, come impresa culturale destinata a colpire l’immaginazione del pubblico, ad animare luoghi e suscitare sensazioni coinvolgenti nell’ambito di una strategia rivolta ad assicurare la sostenibilità dell’iniziativa.
stimoli per la ricerca sugli scavi di Bliesbruck era per Petit, Brunella e la stessa Sara, fra le attese più rilevanti. D’altra parte anche gli studi Pompeiani potevano trarre occasione di rilancio per quanto riguarda i rapporti fra la città campana, in particolare il ceto imprenditoriale, e le province gallo-romane di cui Bliesbruck rappresentava un aspetto significativo.
Alla luce delle successive acquisizioni in campo organizzativo-aziendale, questo evento può ben ascriversi alla concreta attuazione di quell’approccio emozionale che è oggi un punto di riferimento dell’apprendimento e, in termini più ristretti, del marketing di prodotti e servizi, ma più in generale del parco come organizzazione di cui la teoria e la pratica manageriale si è occupata.
In quegli anni era ancora vivo il ricordo del grande successo della mostra ‘’I Celti. La Prima Europa’’ tenutasi nel 1991 in Palazzo Grassi, in un periodo in cui, sicuramente più che oggi, l’idea di comuni radici europee era di grande attrazione. Quello che certamente il Sovrintendente Guzzo intravvide, fu la prospettiva europeistica di una Collaborazione Italo-Franco-Tedesca fra scuole di storia e archeologia i cui rapporti sono da sempre caratterizzati da significative distanze sia per quanto riguarda gli indirizzi storici che i metodi di ricerca sul campo. Il primo passo fu la dichiarazione di intenti sulla mostra e il gemellaggio dei due siti.
LA SOSTENIBILITÀ E IL MANTENIMENTO DELLE STRUTTURE IN TERMINI DI PRESERVAZIONE DEL SITO E DI RIPARO DA DANNEGGIAMENTI. CONCLUSIONI Tutti i punti che abbiamo trattato compongono l’idea che Sara aveva di Parco Archeologico e Culturale, un’idea per la cui realizzazione si è impegnata non solo dal punto di vista scientifico. Quanto abbiamo descritto testimonia infatti della sua diretta partecipazione, sul campo, all’organizzazione di progetti ed eventi nei quali il suo intervento nella cura delle soluzioni tecniche e dei particolari realizzativi affiancava quello nella precisione del lavoro scientifico che esigeva da se stessa e dai propri collaboratori e allievi.
Difficile descrivere in poche righe la realizzazione della mostra De Pompei a Bliesbruck. Vivre en Europe Romaine. Basti ricordare che essa comportò il trasporto da Pompei e dal Museo Nazionale di Napoli di numerosi reperti degli scavi e il trasferimento delle pareti affrescate di due stanze provenienti da Murecine che furono esposte integralmente nelle sale del Centro espositivo (Fig. 9). Il lancio del parco presso il grande pubblico fu propiziato dal connubio Bliesbruck – Pompei e dalla successiva mostra “Le Trésor des Barbares” del 200841, che sviluppava affascinanti ipotesi sugli eventi successivi all’invasione degli Alamanni con la decadenza, l’abbandono e l’oblio di quella che era stata una popolosa e vivace cittadina, il cui nome resta a tutt’oggi sconosciuto. Il tutto fu ulteriormente valorizzato da un insieme di performance artistiche ispirate all’antico mondo romano (Fig. 10) e da dimostrazioni pratiche delle tecniche artigianali dell’epoca.
Sopra tutti, poiché parliamo di sostenibilità nel tempo, si distingue il caso del Parco Culturale di Zuc ‘Scjaramont di cui, sin dall’inizio degli scavi, Sara tracciò insieme ad Alberto Pratella la struttura base pensata immaginando il racconto che emergeva dai ritrovamenti e dall’interpretazione di come gli abitanti avevano popolato il luogo nelle diverse fasi storiche. Coperture dei punti forti del sito e pannelli informativi sono state le due categorie di manufatti che hanno contribuito a fare di Castelraimondo un esempio di recupero e conservazione di un sito archeologico, pur nelle difficili condizioni determinate dalla collocazione in cima ad un colle selvaggio e dalla vegetazione il cui invadente rigoglio, unito alle condizioni climatiche, minaccia continuamente l’integrità dei materiali e l’accesso ai luoghi. Per quanto riguarda le strutture, a più di sedici anni dalla loro realizzazione ed a parte un intervento recente resosi necessario per il danneggiamento provocato da una tromba d’aria, esse si presentano integre e fanno egregiamente fronte agli scopi per i quali erano state predisposte con caratteristiche che uniscono solidità di ancoraggio al suolo ed un inserimento non invasivo nel terreno.
Si può immaginare tutto il lavoro organizzativo e di coordinamento delle diverse professionalità impegnate nella complessa realizzazione di questi eventi che Sara riuscì a portare a termine con successo grazie alla cura dei particolari ed al tratto ottimista e concreto che La animavano. La mostra di Bliesbruck dette anche luogo a riflessioni sulle attinenze fra i siti della Gallia Belgica e quelli dell’area pompeiana, in un lavoro che conferma una volta di più l’ampiezza di visione entro la quale, al di là degli aspetti promozionali, l’evento era stato collocato42. Nell’ambito del discorso che andiamo facendo è da sottolineare come questa realizzazione fosse la più 41 42
Petit 2008. Santoro, Mastrobattista, Petit 2009.
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Il concetto di parco archeologico secondo Sara
Il concetto di Parco Archeologico secondo Sara può ben essere coniugato al plurale come il tema di questo convegno suggerisce e con quella varietà di approcci che abbiano ritrovato nei suoi scritti ed attività. Esso parte dal coinvolgimento della comunità locale e di quella scientifica così come esemplarmente attuato a Castelraimondo e sviluppato sulla base di una conoscenza del terreno orientata all’individuazione dei punti forti, sia dal punto di vista della strategia di scavo, che della fruizione di un percorso che diventa un racconto sulle persone che avevano abitato quei luoghi e li avevano vissuto nei loro diversi aspetti.
Agrosi, G. et alii, 2003. “Durresi. 3000 vjetQyteterim. Krenaridhepergjegjesi”, Guida alla mostra, progettazione e coordinamento di S. Fadda, S. Santoro, Durres. Bianchi, M., 1981a. “Elementi ricorrenti e stabilità strutturali nelle forme organizzative”, in Bianchi M. (ed.) “Prospettive di organizzazione aziendale” Numero speciale di in.ar.cos - Ingegneri, architetti e Costruttori, Anno XXXVI, 423 novembre, Bologna, 423-30. Bianchi, M., 1981b. “La vallata quale modello di interpretazione delle discontinuità rilevabili nei rapporti organizzativi fra città e territorio: il caso di Sarsina Romana e Medioevale”, in Chevallier R. (ed.) “Presence de l’architecture et de l’urbanisme romains”, Caesarodunum XVIII bis, 1983, Tours, France, 117-25.
Questa capacità di immaginare la vita di un tempo tramite un’esposizione rivolta a diffonderne la conoscenza quale elemento di attrazione per pubblico e studiosi è stato per Sara da sempre un tratto essenziale per comprendere il suo concetto di parco, ma anche un elemento rilevante nell’interpretazione di quanto messo alla luce dagli scavi e dalla caratterizzazione dei siti rivolta ad esaltarne la fruibilità a tutti i livelli.
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Nel mondo attuale, in cui messaggio e immagine da trasmettere sono sempre più strettamente affidati a mezzi labili quali banche dati e supporti informatici, quello che colpisce nell’attività di questa Studiosa è la cura posta nell’affiancare alla preservazione della memoria storica, la sostenibilità delle soluzioni pratiche da perseguire nel mantenimento di strutture e materiali esposti alle ingiurie del tempo ed a danneggiamenti provocati più o meno intenzionalmente.
Cuomo di Caprio N., Santoro Bianchi S. 1983, “Lucerne fittili e bronzee del Museo Civicodi Lodi”, QSL 1, Lodi, 122-26. Ferri, P., and Zan, L., 2014. “Ten years after: The rise and fall of managerial autonomy in Pompeii”, «Critical Perspectives on Accounting», July 2014, Toronto, 25, 4-5, 368-87.
A questo va aggiunta la consapevolezza di un Parco che deve fare i conti con la sua capacità non solo di attrarre studiosi e visitatori, ma anche di generare nella società circostante reazioni di accoglimento o di rigetto a seconda di come sia improntata la strategia della sua realizzazione.
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Tutto questo, in Sara, portava naturalmente al concetto di Parco Archeologico quale Impresa Culturale da gestire nei suoi diversi aspetti e, più in generale, a quella idea di Archeologia multidisciplinare e militante che ha ispirato la sua vita troppo presto interrotta.
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Il concetto di parco archeologico secondo Sara
Fig. 1 – Il porto di Scauri Scalo in Pantelleria con il percorso che portò all’individuazione della villa
Fig. 2 – Scauri Scalo. Il sito degli scavi e la basis villa.
Fig. 3 – Il Sito del Colle di Mazeit- Verzegnis. Vista dalla torre dell’edificio a ridosso della cinta fortificata
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 4 - I percorsi di visita nel progetto per il Parco di Castelraimondo (A. Pratella)
Fig. 5 - La matrice di Analisi SWOT per la realizzazione di un parco culturale
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Il concetto di parco archeologico secondo Sara
Fig. 6 - Particolare dell’anfiteatro di Durazzo prima dell’intervento ( 2002)
Fig. 7 - Il montaggio su supporti di fortuna della mostra “Durres – 3.000 Anni di Civiltà. Orgoglio e responsabilità” nei corridoi dell’Anfiteatro di Durazzo .(2003)
Fig.8 – Copertina e particolare della pubblicazione sulla Mostra Vivre en Europe Romaine (Petit Santoro. A cura di 2003).
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 9 - Le pitture di Murecine esposte alla mostra “De Pompei a Bliesbruck. Vivre en Europe Romaine” BliesbruckReinheim aprile 2007
Fig.10 - Performance della Compagnia Ludi Scenici di Roma all’apertura della Mostra “De Pompei a Bliesbruck. Vivre en Europe Romaine” aprile 2007.
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Maria Cristina Mancini
I mosaici in Abruzzo: storia del Progetto TESSAbruzzo. Schedatura, studio e ricerca sui pavimenti musivi in area centro-italica dal IV a.C. al VI d.C. A Sara con affetto e riconoscenza per i fantastici viaggi, per le infinite emozioni, per gli affascinanti progetti, per le appassionanti ricerche, per la cortese disponibilità, per la cordiale amicizia, per le strepitose risate, per il continuo divertimento, che hanno sempre accompagnato il meraviglioso e sorprendente cammino insieme, portando un incondizionato e straordinario arricchimento delle conoscenze, impareggiabile ed unico soprattutto dal punto di vista umano.
Abstract: The work presented here is a summary of the research that since 2012/13 has been carried out by Sara Santoro and the writer on italic mosaics. With the creation of LabDAM (Laboratory of Archaeometry and Documentation of Mosaic) it was possible to create a database of all the mosaics published (433) and begin a methodological, statistical, iconographic and typological studies, covering a chronological span ranging from the 4th century BC to the 6th century AD. As a result, the TESSAbruzzo project was born, as part of the national TESS project. The purpose of TESSAbruzzo, at both national and regional levels, as well as the collection of scientific data, is to bring the mosaics in Abruzzo to the attention of a broader public. The research also focused on the iconographic models, tastes, fashions and workers of the time, taking into account the historical and social evidence of the Italic populations. This article is the union of two works presented with Sara at the XXII AISCOM conference in 2016 and, unfortunately without her and dedicated to her, at the XXIII AISCOM conference in 2017. The studies and research continue, despite the lack of Sara, but it is her memory that gives us the motivation to continue this important work.
Nel 2011 Sara forma un gruppo di ricerca sul mosaico, composto da studenti e collaboratori, portando avanti in due anni accademici il Laboratorio di Diagnostica, Documentazione e Restauro dei mosaici delle Terme di Chieti, in stretta collaborazione con la Soprintendenza Archeologia dell’Abruzzo3. Nel 2014 Sara decide di entrare a far parte, con il suo gruppo di ricerca collaudato, del prestigioso Progetto TESS dell’Università di Padova4, per colmare una lacuna documentaria e conoscitiva, relativa ai mosaici dell’Abruzzo. La collaborazione fra i due gruppi di ricerca, a cui si è aggiunto quello dell’Università di Teramo5, ha dato luogo alla creazione del LabDAM, Laboratorio di Documentazione e Archeometria del Mosaico, come centro di ricerca inter-ateneo (Università di Chieti, Teramo e Padova)6.
Il Progetto TessAbruzzo pertinente la schedatura, lo studio e la valorizzazione delle pavimentazioni antiche presenti nella nostra regione fu fortemente voluto da Sara Santoro, che fin dal suo arrivo presso l’Università di Chieti-Pescara iniziò una serie di attività inerenti i mosaici1. Per questo lavoro di studio e ricerca chiese a me di coadiuvarla nel portare avanti e nel gestire il progetto e di collaborare nello studio e nella ricerca storica, archeologica, iconografica e tipologica degli apparati decorativi pavimentali.2 Fu l’inizio di una bellissima avventura che diede seguito ad una valida e proficua serie di collaborazioni in vari progetti scientifici, purtroppo non proseguiti o portati a termine assieme.
1 Questo contributo, che ripercorre gli avvenimenti legati allo studio e schedatura dei mosaici, riprende i lavori presentati e pubblicati in AISCOM XXII ed AISCOM XXIII. 2 Ricordo ancora l’entusiasmo e la passione che ci unirono nella nuova collaborazione e ricerca, le discussioni ed i continui confronti, il piacevolissimo viaggio insieme al XVIII convegno AISCOM di Isernia nel 2013, che introdusse in questo ambito il nuovo progetto, le bellissime giornate a Matera nel 2016 durante il XXIII convegno AISCOM, che purtroppo fu il primo e unico al quale partecipammo insieme. 3 Il gruppo di lavoro era diretto dalla prof.ssa S. Santoro e coordinato dalla scrivente, per l’ambito universitario; mentre per l’allora Soprintendenza Archeologia dell’Abruzzo erano responsabili il dott. S. Agostini, la dott.ssa A. Rossi e la dott.ssa S. Lapenna. 4 Diretto dalla prof.ssa F. Ghedini e coordinato dalla dott.ssa C. Angelelli. 5 Coordinato dalla prof.ssa R. Morselli e fondamentale per gli aspetti di applicazione della Virtual Reality e Augmented Reality alla valorizzazione dei Beni Culturali. 6 Questo centro ha partecipato e vinto un progetto regionale di alta formazione, “Talenti per l’Archeologia” PO FSE ABRUZZO 2007-2013, proponendo un percorso formativo (master) di II livello sul tema “Archeologia del Mosaico”, durato 10 mesi nel 2015, e che ha avuto per obiettivo della lunga fase di tirocinio la schedatura sistematica dei mosaici romani dell’Abruzzo secondo le modalità della banca dati TESS da parte dei 10 allievi selezionati per il corso. La sede operativa del LabDAM è presso l’Università di Chieti, di cui la scrivente è Responsabile scientifico.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Un’opera di catalogazione sistematica delle decorazioni pavimentali in area abruzzese non era stata intrapresa, anche se diversi sono stati i contributi sui rivestimenti pavimentali e sui contesti di rinvenimento. La maggior parte del patrimonio musivo abruzzese schedato non è visibile, è noto esclusivamente attraverso pubblicazioni o annotazioni di archivio10. Buona parte dei rivestimenti pavimentali della regione sono stati solo menzionati in relazioni di scavo o semplicemente presentati in pubblicazioni poco note e a diffusione locale11. I mosaici, generalmente esaminati sul piano formale e iconografico, non sono stati considerati nel quadro storico-culturale del territorio preso in esame e dei contesti in cui erano collocati. Inoltre non era stata mai evidenziata l’importanza dei rivestimenti decorativi per la comprensione degli usi e del gusto delle comunità e, in particolare, delle élite locali, soprattutto in relazione al precoce processo di romanizzazione di quest’area medio-adriatica e della progressiva omologazione alle mode diffuse nel centro dell’Impero.
Il fine della ricerca è conoscitivo e di tutela: l’Abruzzo è una regione importante nello sviluppo della cultura antica, anche musiva, dove il gusto romano si integra precocemente con un sostrato culturale influenzato dalla cultura greco-orientale. Con questa ricerca, si è, fin dall’inizio, inteso produrre una raccolta completa del materiale edito accompagnata da una redazione critico-interpretativa degli aspetti storici, culturali ed artistici dei mosaici, integrando le informazioni archeologiche sull’intera regione in modo tematico. La favorevole posizione geografica, all’incrocio dei percorsi interni Nord-Sud della penisola italica con quelli trasversali fra Tirreno ed Adriatico, giocò un ruolo fondamentale negli scambi culturali con le altre popolazioni italiche, le colonie della Magna Grecia, la costa etrusco-tirrenica, Roma e il mondo greco-orientale7. Accanto a questo primo obiettivo scientifico, la ricerca era finalizzata alla valorizzazione delle numerose aree archeologiche che costituiscono un patrimonio territoriale significativo. Gli strumenti scientifici ed informatici utilizzati in questo progetto di ricerca consentono di elaborare ricostruzioni virtuali, visite virtuali immersive, oltre che guide interattive che possono supportare in modo efficace la fruizione di questo patrimonio musivo, spesso nascosto all’interno di edifici e dunque non facilmente accessibile al pubblico8. Sul piano scientifico, la banca dati TESS costituisce una valida base per una ricostruzione attendibile dei gusti, della circolazione dei modelli e della presenza e organizzazione delle maestranze che si riflettevano negli apparati decorativi e negli interventi di ristrutturazione, spesso funzionali alla stesura di nuove superfici musive. L’analisi si è concentrata sulla distribuzione topografica e cronologica dell’edito, con approfondimenti sugli aspetti del gusto della committenza, sulla circolazione dei modelli e delle maestranze, sui criteri conservativi e di valorizzazione. Nel 2016 al XXII incontro AISCOM, tenutosi a Matera, sono stati presentati i primi dati statistico-quantitativi, con osservazioni e riflessioni su aree particolarmente interessanti per le notevoli evidenze sia a livello quantitativo che tipologico9.
I dati raccolti in Abruzzo con il progetto TESS sono sorprendenti per quantità, ampio arco cronologico e variegata tipologia ed hanno portato a risultati notevoli ed al contempo sorprendenti. I pavimenti editi sono 43312 (Fig. 1). La distribuzione dei rivestimenti musivi è prevalentemente urbana, in particolare nei centri principali, mentre pochissime sono le attestazioni nei centri minori. Le prime occorrenze pavimentali registrate nel territorio abruzzese vanno ascritte ad alcuni pavimenti databili alla metà del III sec. a.C.; in alcuni siti in concomitanza con le prime fondazione coloniali, avvenute tra il 303 (Alba Fucens e Carsioli) ed il 289 a.C. (Hatria e Castrum Novum), in altri casi in centri urbani fuori dall’orbita politico-amministrativa romana, ad es. Atessa e San Giovanni Lipioni13 (CH). Le occorrenze più tarde sono riferibili alla seconda metà del VI sec. d.C. e pertinenti ad un edificio cristiano (Casalbordino, CH). Questo arco cronologico copre dunque nove secoli: da una fase di urbanizzazione e progressiva monumentalizzazione, ricca di influssi e innovazioni, si passa nel pieno periodo imperiale ad una fase di mantenimento e adeguamento delle strutture esistenti e di ampia diffusione dei rivestimenti musivi; una netta cesura tra
Queste relazioni che risalgono già all’età protostorica si intensificarono nei periodi successivi, dando luogo ad uno sviluppo notevole della regione in età tardorepubblicana, dimostrato dai dati archeologici ed in particolare dalla raccolta sistematica dei mosaici. 8 Un progetto prototipo, relativo ai mosaici di Teramo, elaborato dagli allievi del programma Talenti per l’archeologia, è presentato in questa sede da R. D’Errico. Gli aspetti di fruizione attuale e potenziale sono stati presi in considerazione sistematicamente nell’ambito del programma, che ha compreso anche la partecipazione degli allievi ad un intervento di pulitura e restauro d’emergenza nella domus di Bacco a Teramo e una valutazione delle modalità di fruizione tramite questionario al pubblico (sempre a Teramo). 9 Mancini, Santoro 2017, 333-342; Andreetti 2017; D’Arcangelo 2017; Di Carlo 2017; D’Errico 2017; Pallotta 2017; Zelante 2017; Zippilli 2017. 10 Spesso è privo di documentazione grafica e fotografica, che permetterebbero uno studio iconografico e tipologico più puntuale ed un inquadramento cronologico più attendibile, con una ricostruzione del contesto 11 Una prima raccolta di dati risale al 1980 ad opera del Robotti che si sofferma principalmente sugli aspetti tecnici della realizzazione dei mosaici. Le più recenti pubblicazioni riguardanti gli ultimi rinvenimenti sono inserite negli Atti del XVII Colloquio AISCOM, editi nel 2012, nei Quaderni di Archeologia d’Abruzzo, editi dal 2011, e nel volume del Salcuni, che raccoglie parte dei mosaici relativi ai centri principali ponendoli in relazione con le pitture nel quadro di una disamina degli apparati decorativi di età romana nella regione. 12 Il materiale musivo proviene, in parte, da siti archeologici scavati sistematicamente ed in parte da rinvenimenti occasionali e scavi urbani effettuati nei centri urbani e nel territorio. 13 Per questa località si veda il contributo in questa sede di E. Di Valerio. 7
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M. C. Mancini
I mosaici in Abruzzo: storia del Progetto TESSAbruzzo. Schedatura, studio e ricerca sui pavimenti musivi in area centro-italica dal IV a.C. al VI d.C.
il II ed il III secolo, corrisponde ad un periodo di stagnazione economica, segnalata anche da altri indicatori archeologici; una parziale ripresa evidente nel corso del V fino al pieno VI secolo.
(130) che ornano ambienti di domus e templi. Questa tipologia costituisce la testimonianza numericamente più rilevante in questo periodo. La presenza, in alcuni casi21, di decorazioni più elaborate come delfini e caducei negli angoli di risulta, potrebbe ascriversi all’uso semanticamente banale di simboli “portafortuna” ma anche a intenzionali riferimenti alla navigazione e ad attività mercantili del committente stesso. In effetti la classe mercantile italica risulta in questa fase particolarmente attiva, culturalmente vivace e ampiamente diffusa in tutto il Mediterraneo22. In età imperiale al cementizio a base fittile subentra quello a base lapidea o mista. Si nota l’assenza, in entrambi i periodi, dei cementizi privi di inserti, mentre trova una diffusione capillare la pavimentazione in cementizio con inserti litici e/o tessere musive, inserti marmorei e misti. In questo quadro repubblicano dominato dai cementizi, per eccezionalità iconografica spicca il mosaico tessellato policromo del sacello del santuario di Ercole Curino a Sulmona23, in area peligna, che si discosta dalle caratteristiche decorative degli altri pavimenti coevi noti e riprende i motivi decorativi dei contemporanei mosaici presenti in alcuni edifici, pubblici e privati, sull’isola di Delo, chiaro indizio delle precoci relazioni commerciali della élite locale con l’Oriente mediterraneo. I tessellati sono i più numerosi tra le cinque tipologie pavimentali prese in esame, e quasi tutti sono del periodo imperiale (184), in edifici privati e in qualche caso in aree sacre (4). I pavimenti a commessi laterizi (35) sono destinati a rivestimenti di ambienti di servizio che non necessitavano di un particolare apparato decorativo. Si nota una netta prevalenza dei pavimenti con mattoncini disposti a spina di pesce, esclusivamente riconducibili ad ambienti scoperti, o legati alle attività produttive. I sectilia (12) sono prevalenti in edifici privati, urbani, di età imperiale24, e quelli a base interamente marmorea risultano essere i rivestimenti più utilizzati dal III sec. d.C. A giustificare l’esiguo numero di questi pavimenti va tenuto presente naturalmente, oltre all’elevato costo, il fenomeno del reimpiego e la pratica della calcinazione. I mosaici policromi sono in tutto 84; in alcuni casi la qualità dei materiali e dell’esecuzione artistica sono particolarmente pregiati ed elevati25 (Fig. 3). I monocromi sono solo 11, mentre i mosaici in bianco e nero (147) sono i più diffusi. I motivi decorativi
ANALISI QUANTITATIVA Dai dati quantitativi è stato possibile definire alcuni punti importanti. Il numero di pavimenti censiti nella schedatura informatizzata TESS (433) è in linea con quello di altre regioni di cui il dato è noto14, anche in termini di densità, cioè di rapporto con l’ampiezza dell’area presa in esame. Questo dato ha permesso di correggere la percezione di una regione considerata marginale nell’Italia romana, poco sviluppata a livello economico, priva di porti importanti e di centri urbani di grandi dimensioni. Al contrario, la presenza musiva appare diffusa, nei centri urbani e in numero minore in area extraurbana, prevalentemente in templi, ville rustiche o residenziali, disposti per lo più lungo la viabilità principale interna, con alcuni pregevoli esempi anche lungo la costa15. Colpisce il caso particolare di Interamnia per la consistente quantità di rivestimenti pavimentali, per la varia tipologia e per la presenza ininterrotta in quasi tutto l’arco cronologico considerato. Se nel complesso, il quadro risulta chiaro anche in termini di localizzazione nei centri principali, nei centri minori si nota una scarsa attestazione di esemplari. Nel territorio ed in aree extraurbane, i rinvenimenti sono legati prevalentemente al settore residenziale delle ville16 ed ai numerosi templi italico-romani sparsi nella regione. I 433 rivestimenti pavimentali censiti17, sono così distribuiti tipologicamente: 242 tessellati; 141 cementizi; 35 commessi laterizi; 12 sectilia; 3 a ciottoli. La suddivisione cronologica è molto netta, in favore dell’età imperiale con 238 pavimenti rispetto ai 163 di età repubblicana18 (Fig. 2). Per 32 rivestimenti non è stato possibile dare una corretta valutazione cronologica, mentre, in alcuni casi controversi, l’analisti stilistica dell’ornato ha consentito una prima ipotesi di datazione19. Le attestazioni più antiche sono riferibili a pavimenti cementizi a ciottoli dimezzati (3)20 in edifici privati, nei primi due casi, ed in un santuario, nel terzo e quarto. Sempre al periodo tardorepubblicano appartengono i cementizi a base fittile con tessere musive
Toscana 417, Bueno 2011, 385; Veneto 391, Rinaldi 2007, 271; Emilia Romagna 414, Paolucci 2013, 354. La maggior parte della produzione musiva è concentrata a Interamnia (85), a Sulmo (47), ad Alba Fucens (47) e a Marruvium (43). Tra cui spiccano quelle di Ovindoli (23) e Tortoreto (8). 17 I rivestimenti pavimentali rinvenuti nella regione sono numericamente più consistenti; ma in moltissimi casi non sono stati pubblicati. 18 Un dato numericamente più elevato se confrontato con la Toscana, ad esempio, Bueno 2011, 407-408. 19 In alcuni casi le datazioni proposte nelle pubblicazioni devono essere riviste alla luce di un più ampio quadro di riferimento. 20 Hatria Azzena 1987; Interamnia D’Alessio, Guidone 2009; Mancini 2011; Salcuni 2012; Atessa Fabbricotti 1997, 75-77; San Giovanni Lipioni si veda in questa sede il contributo di E. Di Valerio. 21 Per esempio ad Interamnia, in località Madonna delle Grazie ed ex area Lisciani, Di Vincenzo 2012. 22 Mancini 2017, 421-441 e 2019, 261-276; 23 La Torre 1989. 24 Le città con il più elevato numero di sectilia sono Sulmo, Corfinium, Alba Fucens. 25 Domus del Leone, Domus di Bacco ad Interamnia; emblema del mito di Teseo a Teate; villa di Ovindoli –, tenendo anche conto che in questi pavimenti è attestato l’uso di tessere vetrose. Mancini 2011; Angeletti 2012. 14 15 16
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro analisi statistico-quantitativa aveva proposto questo quadro d’insieme. La schedatura delle evidenze musive pertinenti il Progetto TESSAbruzzo è stata conclusa; molto deve essere ancora esaminato e verificato, per arrivare ad uno studio esaustivo di gran lunga più dettagliato. I confronti con le aree contermini sicuramente permetteranno di chiarire i molti dubbi sulle questioni delle maestranze, della circolazione dei modelli e degli influssi culturali ed artistici. Il territorio subì profondi mutamenti in ambito politico, economico e culturale proprio grazie ai rapporti con le regioni limitrofe ed il versante orientale dell’Adriatico, che divennero sempre più stretti e continui a cominciare dall’età ellenistica e fino alla tarda antichità.
più frequenti sono quelli geometrici (102), contro i 32 figurati.
DISTRIBUZIONE TOPOGRAFICO-CRONOLOGICA L’edilizia residenziale è sicuramente la più documentata, sia in senso quantitativo, poiché sono ben 289 i contesti architettonici che possono essere interpretati come edifici abitativi, sebbene per alcuni di essi sussistano dei dubbi, sia in senso qualitativo. Più rare (101) sono invece le pavimentazioni riferibili ad edifici pubblici. Tra la metà del III e la fine del II sec. a.C., le testimonianze pavimentali più numerose sono presenti nelle città di Hatria e Interamnia, dato che si accorda con le conoscenze archeologiche e storiche sulla economia e struttura politica del territorio pretuzio agli inizi dell’età romana. Subito dopo la Guerra Sociale, tra l’età sillana e cesariana, l’intensa urbanizzazione del territorio abruzzese mostra un netto incremento dei rivestimenti pavimentali, con una distribuzione più uniforme nella regione, anche grazie all’introduzione del tessellato avvenuta già nel II sec. a.C.26. Con l’età augustea si assiste ad un grande fervore edilizio, che si esprime nella monumentalizzazione dei centri urbani, pubblica e religiosa e nell’ampliamento e abbellimento degli edifici privati. Le villae sono presenti nella regione già in età tardo-repubblicana ed in età imperiale, in alcuni casi, esibiscono splendidi mosaici figurati, policromi e con tessere vetrose27. Nell’edilizia pubblica, una delle innovazioni monumentali del rinnovamento urbanistico programmatico, in particolare a partire dall’età giulio-claudia anche grazie all’evergetismo delle aristocrazie locali, fu la realizzazione di complessi termali che hanno restituito rivestimenti musivi con un repertorio figurato sempre più articolato. Gli edifici di culto in Abruzzo mostrano testimonianze pavimentali di pregio, già dal III-II sec. a.C. con battuti cementizi a base fittile ed inserti lapidei bianchi28,. Le attestazioni tardo-repubblicane ed imperiali nei templi sono invece in tessellato bianco e nero, con motivo ad onde (Interamnia, Peltuinum) che gradualmente lasciano il posto a tappeti più semplici con inserimento di iscrizioni musive (Alba Fucens, Castel di Ieri). Le attestazioni più tarde dei rivestimenti musivi sono sempre in ambito cultuale, ma nella sfera cristiana. Si tratta delle pavimentazioni della basilica di Santo Stefano in rivo maris (Casalbordino) in tessellato policromo, databili al VI sec. d.C. che trovano stringenti confronti con pavimentazioni coeve in edifici paleocristiani della Puglia e della sponda orientale dell’Adriatico29. Una prima
I risultati preliminari della schedatura dei pavimenti musivi in Abruzzo, nell’ambito del Progetto TESS, fortemente voluto dalla Prof. Santoro, mostrano come siano numericamente significative le attestazioni dei mosaici figurati nonostante il netto predominio della produzione musiva di carattere geometrico. Questo primo risultato non solo attesta la buona percentuale nel settore decorativo pavimentale, ma permette di ridefinire la valenza culturale ed artistica di queste rappresentazioni in un ambito regionale spesso considerato marginale30. I mosaici figurati sono in numero di 33 su un totale generale di 433 pavimenti, di cui 135 decorati. Tralasciando le decorazioni geometriche, si è scelto di incentrare la ricerca sui pavimenti figurati, considerati con il contesto architettonico e storico-culturale, che in qualche modo ha influito sulle scelte e realizzazioni. Si è partiti da una sintesi tematica prendendo in esame sia i singoli elementi figurati, che le composizioni geometriche con motivi figurati. e con l’analisi dei motivi, della simbologia e con la valutazione della scelta di determinati temi figurati nei mosaici. I principali motivi narrativi sono stati inseriti in categorie tematiche, come già avvenuto in altri lavori31, connesse all’ambito mitologico, marino, dionisiaco, ludico e lotta di fiere. A tale consistente varietà di tematiche nei pavimenti del territorio abruzzese corrispondono particolari contesti di rinvenimento, urbani ed extraurbani, una distribuzione topografica in ambito regionale, ed un inquadramento cronologico che parte dal I secolo a.C., con le figurazioni più pregevoli, fino ad arrivare al pieno III secolo d.C.
Dunque più precocemente che in Emilia e in Veneto. Come ad Ovindoli, Gabler, Redö 2008. 28 Oltre al già ricordato tessellato policromo del tempio di Ercole Curino a Sulmo, probabilmente prodotto di maestranze locali, ma con forti influssi ellenistico-orientali 29 Tulipani 2001, 323-340. 30 Mancini, Santoro 2017, 333-342; Mancini 2018, 597-606. 31 Rinaldi 2007, 214-216; Bueno 2011, Parte III Capitolo 2.. 26 27
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M. C. Mancini
I mosaici in Abruzzo: storia del Progetto TESSAbruzzo. Schedatura, studio e ricerca sui pavimenti musivi in area centro-italica dal IV a.C. al VI d.C.
TEMI MITOLOGICI
caso si potrebbe tentare di ipotizzare la scelta del mito con la destinazione d’uso dell’ambiente stesso, forse di pertinenza della domina, di cui le tre dee simboleggiavano le migliori qualità femminili e muliebri. È datato alla metà del II secolo d.C.36
L’interesse e la scelta per figurazioni ispirate al mito presuppone una buona cultura e conoscenza da parte del committente. La scena legata al mito più nota è l’emblema di Teate Marrucinorum in vermiculatum policromo in cui è rappresentata la lotta tra Teseo ed il Minotauro32, il cosiddetto Teseo Liberatore, di cui rimangono vari esemplari in ambito italico. Quasi nulla, purtroppo, è noto del contesto di rinvenimento33, con ogni probabilità era al centro di un tappeto musivo in tessellato bianco e nero, con motivo a schema di labirinto34, riferito al Labirinto di Cnosso dove risiedeva il Minotauro. Nella maggior parte dei casi noti, essi decoravano pavimentazioni di edifici privati; purtroppo l’assenza di notizie sull’edificio di appartenenza non permette una ricostruzione puntuale. Probabilmente quello di Chieti è artisticamente meno valido, soprattutto se confrontato con l’emblema cosiddetto da Formia, ma rappresenta comunque una splendida testimonianza dei gusti e della ricchezza economica del committente. Datato al I secolo a.C., ascrivibile alla corrente culturale ed artistica del più famoso emblema della Domus del Leone di Interamnia, viene da alcuni studiosi messo in relazione alle vicende belliche tra Italici e Romani, come allusione propagandistica, dove Teseo rappresenterebbe Roma che sottomette il toro italico. Strano trovare nella principale città dei Marrucini, che parteciparono attivamente e fattivamente al Bellum Sociale contro Roma, un simbolo politico anti-italico così forte, a meno di collocarlo in età sillana ed ipotizzare la presenza di un importante personaggio romano al quale questa allusione era più appropriata. Più prudente è ipotizzare semplicemente una scelta di gusto di un cartone che circolava in questi territori, dando un valore apotropaico ed eroico al tema rappresentato.
TEMI MARINI Il mondo del mare è presente in diverse raffigurazioni con una certa varietà di tematiche e con simbologie evocative non solo dell’ambiente marino dominato da Nettuno, ma soprattutto delle funzioni delle sale in cui questi tappeti musivi erano inseriti. In particolare le rappresentazioni di temi marini erano strettamente legate agli ambienti principali degli edifici termali. In questa regione non mancano, inoltre, figurazioni come delfini in contesti templari (Sulmo ed Interamnia Praetuttiorum) e privati (Interamnia Praetuttiorum), ma le attestazioni sono limitate al periodo repubblicano. Ed in questi casi con ogni probabilità sono simboli legati alla fortuna delle attività commerciali delle popolazioni Italiche e del mare benefico. Da edifici termali presenti in vari ambiti urbani regionali provengono le raffigurazioni più pregevoli dei temi marini. La pavimentazione dell’edificio di Hatria, Atri (TE), sotto l’attuale cattedrale, mostra una raffigurazione di pesci ed ippocampi, nei pochi lacerti ancora oggi visibili37; al contrario il pregevole pavimento dell’apodyterium delle terme di Teate Marrucinorum38, Chieti, presenta uno pseudoemblema, al centro del pavimento in tessellato bianco e nero, decorato da delfini alternati ad ippocampi che incorniciavano un grande tridente, simbolo evocativo del dio signore del mare. Per la tecnica esecutiva, viene datato alla piena età neroniana, ma potrebbe essere di qualche decennio successivo.
Un’altra scena mitologica è rappresentata dal quadro delle Tre Grazie, rinvenuto in una stanza della villa rustica di epoca imperiale nella Frazione di San Potito ad Ovindoli35. Nonostante sia mal conservato e frammentato, è stato comunque possibile ricostruire il quadro figurativo dello pseudoemblema policromo, in cui le tre figure femminili nella loro posizione classica sono inserite in un ottagono ad onde correnti inscritto in un quadrato con motivo a treccia. Il tappeto musivo pavimentale è in tessellato bianco e fasce perimetrali nere, mentre lo pseudoemblema è composto prevalentemente da tessere vitree policrome, che rendevano coloristicamente luminoso il quadro stesso. In questo
Molto più complessa è la figurazione di due pavimenti musivi, esclusivamente in tessellato bianco e nero, delle terme di Histonium39, Vasto (CH), dove una teoria di pesci, animali e personaggi marini fantastici rappresenta una sorta di “mare pescoso” beneaugurante. Un repertorio di diverse specie marine, ciascuna, in realtà, rappresentata per sé stessa e chiusa in piccoli quadri, di varie forme geometriche, inseriti in un ordinato schema compositivo. In posizione centrale, nella parte alta del pavimento, domina incontrastata la figura possente del dio Nettuno. La disposizione di queste figurazioni
32 Il quadro musivo è conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Inv. 10018), De Caro 2001, 24-26. Per questi quadri figurativi è da tempo riconosciuta una provenienza da un archetipo pittorico di età ellenistica, Salcuni 2012, 158. 33 Si vedano a riguardo Robotti 1997, 70 e Campanelli 1997, 31. 34 Salcuni 2012, 158, con una attenta disamina delle varietà tipologiche, dei confronti e con dettagliata bibliografia di riferimento. 35 Gabler, Redo 2008, 71-122. 36 Gabler, Redo 2008, 78-82; Andreetti 2017, 354. 37 D’Arcangelo 2017, 346. 38 Salcuni 2012, 162-163. 39 Per una puntuale descrizione del contesto di rinvenimento e dei pavimenti musivi si rimanda a Staffa 1998, 399-408.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro caso specifico, è la sola protagonista della decorazione. Il tappeto musivo dell’ambiente, forse interpretabile come triclinium, è composto da tessere bianche con fascia perimetrale nera, al cui centro lo pseudoemblema è campito da un quadro, con cornici lineari alternate bianche e nere ad una cornice a greca delineata con tessere di colore rosato, al cui interno in vermiculatum policromo è raffigurato il busto del dio Bacco con corona di pampini e pelle ferina sulle spalle. Raffinata esecuzione, effetti coloristici e di luce, ricercatezza nei particolari e virtuosismi cromatici fanno di questa raffigurazione un’opera di pregio. I tratti del volto sono delicati e giovanili ed i pampini e la pelle ferina sono caratterizzati dalla presenza di tessere vitree in colore blu e verde, per accentuare i riflessi dei tralci e dei pampini d’uva46. Ed è proprio la presenza di queste tessere vitree a rendere preziosa e pregevole l’opera. Più complessa e problematica risulta essere la questione della datazione; fin dal suo rinvenimento era stato datato al I secolo a.C.47 e messo in relazione alla koinè culturale ed artistica del ben più famoso mosaico del Leone, di cui non sembra affatto coevo. Probabilmente potrebbe rientrare in un ambito cronologico poco più tardo, compreso tra la fine I secolo a.C. e gli inizi del I secolo d.C.48
mostra una certa formale eleganza tipica del periodo antonino40, segno evidente non solo del buongusto del committente, ma anche della maestria degli artigiani che li crearono. Si tratta di temi figurativi che rappresentati singolarmente o associati sono assai comuni nel mondo romano in particolare negli ambienti legati all’acqua, come appunto gli edifici termali. Questi pavimenti sono stati datati al pieno II secolo d.C. In un edificio, di cui non è identificabile la destinazione d’uso, rinvenuto a Marruvium41, San Benedetto dei Marsi (AQ), è stato riportato in luce un particolare pavimento a tessere bianche, con fasce nere, ed inserti di lastre marmoree che inquadrano una raffigurazione policroma di Oceano, tra pesci guizzanti ed uccelli d’acqua a simboleggiare il mondo marino, con grandi occhi spalancati ed un aspetto giovanile e sorridente, differente da altre rappresentazioni tradizionali, le quali solitamente presentano tratti più anziani. La composizione non mostra una lavorazione particolarmente pregiata, ma una redazione piuttosto semplice, sommaria e poco formale. Questa pavimentazione, dalla successione stratigrafica, è stata datata tra la seconda metà del II e gli inizi del III secolo d.C.42
TEMI DIONISIACI
Il mondo dionisiaco è, invece, molto spesso evocato simbolicamente attraverso alcune immagini legate alla divinità, come animali del suo corteggio (Avezzano), racemi di vite e kantharoi (Pescara, San Salvo, Avezzano, Ovindoli).
Il gruppo numericamente più consistente è quello dei mosaici a tema dionisiaco. Occupano un ampio arco cronologico che, a partire dal I secolo d.C., giunge fino al tardo impero. Non è sempre possibile stabilire l’intensità, in senso generale, del significato religioso di un determinato soggetto, senza possedere elementi precisi del contesto o della portata dei vari soggetti dionisiaci43. La tematica dionisiaca presenta vari gradi ed un’ampia scala di significati. Si può partire da una esplicita dichiarazione di iniziazione fino a più generici riferimenti al piacere della vita o alle locali produzioni agricole44. Nella cosiddetta domus di Bacco45 ad Interamnia Praetuttiorum, attuale Teramo, la scelta del tema di Bacco potrebbe far pensare ad una ben precisa volontà di adesione a specifici valori religiosi e culturali, o comunque ad una inequivocabile concezione della vita da parte del proprietario. La divinità, in questo
Un richiamo al mondo dionisiaco e naturalistico è presente in un ambiente della villa rustica di Ovindoli49. Una raffigurazione policroma, con tessere vitree, in pessimo stato di conservazione, presenta un centauro circondato da racemi di vite che fuoriescono da kantharoi. Potrebbe essere considerata una figurazione simbolica, che ben si accorda alla funzione della sala di rappresentanza, legata alla virtus del dominus e alla vita ideale nei fondamenti ideologici ed economici del latifondo e dell’ambiente circostante. È datato alla metà del II secolo d.C.50
Rinaldi 2007, 220. Ceccaroni 2012, 104. 42 Il quadro figurativo presenta alcune lettere in tessere nere che probabilmente potrebbero comporre il nome del mosaicista, SA ANDRI; Ceccaroni 2012, 104. 43 Grassigli 1997, 715. 44 La regione è storicamente nota per le buone ed abbondanti produzioni di vino e le consistenti esportazioni in tutto il Mediterraneo. 45 Zippilli 2017, 393-394, al quale si rimanda per la bibliografia precedente. 46 La presenza di tessere vitree è stata notata solo in occasione dei lavori di pulizia e di consolidamento effettuati nel 2015 dai tirocinanti del Corso formativo “Archeologia del Mosaico” nell’ambito del Progetto regionale “Talenti per l’Archeologia”, diretto da Sara Santoro e coordinato dalla scrivente. 47 Angeletti 2012, 10-11. 48 Solo un’attenta analisi e studio dei materiali e delle altre pavimentazioni permetterà di definire più correttamente la cronologia di questo meraviglioso pavimento. 49 Gabler, Redo 2008, 74-75; Andreetti 2017, 354. 50 Gabler, Redo 2008, 78-82. 40 41
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M. C. Mancini
I mosaici in Abruzzo: storia del Progetto TESSAbruzzo. Schedatura, studio e ricerca sui pavimenti musivi in area centro-italica dal IV a.C. al VI d.C.
TEMI LUDICI
pavimento con motivo a cassettoni prospettici policromi, campiti da motivi floreali55. Sono qui raffigurati tutti simboli legati alla fertilità e all’abbondanza, che uniti all’imponente simbologia del leone vittorioso, erano stati qui sicuramente utilizzati come metafore beneauguranti di prosperità e felicità. Anche qui si è di fronte ad una dotta e ricca committenza, in un momento politico-sociale particolare durante il quale inizia il processo di monumentalizzazione dei centri urbani principali e che porterà, nei decenni successivi, ad un notevole arricchimento architettonico e decorativo dei nuovi municipia e dei cosiddetti centri minori.
Non sono attestate raffigurazioni di spettacoli pubblici, ad eccezione di un quadro figurato policromo con un carro per le corse nel circo in un pavimento nella villa rustica ad Avezzano51. Nell’esagono centrale è rappresentato un carro trainato da due cavalli bianchi, in corsa, evidenziata dalle ombre portate bianche, con pennacchio verde sulla testa, e l’auriga in piedi. Per sottolineare ed evidenziare alcuni particolari nella raffigurazione sono state utilizzate tessere vitree rosse, gialle, azzurre, celesti, rosa e verdi. L’auriga vincitore indossa una casacca blu, regge la palma e la corona della vittoria ed è rappresentato nel momento in cui esegue il giro d’onore al termine della gara. Molto probabilmente questo tema non è legato ad un coinvolgimento diretto del dominus nell’organizzazione di questi spettacoli, ma va letto nel contesto figurativo dell’intero pavimento e di rinvenimento.
La scelta e la selezione di determinati temi iconografici dovettero essere dettate, il più delle volte, dal gusto, dalla cultura, dalla moda, dal rango e dalle preferenze stilistico-decorative dei proprietari, non necessariamente con un chiaro intento che poteva dare adito ad interpretazioni legate in particolare ad un messaggio politico ed univoco. Ma probabilmente, lo scopo principale era quello di evidenziare e sottolineare la propria posizione sociale, la propria ricchezza e suscitare ammirazione nella propria cerchia e nell’ambito delle frequentazioni personali.
Spesso nei mosaici, le scene di gare nel circo sono associate ad elementi dionisiaci; le factiones rappresentano l’allegoria delle stagioni, la corsa il passare dell’anno e la vittoria è una metafora della potenza della natura. Il bigarius vincitore della factio veneta che rappresenta l’autunno, in associazione con figure e simboli dionisiaci, pantere e kantharoi, con eroti e centauri, è evocativo delle attività vinicole e della produzione principale della villa rustica e del suo sistema economico52. Dioniso non è protagonista della scena, è semplicemente evocato in un tema ricercato legato al benessere e beneaugurante, in uno splendido pavimento collocato nella stanza più rappresentativa della villa. Esso viene datato tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C.53
Il linguaggio dei temi figurati nei mosaici abruzzesi sembra giocare questo specifico ruolo, come elemento fondamentale nella volontà del committente di esprimere la propria potenza, il proprio rango, l’ostentazione della ricchezza e del prestigio sociale; il lusso inteso come espressione di potere e di valore ideologico, in una pianificazione di interazioni tra simboli e contesti che portano all’esaltazione dell’individuo, in particolare nei delicati e ambigui rapporti della società romana. Si tratta comunque di scelte legate al gusto ed alla moda del momento; alla circolazione ed alla popolarità di particolari modelli e delle stesse maestranze; modelli, figurazioni e temi che ornavano contesti urbani ed extraurbani, sia pubblici che privati.
TEMI LOTTE TRA ANIMALI Il quadro sicuramente più noto nella lotta tra animali è lo spettacolare emblema del Leone, rinvenuto ad Interamnia Praetuttiorum (Teramo) nel tablinum della domus omonima. Meraviglioso esempio di vermiculatum policromo, datato al I secolo a.C., rappresenta un leone che dopo la lotta cruenta, ha catturato un serpente. Simbolo di forza e coraggio, tema di prestigio con forte valore apotropaico e magico54, ma anche figurazione molto nota in ambiente italico legata alla circolazione di cartoni e maestranze. Inserito in una cassetta in pietra, è contornato da una serie di motivi decorativi policromi, di cui si deve mettere in risalto la pregevole cornice con festoni di foglie e frutta avvolti da nastri e decorata agli angoli da maschere teatrali, il grande pannello centrale è a sua volta inquadrato in un
Il mosaico assurge, quindi, come altri elementi decorativi, ad un ruolo importante per una lettura complessiva del contesto in cui erano stati inseriti, attraverso l’uso di un linguaggio tipico dell’ideologia propagandistica che a vari livelli influenzava la società romana; tutte le decorazioni figurate contribuivano ad essere elementi portatori di un messaggio legato al ruolo e all’immagine sociale e culturale del proprietario. I temi figurati presenti nelle pavimentazioni del territorio abruzzese non si discostano notevolmente dal repertorio
Ceccaroni 2012, 105-115. L’edificio a cui appartiene il pavimento presenta, oltre agli ambienti di rappresentanza e della famiglia, un impianto produttivo agricolo e vinicolo, in particolare. 53 Ceccaroni 2012, 111. 54 Salcuni 2012, 156-158. 55 Auriemma 1995 per l’analisi iconografica; Zippilli 2017, 393, per la bibliografia precedente. 51 52
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Angeletti, G., 2012. “Teramo: pavimenti marmorei e mosaici nel Palazzo Melatino e nella Domus di Bacco”, in AISCOM XVII, 5-15.
iconografico e decorativo tipici della corrente culturale ellenistica e romana; denotano, inoltre, una particolare attenzione alla ricezione, al gusto ed al livello qualitativo del repertorio, delle tecniche di lavorazione e delle maestranze, considerazioni che fanno di questi mosaici degli esemplari di pregevole e raffinata qualità, con prerogative e peculiarità legate agli interessi dei loro committenti. Il momento cruciale è sicuramente da porsi al periodo successivo la Guerra Sociale, che funge da spartiacque tra l’età italico-ellenistica e la “romanizzazione” delle popolazioni locali. Che non vuol intendersi come mera ricezione sociale di immagini e tendenze, ma come accoglimento e rilettura di fenomeni ampi e complessi secondo le proprie esigenze, i propri gusti, la propria cultura ed i propri ambiti di interesse economico, commerciale e culturale; come avveniva nella diffusione delle arti figurative e decorative tra queste popolazioni già nei secoli precedenti. Le direttrici delle influenze culturali erano prevalentemente, per il periodo qui preso in esame, tre e sono ricostruibili attraverso attenti confronti iconografici ed economici: quella campano-laziale; quella dauno-meridionale e quella greco-orientale56. Essenzialmente fondamentali sono le ultime due correnti culturali e direttrici di circolazione di merci e maestranze, lungo percorsi legati al commercio ed alla transumanza, che da sempre legavano attraverso interessi culturali ed economici le popolazioni italiche e greco-orientali; contatti ed interessi che continuarono in età tardo antica ed altomedievale, come dimostrano i pavimenti musivi di VI secolo d.C., rinvenuti nella chiesa dell’imponente sito di Santo Stefano in rivo maris57.
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La scelta di temi figurativi colti, l’uso di maestranze abili e ricercate e l’impiego di materiali pregiati come il marmo ed il vetro colorato, rari e particolarmente costosi, delineano un quadro sociale e intellettuale di una élite e di una ricca borghesia connotate da un forte potere economico e sociale e da una ottima base culturale, importanti per l’intento autocelebrativo e la propaganda politica dei committenti e proprietari di questi meravigliosi rivestimenti pavimentali.
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Il lavoro di studio e ricerca del LabDAM continua, con la stessa energia e passione, proprio come Sara avrebbe voluto e fatto.
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M. C. Mancini
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Fig. 1: Tabella analitica delle tipologie pavimentali
Fig. 2: Distribuzione cronologica
Fig. 3: Tipologie pavimentali
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SEZIONE V
Insediamento Minore
a cura di
Maria Carla Somma
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Andrea R. Staffa
Crecchio dai Frentani ai Romani e oltre. Un esempio di centro “minore” di lunga durata in Abruzzo Abstract: This paper reconstructs the territorial lansdacape related to the site of Crecchio (CH), from the pre-Roman age to the Romanization through the analysis of recent findings; more specifically large funerary areas with their artifacts allow to reconstruct funerary uses, craftmanship activities, trade and cultural routes.
I. INTRODUZIONE
Castello e nel Parco della Duchessa, più oltre adeguatamente illustrate, che testimoniano dell’esistenza di un abitato antico sul sito del villaggio attuale, possiamo aggiungere un altro nucleo di popolamento anch’esso risalente al periodo italico nei pressi della contrada Villa Selciaroli (n. 8), e soprattutto varie altre ville romane con importanti aree di produzione nelle località Tavarone (fig.1, n. 4), San Polo (n. 7), e Villa Baccile (n. 8), a testimonianza di un quadro produttivo-insediativo d’epoca romana evidentemente collegabile allo sfruttamento delle risorse agricole di un territorio fra i più fertili dell’intera regione, in primo luogo il vino per cui questo territorio è ancor oggi celebre, ma anche l’olio.
Il villaggio di Crecchio, nell’immediato entroterra della provincia di Chieti a solo qualche km dal centro portuale antico, altomedievale, medievale, e moderno di Ortona, costituisce un vero e proprio esempio di insediamento a lunghissima continuità di vita, del periodo italico sin addirittura all’età moderna. Nato quanto meno nel periodo italico, se non addirittura prima, come testimonierebbero alcuni rinvenimenti nell’area del Castello Ducale, il territorio di Crecchio è interessato fra VI e IV secolo a.C. dalla presenza di più nuclei di popolamento, il primo e più importante dei quali riconosciuto nella contrada Cardetola, sede di rinvenimento nel XIX secolo della celebre stele oggi esposta nel Museo Archeologico di Napoli (fig. 1, n. 2), ed oggi oggetto di intensivi scavi, ed almeno un secondo addirittura ubicabile sulla propaggine collinare ove sorge ancor oggi l’insediamento (fig. 1, nn. 5-6).
Ricordiamo infine le testimonianze sporadiche relative al rinvenimento di testimonianze d’epoca romana all’interno del villaggio medievale e soprattutto la necropoli ed i resti di insediamento altomedievale rimessi alla luce nel 1990 nell’area della chiesa di S. Maria da Piedi, nel cuore dell’abitato storico (fig. 1, n. 6), di cui documentano le lunghissime fasi di vita.Nelle fonti medievali l’insediamento compare con il significativo toponimo di Ocriculum, ossia piccolo ocre, ad esempio nella bolla di Papa Nicola II del 1059, ove è menzionata una “Plebem Occrecle”, documento di particolare interesse in quanto non dà all’insediamento la qualificazione di castellum, ma bensì quella ben più antica di plebs – pieve, luogo di culto che va riorganizzando il preesistente quadro insediativo tardoantico in età altomedievale, e che sembra dunque qui porsi in continuità con ben più antiche forme di popolamento dell’area (fig. 2). Il toponimo Ocre è di evidente origine italica, ed indica forme d’abitato che avevano occupato aree di propaggine collinare oppure sommità, come ad esempio nel caso ancor oggi superstite di Ocre nell’Aquilano
L’insediamento faceva parte in antico del territorio del popolo italico dei Frentani, a cui appartenevano anche due dei principali abitati vicini, divenuti nel I secolo a.C. municipia, i centri urbani di Ortona (Hortona) e Lanciano (Anxanum)1. Nel termine “maroúm”, presente sulla celebre stele qui nel 1844 rinvenuta e più oltre illustrata, A. La Regina aveva tuttavia a suo tempo riconosciuto il genitivo plurale di una possibile forma etnica relative al nome dei Marrucini, segnalando che l’area doveva comunque essere ubicata nella parte settentrionale del territorio dei Frentani, non lontana proprio dal territorio del Marrucini2, e comunque ricordiamo che la definizione di tutti gli etnonimi italici è processo che va definendosi in epoca successive a quella della stele3. Alle testimonianze archeologiche subito all’esterno del
Sempre fondamentale sui Frentani resta La Regina 1980; vedi anche Firpo 1990, e Fabbricotti 1990. La Regina 2010, 267. 3 Vedi in proposito sempre La Regina in Sannio, Pentri e Frentani dal VI al I sec. a.C., 1980, pp. 34-37, Fabbricotti 1990, 91-99, Capini e Di Niro 1991, Staffa 2000, 598-600 per le fasi di VI-V secolo a.C. Sulle storia e le istituzioni della Frentania fra IV secolo a.C. ed età imperiale si rinvia a Firpo 1990. Per una recente sintesi sull’archeologia del territorio dei Frentani in Molise vedi infine Ceccarelli e Fratianni 2017. Un cordiale grazie anche all’amico Vincenzo D’Ercole, attivo per tanti anni in Abruzzo ed in particolare nel Chietino, per i suggerimenti ed il fecondo confronto nell’ambito di questo studio. 1 2
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
II. TESTIMONIANZE D’ABITATO PROTOSTORICO
Il borgo di Crecchio deriva quindi le sue origini da un primitivo abitato protostorico collocato sulla sommità di un pianoro naturalmente difeso da scoscesi pendii almeno su tre lati, su un’altura poi occupata in epoca normanna dal Castello Ducale.Questo originario abitato protostorico dovette proseguire in età italica, come testimonia la scoperta fatta nel corso del 2010 di una necropoli italica situata nell’area subito a sud della cittadina, all’interno dell’area del tradizionale giardino del Castello, al momento solo parzialmente indagata (scavate sinora tre tombe con corredi ascrivibili al V secolo a.C.)5.
Nel 2009, nell’ambito di lavori per il consolidamento del celebre Castello Ducale de Riseis d’Aragona, oggi sede del Museo dell’Abruzzo Bizantino ed Altomedievale, seguiti alla frana di parte del recinto del monumento di qualche anno prima (2003), era possibile condurre una serie di saggi nei pressi della torre medievale denominata dell’Ulivo, originario nucleo del castello normanno risalente al XII secolo, saggi che rimettevano alla luce alcuni livelli di vita e resti di focolare riferibili, per i materiali recuperati, quanto meno all’età del Ferro (fig. 3, C; fig. 4) 4. Veniva inoltre rinvenuta una struttura muraria in asse con un muro di epoca precedente chiaramente visibile sul muro di contenimento del castello stesso, in via d’ipotesi riferibile al una prima opera di fortificazione della primissima età altomedievale, che sigillava ed aveva tagliato la stratigrafia d’epoca precedente. Pur nella limitatezza dell’indagine questi dati archeologici rappresentano una preziosa testimonianza sulle fasi di vita nell’area del castello medievale prima della sua realizzazione. Veniva infatti riportata alla luce innanzitutto una stratigrafia composta da vari strati di colore scuro ricchi di carbone, materiale organico e livelli di concotto, contenenti frammenti ceramici ascrivibili alla tarda età del Bronzo-prima età del Ferro; trattasi con ogni evidenza di livelli antropizzati riferibili ad un abitato protostorico significativamente situato proprio sul pianoro del colle poi occupato dal Castello, in posizione di grande rilevanza strategica posta a presidio dell’accesso all’estrema propaggine dell’altura fortificata, l’ocre, su cui sorge ancor oggi Crecchio, in origine “Ocriculus” (fig. 5, nn. 2-3-6). A circa 1,40 mt al di sotto del piano di campagna veniva inoltre parzialmente portato in luce un basamento realizzato con ciottoli e pietre legate con terra, dalla forma apparentemente circolare, che appare forse riconoscibile come zoccolo in pietra destinato a supportare un alzato in terra e legno (fig. 5, n. 4; fig. 6), collegabile con ogni evidenza agli strati ed alle fasi protostoriche precedentemente descritte. Nell’area a ridosso dell’attuale muro di contenimento del pianoro circostante il Castello verso la sottostante strada che porta al borgo (, veniva inoltre alla luce un muro con orientamento E/O dallo spessore di 55 cm realizzato con ciottoli e pietre, conservato per una lunghezza di circa 2,50 mt a cui va ad addossarsi la ricostruzione molto tarda dell’attuale muro di contenimento del castello. Si noti che il muro presenta un orientamento obliquo rispetto alle strutture murarie di età successiva e scompare verso E, probabilmente già smantellato in antico (fig. 5, n. 10).
III. IL POPOLAMENTO ITALICO III.1 La necropoli italica nel Parco della Duchessa nei pressi del Castello Ducale Il territorio di Crecchio dovette essere interessato nel periodo italico da un assetto del popolamento organizzato in più nuclei sparsi, il ben noto modello paganico-vicano, che andrà poi sopravvivendo sino a tutta l’età repubblicana, con eloquente caso di continuità sino all’età imperiale dei due nuclei di Cardetola e Crecchio-centro, che costituiscono un’evidente testimonianza della sostanziale continuità dell’assetto sparso del popolamento frentano dopo le Guerre Sannitiche sino alla Guerra Sociale ed oltre6. Ma non dovevano essere solo questi due i nuclei di popolamento esistenti nella zona, come documentano alcuni materiali dalla contrada Selciaroli/ Villa Formicone riferibili ad un’altra necropoli Italica, da cui provengono alcuni materiali oggi conservati nel magazzino del museo, nonché una spada corta di analoga cronologia dalla non lontana contrada S. Pietro – Villa Selciaroli7. Ma soprattutto dobbiamo qui ricordare, per la sua prossimità allo stesso abitato di Crecchio, le testimonianze di una necropoli di analoga pertinenza esplorate nell’estate 2010 da parte della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo in collaborazione con Archeoclub d’Italia-Sede di Crecchio nell’area del Giardino Ducale del castello di Crecchio, ove nel 2009, in seguito a lavori per la messa in opera di un palo Enel, era venuta parzialmente in luce una prima sepoltura 8. Si provvedeva dapprima all’individuazione completa della tomba rinvenuta casualmente e quindi ad un parziale ampliamento che portava all’individuazione di altre due tombe, di seguito descritte (fig. 7), che configurano a tutti gli effetti un piccolo sepolcreto, probabilmente esteso anche nelle aree limitrofe. La tomba 1 era a fossa rettangolare, con copertura e riempimento di ciottoli di dimensioni medie a delimitare una struttura rettangolare, con la parte in corrispondenza dei piedi lievemente curva,
Su questi saggi vedi Staffa e Odoardi 2011. La breve campagna di scavo, dalla durata di una settimana, è stata eseguita dai volontari dell’Associazione, sotto la direzione di chi scrive, e con la collaborazione di Roberta Odoardi, e dell’assistente Osvaldo Corneli. Si ringraziamo gli amici Giuseppe Carulli, Giuseppe Valentini, Marta Di Carlo, e Antonella Scarinci dell’Archeoclub d’Italia – Sede di Crecchio, il sindaco di Crecchio Nicolino Di Paolo, ed il tecnico comunale Giulio Saraceni. 6 La Regina 1976, 1984, 1989; Firpo 1990. 7 Vedi ubicazione dei due rinvenimenti infra fig. 42, nn. 11, 10. 8 Su questi saggi vedi Staffa e Odoardi 2012. 4 5
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Crecchio dai Frentani ai Romani e oltre. Un esempio di centro “minore” di lunga durata in Abruzzo
piano di deposizione a meno 60 cm rispetto alla copertura, inumato in mediocre stato di conservazione, con cranio in parte distrutto e traslato dal palo Enel; mancano tibie, peroni e piedi, posto in posizione supina, orientato NO/SE, di sesso femminile (fig. 8).
costolatura sbalzata di rinforzo; sul petto era una fibuletta in bronzo ad arco semplice (fig.8, tomba 3 n. 1), ed ai piedi una olpe in ceramica a vernice nera (n. 3). Il rinvenimento delle tre sepolture, databili fra fine del V e primi decenni del IV secolo a.C., all’estremità meridionale del Parco della Duchessa, oggi giardino del Castello Ducale (vedi fig. 7), appare evidentemente ricollegabile ai resti d’ abitato protostorico precedentemente descritti all’interno del recinto del castello, dando particolare spessore a quell’ipotesi su un’origine italica dello stesso toponimo – Crecchio, da Ocriculum ( = Ocre ), sopra ricordata, segnalando l’ubicazione della necropoli subito all’esterno dell’area dell’abitato, aldilà di un fossato naturale, ancor oggi in parte riconoscibile nonostante la parziale urbanizzazione dell’area. Fra le sepolture rinvenute la tomba femminile n. 1 si caratterizza per la ricchezza degli oggetti di ornamento presenti, con la parure di fibule, gli anelli, la bellissima armilla e la collana a bulle con elementi in osso, confrontabile con analogo esemplare da una coeva tomba della necropoli vestina di Nocciano10 (figg. 9-10).
La sepoltura presentava un interessante corredo (fig. 9), con piccola coppa monoansata in ceramica a vernice nera sul torace (fig. 8, T.1, n. 1), sul braccio destro un’armilla in verga di bronzo a sezione circolare, con capi sovrapposti e presso le estremità, espansione rettangolare con decorazione a rilievo di due cordoncini paralleli, a loro volta decorati da segmenti obliqui incisi (n. 8, t1, 2; fig. 10, A), spillone in bronzo a fianco del braccio destro (n. 3), anello digitale in bronzo (n. 4), fibula in ferro a doppio gomito a fianco del braccio destro (n. 5), spillone in bronzo sotto il mento (n. 6), due anelli digitali in bronzo sulla mano destra e su quella sinistra (nn. 7, 8), resti di collana composta da elementi a bulla alternati a elementi tubolari in osso e bronzo sul petto (n. 9), 4 vaghi in pasta vitrea vicino al collo, evidentemente riferibili ad una collanina (nn. 10, 13, 14), fibula in bronzo con anelli per pendaglio e nettaunghie in osso (nn. 11-12), ed infine un anellino digitale in bronzo sulla mano sinistra (n. 13)9. Una seconda tomba (n. 2) a fossa rettangolare, con copertura costituita nella parte superiore da lastroni di dimensioni medie, in parte marginata da ciottoli e pietre di varia dimensioni, collocata a circa -60 cm rispetto al piano di campagna, era in pessimo stato di conservazione, probabilmente perchè tagliata da una calcara, forse d’epoca tardoantica, tanto che si sono conservati solo parti degli arti inferiori e superiori.
Si segnala inoltre la fibula della tomba 2, attestata sia in argento che in bronzo in area dauna, ad Herdonia e Salapia, da fine V-primo quarto del IV sec. a. C., e con un’ampia diffusione in Italia centro meridionale (Campania, Lucania), confrontabile inoltre con esemplari in bronzo rinvenuti in altre necropoli di analoga pertinenza frentana lungo la fascia costiera della media Italia adriatica, esemplari simili a Termoli e Villalfonsina ed abbastanza affini a Guglionesi e Fossacesia11. Il corredo della tomba maschile 3 è caratterizzato dal tipico cinturone sannitico in cuoio rivestito da lamina in bronzo (fig. 11), elemento di distinzione sociale e insegna del pieno godimento dei diritti pubblici, e presente in sepolcreti dell’Abruzzo costiero dei Frentani (necropoli del Tratturo a Vasto, loc. Morandici di Villalfonsina, in loc. Gaeta a Lanciano).
Ben più interessante si presentava una terza sepoltura (fig. 8 n. 3), ubicata a lato della prima, a fossa rettangolare, con copertura e riempimento di ciottoli e pietre di medie e grandi dimensioni a delimitare una struttura rettangolare, con piano di inumazione a circa -60 cm rispetto alla parte superiore della copertura, e frammenti di dolio sul fondo. L’inumato, un maschio, era in posizione supina con braccia distese sui fianchi, orientato N-S, e cranio a S; era solo parzialmente conservato ed in parte schiacciato dal collasso delle pietre della copertura., mentre sul petto è stata rinvenuta una grossa pietra con chiari segni di annerimento da fuoco. Sul bacino era un prezioso cinturone in bronzo a fascia rettangolare in lamina di bronzo, provvisto di una fila di forellini lungo i margini, per il fissaggio del rivestimento interno in materiale organico (fig. 11), chiusura con due ganci lavorati e sulla parte opposta fori corrispondenti provvisti di
III.2 La necropoli italica in località Santa Maria Cardetola: la stele Dalla località S. Maria Cardetola di questo comune proviene la celebre stele italica con due importanti ed oggi ben note iscrizioni paleosabelliche di VI secolo a.C., rinvenuta nel 1844 e segnalata da parte dello storico lancianese A. Carabba, oggi conservata nel Museo Archeologico di Napoli, secondo A. La Regina di pertinenza funeraria, con riferimento alla presenza di un sepolcro (ipeten esmen”), ed un testo che nella sua ultima analisi ritiene ancora sostanzialmente oscuro12.
9 Altri elementi di corredo erano già venuti alla luce e subito recuperati al momento della messa in opera del palo ENEL nel luglio 2009, evidentemente collocati in origine nell’area del cranio: una fibuletta in bronzo ad arco semplice; una fibuletta ad arco pieno semicircolare ingrossato al centro e decorato nella parte mediana e alle estremità da coppie di anelli trasversali intervallati da due fasce rilevate con decorazione a segmenti paralleli incisi, staffa laminata superiormente e decorata a bulino e molla unilaterale a doppio avvolgimento; una fibula molto deteriorata in due frammenti simile al tipo precedente; 2 anelli digitali; 2 anellini da sospensione; diversi elementi in bronzo pertinenti alla collana a bulle. 10 Vedi Ruggeri 2003. 11 Vedi Di Niro 1991, Faustoferri 2003, Aquilano 2009, Staffa 2016. 12 Vedi l’ultima recente edizione dell’importante reperto in La Regina 2010, 266-267, n. 20, con bibliografia precedente.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro fondamentale rinvenimento della stele risalente al 1844 sopra ricordata, ciò anche sulla base di una importante ricerca presso l’Archivio di Stato di Napoli, ove veniva individuata e poi studiata la relativa pratica del Ministero Borbonico della Pubblica Istruzione15. Nella pratica era anzitutto contenuta una relazione del possessore della lapide signor Bartolomeo Granata, allegata ad un puntuale rilievo in scala 1:1 del prezioso reperto, da cui desumiamo le più antiche notizie sul suo rinvenimento (fig. 13). La stele “a caso fu rinvenuta da taluni coltivatori che per facende agrarie scavarono oltre il loro solito per le piantagioni, e ciò avvenne sul suolo della contrada Cardetola famosa in tal comune pè pezzi d’antichità là rinvenuti da secoli, e di tratto in tratto”, contrada ove è stata ora individuata e parzialmente scavata la grande necropoli a nuclei sparsi (“di tratto in tratto” !), importanza che non era sfuggita allo stesso Granata, che dichiarava ancora che “tali notizie presentano l’idea che in tal sito siavi stata una gran Città, ed essere il Paese ora esistente, l’oppido di essa”.
Ciò nonostante la menzione nell’epigrafe di una “ok[r] ikam”, o piccolo okres, appare in via d’ipotesi suggestivamente riferibile con il toponimo dell’odierno villaggio, Crecchio da Ocriculum - piccolo Ocre13, e questa attribuzione appare oggi ancora più attendibile, ricordando il recente rinvenimento di resti di insediamento protostorico ed italico presso il Castello Ducale, e poi di tombe riferibili a ben due distinte necropoli d’epoca italica, quella nel vicino Parco della Duchessa, soprattutto quella ben più importante indagata fra 2015 e 2019 proprio a Cardetola. Quella di Cardetola è una estesa necropoli, con evidenza una delle più importanti dell’Abruzzo antico, di cui sono stati sinora individuati almeno 3 nuclei ed indagate sino al 2019 ben 134 sepolture, con rinvenimento di ben tre elmi, 15 cinturoni, tombe con 30/40 oggetti di corredo, ed una panoramica di elementi di corredo fra i più ricchi sinora rinvenute in Abruzzo per le cruciali fasi di V-IV secolo a.C. (fig. 12). Dopo l’inserimento nel 2011 all’interno del nuovo Piano Regolatore di Crecchio adottato nel 2009 di opportune norme di salvaguardia archeologica dell’area, che continuava ad essere interessata da rinvenimenti archeologici, era possibile avviare i primi scavi nell’area nel 2015, quando, grazie al supporto tecnico ed all’impegno dell’Archeoclub d’ Italia – sede di Crecchio, veniva anzitutto condotta una prima serie di saggi in proprietà Tella Franco, che restituivano le prime sepolture, riferibili a due separati sepolcreti, databili l’uno a fine del VI secolo, e l’altro fra V e III secolo a.C., oltre a 3 fosse votive, due delle quali di grandi dimensioni, riempite con notevole quantità di oggetti votivi14.
La rilevanza del sito di rinvenimento emerge anche da un’altra notazione sul fatto che “pochi anni indietro” nella stessa contrada fossero stati “rinvenuti molti idoli di bronzo dell’altezza di circa un palmo e mezzo, ed anche più”. Il rinvenimento suscitò subito grande interesse, così da portare sul posto importanti studiosi, fra cui lo stesso Theodor Mommsen e Padre Raffaele Garrucci, tanto che il Granata notava che “forestieri prestantissimi per lettere e scienza sono stati ad osservare ocularmente la Lapide in parola, ma niuno finora ha saputo interpretarne la descrizione dei caratteri scolpitasi sopra, ma tutti hanno affermato essere caratteri Oschi”.
Fra 2017 e 2018 è stato inoltre scavato, circa 300 metri verso sud, un secondo esteso nucleo della necropoli, le cui indagini sono state completate a fine luglio 2018, portando il totale delle sepolture sinora indagate a ben 106, anche se appare probabile la presenza anche in questo secondo nucleo di altre sepolture profonde, che non sono state indagate (fig. 12).
Reso consapevole dell’importanza del rinvenimento Bartolomeo Granata, che merita in questa sede ricordare, a suo spese caricava su un carro la pesante lapide e se la portava addirittura a Napoli, ove in data 8 novembre 1852, dopo aver addirittura preso in affitto per ospitarla una casa in Vico S. Maria della neve a Chiaia, indirizzava una supplica alla Commissione di Antichità e Belle Arti del Ministero Borbonico della Pubblica Istruzione, offrendosi di vendere la lapide al Reale Museo (Archeologico), il
Questo eccezionale rinvenimento ha consentito di rileggere con ben altra capacità di comprensione il
13 Morandi 1974, 56-59, La Regina 2010, P. 267, testo A, terza riga. Si veda il probabile riferimento ad un passo di Festo Sesto Pompeo, De verborum significatu, XIII, in cui si menziona un ocris, che vorrebbe dire monte aspro, circondato da dirupi. 14 Lo scavo è stato reso possibile dall’impegno e dall’assunzione dei relativi oneri da parte dell’associazione, grazie all’impegno del valoroso ex presidente Ingegnere Giuseppe Carulli, impegnato da oltre 30 anni nella valorizzazione del patrimonio culturale di Crecchio, e dell’attuale Presidente Giuseppe Valentini. Le varie fasi dello scavo sono state dirette scientificamente dallo scrivente, con il prezioso contributo degli archeologi Luca Cherstich, Debora Lagatta, e dello stesso Giuseppe Valentini, che è anche direttore tecnico dell’associazione, unitamente al socio Maurizio Miccoli, la documentazione fotografica di Franca Nestore, i rilievi topografici di Andrea e Simone Miccoli, ed il prezioso contributo di Antonella Scarinci, responsabile della gestione del museo, e dell’altro archeologo Davide Di Vittorio, che proprio presso il museo di Crecchio sta anche svolgendo uno stage, riordinando insieme a Giuseppe Valentini i materiali dallo scavo, grazie anche alle indicazioni della restauratrice Isabella Pierigè. Ampie ricognizioni dell’area si debbono allo stesso Luca Cherstich e ad Andrea Miccoli, mentre si deve parte della documentazione fotografica all’Ingegner Rocco Valentini. Voglio anche ringraziare gli altri soci dell’ Archeoclub di Crecchio Marco Miccoli, Antonio Lieti, Omar Cavuti, Pedro Hugo Cavuti, Enrica Francescucci, Francesca Francescucci, Francesca Miccoli, Nicola Andreoli, Sebastian Nocciolino, Rebecca Sollazzo, Francesco Gregorio, Erica Gasparri, Carola Candeloro, Romano Masciarelli, Bambino Nino Carinci, V. Carinci, S. Manzo, A. Scarinci, ed altri che hanno dato il loro contributo. 15 La preziosa ricerca, fondamentale per un puntuale inquadramento dell’eccezionale rinvenimento, si deve alla Dottoressa Enrica Francescucci, e all’attuale presidente dell’Archeoclub d’Italia Giuseppe Valentini, responsabile con la moglie Antonella Carinci della gestione al pubblico del Museo dell’Abruzzo Bizantino ed Altomedievale ospitato nel Castello Ducale, co-direttore scientifico anche della manifestazione “A cena con i Bizantini”, che si tiene ogni anno a fine luglio, giunta nel 2018 alla XIV edizione. Il riferimento d’archivio è: Ministero della Pubblica Istruzione, stanza 100, busta 364. Si ringrazia l’Archivio di Stato di Napoli per la collaborazione, in particolare il Direttore D.ssa Irma Ascione, ed il funzionario responsabile del Servizio “Richiesta copie per corrispondenza” Dott.ssa Barbara Orciuoli. Numerose notizie desunte dalla stessa documentazione sono edite nel recentissimo Santeusanio 2020, 125-138
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Crecchio dai Frentani ai Romani e oltre. Un esempio di centro “minore” di lunga durata in Abruzzo
che di lì a poco avveniva16.
definizione dell’ etnos sulla base della sola cultura materiale20, ed anche ricordando in proposito che il succitato riferimento all’etnos marrucino è l’unico sinora rinvenuto, e viene proprio dalla stele di Cardetola in precedenza ben analizzata.
III.3 La necropoli italica in località Santa Maria Cardetola: scavi 2015 - 2019 A partire dal 2015 e sino al 2019 si sono svolte nell’ampia contrada S. Maria Cardetola di Crecchio, come già sopra anticipato, una serie di indagini archeologiche, rese possibili dall’ormai più che trentennale collaborazione fra Soprintendenza dell’Abruzzo ed Archeoclub d’Italia – Sede di Crecchio, nell’ambito del controllo di una serie di estesi lavori agricoli per l’espianto e reimpianto di vigne (fig. 14). La necropoli di S. Maria Cardetola è tradizionalmente riferita al popolo italico dei Frentani, a cui appartenevano –come già sopra anticipato- anche due dei principali abitati vicini, divenuti nel I secolo a.C. municipia, i centri urbani di Ortona (Hortona) e Lanciano (Anxanum)17. Pur essendo presente sulla celebre stele qui nel 1844 rinvenuta il termine “maroúm”, riconosciuto da La Regina come genitivo plurale di una possibile forma etnica relativa al nome dei Marrucini, va sottolineato che, proprio per tale ubicazione, quest’area doveva far parte comunque del territorio dei Frentani, ai suoi confine settentrionali con il vicino territorio del Marrucini, e dovette restare nella sostanza interessata da una sostanziale organizzazione tribale, poi sviluppatasi in un vero e proprio stato etnico-tribale18. La maggior parte delle sepolture indagate è riferibile a quella che è stata considerata l’epoca del cambiamento, ossia il V-IV secolo a.C., periodo che vede la transizione anche in quest’area dall’antica koine culturale medioadriatica ad una fase in cui vanno facendo ampi ed articolati I contatti con l’Italia meridionale ellenizzata19. Proprio a questi cambiamenti si lega probabilmente anche la progressiva definizione dello stesso ethnos frentano, tenendo tuttavia ben presenti quelli che sono gli elementi di problematicità nella
Troppo articolato e complesso appare attualmente il dibattito per tornarvi approfonditamente in questa sede, e giova quindi sottolineare che i riferimenti ai termini “Frentani” e “Frentano” sono in questa sede usati convenzionalmente, con riferimento a quella che venne poi definendosi in epoca successiva come Frentania storica21. Della necropoli di Cardetola sono state sinora scavate, fra 2015 e 2019, ben 134 sepolture, articolate per nuclei, evidentemente solo un campione di una ben più estesa necropoli, che sembra interessare la contrada per una lunghezza di almeno 300 metri, situazione che appare simile a quella del sepolcreto indagato nel 1912-14 lungo il Tratturo di Vasto22. A parte tombe riferibili a fine VI – inizi V secolo a.C. (TT. 6, 5), al V a.C. (TT. 13, 21, 53, 65, 91, 99, 128 maschili; 19, 62, 81, 114, 127 femminili, T. 111 adulto non id.), altre sepolture di cui è ancora ampio l’inquadramento, fra V ed inizi del IV secolo, comunque caratterizzate dall’assenza di ceramica a Vernice nera23, la maggior parte delle sepolture sinora indagate sono inquadrabili nel IV secolo a.C.24, con varie inumazioni negli stessi settori che sono inquadrabili fra seconda metà IV e prima metà del III secolo a.C.25 , particularmente quelle nelle tombe a camera e quelle ad incinerazione. Due sepolture sono certamente inquadrabili al III, la T.10 per la presenza di uno Skyphos Morel serie 4320, e la T.98 per la presenza di due unguentari fusiformi, forse femminile per la presenza di pinzette, ed infine forse una al II secolo a.C. (T.42)26.
Archivio di Stato di Napoli, citata busta 364, n. 590. La Commissione esaminava abbastanza celermente la proposta, tanto che con nota 26 novembre 1852 indirizzata al Principe di Bisignano, Maggiordomo Soprentendente, Generale di Casa Reale, in considerazione dell’importanza del rinvenimento, proponeva di accogliere la richiesta. La casa affittata dal Granata era a Vico S.Maria della Neve n. 7, 1° p. Sul viaggio del Granata a Napoli, con ricostruzione addirittura del percorso, vedi Santeusanio 2020, 129-132. 17 Sempre fondamentale sui Frentani resta La Regina 1980; importanti rassegne sui rinvenimenti archeologici nell’area sono Fabbricotti 1990, e Faustoferri 2003, che si concentra sulle necropoli italiche dell’Abruzzo meridionale. 18 A. La Regina, 1980a, La Regina 2010, p. 267. La definizione di tutti gli etnonimi italici è processo che va comunque definendosi in epoca successive a quella della stele, vedi in proposito sempre La Regina, in Sannio, Pentri e Frentani dal VI al I sec. a.C., 1980, 34-37, Capini e Di Niro 1991. Vedi anche Staffa 2000, 598-600, con riferimento alle fasi di VI-V secolo a.C. come documentate dalla necropoli del Tratturo di Vasto. Sulle storia e le istituzioni della Frentania fra IV secolo a.C. ed età imperiale, in particolare sulle più antiche testimonianze epigrafiche, si rinvia a Firpo 1990, specie 169-170. Per una recente sintesi sull’archeologia del territorio dei Frentani in Molise vedi infine Ceccarelli e Fratianni 2017. 19 Il fenomeno trova in area frentana abruzzese anche l’altro significativo caso della necropoli del Tratturo di Vasto, per la quale, per le fasi dal IV secolo a.C. vedi Staffa 2000, 619-620. 20 Jones 1997. 21 Ringrazio l’amica e collega di Soprintendenza Amalia Faustoferri, anche lei da lungo tempo impegnata in scavi e studi sugli stessi Frentani, per i frequenti scambi di opinione, e gli utili suggerimenti. 22 Per una prima ampia sintesi preliminare sulla necropoli vedi Staffa e Cherstich 2020a, consegnato alle stampe quando erano state già scavate 67 sepolture; sulla necropoli del Tratturo di Vasto vedine l’edizione in Staffa 2000. 23 TT. 48, 54, 73, 110, 132 maschili; TT. 20, 72, 75, 76, 77, 126, 134 femminili; T. 123 adulto non id.; TT. 7, 8, 46, 74 bambini; TT. 45, 79, 94 bambine; TT. 55 120 bambini non id. 24 TT. 1, 2, 4, 9, 14, 16, 18, 26, 31, 33, 44, 51, 63, 69, 70, 73, 83, 85, 93, 100, 101, 105, 108, 115, 122, 124, 125 maschili; TT. 28, 32, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 43, 47, 49, 61, 66, 67, 68, 86, 89, 95, 107, 117, 119, 131 femminili; TT.82, 102, 106 adulti non id.; TT. 3, 15, 23, 30, 40, 78, 88, 109, 112, 121 bambini; TT. 12, 12, 27 bambine; TT.96, 97, 118, 133 bambino non id. 25 TT. 17, 22, 25, 29, 42, 50, 52, 64 maschili; T. 24 femminile; T.41 adulto non id.; T. 57 bambino; TT. 56, 58 bambini non id. 26 A queste prime valutazioni complessive vanno aggiunte 8 sepolture di inquadramento problematico per la presenza di pochi frammenti ossei o addirittura la loro assenza (TT. 71, 87, 90, 92, 113, 116, 29, 130), e due sepolture di neonati (TT. 103, 104), oltre infine a due tombe d’epoca romana (TT. 59, 60). Si tratta di un primo inquadramento di massima, che potrebbe in futuro subire aggiustamenti a seguito degli studi antropologici e di un sistematico studio dei materiali, con varie tombe oggi riferite al IV secolo a.C. che potrebbero anche salire agli ultimi decenni del V, per cui 16
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Termoli31, sebbene il campione indagato a Cardetola sia ancora troppo ridotto per confronti risolutivi.
Sei sepolture sono state indagate in proprietà Tella Franco, ove appare riconoscibile uno dei nuclei più antichi del sepolcreto (vedi fig. 12, area A), probabilmente risalente nelle sue fasi più antiche alla fine del VI secolo, mentre ben 118 inumazioni sono state indagate in vasta area indagata nella ben più estesa proprietà Pasquale Luciano (area B), ove la necropoli sembra ben più densamente concentrata, e si spera sia possibile proseguire le indagini in futuro. Sempre alle fasi tardoitaliche sono attribuibili 10 sepolture indagate nel 2019 nella proprietà Carinci Valerio (vedi fig. 12, C), mentre ben più tardo e quasi isolato appare il nucleo in altra particella della stessa proprietà (D), costituito da ben più semplici sepolture deposte in fosse costruite con tegole e spallette in cementizio, gravemente danneggiate dai lavori agricoli, e con evidenza databili fra tarda età repubblicana ed età imperiale. A confermare il carattere a nuclei distinti della ben più vasta necropoli hanno infine dato esito del tutto negativo i saggi condotti nel 2016 in una area abbastanza estesa ad ovest dei nuclei C-D (vedi fig. 12, E). A parte tre articolate e ricche tombe a camera (TT. 22, 24, 64) le sepolture italiche di Cardetola sono prevalentemente di pianta rettangolare, riempite di terra e pietrame, analogamente a quelle della necropoli del Tratturo di Vasto27, con inumati sepolti supini, in fosse generalmente non più grandi della dimensione di un adulto, e corredo allo stesso livello delle giaciture.
In molte sepolture erano presenti ossa di animali deposte a fianco o ai piedi del defunto, in qualche caso di ridotte dimensioni sopra piatti, insieme a minuscole ciotole, forse per salse32, consuetudine diffusa senza differenze di genere, età o ricchezza dei corredi. Per quel che riguarda i collegamenti ad ampio raggio della necropoli e del suo territorio con altre aree dell’Adriatico e dello Jonio, evidentemente lungo rotte maritime che raggiungevano anche la Grecia e l’Egeo, di particolare interesse appare anzitutto la presenza a Crecchio – Cardetola di Ceramica Attica di importazione, o in qualche caso di imitazioni locali, che hanno consentito di identificare alcune ricche tombe maschili di V secolo a.C., a cui sono probabilmente coeve anche altre tombe di corredo più semplice di inquadramento cronologico meno evidente. Nelle due tombe 127 e 128 sono presenti due coppe del tutto simili, entrambe tuttavia poste all’interno di grandi olle a modo di attingitoi, che richiamano le coppe a Civette della produzione attica a figure rosse (seconda metà fine sec. V a.C.), una produzione molto diffusa nel Mediterraneo di V secolo, ma anche alcune produzioni magnogreche, ad esempio del gruppo detto “Protolucano” di fine V – inizi IV secolo a.C. (fig. 15). La maggior parte delle sepolture, sia di queste fasi, che di quelle più tarde di IV secolo a.C., contenevano come elemento distintivo un grande vaso (dolium o olla), posto ai piedi, che è presente nella maggior parte delle tombe maschili, ed in molte di quelle femminili, e del tutto assente in quelle infantile, analogamente alla necropoli del Tratturo di Vasto33, con al suo interno un più piccolo vaso quale attingitoio, consuetudine ben diffusa nell’intera area34. Nelle fasi più antiche questo grande dolio è in ceramica ad impasto, con forma ovoide, in un caso di grandi dimensioni (T. 6), ed in altri di dimensioni minori, mentre nel IV secolo compaiono olle globulari sovradipinte, ambedue a volte con anse. Queste olle più tarde possono anche presentare una decorazione dipinta, a bande o con semplici motivi vegetali, che ricorda la ceramica daunia, e sono attestate anche in altri siti frentani, come a VastoTratturo, dove olle biansate con decorazione dipinta vennero a suo tempo rinvenute nel terreno di riempimento
In pochi casi (tomba femminile 20, e maschili 44, 65) le quattro pareti della tomba presentavano un gradino, con inumazione del defunto in un’area più bassa al centro, ed oggetti di corredo sia deposti nella fossa centrale, sulle ossa, che sul gradino superiore, ad esempio per il grande dolio posto ad un angolo, situazione che non è attestata nella necropoli del Tratturo di Vasto, ma compare invece in due tombe fra loro probabilmente associate della necropoli italica in località Cappuccini di Loreto Aprutino, ambedue di pianta rettangolare, la sepoltura maschile 39 e quella femminile 40, attribuite al V secolo a.C.28. Le tombe non presentano orientamento prefissato, ma risultano poste su linee curve, che creano una sorta di circoli, probabilmente riferibili a gruppi familiari più o meno estesi29, organizzazione che appare in qualche modo simile a quella attestata anche presso i Pentri, ad Alfedena ed Opi30, oltre che nelle necropoli frentane di
ringrazio il prezioso collaboratore ed amico Luca Cherstich. A lui ed all’Archeoclub d’Italia –Sede d Crecchio, particolarmente al suo attuale presidente Giuseppe Valentini e ad altri soci altrove menzionati e ringraziati, si deve l’imponente lavoro di prima sistemazione dell’elevatissima quantità di reperti restituita dalla necropoli presso il Castello di Crecchio, ove è stato necessario attrezzare allo scopo nuovi depositi. 27 Staffa 2000, 603-603, per le fasi di VI-V secolo a.C., p. 620 per le fasi di IV-III a.c. 28 Vedi Staffa 2003. 29 Si tratta probabilmente di un’organizzazione sociale per gruppi familiari non dissimile a quella attestata nella necropoli di Alfedena, e nel territorio dei Frentani anche dall’altra necropoli del tratturo di Vasto (Staffa 2000, p. 600). Ci si chiede se l’organizzazione su linee curve, a formare una sorta di circoli, non potesse comportare la presenza al loro centro di quello spazio circolare per i riti che proprio ad Alfedena è attestato, ma di cui a Cardetola non sono state sinora rinvenute tracce. 30 Alfedena – Sett. D., Opi, vedi Morelli 2000, Faustoferri 2014, p. 154. 31 Tagliamonte 1996, figg. 3, 4, 6. 32 Si trattava di piatti delle serie Morel 1981 nn.191, 2420 o 2520. 33 Staffa 2000, 606-607. 34 Vedi Acconcia 2014, 223-229, Staffa 2000, 609-611, figg 33-35, dalla necropoli del Tratturo di Vasto – scavi 1912-14, Staffa 2010a, dall’ intero territorio dei Vestini.
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A. R. Staffa
Crecchio dai Frentani ai Romani e oltre. Un esempio di centro “minore” di lunga durata in Abruzzo
di alcune sepolture35, Ortona e Villalfonsina, oltre che su altri siti marrucini come Manoppello e Pretoro36; in qualche caso (es. T.70) la forma dell’olla in impasto è identica a quella di più tardi esemplari in ceramica depurate.
Forme aperte tipo grandi piatti dovevano probabilmente contenere offerte di cibo, mentre si lega al consumo di vino la presenza di brocche e coppe sia in Ceramica a Vernice Nera che in ceramica depurata, che potrebbero essere gli elementi migliori per un inquadramento cronologico delle numerose sepolture di IV – inizi III secolo a.C., anche se un’analisi più attenta dei materiali sta rivelando come alcuni di questi reperti, specie per ciò che riguarda le coppe, potrebbero datarsi già al V secolo41.
Non è ancora chiaro se si tratti di materiali dauni o più latamente apuli di importazione, o di produzioni locali, ben confrontabili comunque con materiali dalla Daunia (es. TT. 17, 24, etc.), ma si tratta di un fenomeno ben diffuso non solo nel territorio dei Frentani, a Larino (Di Niro 1991, 132) e a Vasto-Necropoli di Tratturo (Staffa 2000), ma anche in Val Pescara, non solo nella necropoli di Manoppello – Cappuccini sopra ricordata, ma anche sul sito dell’altro importante sepolcreto di recente rinvenimento a Spoltore – Quagliera, a soli due km dall’approdo fluviale alla foce del fiume Pescara37. La maggior parte di questi reperti erano posti ai piedi del defunto, ma a volte anche sul fianco38. Ampia la presenza di vasi in Ceramica a Vernice Nera, presenti nella maggior parte delle sepolture, a partire da alcune ancora risalenti al V secolo a.C., alla maggior parte di quelle di IV a.C., sino alla metà del III secolo a.C. analogamente alla necropoli del Tratturo di Vasto39, ampia quantità di materiali di cui è in corso lo studio, e che non appare possibile in questa sede analizzare in dettaglio40.
III.4 La necropoli italica in località Santa Maria Cardetola: le sepolture maschili Prima di passare a più ampie valutazioni sintetiche, anche se preliminari, sulle sepolture maschili della necropoli merita soffermarsi anzitutto su una delle più antiche, la tomba 6, un adulto sepolto all’interno di una ampia fossa antropomorfa con ben 30 oggetti di corredo, deposti in due distinti livelli, per la maggior parte sul fianco destro ed ai piedi dell’inumato (fig. 17), una inumazione in cui sono ancora ben presenti gli elementi più caratteristici dell’antica cultura arcaica medio-adriatica d’epoca precedente, ancora ben diffusa fra VI e V secolo a.C., e destinata poi a spegnersi lentamente di lì a poco42. Tra le numerose armi si notano anzitutto una punta di lancia in ferro (fig. 17, A), sulla destra dell’inumato, e soprattutto uno splendido pugnale a stami, con pomo dell’elsa decorato con una lamina in bronzo che sorregge un terminale “a fiore” (fig. 17, B; lunghezza totale cm 80), mentre la guardia presenta due uccelli stilizzati, ed appare simili ad un analogo e coevo esemplare da Pennapiedimonte (fig. 18)43. Si tratta di un reperto che, dopo il restauro, si presenta probabilmente come il pezzo meglio conservato e più bello tra quelli conosciuti di questa tipologia, ed appare probabilmente inquadrabile ancora nel VI secolo44. Ricordiamo anche quella che è forse una spada corta (lungh. cm 60), poggiata com’era con
Da menzionare qui appare comunque la coppa con bordo risparmiato con motivi vegetali in nero dalla T. 91, attribuibile probabilmente ancora al V secolo a.C. (fig. 16), tipo che è presente anche nella T.111. Interessante anche la presenza di uno skyphos a Vernice Nera, dal corpo baccellato e fascia alta con motivi floreali sovradipinti, deposto nella tomba 70 maschile in qualche modo assimilabile ai materiali del cosiddetto stile di Gnathia (fine IV secolo-inizi III sec. a.C.), di produzione pugliese, che era posto in qualità di attingitoio dentro una grande olla ancora in impasto, ancora una volta a testimonianza della coesistenza di nuovi elementi ed antiche tradizioni.
Staffa 2000, 621-22, figg. 43-44, tombe B/4, B-I/3, B-I/4. Per l’area frentana vedi Staffa 2000, p. 621, Benelli, Rizzitelli 2010, p. 63; per l’area area marrucina vedi Staffa 2002, Benelli, Rizzitelli 2010, p.79. 37 Per Larino vedi Di Niro 1991, p.132; per Vasto-Tratturo vedi Staffa 2000; ed infine per Spoltore – Quagliera in bassa Val Pescara vedi StaffaCherstich 2020b. 38 Non può comunque escludersi che molte fra le olle globulari con decorazione dipinta a fascia, possano essere di produzione locale, ma saranno in proposito necessarie future specifiche analisi. 39 Staffa 2000, 621, 623-625, figg. 45-46, 48-51. 40 Mi riferisce così Luca Cherstich, che ha appena avviato lo studio dell’imponente materiale da Cardetola: “La Ceramica a Vernice nera compare in un numero impressionante di tombe, ma la questione è anche ben comprendere cosa si intenda per “Vernice Nera”, considerato che vari di questi oggetti potrebbero essere di V secolo invece che di IV, mentre alcuni reperti sembrano scendere alla prima metà del III. Abbiamo bisogno di una “seriazione” prima di poter parlare con certezza”. In ogni modo la “Ceramica a Vernice Nera”, intesa nel senso più ampio del termine, è presente in ben 95 tombe su 134 e non può escludersi che un’analisi più attenta di altri pezzi, in sede di scavo attribuiti alla più semplice ceramica depurata possano rivelarsi come frammenti di Ceramica a Vernice Nera ma in cui il pigmento di qualità più scadente si è quasi del tutto staccato. Ceramica a Vernice Nera è presente nelle tombe 1, 2, 3, 4, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43,.44, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 56, 57, 58, 61, 63, 64, 66, 67, 68, 69, 70, 73, 78, 82, 84, 85, 86, 88, 89, 91, 93, 96, 97, 98, 99, 100, 102, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 114, 115, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 127, 128, 131, 133, 134. 41 Al momento non è quindi ancora possibile proporre conclusioni più certe ed indicare dati quantitativi più sicuri, prima che siano completate le operazioni di classificazione, studio e restauro, che è in corso e richiedera un lungo lasso di tempo. 42 Sulla tomba 6 vedi Staffa e Cherstich 2020a, 395-397. 43 L’elsa del pugnale al momento dello scavo era purtroppo in parte fusa con la punta di Lancia, e tuttavia dimensioni e forma ne hanno consentito l’identificazione con il tipo Capestrano (d’Ercole 2015). In tal caso si tratterebbe di uno dei pochi esempi noti a sud del Pescara, e probabilmente anche uno dei più tardi. 44 Il restauro è stato condotto con professionalità dalla restauratrice della soprintendenza Isabelle Pierige. Il prezioso oggetto appare riconoscibile come un pugnale a stami del tipo Pennapediemonte “Weidig Tipo IV” (Weidig 2014), una tipologia di pugnali a stami abbastanza meridionale rispetto a quelli meglio noti, ed inoltre appartenente ad una cronologia più recente rispetto a quelli più famosi. La datazione va probabilmente 35 36
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro sepolture maschili indagate a Cardetola elemento caratteristico appare anzitutto la punta di lancia, di dimensioni medie e varia forma, possibilmente collegate ad un uso misto sia nella mischia che in sede di lancio, che è presente in quasi tutte le tombe47, ma la maggior parte delle lance proviene da tombe di IV secolo a.C., un tipo che compare probabilmente in Italia meridionale già fra VII e VI secolo a.C. ed è diffuso in molti contesti di area sabellica48.
la sua elsa sopra la mano sinistra (fig. 17, C), forse con utilizzo di carattere bellico, anche se non può escludersi che possa anche trattarsi di un coltello correlabile alla macellazione delle carni, ed un altro esemplare di coltello ad unico taglio, leggermente ricurvo, e deposto insieme al vasellame buccheroide vicino al ginocchio destro del defunto (fig. 17, D)45. Il motivo ideologico dell’esibizione di un ricco banchetto di carni sembra confermato nella citata tomba 6 dalla presenza di un fascio di tre spiedi in ferro per la cottura di carni, e da alcune ossa di ovini, certo un’offerta di carne animale, mentre un’unica fibula in ferro ad arco tricuspide era posizionata sul petto, come tipico delle sepolture maschili, probabilmente a reggere i due lembi di un mantello. Di particolare ricchezza la parte in ceramica del corredo funerario, con ben 17 vasi in impasto buccheroide, principalmente coppe ed anforette, a volte decorate a stampi (fig. 19). È questa abbondanza di vasi in impasto buccheoroide, oltre all’assenza di ceramica a vernice nera, a Cardetola invece molto comune, che segnala per la tomba 6 forti legami con la succitata koine medio-adriatica d’epoca precedente, a differenza delle tombe più tarde, i cui corredi segnalano forti rapporti con il Sannio e l’Apulia, anche se deve comunque già rilevarsi, nel corredo di questa sepoltura la presenza di un piatto in ceramica depurata con decorazione dipinta a bande concentriche, che richiama con evidenza ceramica dalla Daunia46. Nel corredo è presente anche un grande dolio in impasto (vedi fig. 17), forse contenitore di vino o altri liquidi fermentati, come documenta la presenza al suo interno di un’anforetta in impasto nero buccheroide decorata con stampigli, utilizzata come attingitoio; nei pressi erano due olle biansate ad impasto rossastro, una delle quali forse contenente sostanza grassa per la rasatura, vista la presenza al suo interno di un rasoio in ferro con manico a riccio, un calice, ed infine una larga coppa decorata con cerchi concentrici. Attenzione alla consumazione di liquidi, in primo luogo naturalmente il vino, è suggerita anche dall’elevato numero di coppe sia in impasto rosso che nero, e di anforette stampigliate in impasto nero, almeno 8 (vedi fig. 19), senza considerare quella contenuta nell’olla, forme ceramiche di antica tradizione italica. Ampliando l’esame al più ampio panorama delle
La tomba 33 ne conteneva ad esempio un grande esempio, lungo ben 70 cm, largo circa 6 cm alla base, e bruscamente affusolato verso la punta. Il fatto che un’arma così lunga fosse funzionale, e non solo destinata all’esibizione funebre, è ben dimostrato da una spina dorsale centrale, che rafforza l’intera struttura, consentendo probabilmente non solo di spingere, ma anche di tagliare (fig. 20). In qualche caso (TT.1, 31, 63, 65 e 52 in Fig.9) le punte di lancia erano lunghe e sottili, con terminazione in piccole lame, per una lunghezza totale di circa 50-60 cm, giavellotto che possono ben costituire un esempo di quell tipo I saunion / pilum javelin, che i Romani iniziarono ad utilizzare con l’avvio dei contatti e poi lo scontro con i Sanniti. Ben più rare sono a Cardetola le spade, fra cui ricordiamo anzitutto lo splendido pugnale a stami dalla tomba 6 (vedi fig. 18), reperto che dopo il restauro si presenta probabilmente come il pezzo meglio conservato e più bello tra quelli conosciuti di questa tipologia, mentre le spade presenti generalmente nelle sepolture maschili sono per la maggior parte corte, ad esempio quelle dalle T.6, 52. 65 (lunghe con l’elsa 55-60 cm). Esemplari di pugnali / coltelli sono attestati in 13 tombe49, ma solo due di essi sono riferibili al tipo del pugnale da combattimento a doppio taglio, posto in posizione funzionale accanto ad una mano o vicino alla gamba (TT.21, 33) (vedi fig. 20) , nel caso della tomba 21 deposto sguainato accanto al fodero in ferro. Non si ravvisano invece tipologie di deposizione ricorrenti in altri piccoli esemplari (TT.6, 18, 50, 52, 54, 63, 64, 65), ad unico o doppio taglio, fra i quali non è possibile distinture pugnali/daghe da combattimento ed altri coltelli di uso commune. Il rasoio è presente in 18 delle sepolture ad inumazione e 5 delle sepolture ad incinerazione50, e tale attestazione abbastanza contenuta può essere legata o alla preferenza per barbe lunghe,
dalla seconda metà del VI agli inizi del V (per la associata coppa dipinta a cerchi concentrici). Si utilizza in questa sede il più recente e corretto termine di Weidig “Pugnale a Stami” rispetto a quello a suo tempo utilizzato da Valerio Cianfarani “Gladio a stami”. 45 Le armi in ferro hanno avuto necessità di un ampio restauro, per permetterne un corretto inquadramento tipologico, e sono ancora in corso di approfondimento. Fra esse il pugnale trova confronti con esemplari diffusi in Abruzzo meridionale e Sannio (d’Ercole 2015, 260-261). 46 Staffa e Cherstich 2020a, fig. 6. Le più antiche tombe da Cardetola e dall’intero Abruzzo meridionali presentano oggetti o di importazione oppure imitazioni di vasi dall’Apulia e dalla Daunia, non diversamente dalla non lontana valle del Sangro (Faustoferri 2014, p. 159), ma non è stato sinora condotto alcun approfondito studio sul fenomeno. Ceramica dipinte a bande o con stile misto appaiono in Peucetia e Messapia già nel VI secolo a.C., come copie di modelli greci (De Juliis 1997, p. 79), ma in Daunia la loro produzione dovette attivarsi solo nel tardo V secolo a.C. (De Juliis 1990, 114-115; 1997, p.116). 47 Weidig 2014, lancia Type L; il riferimento è desunto dalla traduzione italiana, disponibile on line (accesso 14-08-2027): http://web.rgzm.de/ forschung/a/browse/26/article/italienische-uebersetzung-einzelner-beitraege-aus-der-bazzano-monographie-online/. 48 Desumo questa sintesi dall’ampia analisi delle sepolture maschili curata da L. Cherstich in Staffa e Cherstich 2020a, 393-395. 49 Coltelli sono attestati nei corredi delle TT.6, 18 (due esemplari), 54 (due esemplari, uno grande uno piccolo), nonché nelle TT. 50, 52, 63, 64, 65, 91, 105; sono presenti anche in due sepolture femminili, le TT.36-37. 50 Rasoi sono presenti nelle sepolture ad inumazione di maschi adulti TT.1, 4, 9, 31, 42, 51, 53, 54, 64, 65, 70, 93, 105, 108, 110, 111, 115, 122, 124, 125 (forse un rasoio), nonchè nelle sepolture ad incinerazione riconosciute come maschili dal loro corredo TT. 17, 22, 25, 29, 64. Un rasoio è presente anche nella sepoltura maschile infantile T.3, e in una sepoltura di adulto dal genere non identificato con certezza (ma di certo un esame antropologico delle
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Crecchio dai Frentani ai Romani e oltre. Un esempio di centro “minore” di lunga durata in Abruzzo
oppure al fatto che la consuetudine della rasatura non venisse percepita come meritevole d’attenzione in sede di riti funerari.
spiedi suggeriscono che a Cardetola, come altrove, le loro dimensioni fossero dovute all’utilizzo nella cottura di piccolo pezzi di carne, non molto diversi da quelli che costituiscono ancor oggi i tipici arrosticini abruzzesi. Ricordiamo infine la presenza di sole due brocche in bronzo deposte sui ginocchi e di un solo anello digitale in bronzo.
Anche in quest’ambito tuttavia vi sono elementi che suggeriscono come la comunità sepolta a Cardetola avesse al riguardo atteggiamenti diversificati, legati alla coesistenza di modelli diversi di figura maschile ideale, ad esempio nel caso della tomba infantile 3, nel cui corredo era appunto un rasoio come lo era nel corredo delle altre due sepolture maschili adulte fra le quali era deposta (TT. 1, 14), tutte probabilmente riferibili allo stesso nucleo familiare. Oggetti di corredo in bronzo appaiono caratteristici di alcune selezionate sepolture maschili51, solo 10 sul totale delle 37 come tali identificate, e si tratta di grandi bacilli con anse in ferro, anche detti calderoni (TT.13, 14, 18, 33, 50, 52, 65, 100) (fig. 21)52, di una una variante più alta tipo una secchia (T. 50), di una specie di piccolo calderone/bacile con manico in ferro (TT. 52, 100), di un grande piatto / patera con ansa ad “omega” (T.53), e di due più piccoli bacili in bronzo (TT.21, 33, 81, 86, 99), una varietà che appare evidentemente legata ad una molteplicità di funzioni, dalla conserva di cibi all’ offerta di vino, associazione evidente nella T.99 dall’abbinamento ad un’olpe anch’essa in bronzo.
La tomba n. 33 appare infine un significativo esempio dell’evoluzione dei corredi maschili nel IV secolo a.C. (vedi fig. 20), con una lunga punta di lancia, un pugnale, un grande olio ad impasto, una coppa ed un filtro in bronzo, spiedi di ferro, ceramica a Vernice Nera e sopradipinta, ed un bacile sempre in bronzo, oggetto che è stato recuperate sia pur in frammenti anche nel corredo della coeva T.100. Dalla stessa tomba 33 proviene anche l’unico morso di cavallo in ferro sinora rinvenuto, composto da due semicerchi incatenati, che ricordano in qualche modo altri esempi del tipo ad omega in bronzo55, con spilla al di sopra forse per fissare un rivestimento in tessuto. L’oggetto era posto ai piedi del defunto, forse per sottolineare il suo apprezzamento per l’ equitazione, consuedutine che è significativamente attestata anche in sepolture coeve della Daunia, considerate gli articolati rapporti dell’intera necropolis con la Puglia56. Morsi simili da Campovalano, privi di spilla, sono esposti nel Museo di Campli ma sono riferibili ad epoca più antica57. Dalla tomba maschile 115 di IV secolo a.C. viene infine un unicum, un vasetto in alabastro purtroppo rinvenuto in frantumi.
Raffinate pratiche di consumo del vino emergono anche da altri elementi di corredo in bronzo, ad esempio il raro filtro per il suo filtraggio presente nella tomba 33, oppure le tre grattugie (TT.18, 50 and 52), probabilmente legate all’aggiunta di spezie oppure addirittura di formaggio, mentre resti di resina sono stati individuate nel grande dolio ad impasto della tomba 33, ma sono presenti anche in altro vasellame, a probabile testimonianza della sua aromatizzazione53.
III.5 La necropoli italica in località Santa Maria Cardetola: gli elmi dalle tombe 53-52 e 99 Fra gli oggetti di corredo maschile di maggiore rilevanza della necropoli di Cardetola, ubicata quasi ai confine nord del territorio frentano, ricordiamo da contesti stratigrafici ben due elmi, un prezioso tipo di oggetto che è attestato in Abruzzo da numerosi contesti dalla vicina area marrucina, probabilmente il segnale di un’ideologia funeraria ancora centrata fra V e IV secolo a.C. sulle doti guerriere dell’inumato58. Impressionante la giacitura del defunto della tomba 53, che indossava un elmo del tipo Negau-Vetulonia in bronzo molto simile ad un esemplare rinvenuto nel 1998 in località Gaeta della non lontana Lanciano (fig. 22). Sia l’elmo che il cranio al suo interno erano schiacchiati dal peso delle pesanti pietre contenute nel rinvenimento della sepoltura, che dovevano aver
Molte sepolture maschili contenevano fasci di 3-4 piccoli spiedi in ferro, e qualcuna di esse alari sempre in ferro, dal corto piede (circa cm 5), probabilmente perchè la carne era cotta a stretto contatto con le braci, ma volte privi di spiedi, forse perchè in qualche caso realizzati in legno. Sembrerebbe trattarsi di un oggetto caratteristico delle tombe maschili, in alcune delle quali i coltelli presenti potrebbero essere legati proprio al taglio della carne, ma compare anche nei ricchi corredi delle sepolture di due donne di rango54. Le ridotte dimensioni di questi
ossa potrebbe dirlo; la T.111, che dunque appare maschile anch’essa. 51 Un’eccezione è la brocca miniaturistica usata come attingitoio all’interno dell’olla nella tomba femminile 25. 52 Intendiamo calderoni i vasi di bronzo più profondi con manico di ferro (cfr. Acconcia 2014), e bacili (di varia misura) quelli senza manico ma meno profondi. 53 Resti organici simili erano anche all’interno di grandi piatti della ben più tarda villa romano-bizantina a suo tempo indagata in località Casino Vezzani – Vassarella, ed il consume di vino raffinato doveva essere usanza ricorrente nell’area. 54 Spiedi sono presenti nei corredi delle tombe maschili 5, 6, 13, 14, 18, 33, 42, 44, 50, 51, 52, 53, 54, 63, 65; le uniche tombe femminili con spiedi sono le TT.24 e 37. 55 Conti 2012, 410, 415-7. 56 De Juliis 1990: 55 57 d’ Ercole V., Martellone A., Cesana D. 2016. 58 Su questi due elmi vedi Staffa-Cherstich 2000a, 403-405, sugli elmi dal territorio dei Marrucini vedi Copersino, d’Ercole 2003, 353-354.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro sul torace (fig. 24). La tomba conteneva inoltre una serie di elementi di vasellame sia in bronzo (grande patera, piccola olpe) che soprattutto in ceramica, almeno tre coppe a vernice nera, almeno due delle quali con una fascia risparmiata appena sotto il bordo, decorata con motivi schematizzati, elementi che ricordano vasi simili rinvenuti in una sepoltura a Villamagna, che ha tra l’altro restituito anche un elmo e schinieri simili63, oggetti che suggeriscono una datazione della tomba al V secolo a.C. Un terzo più tardo elmo, anch’esso indossato, era contenuto in migliore stato di conservazione all’interno della tomba 52 (fig. 25), ed è riferibile al tipo Montefortino A64, con paraguance anatomici, ed in genere datato al IV-III secolo a.V.65. Fra gli altri oggetti di corredo di questa più tarda sepoltura (fig. 26) ricordiamo un giavellotto tipo pilum, una corta spada (lungh.cm 60)66, e due fibule in ferro, un dolio ad impasto, un coltello, alcuni spiedi, ed un alare in ferro, una secchia ed una grattugia in bronzo, una coppa in ceramica depurata, e soprattutto una coppa a Vernice Nera con quattro palmette allineate sulla sua superficie, che ricordano la produzione a petite estampilles del Morel, inquadrabile fra tardo IV ed inizi del III secolo a.C., e potrebbe provenire dal Lazio67. Dopo il IV secolo a.C., dalle cui sepolture non sono stati rinvenuti altri esemplari di spade, ma solo numerosi cinturoni, questa spada corta dalla tomba 52, associata al citato elmo tipo Montefortino ed al giavellotto tipo pilum, viene a chiudere all’epoca della III Guerra Sannitica l’orizzonte delle spade attestato a Cardetola, che aveva avuto inizio con i due esemplari dalle tombe 6 e 65, riferibili a fine VI - V secolo secolo a.C., la più antica delle quali (T.6) riferibile ad un periodo in cui i cinturoni non erano ancora in uso, mentre la T.65 un bel cinturone unitamente alla spada lo esibisce quasi con orgoglio. Non appare forse casuale trovare nel corredo di questa inumazione sia l’associazione di elementi che troviamo largamente diffusi in seguito fra i soldati romani, sia l’assenza di quel cinturone che era all’epoca ormai considerato un segno distintivo dei Sanniti68, se si ricorda che i Frentani, dopo essere stati sconfitti dai Romani nel 319 a.C., stipularono nel 304 a.C.
quasi distrutto anche quella che doveva essere una sorta di cresta al di sopra di esso, di cui restano frammenti di ferro sotto l’elmo stesso59. Fra gli altri elementi di corredo dell’inumazione anche un cinturone finemente decorato, ma gravemente danneggiato, ancora da restaurare e più compiutamente analizzare, con fori dal bordo lievemente rialzato e ganci che ricordano i tipi Suano 1b o 2b60, una punta di lancia, due fibule, alcuni spiedi, ed un alare in ferro, un anello in bronzo, una patera in bronzo con ansa ad omega, ed alcuni elementi di bronzo di difficile interpetrazione ai piedi, e soprattutto una coppa attica priva di piede con decorazione a palmette, gravemente danneggiata dal peso delle pietre, ma certamente riferibile al tipo “large and delicate” di Sparkes-Talcott 1970, riferibile alla seconda metà del V secolo a.C.61. Un secondo elmo in bronzo del tipo Negau è stato rinvenuto in una delle sepolture più interessanti scavati nel 2018, ossia la Tomba 99, una fossa rettangolare, non molto profonda, contenente un defunto di genere maschile, inumato in posizione supina e attorniato da numerosi oggetti, di corredo (fig. 23). Fra essi anzitutto vari elementi di pregio chiaramente connessi con il mondo della guerra, anche se nessuno di essi è indossato, come se l’inumato o il suo gruppo familiare avessero voluto manifestare non solo il valore in vita del defunto, ma anche una sua predisposizione a farsi garante dei frutti positivi di uno stato di pace. Il succitato elmo Negau era in particolare posto al lato del capo, un lungo pugnale deposto semi-sfoderato sul braccio sinistro, che richiama per certi versi quello della poco più antica tomba 6, di cui richiama anche la deposizione in parte sfoderata62, in adiacenza con un cinturone in bronzo deposto lungo il lato sinistro della deposizione e, infine, l’elemento più raro di tutti, ovvero una coppia di schinieri deposti ai lati della sepoltura, presso i femori. Una serie complessa di ganci sul bacino dell’inumato testimonia l’esistenza di un’antica cintura in pelle o stoffa, oggi scomparsa ed un paio di piccole fibule in ferro erano
Solo il restauro potrà chiarire meglio questo aspetto. Molti esempi di cinturoni con bordo dei fori rialzati in Romito 1995, mentre i ganci ricordano tipi databili dalla metà del V al IV secolo a.C. (Suano 2000, 184, 191, fig. 1. 61 Staffa e Cherstich 2020a, fig. 4, cfr. Sparkes e Talcott 1970, nn. 483-487. Si tratta di una interessante testimonianza su un oggetto sinora considerato di probabile diffusione più a nord (Menozzi e d’Ercole 2007). 62 Il pugnale è forse simile, o comunque morfologicamente derivato, da quello della tomba 6, che era deposto in maniera simile, ossia semi-sfoderato, con pochi cm di lama scoperti ed il resto dentro il fodero, ma prima di darne un’attribuzione certa sarà necessario attendere il suo restauro (valutazione di Luca Cherstich, che si ringrazia). Quello della T.21 per dimensioni sembra simile ma anche in questo caso solo un restauro potrebbe chiarire in merito. Stessa storia per la lama nella T.33 anche se deve trattarsi di un tipo diverso rispetto ai precedenti, il che appare plausibile, essendo la tomba probabilmente riferibile al IV secolo (datazione da confermare, dopo una migliore analisi dei materiali del suo corredo in post-scavo). 63 I Luoghi degli Dei pp.27-28, schede. 64 Robinson 1975. 65 La parte sulla nuca è piuttosto piccola e vi sono visibili minuscole e semplici decorazioni sia sul bordo, che nella parte superiore della cresta-nobile, forse destinata ad ospitare una spilla da cresta. 66 Questa spada dalla tomba 52 non sembra riconoscibile come tipo di lama a foglie di salice, poiché il fodero, e quindi la lama al suo interno, si assottigliano in una forma triangolare, tipica di una lama pensata più per la spinta che per il taglio. Le spade corte dell’Abruzzo meridionale necessitano ancora bisogno di una corretta classificazione, e gli esempi da Cardetola potranno ben essere utili a tale fine. 67 Morel 1969, p. 111, Olcese et alii 2008, p. 10. Per appurarne con certezza la provenienza sarà tuttavia necessario sottoporre il reperto alle necessarie analisi. 68 Va tenuto però presente che solo ¼ delle sepolture maschili di Cardetola avevano un cinturone, per cui non è certo che la sua assenza volesse segnalare un’identità etnica differente, o piuttosto una differente strategia di esibizione di status in ambito funerario. 59 60
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Crecchio dai Frentani ai Romani e oltre. Un esempio di centro “minore” di lunga durata in Abruzzo
con essi un trattato (foedus), a cui rimasero fedeli sino alla Guerra Sociale69.
potrebbe supporsi, come ad esempio nel caso della citata Tomba infantile 7, munita di cinturone di bronzo (fig. 29), che si presentava allineata in un circolo di sepolture con ben altre 4 inumazioni maschili, una sola delle quali munita di cinturone.
III.6 La necropoli italica in località Santa Maria Cardetola: i cinturoni, il torques, ed i diademi Un altro degli elementi più appariscenti delle sepolture maschili della necropoli, che presentano rispetto agli elmi più larga diffusione, sono i ben noti cinturoni “sannitici”, che compaiono già in alcuni corredi del V secolo a.C. (TT.13, 53 e 65), in un sepoltura infantile databile fra V e IV secolo a.C. (T. 74), ma sono particolarmente diffusi in quelli del IV secolo a.C., non diversamente da quanto accade nella bassa Val Pescara70. Trattasi di una fase, quest’ultima del IV, che corrisponde anche al picco delle importazioni di Ceramica Daunia dipinta a bande e di Ceramica a Vernice Nera di provenienza apula, che indica una forte intensificazione dei rapporti con l’Italia meridionale, documentata anche nella coeva necropoli del Tratturo a Vasto71. La presenza di questi cinturoni è stata in passato legata ad una molteplicità di significati, connessi all’ identità etnica, all’eventuale possesso della piena cittadinanza, allo status sociale, ed alle condizioni di genere ed età dell’inumato72. A Cardetola tuttavia il cinturone è presente solo in 8 delle 37 sepolture maschili indagate (meno di ¼) (fig. 27)73, e merita sottolineare che è assente anche in molte tombe ricche (Es. TT. 6, 52), e persino nelle grandi tombe a camera (TT. 22, 24, 64) e nelle sepolture ad incinerazione (es. T.17), che presentano alcuni dei corredi più ricchi dell’intera necropoli, il che suggerirebbe che la presenza di un cinturone non era sempre considerata come uno status symbol.
Due le suggestioni che ne emergono, o che i cinturoni fossero legati ad una specifica linea di discendenza all’interno dello stesso gruppo familiare, o che il loro acquisto per una sepoltura infantile fosse avvenuto per motivi affettivi, con considerevole spesa non sostenuta per maschi adulti della stessa famiglia, forse in una situazione in cui cinturoni ridotti del genere erano specificamente prodotti proprio per i riti funerari tipici di queste sepolture infantile. D’altra parte attribuire ad oggetti del genere significati simbolici preconfezionati, quali quelli sopra ricordati, può essere anche rischioso, in quanto probabilmente, al di là di eccessive semplificazioni, ogni contesto va valutato di per se ed in rapporto ai gruppi familiari di appartenenza, per quali gli stessi oggetti potevano anche presentare significati diversificati75. Oltre ai citati cinturoni, in ben quattro sepolture maschili infantili (TT.15, 30, 40, 74), ed in una sepoltura di adolescente (T.23), erano anche esemplari del torques in bronzo a sezione piatta (vedi fig. 29)76, che mancano nelle sepolture maschili adulte, e sembrano segnalarsi come oggetti tipici di sepolture pre-adulte, come documentato nel Sannio anche ad Alfedena77, forse in parallelismo con la romana bulla, un oggetto che viene abbandonato con l’età adulta. Esemplari simili in sepolture infantili sono attestate anche nel territorio di Vestini, nella necropoli di Spoltore – Quagliera, una sepoltura infantile nei pressi di una maschile con l’unico esempio di cinturone sannitico da quel sepolcreto78, ed in un paio di sepolture femminili dell’area interna, da Loreto Aprutino – Cappuccini. e Montebello di Bertona – Campo Mirabello79. Oltre a cinturoni e torques merita in questa sede soffermarsi su un terzo singolare oggetto che compare in alcune delle tombe maschili di Cardetola. Si tratta di una fascia di bronzo posta intorno al cranio del defunto, una sorta di diadema, presente anzitutto nella tomba 13, larga circa 20 cm ma che nella sua parte centrale si allarga a formare un cerchio di cm 14 di diametro, rinforzato da piccoli
Va inoltre notato che almeno 4 cinturoni di adulti su 7 non provengono da sepolture di IV secolo a.C., ma inumazioni attribuibili ancora al V secolo74. A Cardetola sono anche attestati ben 4 casi di cinturoni di ridotte dimensioni in sepolture infantile (TT. 7, 30, 40, 74) (fig. 28), tipologia documentata solo da altre tre sepolture sannitiche dell’intera Italia meridionale, la cui presenza a Cardetola appare importante e per certi versi sorprendente, suggerendo che almeno qui alcune famiglie lo considerassero come evidente elemento di distinzione sociale. In qualche caso il retroterra ideologico alle spalle di alcune scelte nei corredi può apparire ben più complesso di quanto
Tagliamonte 1996, p. 145. Per una analisi più di dettaglio di questi cinturoni vedi Staffa-Cherstich 2020a, 399-401, per i confronti con la bassa Val Pescara, ed in particolare con la importante necropoli di Spoltore-Quagliera, vedi Staffa-Cherstich 2020b. 71 Staffa 2000. 72 Romito 2000, p. 192, Suano 1991, 138-139 73 Sono le 7 tombe maschili adulte seguenti: TT 13, 14, 33, 46, 53, 65, 99, a cui possiamo aggiungere nell’altra tomba di maschio adulto 100, non un cinturone in bronzo, ma segni organici neri forse riferibili ad un cinturone in cuoio; oltre a questi esemplari ricordiamo un esemplare sporadico rinvenuto a seguito di lavori agricoli nella proprietà Tella Franco. 74 Vedi ad esempio la T.13, per la coppa serie Morel 4270, la T.53 che ha restituito un Elmo Negau, o la T.99, che ha restituito anche gli schinieri, e infine la T.65. 75 Almeno per la comunità sepolta a Cardetola appare possibile che deporre nel corredo un cinturone fosse solo una delle varie scelte possibile in occasione dei riti funerari per sottolineare la rilevanza del gruppo familiare di appartenenza. 76 Un esemplare sporadico è stato recuperato anche dal terreno superficiale sconvolto dai lavori agricoli nella proprieà Luciano Pasquale. 77 Parise e Badoni, Ruggeri e Giove 1980, p. XX, anche di tipologia diversificata (Taloni 2012, 63-64). 78 Staffa e Cherstich 2020b. 79 Staffa 2010a. 69 70
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro bronzo, con all’ interno un rasoio in ferro, spiedi in ferro, una coppia monoansata ad impasto buccheroide, due fibule di ferro, una grande olla quadriansata ad impasto rossastro, un vasetto miniaturistico. Anche nel caso della tomba 65 il presunto diadema giaceva a lato di preziosi oggetti, che segnalano anch’essi il rango dell’inumato, una sottile punta di giavellotto84, e soprattutto una corta lama in ferro (lunga con l’elsa circa 55 cm), contenuta in un fodero impreziosito da un filo di bronzo a spirale, e con l’elsa della spada poggiata su un grande elemento in bronzo a forma di foglia, una spada dunque raffinata e forse unica (fig. 32).
elementi anch’essi in bronzo, a formare una sorta di croce (fig. 30-31). Chiusa da ganci e asole in filo di bronzo, con più fori, è lunga poco meno di 50 cm, ossia la conferenza di una testa umana, presenta nella sua lavorazione similarità con la fattura dei cinturoni, e la presenza di più fori sembrerebbe mirata a consentire il suo adattamento a dimensioni mutevoli della testa stessa, anche se la sua conferenza sembra suggerire che sia stata appositamente realizzata per l’individuo sepolto. Una sua interpretazione non si presenta agevole, il bronzo è troppo sottile per fungere da protezione, e l’oggetto, che doveva essere ben visto durante il rito funebre, doveva dunque svolgere solo una funzione cerimoniale e di ostentazione, a probabile testimonianza di un possibile ruolo sociale dell’inumato, legato ad una carica da lui rivestita. Una lastra dipinta campana rinvenuta nel 1854 a S. Maria Capua Vetere rappresenta un uomo con barba, munito di quella che sembrerebbe una ghirlanda ricoperta di materiale giallastro, forse una banda in bronzo scintillante, ed è stata riconosciuta come un magistrate sannita, forse un meddix80. Un manufatto abbastanza simile dalla Collezione Zecca, esposto a Chieti nel Museo della Civitella, è stato interpretato come un cinturone, ma il piccolo diametro e l’allargamento al centro dell’oggetto richiamano piuttosto il reperto da Cardetola81, per il cui inquadramento cronologico riepiloghiamo il ricco corredo della sepoltura maschile di provenienza (T.13): oltre al diadema un cinturone, un bacile in bronzo, un fascio di spiedi di ferro, una fibula in ferro, un grande dolio ovoide ad impasto e due coppe a vernice nera. Una fra esse, una coppa priva di piede richiama con evidenza la serie Morel 4271, le coppe del tipo “Castulo “ di V secolo a.C., ed altri simili materiali dall’ Agorà di Atene82, ed in questo contesto appare databile non oltre gli inizi del IV secolo a.C.83. Un oggetto simile proviene anche dai livelli inferiore della T.65, tuttavia non indossato, come quello della tomba 13, ma deposto accanto alla testa del defunto; anche in questo caso una tomba di notevole riccchezza, nel cui corredo erano ben due livelli di oggetti, con una lunga punta di lancia (lungh. cm 65), simile a quella della T. 33, un grande coltello in ferro, un bacile di
III.7 La necropoli italica in località Santa Maria Cardetola: le sepolture femminili Va anzitutto notato che non sono state rinvenute tombe femminili riferibili al V secolo a.C., a meno che non si tratti di qualcuna delle sepolture caratterizzate da corredo piu semplice, ancora non focalizzata come tale, mentre la maggior parte delle sepolture rinvenute appartiene al IV ed inizi del III secolo a.C. Si presentano ben distinguibili per gli elementi decorativi del loro corredo in genere presenti sulla parte superiore del corpo, non meno di due fibule in bronzo o ferro85. Fra i tipi attestati sono diffuse tipi di fibule in ferro ad arco semplice e fibule di bronzo ad arco serpeggiante, ma anche fibule di grandi dimensioni in ferro86, anche con probabili ageminature, oltre ad articolati apparati di spilloni e pendenti vari o paste vitree o ambra o avorio. Di importazione appaiono anche le tre fibule in argento dalla tomba 39, anche se la loro forma ricorda tipi diffusi nell’Abruzzo centrale e meridionale87. Presenti nelle sepolture femminili sono anche le olle in ceramica depurate, spesso decorate a bande, dolii ad impasto rari ma comunque attestati (es. T.43, 19)88, e fra le quali le sepolture più ricche presentano in genere più elementi in ceramica abbastanza agevolmente databili. Gli elementi presenti nel corredi, probabilmente provenienti dal vicino approdo di Ortona, mostrano con evidenza sia i livelli dell’ostentazione esibita nei riti funerari, che la rilevanza dei commerci che ne assicuravano la diffusione.
Immagine disponibile in rete all’indirizzo: http://www.sanniti.info/smmeddix.html (accesso 14/08/2017). Alla Civitella questo diadema è esposto vicino ad un Elmo Negau, suggerendo che i due oggetti avessero lo stesso diametro, ma il primo dei due non è largo abbastanza per essere appunto riconosciuto come un cinturone. Devo tale diverso ricoscimento, mai precedentemente notato, a Giuseppe Valentini Presidente dell’Archeoclub di Crecchio. Non sono disponibili precisi riferimenti per il diadema dalla Collezione Zecca, probabilmente proveniente da una tomba marrucina nei dintorni di Chieti, il che sembrerebbe suggerire collegamenti fra la Frentania del nord ed il territorio dei Marrucini, per cui si veda quanto precedentemente segnalato per la stele di Crecchio. 82 Sparkes e Talcott 1970, 101-102 83 Per una analisi di dettaglio del tema ed una immagine del reperto si rinvia a L. Cherstich, in Staffa e Cherstich 2020, da cui desumo le seguenti considerazioni: un recente riesame del tipo segnala una attribuzione delle produzioni attiche al V secolo a.C., mentre le imitazioni dal Mediterraneo occidentale (es. Spagna) generalmente sono riferibili al IV secolo a.C. (Corrias 2012). La coppa della tomba 13 non sembra tuttavia di origine attica, ma piuttosto un’imitazione analoga a quelle attestate in Campania (Trapichler 2011, p. 3), sebbene una provenienza pugliese sembri più ragionevole per ragioni di vicinanza. 84 Weidig 2014, type L? 85 Sono attestate nelle tombe 10, 11, 12, 19, 20, 24, 27, 28, 32, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 43 (qui insieme al passante punico a maschera virile), 45, 49, 61, 62, 66, 67, 72, 75, 76, 77, 79, 81, 84, 86, 89, 94, 95, 107, 117 (che ha anche un pendente, o forse un passante, punico a maschera virile), 119, 123, 126, 127, 131, 133, 134. 86 Grandi fibule in ferro sono state rinvenute nelle TT.19, 20, 34, 62, 72, 75, 76, 77, 81 (in via ipotetica), 86, 107, 114, 117, 119, 127, 131. 87 Dionisio 2012, p. 166. 88 Desumo questa sintesi per larghe parti dall’approfondimento condottone da parte di L. Cherstich, in Staffa eCherstich 2020a, 405-407. 80 81
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Crecchio dai Frentani ai Romani e oltre. Un esempio di centro “minore” di lunga durata in Abruzzo
Ricordiamo anzitutto collane con vaghi di bronzo e perle di corallo rosa (dal Tirreno ?), con vaghi di bronzo di varia forma, di ambra rossa e gialla probabilmente dal Mar Baltico, dischi e tubuli d’avorio, a volte a formare unitamente alle fibule complessi apparati decorative nella parte superiore del petto (es. T.37: fig. 33), e e numerosi elementi decorativi in pasta vitrea, soprattutto vaghi di collana sia del tipo semplice che di quello ad occhi, nonché almeno due esempi di decorazioni a forma di maschera virile di probabile produzione cartaginese (Tombe 43 e 117), riconoscibili in passanti di collana che costituivano l’elemento più vistoso nei complessi decorativi delle due tombe. Di notevole interesse in proposito la lunga stola – collana di perle di pasta vitrea blu, anelli di bronzo, ed una unica testina in pasta vitrea a forma di volto rinvenuta nella tomba 43, una tomba di notevole interesse, dalle ossa quasi scomparse per l’acidità del terreno, ma caratterizzata, oltre che da un ricco corredo ceramico con un dolio, ceramica depurata, e ceramica a Vernice nera databile al IV secolo a.C., da 4 fibule in ferro di varie dimensioni, da una piccola fibula in bronzo con inserita nell’ago una perla di pasta vitrea ad occhi.
sulla schiena, che suggeriscono come fossero state probabilmente cucite in una collana di stoffa, e che era in parte nascosta sotto la mandibola dell’inumata (fig. 35). Per la provenienza di preziosi oggetti del genere, che non sono noti da altre necropoli abruzzesi appare naturale guardare alla Magna Graecia (Tarentum?) se non alla Daunia (Ruvo?), mentre un oggetto forse simile sembra raffigurato sulla statua della dea Angitia in terracotta rinvenuta qualche anno fa a Luco dei Marsi. Può inoltre ricordarsi la singolare presenza, in alcune selezionate sepolture feminili, di una serie di oggetti tipici dei corredi maschili, ad esempio le tombe T.24 e 36, che presentano piccoli spiedi, mentre la vicina tomba maschile 37 contiene un unico spiedo lungo ben 90 cm, dimensione ben grande per gli standard della necropoli, oltre a coltelli di ferro, suggerendo la presenza in queste fasi di IV secolo di un gruppo familiare nel quale alcune donne si occupavano probabilmente di una funzione tipicamente maschile, la preparazione di carne per il banchetto. Fra le altre singolarità restituite dalle sepolture femminili della necropoli ricordiamo infine un fuso in ferro con fusaiola in terracotta dalla T.80, l’associazione di un bacile in bronzo, un anello d’argento ed un’ armilla di bronzo nel corredo della T.81, la presenza di due armille in bronzo nella T. 84, un bacile in bronzo nella T.86, una coppa in Ceramica a Vernice Nera con decorazioni risparmiate sul bordo nella T. 114, simile a quella dalla tomba maschile 99 e da altra sepoltura coeva di Villamagna), fusaiole in bronzo dalle TT.119 e 123, quest’ultima rimaneggiata post mortem, con oggetti di corredo ed ossa sconvolte, e persino un cranio di equide (cavallo? asino?) sepolto a metà del riempimento della sepoltura 134.
Quest’ultimo è un elemento di notevole rilevanza, in genere considerato di provenienza punica o mediterranea orientale, sino ad oggi mai rinvenuto a sud del fiume Pescara89, del quale sono noti in Abruzzo sono 10 esemplari, a cui possono oggi aggiungersene due rinvenuti nella necropoli di Spoltore – Quagliera90. Una analoga stola, o comunque un elemento ubicato sulla parte superiore del petto, costituito da collana con vaghi in pasta vitrea blu e ad occhi, anelli di bronzo, ambre, ed un pendente a forma di piccolo cavallino, forse un gioco o un amuleto che ricorda più antichi esemplari di VII-VI secolo a.C., proviene dalla sepoltura femminile infantile 4991 (fig. 34).
III.8 La necropoli italica in località Santa Maria Cardetola: le sepolture ad incinerazione
A testimonianza del fatto che varie sepolture femminili infantili presentino un corredo non meno ricco di quello delle donne adulte, con oggetti di importazione quali ambre, perle in pasta vitrea, e Ceramica a Vernice Nera, nel corredo di questa sepoltura erano anche due vasi di Vernice Nera, due armille in bronzo di dimensione infantile, e due fibule in ferro. Non meno interessante, se non eccezionale, è anche la tomba T.32 (proprietà D. Carinci), il cui corredo è costituito da materiali tipici del IV secolo a.C., come l’olla in ceramica depurata con decorazione dipinta a fasce floreali, che ricorda coeva ceramica daunia spesso attestata in contesti frentani, e conteneva soprattutto un oggetto praticamente unico, una collana fatta di perle d’oro appuntite e allungate, con due fori
Ad un primo studio sette tombe contenenti materiali prevalentemente databili alla seconda metà del IV secolo a.C. non presentavano ossa in normale giacitura (T.17, 22, 25, 29, 41, 50, 64), ma solo pochi calcinati frammenti, in genere concentrati in punti specifici della giacitura di forma rotondeggiante, e probabilmente in origine contenuti in contenitori di materiale organico, forse vimini o legno, poi andati perduti92. Nella tomba 64 tuttavia i frammenti di ossa combuste erano frammisti a fibule di ferro ed argento, a testimonianza probabilmente del fatto che le ossa fossero state deposte avvolte in un capo di abbigliamento o di pelle.
Martellone 2010, 327 Per l’Abruzzo vedi Martellone 2010, 313, per i due reperti da Spoltore – Quagliera Staffa e Cherstich 2020b, tuttavia non così ben conservati come gli esemplari da Cardetola. 91 Vedi a confronto materiali da Canosa di Puglia, Potenza, Melfi, e altri siti in Orlandini 1972, 292, tav. LXVI.2, LVIII, LXI. Il cavallino da Cardetola appare più realistico, con proporzioni adeguate, ed anche sulla sua parte posteriore compare un anello simile a quello presente nei citati confronti, e dunque analogo doveva anche essere il modo in cui venivano appesi. 92 Per un più ampio inquadramento sulle sepolture a cremazione di Cardetola si rinvia a L. Cherstich in Staffa-Cherstich 2020a, 407-410. 89 90
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro che vedono i Frentani prima essere sconfitti da Roma, e poi diventare suoi alleati, con un patto poi destinato a durare sino alla Guerra Sociale (90-87 a.C.). Molti dovettero con ogni probabilità essere i guerrieri frentani a combattere e cadere su campi di battaglia anche lontani, dei quali non fu possibile riportare a casa i corpi, e per i quali si riteneva comunque necessario un rito di commemorazione. Ad un loro ricordo potrebbero essere forse riferibili le tombe a cremazione di Cardetola, con poche ossa calcinate e qualche resto di cenere, magari forse un ultimo avanzo di incinerazioni che s’erano svolte ben lontano da casa. Il gradimento in questa tipologia di sepolture per costumi ed usanze ellenizzanti è confermato anche dall’ampia presenza nel loro corredo di ceramica di importazione dall’ Apulia e dalla Magna Grecia, documentata ad esempio dai ben 27 oggetti di corredo della tomba T.17 (fig. 36), a cui si affiancano una fibula in ferro dal riempimento della sepoltura, una punta di lancia, uno strigile, un rasoio, un’olla in ceramica depurata biansata di possibile provenienza daunia, e ben 21 vasi di Ceramica a Vernice Nera. In un panorama di vasi molti dei quali presentano marchi e sovridipinture ricordiamo un grande cratere campaniforme, le numerose piccole coppe a cerchi incise, i piccolo piatti ed una patera della produzione nota come a petite estampilles production, e soprattutto, molto ben inquadrabile, un piatto a figure rosse con raffigurazione di una testa femminile rivolta a sinistra , probabilmente databile nel tardo IV secolo a.C.98.
La pratica della cremazione, che va comparendo nel V per diventare più diffusa fra IV e III secolo a.C., è diffusa anche altrove in Frentania, a Vasto, Larino, e Termoli, ma anche in in Irpinia, a Carife93, ed appare attestata solo per gli uomini, come suggerirebbe la presenza di punte di lancia e rasoi, ma non di cinturoni. A Cardetola rasoi sono presenti in ben 5 delle 7 sepolture ad incinerazione, mentre sono attestati solo in 9 delle altre sepolture maschili ad inumazione dell’intera necropoli, ed in una sola delle 6 sepolture maschili infantili. Sia a Carife che in ben 3 sepolture da Cardetola (T.17, 22, 64) il rito della cremazione è connesso alla presenza nel corredo anche di un altro tipico elemento di corredo maschile, gli strigili in ferro, a Cardetola, ben 3 su 4 cremazioni. Sia la presenza degli strigili che quella dei rasoi sembra chiamare in causa da un lato gli ideali atletici greci e dall’altro quella pratica della rasatura che va divenendo dal IV secolo molto diffusa nel mondo greco ed ellenistico94, mentre la cremazione sembra evocare valori anche più antichi, anche se il rito funerario in Grecia prevalente era quello dell’inumazione95. Il rito dell’incinerazione e la successiva deposizione delle ossa combuste in contenitori organici, evidentemente in posto diverso da quello di seppellimento, anche se prossimo96, sembra suggeribile per altre sepolture ad incinerazione dalla Frentania, con pochi esempi deposti all’interno di stamnoi in bronzo, oltre che dall’Irpinia. Doveva comunque trattarsi di un rito articolato e costoso, i cui costi potevano essere sostenuti solo da personaggi di rango, come sembra confermato sia dal fatto che ben 3 delle 7 sepolture a cremazione sono state rinvenute o all’interno delle importanti tombe a camera più oltre analizzate (es. TT.22, 64), oppure nei corridoi che a queste tombe conducevano (dromos) (T.25), che soprattutto dalla ricchezza e dal numero di oggetti dei loro corredi97.
A parte il ricco corredo la tomba 17 ha restituito un’ultima singolare testimonianza sui riti funerari dei Frentani in questo periodo cruciale del confronto con Roma, ossia le chiare tracce dell’accensione di un fuoco su uno dei lati corti della tomba, ma non quello della cremazione, al di sopra del livello del corredo ceramica appena descritto, avvenuto quando esso era stato interamente deposto, tanto che le sue braci macchiarono pesantemente il krater, e che sembra richiamare riti diffusi in area dauna99.
La comparsa a Cardetola nella seconda metà del IV secolo a.C. di questo tipo di sepoltura, a parte essere testimonianza evidente degli ampi influssi ellenizzanti sopra delineati, è aspetto forse legato anche alle alterne vicende di questa fase cruciale di tardo IV – inizi III secolo a.C.,
93 Tagliamonte 1996, 59, 113-114, 207-209, Tav. XXXV.1 e 2. Considerato quanto poco in genere resta delle ossa calcinate, magari poi dissoltesi in terreni particolarmente acidi, sporge spontanea la domanda se molti dei rinvenimenti dall’Abruzzo meridionale che sono stati definiti come “cenotafii” (es. quelli segnalati in Aquilano 2011, 279-280, nota 2), altro non siano che sepolture ad incinerazione non riconosciute. 94 Un’usanza diffusa fra quei Greci che volevano apparire “moderni”, come segnalato dai modelli di personaggi maschili che compaiono in tante sculture ellenistiche di quest’epoca (es. Smith 1991, 21, 33, 39). 95 In Tagliamonte 1996, p. 114) si suggerisce queste forme di influenza nel Sannio avessero un’origine tirrenica, attraverso la valle del Fortore sino alla costa della Frentania. 96 È nota la difficoltà di individuare gli ustrina su tanti siti frentani; anche quello di Termoli non è certo (Tagliamonte 1996, p. 208). 97 Vedi L. Cherstich, in Staffa e Cherstich 2020a. 98 Vedi Staffa-Cherstich 2020a, fig. 5; si tratta certamente di una produzione dall’Apulia, forse da Taranto, che presenta confronti che vanno dalla seconda metà del IV secolo a.C. (De Juliis 1992, 80 n.136; Trendall 1989, 93, fig. 227. 1-3; Miroslav Marin 1982, 108, 123, tav. XI n.6, XIII, XVI n.7, XIX; Moreno Cassano 1982, 174-175, Tav.XXVI n.7, XXIX). Il piatto dalla tomba 17 di Cardetola T.17 sembra dipinto a line più schematiche, specialmente nell’acconciatura dei capelli. 99 Che non si trattasse del fuoco di cremazione è dimostrato da vari elementi, anzitutto che la tomba fosse troppo profonda e sottile per consentire una adeguata ossigenazione di un grande fuoco di cremazione, ma anche che il fuoco venne acceso una volta che il corredo era stato deposto, ma prima che la tomba venisse riempita con pietre e terra. Fuochi post deposizione del genere sono attestati in tombe a camera daunie a Canosa di Puglia (De Juliis 1990, 13-23), il che sembra suggerire, considerata anche la diffusa presenza di importazioni apule, che fosse stato importato anche qualche rito funerario tipico all’epoca dell’Apulia e/o della Daunia. L’interessante ricostruzione si deve a L. Cherstich, in Staffa e Cherstich 2020a, p. 410.
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Crecchio dai Frentani ai Romani e oltre. Un esempio di centro “minore” di lunga durata in Abruzzo
III.9 La necropoli italica in località Santa Maria Cardetola: le tombe a camera
Daunia, non fossero state anche da lì introdotte nuove pratiche funerarie, peraltro con un adattamento dei riti a quella che era la situazione geologica locale.
A parte le sin qui descritte sepolture in fossa terragna la campagna di scavi condotta nel 2016 in proprietà Luciano Pasquale ha rivelato l’esistenza di almeno tre grandi tombe a camera (es. TT. 22; 64; 24-25: fig.37:), scavate in un terreno che non è roccioso ma costituito da semplici arenarie bianche, che si presentano dunque semplicemente come grandi fosse ricavate nel terreno, di cui cui forme e dimensioni costituiscono un evidente adattamento al contesto geologico locale di una tipologia di architettura funeraria originariamente pensata per altri tipi di terreno. Le sepolture erano deposte in camera di forma quadrata (c. 2 x 2 m), chiuse da coperture in legno poi interrate con il consueto riempimento di pietre e terra, ed accessibili tramite lunghi corridoi discendenti, i dromoi (lunghi circa c. 6 m nelle TT.24-25 (vedi fig. 37), e circa 7.5 m nella T.65). Segni del crollo delle tavole lignee del tetto sono stati rinvenuti nel fango all’interno della tomba 121.
In effetti le camere di Cardetola altro non erano che tombe terragne di grandi dimensioni, destinate comunque ad un accesso da sopra, mentre i dromoi, lunghi sino a 6/7 metri, che in Daunia sono corridoi di regolare accesso scavati nella roccia, qui non presentano invece funzioni pratiche, mentre dovevano averne di rituali, forse come scenario di una solenne processione che conduceva il morto al suo definitivo riposo nella camera appena scavata. Durante o subito dopo il rito il dromos veniva poi chiuso con pietre, come peraltro avveniva in precedenza anche per le semplici sepolture terragne, le cui antiche pratiche rituali venivano così adattate alle nuove monumentali dimensioni di questo tipo di tombe. Anche la parte superiore della camera vera e propria veniva riempita di pietre e terra, mentre al di sopra del livello della deposizione con il suo ricco corredo veniva messo in opera a fini di protezione un tetto di legno, allo scopo sia di evitare infiltrazioni di pietrame al suo interno, che al per potervi rientrare anche in seguito. Un esempio evidente del genere era la tomba a camera in cui erano contenute, su due distinte banchine, le sepolture 24 e 25 (vedi fig. 37), la prima femminile e la seconda maschile, che presentava ai lati una serie di fori e punti di incastro diagonali ricavati nel terreno per sorreggere proprio un tetto di legno del genere, oltre a due distinte banchine ad uso funerario. Anche qui il dromos era pieno di pietre, sebbene la camera fosse destinata ad essere accessibile dall’altro, magari sollevando il tetto per deporvi una sepoltura più tarda su una seconda banchina funeraria.
Queste sepolture a camera sono databili al tardo IV secolo a.C., e vanno ad insediarsi in un’area della necropoli già precedentemente utilizzata, come documentato dal fatto che abbiamo intercettato ed in parte distrutto tombe d’epoca più antica100. Il principale elemento di raffronto in proposito, anche in considerazione della massiccia presenza a Cardetola di ceramica apula, appaiono gli hypogea con dromoi discendenti ricavati con taglio della roccia in Daunia, che costituiscono espressione delle élites ellenizzanti locali101, come lo sono le sepolture ad incinerazione qui sopra illustrate, anche se non possono del tutto escludersi collegamenti diretti con l’altra sponda dell’Adriatico, particularmente con le ben note tombe a camera della Macedonia102. Le forme di queste tombe appaiono influenzate, non solo dal contesto geologico di insediamento, ma forse dalla stessa natura dei riti funerari che vi si svolgevano. Mentre le tombe a camera della Macedonia venivano utilizzate in una sola occasione, al momento della sepoltura, sigillando il dromos di accesso e nascondendone per sempre la facciata, gli hypogea della Daunia erano realizzati per essere utilizzati in più occasioni, con una certa continuità, e con l’aggiunta di altre successive inumazioni, specialmente con il tardo IV secolo a.C.103. Sino ad allora la comunità sepolta a Cardetola era stata abituata a seppellire gli inumati in semplici tombe a fossa riempite di pietre e terra e mai più riaperte, anche se sorge spontanea la domanda se, con l’avvio dell’imitazione di architetture funerarie tipiche della
Essendovi due banchine, ed essendo le due tombe una femminile (T.24) e l’altra maschile (T.25), poteva supporsi che dovesse trattarsi di una coppia, ma qualcosa non dovette andare per il verso giusto dopo la sepoltura della donna. Gli oggetti di corredo della seconda sepoltura sono stati infatti rinvenuti tutti mossi oppure caduti verso sinistra, come se fossero stati spinti, suggerendo che, dopo la deposizione della prima sepoltura, il palo centrale con l’intero tetto ligneo fossero probabilmente crollati, probabilmente ad inizi del III secolo a.C., tanto che la seconda sepoltura, l’inumazione maschile a cremazione, fu ricavata a poca distanza, non nella camera, ormai diventata inaccessibile, ma bensì nel riempimento di pietre che chiudeva il vicino dromos.
La T.22 è realizzata in adiacenza alla T.21 di V sec. a.C; la camera della T.24 taglia le gambe della T.26 riferibile agli inizi del IV secolo a.C., mentre la T.25 si va poi ad insediare nel suo dromos; il dromos della T.64 viene ricavato al di sopra della T.65 di V secolo a.C. 101 Lippolis 2014. 102 Testimonianza di contatti transadriatici sono le fibule in bronzo a testa d’ariete da Atessa, Villalfonsina, Tornareccio e Ortona – Bardella, necropolis non lontana da Cardetola. Questi oggetti presentato stretti punti di riferirmento con materiali dalla necropolis di Bihac, in Bosnia-Erzegovina (vedi Cianfarani 1969, p. 53 ss., tavv. XXVII, 39, XXVIII, 42; id. in P.C.I.A., 88, tav. 77; Cianfarani-La Regina-Franchi dall’Orto 1978, p. 362; De Luca 1979, 26-27; d’Ercole 1997, p. 26, fig. 9/11). 103 Lippolis 2014, p. 121. 100
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro punto di vista antropologico, ma che appare riferibile ad un sub-adulto105. Nel suo corredo è anzitutto presente un’anfora tozza con fondo piano simile a quella contenuta nel corredo della succitata tomba a cremazione T.25, che conteneva trace di materiale organico sul collo (una sorta di corona ?), ed anche una piccolo punta di giavellotto, ossa animali, un raro strigile realizzato in bronzo su ferro, vari vasi in Ceramica a Vernice Nera, fra cui uno skyphos della serie Morel (1981) n. 4363, databile nel III secolo a.V., epoca dunque del seppellimento. Ma soprattutto la testa dell’inumato era ornata con una corona fatta di un sottile filo di bronzo e piccole sfere di terracotta placcate in oro, probabilmente intrecciate con foglie di alloro o di quercia, di cui sembravano conservarsi alcuni resti organici (fig. 39).
La donna della tomba 24 presentava un ricco corredo comprendente due ollae dipinte a bande, una brocchetta miniaturistica in bronzo utilizzata come attingitoio, una pateraforse della produzione a petite estampilles, un piatto in Ceramica a Vernice Nera con decorazione sovradipinta in bianco e rosso, e una lekythos in ceramica sovradipinta bianca, che richiama produzioni apule di ceramica sovradipinta, ed appare databile a fine IV – primo III secolo a.C. miglior elemento cronologico per l’intero complesso104. Veniamo ora ad altra tomba a camera, quella in cui venne prevista sin dalla sua realizzazione la deposizione della sepoltura ad incinerazione 64, che conteneva più accumuli di ossa calcinate, forse a testimonianza dell’inumazione di più individui, e che è stata rinvenuta chiusa con un riempimento di terreno contenente avanzi dicarbone a documentare anche qui il crollo delle travi della copertura di legno, oltre a poco pietrame, ben più abbondante nel riempimento dell’adiacente dromos, interrato ben prima del collasso del tetto nella camera adiacente. Ben diversa la logica costruttiva attestata nella tomba 22, la cui camera non è semplicemente scavata nel terreno, ma bensì definita da due muri veri e propri in pietra ivi incassati, con l’intero complesso, sia camera che dromos, interamente riempiti di pietre (fig. 38).
Corone simili venivano rinvenute in una delle sepolture scavate nel 1912 a Vasto lungo il Tratturo, nel 2016 sul petto di una sepoltura femminile ancora inedita dallo scavo dell’altra necropoli italica in località Defenza dello stesso territorio106, ed alcune di esse sono esposte anche nel Museo di Egnazia in Puglia. Vale qui la pena ricordare che la T.57 fa parte dello stesso gruppo a cui appartiene anche la già ricordata tomba femminile T.32, con preziosa collana d’oro, ambedue facenti dunque parte di un nucleo probabilmente familiare, che doveva gradire la preziosa gioielleria d’importazione realizzata in Apulia o Magna Grecia. Evidente, nel farsi seppellire muniti di corona, come per l’inumato della tomba 57, era un palese desiderio di eroizzazione, sovente legato nella mentalità greca classica a due specifiche condizioni, far parte del genere maschile e morire giovani, condizioni che ben potrebbero sussistere nell’inumato di questa sepoltura 57.
Considerato il sopra descritto crollo dei tetti lignei delle TT. 24 e 64, che avrebbero dovuto assicurare l’accessibilità almeno per qualche tempo delle due sepolture, la tomba 22 potrebbe costituire una testimonianza dell’avvenuto abbandono dell’uso di richiudere le camera con chiusure del genere. D’altra parte non può neanche escludersi che la questa sepoltura fosse stata così costruita in quanto il proprietario preferiva maggiore aderenza del suo sepolcro alla tradizione locale frentana di sepolture ad unico uso e riempimento in pietre, seppur ad una scala ben più grande. Doveva trattarsi di un personaggio anche in questo caso di rango, cremato e sepolto con ben 40 oggetti di corredo, che includevano una punta di lancia, uno strigile in ferro, ossa animali relative evidentemente ad offerte, e soprattutto un ricchissimo corredo ceramico con ben 34 oggetti, fra cui coppe e piatti iniaturistici, sia in Ceramica a Vernice Nera che depurate, databili al tardo IV secolo a.C.
Ad ulteriore testimonianza di palese ellenizzazione aggiungiamo la presenza nel corredo di questa sepoltura di uno strigile, evidente riferimento a quell’ ideale atletico che era così caratteristico del mondo greco, ove vincere era ritenuto fondamentale per affermare il proprio valore all’interno della propria comunità, ricordando che a Cardetola gli strigili sono presenti solo in questa sepoltura ad inumazione, ed in altre tre tombe a cremazione, anche queste ultime parte di analoghe suggestioni. Fra tardo IV ed inizi del III secolo a.C. giunge a Cardetola un’altra moda, quella di farsi seppellire in tombe costruite con tegole, attestata ad esempio anche nella citata necropoli in località Defenza di Vasto, che ricorda in qualche modo le più tarde sepolture alla cappuccina. Un esempio eloquente è la tomba femminile 10, che conserva ancora l’antica tradizione frentana del seppellimento in una semplice fossa ricavata sul fondo di una sepoltura di pianta rettangolare, che presentava pareti rivestite di tegole, ma non la chiusura superiore, come tipico invece delle cappuccine, e venne poi riempita di terra (fig. 40),
III.10 La necropoli italica in località Santa Maria Cardetola: le sepolture più tarde, dalla tomba 57 ellenizzante di III secolo a.C. alle sepolture alla cappuccina Nelle fasi più tarde della necropoli il livello di ellenizzazione della comunità di Cardetola, e probabilmente di fasce significative dell’ intero popolo dei Frentani, andò decisamente accentuandosi, come risulta ben evidente ad esempio nella tomba maschile 57, una sepoltura di ridotte dimensioni che deve essere ancora studiata dal
Staffa e Cherstich 2020a, fig. 4; vedi Miroslav Marin 1982, 96-97 126, Tav.VIII n.8, XVI n.13. Un adeguato approfondimento di questa sepoltura si deve a L. Cherstich, in Staffa e Cherstich 2020a, 413-414. 106 Scavo diretto da chi scrive, con la collaborazione dell’archeologo Dr.Eugenio di Valerio. 104 105
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Crecchio dai Frentani ai Romani e oltre. Un esempio di centro “minore” di lunga durata in Abruzzo
tradizionale usanza quella della tomba di pianta rettangolare ripresa anche dalle altre sepolture 20, 44 e 65.
opportunità, nella ben nota evoluzione, dalla koine medioadriatica all’apertura verso l’Italia meridionale e Magna Grecia ormai ellenizzate, in particolare Sannio ed Apulia, lasciando spazio alla cultura dei popoli Sanniti, con ambito “non più adriatico ma transappenninico,...la cultura delle popolazioni sabelliche che unificano linguisticamente e politicamente gran parte del Mezzogiorno “109. ll fenomeno raggiunge il suo apogeo nel IV secolo a.C., proseguendo per l’intera età delle Guerre Sannitiche sino al III, quando le sepolture più tarde della necropoli di Cardetola evidenziano un’ampia panoramica di nuove usanze funerarie, caratterizzate dalla presenza di tombe a camera, sepolture a cremazione, ed inumazioni all’interno di tegole, dimostrando quanto ormai i Frentani si fossero aperti a contatti ed influssi di scala ben più ampia, mescolandoli con rituali e consuetudini locali. È infine interessante notare come, quello che era stato fra VI e III secolo il sito di una necropoli dell’importanza di quella di Cardetola, rimase importante punto di riferimento anche in seguito per la comunità della vicina Crecchio, “ok[r]ikam”della omonima stele, toponimo sopravvissuto nel medievale Ocriculum, ossia piccolo Okre, del quale le indagini in questa sede illustrate hanno confermato fasi di vita dalla protostoria all’età romana, per il tramite proprio del santuario della dea Cardea di seguito illustrato. Le tendenze ellenizzanti così ben visibili nella cultura materiale dell’enorme quantità di reperti dalle fosse di III-II secolo a.C. in proprietà Tella Franco più oltre illustrate, avevano radici solide e profonde in quei processi culturali che abbiano così ben ricostruito nei riti funerari del IV secolo a.C., se non addirittura prima.
Nel corredo della tomba erano semplici anelli digitali, fibule in bronzo con pendenti, ceramica depurata e Ceramica a Vernice Nera, fra cui uno skyphos della serie Morel 4320, che suggerisce una datazione al tardo IV – inizi III secolo a.C. Simile per fattura era anche la tomba maschile 42, anch’essa di pianta rettangolare, in questo caso non solo rivestita ma anche chiusa da tegole, e nel cui corredo erano una punta di lancia e uno spiedo in ferro, ossa animali, un rasoio, ceramica depurata e Ceramica a Vernice Nera, fra cui una malridotta coppa ad anse bifide, che richiama la serie Morel 3130 databile nel II secolo a.C. e sembra segnalare questa inumazione come una delle più tarde fra quelle indagate, a parte le sepolture d’epoca romana indagate in proprietà Carinci Dino. La comparsa a Cardetola delle sepolture in tegole è fenomeno attestato anche nel Sannio, fra IV e III secolo a.C., ove sono attestate non solo le semplici tombe in tegole sopra descritte, ma anche vere e proprie sepolture alla cappuccina107, altra testimonianza dei collegamenti della necropoli con i vicini territori del sud e l’intera Italia meridionale. Si ricordi infatti che i Greci della Magna Grecia seppellivano i loro morti in sepolture in cappuccina già nel V secolo a.C., come ben evidenziano ad esempio le necropoli di Metaponto108. Che dunque tale costume venisse adottato fra Sannio e Frentania nel tardo IV secolo a.C. appare un’altro degli influssi ellenistici di provenienza magnogreca che compaiono nell’epoca delle guerre sannitiche in queste società dell’Italia adriatica. III.11 La necropoli italica in località Santa Maria Cardetola: considerazioni generali
IV. IL TEMPIO ANTICO IN LOC. S. MARIA CARDETOLA
Le 134 sepolture sinora scavate, articolate a nuclei lungo un fronte di circa 350 metri, costituiscono evidentemente solo una parte di una ben più estesa necropoli, della quale le notizie orali relative a rinvenimenti del passato consentirebbero di ricostruire una articolazione per una lunghezza di almeno 1 km.
IV.1 Le fasi di III-II secolo a.C. La vita a Cardetola non termina infatti con la necropoli, ma prosegue con lo sviluppo di un importante santuario d’epoca ellenistica, testimoniato dalla presenza di resti indagati nel 2015 all’interno di tre grandi fosse, indagate nella proprietà Franco Tella, rinvenute piene di Ceramica a Venire Nera, ceramica depurata, votivi fittili anatomici e raffiguranti animali, quasi sempre bovini, per i cui aspetti culturali si rinvia in questa sede allo studio di Luca Cherstich di seguito110.
A parte la necropoli del Tratturo di Vasto ed altri sepolcreti frentani d’ambito abruzzese non ben conosciuti o pubblicati in dettaglio, Cardetola costituisce un’opportunità unica per far luce su un periodo sino ad ora non molto noto dell’Abruzzo meridionale.
L’antichità del santuario e la sua importanza sono documentate proprio dall’ enorme quantità di materiale votivo rinvenuto, che documenta con evidenza il potere attrattivo e l’intensa frequentazione cultuale del luogo di culto, evidentemente sviluppatosi fra III e II secolo a.C. Particolarmente interessanti sono vari bassorilievi
Il V secolo a.C. è stato infatti spesso ritenuto in passato, per l’Abruzzo e non solo, una generalizzata fase di crisi, mentre, a giudicare dai dati della necropoli di Cardetola, sembra piuttosto costituire un periodo in cui si attivano importanti trasformazioni e si palesano interessanti
Tagliamonte 1996, p. 203 Carter 1998. 109 Colonna 1975, p. 172. 110 Ben 600 le cassette di materiale recuperato durante le indagini, il cui studio consentirà un’ampia ricostruzione della facies culturale e dei collegamenti commerciali e culturali di questa parte della Frentania del nord prima della Guerra Sociale. 107 108
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro parcellare catastale della zona, e di notizie desunte dalla documentazione relativa al rinvenimento del 1844118. Ricordiamo anzitutto che, come viene ricordato in appunto apposto dal rinvenitore della stele Bartolomeo Granata sotto il disegno della stessa, presente in pratica119, nella zona del rinvenimento erano stati già precedentemente rinvenuti “molti idoli di bronzo dell’altezza di circa un palmo e mezzo, ed anche più”, dimensione che nella misura del palmo napoletano (cm 26.45) corrisponde a circa poco meno di 37 cm.
in terracotta, pinakes, raffiguranti una figura femminile simile ad altre rinvenute a Larino e Chieti111, che presenta testa velata e regge nella mano destra un oggetto, probabilmente una torcia accesa o uno scettro, raffigurazione che presenta radici nelle immagini delle divinità femminili ctonie del mondo greco presenti, per un culto che dalla Libia si diffonde a Creta, poi nella Grecia peninsulare, in rilievi monumentali, ad esempio da Cyrene ed Eleusis112. Mode ellenistiche e legami a divinità ctonie appaiono delineabili anche in una serie di figurine che sembrano richiamare gli schemata della Grande e della Piccola, Grosse or Kleine Herkulanerin types113. Non meno interessante un piccolo busto di terracotta, dalla vita in su, che rappresenta l’ anodos di Persephone dall’oltretomba, secondo una frequente iconografia anch’essa di origine greca, attestata ad esempio sia in Italia meridionale che in Cyrenaica114. Si tratta dunque nel loro complesso di una serie di reperti che si riferiscono con evidenza ad una divinità ctonia, possibilmente un antico culto di origine italica, ma qui raffigurato secondo i modelli della divinità greca Demetra, che si occupava nella natura, dei raccolti, e delle messi. È interessante infine notare che numerosi fra gli elementi ellenizzanti documentati sembrano porsi in continuità con aspetti e collegamenti culturali già evidenti nelle fasi di IV secolo a.C. della vicina necropoli.
Su questo rinvenimento una memoria del 20 giugno 1853, redatta dal proprietario dei terreni Don Camillo Carulli, e trasmessa con nota 3 luglio 1853 al Principe di Bisignano, Maggiordomo Soprentendente Generale di Casa Reale, restituisce altre notizie, sottolineando anzitutto che “nell’agro crecchiese di tempo in tempo ed in siti diversi, si sono rinvenuti dei pezzi di antichità di specie molteplice quasi sempre inavvertiti(?), o venduti a vil prezzo dagli stolti villani, come accadde anni or sono quando in un territorio dei signori Carulli, i coloni avendo nello zappare trovati alcuni idoli di bronzo grossi quanto bambini di recente nati li venderono furtivamente ai forestieri per pochi ducati” 120. Aggiunge inoltre che “la contrada Cardetola dove la lapide esisteva del pari che gl’idoli testé mentovati, è famosa per antichità, anzi una tradizione costante de secoli, ha sempre indicato che ivi fosse esistita una città, o un grande Paese, di cui l’attuale Crecchio, situato sopra… straripevole colle, è l’Oppido, una situazione che le indagini archeologiche di questi ultimi trentanni vanno con chiarezza illustrando. Fra i reperti rinvenuti durante gli scavi del 2015 in proprietà Franco Tella sono anche alcuni frammenti probabilmente riferibili a matrici per figurine in bronzo: a tale proposito è interessante notare che, anche nella succitata memoria in data 20 giugno 1853 del proprietario dei terreni Don Camillo Carulli, si ricordano rinvenimenti del passato in particolare il fatto già sopra ricordato che “anni or sono…in un territorio dei signori Carulli, i coloni avendo nello zappare trovati alcuni idoli di bronzo grossi quanto bambini” 121. Ma quel che è più interessante in merito ai rapporti fra santuario e vicina necropoli è il fatto che la celebre stele “giaceva sopra un più grande e dislungo strato (alla (?) musaico”, e “la spessezza…è di quattro decimetri, alla parte a tergo presenta una concava cappietta di metallo ben connessa di figura rotonda, e perciò se ne deduce essere stata sopra lo strato del mosaico quasi per
Singolare è anche lo stesso toponimo con cui l’area della necropoli e del santuario è rimasta sino ad oggi nota, Cardetola, toponimo che sembra ricordare il nome di “Cardea,” una oscura divinità femminile d’epoca romana, addetta alla protezione delle porte115, nel cui nome appaiono possibili contatti con l’altro nome “Kerres,” versione italica di Cerere, che è menzionata nella Tavola di Agnone116. Un siffatto legame risulta plausibile anche ricordando quante siano state le varianti locali nella denominazione della ben nota divinità femminile ctonia altrove nota come Feronia oppure Angitia117, e a quali specifici modelli greci, sopra delineati, si sia fatto ricorso nel rappresentare il culto tramite votivi e pinakes rinvenuti nelle succitate fosse. L’ubicazione esatta del sito del santuario, nei cui pressi dovevano esistere strutture di servizio ed impianti produttivi quale la fornace indagata, è oggi possibile sulla base di alcune riflessioni sul
Di Niro 1980, p. 298, da Larino, Faustoferri 1997, da Chieti, con molti confronti; vedi in proposito A.R. Staffa in Staffa e Cherstich 2020a, 414-415; per un ulteriore approfondimento si rinvia a L. Cherstich in questa stessa sede. Sul culto di Demetra e le sue testimonianze monumentali vedi Demetra 2004, Cherstich 2006, p. 109. 113 Vedi da ultimo Dehner 2008, con bibliografia precedente. 114 Sui riti legati alle figure di Demetra e Persefone vedi CIC., In Verrem, II, 4, 106-111, CLAUD., De Raptu Proserpinae (Ed. M. Onorato, Napoli 2008), I 122-191, II 1-307, DIOD., Biblioteca Historica, V 2-5, Inno a Demetra: vv. 1 – 32, OVID., Metamorphoses, V 346-571. Vedi Frazer 1990. Per le antiche origini del suo inno vedi The Homeric Hymns, traduz. Jules Cashford, London, 2003, p. 24. 115 Aug, De civitate Dei, 4.8; Tertullian., De corona militaris, 13, e De idolatria, 15; Cyprian, De idolorum vanitate, 4; Kahlos 2007, p. 139. 116 La Regina 1980. 117 Vedi in proposito Staffa 2004a, 295-301. 118 Archivio di Stato di Napoli: pratica citata Ministero della Pubblica Istruzione, stanza 100, busta 364. 119 Citata pratica Ministero della Pubblica Istruzione, stanza 100, busta 364. 120 Citata pratica Ministero della Pubblica Istruzione, stanza 100, busta 364, documento 0958. 121 Citata pratica Ministero della Pubblica Istruzione, stanza 100, busta 364., documento 0958. 111 112
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A. R. Staffa
Crecchio dai Frentani ai Romani e oltre. Un esempio di centro “minore” di lunga durata in Abruzzo
sostenere aldisopra un gran cancello di ferro”122.
alla tarda antichità126. Una siffatta continuità di culto oltre la stessa età romana, mediante una evidente c ontinui tà di culto presso l’antico santuario della dea femminile italica fecondatrice qui nota come Cardea, è documentata anche altrove in Abruzzo da tanti significativi esempi127. Qui venne costruita fra fine dell’antichità ed altomediovevo una chiesa, S. Maria in Cardetola, che nel suo stesso titolo richiamava un rapporto con l’antichissimo santuario nella zona preesistente, e che in questa stessa contrada doveva originariamente essere ubicata. Non è chiaro se la menzione di una “Plebem Occrecle” nella bolla di Papa Nicola II del 1059, che elenca i beni della Chiesa Teatina128, sia riferibile a questo luogo di culto, oppure all’altra chiesa di S. Maria da Piedi esistente sin dall’età medievale nel centro di Crecchio129. Apparirebbe plausibile la prima delle due ipotesi, considerando anche l’altro caso documentato a Loreto Aprutino dell’altra pieve di S. Serotino, ubicata sul sito dell’antico abitato italico in località Colle Fiorano, che andò conservando sino ad età medievale la cura parrocchiale dell’insediamento altomedievale di Lauretum, corrispondente all’abitato attuale130, anche se non può escludersi che il titolo di pieve fosse passato in epoca imprecisabile dal prima al secondo luogo di culto.
Al momento del rinvenimento, avvenuto “a caso….da taluni coltivatori che per facende agrarie scavarono oltre il loro solito per le piantagioni”, la stele era già stata dunque riutilizzata in un edificio d’epoca successiva, con pavimentazione a mosaico, con gran probabilità lo stesso santuario, ove era stata collocata “per sostenere aldisopra un gran cancello di ferro”, che doveva chiudere il vano al cui interno la stele stessa era stata riutilizzata, probabilmente la cella. Qualche altra informazione si desume ancora dalla citata memoria del Carulli in data 20 giugno 1853, contenuta nella stessa pratica, nella quale si precisa che “giaceva essa lapide lunga 61/2, larga 11/2 sopra un più grande bel mosaico dislungo” 123, sistemazione pavimentale che potrebbe riferirsi in via di prudente ipotesi a fasi di ristrutturazione di un primitivo più antico impianto inquadrabili nel I secolo a.C. L’inquadramento delle fasi di maggiore sviluppo del luogo di culto fra III e II secolo a.C. ben si adatta infine al modello del tempio-economia, a suo tempo già oggetto di ampio esame in occasione della mostra “I Luoghi degli Dei”, e presso il quale venivano commercializzati non solo i tanti votivi di cui testimonianze sono state restituite dagli scavi, ma soprattutto quella così ampia produzione di Ceramica a Vernice Nera che dalle indagini viene documentata124.
V. CONCLUSIONI
IV.2 Le fasi d’età romana del santuario di Cardetola
La presenza di un insediamento ben più antico sul sito di Crecchio, oltre che dai resti già sopra illustrati, è confermata dal riutilizzo nella Torre dell’Ulivo del Castello di materiale romano, scapoli e tufelli da murature in opera incerta e reticolata (fig. 41, A), e dai risultati degli scavi del 2013 nella corte interna (C)131. Nel saggio 1 era indagata una fossa riferibile alle fasi altomedievali-medievali, che aveva tagliato quasi sotto la muratura del castello una sepoltura ben più antica (tomba 1), primaria, supina, deposta con capo a sud-ovest, resti scheletrici ben conservati ad eccezione del cranio, e fra i cui frammenti si rinveniva una moneta in bronzo di epoca romana, un dupondio dell’imperatore Marco Aurelio databile al 156157 d.C. Sepolture di simile cronologia venivano alla luce al centro della corte nel saggio 2, due delle quali svuotate perché intercettate durante successivi lavori (TT.2, 4). L’abitato antico qui doveva verso sud terminare, mentre gli altri margini erano le scarpate che delimitano ancor oggi l’insediamento. Nel territorio di Crecchio sono note anche varie ville, il grande impianto indagato dal 1988 in
Il santuario dovette restare in uso anche nella successiva età imperiale, come segnalato anche dai contatti del toponimo Cardetola con il nome della citata dea Cardea, divinità si è ricordato di probabile origine italica, ma che viene ricordata fra II e prima metà V secolo d.C. da numerosi autori cristiani, Sant’Agostino, Tertulliano, e Cipriano125, un ricordo significativo, perchè testimonia non solo la popolarità del culto a livello popolare, ma la stessa sua sopravvivenza sino alla tarda antichità. Interessante in proposito appare il fatto che, nell’area delle succitate fosse in proprietà Tella Franco, un contesto che ha restituito materiale ceramico quasi interamente riferibile ad epoca ellenistica, i livelli superficiali sconvolti dai lavori agricoli abbiano restituito monete non solo di epoca imperiale, ma persino tardoantica, ad esempio un probabile centennionale di Valentiniano (364-375 d.C.), dato singolare ma che costituisce evidente testimonianza della continuità d’utilizzo dell’area sino
Citato appunto apposto dal rinvenitore della stele Bartolomeo Granata sotto il disegno della stessa, in citata pratica Ministero della Pubblica Istruzione, stanza 100, busta 364. 123 Citata pratica Ministero della Pubblica Istruzione, stanza 100, busta 364., documento 0958. 124 “I Luoghi degli Dei, 1997”, Di Giuseppe 2012. 125 Aug, De civitate Dei, 4.8; Tertullian., De corona militaris, 13, e De idolatria, 15; Cyprian, De idolorum vanitate, 4; Kahlos 2007, p. 139. 126 Vedi L. Cherstich in questa stessa sede. 127 Staffa 2004a, 446-452. 128 Balducci 1929, 87-89. 129 Purtroppo le chiese di Crecchio non compaiono menzionate nelle decime papali del XIV secolo, pur essendo l’insediamento dipendente dalla diocesi di Chieti. 130 Staffa 2010a, 24-30. 131 Staffa e Cherstich 2022 c.s. 122
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BIBLIOGRAFIA
loc. Casino Vezzani-Vassarella (fig. 42, n.1), altri impianti a Cardetola, da cui viene il basamento di un torculario, Tavarone (n. 3), ove si conservano i resti di una potente cisterna simile a Vassarella, San Polo, rimasta abitata sino al VI secolo (n. 7), Villa Baccile (n. 8), con resti di pavimento in spicato e basamento in pietra di un torcularium, Villa Consalvi (n. 9), San Pietro – Villa Selciaroli (n. 10), nei pressi di Villa Tucci, con dolia interrati e strutture in calcestruzzo (n. 13), e infine presso Casino Vezzani (n. 14). Non termina con l’età romana la lunga storia dell’antico insediamento di Crecchio, perché con il VI secolo gli equilibri del territorio si focalizzano sulla grande villa romano-bizantina in località Vassarella, che diviene, con l’insediamento nella stessa Crecchio, in seguito divenuto anche sede di stanziamento longobardo, uno dei capisaldi della difesa bizantina di Ortona, vera capitale dell’Abruzzo bizantino132.
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Erano, anzi sono… i Frentani di Crecchio, poi ellenizzanti, in seguito romanizzati, infine divenuti alla fine dell’antichità bizantini, una lunghissima storia, l’orgogliosa continuità millenaria di una comunità, da Cardetola con le sue preziose stele e necropoli, alle fasi bizantine ed altomedievali, sino all’insediamento attuale, una storia di cui i nostri giovani devono essere orgogliosi, continuando a farne una leva fondamentale per la promozione culturale, economica, e turistica di questa splendida terra133.
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A. R. Staffa
Crecchio dai Frentani ai Romani e oltre. Un esempio di centro “minore” di lunga durata in Abruzzo
Fig. 1. Carta archeologica del territorio di Crecchio (Nuovo PRG adottato con delibera di C.C. 11/2009): 1) villa romano-bizantina in località Casino Vezzani-Vassarella; 2) Necropoli, resti di abitato italico, santuario italico-romano, chiesa altomedievale di S. Maria Cardetola in località Cardetola nei pressi di Villa Tucci; 3) villa romana in località Tavarone; 4) resti di santuario ed abitato italico nei pressi di Villa Selciaroli; 5) necropoli italica in località Parco della Duchessa, nei pressi del Castello, evidentemente riferibile ad un abitato italico che doveva esistere proprio sulla propaggine collinare di Crecchio; 6) Crecchio centro – chiesa di S. Maria da Piedi: necropoli e resti d’abitato altomedievale; 7) villa romana con fasi tardoantiche e necropoli con corredo di ceramica tipo Crecchio in località S. Polo; 8) villa romana in località Colle Leone – Villa Baccile (ricognizioni Luca Cherstich, Giuseppe Valentini, elaborazione L.C.).
Fig. 2. Fotoaerea del Castello e del centro storico di Crecchio alle sue spalle, risalente con ogni evidenza ad un precedente insediamento italico e romano (foto dalla rete).
Fig. 3. Carta archeologica del centro di Crecchio e sue immediate adiacenze: A1) centro storico; A2) chiesa di S. Maria da Piedi con necropoli e resti d’abitato altomedievale; B) Castello Ducale de Riseis d’Aragona di Crecchio, oggi sede del Museo dell’Abruzzo Bizantino ed Altomedievale; C) ubicazione dei saggi condotti nel 2009 nei pressi della Torre dell’Ulivo, che hanno riportato alla luce resti d’epoca protostorica, probabilmente romana, ed altomedievale (elaborazione autore).
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Fig. 4. Panoramica dalla Torre dell’Ulivo degli scavi condotti nel 2009 in occasione dei lavori di consolidamento del terrapieno del Castello Ducale, dopo la frana del 2003 (foto autore).
Fig. 6. Crecchio - scavi 2009 presso il Castello Ducale: panoramica dei resti e livelli antropizzati riferibili ad un abitato protostorico significativamente situato proprio sul pianoro del colle poi occupato dal Castello.
Fig. 5. Crecchio – Scavi 2009 presso il Castello Ducale, planimetria dei resti rinvenuti: 2-3-6) resti e livelli antropizzati riferibili ad un abitato protostorico significativamente situato proprio sul pianoro del colle poi occupato dal Castello; n. 9) muro con orientamento E/O dallo spessore di 55 cm in ciottoli e pietre, dall’ orientamento obliquo rispetto alle strutture murarie di età successiva, probabilmente riferibile ad epoca romana; ad esso va ad addossarsi la ricostruzione moderna dell’attuale muro di contenimento del castello; n. 10) muro riferibile alla più antica fase di vita del castello, probabilmente altomedievale (ril. Roberta Odoardi).
Fig. 7. Crecchio - scavi 2009 all’interno del Parco della Duchessa, a poca distanza dal Castello Ducale: ubicazione delle tombe riferibili ad una necropoli italica all’epoca rinvenute (elaborazione autore).
Fig. 8. Crecchio - scavi 2010 all’interno del Parco della Duchessa, pianta di due delle tombe italiche rinvenute, nn. 1-3: TOMBA 1 - 1) coppa monoansata in ceramica a vernice nera sul torace; 2) armilla in verga di bronzo a sezione circolare sul braccio destro; 3) spillone in bronzo a fianco del braccio destro; 4) anello digitale in bronzo; 5) fibula in ferro a doppio gomito a fianco del braccio destro; 6) spillone in bronzo sotto il mento; 7-8) anelli digitali in bronzi sulle mani destra e sinistra; 9) resti di collana composta da elementi a bulla alternati a elementi tubolari in osso e bronzo sul petto; 10, 13, 14) vaghi in pasta vitrea vicino al collo, evidentemente riferibili ad una collanina; 11-12) fibula in bronzo con anelli per pendaglio e nettaunghie in osso; 13) anellino digitale in bronzo sulla mano sinistra; TOMBA 3: 1) fibula in bronzo; 2) cinturone in bronzo; 3) olpe in ceramica a vernice nera (ril. R. Odoardi).
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Fig. 10. Crecchio - scavi 2010 all’interno del Parco della Duchessa: bracciale e fibula in bronzo dal corredo della tomba 1 (foto F. Nestore).
Fig. 9. Crecchio - scavi 2010 all’interno del Parco della Duchessa: panoramica del corredo della tomba 1 (ril. Foto F. Nestore).
Fig. 12. L’insediamento storico di Crecchio, abitato dalla Protostoria ad oggi, con ubicazione del Castello Ducale, delle chiese di S. Angelo e S. Maria da Piedi, dell’area della necropoli di Cardetola con le varie aree di scavo (20152019), e del presumibile sito del santuario antico e chiesa altomedievale e medievale di S. Maria Cardetola.
Fig. 11. Crecchio - scavi 2010 all’interno del Parco della Duchessa: cinturone dalla tomba 3 (foto F. Nestore).
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Fig. 13. Puntuale rilievo in scala 1:1 della celebre stele di Crecchio, allegato ad una relazione redatta nel 1844 dal possessore della lapide signor Bartolomeo Granata, da cui desumiamo le più antiche notizie sul suo rinvenimento (Archivio di Stato di Napoli, Ministero della Pubblica Istruzione, stanza 100, busta 364).
Fig. 14. Contrada Cardetola: panoramica fotoaerea del sito della necropoli, con in primo piano a destra il settore indagato fra 2016 e 2018 in proprietà Luciano Pasquale, e sullo sfondo Crecchio (foto Graziano Di Totto, di Vasto).
Fig. 15. Contrada Cardetola: coppe attiche tombe 127-128.
Fig. 17. Contrada Cardetola – proprietà Franco Tella: panoramica della tomba maschile 6, in ampia fossa antropomorfa, con ben 30 oggetti di corredo, deposti in due distinti livelli, per la maggior parte sul fianco destro ed ai piedi dell’inumato, con completo corredo d’armi (A: punta di lancia; B: pugnale a stami - spada lunga con fodero; C: coltello ad unico taglio deposto unitamente al vasellame buccheroide; D: spada corta o coltello), inumazione in cui sono ancora ben presenti gli elementi più caratteristici dell’antica cultura arcaica medio-adriatica d’epoca precedente (foto F. Nestore).
Fig. 16. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: particolare della giacitura della tomba maschile 91, di V secolo a.C. con il suo ricco corredo di Ceramica a Vernice Nera, con in primo piano coppa con bordo risparmiato con motivi vegetali in nero (foto F. Nestore).
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Fig. 18. Contrada Cardetola – proprietà Franco Tella: lungo e splendido pugnale a stami dalla tomba 6, con pomo dell’elsa decorato con una lamina in bronzo che sorregge un terminale “a fiore”, mentre la guardia presenta due uccelli stilizzati (foto F. Nestore).
Fig. 19. Contrada Cardetola - proprietà Franco Tella: anforetta biansata in ceramica ad impasto dal corredo della tomba 6 (foto F. Nestore).
Fig. 20. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: panoramica della tomba maschile 33, caratterizzata dalla presenza di una fra le punte di lancia più lunghe dell’intero sepolcreto (cm 70) (foto F. Nestore).
Fig. 22. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: impressionante giacitura del defunto della tomba 53, che indossava un elmo del tipo Negau-Vetulonia in bronzo, con altri elementi di corredo quali un cinturone finemente decorato, una punta di lancia, due fibule, alcuni spiedi, ed un alare in ferro, un anello in bronzo, una patera in bronzo con ansa ad omega, ed alcuni elementi di bronzo di difficile interpetrazione ai piedi, e soprattutto una coppa attica priva di piede con decorazione a palmette (foto F. Nestore).
Fig. 21. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: grande bacile in bronzo dal corredo della sepoltura maschile 18 (foto F. Nestore).
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Fig. 25. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale - tomba maschile 52: terzo elmo in bronzo restituito dalla necropoli anch’esso indossato come quello della T.99, e riferibile al tipo Montefortino A, con paraguance anatomici, databile al IV-III secolo a.V. (foto F. Nestore).
Fig. 23. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: tomba maschile 99, una delle più ricche ed interessanti della necropoli, con defunto inumato in posizione supina, attorniato da numerosi e preziosi oggetti di corredo, un elmo in bronzo del tipo Negau, un pugnale deposto semi-sfoderato sul braccio sinistro, in adiacenza con un cinturone in bronzo deposto lungo il lato sinistro della deposizione e, infine, l’elemento più raro di tutti, ovvero una coppia di schinieri deposti ai lati della sepoltura presso i femori, oltre ad un ricco corredo di vasi in bronzo e ceramica (foto F. Nestore).
Fig. 26. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: panoramica della tomba maschile 52 con il suo ricco corredo, fra cui l’elmo tipo Montefortino dell’immagine precedente (foto F. Nestore).
Fig. 24. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale tomba maschile 99: una serie complessa di ganci sul bacino dell’inumato testimoniano l’esistenza di un’antica cintura in pelle o stoffa, oggi scomparsa (foto F. Nestore).
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Fig. 27. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: tomba maschile 46, caratterizzata dalla presenza di un cinturone (foto F. Nestore).
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Fig. 28. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: sepolture maschili infantili dalle Tombe 40 (a sinistra) e 30 (a destra), caratterizzate dalla presenza di esemplari di torques in bronzo a sezione piatta, associate a cinturoni infantili (foto F. Nestore).
Fig. 30. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: fascia di bronzo posta intorno al cranio del defunto della tomba maschile 13, larga circa 20 cm ma nella sua parte allargata a formare un cerchio di cm 14 di diametro, rinforzato da piccolo elementi anch’essi in bronzo, una sorta di diadema, probabilmente legato ad un particolare ruolo sociale dell’inumato.
Fig. 29. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: tomba infantile 7, munita di cinturone di bronzo, che si presentava allineata in un circolo di sepolture con ben altre 4 inumazioni maschili, una sola delle quali munita di cinturone (foto F. Nestore).
Fig. 31. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: panoramica della tomba maschile 13, sepoltura particolarmente ricca, nel cui corredo, oltre al diadema, erano un cinturone, un bacile in bronzo, un fascio di spiedi di ferro, una fibula in ferro, un grande dolio ovoide ad impasto e due coppe in Ceramica a Vernice Nera (foto F. Nestore).
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Fig. 33. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: complesso apparato decorativo nella parte superiore del petto della tomba femminile 37 (sec. IV a.C.), costituito da varie fibule e fibulette in bronzo, oltre che da una articolata collana con vaghi di bronzo, e vaghi ad occhiale in pasta vitrea (foto F. Nestore).
Fig. 32. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: particolare in corso di scavo della spada in ferro dalla tomba maschile 65 (lunga con l’elsa circa 55 cm), contenuta in un fodero impreziosito da un filo di bronzo a spirale, e con l’elsa appoggiata su un grande elemento in bronzo a forma di foglia, un esemplare dunque raffinato e forse unico (foto F. Nestore).
Fig. 34. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: panoramica della sepoltura femminile infantile 49, con particolare di piatto in Ceramica Vernice Nera ed al di sotto di esso elementi riferibili probabilmente ad una stola, collana con vaghi in pasta vitrea blu e ad occhi, anelli di bronzo, ambre, ed un pendente a forma di piccolo cavallino, forse un gioco o un amuleto, che ricorda più antichi esemplari di VIIVI secolo a.C. (foto L. Cherstich).
Fig. 35. Contrada Cardetola – proprietà Dino Carinci: particolari della collana fatta di perle d’oro appuntite e allungate, con due fori sulla schiena, che suggeriscono come fossero state probabilmente cucite in una collana di stoffa, dal corredo della tomba femminile T.32, una sepoltura contenente materiali tipici del IV secolo a.C. (foto L. Cherstich).
Fig. 36. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: panoramica e particolare della tomba ad incinerazione n. 17, con il suo ricchissimo corredo contenente ben 27 oggetti, fra cui un’ampia presenza di ceramica di importazione dall’ Apulia e dalla Magna Grecia, un’olla in ceramica depurata biansata di possibile provenienza daunia, ben 21 vasi di Ceramica a Vernice Nera, a cui si affiancano una fibula in ferro dal riempimento della sepoltura, una punta di lancia, uno strigile, ed un rasoio (foto F. Nestore).
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Fig. 38. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: tomba a camera 22, una sepoltura maschile ad incinerazione, non semplicemente scavata nel terreno ma bensì definita da due muri veri e propri in pietra ivi incassati, con i suoi due livelli di deposizione del precioso corredo (foto F. Nestore). Fig. 37. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: panoramica della grande tomba a camera in cui erano alloggiate le sepolture 24-25 (foto F. Nestore).
Fig. 39. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: particolare della testa dell’inumato della tomba maschile 57, ornata con una corona fatta di un sottile filo di bronzo e piccolo sfere di terracotta placcate in oro, con particolare di una di esse, sfere probabilmente intrecciate con foglie di alloro o di quercia, di cui sembravano conservarsi alcuni resti organici (foto F. Nestore, G. Valentini).
Fig. 40. Contrada Cardetola – proprietà Luciano Pasquale: panoramica della tomba femminile 10, una delle più tarde della necropoli (sec. III a.C.), che conserva ancora l’antica tradizione frentana del seppellimento in semplice fossa ricavata sul fondo di una tradizionale sepoltura di pianta rettangolare, che presentava pareti rivestite di tegole ma non la chiusura superiore, come tipico invece delle più tarde cappuccine, e venne poi riempita di terra (foto F. Nestore).
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Fig. 41. Planimetria del Castello Ducale, sede del Museo dell’Abruzzo Bizantino, con ubicazione dei resti archeologici venuti alla luce fra 2009 e 2015 (rilievi R. Odoardi, L. Cherstich).
Fig. 42. Crecchio: carta archeologica allegata al vigente PRG, con ubicazione delle ville ed altri insediamenti d’epoca romana e tardoantica (ricognizioni e studi L. Cherstich-A.R. Staffa).
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Luca Cherstich
Una testimonianza del santuario antico in località Cardetola di Crecchio: le fosse con materiali ellenistici
Abstract: In 2015 agricultural works on the site of Santa Maria Cardetola, in Crecchio (CH), led to the discover of many archaeological finds including pottery, terracotta votives, coins, snails and bones. The context of these objects, mostly dating to the Hellenistic period, are the remains of badly damaged pits, somehow linked to an ancient cult. The finds shed light on the nature of the pits themselves, not as depositories for votives (as it is typical in many other sanctuaries) but rather as dumps for the disposal of waste materials, attesting the existence of productive activities linked to the sanctuary itself, as also demonstrated by a small kiln. A preliminary assessment of the votives’ shapes casts light on the possible nature of the cult itself. In fact, a feminine, chthonic deity was represented through the international language of the Hellenistic styles, albeit adapted to the local cultic needs.
Nell’estate 2015 lavori agricoli nella proprietà Tella a S. Maria Cardetola di Crecchio (CH) portavano alla luce un’impressionante quantità di reperti archeologici evidentemente riferibili ad un santuario.
Le tre fosse, inoltre, sembrano avere caratteristiche diverse. La “Fossa 1” aveva un aspetto vagamente circolare e un diametro di c. 7 m, mentre l’aspetto irregolare ed oblungo della “Fossa 2” (che misurava 3 x 5,5 m) sembrava forse dovuto al danno provocato dallo scasso moderno. La vicina “Fossa 3” era invece quella più grande, essendo larga c.3,5 m e lunga quasi 15 m. Nei pressi delle fosse è stato anche rinvenuto il fondo di una piccola “fornace a fossa”, larga 1,8 m e lunga 3,2 m3.
Una campagna di indagini di emergenza veniva quindi portata avanti nell’autunno sotto la direzione scientifica della Soprintendenza ai Beni Archeologici dell’Abruzzo, con il determinante supporto operativo dell’Archeoclub d’Italia - sede di Crecchio, e la collaborazione di alcuni studenti dell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti1.
I reperti rinvenuti nelle tre fosse al momento dello scavo sembravano abbastanza simili e per il momento, prima di uno studio accurato dei materiali, non è possibile far considerazioni più precise sulla distribuzione statistica o su eventuali differenze qualitative o quantitative tra i rinvenimenti dei tre contesti, anche se una datazione generale al III-II sec. a.C. sembra abbastanza chiara.
Le indagini sono state concentrate nella metà sud-occidentale del campo, dove si era rivelata l’area di maggior concentrazione dei resti a seguito di rinvenimenti avvenuti durante i lavori agricoli (Fig. 1). Le ricerche hanno portato all’identificazione di due diverse fasi di utilizzo dell’area in epoca antica: una prima fase di necropoli (VI-IV secolo), ed una seconda fase a cui appartengono alcune fosse di epoca ellenistica evidentemente connesse ad un santuario esistente nella zona, sulla quale si concentra in questa sede l’attenzione2.
Una notazione appare tuttavia possibile sulla natura di queste fosse. La presenza di elementi connessi ad attività cultuali è chiara (ed è meglio discussa più sotto) e contesti simili nell’archeologia abruzzese vengono solitamente definiti come “stipi votive”. Ciononostante, una definizione del genere sembra calzare ben poco al sito in questione, in quanto i reperti portati alla luce non sembrano stoccaggi connessi a un esubero di votivi vicino ad un tempio.
Come rivelato dagli scavi la stratigrafia presente era già stata ampiamente sconvolta dai pesanti scassi agricoli, fino a profondità di 100-150 cm dal piano di campagna, ma, nonostante questi danni, è stato possibile identificare i fondi di almeno tre grandi fosse (Fig. 1), preservati sotto forma di strati scuri spessi c. 20 cm che si stagliavano direttamente sul più chiaro e compatto fondo geologico sterile.
Al contrario, le fosse contengono numerosi errori di lavorazione e segnali dell’esistenza di un opificio, come documentato da alcuni frammenti ceramici malcotti, probabili scarti di produzione, e da alcuni distanziatori cilindrici o conici simili a quelli rinvenuti in altri
Voglio qui ringraziare di cuore l’allora presidente dell’Archeoclub d’Italia – Sede di Crecchio, Ing. Giuseppe Carulli, oggi presidente emerito, e l’allora direttore tecnico ed oggi presidente Giuseppe Valentini, nonché tutti gli altri soci che hanno partecipato attivamente alla campagna scavi 2015 in proprietà Tella: Maurizio Miccoli, Omar Cavuti, Sebastian Nocciolino, Francesca Miccoli, Antonella Scarinci, Enrica Francescucci ed Andrea Miccoli (a cui si deve il rilievo generale). Essenziali sono stati per l’inizio dei controlli le segnalazioni di Bambino Nino Carinci e Romano Masciarelli. Ringrazio inoltre Oliva Menozzi, Professoressa associata dell’Università G. d’Annunzio, vari dei cui allievi hanno partecipato allo scavo. 2 Per la necropoli vedi quanto qui espresso in questa sede è stato anche proposto, sotto altra forma, nell’ultimo volume del notiziario della Soprintendenza “Quaderni di Archeologia d’Abruzzo”, ovvero il volume 5, in corso di pubblicazione. 3 Cuomo Di Caprio 2007, p.503. 1
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro c. 150 cm di profondità dal piano di campagna sembra suggerire che le fosse siano rimaste a lungo aperte6.
contesti di epoca ellenistica in Abruzzo come la fornace a fossa italica di Campo Mirabello di Montebello di Bertona o in scavi nella località S.Maria Arabona di Manoppello 4.
Degne di nota sono inoltre le monete, recuperate in una certa quantità, specie in bronzo, soprattutto nei livelli sconvolti, ed una delle più interessanti è una moneta in bronzo con testa di Mercurio con petaso sul diritto e Pegaso sul rovescio della serie prodotta dai Frentani a metà del III secolo, con iscrizione “FRENT-” appena accennata (Fig. 2)7.
Altri chiarissimi segni di attività produttive sono le concentrazioni di terreno rosso concotto gettato nelle fosse (forse dalla pulizia di fornaci?), alcune scorie di ferro, una colatura di bronzo (forse segno di produzione di bronzetti votivi?) e piccole piombature, probabilmente per la riparazione di grandi vasi quali dolia ed olle.
I livelli sconvolti inoltre hanno restituito monete di epoca imperiale e persino tardoantica, ad esempio un probabile centenionale di Valentiniano), dato singolare in quanto contrasta con la cronologia del materiale ceramico che, almeno ad un primo veloce esame, sembrerebbe essere quasi interamente riferibile ad epoca ellenistica.
Tutti questi indizi, se confermati dallo studio dei materiali, potrebbero suggerire l’esistenza sul sito di S. Maria Cardetola di un articolato sistema produttivo ed economico templare, secondo un ben noto modello economico-culturale che proprio nel III secolo a.C. trova ampia diffusione e rilevante importanza nella penisola italiana5.
Nessuna di tali monete tarde proviene però dalla stratigrafia intatta in situ ma piuttosto da contesti superficiali sconvolti (forse un tesoretto intercettato dall’aratro, originariamente nascosto in un sito abbandonato in epoca tarda?)8, a testimoniare forse una evidente continuità d’utilizzo dell’area anche dopo la decadenza del santuario ed anche il venir meno delle più antiche attività di culto.
Il dato è inoltre confermato anche da una vicina fornace a fossa che, pur se presente in un santuario, difficilmente potrebbe essere stata posta in adiacenza ad un tempio (Fig. 1). La posizione esatta del luogo sacro vero e proprio è ancora ignota ma le attività di culto devono essere state svolte in una zona relativamente vicina, anche se fisicamente separata.
Al contrario, l’evidenza numismatica rinvenuta in situ negli strati preservati sul fondo delle fosse sembra chiaramente confermare l’orizzonte cronologico di epoca ellenistica suggerito dalla ceramica, come suggerisce un Vittoriato d’argento, databile tra fine III ed inizi del II secolo a.C.
Delle circa 400 cassette di materiale archeologico recuperato la maggior parte è composta da reperti ceramici, rinvenuti sia negli strati preservati in situ che nei livelli sconvolti più in alto. Un’enorme quantità di frammenti è venuta alla luce dalle fosse, perlopiù ceramica depurata e a vernice nera, anche se non manca qualche raro e piccolo pezzo di impasto.
Fra i rinvenimenti ve ne sono alcuni che non possono che essere connessi ad attività di culto, come un frammento di thymiaterion in ceramica comune (Fig. 3), appartenente ad una tipologia diffusa in contesti sannitico-campani come l’antica Abellinum ad Atripalda (AV)9.
Tra le forme individuate ci sono skyphoi, coppette, piccole olpai ma anche qualche unguentario fusiforme o lucerna. Vari esemplari sono chiaramente miniaturistici, il che suggerisce una loro connessione con attività cultuali. I materiali ceramici devono ancora essere studiati con attenzione ma, in via preliminare, per il momento sembra possibile una datazione generale al III-II secolo a.C.
Caratteristiche testimonianze di culto sono anche i numerosi votivi anatomici, mani e piedi, (Fig. 4), probabilmente difettosi, come dimostra la generale mancanza delle dita, e forse per questo scartati, oltre ad una serie di statuette fittili animali, nessuna delle quali integra. Alcuni di questi animali sono modellati a mano ed altri a matrice, ma tutti quanti rappresentano solo bovini (Fig. 5, in alto).
Le fosse hanno restituito anche numerose ossa animali (probabilmente scarti alimentari) e tantissimi gusci di lumaca, molluschi terrestri che compiono movimenti molto limitati, e la presenza dei cui gusci nelle fosse a
4 Staffa, Cherstich 2012: 563. Si tratta di una tipologia poco studiata e poco compresa, almeno nell’ambito della bibliografia edita per l’archeologia Abruzzese. I dati certi sono la ricorrenza della cronologia (epoca ellenistica) e dei contesti (fornaci o scarti di fornace in abitati). Questi elementi cilindrici o conici “pieni” potrebbero riflettere una tradizione locale forse connessa a pratiche di cottura diverse rispetto ai più classici distanziatori vuoti conosciuti altrove (ad esempio in Fusi 2020). 5 Di Giuseppe 2012, pp. 157-158. 6 Girod 2001, p. 20. 7 Cantilena 1991, p. 146; si attende comunque il restauro dell’esemplare. 8 Ringrazio il Dott. Davide Di Vittorio per l’intuizione su questa ipotesi. 9 Cinquantaquattro, Pescatori 2015, fig. 26.10.
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L. Cherstich
Una testimonianza del santuario antico in località Cardetola di Crecchio: le fosse con materiali ellenistici
Sono presenti anche numerose statuine fittili antropomorfe, tutte femminili, molte delle quali acefale, e tutte con segni di rotture antiche, la maggior parte delle quali richiama il tipo Tanagra e tipici schemata demetriaci, quali la Grande e della Piccola Ercolanense (Fig. 5, in basso a destra e al centro).
forse una crocchia o alto chignon, come a richiamare in modo rozzo modelli raffinati visti in statuine tipo Tanagra anche in Abruzzo13. Il viso, appena abbozzato con un naso angolare, mostra i tratti semplificati presenti in tanti bronzetti abruzzesi (di Ercole ma anche di altre divinità), probabilmente dovuti alla difficoltà avuta dall’artigiano nel renderli nella matrice di stampo. Dai piedi della statuetta sembra partire un perno, forse per l’incasso su una base, su un’asta o su un altro oggetto decorativo (magari con animali o motivi vegetali?) che potrebbe aver fatto da complemento al modello iconografico che l’artigiano ha tentato rozzamente di rappresentare.
Esistono però altri tipi, come almeno due figure con teste rozzamente plasmate, probabilmente cinte di una corona d’edera (Fig. 5, in basso a sinistra), che richiamano alla mente esemplari da San Buono, forse ispirati a modelli ellenistici legati al mondo dionisiaco10. Sono stati rinvenuti anche frammenti di almeno tre pinakes (Fig. 6), che rappresentano un volto femminile con capo velato, simili a pezzi di lastre rinvenuti a Chieti, San Buono e Larino. Nella destra la figura tiene un elemento, interpretabile come una fiaccola o, secondo altri, un ventaglio11.
Non esiste alcuna evidenza epigrafica che possa indicare il nome della divinità venerata in epoca ellenistica nella località Santa Maria Cardetola di Crecchio, ma gli indizi suggeriti dalla cultura materiale sembra tutti puntare nella stessa direzione, nella credibile ipotesi che sia stato scelto un linguaggio figurativo ellenizzato per rappresentare un culto locale.
Un rinvenimento unico è poi un bronzetto rappresentante una figura femminile stante, panneggiata, con le braccia aperte, forse tese a sostenere qualcosa (Fig. 7).
La scelta degli specifici modelli figurativi potrebbe essere importante, ed in particolare il fatto che tutte le rappresentazioni rinvenute appartengano al mondo femminile, con gli schemata della Grande e della Piccola Ercolanense di tante statuine fittili che chiaramente suggeriscono il mondo di Demetra/Cerere, come in tanta coeva statuaria ellenistica14.
La figura è caratterizzata da una veste lunga fino ai piedi, con un apoptygma rappresentato come una corta tunica smanicata, stretta alla vita da una fascia o cintura, con scollatura arrotondata. Il modello di queste pesanti vesti sembra essere totalmente differente, rispetto a quello delle raffinate figurine fittili di ispirazione ellenistica. Il pesante panneggio della lunga veste, a meno che non sia un prodotto di imperizia dell’artigiano, potrebbe evocare chitoni arcaici o arcaizzanti.
Alla stessa sfera sembrano riferirsi le pinakes, se l’elemento rappresentato in maniera stilizzata è una fiaccola, forse da collegare a modelli espressi più esplicitamente in scultura nel mondo greco15.
La resa grossolana potrebbe inoltre mascherare l’intento di riprodurre un’altra moda ellenizzante: il chitone a due balze che in Abruzzo appare rappresentato, in maniera molto più raffinata, nelle antefisse a “Potnia Theron” della Civitella di Chieti e del santuario di Schiavi12.
Inoltre, la presenza di almeno un piccolo busto fittile acefalo (a meno che non si tratti di una rottura da verificare con il restauro), potrebbe suggerire la tipica anodos di Persefone dall’Ade, come in esempi sparsi in molte necropoli del Mediterraneo ellenizzato.
Anche la posizione delle braccia, a meno che non è il riflesso della volontà di rappresentare un offerente, potrebbe in realtà evocare schemata affini alla Potnia Theron. È difficile però proporre un’interpretazione definitiva di questo pezzo poiché mancano le mani, e proprio questa mutilazione potrebbe anche essere stato il motivo della presenza del bronzetto tra gli scarti della fossa.
Sono tuttavia presenti numerosi altri elementi che non sembrano in consonanza con la sfera di Demetra, a dimostrazione di come i modelli allogeni siano stati mescolati, adattando tendenze e riferimenti diversi. Riflettendo sul fatto che le statuette fittili votive animali rinvenute raffigurano solo bovini, si ricordi che la prevalenza dei bovini, nel mondo greco, suggerirebbe più Era che Demetra, mentre le teste cinte di edera suggeriscono ovvie connessioni dionisiache.
L’acconciatura, estremamente schematica, forse volutamente arcaizzante, presenta un elemento sommitale, Faustoferri 2001, p. 102. Vedi Faustoferri 2001a con ampia bibliografia. Iaculli 2001, pp. 48-49, fig. 1-7, p.88 fig. 1. 13 Lagatta 2006, p.89, seconda testa da sinistra. 14 Smith 1991, p. 75. 15 Vedi ad esempio Cherstich 2006, p. 109 10 11 12
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Cuomo Di Caprio N. 2007, Ceramica in Archeologia, 2: antiche tecniche di lavorazione e moderni metodi di indagine, (Roma).
Emerge dunque in evidenza l’inadeguatezza di concetti astratti come “ellenizzazione” o “acculturazione”, ove siano applicati con eccessiva semplicità, dovendosi infatti considerare come l’introduzione di nuovi linguaggi figurativi sia sempre l’esito di meditate negoziazioni culturali, trasformazioni e adattamenti, piuttosto che il frutto di generici quanto teorici ed astratti “influssi” di ricercate mode ellenistiche su Italici che tali influssi avrebbero soltanto passivamente subito.
Di Giuseppe H. 2012, Black-Gloss Ware in Italy. Production, management and local histories, BAR IS 2335, (Oxford). Faustoferri A. 2001, “l’area sacra di Fonte San Nicola: i votivi” in Campanelli e Faustoferri 2001, 99-116. Faustoferri A. 2001a, Scheda “21. Pinax” in Campanelli e Faustoferri 2001, 97.
Non sarà probabilmente mai possibile l’identificazione certa del nome della dea venerata a Cardetola, ma i riferimenti ad un culto di natura ctonia, materna e femminile sono molteplici, e non solo nei reperti sopra descritti.
Girod A. 2015, Appunti di Archeomalacologia. (Firenze). Fusi M. 2020, “I Distanziatori da Fornace come indicatori di produzione. Nuovi dati per Populonia” in Fasti Online 2020 (disponibile su http://www.fastionline. org/docs/FOLDER-it-2020-464.pdf accesso eseguito il 25/07/2020).
Emerge in evidenza come suggestivo ed evocatore lo stesso nome della contrada, “Santa Maria Cardetola”, che deriva da un’antica chiesa medievale oggi scomparsa, ed il cui singolare titolo “Cardetola” sembra riecheggiare il nome “Cardea”, con cui era nota una divinità minore d’epoca romana, chiamata anche “Carna” da Ovidio nel libro VI dei Fasti, forse un aspetto particolare o una duplicazione di Cerere o della “Kerres” osca della Tavola di Agnone16.
Iaculli G. 2001, Schede in Campanelli e Faustoferri 2001, 44-53, 83-88. Lagatta D. 2006 “Culti e Divinità” in Lapenna S. (a cura di) Iuvanum, l’area archeologica, 87-91. La Regina A. 2010, “Il Guerriero di Capestrano e le iscrizioni paleosabelliche” in Franchi dell’Orto (a cura di) 2010, 230-273.
Considerata la possibile continuità di culto nella scomparsa pieve altomedievale, è suggestivo pensare che i Frentani di questa zona possano aver venerato con fervore per generazioni la stessa dea, i cui caratteri potrebbero essere poi stati almeno in parte trasferiti alla “Santa Maria Cardetola”, la cui immagine sembrerebbe quasi riflettersi nelle tante rappresentazioni femminili rinvenute proprio a Cardetola nello scavo delle fosse.
Franchi Dell’orto L. (a cura di) 2010, Pinna Vestinorum e il popolo dei Vestini, (Roma). Salmon E. T., 1985, Il Sannio ed i Sanniti, traduzione italiana del libro del 1967, (Torino). Smith R.R.R. 1991, Hellenistic Sculpture. (New York). Staffa A.R., Cherstich L. 2012, “Montebello di Bertona (PE), loc. Campo Mirabello: saggi archeologici sul sito dell’abitato italico-romano” in Quaderni di Archeologia d’Abruzzo 2/2010, 559-563.
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16
Coarelli, La Regina 1984: 321-324; Salmon 1985: p.168.
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L. Cherstich
Una testimonianza del santuario antico in località Cardetola di Crecchio: le fosse con materiali ellenistici
Figura 1: Crecchio, S.Maria Cardetola, Proprietà Tella. Planimetria delle indagini 2015 (L.Cherstich, A.Miccoli, G.Valentini).
Figura 2: Crecchio, S.Maria Cardetola, Propr. Tella, Moneta Frentana, diritto e rovescio (Foto: G.Valentini)
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Figura 3: Crecchio, S.Maria Cardetola, Propr. Frammento di Thymiaterion, lato corto e lato lungo (Foto: G.Valentini)
Figura 4: Crecchio, S.Maria Cardetola, Propr. Tella, votivi anatomici (Foto: L.Cherstich)
Figura 5: Crecchio, S.Maria Cardetola, Propr. Tella, statuine votive fittili (Foto: L.Cherstich)
Figura 6: Crecchio, S.Maria Cardetola, Propr. Tella, pinax (Foto: L.Cherstich)
Figura 7: Crecchio, S.Maria Cardetola, Propr. Tella, bronzetto, fronte e retro (Foto: L.Cherstich)
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Patrizia Basso
Insediamenti minori e necropoli rurali in Italia Cisalpina: qualche spunto di riflessione Abstract: The paper aims to reflect on the role of Roman rural cemeteries as archaeological indicators of minor settlements, taking inspiration from the census of the funerary contexts (isolated tombs, funerary areas, sepulchral inscriptions) that I am conducting in the Verona’s territory. In the light of the data collected so far, I will present two case studies of funerary areas brought to light in the excavations which provide evidence of the rural settlement, despite the absence of archaeological and literary-epigraphic documentation.
INTRODUZIONE
indagine riguarda la pertinenza delle evidenze funerarie rurali a insediamenti minori aggregati (vici) o sparsi (villae) e l’individuazione di eventuali indicatori archeologici che possano essere diagnostici per riconoscere la tipologia degli insediamenti di riferimento, quando – come spesso avviene – siano note le evidenze funerarie, ma non quelle abitative.
Con Sara (e Maria Stella Busana) nel 2015 avevamo proposto un Prin sugli insediamenti minori. Come responsabile dell’Unità di Verona dovevo occuparmi non solo delle stazioni di sosta (tema di un convegno organizzato con Enrico Zanini, in cui Sara aveva avuto un ruolo fondamentale nel comitato scientifico)1, ma anche delle necropoli, come indicatori delle categorie insediative nel territorio e in particolare degli insediamenti minori. Per questo ho pensato di dedicarle qui qualche preliminare riflessione su tale tematica, da approfondire in studi futuri: è l’occasione per ripensare ai progetti di indagine che avevamo in mente assieme e ai preziosi consigli che Sara avrebbe potuto darmi, con quella generosità professionale e quel calore umano che sono fra le tante preziose eredità che ci ha lasciato.
Prima di addentrarci nell’analisi, sembra importante portare la riflessione su due questioni di carattere generale. I. La frammentarietà dei dati impone un’estrema cautela nelle considerazioni: va infatti osservato che le conoscenze sulle necropoli sono quasi sempre lacunose, in quanto esse sono state scavate per lo più parzialmente e spesso nel corso di indagini ormai datate, in cui non si sono applicate analisi scientifiche e talora non si sono nemmeno recuperati puntuali dati numerici né cronologici;
Le ricerche sul funerario hanno conosciuto in anni recenti una nuova stagione di studi, da un lato tramite l’approfondimento di tematiche cultuali e antropologiche un tempo raramente affrontate a favore della più tradizionale analisi dei corredi2, dall’altro con un nuovo interesse per le evidenze funerarie rurali, prima trascurate rispetto a quelle urbane. Molto innovativo è stato, inoltre, l’ancor più recente approccio topografico, che mira a studiare le sepolture antiche per ricostruire l’assetto insediativo e infrastrutturale del territorio oggetto di indagine. Questa tematica, avviata in Francia e Danimarca3, negli anni immediatamente trascorsi è stata oggetto di indagini anche in Italia, in particolare a opera di giovani studiosi che hanno sottolineato come l’analisi distributiva dei rinvenimenti funerari rurali possa fornire dati utili all’individuazione di tracciati stradali, divisioni agrarie e insediamenti4.
II. Le sepolture rappresentano, almeno per l’ambito rurale, l’evidenza archeologica che più di ogni altra registra il dato quantitativo della popolazione: il numero di tombe di una necropoli, infatti, può essere considerato un campione rappresentativo degli abitanti del relativo insediamento in uno specifico arco cronologico5. Tuttavia, va riflettuto sul fatto che tali dati quantitativi vanno analizzati relativamente alla durata nel tempo dell’uso della necropoli. É chiaro infatti che un nucleo, ad esempio, di quaranta sepolture datate in cento anni non corrisponde a un numero analogo di abitanti di una necropoli composta sempre da quaranta sepolture, ma frequentata per quattro secoli. In tal senso per quantificare la “grandezza” di un’area funeraria è fondamentale definire un indice dimensionale che ci permetta di confrontare le necropoli fra loro.
É proprio su quest’ultimo aspetto che si intende riflettere in questo contributo. In particolare, il tema di Basso e Zanini 2016. E basti pensare a Duday 2006; Scheid 2008. 3 Cfr. rispettivamente Ferdière 1993; Parker Pearson 1993. 4 Francisci 2017; Botturi 2017. 5 Francisci 2017, 189-190. 1 2
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro già dal I sec. a.C. giocò un importante ruolo economico come punto di approdo del Lago Maggiore e poi divenne un vero e proprio nodo di traffici terrestri e fluviali, si ipotizza un’area monumentale nel quartiere nord-orientale del centro odierno (forse un foro) e si conosce un più tardo ampliamento urbano verso il lago, sviluppato in almeno cinque isolati rettangolari di m 60 x 100. Nell’area del camposanto moderno, in loc. Bocca dei Cavalli, a est dell’abitato, lungo l’antica strada per Milano (fig. 2), l’Università di Milano negli anni ’70 del Novecento ha portato alla luce una vasta necropoli di 246 tombe, datate dall’età tiberiana alla metà del III sec. d.C.: si tratta di sepolture prevalentemente a incinerazione fino alla fine del II sec. d.C. e poi esclusivamente a inumazione, con corredi modesti, disposte probabilmente secondo un piano comune di utilizzo degli spazi, in quanto non si osservano sovrapposizioni o intersezioni fra loro e si nota uno sviluppo progressivo da occidente verso oriente. Va anche ricordato che si sono rinvenuti altri piccoli sepolcreti sparsi nelle campagne attorno al centro, per lo più allineati sulla strada lungo il lago diretta a Milano (fig. 3). Tali necropoli minori attesterebbero un quadro insediativo conforme al costume celtico, caratterizzato da piccoli agglomerati abitativi che gravitavano sul centro principale, con funzioni commerciali e di servizio o ancora a vocazione agricola e artigianale9: tuttavia, si potrebbe anche pensare a una polinuclearità funeraria del vicus, come nel caso dei centri urbani10. Della necropoli oggetto di indagine si sono calcolati, secondo le indicazioni fornite nell’introduzione, l’“indice di grandezza” piuttosto alto e un, pur generico, numero di abitanti per generazione (Tabella 1).
Denis Francisci, ad esempio, propone di calcolare il “Necropolies Dimensional Index (NDI)” corrispondente al rapporto tra il numero di individui sepolti (che non necessariamente coincide con il numero delle tombe, dato che alcune di esse potevano ospitare più defunti) e l’estensione temporale della necropoli. Più l’indice è prossimo allo 0, più la necropoli è “piccola”, cioè formata da poche tombe distribuite nell’arco di molti anni6. Se si vuole inoltre avere un’idea - per quanto assolutamente approssimativa - del numero di individui che abitavano nell’insediamento cui la necropoli afferiva in uno stesso momento storico (ad es. in una generazione), sembra possibile rifarsi anche a un altro calcolo che stabilisca il rapporto fra il numero delle deposizioni e i secoli di vita della necropoli, in relazione ancora con il numero delle generazioni che approssimativamente si susseguivano in un secolo (tre, numero a sua volta calcolato sulla base della vita media in età romana)7. Come si è detto, si tratta, comunque, di misurazioni assolutamente approssimative, che non valgono in sé, ma come termini di confronto fra necropoli diverse.
ALCUNI ESEMPI CISALPINI Come si evince dal titolo del contributo, in questa fase dello studio si prenderanno in considerazione solo esempi di aree funerarie della Cisalpina, ma è evidente che l’analisi andrà estesa anche ad ambiti territoriali diversi, tramite la realizzazione di un censimento sistematico dei casi. Dapprima si presenteranno tre necropoli rurali che sono state interpretate come vicane e poi altre due considerate invece prediali, così da far emergere le peculiarità delle due diverse tipologie (fig. 1). Sulla base dei dati emersi da questi casi si cercherà, poi, di individuare i parametri che possano fungere da indicatori dell’abitato di pertinenza delle aree funerarie, per provare infine ad applicarli a due esempi del territorio veronese, oggetto di analisi recenti.
Il secondo esempio è l’ampio sepolcreto rinvenuto a Biella grazie a scavi condotti nel 1950-52 dalla locale Soprintendenza archeologica ai piedi del colle “del Piazzo”11 (fig. 4). Si tratta di 504 tombe a cremazione in urna fittile o anfora segata, datate fra la metà del I e il IV sec. d.C. In considerazione anche del fatto che l’area funeraria doveva essere molto più vasta (se ne sono scavati solo 600 mq su circa 5000), per quanto la città attuale abbia restituito solo realtà insediative modeste e tarde, si è ipotizzato che si trattasse di una necropoli vicana (per gli indici di grandezza, cfr. Tabella 1). Anche in tal caso attorno all’abitato odierno sono noti altri rinvenimenti funerari.
La prima area funeraria che si analizza, ad Angera (Varese), costituisce uno dei più precoci casi di studio cisalpini, ma anche italiani in genere, dove si è cercato di utilizzare le sepolture come strumento per l’analisi globale del popolamento di una regione8. Del vicus, che
Francisci 2017, 192. Lo studioso porta degli esempi in tal senso: un nucleo di dieci tombe datate tra I e III secolo restituirà un rapporto equivalente a 10/300, cioè 0,033: si tratta di una necropoli in cui ogni anno vengono realizzati 0,033 seppellimenti o, ribaltando i termini, una necropoli nella quale si seppellisce una volta ogni trent’anni. Invece un sito con cento tombe databili nell’arco di un secolo produce un indice dimensionale pari a 1, che equivale a dire una tomba all’anno. 7 Il calcolo della vita media in epoca romana è problematico, poiché risente di vari fattori ambientali, socio-economici e di genere: in un recente lavoro di demografia romana essa viene definita attorno ai trent’anni (Hin 2013, con ampia bibliografia precedente). 8 La necropoli, in relazione al vicus, è stata oggetto di un volume di sintesi (con bibliografia precedente), cui si rimanda per le informazioni qui presentate: cfr. Sena Chiesa e Lavizzari Pedrazzini 1985. 9 Cfr. in particolare Harari 1985, 48-9; Sena Chiesa 1997, 279. 10 Per qualche altro esempio di vicus cisalpino dove le aree funerarie sono dislocata lungo le vie di comunicazione in entrata e uscita dal centro insediativo e quindi disposte attorno allo stesso, cfr. Bedriacum (Sena Chiesa 2018, con ampia bibliografia precedente) e l’odierno S. Pietro in Casale (Ortalli 1997, p. 382; Trocchi e Raimondi 2017). 11 Cfr. Brecciaroli Taborelli 2000. 6
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P. Basso
Insediamenti minori e necropoli rurali in Italia Cisalpina: qualche spunto di riflessione
Il terzo caso è quello di Voghenza (Ferrara)12: dell’abitato sono noti due nuclei disposti sul tracciato del Po di Voghenza, che per quelle terre costituì l’asse naturale del popolamento: l’uno sulla sponda sinistra vicino alla necropoli sembra il centro insediativo, l’altro sulla destra pare invece interpretabile come una villa dotata anche di una fornace per laterizi. Attorno all’abitato antico si sono portati alla luce vari nuclei funerari, fra cui va segnalato il principale, scavato a partire dal 1977 a cura della Direzione del Museo Archeologico Nazionale di Ferrara e costituito da 67 tombe di varie tipologie per lo più databili nel II sec. d.C. (fig. 5). Va osservato da un lato che l’“indice di grandezza”, è piuttosto basso e così pure il numero di abitanti per generazione (Tabella 1), dall’altro che le tombe rispecchiano una precisa organizzazione degli spazi funerari, in quanto sono disposte su ordinati allineamenti paralleli.
rispecchiano una qualche gerarchia sociale: la loro disposizione ha permesso in particolare di ricostruire la presenza di almeno tre famiglie iniziali, attorno alle deposizioni delle quali si sarebbero poi localizzate le altre sepolture (la A nel piccolo recinto a est, la B intorno al recinto della prima, la C in un’area più ad ovest). Non si hanno notizie sull’abitato cui il sepolcreto era riferito, tuttavia è stata ipotizzata una sua relazione con una villa privata, dato il generale quadro insediativo dell’area. Come nel caso precedente l’“indice di grandezza” è vicino allo 0 e il numero di abitanti per generazioni piuttosto contenuto (Tabella 1).
GLI INDICATORI EVIDENZIATI E UNA LORO APPLICAZIONE Alla luce dei casi considerati, per quanto numericamente contenuti e quindi da rivalutare con un ampliamento dell’indagine, si sono individuati alcuni indicatori che sembrano utili nel momento in cui si cerchi di individuare il carattere vicano o prediale di necropoli rurali, per così dire, “orfane” di insediamento:
Per i casi di aree funerarie pertinenti a insediamenti rurali sparsi, si citano invece due celebri esempi bresciani, e precisamente le necropoli di Nave e del Lugone-Salò. La prima venne scavata fra il 1978 e il 198413 e restituì 52 tombe datate fra la prima età augustea e l’età flavia14, prive di un ordine dispositivo e anzi caratterizzate da una crescita caotica, a piccoli raggruppamenti, probabilmente indicanti rapporti di parentela o affinità sociale fra i defunti, in una totale assenza di pianificazione degli spazi funerari (fig. 6). Per quanto manchino dati sull’abitato, l’ipotesi che si trattasse di una necropoli prediale è stata avanzata in considerazione del generale quadro del popolamento della valle del Garza. Si segnala in tal senso l’“indice di grandezza” dell’area funeraria vicino allo 0 e il ridotto numero di abitanti per generazione, ben compatibile con il personale di un insediamento rurale sparso15 (Tabella 1).
• gli indici dimensionali, che tuttavia, come si è anticipato, in considerazione anche del fatto che per lo più le tombe note di un’area funeraria sono solo una parte dell’intero, risultano inevitabilmente approssimativi; • la collocazione topografica, che nel caso delle necropoli vicane vede, come negli abitati urbani, una dislocazione polinucleare delle tombe lungo le vie di comunicazione in entrata e uscita dal nucleo insediativo; • l’organizzazione degli spazi funerari, che nelle necropoli vicane sembra pianificata, con una progressiva espansione delle deposizioni dallo spazio più vicino al nucleo insediativo verso l’esterno (probabilmente per una maggiore densità di sepolcri e un controllo dell’amministrazione locale) rispetto a quelle prediali, lasciate alle scelte familiari;
A Lugone presso Salò è invece venuta alla luce negli anni ’60 e ’70 del Novecento una necropoli di 171 tombe per lo più a incinerazione, di cui facevano parte anche un monumento funerario a edicola e tre recinti delimitati da muretti in opera cementizia, che costeggiavano una strada confluente in un percorso collegato alle più importanti linee di traffico dell’Italia settentrionale, ovvero la via Postumia e la strada fra Milano e Aquileia, nota in età moderna con il nome di Gallica16 (fig. 7). Le deposizioni sono datate dalla seconda metà del I al IV sec. d.C. Lo studio dei corredi individua tombe più ricche vicine ad altre medio-basse, secondo raggruppamenti cronologicamente diversi che probabilmente
• l’analisi del modello sociale ricostruibile sulla base dell’analisi incrociata della tipologia più o meno monumentale delle tombe, dei loro corredi e dei resti osteologici: la presenza di un unico monumento funerario di livello notevole e di altre sepolture di livello medio-basso potrebbe in effetti far pensare rispettivamente al dominus di una villa e alla sua familia servile.
Cfr. Voghenza 1984. Passi Pitcher 1987. 14 In tal caso le indagini hanno restituito un quadro estremamente dettagliato dal punto di vista cronologico: dodici tombe sono state datate in età tardo repubblicana-augustea, trentadue in età giulio-claudia, otto in età flavia. 15 A titolo esemplificativo si ricorda che Catone (II.1) afferma che per una proprietà vinicola di 100 iugeri (ha. 25,18) erano necessari sedici operai. La coltivazione di una terra arativa doveva richiederne anche meno. 16 Per uno studio approfondito della necropoli, cfr. Massa 1996; Massa 1997. 12 13
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Fino al 2017 della necropoli orientale si erano scavate circa settanta tombe, individuando il limite sud in corrispondenza di un piccolo ponticello che superava il canale laterale della strada19, mettendo quest’ultima in comunicazione - tramite un tracciato non leggibile sul terreno - con una villa scavata agli inizi del 2000 a poche centinaia di metri in linea d’aria dalla Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio delle province di Verona, Rovigo e Vicenza e ancora inedita. Si era dunque ipotizzata una relazione del nucleo sepolcrale con questo insediamento rurale: a un significato prediale delle tombe sembravano far pensare anche l’indice di grandezza fino allora individuato (tabella 1), l’organizzazione non pianificata delle deposizioni, che, pur seguendo in qualche modo degli allineamenti, mantenevano una tendenza al raggruppamento (famigliare?), come nel caso dell’inumato (un figlio?) al di sotto delle cremazioni (dei genitori?), e le analisi dei corredi e delle ossa. Queste ultime infatti rimandavano entrambe a uomini e donne di rango sociale medio-basso, caratterizzati da patologie da stress lavorativo collegabili ad attività agricolo-pastorali e forse anche ad attività tessili, date le usure extramasticatorie sui denti di un individuo femminile20, e quindi del tutto compatibili con una familia servile.
Per valutare la significatività di tali indicatori, si è provato ad applicarli a due casi veronesi di recente rinvenimento, in cui la relazione con l’abitato di riferimento resta incerta e problematica. Il primo esempio è la necropoli di S. Maria di Zevio, dove indagini condotte dalla Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio delle province di Verona, Rovigo e Vicenza nel 1996 e 2008-2010 hanno portato alla luce due ampi raggruppamenti di sepolture posti alla distanza di m 500 fra loro e probabilmente pertinenti a un’unica area funeraria17: il primo, collocato in Piazza Rivalunga, consta di 186 tombe a incinerazione indiretta, inquadrate dal II sec. a.C. alla fine del I d.C. (fig. 8a), il secondo, in Corte Rivalunga, di 184 sepolture, anch’esse a incinerazione indiretta, ma un poco più tarde e comprese fra l’età augustea e la fine del II sec. d.C. (fig. 8b). Vari indizi porterebbero a interpretare il sepolcreto come vicano: l’“indice di grandezza” vicino all’1 e il numero di abitanti per generazione piuttosto alto (Tabella 1); il progressivo sviluppo cronologico delle deposizioni verso sud, tale da far ipotizzare una pianificata organizzazione degli spazi funerari; la presenza di altri nuclei di tombe attorno all’attuale abitato (fig. 9). Il secondo caso di studio è quello di Gazzo Veronese, dove fra il 2014 e il 2018 l’Università di Verona ha condotto ricerche archeologiche in concessione ministeriale sotto la mia direzione18: le indagini hanno permesso di individuare il tracciato di un’importante via publica, aperta alla fine del I sec. a.C. e interpretata come la Claudia Augusta, e una serie di aree funerarie attratte dalla strada e collocate lateralmente ai canali di drenaggio della stessa, due delle quali sono state oggetto di scavi (fig. 10, 1 e 2). Il primo nucleo, a occidente del tracciato viario, indagato solo parzialmente, ha restituito finora una decina di tombe a cremazione e numerosi frammenti lapidei di un imponente monumento funerario con sfinge/i; il secondo, a oriente, era anch’esso costituito da tombe a cremazione di varia tipologia (fosse in nuda terra, in anfora segata, in cassetta di laterizi, distinte in casse semplici o alla cappuccina) (fig. 11) e da un’inumazione di un giovane posta al di sotto di due cremazioni. I corredi, spesso recuperati in ottimo stato di conservazione, attestano tre diverse fasi d’uso di quest’area funeraria: una prima di età augustea-tiberiana, caratterizzata da un numero ridotto di deposizioni; una seconda compresa dall’età tiberiana alla metà del I secolo d.C. e un’ultima, particolarmente frequentata, fra la seconda metà del I secolo d.C. e gli inizi del II. Alla stessa epoca rimandano anche le tombe del nucleo funerario occidentale.
Per poter confermare tale interpretazione era tuttavia necessario definire l’estensione complessiva dell’area funeraria: nel 2018 si è così deciso di cambiare la modalità di scavo da altamente intensiva a estensiva, aprendo nei terreni ubicati a nord del settore già indagato tutta una serie di trincee esplorative perpendicolari fra loro (fig. 12). Si è così verificato che la necropoli orientale si estendeva su ben 4000 mq di superficie, con un’insolita forma trapezoidale e un’organizzazione su numerose file di tombe nel settore settentrionale, per restringersi a sud fino a una unica. Probabilmente tale configurazione planimetrica venne condizionata dalla geomorfologia del comprensorio territoriale e in particolare dalla presenza di aree basse e impaludate, anche se per chiarire la questione si renderebbero necessarie ulteriori indagini sul campo che ci si auspica di condurre in futuro. Al di là di questo aspetto ancora da capire, colpisce l’alto numero delle deposizioni complessivamente ipotizzate, proiettando in quest’area aperta solo a trincee la densità evidenziata dove invece si è scavato in maniera sistematica (una tomba ogni 3.5 mq): pur nella consapevolezza che si tratta di calcoli approssimativi, i contesti funerari sembrano arrivare infatti ad almeno 1000-1100 casi. Colpisce anche che la datazione delle tombe scavate in questo settore nord coincidano con quelle del settore sud, evidenziando un medesimo periodo d’uso dei contesti funerari, limitato,
Per uno studio delle due aree funerarie, limitato però a una scelta di tombe, cfr. Rodegher e Scalco 2016. Per un approfondimento dei dati qui presentati, cfr. Basso et al. 2016; Basso 2017; Basso e Grazioli 2019; Basso et al. 2021. 19 Se ne sono trovati in crollo i mattoni sesquipedali delle spallette e alcuni elementi fittili con semplici modanature, pertinenti alla cornice decorativa del parapetto. 20 Gualdi Russo, Mongillo, Masotti 2019. 17 18
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P. Basso
Insediamenti minori e necropoli rurali in Italia Cisalpina: qualche spunto di riflessione
come si è detto, in poco più di un secolo (circa quattro generazioni)21.
Salvadori, P. Zanovello (edd.), I mille volti del passato. Scritti in onore di Francesca Ghedini (Roma), 627-41. Basso, P. 2017. “Recherches récentes sur la voie Claudia Augusta”, in S. Zani (ed.), La route antique et médiévale: nouvelles approches, nouveaux outils: Actes table ronde internationale. Bordeaux 15.11.2016 (Bordeaux) 91-108.
Va inoltre sottolineato che fra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del II d.C. si possono datare anche i corredi delle aree funerarie individuate con le ricognizioni (cfr. ad es. quella indicata nella fig. 10 con un ovale rosso) e la ventina di elementi lapidei di reimpiego che si osservano negli edifici religiosi di età medievale ubicati in varie località del comune (le chiese di S. Maria Maggiore a Gazzo, di S. Pietro a S. Pietro in Valle e di S. Giovanni Battista a Correzzo), tutti pertinenti alla sfera funeraria22. Mentre oltre la metà del II secolo d.C. il comprensorio comunale di Gazzo Veronese non ha restituito alcuna evidenza né alcuna iscrizione di carattere sepolcrale, per quanto la strada dovesse essere ancora ampiamente in uso almeno fino agli inizi del IV secolo23.
Basso, P. e Grazioli, V. 2019. “La via Claudia Augusta a Gazzo Veronese”, in P. Basso, B. Bruno, C. Cenci, P. Grossi (edd.), Verona e le sue strade. Archeologia e valorizzazione (Sommacampagna), 89-102. Basso, P., Grazioli, V., Masotti, S., Mongillo, J., Pavoni, M.G., Scalzeri, M. e Zentilini E. 2021. “Roman Cemeteries in Gazzo Veronese (VR) along the via Claudia Augusta”, FOLD&R 498 (www.fastionline.org/docs/FOLDERit-2021-498.pdf). Basso, P., Grazioli, V., Pavoni, M.G. e Zentilini, E. 2016. “La via Claudia Augusta: recenti indagini archeologiche dell’Università di Verona a Gazzo Veronese,” FOLD&R 370 (www.fastionline.org/docs/FOLDER-it-2016-370. pdf).
Alla luce di queste considerazioni, il quadro insediativo dell’area e il significato vicano o prediale delle necropoli portate alla luce con le nostre indagini restano incerti. Se è infatti possibile pensare a un insediamento sparso, caratterizzato da ricche aziende agricole di illustri famiglie veronesi24, nei cui fundi si sarebbero fatti seppellire i proprietari stessi, disponendo i contesti funerari lungo l’importante via publica che attraversava il territorio25, l’alto numero di tombe portato alla luce in vari nuclei funerari e la loro comune datazione, concentrata, come si è visto, in un lasso di tempo contenuto, potrebbero al contrario far pensare all’esistenza in area di un nucleo insediativo accentrato (un vicus?), forse da ipotizzare collocato nell’attuale centro di Gazzo, ove si osserva un’ininterrotta continuità insediativa nel corso dei secoli.
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Solo il prosieguo della ricerca sia a carattere estensivo (ricognizioni su vasta scala) sia intensivo (continuazione dello scavo e confronto dei dati crono-tipologici dei corredi con le analisi osteologiche) potrà forse dare una risposta alla questione e offrire così un ulteriore, significativo tassello nello studio delle necropoli rurali come indicatori dei caratteri insediativi di un territorio, in questa sede solo avviato.
Buonopane, A. 2002. “Il miliario di Massenzio”, in B. Chiappa (ed.), Isola della Scala. Territorio e società nella media pianura veronese, (Sommacampagna), 34-35. Duday, H. 2006. Lezioni di Archeotanatologia: archeologia funeraria e antropologia di campo (Roma). Ferdière, A. (ed.) 1993. Monde des morts, monde des vivants en Gaule rurale: Actes du colloque, Orleans 7-9 février 1992 (Tours). Francisci, D. 2017. Locus sepulturae. Il valore topografico delle evidenze funerarie nella ricostruzione del paesaggio rurale di età romana: teoria, metodi e casi di studio dal TrentinoAlto Adige/Südtirol (Antenor Quaderni 36; Padova).
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Il calcolo della vita media in epoca romana è problematico, poiché essa risente di vari fattori ambientali, socio-economici e di genere: in un recente lavoro di demografia romana essa viene definita attorno ai trent’anni (Hin 2013, con ampia bibliografia precedente). Su tali frammenti di reimpiego cfr. Basso 2016. 23 Lo proverebbe in particolare un miliario di Massenzio portato alla luce poco a nord di Gazzo Veronese, nel comune di Isola della Scala: cfr. da ultimo Buonopane 2002. 24 I notabili di Verona sarebbero stati attratti dalle risorse di questo territorio molto adatto per l’agricoltura e l’allevamento, ma anche ricco di altre materie prime, quali l’argilla per le fornaci o il legname, e soprattutto ben correlato tramite vie d’acqua e di terra con i principali centri urbani vicini, oltre che da un lato con l’Adriatico e l’Oriente e dall’altro con l’Oltralpe. 25 In modo simile agli assi che si diramavano nei suburbia dei centri urbani, dobbiamo immaginarci quindi un paesaggio rurale caratterizzato da vere e proprie Gräberstrassen, caratterizzate dalla disposizione di tombe ai lati di ampia parte dei loro tracciati 21 22
565
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Necropoli
Numero deposizioni
Cronologia
Angera (VA)
246
I-metà III d.C.
0,94
32
Biella
504
metà I-IV d.C.
1,44
48
Voghenza (FE)
67
II d.C.
0,67
22
Nave (BS)
52
I d.C.
0,52
17
Lugone – Salò (BS)
171
metà I-IV d.C.
0,48
16
S. Maria di Zevio (VR)
370
II a.C.-II d.C.
0,92
30
Gazzo Veronese (VR)
60 (fino a scavi 2017)
fine I a.C.-inizi II d.C.
0,50
16
5-5,5
166-183
1000-1100 (ipotesi scavi 2018) Tabella N. 1
566
Indice Approssimazione grandezza abitanti per generazione
P. Basso
Insediamenti minori e necropoli rurali in Italia Cisalpina: qualche spunto di riflessione
Angera Nave Lugone Biella S. Maria di Zevio Gazzo Veronese Voghenza
Fig. 2. Fotografia aerea di Angera: con il cerchio rosso è indicato il sito della necropoli scavata dall’Università di Milano (da Google Earth).
Fig. 1. Localizzazione delle necropoli analizzate nel lavoro (da Google Maps, rielaborazione grafica di Patrizia Basso).
Villa Bertrand
Fig. 3. I principali rinvenimenti funerari ad Angera e dintorni: n. 1 loc. San Cassano; n. 2 loc. Crosa; n. 3 via Mentana; n. 4 incrocio fra stradella per “i Cipoggi” e via Madonnina; n. 5 via Milano 1; n. 6 loc. Bettolino; n. 7 loc. Casa Mirabella; n. 8 loc. S. Pietro; n. 9 necropoli scavata dall’Università di Milano; n. 10 loc. Campaccino; n. 11 cascina Padova; n. 12 cave di sabbia Moalli; n. 13 cave di sabbia Tognoli (da Grassi 1982, particolare tav. 4).
Fig. 4. Particolare della planimetria della necropoli di Biella (da Brecciaroli Taborelli 2000, pp. 149-150)
Fig. 5. Planimetria della necropoli di Voghenza (da Berti 1984, tav. XV).
567
Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 7. Planimetria della necropoli di Lugone-Salò (da Massa 1997, fig. 2).
Fig. 6. Planimetria della necropoli di Nave (da Passi Pitcher 1987, fig. 5).
b
a
Fig. 8. Planimetrie delle due necropoli portate recentemente alla luce a S. Maria di Zevio: a) Piazza Rivalunga; b) Corte Rivalunga (da Rodegher e Scalco 2016, figg. 4 e 25).
568
P. Basso
Insediamenti minori e necropoli rurali in Italia Cisalpina: qualche spunto di riflessione
Fig. 9. Il territorio di S. Maria di Zevio e le necropoli (da Rodegher e Scalco 2016, fig. 1).
1
2
Fig. 10. Il territorio di Gazzo Veronese oggetto delle indagini dell’Università di Verona: con le linee azzurra e viola sono indicati rispettivamente l’antico e l’attuale corso del Tartaro; con la linea rossa il tracciato della strada messa in luce con le ricognizioni, a tratteggio quello ipotizzato; con il colore verde i campi su cui sono state completate le ricognizioni e con la campitura in giallo i siti individuati; con l’ovale rosso un’area funeraria portata alla luce con le ricognizioni; con i trattini rossi le due trincee aperte con lo scavo e con i numeri 1 e 2 le due aree funerarie portate alla luce (rielaborazione grafica di Valeria Grazioli).
569
Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 11. Fotografia panoramica dell’area funeraria indicata con il n. 2 nella fig. 10 (fotografia di Valeria Grazioli).
*
Fig. 12. Planimetria complessiva dei nuclei funerari scavati a occidente e oriente della strada; a tratteggio i limiti dei saggi e delle trincee esplorative aperti con gli scavi 2014-2018. L’asterisco segna il posizionamento del piccolo ponte individuato in crollo sul fossato laterale del tracciato viario (rielaborazione grafica di Valeria Grazioli).
570
Rosanna Tuteri
Appunti sui centri minori in area peligna e sabina Abstract: By reading the documentation of some archaeological excavations so far undertaken by Superintendence in the interior of Abruzzo and direct by the writer, it is proposed in the form of notes a preliminary approach to the intricate problem of the minor settlements. Are examineted the contexts of the peligna basin that belonged to the Roman municipia of Sulmo, Corfinium and Superaequum and the Amiternina plain linked to the municipality of Amiternum.
geografico e paesaggistico stabile della nostra regione. L’amministrazione romana delle terre conquistate rispetta tale situazione, ma nell’area in esame tra Sabini e Peligni avvia il processo di urbanizzazione fin dagli inizi del III sec. a. C. con la prefettura amiternina per concluderlo dopo la guerra sociale con la municipalizzazione attuata a Sulmo. All’origine del processo di programmazione dell’assetto residenziale, si coglie un addensamento di abitazioni attorno ai santuari, che fanno la loro comparsa nelle nostre zone in forme monumentali proprio tra la fine del IV e gli inizi III sec. a. C., spesso insediati nei pressi di siti già abitati e resi sacri dalla memoria degli avi concretizzata dalla presenza di sepolture.
Attraverso la rilettura della documentazione di alcuni scavi archeologici finora intrapresi dalla Soprintendenza nella parte interna dell’Abruzzo e diretti da chi scrive, si propone in forma di appunti un approccio preliminare all’intricato problema dei centri minori, che tanto ha appassionato Sara Santoro. Da alcune indagini condotte nei territori che oggi identifichiamo con quelli abitati dai Peligni e dai Sabini in epoca storica, emerge un quadro che, per quanto riassuntivo, parziale e compromesso dalla mole dei dati non ancora conosciuti o non ancora sistematizzati, rivela la sua complessa articolazione, riferita alle forme del popolamento non urbanizzato in un territorio montuoso dell’Italia antica centrale, tra l’età repubblicana e l’età imperiale. Con la consapevolezza che il concetto di “minore” riferito agli insediamenti dipenda dallo stato delle nostre conoscenze e dalla prospettiva storica ancorata alla rete urbana, occorre rilevare come la sua realtà, oltre che archeologica, sia tramandata dalle fonti che descrivono un’Italia centrale quasi priva di città agli inizi del III sec. a. C.,1 ma non per questo non organizzata istituzionalmente.2 Anzi, si noterà come proprio la lingua, l’apparato magistratuale, la disponibilità di merci d’importazione e la penetrazione di forme di religiosità compatibili in quanto riferite ad un sostrato greco-mediterraneo rappresentino forme di romanizzazione non strettamente correlate al fenomeno dell’urbanizzazione, seppure rilevate in zone sottoposte alla sfera d’influenza delle città.
A fronte dello scavo di grandi necropoli protostoriche ed ellenistiche concentrate in aree ben definite, l’acquisizione di dati storici provenienti dalle indagini archeologiche di abitati appare frammentaria e non esaustiva, soprattutto se si indaga il rapporto spaziale, diacronico e amministrativo esistente tra due realtà distinte: quella dei centri minori appartenenti all’agro o embrionalmente urbanizzati (i pagi e i vici) e quella, non trattata in questo contributo, 3 delle vere e proprie città, come Sulmo, Corfinium, Superaequum ed Amiternum. Senza entrare nel merito del dibattito su quello che veniva definito “sistema paganico – vicano” che tante prospettive storiche ha aperto negli ultimi tempi,4 occorre rilevare alcuni dati di fatto di natura archeologica, e incrociarli con quanto si desume dalla documentazione epigrafica e letteraria per tentare di comprendere almeno la complessità di una struttura che giunge ai nostri giorni pressoché identica nella ubicazione delle città e dei paesi, nella rete viaria principale e in quella di riferimento locale che innerva il territorio in modo capillare. Potrà così essere riconosciuto lo stretto legame esistente tra le forme e le localizzazioni degli insediamenti e le forme di produzione, non solo agricola e pastorale, con stretti legami alla funzione importantissima della rete viaria e dei percorsi tratturali sia per le terre sabine (il
Una forte discontinuità orografica caratterizza gli ambiti presi in esame: da un lato la conca peligna con gli abitati arroccati lungo le valli del Gizio, del Sagittario e del medio Aterno, dall’altro la piana amiternina circondata da alture disseminate di piccoli insediamenti, in gran parte oggi corrispondenti ai piccoli comuni dell’aquilano e alle frazioni del capoluogo. La distribuzione a carattere sparso dei villaggi non risulta solo una caratteristica delle fasi preromane del territorio antico, ma un assetto
Strab., 5,4,2 (241-2); Fest., frg. ex apogr. XX (p. 502 Lindsay): Ancora fondamentali Campanile e Letta 1979; La Regina, 1984, 17-25. 3 Tuteri et alii 2010, 27 -64. 4 Capogrossi Colognesi 1981, 87-93; id. 2002a, 485-494; id. 2002b, 5-48; Tarpin 2002; Letta 2005, 81-96; id. 2006, 297-312; id., 2008, 231-244; id. 2010, 65-70; Todisco 2004, 161-184; ead. 2006, 605-615; ead. 2011. 1 2
571
Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Il territorio peligno antico è conosciuto per le descrizioni ovidiane, che ne decantano la ricchezza d’acqua e la fertilità; tali fattori favorirono un intenso sfruttamento agricolo, razionalizzato in epoca romana dalle centuriazioni. All’interno della maglia geometrica delle assegnazioni agrarie, la fitta presenza dei resti di antichi edifici rurali testimonia la diffusa attività delle fattorie, non proprio identificabili con le villae romane a gestione schiavistica:8 in tal senso una recente scoperta è stata effettuata a Pettorano, in località Ponte d’Arci, dove sono stati oggetto di indagini stratigrafiche resti di strutture che definiscono il complesso come articolato su più livelli lungo il pendio e con dolia innucleati nella malta delle pavimentazioni. (Fig. 4) Il sito è posto alla base del versante occidentale di Colle Mitra che ha restituito negli anni passati tracce e reperti di epoca protostorica e italica. Il luogo del rinvenimento sembra essere caratterizzato da successivi terrazzamenti che tagliano il pendio, sostruiti da murature in blocchi calcarei. Ulteriori strutture murarie in opera incerta realizzata con pietre di varia pezzatura legate con malta sono state portate alla luce dai lavori di sistemazione agricola e poi indagate archeologicamente. La presenza dei dolia innucleati nei livelli pavimentali e la grande dispersione nella zona di frammenti fittili e ceramici di varie epoche, con una preponderanza di elementi di copertura del tetto (tegole ad aletta e coppi) e di frammenti di vasi di età tardo-antica, induce l’ipotesi che si tratti di una fattoria posta nei pressi della viabilità di lunga percorrenza che da Sulmo e dall’area peligna conduceva al Sannio. L’edificio potrebbe essere stato in relazione ad uno dei grandi fondi delle ricche famiglie attestate nel territorio oggi riferito a Pettorano, come la gens Mussidia, di cui si conoscono tracce epigrafiche provenienti da questa zona9 che restituisce, in occasione di attività di ricognizione territoriale, un alto numero di presenze di strutture riferibili a residenze raccolte in piccoli nuclei posti a diretto contatto con i campi coltivati e dislocati lungo la Valle del Gizio.
tratturo L’Aquila – Foggia) che per quelle peligne (soprattutto il tratturo Celano – Foggia). Il Museo Archeologico di Sulmona conserva testimonianze vivissime di questi aspetti pastorali, quali il cosiddetto “Rilievo della Transumanza” e l’iscrizione dei “Callitani”. Alle porte del municipium peligno fu rinvenuto il rilievo,5 parte di un monumento funerario, successivamente murato all’interno della città ed ora esposto presso la sezione italica del Museo, che riporta parte dell’iscrizione sull’architrave con il lacunoso ammonimento al viandante a non diffidare6 e rivela importanti particolari della vita pastorale come l’abbigliamento (lacerna cucullata e toga villosa), l’uso del pedum, l’utilizzo del plaustrum per gli spostamenti e i riferimenti a motivi colti dell’arte ellenistica, mentre l’iscrizione rinvenuta in località Case Pente,7 a sud di Sulmona, intima ai viandanti di camminare entro il tracciato delle calles, “ni iniuriam acipiatis” (sic), aprendo uno squarcio vivacissimo sulle controversie secolari tra agricoltori e pastori. Per l’area peligna, il dato incrociato di scavi, ricognizioni, fonti epigrafiche e letterarie porta a confermare essenzialmente, con opportune eccezioni e aggiustamenti, la caratteristica presenza dei piccoli insediamenti. Il dato della limitata urbanizzazione, che coincide nell’antica area abruzzese con la presenza di coloniae, praefecturae e municipia è infatti costante, e la grande diffusione di insediamenti antichi nel territorio è un dato che può essere analizzato nella sua veste diacronica, con la estrema rarefazione dei siti pre- e protostorici, per lo più abbarbicati sulle alture, con la progressiva occupazione dei pendii nell’età del ferro e in epoca arcaica, fino alla concentrazione della popolazione in area urbana e alla dispersione dei villaggi e delle singole dimore-fattorie nelle campagne bonificate in epoca romana. (Figg. 1, 2, 3). Se alla tripartizione del territorio municipalizzato nella conca peligna e in quella superequana poteva aver contribuito l’assetto di epoca arcaica con il riferimento difensivo, e non solo, ai maggiori centri fortificati di Colle Mitra, Colle delle Fate e Colle Le Spugne, determinanti nello stabilire il riferimento egemonico territoriale ai tre centri di Sulmo, Corfinium e Superaequum, furono la preesistenza di un abitato, la posizione vicina agli assi maggiori di comunicazione e la possibilità di relazione con altri distretti popolati mediante una rete minore di collegamenti viari.
Nella vicina Valle del Sagittario, un sistema viario poneva in comunicazione Sulmo con Betifulum (tradizionalmente identificato con un villaggio nei pressi di Scanno) e quindi con l’area dei Sanniti Pentri attraverso il Passo Godi, in un distretto amministrato dal municipio sulmonese anche con il concorso di personaggi locali, come attesta l’iscrizione di Lucio Caidio Presente, che fu il primo decurione a Sulmona a provenire da Betifulum alla fine del I sec.d.C.,10 mentre un L. Caidius Afer fu quattuorviro edile.11
Mattiocco 2011, 38 (immagine a p. 36); CIL IX 3128. CIL I 2 1776; CSL 1318; ILLRP 975; Buonocore 1988, ad nr. CIL. EE, VIII, 139; Buonocore 1988, ad n. EE. 8 Aquilano et alii 2016, 49-64. 9 Van Wonterghem 1975, pp. 38-44; FA XV, 2373; Vetter 1953, n. 204; CIL IX, 3114; CIL I 22, 2544. 10 C. Caidio. L. F. / S. Ser. Praesenti / Ann. XXXIIX / decurio / primus. a / Betifulo: Febonio 1678, l. III, p. 112; Piccirilli 1931, p. 461; CIL IX, 3088=Dessau 1892-1906, n. 6531; Forni 1979, pp. 147-148, n. 2. Un Lucio Caidio Afro fu quattuorviro edile: L. Caidius. L. (f.) / Ser(gia tribu) Speratus / viv(us) sibi et Alfia(e) / Q. f. Secundae / uxori / L. Caidio L. f. Ser(gia tribu) Afro / IIIIviro aedili f(ilio): Piccirilli 1931, 460 ss; La Regina 1968, 435 ss; AE 1968, 149; Accivile, Gualtieri e Nannarone 1974, 27; Forni 1979, 145-146. 11 L. Caidius. L. (f.) / Ser(gia tribu) Speratus / viv(us) sibi et Alfia(e) / Q. f. Secundae / uxori / L. Caidio L. f. Ser(gia tribu) Afro / IIIIviro aedili f(ilio): Piccirilli 5 6 7
572
R. Tuteri
Appunti sui centri minori in area peligna e sabina
Nelle ricognizioni effettuate dall’università di Bologna e dalla coop. Matrix nella Valle del Sagittario,12 è emersa con evidenza la successione diacronica nella scelta di ambiti diversi per gli insediamenti; a volte viene invece registrata una continuità di frequentazione negli stessi siti per lunghi periodi. Il loro carattere sparso è comunque ancorato alla vicinanza con la viabilità, anche se locale, e con le risorse del territorio: gli insediamenti minori in genere, come unità elementari di un territorio, si qualificano pertanto con il loro carattere rurale (vici e fattorie) o il loro carattere di “servizio”, come le mansiones. Nel caso del Palazzo della Regina a Scanno, le funzioni dell’insediamento, limitatamente alle ipotesi possibili derivate dal piccolo intervento di scavo effettuato, non possono prescindere dalla viabilità, chiaramente rintracciabile nel paesaggio attuale. In località “I Giardini”, a meridione del Colle di Caccialepre dove sono presenti sorgenti e terre soleggiate, è evidente la presenza della strada antica che poneva in comunicazione l’area peligna con quella sannitica che, dopo aver toccato Castrovalva e Frattura vecchia, proseguiva, oltre “I Giardini”, lungo la Valle di Iovana per poi valicare il Passo Godi. Gli ambienti indagati stratigraficamente hanno rivelato le caratteristiche di ruralità (opus spicatum), ma con indizi di riferimento ad un tenore di vita reso dignitoso dalla possibilità di scambi, come documentano i reperti che giungono all’età imperiale romana, e da una capacità di trarre dalla coltivazione quanto necessario alla vita quotidiana. Nella zona sono stati individuati un sistema terrazzato e una necropoli, con sepolture che rientrano a pieno titolo nello standard del rituale funerario peligno, con tombe a grotticella di età tardo ellenistica.
per gli adulti, ma con eccezioni, sono state individuate in località Fonte di Curzio. Le sepolture a grotticella di Anversa sono state scavate in località Cave di Arena negli anni Settanta del Novecento e sembrano riferirsi ad un ulteriore abitato presente in zona tra l’età ellenistica e la fase propriamente romana degli insediamenti, a conferma del loro carattere sparso e non accentrato. Le necropoli anversane, che mostrano una identità di struttura e un simile rituale funerario pur nell’orizzonte piuttosto dimesso e standardizzato dei corredi, rivelano eccezioni di rilievo in oggetti che denotano contatti con l’ambiente celtico e soprattutto dauno, mediati rispettivamente dai contesti piceni e sannitici; in età più recente i corredi funerari si arricchiscono degli scambi effettuati con il versante tirrenico e laziale, a denotare un largo transito di merci e idee soprattutto dopo la romanizzazione, come testimonia per il III sec.d.C. l’iscrizione metrica funeraria di Murranus, soldato della Pannonia che viveva nella Valle del Sagittario16. Altri personaggi residenti in questi centri minori percorsero carriere politiche ed amministrative di rilievo nell’ambito locale: L. Obidius Sagites fu decurione17, e probabilmente dal suo fondo Sagittianum derivò il nome il fiume Sagittario. Per rimanere nell’area peligna meridionale, il contributo della documentazione epigrafica diviene straordinario18, soprattutto quando apre spiragli inaspettati, come la restituzione di un nome ai luoghi: i cultores Iovis Ocriticani posero un’ara funeraria a Sesto Paccio Argynno.19 L’iscrizione, rinvenuta in seguito a scavi sistematici effettuati a Cansano20, in loc. Polmare- Tavuto – Pantano21, riporta il nome del luogo: Ocriticum; la sua forma aggettivale Ocriticani, sia riferita ai cultores, sia da intendere come epiclesi di Giove, restituisce un senso anche alle più tarde denominazioni locali (Ocririche, Chierici,…) che nascondono la memoria di un importante centro minore nell’area peligna meridionale. Posto dalla Tabula Peuntingeriana a sette miglia da Sulmo, con l’indicazione di “Iovis Larene”, il sito si trova effettivamente lungo un’altra importante arteria del sistema viario nord-sud che attraversa la conca peligna per dirigersi al Sannio22, costeggiando Colle Mitra.
Simili sepolture sono state documentate nelle necropoli individuate ad Anversa degli Abruzzi, sempre lungo la valle del Sagittario, che coprono un arco cronologico compreso tra l’arcaismo e la prima età imperiale13. Non potendo facilmente ipotizzare un’unica grande area funeraria estesa da Casali di Cocullo14 fino al cimitero di Anversa, occorre riferirsi alla presenza di più insediamenti posti lungo un’arteria viaria che da Cocullo, la polis Koucolon di Strabone,15 si distaccava dalla Valeria per raggiungere con un percorso più breve la conca peligna. Il nucleo più numeroso documentato dagli scavi preventivi è nella località Coccitelle, posta nei pressi del cimitero di Anversa; altre sepolture, sempre in cassone litico
Tali percorsi erano molto più antichi anche del centro fortificato che sovrasta l’area: sull’ultima propaggine del colle, l’occupazione stabile è documentata dalla fine dell’età del bronzo-inizi età del ferro, come attestano le
1931, 460 ss; La Regina 1968, 435 ss; AE 1968, 149; Accivile, Gualtieri e Nannarone 1974, 27; Forni 1979, 145-146. 12 Del Fattore cds.; Alessandri, Del Fattore e Schiappelli, 2011; Del Fattore, Felici e Rizzo cds.; Del Fattore, Schiappelli, Felici, Palone e Cimatti cds. 13 Tuteri 2002, 42-59; Dionisio 2015, 39-52. 14 De Nino 1899, 239-240. 15 Strab., Geogr. V, 3, 11. 16 Mancini 1931, 449-452; Buonocore, 1988, n. 58. 17 CIL IX, 3093, Buonocore 1988, ad n. CIL 18 Buonocore 1988, 11-116; id. 1991, 221-275, 299-327, 333-349, 351-353. 19 Tuteri 2002, 6; ead. 2003, 21-23; ead. 2005a, 22-24; Buonocore 2004, n. 101, 101-102. 20 Tuteri 1999a, 425-429; ead. 2005a; ead. 2006, 179-201. 21 Il pianoro era già conosciuto come sito archeologico: De Nino 1886, 430; Cianfarani 1949, 386, n.3926, Barreca, 1951, 84-87; Van Wonterghem 1984, 276-277, nn. 173-174. 22 Mattiocco 2010, 439-452.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro strutture rinvenute23 sul pendio collinare che subì terrazzamenti per l’insediamento di capanne e strutture di conservazione e immagazzinamento dei cibi in un contesto molto articolato e vissuto, posto in relazione ad una coeva area funeraria individuata nel pianoro sottostante, con tombe a tumulo (Fig. 5).
Tale situazione è ulteriormente confermata da indagini più recenti, che tra il 2004 e il 2005 sono state effettuate preventivamente al passaggio di un altro metanodotto dopo il primo che aveva attivato nel 2000 le ricerche preliminari e poi quelle sistematiche del Ministero BAC: nella vallecola posta immediatamente al di sotto e ad ovest dell’area sacra, un edificio e alcune sepolture sono poste in stretta relazione ad una strada glareata che, distaccandosi dalla viabilità principale che costeggia Colle Mitra, si dirigeva verso il santuario (Fig. 6).
Nella zona, elemento centrale appare il santuario italico – romano, definito nel suo temenos dalla viabilità che lo costeggia esternamente: il terrazzo superiore ospita il tempio italico dedicato ad Ercole e, dopo un ampliamento dello spazio sacro, accoglie il tempio romano dedicato a Giove.
Tra le altre strutture presenti nell’area, l’edificio presenta varie fasi di costruzione, e risulta articolato in diversi ambienti che si aprono su un cortile interno, porticato.
Il tempio italico, caratterizzato da due fasi costruttive, è affiancato ad ovest da un grande deposito votivo che ha restituito, tra i circa 600 reperti deposti in più periodi, attestazioni del culto dedicato a Ercole, Cerere e Dioniso24.
Lungo la strada sono state documentate tombe ad incinerazione, busta, con tracce importanti dei riti funerari correlati: presenza di corredi combusti, offerta di noci, rottura intenzionale di vasi nei livelli di sigillatura della struttura tombale.
Un terrazzo inferiore ospita un temenos di minori dimensioni con il sacello dedicato al culto di divinità femminili, tra cui Venere, che una statuetta in terracotta riferisce ad una accezione mercenaria dell’iconografia25: la figura è infatti ornata da collana, da anelli alle braccia, ai polsi e alle caviglie, riconducibili all’uso orientale; gli anelli a verga, pur non avendo un generalizzato riferimento all’attività del meretricio, alludono alla sfera erotica e suggeriscono per la statuetta il confronto con la serie delle immagini di Venere di ambiente alessandrino.
Nei vani dell’edificio si addensano le testimonianze delle ultime attività di selezione e accatastamento dei materiali utili al reimpiego: pietre e tegole sono state ritrovate appoggiate alle pareti residue dell’edificio che erano costituite da una zoccolatura in pietra e alzato in mattoni di argilla. Quasi ovunque estesi strati di bruciato lasciano ipotizzare un evento traumatico seguito da un incendio che pose fine alla frequentazione di questa parte dell’insediamento che aveva avviato la sua seconda fase con una ristrutturazione databile alla seconda metà del II secolo, in coincidenza forse con la ricostruzione post-sisma, per il rinvenimento di una moneta di Lucio Vero nella preparazione di un pavimento che sostituiva uno precedente.
Il tempio più recente, edificato in seguito ad una monumentalizzazione del santuario e del sito, è riferibile a Giove in quanto è ipotizzabile che abbia conferito la denominazione del luogo alle carte itinerarie. Accanto al tempio in opera cementizia restano le tracce dell’ultima occupazione dell’area, tra VI e VII secolo, con capanne e sepolture.
Una calcara posta nei pressi dell’edificio testimonia l’uso finale del sito come cava di pietre per la produzione della calce.
Una strada glareata sale verso oriente sulla collina prospiciente il pianoro; affiancata da monumenti funerari, conduce ad una grande area artigianale, costituita da una calcara26 ben definita nella sua articolazione planimetrica, scandita a livello funzionale secondo le varie fasi della cottura delle pietre per la produzione di calce.
Il caso di Ocriticum è certamente esemplificativo di un contesto articolatissimo nel tempo: si datano tra la fine dell’età del bronzo e la prima età del ferro il villaggio di capanne e la necropoli con tumuli, all’arcaismo il centro fortificato di Colle Mitra e le sepolture esterne alle mura, all’ellenismo e all’età romana il santuario documentato dalla fine del IV sec. a.C. fino al II secolo. L’insediamento, inoltre, presenta evidenti soluzioni nella continuità abitativa a metà del II sec. d. C. e a metà del IV secolo a causa di eventi sismici, ma appare rifunzionalizzato a fini produttivi almeno fino al VI secolo, in
Ad Ocriticum si concentrerebbero più funzioni che caratterizzavano l’identità e la stessa esistenza dei vici: funzione sacra, di servizio alla viabilità (mansio), funzione abitativa, funzione produttiva, con le conseguenti funzioni commerciali e funerarie, con più nuclei di necropoli allineati lungo gli assi viari. Cosentino e Mieli 2006, 483-504. Tuteri 2005b, 399-410; Pizzoferrato 2005a, 71-79. 25 Guzzo 2000, 54-55. 26 Pizzoferrato 2005b, 47-53. 23 24
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Appunti sui centri minori in area peligna e sabina
un contesto ambientale rimasto inalterato fino ai nostri giorni.
meddices *actici fontanam locaverunt P. Satrius T. (f.), V(ibius) Popidius T. (f.).33.
Nella conca peligna27, invece, molti altri insediamenti minori, pur se conosciuti dalle fonti letterarie ed epigrafiche, e distribuiti secondo la maglia centuriale28, sono stati cancellati dal moderno, eccessivo uso del suolo.
L’iscrizione cita i magistrati34 del vicus individuati dall’aggettivo “aticus” che non è ben traducibile, ma potrebbe riferirsi o ad una localizzazione, definendo il magistrato del posto (in questo caso aticus conserverebbe il nome antico del luogo), o ad una particolare funzione o caratteristica ( “addetto alle finanze”, o “edile”); se fosse possibile leggere apicus (come propone il von Planta35), sarebbe più calzante il riferimento a magistrati delle acque36.
Proprio al centro della conca, in territorio di Pratola Peligna, in località Taverna della Chitarra posta lungo il Tratturo, si addensano strutture e rinvenimenti che documentano la lunga frequentazione del sito come insediamento articolato tra zona residenziale e necropoli: una sepoltura a fossa dell’età del Ferro con corredo di oggetti ornamentali di bronzo rivela le prime fasi di utilizzo dell’area a scopo funerario.
In ogni caso i magistrati P. Satrius e V. Popidius appaltarono (locatin) la costruzione o la manutenzione di una fontana (biam), in un’epoca in cui ancora il dialetto peligno indicava l’appartenenza ad una comunità la cui identità si avviava ad essere contaminata e omologata da Roma, come è già evidente nelle formule onomastiche, con prenome e gentilizio.
Un’altra sepoltura tardoantica29 ha restituito due fibule longobarde di VI secolo, attestando la continuità della presenza stabile di un abitato.
Che il vicus abbia vissuto per tutta l’età romana è attestato dai rinvenimenti sporadici e casuali effettuati nei dintorni: frammenti ceramici e monete costituiscono gli elementi più probanti per una periodizzazione del sito, che dall’epoca repubblicana attraversa tutta l’età imperiale.
La tipologia dell’insediamento di carattere sparso in questa località ben si identifica con la presenza di edifici dedicati alla produzione, come le villae rustiche, più simili a fattorie che alle grandi strutture latifondistiche, che in zona trovano un ambiente vocato alle coltivazioni: la presenza di una cisterna rettangolare30 propria di un contesto di trasformazione e conservazione di prodotti agricoli, conferma l’importanza di questo sito, tanto che l’ipotesi che possa essere qui localizzata la Fara de Campeliano non è da passare sotto silenzio. Nei Regesti di Montecassino (III, p. 154) è riportata al 1319 una Ecclesia Sancti Angeli di Campeliano. Il toponimo prediale ben si colloca in un ambito di uso agricolo intensivo e il riferimento alla titolatura ecclesiale è conservato fino ai nostri giorni nella vicina località Fonte S. Angelo.
Le ricerche e le ricognizioni localizzano i villaggi soprattutto lungo le vie di comunicazione: nell’attuale territorio di Pratola confluivano le strade che da Corfinium e da Superaequum conducevano a Sulmo, per innestarsi all’antico asse stradale nord-sud, vero cardine dello sviluppo territoriale nella conca peligna, al quale si lega una rete di percorsi di valenza locale. La via di Ceserano corre quasi parallelamente a ovest di questo asse principale: la sua antichità è documentata dalle sepolture rinvenute tra via Venezia e via Torino.37 Si tratta di deposizioni preromane, a giudicare dagli oggetti di corredo, che comprendevano armi di ferro e collane di bronzo38.
Qui è probabilmente da localizzare un insediamento di carattere vicano. Il villaggio posto lungo il tratturo doveva essere strutturato dal punto di vista sociale e amministrativo, con propri magistrati,31 e doveva estendersi intorno alla fonte, citata in una iscrizione importantissima purtroppo dispersa32: medix. aticus / biam. locatin / p. sadries. t. / u. popdis. t.
Da Pratola una stradina diretta a est attraversa la strada statale: proprio su questo innesto viario, che si configurava come un incrocio per la prosecuzione della
che tradotta in latino suonerebbe:
Tuteri 1999b, 361-376; ead. 1996, 30-41. Chouquer et alii 1987; Van Wonterghem 1989-1990, 28-29, 35-48. 29 De Nino 1896,236-7. 30 Van Wonterghem 1985, 192, fig. 243. 31 Buonocore e Firpo 1991, 132-133, n. 65. 32 Vetter 1953, n. 212. 33 Pisani 1964, tav. II. 34 Campanile 1996. 35 von Planta 1892-97. 36 Pisani 1964,117; Van Wonterghem 1985, 193, note 564-566. 37 La loro scoperta fu comunicata alla Soprintendenza da Guido Piccirilli il 13 ottobre 1956. 38 Van Wonterghem 1985, 195, n.87. 27 28
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro potrebbe risalire ad un’epoca successiva alla guerra sociale, quando da parte di Roma si pose la necessità di controllare amministrativamente i territori non urbanizzati; tale ipotesi sarebbe confermata dal nome derivato da un gentilizio, alla stregua di un toponimo prediale. A Bagnaturo si concentrano le caratteristiche ambientali per la localizzazione del pago (il passo della Storia Naturale di Plinio si riferisce al territorio sulmonese) e fino a pochi decenni fa si usava tepidare le vigne mediante l’irrigazione.
strada da Pratola a Santa Brigida verso il Bagnaturo, la chiesetta segnala la memoria di un insediamento. Alla fine dell’Ottocento in questa zona, interessata dalla costruzione di un acquedotto che dalla Badia giunge a Pratola, Antonio De Nino poté registrare numerose scoperte, individuando nelle vicinanze un vicus con la sua necropoli, caratterizzato da una periodizzazione che dalla fine del II sec. a.C. attraversa l’età imperiale romana39. Il villaggio si estendeva quindi lungo la strada nordsud, proprio all’incrocio con il tracciato che, diretto alle falde del Monte Morrone, attraversava una grande area di necropoli nel sito che sarà occupato dal Casino Centi.
Un altro insediamento posto nell’ambito di un pagus citato da fonti epigrafiche è localizzabile nel territorio di Prezza42: nel cosiddetto Pagus Lavernae43 tre magistrati ex pagi decreto scainam faciundam coiraverunt44, quattro magistri Laverneis murum caementicium, portam, porticum, templum Bonae Deae pagi decreto faciendum curarunt probaruntque 45: si tratta di strutture destinate, nel primo caso, alla rappresentazione di spettacoli o a momenti comunitari della vita politica con presenza di pubblico, e nel secondo caso di edifici propri dell’area sacra; attestano l’esistenza di un insediamento articolato e complesso definito “pagus” da Mommsen46 per la citazione dei magistri di Laverna, ma che potrebbe essere riferito con maggiore probabilità ad un santuario che rappresentava l’elemento focale, e forse generatore, del sito abitato posto nell’ambito del pagus che emetteva i decreta.
L’area dell’attuale Bagnaturo costituisce parte di un sito archeologico esteso all’intera fascia pedemontana del Morrone, da Roccacasale fino a Fonte d’Amore e alle Marane, densamente popolata e attraversata da un’antica strada con andamento pressappoco nord-sud che collegava diversi insediamenti protostorici e preromani per poi divenire in età imperiale un asse di comunicazione alternativo a quello individuato nella piana (via Salara). Lungo questa arteria, in loc. Fonte del Fico a Roccacasale, è stata recentemente (novembre 2018) portata solo parzialmente in luce parte di una grande fornace per laterizi di età augustea, a conferma dell’impegno costruttivo profuso in quest’epoca e dell’importanza della strada come veicolo di commercializzazione dei manufatti.
Le attestazioni dei pagi, intesi come distretti rurali di età romana, si concentrano nella conca subequana: da Statulae47, posta al XC miglio da Roma lungo la Valeria48, e indicata come mansio nella Tabula Peutingeriana (loc. La Statura di Goriano Sicoli) si distacca il percorso che si addentra verso la Valle dell’Aterno. Qui sono attestati epigraficamente il pagus Boedinus49, nome di ascendenza italica riconosciuto nell’iscrizione medioadriatica di Castel di Ieri, e il pagus Vecellanus50. Da questi pagi provengono personaggi di prim’ordine che percorsero carriere politiche e amministrative a Roma e in sede locale, come Q. Vario Gemino che, primus omnium Paelignorum, senator factus est51.
Con lo stretto riferimento a questa arteria stradale si comprende inoltre la localizzazione di varie strutture individuate al Bagnaturo, nei pressi della chiesetta di San Pietro e al Campo d’Orsa40. L’attribuzione di queste strutture e di questi villaggi al pagus Fabianus citato da Plinio41 è ancora del tutto problematica, ma la sua localizzazione nel sito di Bagnaturo alle falde del Morrone ha le stesse probabilità di altre ipotesi, come quelle che riconoscono il pagus pliniano a Popoli o a Pettorano. L’istituzione del pago Fabiano
In area superequana52, la menzione epigrafica di tre edili a Molina Aterno53, di tre edili a Secinaro che ex
De Nino 1886, 134-5. De Nino 1988, 239. 41 Plin., Naturalis Historia, XVII, 250. 42 De Nino 1899, 239; Firpo 1991, 350-351. 43 Plut. Syll. 6,6-7, in G. Firpo 1991, 350-351. 44 CIL IX 3137; Buonocore e Firpo1991, 352, n. 2. 45 CIL IX 3138; Buonocore e Firpo1991, 352, n. 3. 46 CIL IX, p. 296. 47 Firpo 1989, 331-332. 48 De Nino 1903, 515-516; Buonocore 1989, n. 6. 49 CIL IX 3311, Buonocore 1989, ad n. CIL. 50 CIL IX 3305, Buonocore 1989, ad n. CIL. 51 CIL IX 3306; Buonocore e Firpo 1991, 334, n. 8. 52 Buonocore 1985. 53 Vetter 1953, 216. 39 40
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Appunti sui centri minori in area peligna e sabina
pagi decreto aquam saliendam curaverunt54 e altri magistri pagi iterum paganicam facienda ex pagi sententia55, contribuiscono alla ricostruzione di un ambito territoriale strutturato amministrativamente in funzione del pagus, e molto vitale e attivo dal punto di vista sociale e religioso56; del resto sia l’esistenza di un canale molto stretto di comunicazione politica con Roma, sia un’aderenza alle risorse territoriali sono confermati dalla diffusione di preesistenze in questo comprensorio dalla elevata qualità degli edifici (eccezionale il caso del tempio di Castel di Ieri) e dalla presenza di un insediamento minore, ma “municipi instar”57.
Gli ambienti che suddividono gli spazi residenziali e operativi nell’insediamento di Campo Valentino presentano nella quasi totalità dei casi rivestimenti pavimentali tipologicamente molto vari che rispondono alle diverse destinazioni d’uso dei vani e, nell’ultima fase di vita, si sovrappongono alle rasature dei muri in una ristrutturazione generale degli edifici. In età tardoantica l’area risulta abbandonata in seguito ad un evento distruttivo: vaste aree di incendio sono visibili in diversi ambienti e nei pressi di un vano pesantemente rimaneggiato, dove era stato ricavato un focolare sui resti del pavimento musivo, sette olle ricolme di lenticchie ormai bruciate attestano l’abbandono repentino del sito. Una fase di sepolture giunge fino al VI secolo, introducendo un ulteriore elemento nella periodizzazione del sito e nella ricostruzione dei paesaggi antichi: la necropoli arcaica, l’abitato di età romana con una fase specificamente produttiva, le strutture in abbandono, le sepolture e quindi i campi coltivati si sono succeduti con importanti soluzioni nella continuità storica, lasciando tracce comunque evidenti nell’attuale partitura territoriale.
Nel comune di Molina Aterno, infatti, la piana di Campo Valentino58, indagata archeologicamente per il passaggio di un metanodotto, ha restituito i resti di un insediamento molto articolato in età tardoellenistica e romana, mentre in età arcaica l’area pianeggiante era destinata ad uso funerario: era presente una necropoli con sepolture importanti per il riferimento ad un livello molto elevato degli oggetti di corredo59. La piana è posta lungo la sponda destra del fiume Aterno, in relazione ad assi viari che collegano siti sparsi e caratterizzati da terrazzamenti, come nel caso di San Pio posto sul declivio collinare.
Anche in area sabina i centri minori sono strettamente collegati alla rete viaria e non hanno certo minore potenza diacronica: dagli inizi dell’età del ferro si giunge all’epoca romana primo e tardo imperiale riscontrando spesso la successione o l’alternanza di uso funerario, residenziale e produttivo nei siti di Pizzoli, San Vittorino - Amiternum, Scoppito - Foruli, e Civita di Bagno – Forcona al confine con il territorio vestino.
La struttura dell’abitato si incardina su una strada, lungo la quale si distribuiscono numerosi ambienti che individuano zone con diversa destinazione d’uso. Sono state localizzate infatti aree residenziali, caratterizzate da ambienti con muri intonacati e pavimenti pregiati in mosaico a tessere bianche e nere e in cocciopesto decorato. Zone pubbliche sono invece delineate da ampi spazi aperti, in alcuni casi porticati, lungo i quali è collocata una struttura tripartita con ambiente centrale pavimentato a mosaico e pronao in antis, interpretato come edificio sacro (Fig. 7).
Nella Sabina interna corrispondente all’alta conca aquilana, zona montuosa attraversata dal corso dell’Aterno con valli strette, circondata dai rilievi maggiori del Gran Sasso e del Sirente, coesistevano numerosi vici in quello che, divenuto ager Romanus agli inizi del III sec. a. C., era il territorio assegnato alla prefettura di Amiternum60, in modo simile agli altri comprensori sabini gravitanti su Nursia e Reate 61.
Di grande interesse il quartiere destinato alle attività artigianali contraddistinto da una complessa articolazione degli spazi interni, con varie stanze che ospitavano torchi, dei cui elementi restano tracce nel pavimento, e con alcuni ambienti provvisti di vasche rettangolari in muratura o adibiti a magazzini per la conservazione delle derrate alimentari, come testimoniano i numerosi dolia, rinvenuti in serie in più punti dell’area.
Di questa dispersione degli insediamenti nel territorio62, la magistratura dell’ottovirato, caratteristica dell’area sabina interna, può costituire un riflesso amministrativo63.
CIL, IX 3312; ILS, 5733; ILLRP, 671. Persichetti 1914, 129-130; Buonocore 1989, n. 12. 56 Cosentino, Mieli e Tuteri 2006; dediche a Ercole: CIL IX 3302, CIL I2, 2486, AE 1984,283 e 292; a Giove: CIL IX 3303 a, 3303b; a Silvano: Buonocore 1989, n. 4; a Cerere, Venere e Cibele: AE 1988, 446. 57 Tacito, Annales, I, 20,1, riferito ai vici, “quasi città”. 58 Tuteri 1998, 87-92; ead.2001, 97-115; ead. 2000. 59 Riccitelli 1998, 81-86. 60 Segenni 1985, 11-209. 61 Coarelli 2008,15-24. 62 Placidi 1985. 63 Segenni 2008, 711-723; ead. 2014 , 11-35 . 54 55
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro che attraversa la piana con un lungo rettilineo, divenne elemento poleogenetico per lo sviluppo della città che si espandeva nella pianura.
I villaggi erano localizzati in stretta adesione alla viabilità64 che aveva nella Claudia Nova il riferimento alla direttrice nord-ovest/sud-est, e nel sistema via Salaria – via Caecilia65 il collegamento tra le opposte sponde tirrenica ed adriatica con la biforcazione ad Antrodoco. Con la via poplica campana66 il corridoio nord-sud veniva inserito nel sistema di tracciati di collegamento tra l’area picena e quella campana, i cui effetti in termini culturali per le età più antiche sono stati resi evidenti dai dati provenienti dal sito di Pizzoli67, abitato dal neolitico all’età romana: dall’età del ferro si registra la presenza di tombe a fossato-canale e di sepolture coperte da un piccolo tumulo a base rettangolare che in un caso particolare68 hanno restituito una straordinaria fibula narrante, ad arco configurato databile all’VIII sec. a.C. che secondo una interpretazione potrebbe testimoniare i mitici eventi legati al rito del ver sacrum69. Allo stesso orizzonte cronologico, ad indiziare una serie di insediamenti collegati alle grandi necropoli, è la capanna inserita in un sistema terrazzato rinvenuta a Bazzano, primo indizio di un abitato strutturato tra la fine dell’età del bronzo e gli inizi dell’età del ferro sulle pendici del colle che domina l’area meridionale della piana aquilana.
L’ambito suburbano amiternino è caratterizzato dalla presenza di quello che spesso, per struttura e per popolazione presente, può essere definito un tipo particolare di insediamento minore: la villa; la collocazione e la densità di tali articolati edifici è ipotizzabile, oltre che dalle strutture emergenti, in base ai toponimi che alludono alla struttura paganica e quindi agreste del comprensorio72. Il termine villa compare per la prima volta nella sua veste epigrafica in una iscrizione da Amiternum73, che riporta il calcolo delle distanze tra le varie strutture di un acquedotto che si snoda tra villae e campi coltivati, identificati con i nomi dei proprietari. Tra gli insediamenti minori rurali, le villae, in quanto edifici isolati, si alternano ai vici. Se fattorie di piccole dimensioni sono conosciute per le epoche anteriori, il sistema villa in area sabina interna appare dagli inizi del I sec. a.C. con la compiuta romanizzazione del territorio, quando si instaurano una concentrazione della proprietà, la disponibilità di manodopera anche schiavile, la possibilità di estesi commerci, la funzionalità delle rete viaria e una decisa stabilità sociale.
Nella parte settentrionale del territorio aquilano, sul colle di San Vittorino, è stato localizzato il villaggio italico che Curio Dentato distrusse nel 293 a.C. e che precedette la città romana di Amiternum70. Qui le indagini dell’Università di Colonia hanno evidenziato la lunga occupazione fin dalla protostoria, con uso funerario del sito con piccole tombe a tumulo. Dagli strati posti in relazione al periodo della distruzione che ha portato alla conquista romana del territorio, sono stati recuperati frammenti di un pithos d’impasto con iscrizioni sabine riferite forse ad un utilizzo sacro del vaso per contenere derrate macinate71.
Anche la ripartizione agraria contribuì a rendere sistematico e razionale lo sfruttamento agricolo del suolo e nella piana di Amiternum si ancorò al tracciato della via Caecilia e si adeguò all’orientamento delle valli74. Grandi e lussuose erano le villae amiternine75: a Cavallari l’università di Colonia76 ha individuato mediante prospezioni magnetometriche una struttura di vasta estensione con sostruzioni e doppio peristilio, mentre altre ville sono state individuate dalla Soprintendenza con scavi e saggi a Coppito presso la chiesa di san Pietro, in località Fonte Palina77, lungo il Viale delle Fiamme Gialle subito dopo il terremoto del 200978 e, sempre a Coppito, in loc. Santo Padre, durante la costruzione della grande caserma della Guardia di Finanza tra il 1986 e il 1990. Qui sono state interamente scavate due villae,
Soprattutto dal II sec. a.C. nell’area si datano le preesistenze finora meglio conosciute, addensate come detto lungo le arterie di traffico. La direttrice nord- sud e quella ovest- est hanno il loro incrocio nei pressi del foro di Amiternum: la via Caecilia,
Persichetti 1893; id. 1902, 276-304; Migliario 1995; ead. 1996, 3-34; Zenodocchio 2008; Ceccaroni 2015, 194-196. Barbetta 2000, 47-57; Guidobaldi 2000, 277-290. 66 Barreca 1953-55, 15-20; Orsatti 1991. 67 Cosentino et alii 2009, 383-384; Cosentino 2012, 526-529, con bibliografia precedente. 68 Cosentino 2010, 298-305. 69 Tuteri 2010a, 286-297; ead. 2011b, 31- 37; ead., 2010b, 132-133; ead., 2014 b, 127-129. 70 Tuteri 2015a, 127-154; ead.. 2010c, 163-189; ead. 2009a, 170-171; ead. 2011c ,505-514; ead. 2014c , 36-63. 71 Devo questa interpretazione alla cortesia del prof. Adriano La Regina. 72 Aquilano et alii 2012, 49-64. 73 Segenni 2005, 603-618; Buonocore 1994, 185-194. 74 Ipotesi da verificare sul terreno sono in Camerieri e Mattioli 2011, 111-127. 75 Tuteri 2012, 81-92. 76 Heinzelmann e Jordan 2006; Heinzelmann 2009, 172-174; Heinzelmann e Jordan 2009, 63-76; Heinzelmann et alii 2010, 55-83; Heinzelmann 2010, 484-488; id. 2011, 484-488; id. 2012, 124-130. 77 Di Vincenzo 2015. 78 Cirone 2009, 175-178. 64 65
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Appunti sui centri minori in area peligna e sabina
mentre una terza è stata solo individuata: la prima villa è un complesso di circa 5000 mq, edificato in una zona pianeggiante; la seconda villa, posta a circa 350 metri a ovest della prima si conserva per ca. 2000 mq., corrispondenti presumibilmente alla metà del complesso originario edificato su un terrazzo ricavato nel pendio collinare (Fig. 8). L’analisi stratigrafica ha rilevato come ad un primo impianto degli edifici nella metà del I sec. a.C. si fossero susseguite diverse fasi di vita, di crolli e di ricostruzioni, le più importanti delle quali hanno nella metà del II secolo e nella metà del IV dei precisi riferimenti nella soluzione della continuità abitativa79. Dopo la fase di impianto delle villae, l’evoluzione del quadro insediamentale ne registra le maggiori dimensioni nella prima età imperiale e un ulteriore incremento nell’estensione e nell’articolazione degli spazi dal II secolo, quando il surplus produttivo dà origine ad attività di trasformazione e commercializzazione. Alla posizione strategica nella campagna amiternina, con facilità di accesso alle comunicazioni viarie, si deve la loro ricchezza: dagli scavi archeologici sono stati recuperati molti oggetti in bronzo, prodotti ceramici anche di importazione, frammenti di decorazione policroma parietale riferibili a lussuosi contesti abitativi.
scoperta con grande lacus circolare (Fig. 9). L’evoluzione edilizia del complesso registra numerosi interventi che hanno alterato la situazione originaria, e la cronologia si svolge in almeno dieci grandi periodi di cui il più antico comprende la definizione del terrazzo tra II e I sec. a.C., con l’ampliamento caratterizzato dalle sostruzioni in età augustea, con varie fasi di vita che videro il complesso, forse interessato da una originaria destinazione cultuale, ampliato in funzione residenziale, o di valetudinarium, per poi essere trasformato, a partire dal V secolo, in un articolato opificio con la presenza di una calcara e di almeno due fornaci ricavate tra le strutture di età imperiale. Sono numerose in area sabina amiternina le attestazioni dei personaggi impegnati nella conduzione delle villae e numerose le attestazioni di proprietà senatorie82 in zona come possedimenti di personaggi influenti che spesso venivano insigniti del patronato, come attestano le due tabulae patronatus da Amiternum e da Foruli, importante vicus dipendente dalla praefectura amiternina83. Ai fini di questa comunicazione rivolta ad una veloce disamina dei centri minori in area peligna e sabina, è importante sottolineare la ricchezza e l’autonomia nella gestione interna del vicus di Foruli (ex re publica sua nella dedica a M. Aurelio per la sua prima tribunicia potestas; 146-147), insediamento posto all’inizio del tratto della Claudia Nova risistemato da Claudio nel 47 d.C. Sorto originariamente in posizione difesa, arroccata come la definisce Strabone, l’insediamento conobbe una espansione nel pianoro di Piano di Civita, dove gli scavi degli anni Sessanta del Novecento hanno individuato edifici monumentali che hanno restituito una importante galleria di statue-ritratto di età tardo- repubblicana e augustea84.
Nell’ager amiterninus alcune villae si attestano sulla viabilità parallela al corso del fiume Aterno (asse nord/ ovest-sud/est), delineando un assetto agrario basato sull’economia di produzioni probabilmente specializzate volte al mercato che necessitavano di investimenti e tecnologia, come attesta la diffusa presenza di sistematici interventi di drenaggio nei campi coltivati di età romana. Al confine con il territorio vestino, un grande complesso può essere ancora solo dubitativamente riferito ad una villa, almeno nella sua prima fase. Posto in un contesto definibile “centro minore” solo per la scarsità dei dati in possesso, rivela alle prime indagini sistematiche la sua grande potenzialità, da rintracciare anche nel ruolo che la medievale Forcona ebbe nel territorio come sede vescovile subentrata ad Aveia80.
Scavi recenti hanno documentato la lunga frequentazione del sito mediante l’analisi stratigrafica di parte di un edificio che, organizzato in almeno due piani con diverse fasi edilizie, giunge all’epoca tardoantica (Fig. 10). A conclusione di questo sommario contributo, occorre accennare ad un centro minore di epoca romana che si sta rivelando in seguito ai sistematici interventi archeologici condotti dopo il sisma del 2009 nel centro urbano dell’Aquila85: preesistenze di età romana sono in corso di documentazione in località La Polveriera con edifici e necropoli; all’interno delle mura urbiche, a Porta Barete, elementi scultorei in giacitura secondaria e, in giacitura primaria, stratificazioni, frammenti musivi e
Posto su un terrazzo artificiale della collina di Moritola nella frazione aquilana di Civita di Bagno81, l’edificio ha la varia articolazione di un complesso monumentale che fu ampliato con imponenti sostruzioni sui lati settentrionale e orientale, realizzate con un doppio ordine di volte a direttrice verticale, scaricate su lunghe murature rettilinee in opera reticolata. La nuova area così ottenuta fu ripartita tra una zona residenziale e un’area Tuteri 2014a, 13-34. Tuteri 2005c, 215-226; ead. 2012, 81-92; ead. 2015b. 81 Tuteri 2013. 82 Segenni 2004, 123-148; ead. 2007 , 125-141. 83 Segenni 1991, 395-401; ead.2009, 261-282. 84 Torelli 2009, 207-244; Pacifico 2014; Sanzi Di Mino e Nista 1993. 85 Tuteri (ed.) 2020 79 80
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Tuteri R. 2014c. “Un percorso amiternino; Una visita alla città”, in G. Pacifico, S. Segenni e R.Tuteri, Amiternum. Guida archeologica (Sambuceto), 37-63. Tuteri R. 2015a. “Strade e storie amiternine: persistenze e discontinuità”, in L. Ermini Pani (ed.), Abruzzo sul Tratturo Magno (Roma), 127-154. Tuteri R. 2015b. “Dalla città di Aveia a Forcona”, in L. Ermini Pani (ed), Abruzzo sul Tratturo Magno (Roma), 155-161. Tuteri R. 2016, La difficoltà di progettare la memoria: attività di tutela dei beni archeologici nella ricostruzione dell’Aquila, in Quaderni di Archeologia d’Abruzzo IV/2012, 231-239.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 1: Pannello del Museo Archeologico di Sulmona raffigurante la Conca Peligna; ubicazione dei siti pre-protostorici
Fig. 2: Pannello del Museo Archeologico di Sulmona raffigurante la Conca Peligna; ubicazione dei siti ellenistici.
Fig. 3: Pannello del Museo Archeologico di Sulmona raffigurante la Conca Peligna; ubicazione dei siti di età romana
Fig. 4: Pettorano, loc. Ponte d’Arce; edificio rurale
Fig. 5: Cansano, insediamento protostorico
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R. Tuteri
Appunti sui centri minori in area peligna e sabina
Fig. 6: Cansano, insediamento di Ocriticum; strada, edifici e tombe
Fig. 7: Molina Aterno, loc. Campo Valentino
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 8: L’Aquila-Coppito, loc. Santo Padre; villa B
Fig. 9: L’Aquila-Civita di Bagno, loc. Moritola; complesso monumentale di età romana
Fig. 10: Scoppito-Foruli, loc. Piano di Civita; edificio in corso di scavo
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Philippe Brunella, Jean-Paul Petit
Les agglomérations secondaires antiques de la cité de Mediomatriques (province de Gallia Belgica) et leur devenir au Moyen Âge Abstract: The contribution reviews the evolution and transformations of the «agglomérations secondaires» (small towns, minor settlements) in the civitas of the Mediomatrici (Gallia Belgica). Recent research has renewed our knowledge, in particular of Tarquimpol, Senon-Amel, Bliesbruck-Reinheim, Sarrebourg, Herapel and Sarre-Union. For the High Roman period, the focus is on urban settlements by analysing their place in the road network, their organisation, the presence of monuments and public sanctuaries and the nature of the habitat. Late Antiquity is characterised by the occupation of most sites. The distribution of the fortifications, mainly built after the mid-4th century, confirms the importance of the main roads. The discoveries of militaria in Bliesbruck and Sarrebourg suggest the existence of defensive installations that have yet to be identified. In the second half of the 5th century and in the early Middle Ages, only a few of the settlements still constituted central places that were difficult to characterise precisely.
Pendant plus de dix années, Sara Santoro a marqué de son empreinte les recherches et le développement du Parc archéologique européen de Bliesbruck-Reinheim (Moselle, France/Land de Sarre, Allemagne) en y mettant en œuvre ses multiples compétences scientifiques, son souci constant de la valorisation auprès des publics, son charisme ainsi que son profond engagement européen1. Ses recherches ont porté pricipalement sur l’agglomération ”mineure” de Bliesbruck, type de site pour lesquel elle a toujours montré un intérêt pariculier comme en témoigne l’un de ses derniers articles2. En hommage à notre amie dévouée et enthousiaste nous avons choisi de présenter un bilan sur les agglomérations secondaires de la civitas des Médiomatriques dont faisait partie Bliesbruck.
France. Raymond Brulet a récemment3 fait le point sur ce débat et sur les particularismes propres aux différents pays d’Europe occidentale. Dans cette contribution nous utiliserons le terme commode d’agglomération secondaire, le plus utilisé en France, comme cela a été fait récemment pour le programme de recherche mené dans le Centre de la France4 alors que dans le Centre-Est5, c’est le terme « habitat groupé » qui a été retenu.
L’espace territorial de cette cité de la province de Gallia Belgica (fig. 1), se caractérise par son étendue, espace insécable après 10 000km2 et par son extension estouest, entre l’Argonne et le massif vosgien (fig. 2). Son chef-lieu, Metz (Divodurum Mediomatricorum) est établie sur la grande voie impériale qui relie Lyon à Trèves. La cité est maillée par un réseau d’habitats groupés, des agglomérations, secondaires par rapport au chef-lieu dont elles dépendent. La terminologie appliquée à ces habitas groupés fait encore l’objet de discussions, surtout en
Outre le chef-lieu, huit agglomérations sont connues par les Itinéraires7. Trois inscriptions8 mentionnent aussi des vici : une dédicace faite par les vicani Marosallenses (CIL XIII, 4565) atteste la présence d’un vicus à Marsal au cœur de la région saline de la vallée de la Seille9 ; une borne milliaire (CIL XIII, 4549) découverte à proximité du sanctuaire du Donon, à la limite entre Médiomatriques et Triboques10 fait état d’un vicus saravus qui pourrait correspondre à Sarrebourg, connu aussi par les Itinéraires sous le nom de Pons Saravi,
Depuis les derniers bilans6, aucun nouveau site d’agglomération secondaire n’a été mis en évidence dans la cité des Médiomatriques mais les recherches récentes ont renouvelé les connaissances sur Tarquimpol, Bliesbruck, Senon-Amel, le Herapel, Sarrebourg et Sarre-Union.
L’exposition présentée au Parc en 2007, « De Pompéi à Bliesbruck-Reinheim. Vivre en Europe romaine » dont elle a été l’âme est un témoignage éclatant. Santoro 2017. 3 Brulet 2017b qui fournit l’ensemble de la bibliographie. 4 Cribellier 2016. 5 Nouvel et Venaut 2015. 6 Massy 1997 où tous les sites connus ont fait l’objet d’une monographie et Petit 2004a. 7 Virodunum–Verdun ; Fines-Manheulles ? ; Ibliodurum-Mars-la-Tour ? ; Caranusca-Hettange-Grande ; ad Duodecim-Delme ; ad DecempagosTarquimpol ; Pontesaravi-Sarrebourg ; Scarponna-Dieulouard-Scarponne. Pour une présentation commode voir Burnand 1990, 19-20. 8 Nous n’avons pas pris en compte le site présumé d’agglomération de Vic-sur-Seille (Massy 1997e) du haut Moyen Âge. L’inscription en question est considérée comme fausse (Dondin-Payre 1997, 357-358). 9 À l’âge du Fer, les sources salées sont exploitées de manière quasi-industrielle selon la technique dit du briquetage (voir par exemple Olivier 2015). 10 Voir en particulier Kolling 1965 et Freis 1994, 94-96 pour la discussion. 1 2
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro et Senon-Amel et sans doute pour Schwarzenacker et Sarrebourg. Pour le Herapel, les recherches récentes remettent en cause la vision traditionnelle de ce site.
plutôt qu’à Sarrebruck. La troisième inscription incomplète (CIL XIII, 4481), se rapporterait au site de hauteur du Herapel, mais une autre hypothèse peut être faite aujourd’hui (cf infra).
L’agglomération de Bliesbruck13 (env. 30 ha), est structurée par un axe bordé de quartiers artisanaux dont deux ont été fouillés (fig. 4). La partie centrale située à l’ouest de cette voie correspond au centre public14 qui dans son état le plus développé du IIIe s. comprend des thermes publics15 encadrés de deux ailes de tabernae bordés de portiques, une fontaine monumentale en hémicycle, une basilique à trois nefs à déambulatoire et espace central16 et un corps de boutiques. L’habitat17 est constitué de maisons longues18 alignées le long de la voie. L’unité la plus vaste, différente par son architecture, son aménagement et son mobilier des autres bâtiments des quartiers, correspond sans doute à un lieu de réunion d’une association professionnelle ou religieuse19, une schola, établie non loin du centre public.
LES AGGLOMÉRATIONS DE LA CITÉ DES MÉDIOMATRIQUES AU HAUT-EMPIRE Abordons la situation au Haut-Empire, en réalité celle des IIe-IIIe siècles A.D. car nous n’avons que peu de données pour le Ier siècle. Verdun est exclue de la présentation car les données archéologiques sont indigentes en l’état des recherches. Une agglomération à l’équipement monumental très développé, Tarquimpol Les vestiges de l’agglomération de Tarquimpol se trouvent sur une presqu’île située dans l’étang du Lindre créé au plus tard vers 1400. Les travaux récents menés par J. Henning et M. McCormick11 mettent en évidence un noyau urbain dense (40 à 60 ha), entouré d’une zone de constructions plus dispersées (fig. 3). L’agglomération se structure autour d’un vaste centre public qui comprend un théâtre (117 m de diamètre) voisinant avec une vaste zone de bâtiments à cour inscrits dans des parcelles délimitées par des murs de clôture. Au nord-est de ce complexe, existe un temple de plan centré carré, l’un des plus grands de Gaule avec ses 36 m de côté12 et, au sud se trouve un portique à avancées long de 200 m relié au théâtre par une voie longue de 500 m. Au sud-est du grand temple et au nord-est du portique sont établis des thermes. Des vastes bâtiments à cour intérieure sont établis le long de la voie MetzStrasbourg qui traverse l’agglomération.
L’agglomération partage la vallée avec une grande villa du type « à pavillons multiples alignés » 20. Un vaste sanctuaire21, établi à environ 1,5 km de l’agglomération sur l’autre rive de la Blies succède à un bâtiment cultuel en bois, de plan centré, de forme polygonale, daté de La Tène D122. Ces trois poles (fig. 5) s’étalent au pied de la colline du « Homerich», dont le sommet et les pentes ont révélé une occupation, sans doute de nature également cultuelle23. L’agglomération de Schwarzenacker24, à 25 km au nord de Bliesbruck, s’étire le long d’un axe principal sur environ 900 m. Deux quartiers artisanaux ont été fouillés ; le premier longe sans doute la voie principale, alors que le second occupe l’angle formé par le croisement de cet axe avec une rue perpendiculaire. De nombreuses maisons longues s’alignent le long de ces rues. Un corps de bâtiment exceptionnel25, constitué d’une vaste salle surmontant un sous-sol de même dimension, à l’architecture remarquable26, fait partie d’une maison qui
Des agglomérations urbaines Le caractère urbain, en particulier la présence de monuments publics, est attesté pour Bliesbruck-Reinheim
Henning, McCormick et Fischer 2016 ; Henning et McCormick 2018, fait le bilan des recherches dans lequel l’ensemble de la bibliographie est indiqué. Nous les remercions vivement de nous avoir mis à disposition leur contribution avant sa parution. Nous remercions également Andrew Cain éditeur du Journal of late Antiquity pour l’autorisation de reproduire les plans des fig 7 et 8 de cet article. 12 Fauduet 2010, 125-126. 13 Petit 2012, pour un bilan sur le site de Bliesbruck-Reinheim. 14 Un programme pluriannuel de recherche conduit par la Conservation d’archéologie du Département de la Moselle et l’Université de ChietiPescara a permis d’explorer de 2008 à 2011 ce centre public monumental. Voir Petit et Santoro 2016. 15 Petit 2000. 16 Ce type de monument caractéristique du forum est aussi attesté en Gaule dans des agglomérations secondaires (Petit et Santoro 2016, 262-269). Le local établi dans son angle sud-est dans une seconde phase pourrait correspondre à un ponderarium. 17 Petit 2004b, 296-311. 18 Nous utiliserons ce terme tout au long de la contribution, équivalent de striphouse et de Streifenhaus. Voir Lanthemann 2013. 19 Petit 2010. 20 Sărățeanu-Müller 2011 ; Ferdière et al. 2010 pour ce type de villa. 21 L’établissement romain couvre une vingtaine d’hectares mais reste encore mal connu : un bâtiment présente un plan en U intégrant un bassin, un ensemble thermal a été fouillé partiellement et un ensemble quadrangulaire pourrait correspondre à un temple 22 Voir Reinhard 2010, 262-291 pour cet établissement. 23 Reinhard 2010, 62-67. 24 Kolling 1993. 25 Kolling 1993, 45-46. 26 La paroi orientale de la salle était ornée d’une mégalographie. Le sous-sol construit en gros bloc de grès est divisé en deux nefs par une rangée 11
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P. Brunella, J.-P. Petit
Les agglomérations secondaires antiques de la cité de Mediomatriques (province de Gallia Belgica) et leur devenir au Moyen Âge
occupe l’angle des deux rues. Ces caractéristiques et le mobilier découvert27 indique qu’il s’agit du siège d’une association professionnelle ou cultuelle, une schola. Un sanctuaire enclos qui s’insère dans la trame urbaine est situé au sud des deux quartiers et à proximité se trouvaient des thermes publics.
occupé par des maisons longues. Les nombreuses interventions ponctuelles suggèrent la présence d’une parure monumentale (thermes, sanctuaire, place). Dans un des secteurs périphériques a été découvert un mithraeum daté de l’époque sévérienne31 ; d’autres représentations divines en proviennent également ce qui suggère l’existence d’une zone de sanctuaires.
Un sanctuaire existait sans doute sur la hauteur de Wörschweiler-Klosterberg qui domine la vallée de la Blies, en face de l’agglomération. Les recherches effectuées à l’emplacement d’une élévation de 65 m de diamètre et haute de 8 m ont révélé un monument du Haut-Empire28 et amené la découverte d’autels votifs dans les ruines d’une abbaye qui se dressent encore sur le promontoire.
Les agglomérations à caractères probablement urbains Dans cette catégorie entrent beaucoup d’agglomérations qui occupent des surfaces importantes, mais pour lesquelles nous ne possédons pas de données suffisantes. Sur la voie reliant Metz à Worms, à un point de franchissement de la rivière Sarre, l’agglomération de Sarrebruck s’étire sur plusieurs centaines de mètres. Une série de maisons longues, dont seules quelquesunes ont pu être appréhendées complètement32, a été explorée. Aucun monument public n’est connu, mais l’agglomération était alimentée par un aqueduc souterrain du type «qanat ». Un mithraeum est attesté à mi-pente de la colline du Halberg qui domine l’agglomération33.
L’agglomération de Senon29 (minimum 35 ha) s’organise autour d’un espace central public comprenant un sanctuaire constitué de trois temples à plan centré intégrés dans un péribole (77 m sur 44 m au moins) et un théâtre de dimensions modestes (48 m de diamètre) qui voisine sans doute avec des thermes publics (fig. 6). L’habitat, documenté par les prospections géophysiques et principalement constitué de maisons longues, se développe le long des rues de l’agglomération.
Le Herapel est un éperon surplombant la vallée de la Rosselle et cette même voie (fig. 7). Les recherches anciennes34 montrent que le sommet du promontoire est occupé au Haut-Empire par deux grands temples de plan centré octogonaux ainsi que par un ensemble qui a livré des fragments de statues et des colonnes. Une dizaine d’inscriptions relatives à des cultes ont également été retrouvées. L’organisation du site reste difficile à déterminer en raison de l’incertitude sur la datation des constructions connues, en particulier des thermes publics partiellement fouillés. Une nécropole, établie le long d’une voie qui quitte le promontoire en avant du mur de barrage de l’Antiquité tardive a livré principalement des tombes de cette période mais aussi des Ier et IIe s.35.
Un complexe monumental structuré par une esplanade trapézoïdale de 5 ha réunissant deux périboles juxtaposés (quatre temples à plan centré ainsi que des petits édicules), est établi à Amel, à 1,5 km de l’agglomération. Il comprend également un théâtre de 77 m de diamètre, voisin d’un ensemble thermal et d’autres édifices monumentaux. Des bâtiments à cour intérieure complètent la partie centrale du complexe alors qu’en périphérie sont établis des bâtiments dont les plans se rapprochent de ceux des établissements ruraux. L’agglomération de Sarrebourg-Pons Saravi30 s’est développée le long de la voie Metz-Strasbourg qui y franchit la Sarre. Sa superficie est estimée à 14 ha : un noyau central structuré par des rues secondaires et entouré de quartiers périphériques. Mais la distance entre les deux nécropoles situées aux extrémités de l’agglomération suggère que l’étendue pourrait être plus importante. Les fouilles ont révélé localement un parcellaire laniéré
Mais les recherches récentes mettent l’accent sur l’occupation, attestée par de nombreuses observations, au pied du promontoire, à Cocheren et à Morsbach36. Au XIXe s. a été fouillée à Morsbach, une nécropole
centrale de 5 colonnes ; des plateaux de table sont insérés dans deux d’entre elles. 27 Il s’agit en particulier de six statuettes en bronze de très grande qualité dont un Génie du peuple romain et un groupe de Mercure et d’une enseigne en fer représentant une hache double surmontée d’une pointe. 28 Kolling 1969. 29 Voir Ritz 2017 pour le point sur les recherches en cours. Les résultats spectaculaires obtenus ces dernières années à Senon-Amel proviennent de prospections géophysiques extensives. Nous remercions vivement Simon Ritz pour avoir mis à notre disposition le plan issu des recherches less plus récentes. 30 Meyer 2017. 31 L’iconographie de ce sanctuaire de Mithra élevé par un notable local Marceleus Marianus, proche de celui de Koenigshoffen, appartient au type Type VIII DE de L.A. Campbell 1968. 32 Freis 1999, 91-102. 33 Schindler 1964. Il a été établi dans une grotte naturelle aménagée en salle à trois nefs vers la fin du IIIe siècle. 34 Georges-Leroy 1997 pour le bilan des recherches et l’ensemble de la bibliograhie. 35 Hoffmann 1995 et 1998. 36 Une fouille récente (Chevaux et al. 2016) à Cocheren a permis de dégager un tronçon d’une voie recouvrant une occupation de La Tène D1/D2a
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro également située le long de la voie et qui vient d’être réétudiée37. Les tombes s’échelonnent entre La Tène D2a et la fin du IIe/début du IIIe s. et le nombre de structures, la qualité du mobilier et la forte proportion des artefacts métalliques suggèrent qu’il s’agit d’une nécropole urbaine.
l’agglomération de Nomeny (lieu-dit Malnois)45. Une surface allongée de 800 m sur 300 m concentre l’essentiel des vestiges de cette agglomération mal connue (aucun bâtiment public et données indigentes sur l’habitat) traversée par cette voie franchissant la rivière Seille à son extrémité nord.
Sur la voie reliant Metz à Strasbourg, à seulement 7 km de Tarquimpol, le vicus de Marsal ne peut-être caractérisé aujourd’hui. Un sanctuaire en lien avec l’agglomération pourrait se trouver sur la Côte Saint-Jean (à Moyenvic)38 qui domine Marsal.
Deux agglomérations, Lavoye et Avocourt, sont également connues dans la partie occidentale de la cité, en Argonne. Cette région est caractérisée par une production artisanale très développée, verre et surtout céramique46. Toutes deux présentent des caractères urbains et s’inscrivent dans un environnement d’ateliers installés en périphérie.
Sur la troisième allant de Metz vers l’Est, également en bordure de Sarre, l’agglomération de Sarre-Union, enfouie sous la ville actuelle39 couvre une superficie d’une vingtaine d’ha. Aucun monument public n’est attesté et l’habitat qui a pu être aperçu de manière localisée est constitué de maisons longues. Les recherches récentes40 ont porté sur un quartier artisanal établi en périphérie du noyau dense, tourné vers le travail métallurgique et la production de céramique (poterie et figurines en terre cuite) à diffusion régionale.
Les sites routiers, sans équipement urbain A Delme ont été observés, de part et d’autre de la rue principale dont le tracé se confond avec celui de la voie antique Metz-Strasbourg, des vestiges qui évoquent une occupation relativement dense sur une longueur de 300/400 m. A 2 km au sud-ouest du bourg actuel, la côte de Delme, point culminant au pied de laquelle passe la voie romaine, a révélé plusieurs bâtiments en pierre et des traces d’activités artisanales. La présence de ces deux sites47 voisins pose la question de l’identification de la station routière ad Duodecim.
Deux agglomérations sont placées sur la grande voie Lyon-Trèves. Non loin de la frontière avec les Trévires, Hettange-Grande est identifiée avec Caranusca de la Table de Peutinger. Des fouilles effectuées entre 1988 et 1992 et les découvertes anciennes montrent qu’elle s’organise le long de la voie antique sur environ 900 m41. Sur la même voie, à l’extrémité sud de la cité, est établie Scarpona, Dieulouard-Scarponne42. Son appartenance administrative à la cité des Leuques43 a été remise en question récemment44 pour être attribuée aux Médiomatriques. Établie à un point de franchissement de la Moselle, l’agglomération s’étire le long de la voie Lyon-Trèves sur une superficie estimée à au moins 10 ha. L’important corpus épigraphique livré par des stèles funéraires découvertes en remploi confirme l’importance de cette agglomération.
La voie antique menant de Metz à Sarre-Union traverse sans doute l’actuelle bourgade de Grostenquin. Les découvertes anciennes suggèrent l’existence d’une petite agglomération occupant la partie nord-ouest du bourg48, hypothèse que semble confirmer la découverte récente d’une nécropole à crémation49. Deux sites routiers sont attestés sur la voie Metz-Reims par Verdun. A Mars-la-Tour les indications anciennes mais surtout les quelques opérations préventives réalisées depuis 2010 suggère l’existence d’une agglomération masquée par le bâti actuel qui s’étale sur une longueur de 800 m50. Ces données relancent la question de l’identification de la station d’Ibliodurum pour laquelle d’autres hypothèses ont été proposées par le passé51.
Sur une autre voie provenant de Metz et se dirigeant vers le sud, mais de nature secondaire, est établie
à un endroit où étaient déjà attestés des bâtiments romains (Hoffman 1995, plan général). Nous remercions Renata Dupond, responsable du Pôle Archéologie Préventive de Metz-Métropole de nous avoir autorisés à consulter ce rapport. 37 Kaurin et Dub 2017. Le long de la même voie sont également attestés des bâtiments d’époque romaine (Hoffman 1998, plan général). 38 Féliu 2008, 109-110. 39 Nüsslein 2012, 76-83. 40 Gervreau et al. 2009. 41 Voir Stachowski 1997. 42 Voir Massy 1997a. 43 Burnand et Demarolle 1998. 44 Sanson 2012. 45 Cuvelier 1997. 46 Mourot 2002,158-166 et 305-356 ; Gazenbeek et Van der Leeuw, 1997. Dans les cas où cela a pu être vérifié, les ateliers sont situés à l’écart des agglomérations. 47 Massy 1997. 48 Hoerner 1997. 49 Lefebvre 2011. 50 Viller 2013. 51 Cuvelier et Massy 1997.
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P. Brunella, J.-P. Petit
Les agglomérations secondaires antiques de la cité de Mediomatriques (province de Gallia Belgica) et leur devenir au Moyen Âge
LES AGGLOMÉRATIONS « URBAINES » DE LA CITÉ AU HAUT-EMPIRE : QUELQUES RÉFLEXIONS
Plus à l’ouest, c’est à Manheulles que la tradition place la station de Fines, appellation caractéristique d’une localisation frontalière, ici aux limites des civitates de l’Antiquité tardive de Verdun et de Metz52.
Naissance et développement Metz, le chef-lieu succède à un oppidum établi à la confluence de la Moselle et de la Seille. Parmi les autres oppida, Verdun60, situé au niveau d’un carrefour routier et fluvial de part et d’autre de la rivière Meuse, conserve sans doute à l’époque romaine un rôle majeur. Elle pourrait couvrir une superficie de l’ordre de 65 ha61.
Une agglomération routière et fluviale est localisée à Corny-sur-Moselle, en bordure d’un méandre-fossile à 15 km au sud de Metz-Divodurum. Elle occupe une superficie d’une dizaine d’hectares (750 m sur 150 m) mais son organisation reste inconnue53. L’activité principale attestée en l’état des recherches est la production de tuiles.
D’autres oppida ou sites majeurs gaulois sont encore occupés à l’époque romaine : Montsec, Saint-Mihiel, Châtillon-sur-les-Côtes et la Côte-Saint-Jean à Moyenvic et le Herapel. Ce dernier est le seul où la nature de l’occupation romaine est connue. D’autres agglomérations, Corny-sur-Moselle, Lavoye, Tarquimpol, Senon62 et Bliesbruck-Reinheim ont peut-être pour origine un habitat groupé ouvert63 : Pour le dernier site, la fin de l’époque gauloise se caractérise surtout par la présence d’un bâtiment cultuel exceptionnel et par le spectre des monnaies gauloises retrouvées, témoignage de relations avec des régions situées au sud-ouest et à l’ouest64 de la Gaule.
Les sites routiers en relation avec des ateliers de production de céramique, en particulier de sigillée. La cité des Médiomatriques se caractérise par la présence de nombreuses officines de sigillée et plus largement de céramique. Deux sites routiers sont attestés sur la voie Metz-Reims, dans l’Argonne, en relation avec cette activité54, Pont-Verdunois, à la limite avec la cité voisine des Rèmes et La Pierre à Villée. Dans la partie orientale et centre-orientale de la cité sont également localisés plusieurs ateliers de production de sigillée55 et d’autres types de céramique. Les données suggèrent l’existence d’un site routier en relation avec ces ateliers à Chémery-Eincheville56 sur la route Metz-Sarre-Union et à Boucheporn57sur la voie Metz-Worms. A Blickweiler, des fouilles complémentaires suggèrent que le site s’étire sur 350 m. Il pourrait s’agir d’une agglomération de potiers où les ateliers étaient situés à l’arrière de maisons longues bordant la voie58. Mais aucun indice d’habitat n’étaye en l’état cette hypothèse.
Les autres sites d’agglomération naissent tous au Ier s. A.D., mais les niveaux les plus anciens n’ont été que rarement explorés. La présence de monnaies gauloises, républicaines, augustéennes (officielles et imitations) n’est pas un indice suffisant pour faire remonter leur début à l’époque augusto-tibérienne65. C’est à partir du milieu du Ier s. A.D. que ces agglomérations deviennent véritablement perceptibles. Elles se développent alors sans rupture jusque dans la première moitié du IIIe s. qui marque leur apogée66.
Une autre agglomération liée à la production de céramique se développe le long de la voie Metz-Trèves (700 m de long sur 150 m de large)59 à Florange. La cartographie des découvertes suggère une partition de l’occupation ; au sud, jusqu’à un diverticule quittant la voie principale et bordé par une nécropole, est attestée une zone d’ateliers de potiers; au nord une zone de bâtiments en pan de bois sur solins de pierre (ou dans un seul cas sur fondations maçonnées) abritant des activités de forge borde la voie et pourrait correspondre au site routier.
Agglomérations et réseau routier Le réseau des Médiomatriques est aujourd’hui mieux connu67 et, outre les Itinéraires, sont attestés de nombreux autres tracés. Il est admis aujourd’hui que bon nombre de ces voies pourraient correspondre à des pistes ou chemins protohistoriques mais cela est loin
Massy 1997c. Jacquemot 1997. 54 Mourot 2002, 299-299 ; Gazenbeek et Van der Leeuw 2003, 254. 55 Il s’agit en particulier de quatre ateliers ou groupe d’ateliers où ont travaillé les potiers-décorateurs Saturninus et Satto : Boucheporn, Chémery-Eincheville, Blickweiler et Mittelbronn. Un cinquième atelier, celui d’Eschweiler-Hof est très lié à Blickweler (Knorr et Sprater 1927) 56 Hoerner 1997. 57 Lutz 1977. 58 Stinsky 2015. 59 Flotté et Fuchs 2004, 441-442. 60 Féliu 2008, 109-110. 61 Mourot 2002, 562-563. Son élévation au titre de chef-lieu de cité dans l’Antiquité tardive confirme son importance dès le Haut-Empire. 62 Ritz 2017, 30. 63 Féliu 2008, 142-155. 64 Wigg-Wolf 2010, 298-299. 65 Gricourt, Naumann et Schaub, 541-542. 66 Demarolle 2004, 125. 67 Laffite et al. 2009. 52 53
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro d’être démontré68.
du centre monumental, pourraient correspondre à des auberges.
Le chef-lieu de la cité semble contrôler seul un large espace d’un rayon de 30 à 40 km dans lequel ne sont attestés en l’état que des sites « non urbains »69. La répartition des agglomérations met également en valeur certains espaces de la cité, la partie occidentale, l’Argonne en interaction avec les cités voisines, mais surtout la partie orientale structurée par les vallées de la Sarre et de la Blies, orientée sur le plan économique et culturel vers les régions rhénanes et les Trévires70. La présence de sanctuaires de Mithra à Sarrebruck, à Sarrebourg, à proximité de Sarre-Union (cf. infra) et peut-être à Breitfurt, à proximité de Bliesbruck-Reinheim71 est un témoignage marquant de cette l’ouverture vers les régions rhénanes72.
L’organisation de l’agglomération apparaît centrée sur le centre monumental, ce qui suggère qu’il s’agit probablement d’un grand sanctuaire urbanisé78. W. Van Andringa a montré que ces agglomérations étaient intégrées dans la religion publique de la cité79, gérées par des magistrats et fréquentées lors de grandes fêtes religieuses par un grand nombre d’habitants de la cité, voire des cités alentours80. Pour Tarquimpol, l’ensemble des éléments archéologiques peut être mis en relation avec le nom antique, Decempagi, dont l’origine est expliquée, depuis Camille Jullian81, par la présence d’un sanctuaire de pagi des Médiomatriques. Les autres agglomérations dont on connait le caractère urbain ou dont les données permettent de le pressentir constituent des lieux centraux territoriaux et économiques qui contrôlent un environnement à vocation essentiellement agricole82. La situation est différente en Argonne où les ressources naturelles sont également largement exploitées pour la production de céramique et dans une moindre mesure de verre.
Agglomérations, monumentalité et sanctuaires publics L’agglomération de Tarquimpol présente un apparat monumental unique dans la cité qui comprend les principales formes que l’on retrouve dans les grands sanctuaires : édifice de spectacle, lieu de culte, portiques et thermes. Le portique à avancées73, structuré par une file de pièces74, remarquable par son envergure, s’inscrit dans une petite série de monuments connus en Gaule75. Ce type d’édifice joue sans doute un rôle majeur dans la mise en scène architecturale du sanctuaire comme le montre la « voie » partant du milieu du monument et se dirigeant vers le théâtre. L’habitat attesté à l’est/nordest du secteur monumental présente une organisation différente76 des quartiers constitués de maisons longues. Il montre des analogies avec ce qui est attesté dans des agglomérations mieux connues dans le Centre-Ouest de la Gaule ou en Aquitaine77. Les élites étaient peut-être présentes à Tarquimpol comme le suggère l’existence d’un habitat à péristyle. Les bâtiments à cour intérieure mis en évidence le long de la voie principale, au sud
Lorsque les agglomérations sont connues, il apparaît clairement qu’elles sont structurées par la ou les voies pénétrantes et qu’elles ne disposent pas d’une organisation urbaine régulière, même si l’organisation parcellaire est structurée de manière rigoureuse83. Aux activités considérées généralement comme artisanales84, il convient d’ajouter celles liées aux métiers de bouche et à l’artisanat alimentaire bien présentes à Bliesbruck et à Schwarzenacker85. L’appréciation de la parure monumentale et des équipements publics reste encore limitée. Outre Tarquimpol, c’est uniquement à Bliesbruck et Senon qu’est attesté
Voir par exemple Nouvel et al., 2016, 276-279 pour les modalités de transformation dans une région mieux connue. Dans cet environnement il convient aussi de tenir compte de Sainte-Ruffine à 10 km à l’ouest/sud-ouest de Metz. Un temple gallo-romain octogonal et des thermes publics ont été fouillés mais il n’est pas possible de déterminer s’il s’agit d’un simple sanctuaire ou d’une agglomération plus large à vocation principale cultuelle (Ollivier 1997). 70 Petit 2001. 71 Claus et Hensen 2004. 72 La vallée de la Sarre et de la Blies correspondent de fait, dans l’état actuel des recherches, à la limite occidentale de la zone de répartition dense de ce type de sanctuaire (Voir la carte de répartitiion dans (Witschel 2013, 206-207) 73 Henning et McCormick 2018, 136. 74 Ginouvès 1988, 40. 75 Cazanove 2011, 166-169. 76 Henning et McCormick 2018. 77 Voir dans Monteil et al. 2016, par exemple les plans de Vendeuvre-du-Poitou, Saint-Jean-de-Sauves ou Sanxay. L’exemple de Barzan (Bouet 2011, 219-259) montre la variété des formes dans une agglomération-sanctuaire. 78 Monteil et al. 2016, 141 ; Hartz 2015 pour l’historiographie de la recherche. 79 Van Andringa 2002, 245-249 ; Van Andringa 2016. 80 Ce sont aussi des lieux d’expression des notables qui montrent ainsi leur pouvoir et leur richesse, appuyée à Tarquimpol sans doute sur l’exploitation des sources salines de la vallée de la Seille. 81 Jullian 1920, V. 472, note 10. 82 La plupart de ces sites sont établis au sein d’un territoire quadrillé par des villae et des fermes. Le cadre de cette contribution ne permet pas de présenter ces données. 83 Pour Bliesbruck, Petit et Brunella 2005, 141-143 ; plus généralement Kaiser et Sommer 1994, 309-313. 84 Polfer 2004. 85 Petit et Albrecht 2005 ; Demarolle et Petit 2009. 68 69
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Les agglomérations secondaires antiques de la cité de Mediomatriques (province de Gallia Belgica) et leur devenir au Moyen Âge
un centre public. A Bliesbruck, l’organisation de la place centrale se caractérise plus par sa fonctionnalité et son pragmatisme que par le souci d’orthogonalité mais s’inscrit néanmoins dans une réelle scénographie urbaine86.
le long des voies sur lesquelles elles ouvrent par leur petit côté bordé d’un portique. Elles peuvent être mitoyennes, accolées ou séparées par d’étroits passages, les ambitus et leur largeur varie en général entre 6 et 12 m et peut atteindre 13-14 m de façade. Ces maisons s’inscrivent dans une trame constituée de parcelles rectangulaires perpendiculaires à la voie ou parfois légèrement obliques. Les cas bien étudiés de Bliesbruck et de Schwarzenacker montrent que l’architecture des quartiers se caractérise par une amélioration progressive du cadre de vie, par une place progressivement plus importante dédiée aux activités économiques et par la quasi-généralisation de certains éléments de confort et de luxe (pièces chauffées par le sol, enduits peints….) qui sont aussi des symboles de la culture des élites romaines91. Ces cas montrent aussi qu’au sein de ce tissu urbain peuvent se fondre des lieux de réunion d’associations professionnelles ou culturelles, des scholae si l’on utilise le terme donné par un certain nombre d’inscriptions. De telles associations constituaient un phénomène urbain mais leurs lieux de réunion sont difficiles à repérer en l’absence d’inscriptions92.
A Senon le centre public se développe en forme de L, d’un côté un vaste sanctuaire, de l’autre un théâtre associé sans doute à des thermes. L’existence de ces centres publics à Bliesbruck et Senon pose la question du statut de ces agglomérations (vicus ?) Senon est liée au groupement d’Amel qui s’est développé autour d’un sanctuaire associé à un théâtre et à des thermes. L’organisation d’ensemble met en valeur le lieu de culte qui occupe une position centrale et pourrait avoir été à l’origine du développement de l’agglomération87. Des associations similaires (agglomération et agglomération-sanctuaire) pourraient exister à Bliesbruck, à Schwarzenacker et au Herapel s’il s’avérait que l’agglomération88 se trouve en bord de la voie Metz-Worms au pied de la hauteur (cf supra) qui elle accueillerait un grand sanctuaire.
La présence des élites
Ces considérations pourraient suggérer89 une sorte de hiérarchie entre les sanctuaires, les plus importants comme Tarquimpol ayant eu un rayonnement couvrant la cité ou un espace territorial large alors qu’à SenonAmel, Schwarzenacker-Wörschweiler, BliesbruckReinheim, peut-être au Herapel, le rayonnement du sanctuaire couvrait peut-être surtout le territoire de l’agglomération. Pour Tarquimpol, l’éloignement du chef-lieu aurait donné naissance à une ville-sanctuaire.
Si les élites ne sont pas présentes directement dans les agglomérations, elles le sont à proximité dans les grandes villae qui sont du type à « pavillon multiples latéraux ». A Bliesbruck, cette présence est particulièrement remarquable puisque l’agglomération partage la vallée avec la villa de Reinheim dont le porche d’entrée est très proche des dernières maisons. Cette proximité reste un cas unique. Schwarzenacker est associée à la grande villa de Bierbach, située à 2,5 km, dont on connait essentiellement le bâtiment principal fouillé au XIXe s.93. Sur l’axe de la résidence, à une dizaine de mètres du portique était établi un mausolée, un édicule en baldaquin abritant la statue du défunt94. Pour Sarrebruck, une villa est attesté à 2 km sous l’église dédiée à Saint-Arnoul dont la fondation remonte au début du VIIe s. Pour Sarre-Union, la grande villa la plus proche est celle Mackwiller éloignée de 5 km95. A 500 m de l’établissement a été découvert dans une carrière de grès, utilisée anciennement et rouverte au XIXe s., un mithraeum élevé par un eques. Il pourrait s’agir d’un procurator, chargé de l’exploitation de ce site d’extraction, peut-être intégré au fundus de la villa et dont le
L’habitat A l’exception de Tarquimpol, où est peut-être attestée une domus, les élites ne sont pas présentes directement dans les agglomérations secondaires. La forme d’habitat la plus courante présente est, comme dans d’autres régions de la Gaule du Nord et des Germanies la maison longue90 dont le concept peut-être résumé par la formule « habiter et travailler sous le même toit » car elle réunit en une même unité des espaces à vocation artisanale et commerciale et des pièces d’habitation et de séjour. Il s’agit de maisons rectangulaires allongées, souvent à étage, complètement couvertes, alignées
Petit et Santoro 2016. Ritz 2017, 31. 88 Kaurin et Dub 2016, 134-135. Elle pourrait alors correspondre au vicus qui serait attesté par l’inscription, une dédicace à Tibère qui n’a pas été retrouvée en contexte. La précocité de cette inscription a toujours posé question. Celle-ci se pose différemment aujourd’hui au vu des recherches récentes qui suggèrent l’existence d’une agglomération à la fin de l’époque gauloise et une occupation importante à l’époque augustéenne. 89 Guyard et al. 2015. 90 Kaiser et Sommer 1994, 309-313. 91 Petit 2017. 92 Gros 1997, 214-221; Ebnöther 2008. 93 Kolling 1968. 94 Demarolle 2004, 139. 95 Nüsslein 2012, 89-98. 86 87
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro matériau, du grès, a eu une diffusion lointaine96. A 4 km de Sarrebourg-Pons Saravi est établie la villa de SaintUlrich dont la résidence accuse à partir du IIe s. un plan méditerranéen97 (cryptoportiques, cours à péristyle) alors qu’à Vaudoncourt, les prospectons géophysiques ont révélé la présence d’une villa à pavillons latéraux alignés98 établie à 2 km de Senon. Une grande villa qualifiée de résidentielle est également attestée à 2 km du Herapel99
en bois datés de la seconde moitié du IVe et de la première moitié du Ve s.105. Le promontoire du Herapel est fortifié dans l’Antiquité tardive et occupé jusqu’à la fin du IVe/première moitié du Ve s.106. La plupart des chercheurs ont considéré qu’il s’agissait d’une enceinte périphérique de 12 ha barrée à l’est par un mur muni de tours et d’une porte107. L’existence de cette fortification périphérique a été remise en cause récemment et remplacée par celle d’un simple fortin de 1,5 ha occupant la partie nord du promontoire108. Pourtant E. Huber, le fouilleur de la fin du XIXe s., est catégorique sur l’existence de ce rempart périphérique dont un tronçon a été dégagé au sud109. La nature de l’occupation dans l’enceinte n’est pas connue mais une quantité significative de militaria y a été découverte. La nécropole a livré trois tombes à armes et six à ceinturon avec boucles à têtes animales stylisées110.
LES AGGLOMÉRATIONS SECONDAIRES MÉDIOMATRIQUES DANS L’ANTIQUITÉ TARDIVE : QUELQUES RÉFLEXIONS Au cours du IVe s., à une date non connue, Verdun, protégé par une enceinte qui englobe une superficie de 7ha, devient le chef-lieu d’une cité couvrant la partie occidentale de celle des Médiomatriques100, avant de devenir cité épiscopale à la fin du IVe début du Ve s. Metz, cité épiscopale dans le dernier tiers du IIIe/début du IVe s. est entouré d’une enceinte longue de 3,5 km qui délimite une superficie de 55 ha101. Une première fortification mise en évidence par les fouilles de 2006/2007 et qui répond sans doute à une logique d’urgence, était constituée par le grand amphithéâtre ceint après le milieu du IIIe s. d’un vaste fossé large de 8 m et profond de 4 m102.
Trois autres agglomérations secondaires sont protégées par des forts ou des fortins. Senon est protégé par un castellum, une enceinte quadrangulaire111 possédant peut-être une tour à chaque angle. Pour le reste les données indiquent une rétraction de l’occupation qui se concentre aux abords de la place publique et du fortin. Mais il faut rester prudent car les surfaces réellement fouillées sont très faibles. A Amel, en revanche les découvertes superficielles suggèrent une occupation de l’ensemble du site jusqu’au moins au troisième quart du IVe s.
Les trajectoires des agglomérations secondaires dans l’Antiquité tardive Aucune agglomération nouvelle n’est créée dans l’Antiquité tardive et seuls les sites routiers de la partie occidentale liés à la production de céramique semblent abandonnés.
A Scarponne est établi un fort de plan en forme de parallélogramme (côtés 107 m, 70 m, 93 m, et 77 m) avec des tours aux angles et au milieu des quatre côtés112. Les données archéologiques attestent la présence de constructions et de niveaux d’occupation dans la fortification mais aussi à l’extérieur. De nombreuses inhumations113 (parmi lesquelles une tombe à armes) ont livré en abondance verrerie et céramique d’Argonne.
Tarquimpol103 est doté d’une enceinte de 12 ha, de plan quasi-pentagonal édifiée après le milieu du IVe s., et constituée d’une levée de terre tenue sans doute par une courtine. Elle est rythmée par des tours et entourée d’un double fossé et dans laquelle sont attestés des niveaux d’occupation104 et des vestiges de constructions
Demarolle 1999. Lafon 2004. 98 Ritz 2018. 99 Hoffmann 1995, 17-18. 100 La première attestation de la civitas Verodunensium est dans la Notitia Galliarum, V, 4. 101 Flotté 2005. 102 Gama 2014. 103 L’agglomération est nommée dans un récit d’un épisode militaire en 356 relaté par Ammien Marcellin (Ammien Marcellin, Histoire, XVI, 2, 9-13). 104 Henning et McCormick 2018, 152 ; l’abondance des caboches provenant de souliers ferrés suggère la présence de militaires. 105 La fin de l’occupation est aussi marquée par la présence d’un dépôt d’outils métalliques et de vaisselle en bronze. 106 Les monnaies les plus tardives sont d’Honorius et d’Arcadius. 107 Georges-Leroy, 1997, 68-69. 108 Legendre 2016, 456-457. 109 Huber 1907, 212-269 110 Voir Hoffmann 1998 ; Legendre 2016, 476-477 pour une présentation synthétique. 111 Voir en dernier lieu Ritz 2017, p. 27-28. 112 Voir Massy 1997, 125-126 et Legendre 2016, p. 460-461. 113 Legendre 2014, 480-481. 96 97
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A Sarrebruck114 le castellum (0,66 ha) est établi à l’extrémité de l’agglomération directement sur la voie Metz-Strasbourg, au bord de la rivière Sarre dont il contrôle le passage. Les tours rondes suggèrent une construction du type Jünkerath, Köln-Deutz, Neumagen ou Zürzach mais les données de fouilles indiquent que la construction est postérieure au milieu du IVe siècle. Le mithraeum qui domine la fortification est en usage jusqu’à la fin du IVe siècle.
dans l’autre, les maisons sont réhabilitées ou reconstruites mais des transformations touchent les pièces chauffées par hypocauste ou les sous-sols, qui sont réutilisés, transformés partiellement ou remblayés. Les techniques de construction romaines continuent d’être utilisées de manière localisée. Le centre public a perdu partiellement ou complètement sa fonction : basilique et fontaine monumentale sont démantelées ou en cours d’arasement et le bâtiment thermal a alors peut-être perdu sa fonction balnéaire publique. Des transformations marquées surviennent au cours du troisième quart du IVe s. L’occupation se restreint à la partie centrale dominée par le complexe des thermes publics. Des bâtiments sont abandonnées, d’autres transformés par des constructions sur poteaux de bois ou utilisant des matériaux de remploi. L’occupation, qui se poursuit jusqu’au milieu du Ve s., se caractérise par une forte activité artisanale, en particulier le travail des alliages cuivreux à partir de métal de récupération, par la diffusion importante de céramique d’Argonne et de l’Eifel ainsi que par la circulation de nombreuses monnaies dont une proportion remarquable de l’extrême fin du IVe et du Ve s. La découverte d’objets de parure et de militaria, dont certains présentent des caractères « germaniques » ou « orientaux », pose également la question d’une présence militaire.
Un dernier site est fortifié, Nomeny, mais la fortification qui entoure l’agglomération au sud et à l’ouest reste mal connue. Elle se compose de deux fossés à profil en V large de 6,80 m séparés par une berme. A l’intérieur un alignement de poteaux est disposé parallèlement au fossé à 1 m du bord. La majorité des autres sites a priori non protégés sont occupés au IVe siècle115. Les données archéologiques l’attestent à Marsal, Manheulles, Corny-sur-Moselle, Delme, Mars-la-Tour, Hettange-Grande ainsi que Lavoye, Avocourt, Pont-Verdunois et la Pierre-à-Villé, mais les modalités de ces occupations sont mal connues. A Sarrebourg l’occupation tardive se concentre autour de la voie principale et dans la partie sud-est de l’agglomération sur une surface de 4 ha. Un petit espace public116 occupé dans le dernier quart du IVe et le premier quart du Ve s. a été fouillé récemment. Le mithraeum établi dans un secteur périphérique est fréquenté tout au long du IVe s., tout comme la nécropole située à l’est qui a livré 87 inhumations117. Les fouilles ont livré quelques militaria. A Sarre-Union, l’occupation n’est attestée que jusqu’au milieu du IVe siècle, mais seuls les quartiers en périphérie ont fait l’objet de véritables fouilles.
Agglomérations secondaires et réseau routier dans l’Antiquité tardive
L’agglomération de Schwarzenacker118 est encore dynamique dans l’Antiquité tardive. Le réexamen de la documentation ancienne indique une réoccupation significative des quartiers artisanaux et les fouilles plus récentes montrent partout une occupation qui va jusqu’au moins la fin du IVe s.119, en particulier dans le sanctuaire.
Ce sont bien sûr les fortifications qui apparaissent le mieux. Leur répartition montre l’importance du réseau des voies principals. Tarquimpol avec son enceinte de 12 ha qui précède sur la route allant de Metz à Strasbourg le castrum de Saverne (7 ha) au-delà du passage du col de Saverne, dans la Germania Superior ; Scarponne sur l’axe sud-nord. Cette répartition met également en valeur la voie Metz-Worms avec le Herapel et Sarrebruck ainsi qu’un axe allant de Metz vers les Trévires en passant par Senon et Saint-Laurent-sur-Othain, à la limite de la cité du Verdunois et de celle de Trèves. Alors que toutes les autres fortifications sont datées postérieurement au milieu du IVe s., ces deux dernières sont datées de la fin du IIIe s.
A Bliesbruck les modalités de l’occupation sont mieux connues. Après les difficultés de la fin du IIIe s. l’agglomération se transforme profondément120. La structure urbaine est globalement conservée mais l’occupation est très contrastée : un quartier est abandonné ;
L’axe sud-nord des vallées de la Sarre et de la Blies, Sarrebourg, Sarre-Union, Bliesbruck puis Schwarzenacker vers Worms ou Sarrebruck et PachtenContiomagus (Trévires), vers Trèves, semble également privilégié. Seuls Sarrebruck et Pachten-Contiomagus
En dernier lieu Huber 2014. C’est sans doute le cas de ceux indiqués dans les Itinéraires. 116 Il s’agit d’une petite place en forme de fer à cheval d’une superficie de 250 m2 jouxtant une rue. A l’ouest en limite de fouilles a été exploré partiellement un bâtiment construit en pierre et comportant du côté de la petite place une galerie soutenue par des poteaux en bois. 117 Meyer 2016. 118 Antonelli et Petit, en préparation. 119 Kell 2010. 120 Antonelli et Petit 2017. 114 115
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro autres sites d’agglomérations, leurs ruines ont sans doute marqué le paysage encore longtemps comme cela est particuliètrement bien documenté à Bliesbruck où elles ne disparaissent totalement qu’à partir du XVIIe siècle131.
sont dotés d’un fort en l’état des recherches mais les découvertes de militaria suggèrent l’existence d’une telle installation à Bliesbruck et Sarrebourg. Une ligne de sites de hauteur souvent fortifiés est aussi établie dans la zone montagneuse entre Médiomatriques et Triboques : au nord Waldfischbach, Lemberg, SchönauMaimont121 dans le Palatinat, au sud Haselbourg (Moselle) et Wustenberg (Bas-Rhin)122. D’autres sites de hauteur sont attestés à Völklingen dans la vallée de la Sarre et en Argonne : Grandpré, Châtel-Chéhéry, Vauquois et Sainte Menehould.Ce type de site est particulièrement bien représenté dans le Hunsrück-Eifel. Leur organisation interne et la nature de l’occupation sont la plupart du temps mal connus123, mais ils ont souvent livré du mobilier militaire. Leur trajectoire n’est pas identique, occupés entre la fin du IIIe et le milieu du Ve s., parfois pendant des durées courtes124. Plusieurs interprétations ont été proposées. Les recherches tentent de distinguer ceux qui entretenaient un rapport avec la sphère militaire de ceux qui abritaient un habitat ou servaient simplement de refuge et de déterminer la nature de l’implication de la puissance publique et des élites locales dans ces installations défensives125.
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Le devenir des agglomérations au Moyen Âge La fin de l’Antiquité tardive et le devenir des agglomérations dans la deuxième moitié du Ve siècle et au haut Moyen Âge126 restent mal connus. Comme l’a montré Jean-Luc Fray127, outre les cités épiscopales Metz et Verdun qui dominent le paysage urbain par la monumentalité de leurs bâtiments et les nombreux monastères, seules quelques agglomérations secondaires gallo-romaines constituent encore des lieux centraux : Sarrebourg qualifiée de Castrum Saraburgum en 713 dans une charte de l’abbaye de Wissenbourg128 ; Scarponne qui devient le chef-lieu du pagus scarponensis129 ; Marsal, associée à Moyenvic et Vic-sur-seille où les ressources en sel sont exploitées à grande échelle130, D’autres lieux gardent ou retrouvent leur fonction centrale, parfois avec un déplacement du noyau urbain par rapport à l’époque romaine. A Sarrebruck un château est construit au IXe siècle, mais Castellum sarabrucca ne devient une agglomération qu’au XIIe siècle. SarreUnion/Bouquenom est une agglomération de faible importance, chef-lieu de comté vers 1100 alors qu’à Amel un prieuré est à l’origine d’une agglomération mentionnée pour la première fois en 959. Pour les
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Hunold 2011. Meyer 2017, 213-220. 123 Brulet 2008 ; Brulet 2017a, 137-138. 124 Voir les cartes par période chronologique dans Hunold 2011. 125 Voir Brulet 2008 ; Brulet 2017a, 137-138 ; Hunold 2011 ; Prien et Hilbich 2012. 126 Le cadre de cette contribution ne permet pas de présenter l’évolution des agglomérations secondaires au haut Moyen Âge 127 Fray 2006. 128 Doll et Glöckner 1979, charte 247. 129 Fray 2006, catalogue n° 136 pour l’ensemble des sources ; Massy 1997. 130 Hiegel 1981. 131 Clemens et Petit 1995. 121 122
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600
P. Brunella, J.-P. Petit
Les agglomérations secondaires antiques de la cité de Mediomatriques (province de Gallia Belgica) et leur devenir au Moyen Âge
Mer du Nord
GE RM AN IA IN FE R IO R
MEN
Castellum M.
MOR Taruenna
NRV Nemetacum Bagacum
ATR AMB Samarobrivra
Augusta Vir.
VIR
GALLIA BEL GIC A REM Augusta S.
BEL
Caesaromagus
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SUE
Augusto-
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GALLI A LU GD UN EN S IS 50
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100 km
IPP A
sel
Via d'A
GR
re
Mo
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M
Vers Trèves
le
Fig. 1. Carte de la Gaule Belgique au Haut-Empire (document ABG).
Vers Mayence
Hettange Grande Senon
Pierre-à-Villé
Yutz
Blickweiler Boucheporn
METZ
Mars-la-Tour Manheulles
Hérapel Cocheren
Nomeny
IP 'A
GR
Marsal
Agglomération probablement urbaine Site routier sans équipement urbain c Site routier en relation avec des ateliers de production céramique, en particulier sigillée
Sarrebourg
Vi ad
Agglomération urbaine
Vers Dijon
Sarre-Union
Tarquimpol
Delme
PA
Scarpone
Bliesbruck
ChémeryEincheville c
Corny
Lavoye
c
Grostenquin
Site incertain
Schwarzenacker
Eschweiler-Hof Sarrebruck
0
50
Fig. 2. La cité des Médiomatriques au Haut-Empire (DAO Philippe Brunella).
601
Vers Strasbourg
100 km
Rh in
Avocourt Pont Verdunois Verdun c Vers c Reims Aubréville
Florange c Daspich
Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 3. L’agglomération de Tarquimpol au Haut-Empire. Plan d’interprétation des prospections géophysiques (Henning et McCormick 2018).
Fig. 4. L’agglomération gallo-romaine de Bliesbruck dans la première moitié du IIIe s. (document Conservation départementale d’archéologie de la Moselle).
602
Fig. 5. Le site de Bliesbruck-Reinheim à l’époque romaine (DAO : Benoit Lagache , Conservation départementale d’archéologie de la Moselle). 1. grande villa ; 2, 4 et 7. nécropoles ; 3. agglomération secondaire ; 5. habitat rural romain ; 6. ferme romaine ; 8. grand établissement romain, sanctuaire ? ; 9. bâtiment cultuel de La Tène D1 ; 10. Sanctuaire ? ; 11. temple ?
Fig. 6. Plan général de l’agglomération de Senon-Amel (Ritz 2017).
Fig. 7. L’agglomération de hauteur du Herapel : 1, 2. Bâtiments ; 3. bâtiments et thermes ; 4. temple octogonal à plan centré. Le Herapel et son environnement : A. nécropole de Morsbach ; B. nécropole sur le site de hauteur ; C, F. habitats ; D. tronçon de voie ; G. villa. D’après Hoffman 1998, Kaurin et Dub 2017 et Chevaux et al. 2016.
603
PP A d'A GR I
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eu
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M
Vers Trèves
Via
Vers Mayence
Hettange Grande
Schwarzenacker Sarrebruck
Senon
Hérapel Cocheren
METZ Manheulles Mars-la-Tour
Corny Grostenquin
Sarre-Union
Nomeny Scarpone
Vers Dijon
in
d'A GR IP PA
Site occupé
Tarquimpol
Delme Marsal
Sarrebourg
Vi a
Site dotée d'une fortification
Bliesbruck
0
50
Vers Strasbourg
Rh
Avocourt Pont Verdunois Vers Reims Aubréville Verdun Pierre-à-Villé Lavoye
100 km
Fig. 8. La cité des Médiomatriques dans l’Antiquité tardive (DAO Philippe Brunella).
Fig. 9. L’agglomération de Tarquimpol dans l’Antiquité tardive. Plan d’interprétation des prospections géophysiques (Henning et McCormick 2018).
604
Simonetta Menchelli
Insediamenti maggiori e insediamenti minori nella complessità dei paesaggi antichi: le vallate dei fiumi Tenna, Ete ed Aso (Piceno meridionale) Abstract: This paper deals with the ancient landscapes in the Tenna, Ete and Aso River Valleys in South Picenum, a district extending from the Adriatic Sea to the Sibillini Mountains and characterized by different settlement patterns. The main centres were, along the cost, Firmum Picenum (Fermo) a Latin colony founded in 264 BC and Novana, corresponding to the presentday Comunanza, at the foot of the Sibillini Mountains, which was a forum (3rd-2nd cent BC) and later became a municipium mentioned by Pliny. The “Romanization” process appears to have been carried out with a flexible approach by adapting to varied geomorphological peculiarities and developing the economic potentialities of the territories: mainly the specialized production of wine and olive oil in the coastal area and “industrial” breeding in the inland district. In addition to the main centres, villae and farmsteads scattered in the countryside, sanctuaries, harbours and ports of call, road stations and ephemeral sites contributed to modelling the complexity of the ancient landscapes.
precedenza “fluttuante”4 e infine menzionata da Plinio come municipium 5 (Fig. 1).
Le modalità dell’insediamento e i processi di “romanizzazione” 1, in Italia e nelle provincie, costituiscono uno dei molti campi di indagine analizzati da Sara con la Sua multiforme, gioiosa ed instancabile acribia, e dunque su questo argomento presenterò alcune considerazioni che molto si sono avvalse delle Sue ricerche2.
Le fasi della “romanizzazione “di questo settore del Piceno trovano chiaro riscontro in quanto documentato a livello regionale, come dimostrano i risultati delle molte équipe che qui hanno effettuato, o ancora hanno in corso, progetti di ricerca sul campo6. Evidentemente preceduto da intensi rapporti commerciali e culturali di fine IV-inizi III sec.a.C.7 , a partire dal 268 a.C l’avanzata dei Romani nel Piceno e nel confinante Agro Gallico, che implicò anche la deportazione di una piccola parte di Piceni in Campania, venne effettuata mediante foedera con i centri di maggiore rilevanza (Ancona, Camerinum , Asculum) e la fondazione di colonie latine o romane lungo la costa, e di centri di servizio nelle aree interne appenniniche, che costituissero punti di controllo per la viabilità e poli aggregativi per mercati, raccolta delle tasse e amministrazione della giustizia8.
I dati derivano dal Pisa South Picenum Survey Project II, progetto interdisciplinare integrato, di studi urbanistici e territoriali, relativo alle vallate dei fiumi Tenna, Ete ed Aso, nel Piceno meridionale3. La prospettiva del progetto è diacronica, dalla Preistoria al Medioevo, ma in questa sede focalizzerò l’attenzione sul periodo compreso fra il IV-III sec. a.C. (la fase della conquista romana) e l’età tardo-imperiale. Questo distretto, analizzato dal mare Adriatico ai Monti Sibillini, presenta peculiarità geo-ambientali molto diversificate e, di conseguenza, differenti interazioni si vennero a costituire fra uomo e ambiente, determinando, nell’arco di tempo sopra specificato, diversi paesaggi e diverse tipologie di insediamenti, i maggiori dei quali furono, sulla costa, Firmum (colonia latina del 264 a.C.) e nell’interno Novana (fine III-II sec. a.C.), in corrispondenza della moderna Comunanza, di statuto in
Tutto questo sistema insediativo venne progressivamente inserito in una salda rete infrastrutturale, di porti e di strade (la via Salaria, con le derivazioni Salaria Gallica e Salaria Picena, e la via Flaminia) fra loro interconnessi9.
1 Con questo termine intendiamo il complesso fenomeno politico, economico, sociale, che si realizzò con esiti differenziati ( acculturazione in senso romano , self-romanization, creolisation ) nei vari contesti territoriali del mondo antico. Sull’argomento la bibliografia è enorme, vedi da ultimi Woolf 1998, Revell 2009, Mattingly 2011, Versluys 2014. 2 Vedi ad esempio Santoro 2017a, 2017b, 2017c. 3 Su cui cfr. Pasquinucci e Menchelli 2004; Menchelli 2012; Menchelli e Iacopini 2016; Menchelli e Iacopini 2017. 4 Sulle “fluttuazioni “diacroniche degli statuti giuridici e sull’impossibilità dell’identificazione delle diverse realtà amministrative soltanto mediante i dati archeologici vedi Santoro 2017c, 385-387. 5 Plin., HN. 3.11. 6 Si tratta di indagini articolate di lungo periodo, dovute a ricercatori di Università italiane (Macerata, Bologna, Pisa) ed europee (Ghent, Oxford): vedi la dettagliata sintesi delle attività in Vermeulen 2017, 29-31. 7 Ormai ampiamente documentati in numerosi distretti del Piceno, ad esempio ad Ariminum, Sena Gallica, Suasa, Aesis, Pollentia, Asculum, vedi la sintesi in Mazzeo Saracino 2013, 357-389; Mazzeo Saracino e Morsiani 2014, 521-529. Sul problema Menchelli e Iacopini 2017, 222-223. 8 Bandelli 2007, in particolare 1-11; Marengo, Antolini e Branchesi 2008; Capogrossi Colognesi 2012. 9 Alfieri, Gasperini e Paci 1985; Catani e Paci, 1999; Catani e Paci 2000 (eds.); Menchelli 2012, 149-152; Vermeulen 2017, 70-73.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro dovevano essere 4000, in ogni caso in un numero compreso fra 2,500, 4,000 o 6,000 perchè questi sono i numeri delle colonie latine di IV-III sec.a.C.18.
Massicci arrivi di coloni si dovettero registrare a seguito della lex de agro Gallico (et) Piceno viritim dividundo fatta approvare nel 232 a.C. da Gaius Flaminius, secondo Cicerone contra senatus auctoritatem 10. L’areale di applicazione di questa legge è stato oggetto di ampia discussione11, in particolare se comprendesse soltanto l’ agro Gallico Piceno, cioè l’ ager Gallicus ubicato nella regione picena, come autorevolmente sostenuto12 oppure anche l’ ager Picenum vero e proprio, cioè la parte estesa a sud del fiume Esino. Gli studi più recenti, alla luce appunto dei dati archeologici ed epigrafici emersi dalle ricerche territoriali13, delineano una più ampia applicazione di questa legge, con i distretti montuosi interni progressivamente inseriti nel sistema politico ed economico romano a partire dalla fine del III-inizi II sec.a.C.
Questo forte impatto di presenze antropiche dovette registrarsi sia nel centro urbano che nelle campagne, con percentuali non determinabili19 : per il popolamento cittadino non abbiamo dati quantitativi, mentre è documentato dalle indagini sul campo un notevole aumento di unità insediative rurali a partire dalla seconda metà del III sec. a.C. Tali fattorie “coloniali”, indiziate sul terreno da concentrazioni di circa 600 mq20, ovviamente caratterizzate da materiali di provenienza o derivazione campano-laziali , si diffusero in aree altamente strategiche, ad esempio nel suburbium meridionale di Firmum, lungo la principale via di percorrenza fra la città ed il suo porto (Castellum Firmanum, vedi oltre) e nella media valle del Tenna (Comune di Grottazzolina), in un distretto caratterizzato da una forte preesistenza picena.
Nelle vallate del Tenna, Ete ed Aso, si coglie chiaramente il processo di “romanizzazione” : sulla costa venne fondata la colonia latina di Firmum, ubicata sul colle del Girfalco (320 m s.l.m, a circa 6 Km dal mare) (Fig.2 ) che risulta già occupato a partire dall’età del Bronzo, e poi da un importante abitato piceno, interpretabile come il central place di un fitto popolamento rurale, individuato almeno a partire dal V-IV sec.a.C., organizzato in un sistema di siti satellite, insediamenti minori e singole unità abitative/produttive14. Data l’ininterrotta continuità di vita sino ai nostri giorni, la topografia di Firmum è difficile da ricostruire, soprattutto per quanto riguarda la fase iniziale della colonia e suoi rapporti con l’abitato preesistente, ma l’intervento di Roma è ben documentato nella cinta muraria in opera quadrata, in blocchi di arenaria, che si conserva in alcuni settori della città, e che doveva racchiudere un’area di circa 12 ettari15. Molto probabilmente risale al primitivo impianto coloniale anche la rete di cuniculi che svolgeva una funzione imprescindibile nel rifornimento idrico cittadino16.
Evidentemente la città ed il suo territorio costituivano un sistema integrato, per cui il controllo delle principali vie di percorrenza e delle aree fittamente populate dai Piceni venivano ad essere operazioni necessarie per la colonia e per i suoi coloni, sia che vivessero in città o nelle campagne. Oltre che delle fattorie coloniarie in questo distretto si registra uno sviluppo di siti caratterizzati dalla compresenza di materiali tardo-piceni e campano-laziali, interpretabili come insediamenti di “indigeni” che stavano acquisendo stili di vita romani21. Anche se non possiamo ben enucleare il processo di integrazione fra gli abitanti preesistenti e i coloni22, è documentato sul terreno un notevole incremento del popolamento sparso nelle campagne, di fattorie coloniali e di siti piceni “romanizzati” che, a partire dal III sec. a.C. , oltre alle sommità collinari andarono ad occupare aree precedentemente non insediate, cioè i terrazzi lungo pendii a quote inferiori23.
La scelta della collina del Girfalco fu altamente strategica perchè la città veniva a controllare i percorsi marittimi, ai fini militari e commerciali, e la vicina Asculum17, e le vie di percorrenza di fondovalle ed un ampio e fertile territorio che dall’alta collina scendeva verso il mare. (Fig.3). Secondo T.J. Cornell i coloni dedotti a Firmum
L’impianto coloniale, come è noto, prevedeva interventi di messa in valore del territorio, con bonifiche, disboscamenti, regimazione delle acque e potenziamento della viabilità : tali operazioni nell’agro fermano sono
Cic. Cato. 11. Oltre che in questo passo la legge è ricordata in Cic. Inv. II 52; Cic., Brut. XIV. 57; Plb. Hist. II, 21, 8. Sisani 2007, 129-139; Marengo 2012; Raggi 2014, 85-88. 12 Gabba 1979, 161, nota 3. 13 Vedi ad esempio Moscatelli 1985; Paci 1998; Bandelli 2007, 13-20; Vermeulen 2012, 332; Fabrini 2013, 179, nota 7; Campagnoli e Giorgi 2014, 545-546; Menchelli e Iacopini 2016, p. 6., nota 43; Vermeulen 2017, 70-71. 14 Ciuccarelli 2013, 409-417. 15 Pasquinucci 1987, 112-156; van Limbergen-Vermeulen 2017, 176. 16 Pasquinucci 1987, 319. 17 Su cui vedi Raggi 2014, 87. 18 Cornell 1995, 381. 19 Il rapporto fra città e campagna per l’insediamento dei coloni è di annosa discussione, vedi ad esempio Garnsey 1979-80. Ugualmente molto difficoltosa è la comparazione fra i dati presentati dalle fonti letterarie e quelli risultanti dai survey (sull’argomento cfr. Pelgrom 2013). 20 Circa le stesse dimensioni riscontrate nelle fattorie coloniarie di Novana, vedi oltre nota 57. 21 Menchelli 2012, 50-53; Menchelli, Iacopini 2017, 222-223. 22 Vedi bibliografia citata a nota 1. 23 Menchelli 2012, 50. 10 11
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S. Menchelli
Insediamenti maggiori e insediamenti minori nella complessità dei paesaggi antichi: le vallate dei fiumi Tenna, Ete ed Aso (Piceno meridionale)
percepibili in alcuni settori24, ma nel complesso la coeva centuriazione risulta poco conservata25 , con tutta probabilità a causa della continuità di vita e dei cambiamenti delle strutture agrarie che ben presto, nel corso del II sec.a.C., portarono al paesaggio delle villae, vocate alla produzione specializzata di vino, olio ed olive da tavola26, accanto alle quali comunque coesistevano le fattorie e i siti rurali minori.
Già ho avuto modo di trattare, in un Convegno organizzato da Sara, le caratteristiche generali del popolamento fermano che, dall’età repubblicana al tardo-antico, risulta organizzato in un sistema gerarchico con evidente interdipendenza dei siti31. Integrate con le funzioni di Firmum, centro politico ed amministrativo, erano infatti le attività degli agglomerati secondari : innanzittutto il suo porto (Castellum Firmanum) e la rete degli approdi minori, e poi il santuario di Monterinaldo32, i vici, le mansiones (di cui una in prossimità della foce del Tenna, forse identificabile con la Tinna citata nella Tabula Peutingeriana ). E poi i centri manifatturieri, e il popolamento sparso nelle campagne -le villae, villulae aedificia, tecta, praedia, agri, casae, tuguria citate nelle fonti antiche33- che, alla luce dei dati delle ricognizioni, abbiamo cercato di ricondurre a categorie (piccolo insediamento rurale, fattoria, villa), consci di semplificare realtà assai complesse e di appiattire in una definizione fenomeni storici spesso in evoluzione34. Inoltre, bisogna considerare gli insediamenti stagionali o comunque precari, solitamente poco percepibili alla ricerca archeologica (se non con l’analisi degli off-sites)35, ma che possono essere indizio di importanti attività economiche, come quelle silvo-pastorali, infatti documentati a Firmum da fonti epigrafiche36.
Ulteriori trasformazioni si registrarono, nella città e nel territorio, negli ultimi decenni del I sec.a.C., quando vennero dedotti i veterani della legio IV Macedonica di Cesare ed il territorio fermano fu limitibus triumviralibus in centuriis per iugera ducena adsignatus27 (Fig.4). Le operazioni di centuriazione portarono al recupero dei fondivalle e dei terrazzi inferiori del Tenna, dell’Ete Vivo e dell’Aso, in precedenza meno insediati perché soggetti alla divagazione dei fiumi, con il conseguente fiorire di fattorie capillarmente distribuite nel territorio (99 individuate nel corso del survey) , sia nei fondovalli, sia nei settori collinari, sino a quota 150-180 m s.l.m. (Fig.5) . Oltre al riassetto degli elementi fisici, in questo territorio come nel resto della penisola, ovviamente fu enorme lo sforzo nella riorganizzazione economica e sociale che tenesse di conto delle comunità preesistenti e dei nuovi coloni, con procedure e sviluppi che non siamo in grado di definire localmente, ma per i quali disponiamo, in generale, di numerose fonti letterarie28 e di una vasta bibliografia29.
In tale ricostruzione ipotizzavo che Firmum, oltre ad essere centro di consumo del surplus agricolo e silvo-pastorale prodotto nel suo territorio, fosse anche sede di attività manifatturiere (tessili, metallurgiche; produzione di botti, panieri e ceste), localizzabili soprattutto nel suburbio37. Per questa lettura più ampia e complessa, che superava il paradigma, derivato da M. Weber e M. Finley38, della città antica come esclusivo centro di consumo, in dicotomia con la campagna centro di produzione39, mi sono stati molto utili gli studi di Sara che, a proposito dell’artigianato romano, sulla base di fonti letterarie, epigrafiche ed archeologiche, aveva localizzato una consistente parte delle attività manifatturiere nei suburbia delle città cisalpine40, e che vedeva nei centri minori, nei vici che producevano e consumavano, una realtà intermedia fra città a campagna41.
In età triumvirale augustea anche la città fu oggetto di riorganizzazione: con tutta probabilità si data a questa fase l’ampliamento dell’impianto urbano, con la costruzione di una nuova cinta muraria in grandi blocchi quadrangolari di calcare, che veniva a racchiudere un’area di circa 18 ha. Attribuibili all’età augustea sono anche le due grandi cisterne che evidentemente dovevano garantire le accresciute necessità idriche, mentre altri interventi edilizi sono di difficile definizione archeologica, è certa comunque l’esistenza di un Augusteum , attestato epigraficamente30 .
Menchelli e Iacopini 2017, 223-225. Sulla difficoltà del riconoscimento delle centuriazioni di III-II sec.a.C. vedi Campagnoli e Giorgi 2014, 556 e Menchelli e Iacopini 2018. Su cui vedi van Limbergen 2011; Menchelli e Picchi 2014; van Limbergen D. 2016. 27 Lib. Col. I, I, 226, 9-10= C 177, 20. Menchelli e Iacopini 2018. 28 Naturalmente Virg. Ecl. I e IX; Prop. IV. I. 27 e 127-130; Hor. Ep. II. 2, 49-52. 29 Ad esempio Gabba 1956, pp. 230-231; Gabba 1970, pp. LIX-LXXVIII; Keppie 1983; Rosada 2004. 30 Squadroni 2007, 130-131. 31 Menchelli 2017. 32 Su cui vedi da ultimo Demma 2016. 33 Todisco 2011, 15-17. 34 Per la metodologia seguita nella classificazione dei siti vedi Menchelli 2012, 18-19. 35 Menchelli 2016. 36 CIL IX 5368, menziona collegia di fabri e centonarii su cui cfr. Cristofori 2004, 376-383. 37 Menchelli 2017, 473-475. 38 Weber 1909; Finley 1973. 39 Per la problematica vedi Parkins 1997 (ed.), soprattutto Mattingly 1997. 40 Santoro 2004; Santoro 2006, 165-178. 41 Santoro 2017, 2017b e 2017c; Menchelli 2017. 24 25 26
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro locali nel controllo e gestione delle attività produttive, che dovevano essere di carattere agro-silvo-pastorale, date le caratteristiche ambientali.
Firmum e i siti maggiori e minori del suo territorio dunque erano strettamente interconnessi, così come villae, fattorie e piccoli insediamenti rurali coesistevano, con forme di complementarietà perchè i nativi, i proprietari dei piccoli fondi e gli affittuari potevano costituire una riserva di manodopera per le aziende agricole più grandi42, e ugualmente era documentata dal diritto romano la complementarietà fra attività agricola e manifatturiera43.
Un polo aggregativo già in questi secoli doveva essere nell’area dell’attuale Comunanza, un sito di particolare rilevanza strategica perchè ubicato sull’ampio terrazzo in sinistra del fiume Aso, all’intersezione di due percorsi viari ancora oggi in uso, quello intervallivo, che sarebbe diventato la Salaria Gallica (oggi grosso modo corrispondente alla SP 78 da Ascoli a Macerata) e quello di fondovalle dai Monti Sibillini all’Adriatico (attuale SP 238)49. (Fig. 8).
La società fermana nel suo complesso risulta assai dinamica, con “ cordialità di rapporti” fra le sue varie componenti44, come documenta l’epigrafe della prima età imperiale con dedica congiunta a Quinto Terenzio da parte di coloni et incolae di Firmum Picenum45. Domini, coloni, indigeni, affittuari, mercatores, salariati, liberti, schiavi (questi ultimi con differenziazioni giuridiche all’interno della loro classe : servi vicarii; servi cum peculio etc.) 46 risultano popolare la città e le campagne e questa integrazione delle varie potenzialità è una delle chiavi del successo di Firmum, che conservò l’egemonia sul distretto e su tutte le sue varietà insediative, mantenendo le sue strutture politiche, economiche e sociali per tutta l’antichità, sino all’età longobarda.
Nel centro e alla periferia di Comunanza infatti, a giudicare dalla documentazione conservata presso l’Archivio Soprintendenza Marche, fra il 1940 ed il 1961 vennero rinvenuti resti di numerose necropoli picene, riferibili a “guerrieri”, data la presenza di armi (in particolare spade in ferro)50. Fra queste particolarmente cospicua era la necropoli individuate in loc. Monte della Manovra, costituita da 17 inumazioni maschili, poste su uno strato di ciottoli, con pietre bianche disposte in circolo per sostenere la testa dei defunti, che avevano accanto il loro corredo (corte spade e lance con la punta in ferro)51. Da segnalare che dall’area di Monte della Manovra proviene anche uno spillone di bronzo, riferibile ai tipi ad ombrellino, con cronologia di VIII-VII sec.a.C.52.
Ben diversi sono i paesaggi e la storia di Novana, nel distretto interno, ai piedi dei Monti Sibillini (Tetrica Mons), nelle alte valli dei fiumi Aso e Tenna, che in questa area hanno le loro sorgenti (Fig.6). Plinio (HN. 3.11) cita Novana come municipio localizzandola nel Piceno, ancora più all’interno rispetto ad Asculum : Cupra oppidum, Castellum Firmanorum et super id colonia Asculum, Piceni nobilissima. intus Novana. In ora Cluana. Se il centro antico grosso modo corrisponde con la moderna Comunanza47, il suo territorio è attualmente compreso anche in quello dei Comuni di Amandola, Sarnano e Montefortino: in generale si tratta di una fascia pedemontana, prevalentemente boschiva e a pascolo, mentre ad est sono rilievi collinari più dolci ed adatti all’uso agricolo (Fig. 7).
A fronte di questi cospicui rinvenimenti, le ricognizioni effettuate nelle campagne circostanti hanno permesso di individuare i resti del più modesto popolamento piceno : si tratta di piccoli siti rurali (capanne o case) distribuite in modo capillare, su creste e pianori collinari naturalmente protetti, in quote da circa 370 a 580 m s.l.m. Questi siti sono evidenziati sul terreno da concentrazioni di materiali edilizi (pietre, intonaco di capanna (Fig. 9), tegole e coppi negli insediamenti successivi al VI sec.a.C. 53), contenitori di varie dimensioni, vasi da cucina e per usi vari, tutti manufatti con il caratteristico impasto piceno, cioè a corpo ceramico grossolano, a cottura non controllata e dunque con variazioni cromatiche dal rosso-bruno al marrone-nerastro54.
Per quanto riguarda la fase picena, il rinvenimento di oggetti di particolare prestigio, da tempo noti in letteratura, (ad esempio fibule tipo Montedinove di VII sec. a.C. da Amandola, un deinos bronzeo di V sec.a.C. dalla loc. Piane , sempre in Comune di Amandola)48 costituiscono evidenza del ruolo egemone svolto dalle élites
Materiali romani in questo distretto risultano documentati già fra IV-III sec. a.C., ad esempio i vasi vernice
Menchelli 2012, 163-167; in generale sul rapporto fra il sistema della villa e la peasant economy vedi Launaro 2017, in part. 104-106. Vedi in generale Bodel 2011, 311-361. Gagliardi 2006, 56. 45 Squadroni 2007, 130-131. 46 Vedi ad esempio Squadroni 2007, 141-142 e CIL IX, 5404 (Squadroni 2007, 114). 47 Menchelli e Iacopini 2016. La localizzazione di Novana è stata a lungo dibattuta, per la storia degli studi vedi Bernetti 2009. 48 Naso 2000, 153; 198-200; Ciuccarelli 2012b, 52. 49 Vedi la bibliografia citata a nota 9. 50 Archivio Soprintendenza Archeologica Marche, documentazione fornita da Stefania Cespi in data 27.08.1986, località Bivio Piane, via Dante, via Raffaele Sanzio, località Colle Terme. 51 Archivio Soprintendenza Archeologica Marche, documentazione fornita da Stefania Cespi in data 27.08.1986, via A. Moro. 52 Landolfi 1999, 364. 53 Ciuccarelli 2012a, 92. 54 Menchelli e Iacopini 2016; Menchelli e Iacopini 2017. Per gli impasti Menchelli, Ciuccarelli e Pasquinucci 2011. 42 43 44
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Insediamenti maggiori e insediamenti minori nella complessità dei paesaggi antichi: le vallate dei fiumi Tenna, Ete ed Aso (Piceno meridionale)
nera rinvenuti a Comunanza (coppa Morel 2720; coppa del Gruppo delle “piccole stampiglie”)55, evidentemente precedenti la conquista e dovuti a rapporti culturali e commerciali, come abbiamo visto nell’ ager Firmanus e in molti altri settori del Piceno56.
termali, sono frequentemente connessi alle dinamiche della romanizzazione63. I dati archeologici qui esaminati relativi a Comunanza, e al territorio circostante, trovano riscontro nelle fonti storiche relative all’avanzata romana nell’Italia adriatica, ed in particolare nella lex Flaminia del 232 a.C.64 : a giudicare dai dati emersi dal survey a partire dalla fine III/inizi II sec.a.C. i Romani effettuarono distribuzioni viritane in questo distretto, e come polo aggregativo della nuova comunità di coloni venne scelta l’area di Comunanza, già sede di un abitato piceno dall’VIII-VII sec.a.C., “acculturata” in senso romano fra IV e III sec.a.C. , e in ottima posizione strategica lungo la viabilità principale.
Sono invece chiara evidenza dell’occupazione militare la centuriazione a maglie di 200 x 200 iugera individuata nel terreno a nord-est di Comunanza, fra l’Aso ed il Torrente Tennacola, affluente del Tenna, e le relative fattorie “coloniarie” (nel numero di 42), rinvenute agli angoli delle centuriae e presso gli assi principali ed i limites intercisivi (Fig.10). Si tratta di insediamenti estremamente standardizzati, sia nelle dimensioni ridotte57, sia nell’omogeneità dei manufatti: scarsissimi vasi a vernice nera, più numerosi vasi comuni da cucina, mensa e per usi vari, dolia e grandi contenitori a pareti verticali; la morfologia e le caratteristiche dei corpi ceramici permettono di identificarli come manufatti di importazione tirrenica anche se molto frammentati. Si segnala inoltre la presenza di 24 siti piceni che hanno restituito anche abbondanti reperti di importazione, evidenza del processo di acculturazione in corso58.
Agglomerati come questo, che sopperivano alla mancanza di un centro urbano, nelle fonti venivano definiti vici, conciliabula, fora e successivamente praefecturae e rientrano nella categoria dei “centri minori “ /agglomerations secondaires da tempo oggetto di un fervido dibattito scientifico65 . Per questo abitato, che nella nostra ricostruzione evolverebbe poi nel municipium di Novana citato da Plinio, la mancanza di specifiche fonti letterare o epigrafiche non ci permette una sicura definizione del suo nome e della sua condizione giuridica. L’agglomerato nella fasi più antiche potrebbe aver svolto la funzione di conciliabulum (luogo di incontro e di assembramento66), ed anche può ricevere genericamente la definizione di vicus67 (un insieme di edifici in discontinuità con l’estensione dei campi e con le abitazioni isolate68; in qualche misura fa le veci di una città, ma è privo di mura69 ed è di piccole estensioni70), e quella di forum che ancor meglio si adatta alla sue caratteristiche storico-topografiche.
La fitta presenza di fattorie coloniali nella medesima centuria (almeno 5 a centuria parzialmente indagata) lascia presupporre che, come di norma in questo periodo59, i lotti non fossero particolarmente estesi, e che la proprietà privata venisse integrata con lo sfruttamento dell’ager publicus non assegnato60. Anche nell’area di Comunanza si fece più intensa la presenza romana61, con la diffusa presenza di vasi a vernice nera e di altri materiali di importazione di età tardo-repubblicana. La cronologia iniziale di molti degli edifici romani individuati (domus, necropoli, fornaci), è di difficile definizione, date le modalità degli scavi e dei rinvenimenti, ma ad esempio si data al III sec.a.C. la stipe votiva rinvenuta presso Monte della Manovra, in prossimità di una sorgente di acqua sulfurea62, e come sappiamo i culti salutari legati delle acque, in particolare
I fora infatti, come è noto, venivano costituiti ad hoc da Roma lungo le principali vie di percorrenza, come polo di aggregazione per le attività commerciali e l’amministrazione della giustizia nelle aree ove erano insediati coloni viritani o nell’ambito di comunità già esistenti alle quali era stata attibuita la cittadinanza romana71.
Ciuccarelli 2012b, 52. Vedi sopra, nota 7. Menchelli e Iacopini 2018. Le concentrazioni dei materiali sul terreno sono di circa 600 mq., come per le fattorie coloniali dell’ ager Firmanus, vedi sopra, nota 20. 58 Menchelli e Iacopini 2016. 59 Menchelli e Iacopini 2016; Vermeulen 2017, 77-78. 60 Per questa problematica rimane fondamentale Gabba e Pasquinucci 1979. 61 Già Landolfi (1999) aveva ipotizzato che sul terrazzo in sinistra dell’Aso fosse un vicus di età romana. 62 Ciuccarelli 2012b, 51-52. 63 Ciuccarelli, Menchelli e Pasquinucci 2005; Stek 2014. 64 Vedi sopra nota 10. 65 Sherwin-White 1973, 94-95; Tarpin 2002; Todisco 2011; Capogrossi Colognesi 2012; Brulet 2017; Vermeulen 2017,32. 66 Talora percepito in senso ostile dai Romani perché possibile luogo di raduno delle popolazioni locali: Todisco 2011, 41-52. 67 Vedi in generale Todisco 2011, 12-27. 68 Vicus : genus aedificiorum, Festus , s.v. vicus 502L; Todisco 2011, 20. 69 Isid. Etym. 15.2.12. 70 Isid. Etym. 15.2.11. 71 Todisco 2011, 40-51. 55 56 57
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Come dimostrano i numerosi casi nella Gallia Cisalpina72, e nel Piceno73, i fora per Roma, furono un eccezionale strumento di riorganizzazione dei territori conquistati, e di integrazione con le popolazioni locali, che in qualche modo potevano continuare ad abitare in prossimità delle loro sedi, o comunque di usufruire di un centro di servizi ben collegato lungo le principali vie74.
Un ulteriore Foronovanorum è menzionato in un’epigrafe su una base in marmo greco (Naxos ?), forse destinata a sostenere una statua, rinvenuta reimpiegata nel Duomo di Parma, datata al II sec.d.C. (CIL XI 1059). Si tratta di una dedica ad un personaggio ignoto, dalla lunga carriera militare, patrono della colonia Iulia Augusta Parmensis e dei municipi di Forodruentinorum e di Foronovanorum e dei tre collegia di fabri, dendrophori e centonarii parmensi, gli ultimi dei quali erano i dedicanti84 . Foronovanorum solitamente viene identificato con Forum Novum in Sabina85, ma non manca chi lo connette invece con il municipio di Novana citato da Plinio nel Piceno86.
Nella regione una riassetto, sia urbano che territoriale, è poi documentato in età graccana, con la lex Sempronia la cui applicazione, a giudicare dai Libri coloniarum 75 , consentì la riorganizzazione dei territori di Ancona, Auximum e Numana , e portò alla fondazione di Forum Sempronii, attuale Fossombrone76 e della colonia di Pollentia, che poi diverrà Urbs Salvia77. Anche il territorio a nord-est di Amandola con tutta probabilità fu oggetto di catastazione graccana perchè un cippo gromatico rinvenuto negli anni ‘50 a Cese di Amandola78 è stato recentemente interpretato da S. Sisani come lapis graccano riferibile all’ager di Novana79 e questa datazione, rispetto alla cronologia di età augustea spesso presentata in letteratura80, meglio corrisponde ai risultati delle nostre ricognizioni. Sul terreno si registra infatti un incremento nel popolamento rurale con siti che presentano materiali prevalentemente databili al I sec.a.C., se non prima 81, mentre a partire dall’età augustea non sono attestate nuove fondazioni, anzi con la prima età imperiale gli insediamenti rurali cominciarono ad essere progressivamente abbandonati82.
E’ possibile dunque che questo centro nel corso della sua vita abbia avuto anche lo statuto di forum e, continuando con le fluttuazioni, forse acquisì anche quello di praefectura, poichè, dal punto di vista topografico, di tale distretto montuoso, Novana rappresentava il luogo di raccordo ove meglio i praefecti iure dicundo inviati da Roma potevano svolgere i loro compiti giurisdizionali e, più latamente, di controllo politico e di indirizzo87. Come è noto nel Piceno molte erano le prefetture88, attestate da fonti letterarie ed epigrafiche: secondo G.Paci e S.M.Marengo89, i cittadini romani che in vari settori della regione erano stati destinatari di distribuzioni agrarie venivano amministrati da praefecti, e dopo la Guerra Sociale le relative comunità sarebbero poi passate dalla fase prefettizia a quella municipale90. Un praefectus, peraltro, è attestato nel vicino ager Asculanus: Gnaeus Statius che, intorno alla metà del II sec.a.C., fece costruire una strada diretta da nord della città verso Falerio e Firmum91.
S.Sisani inoltre ipotizza che il nome Novana derivi proprio dalla riorganizzazione graccana, essendo l’epiteto Novum caratteristico di questa specifica fase, come dimostrerebbe la cronologia dei fora nova in Sabina ed Irpinia, in discontinuità con i fora denominati dal gentilizio dei magistrati responsabili della loro costituzione 83 .
Dunque, nel corso della sua lunga storia, questo agglomerato sul terrazzo in sinistra dell’Aso fu sede di un importante insediamento piceno; successivamente, nel corso del processo di acculturazione e poi conquista romana può essere interpretato come un conciliabulum/
Santoro 2017c, 393-397. Vermeulen 2017, 97-105. 74 Vedi quanto osservato da Capogrossi Colognesi 2012, 202-203. 75 Sisani 2015, 291. 76 Vedi da ultimi Luni e Mei 2012. 77 Fabrini 2013, 200-201; Perna 2014. 78 Menchelli e Iacopini 2016, 9-10. 79 Sisani 2015, 29.1 80 Vedi discussione in Menchelli e Iacopini 2016, 81 Menchelli e Iacopini 2017, 233-234. Lo studio approfondito di questi reperti (in particolare ceramica a vernice nera e ceramica a pareti sottili ) è in corso. 82 Menchelli e Iacopini 2016. 83 Sisani 2011, 570-571. 84 Arrigoni Bertini 1993. 85 Vedi anche Sisani 2011, 570. 86 Bottazzi 1997, 158-159. 87 Su cui vedi Todisco 2011, 70-73; Capogrossi Colognesi 2012, 216. 88 Rimangono fondamentali: Laffi 1973; Humbert 1978. 89 Paci 1998; Marengo 2012. 90 Per l’evoluzione delle prefetture verso la forma municipale vedi Todisco 2011,72-73 e Capogrossi Colognesi 2012, 205. Nel Piceno il processo fu abbastanza lento, perchè praefecturae risultano ancora attestate al passaggio di Cesare nel 49 a.C.: (Caes. Civ. 1. 51. 1) e lo saranno anche nei decenni successivi (Marengo 2012, 365-371). 91 Paci 2000; per il percorso della via vedi Giorgi 2014. 72 73
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S. Menchelli
Insediamenti maggiori e insediamenti minori nella complessità dei paesaggi antichi: le vallate dei fiumi Tenna, Ete ed Aso (Piceno meridionale)
vicus, con tutta probabilità venne poi strutturato come forum, svolse forse le funzioni di una praefectura e alla fine raggiunse lo stato di municipio, come documenta Plinio. La trasformazione in municipia di piccolo città appenniniche è un fenomeno diffuso in vari settori dell’Italia soprattutto in un contesto arretrato sotto il profilo dei processi di inurbamento92. Come è noto si tratta di una tematica ben trattata in bibliografia, anche da Sara, e per queste “promozioni” vengono addotte una pluralità di motivazioni, di ordine economico, strategico, demico e relazionale con le élites locali 93.
di archivio che elencano possessi e coloni dipendenti dall’Abbazia di Farfa98. Già nell’ 847 subentrò il nome di Communantia Montis Passilli, a ricordo della vocazione del distretto alle pratiche dell’uso comunitario delle terre per pascolo, legnatico etc. e un polo di aggregazione era costituito dalla Chiesa di Santa Maria a Terme, in prossimità delle Terme romane come indica la titolatura, e con fase originaria di IX sec.99 . In conclusione i dati emersi dalle ricerche nelle vallate del Tenna, Ete e dell’Aso costituiscono un’ ulteriore evidenza della “complessità organizzata” della realtà italica fra IV-III e I sec.a.C.100 e di come i Romani abbiano proceduto nella conquista adottando soluzioni flessibili, di volta in volta adattandosi al contesto fisico-ambientale e alle vocazione produttive, rispettando quando possibile “il sentimento” del luogo101 e cercando di instaurare linee di intesa con le élites locali.
Nel caso di Novana è difficile stabilire, nello specifico, quale siano state le motivazioni prevalenti di questa scelta, la sua vita municipale comunque dovette essere breve : non abbiamo ulteriori attestazioni letterarie e l’unica fonte epigrafica al momento disponibile, forse, è l’iscrizione di Parma sopra citata, datata al II sec.d.C. Gli edifici di età imperiale individuati a Comunanza (domus, terme , fornaci, necropoli)94 attendono uno studio sistematico, e dunque al momento non abbiamo dati su una eventuale fase tardo-antica del municipio, mentre, a giudicare dai dati delle ricognizioni, nel territorio afferente gli insediamenti rurali risultano progressivamente abbandonati nel corso del corso del II sec.d.C. Tale crisi nel popolamento rurale è stata ricondotta, nella nostra lettura, allo sviluppo dell’allevamento “industriale” che, con la sottrazione di vaste aree di ager pubblicus, alterava il regime agrario basato sulla complementarietà delle piccole unità produttive con l’uso comunitario dei terreni non assegnati95. Può essere un prezioso indizio in questo senso la persistenza nel territorio di Amandola del toponimo Cisiana, che documenta la presenza dei Caesii, gens che, secondo F. Cenerini, era appunto coinvolta nell’allevamento ovino su grande scala96, con attestazioni epigrafiche nel I sec.d.C. in numerosi distretti del Piceno.
La colonia Latina di Firmum con il suo ager punteggiato da villae e fattorie ad economia mercantilistica, e il centro “fluttuante” di Novana con un allevamento “industriale “, si integrano perfettamente nella globalizing economy102 dell’Italia romana, cosi come nei paesaggi, piceni ed italici si alternavano il popolamento sparso (villae, aedificia, praedia, agri, casae. etc.), gli insediamenti precari e stagionali, i centri maggiori e i centri minori con tutte le loro “fluttuazioni”.
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In tale paesaggio silvo-pastorale dovevano essere attivi collegia che gestissero le attività economiche connesse, e forse non è un caso che l’anonimo patrono di Foronovanorum citato da CIL IX 1059 fosse anche patrono dei tre collegia parmensi dei fabri, dendrophori e centonarii97.
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Il municipo di Novana dunque andò progressivamente a scomparire e una nuova occupazione nel sito si registrò soltanto nell’VIII sec., a giudicare da documenti
Capogrossi Colognesi 2012, 201. Santoro 2017c, 395 con bibliografia precedente. Per il Piceno in particolare Vermeulen 2017, 108-111. 94 Menchelli e Iacopini 2016, fig.12 95 Gabba e Pasquinucci 1979; per questo distretto vedi in part. Branchesi 2007. 96 Cenerini 1985. Vedi anche Mayer I Olivé 2013, 347. 97 Collegia di fabri e centonarii sono epigraficamente attestati anche nella vicina Fermo : cfr. nota 36. 98 Menchelli e Iacopini 2017, 237-238. 99 Landolfi 1999 e bibl. ivi citata. Per la presenza di luoghi di culto cristiani nei fora/stazioni stradali vedi Corsi 2016, 58-61. 100 Capogrossi Colognesi 2012, 197. 101 Todisco 2004, 183. 102 Il riferimento naturalmente è a De Haas and Tol (eds.) 2017. 92 93
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Fig. 1. Le aree indagate.
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S. Menchelli
Insediamenti maggiori e insediamenti minori nella complessità dei paesaggi antichi: le vallate dei fiumi Tenna, Ete ed Aso (Piceno meridionale)
Fig.2. Fermo visto da ovest
Fig. 3. La media Valtenna a sud-ovest di Fermo
Fig. 4. Resti della centuriazione a sud-ovest di Fermo
Fig. 5. Resti di una fattoria “triumvirale” a sud-est di Fermo
Fig. 6. Il distretto pedemontano interno, Amandola vista da nord
Fig. 7. Il territorio di Novana
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 8. Comunanza vista da sud-est
Fig. 9. Frammenti di intonaco di capanna
Fig. 10. Resti di una fattoria colonial2 nel territorio di Amandola
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Davide Aquilano, Katia Di Penta, Amalia Faustoferri
La media valle del Trigno: contributi per la ricostruzione storica del territorio Abstract: The middle valley of the Trigno river has long remained at the margins of archaeological research despite having yielded one of the great masterpieces of bronze portraiture of the Hellenistic period: the head of San Giovanni Lipioni. In recent years a series of non-invasive investigations and small excavations in the territories of Schiavi di Abruzzo, Castelguidone, San Giovanni Lipioni and Torrebruna have provided a large amount of new data that now allow a more detailed reconstruction of the history of the region. Habitation in antiquity, attested at least since the first Iron Age by the discovery of the tumulus tombs of Schiavi di Abruzzo, continued into the high Archaic Age, as shown by the burial of a disc-armour bearer of the “Paglieta” type from Torrebruna. Other important activities continued into the Hellenistic age where a flourishing of sacred areas is recorded, and also into the Roman age, with discoveries of small clusters of cemeteries probably linked to farms that were in use at least until the VI century AD. Finally there is evidence for continued activity in the region up to the end of the late Middle Ages.
1. LA RICERCA NEL TERRITORIO
allineate lungo i pendii, si dirigevano tutti verso lo stesso snodo, che possiamo definire genericamente “di Isernia”, dove le vie provenienti dalla costa seguendo il corso del Trigno incrociavano varie strade trasversali, la più importante delle quali è stata ripresa dal tratturo Pescasseroli-Candela e poi dalla S.S. 175.
La nostra conoscenza della valle del Trigno è ancora lacunosa e frammentaria a causa degli attuali confini amministrativi, che la vedono divisa tra due regioni, tre province e tre diocesi1, con rilevanti conseguenze dal punto di vista del suo inquadramento culturale dal momento che il frazionamento moderno ha impedito – e ancora impedisce – una lettura organica e integrata di aree per lunghi periodi unitarie. Eppure tracce degli antichi assetti si sono conservate nel tempo, e in proposito è indicativo il fatto che alcuni paesi della sponda abruzzese rientrino tuttora nella diocesi di Trivento (Molise), erede del municipium romano di Ter(e)ventum2.
Sebbene le informazioni relative alla valle continuino a rimanere parziali e insufficienti a ricostruirne lo sviluppo in senso diacronico, un paziente lavoro di raccolta dati ha consentito di cominciare a delineare modi e forme di utilizzo dei suoli che schiudono interessanti prospettive di ricerca6. Un’esemplificazione di tale lavoro è costituita dal caso di San Giovanni Lipioni dove, a seguito di una serie di interventi che hanno coinvolto diversi ricercatori e varie istituzioni, è stato possibile porre le basi per una lettura storica del territorio le cui potenzialità sono ancora tutte da approfondire. Se ne presentano in questa sede i primi risultati in omaggio alla interdisciplinarietà della ricerca, che da sempre ha visto la Soprintendenza coprotagonista nel segno di «un’apertura alla collaborazione scientifica priva di steccati corporativi, in un’ottica di osmosi naturale tra mondo accademico e apparato amministrativo preposto alla tutela del patrimonio»7.
Lentamente, tuttavia, gli interventi di tutela effettuati negli anni dalla Soprintendenza hanno permesso di cominciare a ritessere una struttura insediamentale che, già in considerazione dell’importanza di questa asta fluviale, non poteva che mostrarsi ricca e variegata. Il Trigno infatti, noto come portuoso in età romana3, ha da sempre costituito un’importante direttrice di penetrazione dalla costa verso il cuore dell’area appenninica, ma la viabilità moderna, che lasciato l’Adriatico risale la valle con gallerie e lunghi viadotti, ripercorre solo in parte i tracciati antichi, modellati invece sull’orografia del territorio4. Tali tracciati, che correvano in genere a mezza costa e servivano le numerose ville e fattorie
Della media valle del Trigno ricadente in territorio abruzzese è stata finora indagata in maniera estensiva
La valle è infatti divisa tra Abruzzo e Molise, e in particolare, mentre la sponda abruzzese ricade nella provincia di Chieti, quella molisana rientra in parte nella provincia di Isernia e in parte in quella di Campobasso. Per quanto concerne le delimitazioni ecclesiastiche, il territorio è diviso tra le diocesi di Chieti-Vasto, di Trivento e di Larino-Termoli. 2 Sull’oscillazione del nome De Benedittis e Di Niro 1997 e da ultimo Fratianni 2010, 30ss. 3 Plin. N.H. 3, 106. 4 Un esame del tratto di viabilità che dalla costa arriva a Trivento in Fratianni 2010, 79ss., dove però l’attenzione è posta essenzialmente sulla sponda molisana del fiume. 5 La viabilità transappenninica costituisce un importante fattore di conoscenza del territorio: qui ci limitiamo a citare lo snodo di Isernia utilizzando un’espressione convenzionale mentre, invece, si dovrebbe parlare più propriamente della piana di Pettoranello, la cui rilevanza è stata dimostrata dal recente rinvenimento di una necropoli arcaica con portatori di disco-corazza (Russo Tagliente 2013). 6 Ricordiamo a titolo di esempio il sistema delle ville/fattorie, per il quale si veda Aquilano et al. 2012. 7 Come finemente espresso da J. Papadopoulos (2012, 12). 1
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro solo l’area sacra di Schiavi d’Abruzzo8, ma anch’essa necessita di una rilettura a seguito dei rinvenimenti più recenti, che hanno fatto risalire la frequentazione del sito a scopo rituale fino all’XI-X sec. a.C. quando, a poca distanza dal luogo in cui sarebbero stati poi edificati i templi, venne impiantata una necropoli con tombe a tumulo9. E se non colpisce verificare l’ennesimo esempio del valore aggregante costituito dall’associazione necropoli arcaica/santuario, documentata ormai anche nel mondo italico10, è interessante rilevare la continuità dell’utilizzo dell’area a scopo funerario fino in epoca romana, come dimostra la presenza di incinerati11.
è frutto di un orientamento greco- e/o romanocentrico che privilegia la piazza (foro, agorà) e non tiene conto del potere aggregante e delle valenze civiche dei luoghi del sacro nel mondo italico16. Che si trattasse di una statua è stato da tempo sostenuto sulla base di una serie di considerazioni di ordine storico-artistico il cui approfondimento esula dai limiti di questo contributo; qui non possiamo tuttavia non rilevare come nessuno si sia chiesto il senso della presenza in un’oscura località dell’Abruzzo di un simile capolavoro17, fortunosamente sfuggito al destino di tanti bronzi, grandi o piccoli che fossero, finiti nei crogioli di fonditori di tutti i tempi. Eppure l’alta qualità del lavoro ed il fatto stesso che qualcuno potesse ordinare in un’officina dell’Italia meridionale18 un pezzo simile sono indicatori culturali, oltre che economici e sociali, considerevoli. Colpisce inoltre constatare che dall’epoca della sua scoperta non siano stati effettuati tentativi di indagare il luogo di rinvenimento, neppure per cercare ulteriori “tesori”. L’eccezionale stato di conservazione della testa, ad ogni modo, rende quanto meno verisimile ipotizzare altrettanto eccezionali eventi che hanno portato all’occultamento della testa stessa, protetta dal suo “nascondiglio” fino alla scoperta fortuita nel 184719. Tale ipotesi è suggerita in primo luogo dal fatto che le superfici del bronzo non hanno subito danni particolari, e va poi ricordato che tra le ciocche si conserva ancora una sostanza giallastra nella quale si possono riconoscere resti di limi fluviali riconducibili alla sua giacitura primaria piuttosto che ad un rotolamento in un torrente noto per il suo impeto. Non va infine dimenticata la frequenza di casi di occultamento volontario finalizzati ad evitare oltraggi alla persona rappresentata ovvero all’opera d’arte20.
Ben noto alla letteratura archeologica è poi uno dei capolavori della ritrattistica di epoca ellenistica, la testa in bronzo da S. Giovanni Lipioni (fig. 1) che, dopo essere transitata ad Agnone – presso l’orefice Girolamo Saja prima e presso Domenico/Francesco Cremonesi poi12 –, dal 1862 è conservata presso la Bibliothèque Nationale di Parigi13. Non è questo il luogo per discuterne la cronologia14, che pure non è priva di implicazioni nell’ottica del corretto inquadramento storico del personaggio rappresentato: certamente un esponente di rilievo di quella élite sannitica responsabile di notevoli forme di mecenatismo in buona parte finanziate da attività commerciali nel bacino del Mediterraneo. Tale mecenatismo si esplicava notoriamente soprattutto nelle aree sacre, che vengono monumentalizzate proprio nell’avanzata età ellenistica, e in un santuario possiamo ipotizzare la probabile collocazione originaria della statua cui la testa apparteneva: se infatti è vero che le statue onorarie di età ellenistica si «riferivano al qui e ora e occupavano lo spazio dei cittadini»15, è altrettanto vero che tale affermazione
Per la quale da ultimo Schiavi 2006 con bibl. precedente. Riccitelli 2001; ead. 2006. 10 In proposito già Faustoferri e Riccitelli 2015, 145 e nota 125. 11 Sul significato storico di questo adeguamento al romanus mos Riccitelli 2001, 86. 12 I due documenti d’archivio pubblicati in Colonna 1958 riportano infatti due diversi nomi di battesimo, ma essi corrispondono a quelli dei due fratelli Cremonese, che si chiamavano appunto rispettivamente Francesco Saverio e Domenico. È interessante notare che nelle mani dei due fratelli agnonesi passò nello stesso periodo anche la Tavola di Agnone, rinvenuta nel 1848 nel corso di lavori agricoli (Cremonese 1848). 13 La letteratura sulla testa ritratto è quasi sterminata: cfr. Adam 1984, con bibl. precedente, e da ultimo Lyons 2015. 14 In proposito non si può non concordare con A.-M. Adam (1984, 208s. n. 330), che afferma: «il semble difficile, en effet, de faire remonter le portrait de S. Giovanni Lipioni bien au-delà du milieu du IIe siècle». Sarebbe auspicabile che la testa venisse esaminata con lo stesso metodo rigoroso, e soprattutto privo di pregiudizi, applicato al c.d. Bruto (Parisi Presicce 2010), tanto spesso accostato all’esemplare da S. Giovanni Lipioni (per es. Strazzulla 1997, 10s.) che certamente è più antico del Bruto, ma difficilmente collocabile nel III sec. a.C. specie dopo che ne è stato espunto uno dei principali elementi di confronto. C. Parisi Presicce (2011, 131) rilevava come i due ritratti «presentano caratteri dissonanti, soprattutto tra capigliatura e barba, che inducono a considerare entrambi come ritratti di ricostruzione, l’uno [la testa da S. Giovanni Lipioni] di difficile datazione – ma non più tardo dell’inizio del I secolo a.C. perché mostra ancora un elevato grado d’idealizzazione, con dettagli fisionomici poco marcati in senso individuale e con la bocca resa in modo convenzionale», e tale osservazione è a nostro avviso assolutamente condivisibile oltre che in linea con le valutazioni di A.-M. Adam. 15 Smith 2015, 95, secondo il quale le «statue onorifiche avevano un carattere sostanzialmente diverso dalle statue funerarie poste nei santuari [sic] e dalle statue funebri sulle tombe». 16 Per es. Stek 2010, 48ss. L’esempio più illuminante è certamente quello di Pietrabbondante, il cui teatro era adibito anche a riunioni, ma tutte le aree sacre costituivano un punto di riferimento, e non solo dal punto di vista del culto, per le comunità locali. 17 In genere se ne tenta infatti solo l’attribuzione, fortemente condizionata dalla cronologia di volta in volta accettata. Per es. J. Strazzulla (1997, 13) propone il nome di Numerius Decitius per il suo ruolo nella guerra annibalica. 18 Strazzulla 1997, 12, ipotizzava una «commissione meridionale, preferibilmente campana». 19 Faustoferri 1997, 16. 20 Come insegna M. Donderer (1991/92, 203) il fenomeno può riguardare anche le teste staccate dai lori corpi, e in proposito ricordiamo che secondo M.J. Strazzulla (1997, 8) la «lunga frattura che attraversa in senso longitudinale la parte posteriore è forse imputabile a una forzatura effettuata al momento del distacco dal corpo». 8 9
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D. Aquilano, K. Di Penta, A. Faustoferri
La media valle del Trigno: contributi per la ricostruzione storica del territorio
L’ipotesi che la statua fosse collocata in un’area sacra è suggerita dal ruolo giocato da tali aree in ambito centro-italico a partire dal IV sec. a.C., quando «sanctuaries are often assigned a pivotal role as central place with political and commercial as well as religious functions»21. Il luogo sacro in cui originariamente era posta la statua, ovvero il luogo in cui il personaggio venne con essa onorato, va cercato nei pressi del vallone di S. Giovanni, tra gli attuali comuni di San Giovanni Lipioni e Castelguidone, e molti lo hanno identificato con la località Inforchie Vecchie di Castelguidone, un’ipotesi riproposta anche nel lavoro di Fratianni, altrimenti molto interessante perché offre la possibilità di cominciare ad integrare i nostri dati archeologici e topografici con quelli di area molisana22. Non è questa la sede per discutere la delimitazione dell’ager ter(e)ventinas proposta dal Fratianni23, ma dalla sua perimetrazione vanno sicuramente esclusi gli attuali paesi di Tufillo e Palmoli, che ricadevano invece nell’ager di Histonium come dimostra la scoperta della lapide funeraria del decurione istoniense Q. Preccio Apro in contrada S. Janni di Palmoli24. Palmoli domina inoltre una valle profondamente incisa dal torrente Monnola e dal vallone Termini, un nome derivato con ogni probabilità dalla funzione, che ancora riveste, di confine della diocesi di Chieti-Vasto, e prima ancora del territorio frentano25. Per quanto riguarda il luogo in cui venne dedicata la statua in bronzo, comunque, già per i motivi sopra richiamati non crediamo possa essersi trattato della località Inforchie Vecchie di Castelguidone, la cui notorietà è dovuta al fatto che nel 1952 vi furono rinvenuti alcuni rocchi di colonne, ma che non si trova propriamente nei pressi di un torrente.
in custodia al proprietario del terreno gli elementi architettonici, troppo pesanti e comunque destinati ad essere spostati sulla rotabile in previsione di un loro trasferimento a Chieti, che evidentemente era stato progettato ma non fu mai attuato. La scoperta era in realtà avvenuta l’anno precedente, come si legge in una nota di Giovanni de Lutio28 che riporta informazioni ricevute dal sindaco del paese ma anche osservazioni personali a seguito di un sopralluogo nel quale notò «il limite di un muro di cinta». In tale occasione ebbe modo di parlare con il rinvenitore, tal Giovanni Fabrizio, che esibì una nota con la quale F. Barreca dichiarava di aver ricevuto «denti di animale ed un frammento di bronzo di interesse archeologico» e ordinava: «i frammenti di colonne e i capitelli rinvenuti nello scasso della vigna dovranno venire conservati sul posto allineandoli lungo la scarpata sotto la strada campestre che fiancheggia il terreno». Il contadino affermò che lo stesso Barreca avrebbe autorizzato la vendita delle colonne, ma non potendo esibire una lettera che comprovasse tale affermazione si attenne alle disposizioni impartite dal de Lutio, evidentemente molto convincenti. La vicenda venne comunque portata all’attenzione del Ministero, cui il soprintendente V. Cianfarani rispose con una nota del 21 gennaio 1954 nella quale si confermano il numero dei pezzi, la datazione data dal Barreca29 e «l’ingiunzione di accantonare il materiale architettonico rinvenuto, di non manometterlo e di comunicare immediatamente alla Soprintendenza ogni ulteriore rinvenimento»30. Dalla lunga lettera del de Lutio sappiamo poi che il Fabrizio gli «fece notare che tra le tante cose ritrovate vi erano delle monete d’argilla, che i suoi figlioli giocando avevano perdute tutte, dei vetri colorati, ed una grande anfora di terracotta andata in frantumi, altre anforette colorate di nero [grassetto A.] e altri cocci», una notizia che potrebbe indiziare la presenza di sepolture dal momento che “anforette”, e cioè vasi presumibilmente interi, assai di rado vengono rinvenute in contesti di abitato. Ad ogni modo il contadino collocò il materiale sul limite del suo campo e l’anno successivo comunicò di aver riportato alla luce nuovi materiali, ma sembra che la sua nota del 7 maggio 1954 non abbia mai ricevuto riscontro.
La prima descrizione ufficiale della scoperta è contenuta in una nota inviata il 5 maggio 1953 alla competente Soprintendenza Antichità e Belle Arti per Abruzzo e Molise dal comandante della Stazione di Carabinieri di Schiavi d’Abruzzo26, che descrive «n° 9 tronconi di colonne romane – sembra dell’epoca dell’Imperatore Claudio – della lunghezza media di circa 1 metro, di pietra bianca della Majella, con due capitelli ed un piedistallo della stessa pietra ed epoca». La datazione dei pezzi era stata stabilita dall’allora ispettore F. Barreca, secondo il quale si sarebbe trattato «di ruderi di un tempio romano, essendo colonne, le tegole e i frammenti di anfore ritrovate tipiche dell’epoca dell’imperatore Claudio»27. I Carabinieri repertarono e portarono al Comando «pezzi di anfore e di tegole di creta e vari denti umani e altri di sconosciuta provenienza» lasciando
La storia del sito riprende nel 1972, quando V. Cianfarani inviò a Castelguidone Benito Di Marco per eseguirvi
Stek e Pelgrom 2005, 75; Stek 2010, 65 e 106. Cfr. anche Lippolis 2018, 50s. Colonna 1996, 48s., con riferimento a G. Minervini; Fratianni 2010, 171-173, con ulteriore bibliografia. 23 Fratianni 2010, 23 fig. 6. 24 CIL IX, 2858; Marinucci 1973, 32 n. 21 e tav. 14. 25 In proposito già Faustoferri 2003, 86s. 26 Archivio della Soprintendenza (CH18.I, C1 [1]). 27 Dalla lettera del De Lutio, citata nella nota successiva. 28 Archivio della Soprintendenza (CH18.I, C1 [2]). Qui si legge che sarebbero state scoperte «ben dodici colonne». 29 «L’interro classico induce a ritenere classici, e precisamente del I secolo d.C., anche i rocchi di colonne, il cui bugnato tuttavia presenta caratteri sufficientemente tipici per essere assegnato di per se stesso ad epoca claudiana». 30 Archivio della Soprintendenza (CH18.I, C1 [3]). 21 22
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro dato compatibile con l’ipotesi che fosse stata modificata la stessa composizione degli abitanti della zona.
una campagna di scavi che si protrasse dal 5 luglio al 10 agosto. Di Marco fece aprire 19 saggi che restituirono una notevole quantità di materiale, soprattutto lapideo, ed evidenziarono una situazione sostanzialmente indisturbata, come dimostra la scoperta di una colonna ancora in crollo31. Al termine delle sue indagini Di Marco effettuò l’anastilosi della colonna rinvenuta in crollo, sistemò gli altri rocchi su una sorta di basamento costruito con blocchi lapidei e grossi frammenti di tegole e nella sua relazione interpretò il complesso come una villa. Lo stesso Di Marco attribuì poi i resti individuati ad est della “villa” ad una chiesa, peraltro già indiziata dalla toponomastica locale, visto che il sito è noto come Colle del Santo e la valletta sottostante come Fosso di Cristo.
Comunque si vogliano interpretare il tipo di crollo e l’abbandono della chiesa che un tempo sorgeva sul Colle del Santo, la crescita degli alberi ha messo a dura prova il lavoro di Di Marco e provocato un nuovo crollo della colonna per cui nel 1995 la Soprintendenza è intervenuta con uno scavo d’urgenza36 i cui risultati possono essere così sintetizzati: – sull’area in precedenza occupata da una struttura abitativa – come aveva giustamente visto Benito Di Marco, che con ogni probabilità ha usato il termine “villa” in maniera convenzionale per indicare un edificio con funzioni produttive – in un momento non meglio determinabile è stata costruita una chiesa.
Il dato più intrigante dello scavo del 1972 è costituito sicuramente dalla posizione della colonna, crollata secondo una modalità che sembra riconducibile agli effetti di un evento sismico. Una simile ipotesi è suggerita non solo dall’eccellente stato di conservazione e dalle condizioni di giacitura32, peraltro identiche a quelle all’epoca descritte dal Fabrizio per le altre colonne e che ricorda in scala ridotta l’immagine offerta dai templi della collina orientale di Selinunte, ma soprattutto dal fatto che la chiesa non è stata più ricostruita, perdendo addirittura la titolatura33. Tali elementi deporrebbero a favore di un evento drammatico, per esempio il terremoto del 145634, a seguito del quale si verificò uno spopolamento delle campagne cui si cercò di porre rimedio accogliendo genti slave a loro volta in fuga dai turchi dopo la presa di Costantinopoli: a tale periodo risale la (ri-)nascita di diversi paesi dell’Abruzzo come Cupello, che non è presente nel focolario aragonese del 1447 e la cui crescita viene collocata nella prima metà del XVI secolo «quando i d’Avalos, marchesi del Vasto, favorirono lo sviluppo dell’agricoltura utilizzando colonie di “schiavoni” venuti a stabilizzarsi in Abruzzo»35.
– Il «piano porticato con una sola faccia rivolta verso valle (Fosso di Cristo)» era quello della chiesa, che ha quindi riutilizzato le colonne asportandole da un sito non ancora identificato. – I rocchi sono riferibili a colonne non finite, a differenza dei capitelli, molto raffinati e ben databili in età ellenistica. – Le colonne doriche non sono attribuibili alle strutture individuate a Inforchie Vecchie/ Mandrile – o meglio Colle del Santo – dove in epoca repubblicana era attiva una fattoria alla quale possono essere associate le “anforette colorate di nero” ricordate dal Fabrizio37. – In età imperiale la fattoria venne ingrandita e l’abbondante ceramica rinvenuta documenta un’occupazione ininterrotta del sito fino al X secolo. Successivamente si avviò una fase di spoliazione volta al recupero del materiale edilizio, come dimostra il fatto che dei muri antichi si conservano solo le fondazioni.
Le informazioni circa gli esiti del terremoto c.d. di Santa Barbara nell’Abruzzo meridionale sono scarse, ma riteniamo che rievocare lo scenario di devastazioni provocato da uno dei più grossi eventi sismici che la storia italiana post-antica conosce possa aiutare a comprendere sia la giacitura delle colonne sia il fatto che della chiesa si sia praticamente persa la memoria, un
– In momenti non meglio definibili sul sito vennero realizzati una torre e poi la chiesa, che forse smise di funzionare dopo il presunto evento sismico che provocò il crollo delle colonne, disposte con ogni verosimiglianza sulla fronte della chiesa stessa.
Faustoferri 1997, fig. p. 15. B. Di Marco rilevava: «Si profila pertanto la possibilità di un colonnato, di un peristilio la cui parete di fondo sia crollata dall’interno verso l’esterno: E-O. Precedentemente a questo momento deve essere caduta la colonna la cui forza proveniva da N a S.». 33 Il dato colpisce in modo particolare in una regione come l’Abruzzo, dove i toponimi tanto spesso conservano la memoria di strutture ecclesiastiche – apparentemente – scomparse, come dimostra per es. il caso di S. Biagio di Carpineto Sinello (CH), di cui sono stati individuati resti dell’abside nel corso di una ricognizione. 34 O forse meglio i terremoti, visto che alla scossa del 5 dicembre ne seguirono altre, tra cui una devastante il 30 dello stesso mese di dicembre, che provocarono tra i 30.000 e o 60.000 morti nell’Italia centro-meridionale. Vista l’ampia area interessata dall’evento sismico, tra i più gravi di tutti i tempi in Italia, è stata ipotizzata l’attivazione più o meno contemporanea di diversi segmenti di faglia: Meletti et al. 1988. 35 Chieti e la sua Provincia II, 103-105. 36 Diretto da chi scrive ed effettuato dal 20 marzo al 27 aprile 1995 dalla dott.ssa V. Orfanelli con la collaborazione dell’assistete S. Letta. I rilievi sono stati eseguiti da V. Scarci. 37 Come si è già accennato sopra, è possibile che siano state intercettate anche delle sepolture, dal momento che “anforette”, o comunque vasi interi, raramente si incontrano in contesti di abitato. 31 32
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D. Aquilano, K. Di Penta, A. Faustoferri
La media valle del Trigno: contributi per la ricostruzione storica del territorio
Probabilmente il risultato più importante raggiunto a seguito delle indagini del 1995 è rappresentato dagli esiti del riesame delle 4 colonne ricostruibili, grazie al quale possiamo affermare che non si tratta di bugnati ma semplicemente di rocchi non finiti, a differenza degli eleganti capitelli di epoca ellenistica38. Di conseguenza, vista l’alta qualità di tali elementi architettonici, e la loro cronologia compatibile con quella della testa conservata a Parigi, si può ipotizzare che le colonne appartenessero alla struttura nella/ o presso la quale era stata dedicata la statua onoraria. Incertezza continua invece a regnare circa il luogo originario di provenienza della testa e delle colonne che, come specificava il Minervini39, va comunque ricercato nei pressi di un «vallone scavato dall’acqua», che a sua volta non può che essere identificato con il vallone di S. Giovanni.
erosione e dilavamento delle sponde che hanno riportato alla luce la testa ben protetta, fino a quel momento, dal suo nascondiglio di sabbie fluviali. Ovviamente non si può escludere che il luogo pubblico che cerchiamo sia sulla sponda destra del torrente, dove si estende un ampio pianoro interessante per il nome – Piane Castello – e per il fatto che nella sua parte più settentrionale siano state rinvenute tracce di frequentazione antica. Comunque sia, si possono escludere dagli obiettivi di ricerca tutti i luoghi che non siano nelle immediate vicinanze del vallone. La ricognizione del 2007, coniugando le notizie di fonte locale e d’archivio con l’esame autoptico del terreno, ha consentito di arricchire notevolmente la conoscenza del territorio di San Giovanni Lipioni anche in senso diacronico, aprendo finestre su un arco cronologico molto lungo che arriva al Medioevo – tradito dal capitello murato nella parrocchiale – e oltre, con la “riscoperta” del portale della chiesa del Purgatorio, che ora fa bella mostra di sé in un ristorante di Roccavivara.
Una ricognizione promossa dall’Amministrazione del comune di San Giovanni Lipioni ed effettuata nel 200740 ha permesso di evidenziare un’area in particolare, nota con il toponimo Manzella e già esaminata nel 1997 quando, in occasione della mostra “I luoghi degli dei”, vi vennero effettuati diversi sopralluoghi nel tentativo di contestualizzare la testa. La conformazione del sito, pur modificata dalla costruzione di una serie di briglie volte a contenere l’impeto del torrente, sembrava infatti prestarsi ad ospitare un luogo pubblico, senza contare che muri in blocchi squadrati erano all’epoca ancora visibili, in parte riutilizzati da masserie dirute.
Una menzione speciale merita poi la chiesetta di Santa Liberata, da tempo al centro di una serie di problematiche e per questo sottoposta ad indagini geognostiche grazie ad un progetto derivato dall’Accordo di Programma sottoscritto dalla ex Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo con il Forest Service dell’United States Department of Agricolture nel 2002. Nel settembre 2006, infatti, è stato elaborato un Accordo di Partenariato che ha visto affiancarsi ai firmatari del precedente Accordo un folto gruppo di Enti quali la Provincia di Chieti, le Associazioni del Comuni dei Patti Territoriali Trigno/Sinello e Sangro/Aventino, l’Advisory Council on Historic Preservation degli USA e l’Oberlin College (Ohio). Gruppi di lavoro venuti dagli Stati Uniti nel 2007 e 2008 hanno quindi effettuato campagne di scavo e di rilevamento in diverse zone dell’Abruzzo meridionale e, nel caso della chiesetta di Santa Liberata, hanno registrato la presenza di vari resti ipogei dimostrando come l’edificio attuale costituisca una sorta di “riduzione” di una precedente struttura di dimensioni maggiori42.
In pochi anni il progressivo abbandono delle campagne ha reso la zona quasi irriconoscibile – e impraticabile – ma nonostante la pessima visibilità dei suoli sono stati rilevati resti di strutture, anche in grossi conci lapidei, e frammenti di laterizi e di ceramica che va dall’epoca ellenistica (si tratta soprattutto di frammenti a vernice nera) a quella romana e alto-medievale, quest’ultima concentrata nella zona di Orto dei Monaci, un toponimo che sembrerebbe attestare una presenza monastica. L’area in questione, inoltre, è poco distante da Inforchie Vecchie – circostanza che deve aver facilitato il trasporto del materiale per la costruzione della chiesa – e dalla viabilità che tuttora si dirige a Guardiabruna seguendo la sponda destra del vallone, quella meno impervia. Su questa sponda è stato costruito nell’Ottocento41 un mulino di cui si leggono ancora le tracce, e riteniamo suggestivo, e non improbabile, che in occasione dei lavori per la realizzazione del mulino e del relativo canale di adduzione sia stato modificato, seppur per breve tempo, il corso del torrente, provocando fenomeni di
Per quanto concerne la fase di occupazione italica del territorio di San Giovanni Lipioni, che qui più interessa, grazie alla ricognizione sono state individuate due zone in particolare: Colle Vernone e Il Monte43, dove è stato recuperato un kalypter frammentario (fig. 2). Anche
Aquilano 1997. Minervini 1852. 40 Aquilano, infra. 41 L’anno di realizzazione del mulino non è sicuro, ma sembra che la costruzione risalga alla prima metà del secolo per cui l’ipotesi di una coincidenza tra la sua realizzazione e la scoperta della testa risulta quanto meno plausibile. 42 Cfr. Aquilano, infra. 43 Il Monte e la zona circostante la Quercia Lozzi erano già stati segnalati nel 1992, in occasione di una ricognizione promossa dalla e Comunità Montana “Alto-Vastese” ed eseguita da Davide Aquilano, Elvira Marino della Fazia, Paola Riccitelli e Paola Spaziano. L’area de Il Monte è stata poi indicata nel parere al P.R.G. di S. Giovanni Lipioni espresso dalla ex Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo con nota prot. 2521 del 6 maggio 38 39
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro con tessere irregolari di calcare bianco che disegnano un fiore a sei petali iscritto in una circonferenza a sua volta inquadrata da una doppia cornice51. Questa inattesa scoperta ha imposto una modifica della strategia di intervento: si trattava infatti con ogni evidenza dei resti di un edificio sacro52 la cui indagine richiedeva uno scavo più ampio al fine di cercare di comprendere ciò che le ruspe avevano risparmiato per mera casualità e che si preannunciava di estrema importanza in sé e nel panorama architettonico e artistico, oltre che storico, dell’Abruzzo meridionale in età ellenistica.
alcune aree de Il Monte, all’epoca ancora intatte, sono state sottoposte nel 2008 ad indagini geognostiche da parte del team statunitense che ha rilevato diverse anomalie confermando il notevole interesse del sito, peraltro già noto per aver restituito una statuetta in bronzo di Ercole in assalto44 definita localmente “Il Cacciatore”. L’importanza di questo rilievo nel sistema orografico dell’Abruzzo meridionale può essere apprezzata da lontano ma ancor di più sul posto, perché infatti Il Monte fronteggia “l’avamposto” frentano di Monte Farano di Tufillo45, dominando un ampio tratto della valle del Trigno, e, nonostante l’avanzata del bosco a seguito del recente abbandono delle campagne, la vista spazia a 360° fino al mare.
È nato così, da un accordo della Soprintendenza con il DiSPUTer dell’Università “G. d’Annunzio” di ChietiPescara e con il comune di San Giovanni Lipioni, un progetto pluriennale di ricerca che dovrebbe portare al completamento dello scavo di quello che ormai si configura come un nuovo tempio italico ed alla sua valorizzazione. In attesa della ripresa delle indagini la vigilanza non è però mai venuta meno, e a ragione perché, sebbene l’area della presumibile cella fosse stata ricoperta con cura, la notevole distanza del sito dal paese e lo stesso carattere selvaggio dei luoghi, oltre alle voci che circolavano localmente, rendevano piuttosto alto il rischio di visite indesiderate da parte di “archeologi della domenica”. Come si è dovuto constatare nel corso di un sopralluogo effettuato agli inizi di aprile del 2015, però, gli “scavatori” possono essere di varia natura, e infatti sul Monte sono state le piogge torrenziali che, dilavando parte della zona non scavata, hanno messo in luce una statuetta in bronzo (fig. 3a, b) confermando la tradizione locale circa l’abbondanza di bronzetti. In questo caso si trattava di una figura di Ercole in assalto con la testa inclinata a sinistra coperta dalla leontè che è annodata sul petto e scende obliqua sulla spalla prima di avvolgersi sull’avambraccio sinistro. Sebbene non sia stata ancora sottoposta a restauro, si può apprezzare una certa cura nei dettagli anatomici, che contrasta con la realizzazione sciatta della testa dagli occhi globosi e della leontè schematica53 e che suggerisce una datazione in età medio-ellenistica o comunque non anteriore al III sec. a.C.54.
Con un simile bagaglio di conoscenze e fidando negli effetti di una mostra inaugurata nel 200946 sull’onda dell’interesse suscitato localmente dai risultati di lavori, sia di ricognizione sia di scavo archeologico, promossi dalle Amministrazioni locali47, già si cominciava a delineare un ampio progetto di ricerca quando le lancette dell’insipienza umana hanno cominciato a correre in maniera folle ed in tempi rapidissimi il profilo de Il Monte è stato modificato dalla creazione di un impianto eolico scoperto da chi scrive per caso, guidando lungo la S.S. 650 Trignina per effettuare un sopralluogo48. La situazione di Colle Vernone non era però migliore, come dimostrava il muro in grossi blocchi quasi “sospeso” sull’erta di una scarpata49 prodotta dal taglio delle pendici del colle finalizzato al passaggio dei grossi mezzi utilizzati per il trasporto e la posa in opera delle pale eoliche. Già i primi saggi di archeologia “post-preventiva” in un paesaggio ormai devastato hanno restituito frammenti ceramici di buona qualità, ma le pessime condizioni dei suoli imponevano di fermare le attività di ricerca in attesa di un miglioramento climatico. Alla ripresa delle indagini, nella primavera del 2014, è subito emerso un pavimento in cementizio a base fittile con inserti litici50 che formano un punteggiato di “dadi” ed uno pseudo-emblema, realizzato anch’esso
1999 (Tav. 1, sito n. 1) e quindi di nuovo segnalata con una nota del 17 gennaio 2008 (prot. 418), rimasta inevasa da parte dell’Amministrazione locale. 44 Picciani 1995, 27 e 38. 45 Si tratta del sito noto per aver restituito la chiave in bronzo con dedica ad Herentas (Luoghi degli dei, 141 n. 21). 46 Per la mostra, dal titolo “Safini nel Vastese”, Faustoferri 2009. 47 Oltre alla ricognizione citata, sono state effettuate brevi campagne di scavo sia a S. Giovanni Lipioni (cfr. Di Penta, infra) sia a Torrebruna (Faustoferri 2009). 48 In proposito si ritiene opportuno ricordare che a lungo, intorno alle nuove fonti di energia rinnovabile, si è giocato il balletto dell’attribuzione alla sfera privata piuttosto che a quella pubblica di tale tipologia di opera, che nel primo caso consentiva di eludere la normativa sugli appalti all’epoca regolamentata dal D.Lgs. 163/2006. 49 Di Valerio 2018, fig. 2. 50 Sul tipo Grandi e Guidobaldi 2006. 51 Il fiore a sei petali rientra nel repertorio decorativo dei cementizi più antichi: Grandi 2001, fig. 1*. Sul pavimento in cementizio Di Valerio 2018. Cfr. Aquilano, infra. 52 Sul successo dei cementizi nell’edilizia templare dell’Abruzzo Cirrone 2016. 53 Rientra nel tipo 1d della Biella (2015). 54 Si avvicina per es. al gruppo “Sepino” di G. Colonna (1975, 175s., fig. 9), ma per la cura nei dettagli anatomici è confrontabile anche con un esemplare da Trivento collocato nel periodo tardo-ellenistico (Di Niro 1978, 38-41 n. 12, tav. XIII). La resa del viso ricorda poi un bronzetto
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D. Aquilano, K. Di Penta, A. Faustoferri
La media valle del Trigno: contributi per la ricostruzione storica del territorio
La prosecuzione dello scavo ha confermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, il notevole interesse dell’area, illustrato da un poster elaborato in occasione del convegno da E. Di Valerio e dalla sua équipe: alla presunta cella pavimentata con cementizio a base fittile si affiancano, a nord e ad est, altri ambienti che devono ancora essere riportati alla luce per definire la planimetria del complesso sacro, ma che comunque erano destinati al culto come dimostra la scoperta di vasi rituali55.
del Trigno, ché anzi essi schiudono una finestra sulla vivacità di questa zona in epoca sannitica. Se siamo meno informati sulla situazione relativa ad epoche anteriori, ciò dipende dalla mera casualità delle scoperte come dimostra il fatto che a Fonte Micune, una località in agro di Torrebruna, poco distante dal confine amministrativo settentrionale di San Giovanni Lipioni, un intervento di archeologia preventiva propedeutico alla realizzazione di un piccolo impianto eolico61 ha consentito di individuare un lembo di una necropoli arcaica incredibilmente risparmiata dai lavori agricoli e dall’apertura di una cava in cui sono stati fatti brillare anche ordigni bellici dopo la Seconda Guerra Mondiale. Tali vicende hanno profondamente modificato l’aspetto e la morfologia dell’area, posta nei pressi della viabilità antica che lambiva Colle Vernone, e ciò rende difficile qualsivoglia tentativo di ricostruzione del paesaggio antico e la stessa ricerca dell’insediamento cui la necropoli era connessa, e che pure non doveva trovarsi molto lontano.
Conclusioni sono ancora premature, visto che le indagini sono ancora in corso, ma almeno un dato sembra sicuro: il pavimento di quello che sembra un sacello con un incasso – come a Vacri56 – forse per la base della statua di culto, si colloca agli inizi del II se non addirittura alla fine del III sec. a.C., una datazione confermata dai reperti rinvenuti tra i quali, oltre al citato bronzetto, spiccano un cinturone del tipo “sannitico” e monete databili nel III sec. a.C. quali gli oboli di Fistelia ed un sestante della serie librale con tartaruga e ruota a sei raggi databile tra il 265 ed il 242 a.C.57.
A causa della complessità dello scavo in tale occasione è stata recuperata una sola sepoltura62, ma di importanza eccezionale per aver restituito una coppia di dischi-corazza del tipo “Paglieta” in giacitura primaria (fig. 5): sia la coppia eponima sia gli altri pezzi che fino a pochi anni fa rappresentavano il tipo risultano infatti sporadici63, e lo stesso può dirsi degli esemplari da Carlantino e da Pettoranello considerato che in entrambi i casi regna incertezza sui materiali ad essi associati64 se si esclude l’abbinamento di una fibula in bronzo con apofisi a ghiande ai dischi del tipo “Paglieta” di Pettoranello65. Nel caso dell’individuo sepolto a Fonte Micune, invece, sappiamo che era accompagnato da un corredo ceramico formato da una grossa olla a cordoni in impasto (fig. 6), contenente un boccale con ansa a nastro anch’esso in impasto, oltre che da un corredo personale costituito
Non meno interessante è tuttavia un bronzetto raffigurante Cerbero (fig. 4), che costringe a rivedere la valutazione a suo tempo attribuita da Babelon e Blanchet – e ribadita nel Catalogo on line della Bibliothèque Nationale58 – ad un esemplare assai simile conservato a Parigi59 che, insieme al Cerbero a Vienna60, attesta l’esistenza di un tipo iconografico che sembra abbia avuto un certo successo in età ellenistica, almeno a giudicare dai risultati dello scavo in corso a San Giovanni Lipioni, dove non sono stati rinvenuti reperti di epoca imperiale. L’area sacra nei pressi del vallone di S. Giovanni, il complesso cultuale su Il Monte ed il sito probabilmente fortificato di Colle Vernone non sono soltanto tre nuovi punti sulla carta archeologica della media valle
da Montagano vicino al gruppo “Trivento” (Di Niro 1977, 54 n. 24, tav. XXXI) mentre la struttura inarcata del corpo lo avvicina ad un bronzetto di provenienza ignota nel Museo Sannitico di Campobasso (Di Niro 1978, 36-38 n. 11, tav. XII). 55 Di Valerio, in questo volume. 56 La Torre 1997. 57 RRC 24/7. 58 Nella scheda relativa (http://medaillesetantiques.bnf.fr/ws/catalogue/app/collection/record/2541?vc=ePkH4LF7w6yelGA1iJExMPLhPkJOj0bmpqAyBimYoandObUo6fCKolRohUlk0tLHE7oAAi43UQ) viene datato I-II sec. d.C. Cfr. anche LIMC VI, 1992, s.v. Kerberos, 29. 59 Devo l’importante segnalazione al collega Norbert Franken, che ringrazio. Babelon e Blanchet (1895, 340s. n. 793) definivano il piccolo bronzo a Parigi «Travail romain, médiocre», ma l’associazione con i materiali restituiti dallo scavo di San Giovanni Lipioni, che non ha restituito materiali più recenti del II sec. a.C., impone una collocazione del pezzo ancora in età ellenistica. 60 E. von Sacken (1871, 122 tav. 51.8), che si limita ad attribuirlo «einer späteren Zeit», cita anche un secondo esemplare che dovrebbe però essere alquanto diverso ma di cui non viene fornito il disegno. 61 I primi saggi, effettuati dalla Parsifal Società Cooperativa di Vasto, avevano segnalato una probabile criticità sul sito della pala più settentrionale, e tale diagnosi è stata confermata dal successivo controllo dei lavori di sbancamento da parte di L. Cherstich. 62 Il recupero, assai problematico a causa dello scarso interro e dalla presenza di materiale organico, è stato effettuato dalla restauratrice della Soprintendenza ABAP dell’Abruzzo M.I. Pierigè, che ha prelevato i dischi insieme al pur ridotto pane di terra che li conteneva e ne ha eseguito lo scavo in laboratorio. Successivamente sono state individuate e scavate altre due sepolture con corredi assai più modesti. 63 Oltre alla coppia eponima Tomedi (2000, 45s.) contava una coppia da Villafonsina, una da Alfedena, una in collezione privata della Svizzera romanza, un’altra al Louvre, un disco all’Ermitage di S. Pietroburgo e frammenti da Colle Mitra di Cansano e da Carlantino. Quest’ultimo (Tomedi 2000, 46 n. 69) sembra attribuibile però al gruppo “Alfedena” per l’assenza delle rosette di borchie a sbalzo, e nello stesso gruppo rientra anche la maggior parte dei frammenti sporadici pubblicati da G. De Benedittis (2006, 109-113). 64 La tomba “del guerriero”, da cui dovrebbero provenire alcuni dei frammenti recuperati a Carlantino, non è stata scavata “regolarmente” (De Benedittis 2006, 103), e lo stesso dicasi per Pettoranello, dove mancano «dati certi di scavo» e sono stati mescolati i corredi di due portatori di disco-corazza rispettivamente del tipo “Paglieta” e del tipo “Alfedena” (Russo Tagliente 2013, 264). 65 Russo Tagliente 2013, 264 e Appendice, 271 e fig.4.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro che attestano dei cambiamenti confermati anche dalle associazioni dei materiali nei corredi, almeno lì dove conservati. Ci riferiamo in particolare alle scoperte avvenute a Barrea, dove sono state scavate due sepolture con portatori di disco-corazza che consentono di cominciare a delineare delle sequenze cronologiche sostenute, e accompagnate, da modifiche nella tipologia dell’armamento71.
da chiari indicatori di status come la testa di mazza in ferro, i citati dischi-corazza e l’anello in bronzo che non sembra mancare mai nelle tombe maschili di rango66. Di particolare interesse risulta poi lo spiedo in ferro, avvolto nel tessuto e dunque deposto con funzioni e significato diversi da quelli in genere ad esso attribuiti, un dettaglio che getta forse una luce nuova sulla sua simbologia dal momento che la presenza della stoffa sembra escludere un riferimento diretto al fuoco. Se non abbiamo elementi sufficienti a chiarirne il significato, però, è evidente che si trattava di un oggetto cui era attribuito un valore considerevole, a prescindere dalla sua eventuale funzionalità: il vero segno di distinzione non risiedeva cioè nell’esibizione dell’uso che se ne faceva, ma nel possederlo. E se è forte la tentazione di interpretarlo una sorta di spia della precoce introduzione dell’ideologia del banchetto nel mondo delle aristocrazie italiche in questa zona dell’Abruzzo antico, visto che gli spiedi sono presenti in sepolture collocabili a partire dall’avanzato VI sec. a.C.67 mentre già ad una prima osservazione il corredo di Fonte Micune sembra decisamente più antico, non se ne può escludere un valore più propriamente economico.
Lungi dall’essere contemporanei, i dischi del tipo “Paglieta” precedono quelli del gruppo “Alfedena” – questi sì attestati fino agli inizi del V sec. a.C.72 – e possono risalire agli inizi del VI73 se non addirittura alla fine del VII sec. a.C., almeno a giudicare dalla citata associazione con la fibula di bronzo con apofisi a ghiande a Pettoranello74. Nonostante il rimescolamento dei corredi, inoltre, si può poi ben immaginare che ai dischi del tipo “Alfedena” di Pettoranello fossero invece associate le fibule in ferro a bozze75, che evocano fortissime analogie con il quadro offerto dalle necropoli dell’alto Sangro cui rinviano anche la châtelaine e altri materiali venuti alla luce nel corso degli scavi del 201276 a dimostrazione dell’unitarietà etnica e culturale del comparto appenninico centro-meridionale. Non meno significativa è, infine, l’olla ovoide a cordoni con prese e orlo a colletto, per la quale al momento non abbiamo confronti puntuali, ma che sembra accostabile ai dolii documentati nella necropoli di Fossa77.
Le osservazioni qui esposte a pochissime settimane dal termine delle operazioni di restauro del corredo necessitano naturalmente di maggiori approfondimenti, ma è innegabile che uno dei maggiori problemi nell’inquadramento della tomba di Torrebruna discende dalla cronologia dei dischi-corazza con animale fantastico, che Colonna nella sua prima classificazione aveva distribuito in un periodo piuttosto compresso datando «il gruppo Numana in età tardo-orientalizzante (625-575), con possibilità di attardamenti, i gruppi Paglieta e Alfedena nel VI secolo, forse scendendo nella prima metà del V»68. Sebbene non sia questa la sede per ridiscutere tale cronologia, si deve almeno accennare ad alcuni fatti: intanto sul disco dalla valle dell’Aterno inserito nel gruppo Numana69 appare una figuretta umana simile a quella presente sul disco da Pettoranello70, e poi i rinvenimenti più recenti sembrano disegnare una progressiva semplificazione del motivo iconografico (il c.d. animale fantastico), cui si unisce una riduzione delle dimensioni dei dischi,
Più labili, ma certo anche in questo caso per carenza di indagini mirate78, sono invece le tracce di occupazione del suolo dopo la ristrutturazione in senso municipale, quando gli antichi assetti territoriali, oltre che sociali, furono modificati nell’ottica di una romanizzazione che però in queste zone è sempre rimasta superficiale. A conferma della fondatezza di tale ipotesi ci piace ricordare che proprio a San Giovanni Lipioni scavi d’urgenza effettuati nel 1998 in un uliveto a Colle Ciampette hanno riportato alla luce una mezza cappuccina con resti combusti (T. 1) ed un’inumata con il corredo deposto ai piedi in una sorta di ripostiglio (T. 2). Il campione non era certo sufficiente ad affermare che le sepolture fossero equamente distribuite tra incinerati e inumati secondo il rito antico79, ma un successivo intervento del 2008 ha
66 Sull’anello Faustoferri e Riccitelli 2015, 143 con riferimenti. Il corredo è stato esposto nell’ambito della mostra “Futuro anteriore” inaugurata a Chieti presso la sede della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo il 22 settembre 2018. 67 In proposito per es. Weidig 2014, 450-453. Gli spiedi in ferro non sono al momento documentati nelle sepolture di area sangrina interna, ma sono presenti nella necropoli arcaica di Via De Gasperi a Tornareccio. 68 Colonna 1974, 198. 69 Inv. 27762: Colonna 1974, n. 2; Tomedi 2000, 44 n. 52. 70 Russo Tagliente 2013, fig. 4d. 71 Faustoferri e Riccitelli 2016. 72 L’attestazione più recente sembra quella della tomba di Spoltore (Staffa e Cherstich 2020). 73 Tomedi (2000, 46) sostiene invece una datazione tra il 570 ed il 500 a.C. 74 Sopra nota 65. 75 Russo Tagliente 2013, 263 fig. 7. 76 http://archeologicamolise.beniculturali.it/indez,php?it/231. 77 Cosentino, d’Ercole e Mieli 2001, 197s. 78 La ricognizione del 2007 ha infatti permesso di individuare diverse aree di frammenti fittili che attendono di essere indagate. 79 I due riti coesistono anche a Schiavi: Riccitelli 2001, 76.
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La media valle del Trigno: contributi per la ricostruzione storica del territorio
2. LA RICERCA ARCHEOLOGICA A SAN GIOVANNI LIPIONI (1992 - 2008)
consentito di recuperare, a poca distanza dalle prime, due ulteriori tombe che ospitavano rispettivamente un’incinerata (T. 3) in una piccola fossa antropomorfa e un’inumata (T. 4) nella cui bocca era stato deposto il c.d. obolo per Caronte80.
Premessa Se non ci fosse stata la ricognizione del 200784 non sarebbero stati scoperti i resti del tempio su Il Monte85, che molto probabilmente sarebbero stati irrimediabilmente danneggiati dai lavori per la costruzione di un impianto eolico (2012), e non ci sarebbero state le indagini col georadar nella chiesa di Santa Liberata (2007) e su Il Monte (2008)86, il nuovo scavo nella necropoli di Colle Ciampette (2008)87 e la mostra Safini nel Vastese88, che ha raccolto e resi pubblici i dati raccolti sino allora ed i relativi risultati: questo è in estrema sintesi quanto prodotto in meno di cinque anni da quella ricognizione per quanto attiene la tutela e la valorizzazione archeologica del territorio. Risulta da ciò evidente che se ogni comune si dotasse di uno strumento del genere, l’intero territorio del nostro Paese sarebbe ipso facto, nell’arco di uno o due lustri al massimo, sottoposto a tutela con sforzi minimi e si potrebbe iniziare a parlare seriamente di pianificazione, di valorizzazione e di altrettanto seria promozione turistica.
Non sappiamo quanto fosse estesa la necropoli di Colle Ciampette e se si riferisse ad un piccolo insediamento, in analogia con quanto è stato supposto per Schiavi d’Abruzzo81, ovvero ad una villa/ fattoria. Per cercare di chiarire le numerose incognite prodotte dalla riorganizzazione romana della zona sarà necessario un impegno reso purtroppo difficile dai nuovi assetti delle Soprintendenze territoriali, ingessate dagli obblighi di una tutela che però non dovrebbe mai essere disgiunta dalla ricerca dal momento che l’una non può prescindere dall’altra. La misura della complessità del lavoro che ancora ci aspetta può essere data già semplicemente dalla moneta rinvenuta nella T. 4, una mezza litra con testa elmata di Roma e cane verso destra databile negli anni 234-231 a.C.82: colpisce infatti l’incoerenza tra la cronologia della moneta e quella del suo contesto, e che può essere spiegata in due modi: o siamo di fronte ad un oggetto di antiquariato che, in quanto tale, doveva far risaltare l’impegno dell’offerta, oppure, più banalmente, e prosaicamente, è stato utilizzato un pezzo “fuori corso” per risparmiare il denaro circolante.
San Giovanni Lipioni e l’archeologia San Giovanni Lipioni è conosciuto per la famosa testa bronzea rinvenuta casualmente nel suo territorio nel 1847 (fig. 1). Il prezioso reperto, dopo essere passato tra le mani dell’agnonese Francesco Saverio Cremonese, finì nella ricca collezione privata di Honoré Théodoric d’Albert, duca de Luynes, che lo donò alla Bibliothèque Nationale de France nel 1862, dove tuttora è conservato nel Département des Monnaies, médailles et antiques (inv. BB 857)89.
Al momento non abbiamo elementi per fornire una risposta sicura a una simile domanda, ma certo la moneta è una spia significativa del fatto che in età imperiale questi territori avevano ancora una notevole disponibilità di denaro di età ellenistica, dell’epoca cioè in cui nella valle del Trigno si offrivano corone d’oro nel tempio di Schiavi d’Abruzzo83 e si dedicavano statue onorarie in bronzo prodotte in botteghe dell’Italia meridionale.
Nel 1992 era stata eseguita una ricognizione del patrimonio culturale del territorio della Comunità Montana dell’Alto Vastese90, nel cui ambito era stata prevista
(Amalia Faustoferri)
Cfr. Di Penta, infra. Dove, come ricordato, sono venute alla luce sepolture databili tra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale. A Schiavi si è addirittura continuato e seppellire fino al Medioevo: Aquilano 2001. 82 RRC 26/4. Cfr. fig. 27. 83 Tagliamonte 2006. 84 La ricognizione è stata voluta dall’Amministrazione comunale guidata dal sindaco Angelo Di Prospero, in accordo con l’allora Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo, come primo passo di un programma di conoscenza, tutela e valorizzazione dell’intero territorio comunale. 85 Di Valerio, infra. 86 Le prospezioni geognostiche sono state condotte da archeologi e tecnici del Forest Service, dell’Oberlin College e della Parsifal Società Cooperativa di Vasto nell’ambito di un Accordo di Partenariato sottoscritto con il Forest Service del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, con l’Oberlin College (Ohio) e con l’Advisory Council on Historic Preservation, dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo, dalla Provincia di Chieti e dall’Associazione dei Comuni del Patto Territoriale Trigno-Sinello insieme all’Associazione dei Comuni del Patto Territoriale Sangro-Aventino. 87 Di Penta, infra. 88 La mostra, curata da Amalia Faustoferri e dallo scrivente, è stata allestita dalla Parsifal Società Cooperativa di Vasto. Oltre ai reperti provenienti da San Giovanni, vi era esposta una selezione di materiali rinvenuti nel 2008 in località Fonte Sant’Angelo di Torrebruna, dove sono state indagate parzialmente un’area funeraria arcaica ed un’area sacra di epoca ellenistica: Faustoferri 2009. 89 http://medaillesetantiques.bnf.fr/ws/catalogue/app/collection?vc=ePkH4LF7w1I9geonpBCEJmSF4sQ8hfTM_ LLEvLxMhZzMgsz8vExwJQvzFADGLhmb. Faustoferri, supra. 90 Il lavoro di ricerca fu svolto dallo scrivente, Elvira Marino della Fazia, Paola Riccitelli, Paola Spaziano e fu coordinato da da Gabriele Iaculli e Sandra Lapenna. 80 81
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro 34-35, assieme coi siti 1-3 di Celenza sul Trigno) e di Colle Vernone (siti 16-20). Nel primo caso si tratta probabilmente di insediamenti rurali di tipo sparso, con prevalenza di casae raggruppate, ma non mancano testimonianze di pavimenti in opus spicatum nel sito 7, che testimoniano la probabile presenza di edifici in muratura; nel secondo, l’individuazione di un’ampia area ricca di testimonianze riferibili alla sfera funeraria e del sacro, ma anche alla produzione agricola (i frammenti di dolia nel sito 34), sembra tradire la presenza di un piccolo insediamento (vicus), che le recenti indagini archeologiche hanno dimostrato gravitare attorno ad un sacello (sito 35) databile al III secolo a.C., che aveva perso o diminuito drasticamente la sua attività cultuale dopo la Guerra Sociale a vantaggio dello sfruttamento agricolo del sito94; per l’area di Colle Vernone, caratterizzata da presenze anch’esse sparse, è stata ipotizzata l’esistenza di un sito fortificato95, la cui reale natura e cronologia è tutta da verificare.
anche un’analisi delle presenze archeologiche: per San Giovanni Lipioni furono individuati due siti di interesse archeologico, la macroarea de Il Monte e l’area circostante la Quercia Lozzi (sito 16). Nel 1997 i riflettori si accesero sul piccolo centro del Vastese grazie al temporaneo rientro in Italia della celeberrima testa bronzea, che fu esposta nel Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo di Chieti, costituendo il fulcro della mostra “I luoghi degli dei”. All’epoca fu iniziato anche lo studio del contesto territoriale di immediato riferimento dell’opera d’arte, riprendendo, tra le altre cose, anche l’analisi delle colonne rinvenute attorno alla metà del XX secolo nella vicina località Inforchie Vecchie di Castelguidone91. Agli inizi del 1998 la Soprintendenza eseguì un intervento d’urgenza in località Colle Ciampette per recuperare due sepolture di epoca romana, individuate casualmente durante dei lavori agricoli (sito 20)92.
Per la maggior parte dei siti individuati nel territorio di San Giovanni Lipioni si è registrata continuità di vita dal III-II secolo a.C. fino al V-VI secolo d.C., un dato che assume un importante significato per la storia economica del territorio, che necessita comunque di ulteriori ricerche sul campo: la penetrazione verso l’interno, tramite la valle del Trigno, di prodotti importati dall’Africa settentrionale (terra sigillata africana), attesta il coinvolgimento di questo territorio e del Vastese interno nei traffici mediterranei fino ad età molto tarda96.
La ricognizione del 2007 Voluta e programmata con un raro esempio di lungimiranza dall’allora Amministrazione comunale, ha consentito di recuperare informazioni molto preziose sia dalle testimonianze orali raccolte presso la popolazione locale sia dalle ricerche sul campo. Queste ultime, comunque, hanno risentito molto della scarsa visibilità dei contesti per la vegetazione boschiva, l’incolto e i movimenti franosi più o meno consistenti, ai quali è purtroppo sottoposta buona parte di questo territorio.
Da identificare è l’attività metallurgica che ha prodotto le scorie di fusione trovate nel sito 5. Dal sito 12, secondo fonti orali, proverrebbe il bronzetto conservato presso un ignoto privato97, probabilmente confuso con un altro bronzetto “d’oro”, di cui si vocifera a San Giovanni e che si vorrebbe rinvenuto nel sito 27. Ad ogni modo, il sito 12, in località Foresta, non presenta caratteristiche convincenti sul piano delle presenze archeologiche di contesto che, ad onor del vero, non sembrano proprio esserci.
Da uno sguardo generale della carta archeologica prodotta in quell’occasione (fig. 7), appaiono evidenti due caratteristiche: a) i siti si trovano nelle immediate vicinanze di percorsi viari che, come i denti di un pettine, sfruttando i crinali intervallivi, mettono in comunicazione il fondovalle del Trigno con le aree d’altura93; b) la maggior parte degli affioramenti archeologici appartiene ad elementi sparsi e diradati, comunque raggruppati. In estrema sintesi: persistenza dei percorsi viari nel tempo e modello insediamentale di tipo sparso.
Sulla base dei dati sinora noti sembra registrarsi uno iato tra la tarda Antichità ed il pieno Medioevo, se si tiene conto che la cronologia medievale più alta registrata è stata fornita da un frammento di ceramica decorata a stuoia, databile al XII secolo, rivenuto nei pressi di Santa Liberata (sito 15).
Tra i siti riferibili all’antichità sono da segnalare in particolare i raggruppamenti nelle aree di ManzellaOrto dei Monaci (siti 3-8, 33), de Il Monte (siti 25-30,
Aquilano 1997. Di Penta, infra. Si tratta di qualche rara strada comunale asfaltata e di diverse mulattiere, che oggi purtroppo stanno sparendo a causa dell’abbandono dell’agricoltura e dello stesso paese. 94 Si veda la nota 85. L’iconografia dell’emblema e lo stesso pavimento in cocciopesto con inserzioni di tessere bianche, che disegnano un reticolo, trova uno stringente confronto con il mosaico della domus frentana rinvenuta a Punta Penna di Vasto nel 1993 (Aquilano 2011, 66-67), la cui fattura è, comunque, di gran lunga meglio curata. 95 Di Valerio 2018, 481. 96 Aquilano et al. 2012, 60. 97 Picciani 1995, 37-38. 91 92 93
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Il Monte
Sono di epoca pienamente medievale (XIII-XIV secolo) l’edificio, il portale, le finestre, l’acquasantiera (figg. 8-10) della chiesa di Santa Liberata (sito 15) ed anche all’esterno della chiesa è stata registrata la presenza di ceramica di XII secolo. Un altro edificio di culto medievale sarebbe la chiesa del Purgatorio (sito 14) se da essa – come vorrebbero alcune fonti orali – provenisse il rosone presente nella parte alta della facciata della chiesa di Santa Liberata (figg. 8-9). Il portale della chiesa del Purgatorio, invece, è ottocentesco ed è stato rimontato all’interno del ristorante “Lo Smeraldo” di Roccavivara.
Prospezioni con il georadar vi furono eseguite nell’agosto del 2008 tra il sito 30 ed il sito 35, perché si trattava di un’area dalla superficie piuttosto omogenea e non occupata dal bosco o dagli arbusti in maniera consistente. Superando tante difficoltà, grazie anche alla collaborazione della locale Protezione Civile, si è riusciti ad effettuare delle prospezioni con esiti non del tutto chiari, anche a causa delle proprietà fisiche del terreno, particolarmente ricco di quel pietrame che contribuisce ad aumentare il rumore di fondo. Ad ogni modo, alcune presenze rilevate dallo strumento – elementi a linea spezzata come angoli in muratura – potrebbero molto probabilmente essere di origine antropica. Il tutto andrebbe comunque verificato con uno scavo archeologico.
Un terzo sito dell’età di mezzo sarebbe la parrocchiale intitolata a Santa Maria delle Grazie (sito 13), come tradirebbero il piccolo rosone, il capitello e la testa leonina in pietra (fig. 11), riutilizzati nelle murature esterne della chiesa. Il condizionale è d’obbligo quando si tratta di elementi architettonici erratici: nel caso di San Giovanni, tutti quelli presenti nei tre siti sopra menzionati potrebbero provenire paradossalmente soltanto da uno di essi o persino da un quarto edificio di cui si ignora l’esistenza e l’ubicazione.
Nel sito 30 è stato rinvenuto un frammento di kalypter hegemon99 (fig. 2), che denuncia la presenza nei paraggi di un edificio di culto o, comunque, di un edificio di una certa importanza: potrebbe provenire dal sacello rinvenuto nel sito 35, ma è più probabile che esso provenga da un altro edificio dell’area sacra (fig. 14).
Impossibile è identificare con certezza la funzione e la cronologia di quella che appare in superficie come una lastra di pietra calcarea riutilizzata nella pavimentazione della piazzetta a Sud della parrocchiale (fig. 11). La tradizione vuole che si tratti della copertura di una tomba: allo stato attuale si puo’ affermare che l’ipotesi popolare non è del tutto peregrina.
Ad una semplice analisi visiva dell’attuale situazione dell’area attorno al sacello, integrata con i dati delle prospezioni del 2008, è evidente che la pista realizzata per raggiungere la piazzola dell’aerogeneratore (distante 30 m dall’edificio sacro) ha interferito con le presenze archeologiche rilevate, seppur ipoteticamente, dalle prospezioni. I lavori, svolti senza il necessario parere della Soprintendenza, sono stati eseguiti senza alcun controllo, provocando una grave perdita di dati, ormai irrecuperabili, su eventuali resti di strutture più o meno precarie, sull’organizzazione degli spazi e della loro funzione e sulla cronologica.
Chiesa di Santa Liberata La chiesa di Santa Liberata è stata oggetto di prospezioni col georadar nel 200798. L’indagine all’interno dell’edificio ha evidenziato l’esistenza di probabili sepolture sotto il pavimento della chiesa (a ca. -200 cm dal pavimento attuale) e di un ampliamento della chiesa, con l’aggiunta dell’abside (fig. 12), in epoca imprecisabile.
Lo stesso è avvenuto su Colle Vernone. (Davide Aquilano)
3. LE INDAGINI ARCHEOLOGICHE IN LOCALITÀ COLLE CIAMPETTE100
L’indagine all’esterno ha rilevato sul lato meridionale la presenza, immediatamente al di sotto del terreno superficiale, di elementi interpretabili come sarcofagi in muratura o in pietra, mentre altre anomalie attorno all’edificio potrebbero riferirsi a sepolture terragne (fig. 13). Ad una profondità di circa 150 cm sono presenti delle formazioni di consistenza più dura del terreno circostante, di difficile interpretazione: potrebbe trattarsi di una formazione rocciosa, ma anche di un accumulo di pietrame.
Nel 1998 in località Colle Ciampette di San Giovanni Lipioni venivano individuati resti di due sepolture. Come spesso avviene in casi simili, il rinvenimento fu casuale: i proprietari del terreno stavano infatti svolgendo lavori agricoli. Le due tombe individuate in quella occasione vennero recuperate, ma aprirono ipotetici spiragli circa la possibilità della presenza di altre sepolture. Ulteriori indagini condotte in seguito
Si veda la nota 86. Inv. n. 207835. Faustoferri, supra. 100 Supra, nota 88. 98 99
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro nel 2008101 hanno ampliato l’area di intervento e permesso di confermare l’ipotesi dell’esistenza in loco di un’area cimiteriale. Tuttavia, sempre nel 2008, sono emersi nuovi dati, che hanno consentito una lettura più completa dell’area, ma anche più complessa. La nuova indagine è stata affrontata dapprima con l’apertura di dieci trincee. Particolarmente proficua si è rilevata l’apertura della trincea 2, che ha permesso di individuare le sepolture T. 3 e T. 4 e alcuni modesti resti di strutture murarie (USM 10 e 19). Dalla trincea 2 si è sviluppato il Saggio 1.
L’unico elemento datante è la lucerna a disco, del tipo Bailey II P(1), cronologicamente collocabile tra la metà del I sec. d.C. e la metà di quello successivo.
Tomba 2 (fig. 18) La sepoltura venne scavata nell’intervento d’urgenza del 1998. Si tratta di una tomba ad inumazione, e in questo caso gli elementi che costituiscono il corredo lasciano pensare che l’inumato fosse una donna. La defunta era stata sistemata in una fossa terragna coperta da tegoloni posti in piano e giaceva supina con il capo reclinato sulla spalla sinistra e le braccia ripiegate sul bacino. Il corredo era stato sistemato ai piedi della defunta, ad eccezione della coppa in vetro, deposta a destra della testa:
Il Saggio 1 (fig. 15) Le strutture murarie rinvenute (USM 10, 19 e 21), purtroppo molto rovinate dall’erosione e dai lavori agricoli che hanno interessato il terreno superficiale, sembrano essere pertinenti a resti di edifici funerari o, più plausibilmente, a delimitazioni cimiteriali. Il fatto che l’ingombro della tomba 3 tagli in parte il paramento sud della USM 10 conferma che la posa della sepoltura è posteriore alle strutture murarie.
– coppa di vetro (inv. n. 199697; fig. 19); – lagynos (inv. n. 199695; fig. 20); – specchio con cornice in piombo (inv. n. 199696; fig. 21); – unguentario di vetro (inv. n. 199698);
L’area cimiteriale
– moneta in bronzo (inv. n. 199699)104;
Le sepolture finora indagate sono in tutto quattro e tutte sembrano - sulla base dei materiali rinvenuti e delle tipologie di sepoltura - potersi riferire ad un periodo compreso tra la metà del I e la metà del secolo successivo.
– chiodo di ferro (inv. n. 199700). Il corredo contiene diversi elementi datanti, a cominciare dalla moneta, in cui era ritratta l’effige di un personaggio della famiglia giulio-claudia. La coppa di vetro, di forma cilindrica a pareti diritte, è anch’essa databile al I sec. d.C.105, e tale cronologia è coerente con quella dello specchio rinvenuto nella sepoltura, del tipo “Vetro con cornice di piombo”106, che sostituì in maniera graduale gli specchi di metallo poiché di gran lunga meno costoso107.
Tomba 1 (fig. 16) Scoperta nel 1998, si tratta di una sepoltura ad incinerazione con copertura a cappuccina102. All’interno della sistemazione erano raccolti i resti incinerati del defunto e pochi elementi di corredo:
Tomba 3 (fig. 22)
– moneta in bronzo (inv. n. 199692)103;
Scavata nel 2008, è del tipo ad incinerazione, coi resti combusti collocati in una fossa dai margini piuttosto regolari che disegnano una forma antropomorfa. La posizione della testa avrebbe dovuto essere a SudOvest, e questo dato lascia pensare che la fossa fosse inizialmente destinata ad una sepoltura, ma del tipo ad inumazione108. Il riempimento della fossa/tomba era formato da terreno bruno, ricco di cenere e frammenti
– lucerna a disco (inv. n. 199693; fig. 17); – vaso di vetro di forma non identificabile (inv. n. 199694). Trattandosi di una sepoltura ad incinerazione, non è possibile avanzare ipotesi circa il sesso e l’età del defunto.
101 In quella occasione oltre ad altre due sepolture vennero individuate ed indagate anche alcune strutture murarie di un edificio più antico rispetto alla necropoli. 102 La copertura della sepoltura è formata da due falde spioventi, realizzate con tegoloni e chiuse sui lati corti con frammenti di tegoloni e pietrame. 103 La moneta, che in sede di scavo è stata datata intorno alla metà del I sec. d.C., risultava introvabile già all’epoca della mostra. 104 Per questa moneta, databile in età giulio-claudia, si veda la nota precedente. 105 Isings 1957, forma 41a. 106 Plin. N.H. 36, 193) fa menzione di questa tipologia e ne attribuisce l’invenzione alla città di Sidon. 107 Spadoni 2003, 117; Corti 2016, 189. 108 Il dato potrebbe essere anche interpretato come un richiamo alla consuetudine italica di inumare i defunti.
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D. Aquilano, K. Di Penta, A. Faustoferri
La media valle del Trigno: contributi per la ricostruzione storica del territorio
ossei, particolarmente concentrati nella parte sud-ovest, dove sono stati rinvenuti gli oggetti del corredo:
nelle tombe oggetti più antichi, frutto di collezionismo e/o antiquariato, oppure oggetti tramandati in seno al nucleo familiare.
– lucerna a disco (inv. n. 207817, fig. 23), dipinta di color arancio scuro; nel disco è un Amorino con la cetra di Apollo;
Conclusioni
– vaghi di collana in pasta vitrea (inv. n. 207818, fig. 24);
Le sepolture scavate a Colle Ciampette sono ciò che rimane di un’area cimiteriale più ampia, anche se non di molto: infatti, le tombe recuperate avevano subito danni notevoli ed altre sono state completamente distrutte dai lavori agricoli.
– coppa frammentaria di ceramica dipinta di bruno (inv. n. 207819). Il materiale bruno che riempiva la fossa sembrerebbe essere ciò che resta dell’urna lignea al cui interno vennero riposti i resti del defunto e il corredo. L’ipotesi del contenitore/urna di legno è in parte confermata dal ritrovamento, nelle vicinanze della sepoltura, di una borchia e di altre applicazioni in bronzo (inv. nn. 207821, 207824, 207825; fig. 25), che probabilmente decoravano l’urna lignea.
I muri appartengono ad una fase precedente e si tratta di sottofondazioni o di semplici delimitazioni a mo’ di macera. Al momento altro non si può desumere da un contesto stratigrafico purtroppo molto danneggiato. Sicuramente la parte meglio conservata è quella che si trova immediatamente a monte dell’area indagata e lì dovranno concentrarsi gli sforzi futuri. Nonostante dopo la Guerra Sociale si sia diffusa la pratica funeraria dell’incinerazione, tipica del mos Romanorum, i dati provenienti da Colle Ciampette ci raccontano di una commistione di riti e di culti funerari (incinerazione e inumazione) che perdurano almeno per tutto il I sec. d.C.111.
La sepoltura può essere datata tra la metà del I sec. d.C. e la metà di quello successivo grazie alla lucerna, anch’essa del tipo Bailey II P(1)109.
Tomba 4 (fig. 26) Si tratta di una tomba ad inumazione costituita da una fossa dai margini superiori a pianta antropomorfa. L’attività agricola svolta in questi anni ha fortemente rovinato ed intaccato la sepoltura: lo scheletro, infatti, si presentava privo dei due arti inferiori, di quello superiore sinistro e della parte sinistra del bacino.
(Katia Di Penta)
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Il cranio era ruotato di circa 180° sul piano orizzontale, a dimostrazione del fatto che nel periodo della decomposizione il corpo si trovava in un ambiente vuoto, molto probabilmente una cassa lignea oppure una fossa con coperchio. Il braccio destro era disteso lungo il fianco.
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All’interno della bocca del defunto, che avrà avuto al massimo dieci anni, era presente una moneta in bronzo, una mezza litra romano-campana databile nel 234-231 a.C. (inv. n. 207820; fig. 27). Si tratta di un esempio di “obolo a Caronte”, cioè della moneta talora, come in questo caso, fuori corso, lasciata al defunto – spesso in bocca – per pagare il transito sull’altra sponda dell’Acheronte al guardiano dell’Oltretomba, Caronte110.
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La datazione della moneta rinvenuta in questa sepoltura è però di molto anteriore a quella delle sepolture scavate a Colle Ciampette; non è raro, tuttavia, rinvenire
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Cfr. sopra, T. 1. Molto simile per decoro e forma a Bailey 1980, Q 1306, tav. 68. Sull’argomento e sulle sue interpretazioni si rimanda a Caronte 1995. 111 Al contrario, sempre in zona, è altrettanto anomala la presenza, nei pressi dell’area sacra di Schiavi di Abruzzo, di sepolture ad incinerazione nel II sec. a.C., in un contesto, come quello sannitico, culturalmente legato alla tradizione del rituale dell’inumazione. La spiegazione con il fenomeno dell’autoromanizzazione – almeno in questo caso – sembrerebbe l’ipotesi più plausibile: Riccitelli 2001, 85-86. 109 110
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 2. Kalypter frammentario dalla loc. Il Monte di San Giovanni Lipioni.
Fig. 3. Bronzetto di Ercole dalla loc. Il Monte di San Giovanni Lipioni a. in giacitura di rinvenimento; b. estratto dal terreno.
Fig. 1. Testa in bronzo da San Giovanni Lipioni (foto Bibliothèque Nationale di Parigi).
Fig. 4. Statuetta di Cerbero in bronzo dalla loc. Il Monte di San Giovanni Lipioni (foto di scavo).
Fig. 5. Coppia di dischi-corazza dalla tomba 1 di loc. Fig. 6. Olla dalla tomba 1 di loc. Fonte Micune di Torrebruna Fonte Micune di Torrebruna.
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La media valle del Trigno: contributi per la ricostruzione storica del territorio
Fig. 7. Carta archeologica del Comune di San Giovanni Lipioni.
Fig. 8. Santa Liberata. Facciata e lunetta dell’edificio di culto (sito 15).
Fig. 9. Santa Liberata. Rosone, bifora e capitello dello stipite di destra (sito 15).
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Fig. 10. Santa Liberata. Acquasantiera (sito 15).
Fig. 11. Santa Liberata. Prospezioni col georadar all’interno dell’edificio di culto: profondità 212--232 cm (sito 15).
Fig. 12. Santa Liberata. Prospezioni col georadar all’esterno dell’edificio di culto: profondità 23-46 e 149-172 cm (sito 15).
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La media valle del Trigno: contributi per la ricostruzione storica del territorio
Fig. 13. Santa Maria delle Grazie. Elementi scultorei lapidei riutilizzati nella muratura esterna (sito 13).
Fig. 14. Il Monte. Prospezioni col georadar (profondità –67 -85) tra i siti 30 e 35.
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Fig. 15. Planimetria del Saggio 1.
Fig. 16. 2. La Tomba 1 durante lo scavo.
Fig. 17. Lucerna proveniente dalla Tomba 1.
Fig. 18. La Tomba 2 durante lo scavo.
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La media valle del Trigno: contributi per la ricostruzione storica del territorio
Fig. 21. Lagynos dalla Tomba 2. Fig. 19. Ciotola in vetro dalla Tomba 2.
Fig. 20. Specchio di vetro con cornice in bronzo dalla Tomba 2.
Fig. 22. La Tomba 3 durante lo scavo.
Fig. 23. Lucerna a disco dalla Tomba 3.
Fig. 24. Vaghi di collana in pasta vitrea dalla Tomba 3.
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Fig. 25. Borchia ed applicazioni in bronzo trovate nei pressi della Tomba 3.
Fig. 26. La Tomba 4 durante lo scavo.
Fig. 27. Mezza litra romano campana (234-231 a.C.) rinvenuta nella bocca del defunto della Tomba 4.
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Maria Carla Somma
Chiese ed alture in area abruzzese tra tarda antichità e altomedioevo. Una spia per leggere le trasformazioni dell’insediamento La scelta di dedicare a Sara un contributo sui problemi degli insediamenti d’altura, declinati nel mio caso sulle cronologie che mi sono più familiari, quelle della tarda antichità e dell’alto medioevo, nasce dall’idea che attorno a questo tema si intrecciano diversi fili che mi hanno legato a lei. I primi due li definirei professionali, l’ultimo squisitamente personale. Per quanto riguarda gli aspetti scientifici non poteva mancare nel quadro del più ampio tema degli insediamenti secondari uno sguardo agli insediamenti d’altura a cui Sara in tempi in cui la tematica non era certo tra le più in voga, soprattutto tra i colleghi classicisti, ha dedicato tanto energie con il progetto di Castel Raimondo (Forgaria, UD). In secondo luogo, le alture, soprattutto negli aspetti legati all’incastellamento medievale, sono da sempre uno dei miei ambiti di interesse, intorno ai quali più volte con Sara ci siamo confrontate per le fasi più antiche. Sul piano personale, infine il tema delle alture ci ha avvicinato per quanto riguardava le nostre comuni radici, lei con Castel Raimondo aveva avuto l’occasione di lavorare in quel Friuli che per entrambe rappresenta le nostre origini in quanto figlie di friulani “nel mondo”. Abstract: The text examines the phenomenon of the presence of the Christian churches on the top of the mountains through the analysis of the sample cases of the Abruzzo area. Their relationship with urban centres and rural areas shows the particular role that these buildings play in the settlement transformations between the Late Antiquity and the Early Middle Ages and more generally in the Christianization. For the city are examined the cases of Amiternum, Alba Fucens, Aufinum and Iuvanum, while for the rural areas Castel Manfrino, Colle del Vento and Colle S. Giorgio.
A partire dalla tarda antichità il fenomeno del recupero delle alture diviene nuovamente centrale per l’analisi delle trasformazioni degli assetti insediativi sia a livello urbano, che territoriale1. Questo processo assume connotati principalmente difensivi, ma non sono estranei anche componenti cultuali, come evidenziato negli studi e nelle stesse fonti scritte dove, ad esempio, l’altura è percepita dal primo monachesimo come luogo ideale di residenza del monaco sia per la sua dimensione solitaria, che come concretizzazione del percorso ascensionale verso la perfezione ascetica e la vicinanza a Dio2. Anche nei casi in cui l’insediamento presenta caratteri marcatamente difensivi la presenza di un edificio di culto diventa un elemento ricorrente almeno dal VI secolo3. In questo quadro il territorio appenninico, che oggi ricade nella regione abruzzese, presenta caratteri geomorfologici tali che l’occupazione delle alture costituisce un fenomeno di lunga durata4. L’articolato sistema montuoso che innerva il territorio con tre principali catene, i Simbruini-Ernici a ovest, i Monti della Laga,
il Gran Sasso e il Velino-Sirente al centro, il Morrone e la Maiella a Sud-Est, ha rappresentato fin da età protostorica il substrato su cui si è andato modulando l’insediamento secondo gli ambiti territoriali formati dalle montagne le cui alture hanno anche costituito i luoghi preferenziali sia per abitati a carattere più o meno difensivo, sia per centri cultuali5. Alcuni contesti, allo stato attuale delle ricerche e per i dati archeologici che hanno restituito, possono risultare significativi per comprendere o quanto meno per delineare tale fenomeno tra tarda antichità e altomedioevo. Senza l’intenzione di fornire un quadro esaustivo, oggi d’altra parte difficilmente delineabile per il territorio in esame e concentrandoci sulle aree interne dell’Abruzzo, quelle caratterizzate da una spiccata morfologia montana mi soffermerò su quei siti in cui per motivi diversi mi sono imbattuta nelle mie ricerche nel corso degli anni (Fig. 1). L’elemento comune che lega i casi che verranno descritti è costituito dal fatto che il fulcro dell’occupazione post-classica dell’altura è rappresentato da edifici
La problematica è stata ben delineato in una lezione di Letizia Pani Ermini tenuta nell’ambito delle Settimane di studio del Cisam di Spoleto del 1998, Pani Ermini 1999 con ampia esemplificazione di casi e di bibliografia di riferimento. 2 Per il significato ed il recupero dell’altura da parte degli insediamenti monastici, v. Cardini 1994, Pani Ermini 1999, pp. 88-89, per alcuni spunti anche Orselli 2012. 3 Chavarría Arnau 2018, pp. 191-193. 4 Il fenomeno ha una lunga tradizione di studi soprattutto per la fase preromana v. da ultimo Bourdin 2020 con bibliografia precedente. 5 Per questi aspetti la bibliografia sul territorio abruzzese è molto vasta, a titolo d’esempio si rimanda a Mattiocco 1981, Papi 1995, Tartara 2003, Bourdin 2012 e a Bourdin 2020 per una ricostruzione storiografica del fenomeno. 1
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro punto di vista cultuale deve essere stato fulcro anche di un primo processo di accentramento demico legato alle esigenze del santuario12. In età basso medievale il processo è giunto a piena maturazione con il definito stabilizzarsi di un nucleo insediativo fortificato attorno al santuario denominato castrum Sancti Victorini13. In questo momento l’insediamento d’altura ha preso il posto dell’antico municipio che nella seconda metà del X sec. è definito nella Vita di Deoderico di Metz urbs quae et ipsas ruinas tantum ostendit (Vita Deoderici, par. 16, p. 473), di cui il principale edificio doveva essere ormai la chiesa di S. Maria, l’antica cattedrale paleocristiana, ormai ridotta al ruolo di pieve14.
di culto cristiani che come si vedrà, oltre ad occupare il punto più rilevante di tali luoghi, costituiscono l’elemento su cui si innesta la trasformazione funzionale ed insediativa dell’altura stessa. A livello macroscopico si rileva una prima chiara distinzione tra alcune situazioni urbane, in cui il fenomeno si inserisce nel più ampio quadro delle trasformazioni delle città in questo periodo, e altri contesti legati, invece, ai cambiamenti degli assetti insediativi delle aree rurali6. Cominciando dai municipi di età romana, il caso di Amiternum, posto nella media valle dell’Aterno, pochi chilometri ad Ovest dell’attuale città dell’Aquila, rappresenta un caso esemplare nella sua stessa eccezionalità7 (Fig. 2). L’altura, che domina a Est la piana in cui si sviluppava la città in età romana, era frequentata fin dall’VIII sec. a.C.8, e sicuramente ancora in età imperiale, come luogo di sepoltura, ma con una sua connotazione anche cultuale, vista la probabile presenza di un tempio dedicato ad Ercole, in posizione di assoluta preminenza sulla piana9. In questo contesto l’inserimento nel IV secolo d.C. della tomba del martire Vittorino determina l’avvio di un processo di monumentalizzazione legato alla sepoltura che porta tra tarda antichità e altomedioevo alla costruzione di due edifici di culto, uno legato alla memoria martiriale e un altro, dedicato a Michele Arcangelo10 (Fig. 3). Quest’ultimo, promosso dall’evergetismo longobardo, fu realizzato su quanto doveva essere rimasto del precedente tempio, secondo modalità ampiamente attestate in area centro-italica11. Nelle dinamiche di trasformazione del municipio in età altomedievale, questo luogo oltre ad assumere un importante ruolo dal
Diverso destino ha una delle tre alture su cui si sviluppa a partire dal IV sec. a.C. il municipio di Alba Fucens15 (Fig. 4). Quella più meridionale compresa all’interno delle mura e su cui fu costruito il tempio di Apollo viene rioccupata sfruttando le stesse strutture del tempio dalla chiesa di S. Pietro, oggi in forme romaniche, ma sicuramente già esistente nel VI secolo, come attestano i resti dell’arredo scultoreo e alcuni graffiti di carattere cristiano datati al VII sec.16 (Fig. 5). In questo caso la connotazione religiosa sembra prevalere su quella più propriamente difensiva ed insediativa in quanto nelle sue trasformazioni più tarde l’abitato si andrà concentrando sull’altura più settentrionale identificata con l’acropoli, mentre su questa altura all’edificio di culto si affianca un monastero benedettino, attestato dalle fonti dalla seconda metà IX secolo, dedicato a S. Angelo17.
Tale distinzione si rileva anche a scala più ampia come mostrano gli esempi riportati in Pani Ermini 1999. Amiternum costituisce il principale insediamento dei sabini in territorio abruzzese. Della città, nella quale da diversi anni sono riprese le indagini archeologiche da parte della Soprintendenza Archeologica per l’Abruzzo, dell’Università di Berna, sono noti alcuni importanti edifici come il teatro e l’anfiteatro. Per l’età romana Segenni 1985 e Heinzelmann, Jordan e Murer 2010, da ultima Tuteri 2019, con ampia bibliografia di riferimento. 8 L’altura è considerata il luogo dell’insediamento sabino che precede la formazione della città romana, si sono rinvenute tombe di VIII sec. a.C. e tracce di edifici databili tra IV e III sec. a.C. relativi probabilmente ad un contesto cultuale, Tuteri 2019, pp. 75-76. 9 La presenza di un tempio nell’area in cui si sviluppa il santuario martiriale di S. Vittorino è ipotizzabile sulla base di alcune testimonianze epigrafiche rinvenute in loco che si riferiscono ad Ercole e alla presenza all’interno della catacomba di un vano, oggi compreso nella galleria principale, caratterizzato da stillicidio d’acqua con evidenti caratteri cultuali riconvertiti al culto cristiano. La posizione sull’altura dominante la viabilità sottostante caratterizzata in età romana anche da spostamenti a carattere transumante rafforza ancora di più l’ipotesi che il luogo di culto fosse destinato ad Ercole divinità particolarmente legata in questi luoghi alla pastorizia, v. Casolino 2018, p. 157, Somma 2019b, p. 116, nota 30. 10 Il santuario di S. Vittorino rappresenta il maggiore santuario martiriale d’Abruzzo, sorto in relazione alla tomba del martire omonimo, vittima della persecuzione di Valeriano, martirizzato alle Aquae Cotiliae e deposto in un mausoleo di età romana. Su questo santuario e sul suo sviluppo nei secoli mi permetto di rimandare a Somma 2019b con bibliografia precedente. I due edifici ai quali si accenna oggi non sono più percepibili e neppure ricostruibili nel dettaglio in quanto l’edificio attuale, la cui dedica è a S. Michele, è il risultato della ricostruzione del vescovo di Rieti Dodone alla fine del XII secolo. 11 In area abruzzese è frequente la sovrapposizione del culto micaelico a quello di Ercole. Sul culto di S. Michele per questo territorio è ancora fondamentale Falla Castelfranchi-Mancini 1994. 12 Sul ruolo poleogenetico svolto dai santuari martiriali a partire dall’età tardoantica v. tra l’altro Pani Ermini 1989; Fiocchi Nicolai 2001, pp. 113-117. 13 Il castrum Sancti Victorini compare per la prima volta, alla fine dell’XI sec., in un documento dell’Archivio diocesano di Rieti, relativo alla restituzione delle decime usurpate dal conte Gentile al vescovo di Rieti Raniero, v. Leggio 2011, p.68, con i riferimenti al documento. Successivamente in Cat Bar 1157, p. 232. 14 Le indagini archeologiche più recenti e soprattutto quelli della chiesa di S. Maria, hanno dimostrato una continuità di vita del municipio romano ben oltre la tarda antichità, sebbene con dinamiche non ancora del tutto chiare, v. Alberini 2007, pp. 208, 212, Tuteri 2014. Per la chiesa di S. Maria v. da ultimo Redi 2019. 15 La bibliografia su questo municipio romano, oggetto di estesi scavi da parte della scuola belga nei decenni centrali del XX secolo è molto ampia, qui si rimanda ad uno dei contributi più recenti Ceccaroni et alii 2012-2013, con bibliografia precedente. Da ultimo Ceccaroni 2020, pp. 97-122 con una curata ricostruzione delle fasi di riscoperta della città. 16 Per la chiesa di S. Pietro, v. da ultimo Pensabene 2019 con bibliografia precedente; per i frammenti di arredo liturgico v. Giuntella 2001, p. 294. Per i graffiti v. ICI 31-34, pp. 42-45. 17 Il monastero è citato tra i possedimenti del monastero cassinese di S. Angelo di Barrea, ChCass I, 37. V. Saladino 2000, pp. 156-158. 6 7
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Chiese ed alture in area abruzzese tra tarda antichità e altomedioevo. Una spia per leggere le trasformazioni dell’insediamento
Anche i municipi romani di Aufinum e Iuvanum evidenziano trasformazioni analoghe. Ad Aufinum18, oggi nel comune di Capestrano (AQ), gli scavi che in questi ultimi anni hanno interessato il colle di S. Antonino nell’area in cui si doveva sviluppare il municipio omonimo, hanno restituito una complessa stratigrafia, caratterizzata da un’ampia diacronia19 (Fig. 6). La mancanza ad oggi di una anche minima ricostruzione del tessuto urbano antico rende difficile comprendere la relazione dell’altura con l’abitato, ma le indagini archeologiche hanno riconosciuto sul colle strutture, relative al centro demico di età ellenistica e romana: sulla sommità le strutture di due templi, su uno dei quali, denominato tempio B si sovrappone, ancora una volta, un edificio di culto cristiano con annessa area funeraria; lungo le pendici una struttura, denominata comunemente “teatro”, probabilmente con funzioni di riunione e di mercato20. La chiesa, che è stata indagata per la sola area presbiteriale e parte delle navate, ha un impianto a tre navate con abside centrale, e sulla base della cronologia delle sepolture se ne è proposta una frequentazione tra VII e XI secolo21 (Fig. 7).
hanno ancora interessato la stratigrafia sovrastante il podio del tempio e per ora mancano dati certi riguardo la fondazione dell’edificio di culto, mentre lo scavo del c.d. campanile e di uno degli ambienti del monastero, hanno rimesso in luce fasi molto tarde di rifunzionalizzazione di questi ambienti, ma anche la presenza di sepolture e di buche di palo precedenti l’impianto del monastero24 (fig. 10). Il toponimo Palatio che accompagna l’intitolazione dell’edificio lo pone certamente in relazione con l’evoluzione tardoantica ed altomedievale del municipio che, come stanno evidenziando le indagini archeologiche più recenti presenta importanti fasi di ristrutturazione soprattutto di VI secolo25. Le testimonianze documentarie tardo medievali attestano d’altra parte che questo edificio con l’area che lo circonda costituiscono se non l’unico, certamente il maggiore nucleo insediativo ancora attivo dell’antica città di cui, d’altra parte, non si hanno attestazioni dopo il VI secolo. Allargando lo sguardo al territorio, proprio la struttura geomorfologica e le vicende relative alla fase preromana hanno catalizzato l’attenzione sul fenomeno dei siti fortificati d’altura con una storiografia che ha teso a sottolineare il fenomeno generalizzato di rioccupazione insediativa in chiave difensiva di queste alture nel corso del medioevo26. Solo negli ultimi anni la ricerca archeologica è riuscita a specificarne meglio i caratteri e in alcuni casi le cronologie27. Tra i contesti certamente più esemplificativi c’è quello di Castel Manfrino nella valle del Salinello, in provincia di Teramo, quasi al confine con le Marche28 (Fig. 11). Gli scavi all’interno del castello, risultato delle ultime ristrutturazioni di età angioina, hanno riportato alla luce le strutture di una piccola chiesa mononave absidata. Alle sue spalle si sono ritrovate le tracce di un impianto battesimale
A Iuvanum (Montenerodomo, CH), la migliore conoscenza dell’impianto urbano della città, rimesso in luce in buona parte da scavi tra gli anni ‘40 e ’70 del secolo scorso22, permette di identificare con l’acropoli la collina che domina da Ovest il foro (Fig. 8). Qui gli scavi hanno rimesso in luce due templi su uno dei quali, il c.d. tempio A, in un momento non ben precisato si sovrappone un edificio di culto che ne sfrutta il podio. La chiesa nota dalle fonti medievali come S. Maria in Palazzo è affiancata da un monastero il cui impianto a livello planimetrico, sebbene pesantemente alterato dai restauri, si conserva a Ovest dell’edificio di culto23 (Fig. 9). Le ultime indagini avviate nell’area nel 2017 non
Su questo municipio, attestato come sede diocesana nel 475, v. Staffa 1997, p. 168; Buonocore e Firpo 1998, pp.920-931, Spanu 2004; per gli scavi recenti e i primi dati relativi alla possibile articolazione della città v. Menozzi e Di Antonio 2011, Menozzi et alii 2014. 19 Il progetto avviato nel 2000 e coordinato dalla prof.ssa O. Menozzi è condotto in collaborazione tra l’Università “G. d’Annunzio” di Chieti e la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo, oggi Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città dell’Aquila e Teramo con concessione di scavo ministeriale. Per quanto attiene le indagini dell’edificio di culto queste sono state condotte dalla dott. Sonia Antonelli. 20 Menozzi, Di Antonio 2011. 21 Somma-Antonelli-La Salvia 2018, p. 481. 22 Le indagini sono state riprese agli inizi degli anni ’90 e poi a fasi alterne fino ad oggi, grazie alla collaborazione tra l’Università di Chieti e la Soprintendenza archeologica dell’Abruzzo, oggi Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo. Dal 2017 responsabile per la parte romana è la collega O. Menozzi, mentre per la fase postclassica la scrivente. Su questo municipio v. da ultimo Lapenna 2006 con bibliografia precedente. 23 La chiesa e il monastero sono noti dalle fonti solo alla fine del XII sec., quando compare tra le pertinenze della diocesi di Chieti, come Monasterium Sancte Marie in Palatio, in una bolla di Alessandro III del 1173 e di papa Innocenzo III nel 1208, Ughelli 1720, coll. 708, 714. Il monastero è citato ancora nelle Decime della diocesi teatina agli inizi del XIV sec. RatDec 3498, p.255. Sulla chiesa ed il monastero v. Tulipani 2006. 24 V. Somma 2017. 25 Il toponimo palatio, con tutte le precauzioni del caso riguardo alla cronologia della sua affermazione, è solitamente considerato indizio della presenza di un importante centro del potere, che le vicende note per questo territorio possono far risalire proprio a quei secoli VI-VII, che hanno visto la presenza/contrapposizione tra bizantini e Longobardi in questi luoghi, v. Staffa 1995, pp. 215-216, sul significato del toponimo, anche nella versione domo, attestata nelle fonti v. Tulipani 2006, pp. 43-44, note 3,4. Se tale ipotesi potesse essere supportata da fonti documentarie e/o materiali l’acropoli di Iuvanum potrebbe, con la trasformazione di uno dei suoi templi in chiesa, costituire il fulcro attorno al quale si andarono catalizzando le ultime trasformazioni della città. 26 V. ad esempio Mattiocco 1988; per il territorio di Iuvanum Tornese 2003. 27 Gli studi in passato e soprattutto i risultati delle ricognizioni e dei materiali recuperati in tali occasioni non avevano in molti casi portato ad una precisa definizione cronologica del fenomeno, in particolare per le difficoltà di datare i materiali, soprattutto ceramici, di epoca post-classica, con la conseguenza di fissare tali rioccupazioni all’interno di un arco cronologico assai ampio in cui è difficile rileggere motivi e forme di queste frequentazioni. 28 Su questo contesto v. Somma et alii 2006; Somma 2019. 18
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro di S. Maria ad Luquianum o ad Lucrianum, dipendente dall’abbazia di S. Maria in Montesanto a Civitella del Tronto34 (Fig. 16).
compreso inizialmente all’interno di una struttura lignea, in seguito sostituita da un edificio in muratura (Fig. 12). L’impianto cultuale viene inoltre difeso da una imponente torre quadrangolare che va a potenziare la già forte connotazione difensiva fornita dalla stessa collocazione geomorfologica. L’orizzonte cronologico di questa fase si colloca, in base alla stratigrafia, tra VI e VII sec. e la presenza del battistero indica la funzione di cura d’anime dell’edificio. Alcuni elementi residuali, così come il contesto ambientale farebbero ipotizzare anche in questo caso la presenza di una precedente contesto santuariale pagano, lungo una delle principali vie di collegamento transappenniche29.
Il quadro fin qui delineato permette di trarre alcune brevi conclusioni del tutto preliminari. Iniziando dal dato cronologico, tutti i contesti per i quali al momento è possibile stabilire una cronologia si collocano con maggiore o minore grado di approssimazione tra VI e VII secolo, quale momento di costruzione dell’impianto cultuale cristiano. Tale cronologia ben si accorda con quanto è noto sul processo di cristianizzazione di questi territori. Le fonti scritte permettono di delineare una articolata e diffusa strutturazione diocesana a partire del V secolo35. In questa scansione cronologica non sembra esserci una discrepanza tra contesti urbani e aree rurali, sia nelle cronologie che nelle tipologie degli impianti. Relativamente a queste ultime il dato archeologico sembra indirizzare verso impianti mononave con abside semicircolare di non grandi dimensioni (Castel Manfrino, Colle S. Giorgio, Colle del Vento). Fanno eccezione gli edifici di Alba Fucens e Aufinum, che oltre ad una maggiore ampiezza presentano l’impianto canonico a tre navate concluso da abside semicircolare. Questo potrebbe trovare spiegazione nel fatto che si tratta di chiese urbane, che al momento della loro costruzione potrebbero aver svolto funzioni specifiche che motiverebbero tale scelta36. Altro elemento che emerge da questa prima rassegna è che queste chiese sembrano privilegiare in maniera sistematica la rioccupazione di strutture templari romane, o comunque, come nel caso di Castel Manfrino, di luoghi con una forte valenza sacra in antico. Questo aspetto ripropone la vexata quaestio della rioccupazione/rifunzionalizzazione dei templi da parte degli edifici di culto cristiani e della loro cronologia37. Soprattutto per quanto riguarda la cronologia di tali riutilizzi spesso le attestazioni scritte sono tarde e gli stessi edifici si presentano nella ricostruzione/ ristrutturazione di età pienamente medievale, rendendo di fatto difficile risalire al momento preciso della trasformazione38. Per quanto riguarda l’area abruzzese
Rimanendo in ambito teramano il sito di Colle del Vento, presso Piano Vomano (Crognaleto, TE), ha restituito i resti di una chiesa absidata che si reimposta su una struttura templare30 (Fig. 13). L’edificio si trova alla sommità di un’altura (929 metri s.l.m.), in relazione con un ampio insediamento di età preromana, frequentato fino ad epoca romana, a controllo della viabilità di fondovalle che dal valico della Capannelle scendeva lungo il corso del fiume Vomano31. La chiesa è attestata dalle fonti solo in epoca bassomedievale con l’intitolazione a S. Martino in Canpanea32. In relazione con l’edificio si sono ritrovate anche delle sepolture a cassa in materiale litico di riutilizzo, mentre immediatamente a valle, ad Est, sono ancora visibili alcuni edifici pertinenti all’abitato (Fig. 14). All’estremità meridionale del territorio teramano si trova l’ultimo esempio esaminato: quello di Colle S. Giorgio (Castiglione Messer Raimondo, TE)33 (Fig. 15). Anche qui le strutture di un tempio sono state reimpiegate da una chiesa a cui erano connesse delle sepolture realizzate con materiale di reimpiego, similmente a quanto accade a Colle del Vento. L’edificio di culto a navata unica, orientato est-ovest, necessiterebbe di ulteriori indagini sia per ricostruirne l’impianto, che fissarne la cronologia. La presenza di ambienti annessi, oltre alla chiesa, ha portato ad identificare le strutture con il monastero
Indirizzano verso questa ipotesi, oltre al contesto ambientale, la stessa struttura dell’impianto battesimale che sembra reimpiegare come vasca una fossa scavata nella roccia con evidenti tracce di stillicidio dell’acqua e alcuni materiali residuali riferibili ad epoca preistorica e preromana. Per quanto riguarda la viabilità controllata dal sito è stato possibile ipotizzarne l’identificazione con la via Caecilia che da Roma raggiungeva l’Adriatico all’altezza dell’attuale Alba Adriatica, v. Antonelli 2008, pp. 24-31. 30 Su questo sito v. Angeletti 2008; Antonelli 2008, con bibliografia precedente. 31 Sulle fasi preromane e romane dell’insediamento anche con diverse interpretazioni v. Franchi Dell’Orto, Staffa 1991, pp.167-174; Guidobaldi 1995, pp.249-250. 32 La chiesa è menzionata nelle Rationes Decimarum nel 1324 e ad essa fa capo il plebanatus Rocce de Canpania RatDec n. 2216, p.151. Alla fine del XVI secolo doveva però essere già stata abbandonata, v. Antonelli 2008, p. 96 nota 575. 33 Su questo sito, in particolare per la fase romana v. Iaculli 1993; Staffa 2001, pp. 131-133. 34 Sull’identificazione con questo monastero attestato in età bassomedievale nei documenti dell’abbazia di Montesanto, v. Staffa-Pannuzi 1999, p. 327; Staffa 2001, p. 132. 35 Sull’organizzazione diocesana del territorio abruzzese v. Somma 2013 con bibliografia precedente. 36 Nel caso di Aufinum, ad esempio, il fatto che il centro sia noto come sede episcopale alla fine del V sec., rende possibile che l’edificio di Colle S. Antonino potesse costituire parte del complesso vescovile, ma al momento manca qualsiasi certa prova di tale funzione, v. Somma 2013, pp. 85-86. 37 V. Testa 1991, Cantino Wataghin 1999. 38 Il problema per quanto attiene l’Abruzzo è stato recentemente riaffrontato in occasione di una tesi di laurea, cfr. C. Casolino, Dai templi pagani alle chiese cristiane: l’esempio dell’Abruzzo, relatrice M.C. Somma correlatrice S. Antonelli, Corso di Laurea in Beni Culturali, Università “G. d’Annunzio” Chieti a. a.2012/13, Casolino 2018. 29
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Chiese ed alture in area abruzzese tra tarda antichità e altomedioevo. Una spia per leggere le trasformazioni dell’insediamento
sono ancora troppo pochi i contesti scavati stratigraficamente e in estensione per poter meglio precisare tale processo. Una fortunata eccezione è rappresentata da S. Pietro ad Alba Fucens dove il recupero di parte dell’arredo liturgico ha consentito, come si è detto, di collocarne la trasformazione in edificio di culto cristiano al VI secolo. Ci auguriamo che almeno per alcuni siti in cui sono attualmente in corso indagini, come Aufinum e Iuvanum, i dati possano contribuire a meglio definire modalità e cronologie.
ad Alba Fucens, di Colle S. Giorgio40. La condizione di isolamento, laddove questo è accaduto, deve invece aver reso particolarmente attrattivi questi luoghi per l’inserimento di centri di vita monastica, in piena corrispondenza con quella visione di isolamento dal mondo e ascensione verso l’alto che è parte integrante del concetto di vita monastica di cui si è detto all’inizio. Se ci si sofferma sulla scelta localizzativa di questi edifici, è evidente come questa sia dettata dal rapporto con la rete viaria con una chiara volontà di controllo e gestione del territorio, che si tramuta in età basso medievale nella formazione di veri e propri centri fortificati, come nei casi già citati di Castel Manfrino e San Vittorino. Non si può sottovalutare, tuttavia, a priori la componente simbolica legata alla percezione dell’altura come ancestrale luogo sacro che deve aver influenzato tali scelte, sapientemente recuperato e riproposto anche in chiave cristiana. In questo senso non vanno sottovalutati gli aspetti esauguranti, sottesi alle numerose rioccupazioni/sovrapposizioni a precedenti templi pagani che al momento sembrano essere le situazioni più diffuse. Al di là dei significati politici e simbolici che tali operazioni possono aver avuto, esse mostrano anche altro. Come i santuari e i templi, già da epoca preromana, avevano costituito il tessuto connettivo di una trama insediativa che aveva in questi luoghi i propri riferimenti spaziali e monumentali41, il processo di cristianizzazione recuperando i medesimi capisaldi testimonia indirettamente il perdurare di tale trama almeno fino a tutto l’altomedioevo.
Un ulteriore elemento di riflessione è costituito dal ruolo svolto da tali edifici come spie della trasformazione e della continuità dei centri urbani e come cartine al tornasole del popolamento rurale, soprattutto alla luce di una loro possibile funzione di edifici con cura d’anime. Per quanto riguarda le città gli esempi presentati di Amiternum, Alba Fucens e Aufinum costituiscono altrettanti esempi di quel recupero/rifunzionalizzazione delle alture, con particolare riguardo all’acropoli, ben evidenziato dalla Ermini Pani come fenomeno peculiare delle trasformazioni urbane soprattutto tra V e VI secolo, in un’ottica sia difensiva, che di esaugurazione in senso cristiano della dimensione sacra di questi luoghi39. Passando ad esaminare gli esempi presenti nel territorio, questi come accade per tutte le chiese attestate nelle campagne, anche per quelle in altura, si pone in primo luogo il loro valore di fonte primaria per la ricostruzione dell’insediamento rurale. Per alcuni dei casi presentati è certa la loro funzione di ecclesiae baptismalis, documentata archeologicamente per Castel Manfrino, dalla presenza di ambienti destinati al battesimo. Tale funzione è, invece, ipotizzabile in altri casi, sulla base delle attestazioni plebane di età medievale, come ad esempio per la chiesa di Colle del Vento. Per tutti questi contesti, tale funzione è in parte rafforzata dalla esistenza nei pressi dell’edificio di culto di abitati o preesistenti (Colle del Vento, Castel Manfrino), o attratti proprio dalla presenza dell’edificio di culto, che acquistano caratteri fortificati, vedi i casi del Castrum Maccle (Castel Manfrino), del castrum Sancti Victorini (Amiternum). Dai casi esaminati emerge anche un altro fenomeno piuttosto ricorrente, di cui danno conto soprattutto le fonti scritte di epoca basso medievale, quello della istituzione di monasteri accanto a questi edifici di culto. I contesti interessati da questo tipo di evoluzione, sembrano essere quelli che non sono stati in grado nel corso dell’alto medioevo di attrarre forme stabili di insediamento demico, vedi i casi di S. Pietro
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 1 – Carta dell’Abruzzo con i principali insediamenti e la viabilità di epoca romana con evidenziate le località citate nel testo.
Fig. 2 – Amiternum (AQ), posizionamento della città romana e del colle di S. Vittorino, con la chiesa di S. Michele (elaborazione da GoogleEarth)
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Chiese ed alture in area abruzzese tra tarda antichità e altomedioevo. Una spia per leggere le trasformazioni dell’insediamento
Fig. 3 – S. Vittorino (AQ), l’attuale chiesa di S. Michele (foto dell’autore)
Fig. 4 – Alba Fucens (AQ), la collina di S. Pietro e la chiesa (foto dell’autore)
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 5 – Alba Fucens (AQ) – frammenti scultorei dell’arredo liturgico della chiesa di S.Pietro (da Giuntella 2001)
Fig. 6 – Aufinum (Capestrano, AQ), il Colle di S. Antonino dal castello di Capestrano (foto dell’autore)
Fig. 7 – Aufinum (Capestrano, AQ), l’area degli scavi in cui si riconosce l’abside dell’edificio di culto (da Somma et alii 2018)
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Chiese ed alture in area abruzzese tra tarda antichità e altomedioevo. Una spia per leggere le trasformazioni dell’insediamento
Fig. 8 – Iuvanum (Montenerodomo, CH), l’acropoli con l‘indicazione degli edifici (foto dell’autore)
Fig. 9 – Iuvanum (Montenerodomo, CH), l’acropoli con le strutture del monastero sulla sinistra e i due templi al centro
Fig. 10 – Iuvanum (Montenerodomo, CH), particolare del podio del tempio A (foto dell’autore)
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 11 – Castel Manfrino (Vallecastellana, TE), veduta del castello (foto dell’autore)
Fig. 12 – Castel Manfrino (Vallecastellana, TE), pianta degli scavi con evidenziate l’abside della chiesa, il battistero e la torre
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Chiese ed alture in area abruzzese tra tarda antichità e altomedioevo. Una spia per leggere le trasformazioni dell’insediamento
Fig. 13 – Colle del Vento (Piano Vomano, TE), chiesa (da Antonelli 2008)
Fig. 14 – Colle del Vento (Piano Vomano, TE), sepoltura (da Antonelli 2008)
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 15 – Colle S. Giorgio (Crognaleto, TE), pianta degli scavi. ‘A’ edificio di culto (da Staffa 2001)
Fig. 16 – Colle S. Giorgio (Crognaleto, TE), le strutture dell’edificio di culto (da Staffa 2001)
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SEZIONE VI
La metodologia e le scienze nella ricerca archeologica a cura di
Vasco La Salvia
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Silvano Agostini
Archeometria tra ricerca, didattica ... e storia Abstract: The contribution of a geoarchaeological approach and multidisciplinary archaeometric methodology in the reconstruction of past human activities, in the definition of the archaeological areas and to the knowledge of artefacts, has been the activity of the SABAP Geological and Paleontological Service directed by the author in the last forty years. In this paper, after a brief description of the story and aims of the geoarchaeology and archaeometry in a their integrated vision which has always been the basis of our activity, some test cases are discussed and illustrated. They include obviously the educational project on the Roman Baths and Cisterns in Chieti, which has been a project caried out in close collaboration with Sara Santoro. The project was an important opportunity to reconsider all the studies already done on the hydro-geomorphological contexts of the archaeological area. Analytical research has been done on the Roman masonry and on opus caementicium, as well as on the ancient marbles which have been used in this monument, on the plaster, on the mosaic tiles and on the glass-paste tiles: including geoarchaeology and archaeometric approaches. The project was also an opportunity to start a new typology of interdisciplinary study, integrating the results of previous researches, together with diagnostic analyses, topographical and geomorphological re-contextualization, restoration and hydrogeological rehabilitation of an archaeological area in a problematic urban context.
Le scienze per l’archeologia, conosciute anche come archeometria, sono un insieme di tecniche scientifiche applicate principalmente alla individuazione di siti, di modelli insediamentali, alla stratigrafia archeologica, ai reperti archeologici stessi e alla loro produzione. Il termine archeometria è stato introdotto e usato per la prima volta nel 1958 come titolo di un volume speciale pubblicato dal Laboratorio di ricerca per l’archeologia e la storia dell’arte dell’Università di Oxford. Nel solco di questo lungimirante contesto di studi tuttora il Consiglio delle ricerche naturali e ambientali del Regno Unito, destina specifici fondi autonomi all’archeometria rispetto a quelli destinati all’archeologia. Le tecniche scientifiche applicate (anche ma non solo all’archeometria s.s.) indagano e si caratterizzano oggi come:
e dati satellitari (Lidar, SAR), foto aeree, riprese da pallone e drone. Immagini utilizzate per la ricerca e per il monitoraggio dei siti e dei contesti (esposti all’abusivismo o alla distruzione negli scenari di guerra e di terrorismo) • approccio specifico per la conservazione ed il restauro con metodologie affini, coincidenti e proprie della diagnostica, nello studio dei processi di degrado e nello sviluppo di applicazioni e prodotti di nuova generazione per la conservazione in sito, nei depositi e nei musei. Se riflettiamo sulla definizione di geoarcheologia data dal gruppo di ricerca che afferisce ed opera alla Stanford University, emerge che viene di fatto definita una disciplina olistica nella quale sono applicati i concetti e i metodi propri delle scienze della terra (geologia, geomorfologia, idrologia, sedimentologia, pedologia, esplorazione geofisica, etc.) ai contesti archeologici, per definire in sintesi l’evoluzione a scala regionale o più ampia, dei cambiamenti ambientali e del paesaggio in relazione ai gruppi umani.
• approccio ambientale per la definizione dei paleopaesaggi e del paesaggio storico, variazioni dei contesti morfoclimatici, floristico vegetazionali (paleobotanica) e faunistici (archeozoologia), in relazione anche al man’s impact • protocolli e tecniche per la definizione materica, l’approvvigionamento, la produzione e la lavorazione di materiali lapidei naturali e artificiali, metalli, etc. • protocolli e tecniche che definiscono dieta, nutrizione e patologie delle popolazioni • protocolli e tecniche fisiche e chimiche applicate alla definizione di datazioni e cronologia (assoluta e relativa) degli artefatti archeologici e degli strati • metodi matematici, statistici e più in generale di applicazione dell’informatica e dei calcolatori, tra i quali la cartografia numerica, i GIS e la realtà aumentata • un uso diffuso del remote sensing mediante foto
Emerge anche la necessaria multi e interdisciplinarietà per la ricerca dei siti, la loro conservazione e quella dei reperti, ma sopratutto l’evidente integrazione tra geoarcheologia e archeometria. L’evidenza a mio avviso è tale che l’archeometria, basandosi sulle tecniche fisiche, chimiche, radiometriche, geochimiche e mineropetrografiche (ovvero le cosiddette scienze per l’archeologia) e di irrinunciabile correlazioni con i contesti geologici, debba ricondursi ed essere compresa, nella definizione stessa di geoarcheologia.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro E’ interessante vedere come dal 1958 ad oggi, le discipline geoarcheologiche siano divenute punto di riferimento per la ricerca archeologica e siano sempre più presenti nella letteratura di settore. In questa ritengo importanti e segnalo il volume Special pubblication 165 della Geological Society dal titolo Geoarcheology exploration, environments and resource, a cura di A.M. Polland e il più recente Journal of the European Federation of Geologist n. 38 del novembre 2014, completamente dedicato alla: Geoarcheology - reconstructing our early history. Nel panorama italiano si sono diffusi, di recente anche in rete, alcuni manuali specifici. Tra tutti il più completo ed organico a mio avviso è l’opera curata dall’amico Mauro Cremaschi, “Manuale di Geoarcheologia”, un volume edito da Laterza che fa parte della collana dei manuali per l’archeologia e i beni culturali. Sopratutto in questo testo, emerge ampiamente l’impostazione per metodo e finalità, l’approccio olistico della geoarcheologia. Un metodo questo di approccio olistico che è stato posto a base e ha sempre guidato le attività istituzionali svolte con gli studi e le ricerche condotte da chi scrive e dalla dottoressa M.A. Rossi, nell’ambito del Servizio Geologico e Paleontologico della già Soprintendenza ai beni archeologici, oggi dopo la riforma del MiBAC, Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio dell’Abruzzo.
carta prodotta fu anche esposta a titolo di esempio nel Museo archeologico di Villa Frigeri in occasione del nuovo allestimento che fu inaugurato nel 1986. Oltre ai terrazzamenti e alla cinta perimetrale, particolare interesse riveste la sistemazione, con cronologia coerente a quella delle sepolture stesse, di una struttura semicircolare, con ampio spazio antistante, per la quale si ipotizzò la presenza di un comizio o di un’area comune per spettacolo? riunioni? mostra mercato?. Analoghe strutture sono state individuate successivamente nel tempo in altre aree archeologiche dell’Abruzzo montano, sempre in contesti di cronologia italico romana. Nell’ambito delle attività per l’apposizione di vincoli, e più in generale per la tutela come per la ricerca, è stata messa a punto una cartografia di tipo derivato, da utilizzare per valutare e indirizzare i metodi di indagine archeologica a varia scala. Il prodotto, denominato Carta della visibilità, deriva dalla Carta idrogeomorfologica e dalla Carta dell’uso del suolo. I parametri evidenziano, la potenzialità e la probabile risposta delle ricognizioni dirette sul terreno (mirate e no), del telerilevamento (foto aeree o altro tipo di riprese) e della geofisica, in relazione alle strutture potenzialmente presenti quali insediamenti l.s., murature, tombe di varia tipologia, fossati, strade, cunicoli e cavità, etc. (AGOSTINI et al. 1993); questo tipo di ricerche geoarcheologiche ha visto un ampio impiego (AGOSTINI 1989a, 1989b, 1989c; AGOSTINI & ROSSI 1983a; AGOSTINI & ROSSI 1983b; AGOSTINI & ROSSI 1988b; AGOSTINI & ROSSI 1989b). Alla scala di sito sono state affinate nel tempo particolari tecniche di stratigrafia integrata sviluppate in modo particolare per le successioni stratigrafiche degli insediamenti perilacustri (Fig. 1), del paleolitico e per quelle presenti nelle grotte carsiche (AGOSTINI 1986; AGOSTINI 2010c; AGOSTINI 2017; AGOSTINI et al. 1989A; AGOSTINI et al. 1992; AGOSTINI et al. 1994; AGOSTINI et al. 2003; AGOSTINI & d’ERCOLE 1986; AGOSTINI, d’ERCOLE, DE GROSSI 1992; AGOSTINI & OLIVE 2017; AGOSTINI & ROSSI 1989a; AGOSTINI, ROSSI 1989c; LUBELL et al. 1995; MUSSI et al 2007; PALOMBO et al., 2010; VILLA et al. 2016). Una delle applicazioni dei dati e dei risultati è stata la ricostruzione di scenari paleoecologici e del man’s impact (AGOSTINI 1996; AGOSTINI 2015c; 2015d; AGOSTINI et al. 1989B; AGOSTINI et al. 2008; AGOSTINI & ROSSI 2003; COLECCHIA & AGOSTINI 2014). Gli ambienti ipogei naturali sono stati oggetto anche di studi pioneristici di paleosismicità contestualmente all’archeologia sismica ovverosia al riconoscimento di eventi che hanno danneggiato o distrutto le strutture archeologiche (AGOSTINI 2015a; AGOSTINI & STOPPA 2014; FALCUCCI, AGOSTINI, GALADINI 2008; GALADINI, AGOSTINI, CECCARONI, FALCUCCI 2012). Per la geofisica, che dagli anni 90’ del secolo scorso fino al 2010 si è eseguita con i metodi della geoelettrica, della sismica e del georadar (GPR), si sono ottenuti ottimi risultati. Le prospezioni sono state modulate e fondate sempre su un progetto geofisico, talvolta anche di simulazione
Ripercorrendo l’intervento da me svolto durante il convegno in memoria di Sara Santoro, riassumerò di seguito a titolo esemplificativo, i risultati di alcune ricerche condotte in ambito geoarcheologico, per le attività di tutela e di valorizzazione. I test case che sono qui presentati ripercorrono in ordine cronologico (di esecuzione), lavori svolti dai primi anni 80’ del secolo scorso fino ai nostri giorni. Essi hanno interessato tutto il territorio regionale e anche aree più o meno estese di altre regioni nell’ambito di collaborazioni con altre Soprintendenza e Università (AGOSTINI 1995a, AGOSTINI 1996, AGOSTINI et al. 1996, MENOZZI, DI VALERIO, AGOSTINI 2017, MARINANGELI, AGOSTINI et al. 2016, MENOZZI et al. 2014, 2018). Nel territorio di Torre dei Passeri lo scavo di sepolture riferibili all’età del ferro, fu l’occasione per redigere una cartografia dell’area con particolare attenzione alle unità del Quaternario continentale. Furono inoltre rilevate e correlate stratigrafie con livelli antropici e stratigrafie con depositi di sola genesi naturale. Il rinvenimento di strutture archeologiche preesistenti e sconvolte dell’età del bronzo, fu l’occasione per uno studio archeometrico delle relative ceramiche (AGOSTINI & ROSSI 1988a). Durante gli scavi delle necropoli poste presso Forca Caruso (passo montano che condiziona la viabilità storica tra l’area fucense e la conca subequana) furono eseguiti rilievi per la redazione di una carta geomorfologica con elementi riconducibili a interventi diretti o di trasformazione antropici. La 656
S. Agostini
Archeometria tra ricerca, didattica ... e storia
delle anomalie potenzialmente presenti sulla base delle informazioni assunte dagli archeologi e/o delle strutture archeologiche preesistenti (AGOSTINI & ROSSI 1994; AGOSTINI & ROSSI 1995). Si riportano a titolo di esempio sezioni di “radar grammi” di Opi (AQ) località Val Fondillo (sepolture a cassone e in buche di terra per l’inumazione infantile), le strutture della grande vasca della Villa romana di Piana San Giacomo a Corfinio (AQ), delle strutture e infrastrutture (dall’età romana al medioevo e oltre), con pavimentazioni e crolli sovrapposti nel cortile di Palazzo Melatino a Teramo (Fig.2).
5,6,7), con una mostra itinerante di successo. Le attività didattiche del Progetto Terme di Chieti sono state ampliate da seminari tematici (aperti anche al pubblico), e da esercitazioni tecnico pratiche e formative, che hanno compreso rilievi con drone e laser scanner, attività in laboratorio per le analisi mineropetrografiche su campioni di tessere bianche, nere e delle malte di allettamento, l’introduzione ai metodi analitici per lo studio e il riconoscimento dei lapidei (marmi antichi e pietre policrome), come pure al significato e alla interpretazione delle analisi chimiche composizionali delle paste vitree. E’ con questo spirito, mantenendo un impegno preso con Sara e con i suoi più stretti collaboratori, che continuo, in terra di Albania a Durazzo, le ricerche per me sempre affascinati di geoarcheologia, comprensiva delle indagini archeometriche (Fig.8), ricerche nelle quali sono coinvolti come lei ha sempre fatto, gli studenti, i laureandi e gli archeologi già specializzati.
Per le ricerche archeometriche i materiali privilegiati sono stati le ceramiche (Fig.3), le terrecotte, le malte, i lapidei (pietre, marmi e pietre policrome), le tessere musive anche in pasta vitrea (AGOSTINI 1987b; AGOSTINI 2000; AGOSTINI 2010a, 2010b; AGOSTINI 2014; AGOSTINI 2015b; AGOSTINI, BULGARELLI, PELLEGRINI 1994; AGOSTINI et al. 1995; AGOSTINI et al. 2002; AGOSTINI et al. 2008; AGOSTINI et al. 2015; AGOSTINI & ROMANO 2000; AGOSTINI, ROSSI 2017; AGOSTINI, ROSSI, STIVALETTA 2003a, 2003b; AGOSTINI, ROSSI, STIVALETTA 2004a, 2004b; AGOSTINI, STIVALETTA 2007; MARIOTTINI et al 2004; NOUGUERA CELDRAN, AGOSTINI et al 2001; KANE, CRAWFORD, AGOSTINI 2011; MANCINI & AGOSTINI 2014). Nell’ambito del Progetto finalizzato Beni Culturali furono analizzati campioni di ceramica di tutte le classi provenienti dai più importanti contesti preistorici e protostorici dell’Abruzzo. Successivamente nell’ambito di una collaborazione, uno studio analogo è stato condotto per l’Umbria. L’utilizzo della statistica mediante cluster analysis (analisi dei gruppi) ha sempre accompagnato il trattamento dei dati analitici.
... che la terra ti sia finalmente lieve Sara ...
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Volutamente per ultimo richiamo le ricerche di archeometria svolte per il riconoscimento e la caratterizzazione dei marmi antichi, delle tessere musive, delle malte e delle tessere in pasta vitrea, che hanno avuto l’opportunità di essere riprese e riproposte con entusiasmo, nell’ambito del progetto didattico sulle Terme romane di Chieti curato insieme ai colleghi archeologi della Soprintendenza e dell’Università G. d’Annunzio di Chieti Pescara, coordinati da Sara Santoro (Fig.4). E’ stata una esperienza formativa per gli studenti coinvolti, gratificante e di soddisfazione per noi tutti. Gli studenti hanno completato l’importante esperienza, che li ha visti partecipi anche di un intervento di parziale restauro del mosaico posto nell’aula centrale delle terme (Fig.
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Archeometria tra ricerca, didattica ... e storia
Fig. 1. Sito perilacustre di Celano Paludi: stratigrafia archeologica con dati paleocologici (da AGOSTINI S. ROSSI M.A. 1989 c)
Fig.2. Prospezioni georadar (GPR): in alto a destra individuazione delle tombe 10 e 7 della necropoli di loc. Val Fondillo a Opi (AQ); in alto a sinistra individuazione dei due muri longitudinali pertinenti la vasca della villa romana di Piana San Giacomo a Corfinio (AQ); in basso a destra planimetria con risultati delle prospezioni GPR eseguite nel cortile di Palazzo Melatino a Teramo, a destra esempio di radar gramma, con sovrapposta interpretazione dei segnali riflessi, acquisito nel cortile di Palazzo Melatino a Teramo.
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Fig. 3. Esempi di microfotografie di sezioni sottili pertinenti pareti di ceramiche preistoriche (riprese eseguite a nicols incrociati oculare 10x - obiettivo 6,3x ): in alto a destra Grotta di Ortucchio (neolitico); in alto sinistra villaggio di Ripoli (neolitico); in basso a destra Celano Paludi (età del bronzo finale) e in basso a destra grafico dello spettro XRD dello stesso campione.
Fig.4. Terme romane di Chieti: studenti al lavoro (pulizia e restauro) sul mosaico del delfino - aula centrale, nell’ambito del progetto Terme coordinato da Sara Santoro.
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Fig. 5. Terme romane di Chieti: microfotografie di sezione sottile pertinente una tessera bianca del pavimento a mosaico con delfino dell’aula centrale; si tratta di un calcare del Cretacico superiore di piattaforma carbonatica della Majella (ripresa eseguita a nicols paralleli e incrociati oculare 10x - obiettivo 6,3x ).
Fig. 6. Terme romane di Chieti: microfotografie di sezione sottile pertinente una tessera nera del pavimento a mosaico con delfino dell’aula centrale; si tratta di un calcare con impregnazione di asfalto del Miocene medio di rampa carbonatica della Majella (ripresa eseguita a nicols paralleli e incrociati oculare 10x - obiettivo 6,3x ).
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Fig.7. Terme romane di Chieti: microfotografie dello strato inferiore e superiore della malta di allettamento delle tessere del pavimento a mosaico con delfino dell’aula centrale (riprese a nicols paralleli e incrociati oculare 10x - obiettivo 6,3x)
Fig. 8. Analisi di frammenti ceramici con microscopio digitale presso il museo archeologico di Durazzo, eseguite da Maria Dormio e dall’ispettore Archeologo albanese dott.ssa Elvana Metalla. Le analisi archeometriche per la definizione della fabric sono una delle attività di documentazione svolte nell’ambito della Missione archeologica Ud’A2017. In alto a destra i contesti tipo a cui sono ricondotti i gruppi di impasto che caratterizzano le diversificate classi ceramiche rinvenute negli scavi dell’anfiteatro di Durazo. In basso a sinistra un esempio di cluster analysis applicato ai risultati analitici di alcuni campioni di ceramiche espresse dalle 38 variabili del protocollo analitico messo a punto ed in uso dal Servizio geologico e paleontologico della SABAP dell’Abruzzo.
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Emanuela Ceccaroni, Fabrizio Galadini
Evidenze di terremoti antichi nell’Abruzzo interno: i risultati delle ricerche archeosismologiche Abstract: This paper presents results of past archaeoseismological investigations in the Abruzzi region. The first study case is related to the 2nd century AD earthquake which struck the area of Sulmona. Archaeological data collected during modern excavations have been gathered, i.e. information on (1) stratigraphic units due to the sudden collapse of buildings over still frequented floors; (2) stratigraphic units demonstrating restoration or re-building of edifices; (3) stratigraphic units formed as the result of the abandonment of sites or of their lack of frequentation for decades or centuries. This allowed us to roughly delineate an area of possible damage, including the Sulmona Plain and surrounding areas and to make hypotheses on the fault which caused the earthquake. The second study case is represented by the Subequana Valley. Paleoseismological investigations along the fault bordering the basin showed a sudden motion following the 3rd-2nd century BC. The chronological framework is consistent with that obtained for the different phases of the adjacent sacred area. The oldest building, attributed to the 3rd-2nd century BC, was abandoned and levelled between the 2nd and the 1st century BC, before the construction of the new temple. Excavations during the first decade of the 20th century uncovered collapsed remains of the ancient sacred building consistent with the effects of the paleoseismologically inferred earthquake. As for the third case, paleoseismological investigations in the 1990s identified a surface faulting event in the Fucino Plain (central Italy) related to the 5th-6th century AD. Since this event caused surface faulting, certainly it seriously damaged the settlements of the 5th-6th century AD. This has been demonstrated by excavations at Alba Fucens and other archaeological sites of Marsica region since the half of the 20th century showing impressive evidence of sudden destruction chronologically consistent with the paleosismologically defined surface faulting event. The fourth study case is represented by the 1349 earthquake which struck central Italy and damaged Rome. Archaeological investigations on the Medieval remains of San Bartolomeo, the main historical church of Avezzano, confirmed information from a coeval written source indicating the damage of the building due to the 1349 earthquake. The damage most likely conditioned the abandonment of the apsidal sector and its (re)use for burials.
esclusivamente per motivi cronologici, ha indotto spesso alla formazione di una casistica di eventi topograficamente isolati che, attingendo ai Cataloghi disponibili2, non ha tenuto in debito conto le necessarie indicazioni metodologiche che sono alla base dei processi esaminati.
Nel periodo 2006-2017, la collaborazione tra l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e la Soprintendenza per i Beni archeologici dell’Abruzzo (ora Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio dell’Abruzzo) ha portato all’analisi di vari contesti di interesse interdisciplinare che hanno consentito di individuare tracce evidenti di terremoti avvenuti in età storica, per i quali si disponeva, in alcuni casi, di indicazioni epigrafiche o letterarie, mentre in altri di dati paleosismologici acquisiti nel corso di ricerche geologiche precedenti.
I successivi richiami a una prima ipotesi archeosismologica hanno spesso generato bibliografie con effetto moltiplicatore dell’iniziale interpretazione non corretta, come nel caso del terremoto del 346 d.C., la cui origine è da collocare nel Sannio e le cui caratteristiche non consentono la diffusione del danno in zone lontane da quella regione, come alcune aree dell’Abruzzo interno3.
In questa sede saranno brevemente esaminati i principali casi di studio dell’ultimo decennio, presentati anche nel corso del convegno, in modo da fornire un quadro riassuntivo che possa essere utilizzato per un approccio corretto al tema archeosismologico, troppo spesso impropriamente usato in ambito archeologico ai fini dell’interpretazione di dati non altrimenti comprensibili1.
La corretta analisi geofisica e l’approccio territoriale esteso, dal quale emerge la distruzione di un danno fisicamente compatibile, risultano invece essere gli elementi determinanti per l’attribuzione a terremoti di tracce di distruzione emerse nel corso di scavi archeologici.
La facilità con la quale si procede all’attribuzione di una stratigrafia di crollo a un determinato terremoto,
Su questi argomenti si è soffermata, in alcuni momenti,
Galadini, Hinzen, Stiros, 2006. Vedi Guidoboni, 1989 e Guidoboni et al., 2018. 3 Galadini, Galli, 2004. 1 2
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro sopra dei piani, senza unità interposte di abbandono o di differente utilizzo dell’area.
anche l’attività di ricerca di Sara Santoro, alla quale è dedicato questo contributo, nel ricordo del confronto e dello scambio avuto soprattutto nei giorni trascorsi nell’antica città di Corfinio.
Tali evidenze, coerenti con la distruzione cosismica, sono state riconosciute nei siti all’interno del bacino peligno, mentre nessun dato archeologico coerente con il terremoto indagato è stato rinvenuto in altri siti documentati stratigraficamente nel settore geografico prossimo (Amiternum, Peltuinum, Anxanum-Lanciano, Histonium-Vasto, Teate-Chieti, Schiavi d’Abruzzo, Aesernia-Isernia).
TERREMOTO II SEC. D.C. Il primo caso di studio4 ha riguardato un terremoto, noto da una iscrizione menzionante il restauro di una pesa pubblica nel pagus di Interpromium (CIL IX, 3046), datata al II sec. d.C.
Ciò ha consentito di meglio definire l’area del possibile risentimento, ad indicare che il bacino di Sulmona può essere considerato come l’area epicentrale del terremoto; l’evidenza di distruzione osservata può pertanto rappresentare il quadro degli effetti dell’evento sismico nel cosiddetto campo vicino.
Nel 2007 l’evento era riportato nel catalogo CPTI045. con la data convenzionale del 101 d.C., una intensità epicentrale pari al grado 9-10 della scala Mercalli-CancaniSieberg (MCS), magnitudo Maw 6.3 ed epicentro a San Valentino in Abruzzo Citeriore, in provincia di Pescara. La molteplicità dei risultati emersi nel corso di scavi, condotti a partire dagli anni Novanta in un contesto geografico prossimo, ma non gravitante su quest’ultima area, ha portato a una riconsiderazione delle informazioni disponibili, sulla base di analisi stratigrafiche che hanno tenuto conto esclusivamente dei dati riferibili al II sec. d.C.
Una moneta di Antonino Pio, datata al 147-148 d.C. e rinvenuta in un’unità di crollo nell’area di Piano San Giacomo di Corfinio, è stata finora assunta come terminus post quem per la definizione cronologica del terremoto. L’origine del sisma può essere attribuita all’attivazione della faglia del Monte Morrone, in base alla compatibilità della distribuzione delle evidenze archeosismologiche con la geometria di questa sorgente sismogenetica; a quest’ultima non era stato prima associato alcuno dei forti terremoti storici avvenuti negli ultimi secoli (es. 1349, 1456, 1706, 1933), poiché le relative distribuzioni del danno non mostrano apparente compatibilità con gli effetti attesi dall’attivazione della faglia che delimita la conca peligna.6
I vari siti esaminati, sia dell’area peligna (Sulmona, Cansano/Ocriticum, Corfinio, Castel di Ieri, Raiano) che in zone limitrofe (Marruvium/San Benedetto dei Marsi, Iuvanum), hanno restituito le seguenti informazioni: 1) unità stratigrafiche dovute all’improvviso crollo di edifici su piani ancora frequentati; 2) unità stratigrafiche relative al restauro o alla ricostruzione di edifici;
Tale ipotesi di attribuzione è ulteriormente rafforzata da simulazioni della distribuzione del danno in caso di attivazione della sorgente sismogenetica, ottenute mediante l’utilizzo di algoritmi in grado di produrre scenari di scuotimento espressi in distribuzioni delle accelerazioni di picco del terreno, successivamente trasformate in valori di intensità MCS.
3) unità stratigrafiche relative all’abbandono di siti o all’assenza di frequentazione per decenni o secoli. Non sono stati considerati interventi di ricostruzioni riconducibili al medesimo arco di tempo, se non quando supportati da riscontri stratigrafici certi di precedenti distruzioni, come nel caso degli ampliamenti del II sec. d.C. della città di Sulmona, sia in settori prossimi alle mura che immediatamente all’esterno.
Allo stato attuale delle ricerche, poiché nessun altro evento storico può essere attribuito a questa faglia attiva, il tempo trascorso dalla sua ultima attivazione potrebbe essere nell’ordine di 1.850 anni, cioè un arco temporale nell’ordine del tempo di ricorrenza delle sorgenti sismogenetiche appenniniche.
Le informazioni raccolte hanno permesso di delineare un’area di possibili danni, compresa tra la Piana di Sulmona e le zone circostanti, nella quale i casi di collasso indagati hanno suggerito che si siano verificate improvvise distruzioni di edifici ancora in uso, attestate da una giacitura degli strati di collasso solitamente al di
In considerazione della lunghezza, la faglia potrebbe essere responsabile di terremoti con magnitudo fino a
I risultati in Ceccaroni et al., 2009; a questo contributo si rimanda per la bibliografia di riferimento e per le informazioni di carattere archeologico utilizzate nella ricostruzione proposta. 5 Gruppo di Lavoro CPTI, 2004. 6 Galadini, Galli, 2001. 4
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E. Ceccaroni, F. Galadini
Evidenze di terremoti antichi nell’Abruzzo interno: i risultati delle ricerche archeosismologiche
6.6-6.77: questa potrebbe essere stata la magnitudo del terremoto del II secolo in base alla compatibilità del presunto danno sismico con lo scenario di scuotimento ottenuto a partire dalla modellazione della sorgente del Morrone.
La datazione ottenuta risulta compatibile con le differenti fasi dell’area sacra, posta a poca distanza; nel corso delle campagne di scavo, è stato inizialmente individuato e indagato un tempio (A), ancora bene conservato e cronologicamente più recente rispetto a quello di minori dimensioni (B), i cui resti furono interrati12.
Infine, considerando che Sulmona (la città più importante nella regione indagata) si trova nel mezzo della piana posta ai piedi del Monte Morrone, la città può essere assunta come area epicentrale, come del resto chiarito dalla citata modellazione.
La struttura più antica, risalente al III-II sec. a.C., fu abbandonata e obliterata tra II e I sec. a. C., determinando la successiva costruzione del nuovo edificio, di maggiore impegno monumentale, ma con medesima scansione planimetrica caratterizzata da tre celle.
Lo studio ha pertanto consentito di giungere alle seguenti acquisizioni:
Lo scavo del tempio più antico, a sua volta posto al di sopra di una necropoli di tombe a circolo di VII-VI sec. a.C., ha riportato alla luce lacerti di stratigrafie riconducibili a crolli improvvisi, che, a loro volta, possono essere cronologicamente associati alla dislocazione delle stratigrafie archeologiche intercettate durante lo scavo della trincea paleosismologica.
il terremoto si è verificato poco dopo il 147-148 d.C., la sua magnitudo fu presumibilmente nell’ordine di 6.66.7, l’area in cui dovrebbe porsi l’epicentro coincide con la zona in cui si trova la città di Sulmona. Le ipotesi formulate nella pubblicazione del 2009 sono state successivamente confermate da indagini paleosismologiche condotte lungo la faglia del Monte Morrone8.
Nel caso in esame, non sono al momento disponibili ulteriori testimonianze in siti archeologici compresi nell’area nella quale sarebbe prevedibile l’occorrenza di danni causati da tale evento distruttivo. La compatibilità delle evidenze di distruzione nel tempio di Castel di Ieri con l’accadimento di un evento sismico è tuttavia supportata dalla puntuale attestazione dell’attivazione della faglia della Valle Subequana nel medesimo ambito cronologico.
TERREMOTO II-I SEC. A.C. DELLA VALLE SUBEQUANA Nel 2009, nelle settimane immediatamente precedenti il terremoto dell’Aquila, furono effettuate indagini paleosismologiche nella Valle Subequana, nei pressi del cimitero di Castel di Ieri9.
Le ricerche future, pertanto, potranno contribuire al rafforzamento della ricostruzione qui effettuata, mediante l’acquisizione di ulteriori dati di interesse archeosismologico.
A queste ricerche furono affiancati i rilevamenti geologici e geomorfologici lungo il versante occidentale del Monte Urano e le indagini geoarcheologiche presso la vicina area sacra; tali attività fornirono dati utili per lo studio del segmento subequano della faglia della Media Valle dell’Aterno. Questa, complessivamente, presenta una lunghezza dell’ordine dei 30 km e sarebbe potenzialmente in grado di generare terremoti di magnitudo nell’ordine di 6.810.
TERREMOTO TARDOANTICO DEL FUCINO Il caso del terremoto tardoantico costituisce l’esempio dell’applicazione di un metodo di ricerca interdisciplinare che ha riguardato ambiti differenti e ha fornito un quadro d’insieme utile per indirizzare le indagini nel settore geografico di riferimento13.
Le indagini paleosismologiche realizzate lungo la faglia hanno mostrato un’attivazione della stessa successiva al III-II sec. a.C.; tale determinazione cronologica è resa possibile dalla presenza di materiali ceramici all’interno delle unità dislocate, intercettate durante lo scavo delle trincee del 200911.
Al centro dello studio è stata la città romana di Alba Fucens, colpita dal forte terremoto del 1915 (Mw 7.1, secondo il Catalogo CPTI1514) che distrusse completamente il borgo medievale, costruito sulla collina di San Nicola dopo l’abbandono del Piano di Civita, occupato dall’insediamento romano.
Gori et al., 2011. Galli et al., 2015, da notare che in questo più recente articolo, inspiegabilmente dal punto di vista scientifico, non si fa menzione di quanto pubblicato da Ceccaroni et al. nel 2009. 9 Falcucci et al., 2010. 10 Falcucci et al., 2011; Falcucci et al., 2015. 11 Falcucci et al., 2011. 12 Campanelli (ed.) 2007. 13 Galadini, Ceccaroni e Falcucci, 2010. 14 Rovida et al., 2016. 7 8
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro frequentati al momento della distruzione, in assenza di livelli di abbandono (sedimenti colluviali o riporti) tra gli strati di crollo e i pavimenti.
Gli studi paleosismologici degli anni Novanta dello scorso secolo, effettuati lungo le faglie attivatesi nel 191515, avevano riconosciuto la dislocazione di un canale romano scavato nel bacino del Fucino e ipotizzato l’occorrenza di un forte terremoto anche durante la tarda antichità.
Dalle relazioni e dalle foto è stato anche ricostruito il rapporto esistente tra elementi in crollo giustapposti, grazie alla contiguità e all’associazione degli stessi nel momento del collasso. Esempio evidente, utile per l’approccio metodologico, è risultato essere il caso dei pilastri lungo la via Valeria, scoperti tra il 4 e il 13 giugno 1951, con i blocchi giustapposti e i relativi capitelli posizionati attraverso la strada; le relazioni di scavo così riportano: “furono scoperti quattro blocchi di pietra squadrata, probabilmente legati a un pilastro [...] il capitello trovato il 4 giugno appartiene certamente a questo pilastro”; inoltre, l’11 giugno, “dall’altra parte della strada, crollato, sono state scoperte parti di tre pilastri scavati nella pietra con i loro capitelli. Le basi saranno probabilmente trovate lungo il marciapiede, che non è stato ancora scavato”.
Quindi, fu possibile supporre l’occorrenza di un altro evento sismico storico, ancorché di molti secoli precedenti al 1915, nella stessa area epicentrale di quest’ultimo e dovuto all’attivazione della medesima faglia. Le indagini effettuate consentirono di ipotizzare che quel terremoto tardoantico fosse lo stesso che colpì il Colosseo a Roma, poco prima del 484 o del 508 d.C.16; il sisma, ricordato come abominandi terraemotus nelle due epigrafi poste all’ingresso principale dell’anfiteatro [CIL VI, 1716 (a); CIL VI, 1716 (b)], fu responsabile di danni all’arena e al podio17. Le ricerche archeosismologiche, condotte sistematicamente dal 2004 nei siti archeologici del Fucino (San Benedetto dei Marsi, Luco dei Marsi, Avezzano, Alba Fucens), hanno avuto tra gli obiettivi anche la ricerca di tracce significative di questo terremoto, in modo da meglio caratterizzarne i vincoli cronologici e gli effetti areali.
Le foto disponibili mostrano l’assenza di materiale colluviale o di riporto tra le rovine e la strada, ad eccezione dei due pilastri più settentrionali,21 dove le sole parti più vicine alle basi probabilmente crollarono più tardi, come indica uno spesso strato di depositi colluviali, o quando strati di detriti si erano già accumulati lungo il lato orientale della strada.
La maggior parte di esse sono state eseguite nel corso di scavi stratigrafici, in particolare ad Alba Fucens, dove una nuova stagione di ricerche (2006-2014) della Soprintendenza e di alcune Università italiane e straniere18 ha seguito quella condotta dall’Università di Lovanio e dalla Soprintendenza tra il 1949 e il 197919.
Il crollo improvviso e sincrono dei pilastri, con le relative strutture retrostanti, comportò l’abbandono del settore residenziale/commerciale e della strada antistante, dal momento che i blocchi non furono mai rimossi, interrompendo l’uso della viabilità.
I nuovi scavi sono stati affiancati da una revisione critica del materiale archivistico (documentario e fotografico), con particolare riferimento alle relazioni e ai rapporti giornalieri relativi al primo periodo.
Oltre alle altre evidenze di crolli consistenti di murature in vari settori della città, a conferma del verificarsi di un episodio distruttivo sono risultate essere anche le numerose tracce di combustione, compatibili con l’occorrenza di un evento sismico, come conseguenza di incendi delle strutture lignee abbattute.
Il metodo adottato per Alba Fucens si è pertanto avvalso di una minuziosa collazione di informazioni, apparentemente ordinarie, ma di fatto indicatrici di fenomeni ricorrenti che hanno consentito di delineare un quadro di distruzioni sincrono20.
Lo strato di combustione, riconosciuto anche prima dell’avvio delle indagini sistematiche del Novecento22, è stato puntualmente segnalato nei resoconti relativi allo scavo delle tabernae di via dei Pilastri e negli edifici lungo il lato occidentale della via Valeria; dello spessore variabile tra 10 cm e 50 cm, restituì numerosi materiali, tra i quali monete, fibule, lamine d’oro, anelli di bronzo,
Frequenti, infatti, sono le descrizioni di tracce di crollo di edifici o la scoperta di statue ed elementi architettonici inclusi in unità di collasso su piani ancora
Giraudi, 1988; Galadini e Galli, 1996, 1999; Michetti et al., 1996; Saroli et al., 2008. Galadini e Galli 1996; ora vedi anche Galadini et alii, 2018. Rea, 1999. 18 Varie sintesi degli scavi sono state pubblicate nei quattro numeri Quaderni di archeologia d’Abruzzo. Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo (1/2009; 2/2010; 3/2011; 4/2012), ai quali si rimanda. 19 Campanelli (ed.) 2006, I risultati degli scavi della missione belga in Alba Fucens I, II e II. Una storia delle ricerche in Campanelli con rimandi a tutta la bibliografia precedente. 20 Galadini 2006. 21 De Visscher et al., 1955. 22 Promis, 1836, 236. 15 16 17
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Evidenze di terremoti antichi nell’Abruzzo interno: i risultati delle ricerche archeosismologiche
cucchiai di osso.
IV o nel corso del V secolo sec. d.C.; secondo lo studioso, gli abitanti continuarono a vivere nella città in abitazioni con carattere di provvisorietà, fra mura diroccate, in un quadro di degrado accentuato dalla prassi della spoliazione per la trasformazione in calce dei materiali derivati da colonne, sculture e fregi.
Grazie al riesame critico degli scavi del passato, l’associazione di più elementi in tutta la superficie riportata alla luce - grande quantità di monete, scivolamento di pavimenti e strutture, collasso delle suspensurae delle terme, materiali crollati (iscrizioni, cornici, capitelli, colonne, porzioni di statue, basi) –, ha concorso alla formazione di uno scenario di distruzione derivante dal medesimo evento.
A questi spunti, desunti dalle precedenti indagini, sono stati associati i risultati delle campagne di scavo più recenti, di cui verranno fornite rapide sintesi, procedendo dal loro posizionamento da nord verso sud.
Il settore che ha fornito numerose informazioni è risultato essere quello del santuario di Ercole dove furono scoperte statue di togati immediatamente al di sopra dei pavimenti del sacello, insieme alla statua dell’Ercole Epitrapezios23, una delle acquisizioni più significative da una prospettiva archeosismologica.
Nell’area del Foro, nel corso dello scavo condotto dall’Università di Bruxelles (2007-2013), al limite dell’area indagata, l’analisi di una sezione ricavata nei sedimenti sciolti che riempivano la depressione di Alba, ha evidenziato una successione di depositi colluviali e riporti26.
La posizione singola e reciproca dei vari elementi costitutivi del grande manufatto artistico (testa, tronco), l’asse di distribuzione degli stessi e dei frammenti orientano verso un ribaltamento improvviso e contestuale a quello delle altre statue presenti sul posto.
Entrambi i tipi di sedimenti – di origine naturale o culturale - contenevano frammenti di ceramica, databili al V secolo d.C. (“terra sigillata africana” Hayes 91 C23, Hayes 61 A21, Hayes 61 B29, Hayes 67). La deposizione di questa successione di fino a 3 m di spessore sigillò le rovine della città e rappresentò certamente la fine della frequentazione del settore, dove tracce consistenti di crollo sono state riportate alla luce all’interno dell’edificio riconosciuto come Schola.
Rimandando a quanto già edito per le informazioni di dettaglio24, i dati desunti dalla ricerca di archivio sono risultati pertanto coerenti con l’ipotesi del terremoto e rientrano nelle seguenti casistiche: i) collassi di edifici ed elementi di varia natura su piani ancora frequentati al momento della distruzione e assenza di livelli di abbandono o di diverso uso rispetto all’originario tra gli strati collassati e le unità di frequentazione;
Lungo la via del Miliario, la campagna del 2007 ha restituito parte di uno scheletro umano, all’interno di un’unità di crollo composta principalmente da tegole, al di sopra del pavimento dell’edificio27. La datazione di un femore con il metodo del radiocarbonio (435-491 / 509-517 / 529-607 AD; età 14C calibrata, 2 sigma), ancora oggi costituisce l’unica età numerica utile per la definizione dell’età del terremoto, collocata tra la fine del V sec. d.C. e l’inizio del VI sec. d.C., grazie all’associazione con dati e informazioni di carattere archeologico.
ii) isorientamento dei pilastri rinvenuti in posizione di crollo trasversale alla via dei Pilastri, che suggerisce l’improvviso ribaltamento di una grande parete delimitante le tabernae; iii) giacitura della statua di Ercole; iv) ampie tracce di combustione in numerosi edifici;
In anni recenti, le indagini svolte nel piazzale del santuario di Ercole hanno portato alla scoperta di un grande pozzo di blocchi poligonali di media grandezza a secco, dal diametro massimo interno di m 4,13; il bacino ha restituito un deposito archeologico particolarmente significativo28.
v) elevato numero di monete trovate sui pavimenti, probabile conseguenza dell’improvviso abbandono delle strutture. A fronte di tali situazioni, sebbene non collegate né stratigraficamente né cronologicamente, già Mertens25 ricostruiva un quadro insediativo fortemente colpito e condizionato dagli effetti del sisma da lui attribuito al
L’accumulo volontario di una grande quantità di materiali all’interno del pozzo, al di sopra dei livelli relativi all’uso e del crollo della copertura, fu probabilmente
De Visscher, 1961. Galadini, 2006, Galadini, Ceccaroni, Falcucci, 2010. Mertens, 1981, 12, Mertens, 1991, 388. 26 Evers, Massar, 2012, 126-128. 27 Ceccaroni, Borghesi, 2009. 28 Ceccaroni, 2013. 23 24 25
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro di militari bizantini durante la guerra gotica (Procopio, Bell. Goth., II, 7).
dettato dalla necessità di ripristinare piani di frequentazione nel circostante piazzale del santuario, resi inaccessibili dalla presenza di macerie, poi rimosse, e di porzioni di murature, queste ultime rinvenute ancora in posizione di crollo al momento dello scavo.
Nel complesso, le informazioni provenienti da fonti archeologiche e da recenti indagini attribuiscono l’evento sismico a un intervallo di tempo compreso tra la fine del V secolo e il VI secolo d.C., anche sulla scorta delle informazioni provenienti da altri siti archeologici del Fucino, in un’area significativamente ampia nella quale il forte terremoto, di magnitudo presumibilmente analoga a quello del 1915, dovrebbe aver prodotto danni consistenti, sebbene non sempre riconoscibili per le caratteristiche stesse dell’edificato tardoantico e dei materiali utilizzati.
Nella successione stratigrafica, l’alternanza di livelli con grandi elementi architettonici a livelli con componenti di minori dimensioni (tegole, coppi, laterizi e cubilia) dimostra una progressiva opera di rimozione che dovette comportare la creazione di spazi utili per gli spostamenti dal piazzale dei pezzi maggiori. Il recupero, tra 2,00 e 4,00 metri di profondità, di una lucerna fittile integra, imitazione delle produzioni in sigillata africana e, a 4,00 metri di profondità, di due frammenti ceramici con inserti in pasta vitrea sulla parete, presenti anche in contesti inediti di Ostia Aterni (Pescara), indirizza verso una datazione del riempimento in epoca tarda.
Come detto, il confronto con altre realtà del comprensorio confluisce necessariamente nelle valutazioni complessive, in considerazione dell’impatto areale di un terremoto distruttivo, premessa dell’imprescindibile approccio territoriale all’archeosismologia32. Le tracce maggiori sono state individuate nel corso dello scavo della villa rustica in località Macerine, alla periferia settentrionale di Avezzano33, e nell’anfiteatro di San Benedetto dei Marsi34.
L’utilizzo del pozzo, infatti, è attestato ancora nel V/VI sec. d.C., prima del crollo e della successiva colmatura; brocche integre, dei tipi già noti e databili a questo orizzonte29, sono state infatti recuperate al di sotto del crollo della copertura30.
Nel primo caso, l’ultimo periodo dell’insediamento fu condizionato dal crollo di tetti e pareti, particolarmente evidenti nel settore occidentale dell’area, dove le unità di crollo, costituite da tegole e porzioni di muri, giacevano direttamente al di sopra dei piani, senza alcun interposto strato di abbandono; grandi frammenti di legno bruciato, appartenenti ai resti delle travi, insieme ad altri di minori dimensioni, attestano l’associazione dell’evento distruttivo con la propagazione di incendi.
La concentrazione di ‘macerie’ nei livelli superiori è stata pertanto interpretata come conseguenza della distruzione del santuario, da collocare nella fase testimoniata dalle tracce di crolli all’interno della città, in precedenza citati, di cui permane una evidente attestazione nello stesso santuario, dove una porzione ribaltata del muro perimetrale occidentale è stata rinvenuta ancora in posto. Alla luce di un’analisi complessiva dei dati a disposizione, è pertanto possibile supporre che il riempimento del pozzo sia l’esito di un’azione successiva alla distruzione del santuario di Ercole: dopo il terremoto, una parte dei materiali di crollo fu spostata nell’invaso, al fine di recuperare spazio praticabile nel piazzale del santuario, posto lungo la via Valeria in posizione ribassata e protetta.
Ulteriori prove di una distruzione improvvisa potrebbero essere fornite dalle sepolture contestuali di donne e bambini; i corredi, costituiti da piccole brocche in terracotta indirizzano verso una datazione compresa tra V e VI sec. d.C. La frequentazione tarda della villa è attestata anche da numerosi frammenti di ceramica datati tra e V-VI secolo d.C.; da numerose monete del IV secolo d.C. e una di fine IV-inizi del V secolo d.C.; da interventi nel portico settentrionale della villa, precedenti alla distruzione nell’area, da ricondurre al IV-V sec. d.C.
Nei pressi del pozzo, resti di strutture abitative tarde o altomedievali, impostate sui livelli più recenti31 mostrano ancora una volta la continuità di vita, in forma precaria, dopo l’evento di forte impatto.
Nel complesso, questi dati suggeriscono che l’incendio e il crollo finale degli edifici si verificarono in un orizzonte compreso tra V e VI secolo d.C.
Le ultime notizie disponibili per la città di riferiscono al 532 d.C., quando avrebbe ospitato l’accampamento Redi, 2001, Tulipani, 2006. Di Cesare, 2017, 134, n. 69. Malandra, 2011. 32 Galadini, Stiros, Hinzen, 2006. 33 Borghesi, 2012; Ceccaroni, 2012. 34 Di Stefano et al., 2011. 29 30 31
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Evidenze di terremoti antichi nell’Abruzzo interno: i risultati delle ricerche archeosismologiche
Importanti sono anche i risultati delle campagne archeologiche nell’anfiteatro di San Benedetto dei Marsi, dove tracce di un sisma si desumono dalla distruzione, riassunta nei seguenti punti:
• • • • •
La più antica fu resa inagibile dal crollo del muro occidentale dell’edificio precedente al quale si era appoggiata; il momento di distruzione è attestato anche da uno spesso strato di bruciato che inglobò il focolare al centro e una decina di vasi in terracotta, rinvenuti in frammenti, la cui posizione al momento del rinvenimento ha suggerito la caduta da uno spazio soprelevato (dispensa?).
collasso sincrono delle lastre che delimitano il balteo, rinvenute in giacitura con disposizione “a domino”; rotazione attorno all’asse verticale di uno dei blocchi che costituiscono il piedritto di sinistra dell’ingresso nord dell’anfiteatro; espulsione dell’angolata nell’ambiente occidentale che precede l’ingresso nord dell’anfiteatro; numerose lesioni nelle pareti; crollo di enormi porzioni della struttura.
Le forme, riconducibili a quelle già note ad Alba Fucens, delineano un orizzonte compreso tra V e VI sec. d.C., confermato anche dalla datazione C14 dei resti carbonizzati di una trave contenuta all’interno dello strato di carboni ha restituito (385/475-485/535 AD età calibrata, 2 sigma). A questo momento di distruzione seguì una nuova fase di occupazione dello spazio interno del manufatto romano, con la realizzazione di una capanna più grande, alla quale sono associate le sei sepolture rinvenute, anch’esse riferibili a un orizzonte tardo, ma di poco successivo rispetto al precedente.
Il protrarsi dell’utilizzo dell’anfiteatro, con relativa defunzionalizzazione di alcuni spazi, è attestato dal reimpiego delle lastre delle sedute in un piano pavimentale, in un momento precedente al crollo.
Il caso di Trasacco costituisce, pertanto, una ulteriore importante acquisizione nell’area fucense che, insieme ai dati, derivanti sia dai documenti di archivio che da indagini recenti, consente di confermare e migliorare le conclusioni di precedenti indagini paleosismologiche, delineando un quadro coerente tra le informazioni geologiche e quelle archeologiche, entrambe convergenti verso il riconoscimento di un evento distruttivo tra V e VI sec. d.C.
La presenza di numerose monete, datate alla seconda metà del IV secolo d.C. e generalmente di lungo utilizzo, consente di considerare questa età come un vincolo post-quem per la distruzione dell’anfiteatro di San Benedetto; la compatibilità degli strati di collasso – evidente indizio di crolli improvvisi - e delle lesioni che interessano la struttura con gli effetti di un forte scuotimento sismico consente di ipotizzare che anche questo anfiteatro subì gli effetti del medesimo terremoto che distrusse Alba e la villa rustica di Avezzano.
L’attribuzione a tale intervallo cronologico ha confermato anche la precedente ipotesi di lavoro38, secondo la quale il terremoto che ha preceduto quello del 1915 e quello responsabile del danno al Colosseo a Roma, nel 484 o 508 d.C., sono coincidenti.
Ai due casi principali sono state associate anche informazioni provenienti da Luco dei Marsi, dove si assiste a un utilizzo del tempio augusteo fino al V-VII secolo d.C.35, e da Civita d’Antino, a ovest del Fucino, dove i dati archeologici indicano una contrazione dell’insediamento nel V-VI secolo d.C.36.
In merito alle caratteristiche del terremoto tardoantico, le indagini geologiche hanno evidenziato entità delle dislocazioni lungo la faglia del Fucino, in occasione di questo evento, non dissimili da quelle del 1915. Inoltre sono state riscontrate evidenze di attivazione nel V-VI secolo lungo ognuno dei segmenti di faglia cui sono riferibili dislocazioni in occasione del terremoto più recente. Pertanto è probabile che anche la magnitudo del terremoto tardoantico sia da considerarsi molto elevata, presumibilmente comparabile a quella del 191539. Ciò avrebbe comportato un grave scuotimento su un’area molto vasta, aspetto che fa ritenere probabile, nel futuro, l’acquisizione di ulteriori dati dal territorio interessato.
In questi ultimi casi citati, nella consapevolezza della possibilità di motivazioni storiche diverse, l’acquisizione del dato è relativa esclusivamente alla loro coerenza con gli effetti del terremoto, nell’ambito della ricomposizione di un quadro al quale sono oggi da associare importanti informazioni provenienti dallo scavo effettuato nel 2014 a Trasacco, durante una campagna di indagini preventive lungo la via Pecorale37. In questo contesto, in parte ancora inedito, è emersa una struttura di epoca romana riutilizzata in epoca tarda con l’innesto di due capanne, costruite in momenti differenti.
A conferma dell’impatto che il terremoto tardoantico
d’Alessero, 2001. Morelli, Cocco Pinelli, Rizzitelli, 2001. 37 Mieli, 2016. 38 Galadini, Galli, 1996a, 1999b. 39 Vedi Gori et al. 2017. 35 36
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro città di Avezzano, che certamente subì danni a causa del terremoto del 1349, danni non menzionati nei recenti cataloghi sismici45, come emerge dalle considerazioni che seguono.
dovette avere, nella città di Alba Fucens, sono state recentemente effettuate modellazioni sulla modalità di crollo dei pilastri lungo la via omonima, da parte dell’Università di Colonia, in collaborazione con l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia40. Le simulazioni, a partire da uno scuotimento sismico comparabile a quello atteso in occasione dell’attivazione della faglia del Fucino, hanno restituito informazioni sulla dinamica dei crolli ed evidenziato la compatibilità di questa dinamica con l’occorrenza di un terremoto di elevata magnitudo.
Nel centro fucense sono noti idanni subiti dalla chiesa di San Bartolomeo, riportati in una copia settecentesca di un rogito notarile del 1355 attestante le riparazioni a seguito del sisma46. La recente ripresa degli scavi archeologici nell’area della ex Collegiata, distrutta dal terremoto del 1915 e non più ricostruita, ha consentito il recupero di dati utili per il riconoscimento degli effetti del sisma medievale; le indagini (2016-2017), concentrate nella porzione presbiteriale della chiesa, non indagata in precedenza47, hanno restituito un’area di sepoltura quattrocentesca, posta al di sopra di un’abside dismessa di un precedente impianto, da riconoscere probabilmente in quello distrutto nel 1349.
Infine, i risultati ottenuti nel corso delle varie indagini sinteticamente presentate, consentono di escludere, nella città di Alba Fucens e nelle aree prossime, distruzioni legate ai terremoti del 346 d.C. e del 375 d.C., più volte citati a supporto di ricostruzioni della storia del sito; il primo terremoto, infatti, come già osservato, colpì il Sannio e il Matese, con notevoli danni a molte decine di chilometri a sud di Alba41, mentre l’altro la città di Benevento, più di 150 km a sud di Alba42.
La datazione delle sette tombe rinvenute, derivante da una moneta di Ferdinando I d’Aragona (1458-1494), consente di ricostruire una sequenza, stratigrafica e storica, che potrebbe coincidere con la seguente:
In entrambi i casi, l’attribuzione di danni significativi ad Alba Fucens e in generale al settore centro-settentrionale dell’attuale provincia dell’Aquila è da escludere.
• • •
IL TERREMOTO DEL 1349 L’ultimo caso analizzato riguarda il terremoto del 1349, i cui risentimenti interessano un’ampia area tra Lazio, Abruzzo e Molise. Si tratta, nel complesso, di un terremoto ancora poco definito, in riferimento alle caratteristiche del processo sismogenetico, tanto che la stessa distribuzione del danno riporta oggi sul catalogo DBMI15 due rappresentazioni distinte: una, parametrizzata con magnitudo 6.3, riguardante il Lazio settentrionale e la città dell’Aquila (fortemente danneggiata, con effetti stimati con il grado 9 MCS); l’altra, parametrizzata con magnitudo 6.8, che colpì il Lazio e l’Abruzzo meridionali, nonché il Molise43.
•
distruzione della chiesa medievale nel corso del terremoto del 1349; abbandono dell’area absidale; utilizzo dell’area come spazio di sepoltura nella seconda meta del Quattrocento (1458-1494). La ricostruzione della collegiata, tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo per la quale non è ancora certa la data puntuale.
Ai dati desunti dalla ricerca archeologica e archivistica, sono state associate le informazioni derivanti dalle misure di rumore sismico ambientale per la definizione di eventuali effetti di sito, effettuate dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia48 . Le amplificazioni a bassa frequenza riscontrate, in genere in grado di generare danni a edifici piuttosto alti, potrebbero aver contribuito al crollo della chiesa durante il terremoto del 1915 che sancì la fine della Collegiata di San Bartolomeo, riconducendo il sito al ruolo di area archeologica, il cui scavo è da completare, e a memoria di quanto avvenuto.
Se è stato ipotizzato che gli effetti più meridionali siano da ricondurre all’attivazione della faglia di Venafro44, per contro non sono attualmente disponibili ipotesi sulla causa dei risentimenti più settentrionali. In riferimento agli effetti di questo terremoto, va comunque osservato che, rispetto a quanto sintetizzato nel DBMI15, proprio tra le due aree sopra definite si pone la Hinzen et al., 2015. Galadini, Galli, 2004; Galli, Naso, 2009. 42 Boschi, et al., 1995. 43 CPTI15. 44 Galli, Naso, 2009. 45 Rovida et al., 2016; Guidoboni et al., 2018. 46 Socciarelli, 2016. 47 Saladino, 2011; le ricerche 2016-2017. 48 M.G. Di Giulio, M. Vassallo, F. Galadini. 40 41
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E. Ceccaroni, F. Galadini
Evidenze di terremoti antichi nell’Abruzzo interno: i risultati delle ricerche archeosismologiche
CONCLUSIONI
présentés par J. Mertens. Bruxelles-Rome. De Ruyt F. (ed.) 1982, Alba Fucens III, Bruxelles-Rome.
Gli esempi riportati costituiscono il contributo delle ricerche archeosismologiche degli ultimi anni nel territorio dell’Abruzzo interno, effettuate per l’individuazione di tracce dell’attività sismica pre-strumentale su edifici o strutture scoperti con scavi ad hoc o persistenti nel contesto monumentale, mediante l’utilizzo di metodi e dati archeologici e l’integrazione di questi con metodi e dati geologico-geomorfologici, geofisici, geotecnici, ingegneristico-strutturali e con informazioni storiche e sismologiche49.
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La necessaria interazione interdisciplinare ha consentito di ricondurre ad alcuni eventi, noti o desumibili dai risultati degli scavi, gli effetti distruttivi che hanno inciso sulla storia degli abitati presenti nelle aree interessate e del progressivo adattamento dell’uomo agli effetti degli eventi naturali con i quali si è sempre confrontato.
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Le indagini fin qui condotte consentono di meglio definire il quadro degli effetti e il contesto sismogenetico di eventi sismici meno noti dalle fonti scritte. In particolare, ci si riferisce ai terremoti del II secolo d.C. e del 484/508 d.C., entrambi conosciuti per via epigrafica (Interpromium/Tocco da Casauria, Roma-Colosseo) e oggi, grazie all’integrazione di indagini geologiche e archeologiche, riferibili a precise aree epicentrali, vale a dire la Piana di Sulmona e quella del Fucino.
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Altrettanto significativo sembra essere il caso del terremoto della Valle Subequana, riferibile al II-I secolo a.C., poiché la descritta integrazione delle indagini geologiche e archeologiche ha portato a fornire un contributo insostituibile per la ricostruzione della storia della faglia della Media Valle dell’Aterno, altrimenti poco definita dal punto di vista cronologico.
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Infine, in considerazione dei limiti delle attuali conoscenze sul terremoto del 1349, sembra di particolare importanza l’individuazione nelle stratigrafie archeologiche dei significativi effetti del terremoto alla chiesa di San Bartolomeo in Avezzano, già noti dalle fonti scritte. Si tratta, in questo caso, di un punto di danneggiamento che risulta assente nei database macrosismici e che potrebbe fornire ulteriori spunti per riflessioni sul processo sismogenetico cui associare il terremoto o i terremoti del 1349.
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Figura 1. Faglia del M. Morrone: la faglia pone a contatto il substrato roccioso carbonatico sulla destra con depositi di versante tardoquaternari.
Figura 2. Faglia della Media Valle dell’Aterno, segmento della Valle Subequana, individuata nel corso dell’indagine paleosismologica. Si può osservare il contatto per faglia tra ghiaie. Si noti che anche le unità colluviali e i suoli sono interessate da dislocazioni in corrispondenza di piani di taglio secondari rispetto alla faglia principale.
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Figura 3. Alba Fucens. Crollo dei pilastri al di sopra della strada
Figura 4. Alba Fucens, piazzale del santuario di Ercole. Sezione stratigrafica del riempimento del pozzo (dis. P. Fraticelli)
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E. Ceccaroni, F. Galadini
Evidenze di terremoti antichi nell’Abruzzo interno: i risultati delle ricerche archeosismologiche
Figura 5. Alba Fucens, piazzale del santuario di Ercole. Ribaltamento del muro perimetrale occidentale.
Figura 6. Avezzano, villa romana loc. Macerine. Strati di crollo e combustione nel settore occidentale.
Figura 7. Marruvium/San Benedetto dei Marsi, anfiteatro. Ribaltamento delle lastre del balteo.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Figura 8. Faglia del Fucino individuata nel corso di un’indagine paleosismologica nei pressi di Pescina. La faglia pone a contatto sedimentati lacustri calcarei sulla sinistra, presumibilmente di età tardoquaternaria, con sedimenti colluviali sulla destra, di età olocenica, contenenti resti ceramici di età preistorica.
Figura 9. Copia settecentesca di un rogito notarile del 1355 attestante le riparazioni alla chiesa di San Bartolomeo di Avezzano (da Socciarelli 2016).
Figura 10. Avezzano, ex Collegiata di San Bartolomeo. Area della necropoli quattrocentesca e abside abbandonata della chiesa medievale.
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Ruggero D’Anastasio, Joan Viciano, Luigi Capasso
Antropologia in Archeologia: alcuni esempi Abstract: Biological Anthropology is a complex science, that has as its object the study of ancient human remains. Analyzing morphological indicators and extrapolating molecular data from osteological collections, it is able to outline the biological profile of a skeletal individual and the paleodemographic structure of an ancient population. Human remains return information about lifestyle, socio-economic conditions and the health status of past human communities, thus helping to reconstruct its history. But in many cases it is a partial story, confined to the paleobiological aspects, which take on a greater value if corroborated by archaeological data. In other words, the data of anthropological research should be discussed considering the historical and cultural period to which human remains belong. Anthropological studies can obtain partial answers, which could be completed by archaeological data; on the other hand, archaeological information could be confirmed by anthropological data or be questioned, opening scenarios to new interpretative hypotheses. The authors present three cases referring to different eras, which show how anthropological data integrate archaeological information and / or find the right interpretation in the historical-cultural context. The first case deals with the theme of the origin and evolution of the articulated language during the evolutionary history of the genus Homo. The second case concerns the Man of Ice, a mummy dating back to 5,300 years ago, found on the Ötztal Alps in 1991, and considered one of the most important archaeological discoveries of the 20th century. The last case involves the population of Herculaneum, which was decimated by the eruption of Vesuvius in 79 AD.; in particular, it illustrates the synergy that can be established between Archeology and Anthropology on the theme of the relationship between food and health in antiquity.
L’Antropologia biologica è una scienza complessa, che ha come oggetto di studio i resti umani antichi. Analizzando indicatori morfologici ed estrapolando dati molecolari da collezioni osteologiche, essa è in grado di delineare il profilo biologico di un individuo scheletrico e la struttura paleodemografica di un’antica popolazione. I resti umani restituiscono informazioni relative allo stile di vita, le condizioni socio-economiche e lo stato di salute delle comunità umane del passato, contribuendo così a ricostruirne la storia. Ma si tratta, in molti casi, di una storia parziale, confinata agli aspetti paleobiologici, che assumono una valenza maggiore se corroborati dai dati archeologici.
Il secondo caso riguarda l’Uomo dei Ghiacci, una mummia risalente a 5.300 anni fa, rinvenuta sulle Alpi Venoste nel 1991, e considerata una delle più importanti scoperte archeologiche del XX secolo. L’ultimo caso coinvolge la popolazione di Ercolano, che fu decimata dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.; in particolare illustra la sinergia che può instaurarsi tra Archeologia ed Antropologia sul tema del rapporto tra cibo e salute nell’antichità.
INTRODUZIONE L’antropologia biologica è una scienza che tra le sue finalità ha anche quella di contribuire alla ricostruzione della storia delle antiche popolazioni umane. Tale obiettivo è perseguito attraverso lo studio di indicatori morfologici e molecolari osservabili sui resti umani e correlabili allo stato socio-economico degli individui, alla loro condizione di salute e ai modelli comportamentali adottati nel corso della vita. Tuttavia i risultati delle ricerche antropologiche costituiscono solo una componente (ossia la “paleobiologia”) del quadro storico generale ed acquistano ulteriore valore nel momento in cui possono essere discussi nel più ampio contesto storico-archeologico. Nasce da qui la necessità di una stretta collaborazione tra archeologia ed antropologia. Nel corso della storia le esigenze biologiche dell’uomo hanno stimolato la ricerca di risposte culturali che hanno modificato la biologia delle popolazioni.
In altri termini, i dati delle ricerche antropologiche dovrebbero essere discussi considerando il periodo storico e culturale al quale i resti umani appartengono. Gli studi antropologici possono ottenere risposte parziali, che potrebbero essere completate dai dati archeologici; viceversa le informazioni archeologiche potrebbero trovare conferma dai dati antropologici o essere messe in discussione, aprendo gli scenari a nuove ipotesi interpretative. Gli autori presentano tre casi riferibili ad epoche differenti, che dimostrano come i dati antropologici integrino le informazioni archeologiche e/o trovino la giusta interpretazione nel contesto storico-culturale. Il primo caso affronta il tema dell’origine ed evoluzione del linguaggio articolato nel corso della storia evolutiva del genere Homo. 679
Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro indistinguibile dalla morfologia dello ioide negli umani moderni. Certamente la morfologia di un osso e le sue dimensioni esterne non consentono di capire in maniera completa le sue proprietà biomeccaniche; è necessario studiarne anche la microarchitettura istologica interna. Le prestazioni meccaniche di un osso originano anche dall’architettura tissutale interna, dall’orientamento e dallo spessore delle trabecole, dalle dimensioni dell’osso corticale e dalla estensione del letto vascolare. Il rimodellamento osseo, ossia il continuo mutamento di un elemento scheletrico generato da processi di riassorbimento e neo-apposizione di tessuto osseo mediato da cellule, è indotto anche da stimoli meccanici; il rapporto tra stimoli meccanici e rimodellamento osseo si traduce nella morfologia macroscopica dell’osso, nell’orientamento delle trabecole ossee e nelle dimensioni e distribuzione degli osteoni1. Come osservato in altre ossa fossili, la struttura istologica riflette le forze imposte dai muscoli e dalle onde sonore durante la fonazione2. Se il corpo dello ioide di Kebara 2 venisse sottoposto a stimoli meccanici differenti da quelli che agiscono su uno iode, quest’ultimo mostrerebbe chiare differenze nella sua istologia e nel comportamento micro-biomeccanico. Nel 2013 D’Anastasio et al. hanno effettuato uno studio micro-biomeccanico comparato tra ioidi umani e neandertaliani. La ricerca è stata effettuata utilizzando ricostruzioni tridimensionali ottenute da immagini ad alta risoluzione e test biomeccanici virtuali (Finite Element Analysis – FEA). I risultati hanno dimostrato anche che l’osso ioide di Kebara 2, oltre all’anatomia esterna ed all’istologia, ha prestazioni micro-biomeccaniche del tutto comparabili a quelle dell’uomo moderno, a dimostrazione del fatto che i Neanderthal israeliani “utilizzavano” lo ioide allo stesso modo di Homo Sapiens3.
Il presente saggio presenta tre casi riferibili a epoche differenti, che dimostrano come i dati antropologici integrino le informazioni archeologiche e/o trovino la giusta interpretazione nel momento in cui vengono messi in relazione al contesto storico-culturale. Il primo caso affronta uno dei temi più importanti e discussi in paleoantropologia: l’origine del linguaggio articolato. I markers osteologici e dentari suggeriscono che già gli uomini di Neanderthal possedessero una forma complessa di linguaggio. Questa ipotesi trova un convincente supporto nei dati archeologici e paleoetnologici, tale da indurre gran parte degli antropologi ad accettarla. Il secondo caso è quello relativo all’Uomo del Similaun, una mummia risalente a 5.300 anni fa rinvenuta sulle Alpi Venoste nel 1991. Le indagini antropologiche hanno permesso di ricostruire il profilo biologico, le cause della morte e gli avvenimenti occorsi negli ultimi istanti di vita. In questo caso i dati archeologici hanno non solo fornito spiegazioni sul significato di alcuni oggetti in possesso dell’Uomo dei Ghiacci, ma hanno anche dimostrato le sue profonde conoscenze dell’ecosistema. L’ultimo caso coinvolge la popolazione di Ercolano, che fu decimata dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. La patocenosi si caratterizza per una ridotta frequenza di patologie di carattere infiammatorio. Probabilmente questo dato epidemiologico non è la conseguenza delle caratteristiche genetiche della popolazione, ma bisogna ricercarne le motivazioni nell’uso più o meno consapevole di antibiotici. In particolare le tetracicline, le quali erano contenute in alimenti appositamente trattati (melograni e fichi) e volontariamente consumati in caso di infezioni lievi.
I NEANDERTHAL SAPEVANO PARLARE? Nel giacimento israeliano di Kebara è stato rinvenuto parte di uno scheletro Neanderthaliano di circa 60.000 anni fa il cui osso ioide, l’osso che sorregge la laringe, mostra caratteristiche moderne (Fig.1). Lo scheletro maschile di età adulta portato alla luce nel 1983 e altre scoperte successive, relative alla presenza dell’osso ioide in altri ominidi fossili, hanno risvegliato l’interesse sul potenziale d’informazione che questo elemento anatomico ha sull’evoluzione del linguaggio e soprattutto sullo sviluppo del linguaggio complesso. L’osso ioide, infatti, da inserzione a muscoli sovra- e sotto-ioidei direttamente coinvolti nella produzione dei complessi fonemi che caratterizzano il linguaggio di H. sapiens. L’analisi macroscopica effettuata su Kebara 2, così come quella effettuata sull’osso ioide parziale (SDR034) proveniente dal sito di El Sidron (Asturie, Spagna) appartenente a Neanderthal, ha dimostrato come la morfologia dei reperti fossili fosse praticamente
L’origine e l’evoluzione del linguaggio articolato sono temi che hanno costantemente stimolato teorie e dibattiti tra gli antropologi, i quali hanno dedicato una parte più o meno grande dei loro studi alla ricerca di indicatori ossei correlabili alla fonazione. Mac Larnon ed Hewitt (1999) presero in considerazione la misura del diametro del canale vertebrale toracico in differenti ominidi estinti, primati ed umani moderni. Il canale vertebrale contiene il midollo spinale, dal quale originano i motoneuroni che controllano il movimento dei muscoli addominali e intercostali, a loro volta implicati nel controllo della respirazione. Lo studio dimostrò come H. Ergaster (1.8-1.2 milioni di anni fa) e H. Sapiens avessero le medesime dimensioni del canale vertebrale. Mac Larnon e Hewitt conclusero che le due specie possedessero il medesimo potenziale per un maggiore
Currey, 2002. Rosowski 1992. 3 D’Anastasio et al., 2013. 1 2
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controllo della respirazione associato alla parola, mentre altre specie di ominidi non erano dotati di tale funzionalità. Tuttavia, non è possibile escludere l’ipotesi che questo aumento del controllo respiratorio possa essersi evoluto per altri motivi, come la corsa prolungata o il nuoto, fornendo il necessario preadattamento alla parola. Volpato (2012) et al. esaminarono lo scheletro post-craniale e la dentatura dell’individuo neandertaliano Regourdou 1, uno dei più antichi scheletri di Neanderthal dell’Europa occidentale (70 kya). L’analisi microscopica degli incisivi rivelò la presenza di graffi obliqui diretti verso destra delle facce labiali. Il modello di distribuzione ed orientamento delle incisioni dentali è tipico di chi utilizza i denti come strumenti di lavoro e maneggia gli oggetti che porta in bocca utilizzando la mano destra. In effetti, le asimmetrie dello scheletro post-craniale confermarono che Regourdou 1 era destrorso. Frayer e colleghi dimostrarono che i Neanderthal e i loro probabili antenati europei erano prevalentemente destrimani, come lo sono gli umani moderni4. Anche in questo caso, le loro conclusioni erano basate sull’obliquità dei graffi sulla faccia labiale degli incisivi e dei canini. La manualità è un riflesso della lateralizzazione del cervello, che è una condizione anatomica osservata anche nei Neanderthal5. La lateralizzazione del cervello è correlata al linguaggio: in particolare le regioni corticali dell’emisfero sinistro come implicate nel linguaggio e nel controllo motorio6. Da qui si comprende come i microscopici graffi dentali sembrino fornire ulteriori prove, anche se indirette, della capacità linguistica dei Neanderthal. La ricostruzione di modelli tridimensionali del tratto vocale dei Neanderhal e del condotto uditivo, parallelamente allo studio morfometrico degli ossicini dell’orecchio (anch’essi presenti nel record fossile neandertaliano) hanno ulteriormente dimostrato che i Neanderthal condividessero non solo capacità fonetiche, ma anche uditive, con H. Sapiens7.
neandertaliane avevano una dieta diversificata ed erano in grado di sfruttare gran parte delle risorse ambientali a disposizione, vivevano in aree abitative strutturate, con ambienti dedicati alle diverse attività quotidiane, amavano ornarsi con tatuaggi e monili, seppellivano i defunti e realizzavano dipinti rupestri8. L’archeologia dimostra chiaramente come i Neanderthal non fossero poi così distanti dai Sapiens nei loro comportamenti ed atteggiamenti, e che possedessero una sfera psichica complessa. Pertanto Archeologia ed Antropologia insieme inducono a pensare che le complesse capacità fonetiche dei Neanderthal fossero una modalità di espressione, al pari dell’arte rupestre o delle pratiche funerarie, ossia fossero la base biologica di un linguaggio.
LA MUMMIA DEL SIMILAUN: ÖTZI Scoperta il 19 Settembre del 1991 in Val Senales, Ötzi è stata datata attraverso il radiocarbonio C14 al periodo neolitico, in particolare a circa 5300 anni fa. Le ricerche antropologiche e paleopatologiche hanno consentito di tracciare un quadro piuttosto completo del profilo biologico e dello stato di salute di Ötzi. Si tratta di un individuo di sesso maschile di età compresa tra i 25 e 40 anni. Attraverso le misure antropometriche effettuate sulle radiografie delle ossa lunghe, è stata stimata una statura di circa 1,64 m. Lo studio degli indici cranici e il confronto di questi con altri crani coevi ha portato alla conclusione che la mummia del Similaun, chiamata comunemente con il nome di Ötzi, era probabilmente originaria del nord Italia, affermazione poi confermata anche dallo studio del mtDNA e dal cromosoma Y9. L’eccezionale conservazione dei tessuti molli ha permesso di diagnosticare le condizioni patologiche che non coinvolgono lo scheletro, e documentare pratiche culturali, abitudini dietetiche e conoscenze mediche, che hanno lasciato tracce sulla cute (ad esempio, i tatuaggi), sui capelli (la presenza di arsenico prodotto durante le fasi di produzione degli oggetti in rame), nel contenuto intestinale (i resti dell’ultimo pasto). Le lesioni scheletriche includono alterazioni a carico del tavolato interno dell’osso frontale, lesioni delle costole, extrarotazione e lussazione della testa del femore sinistro, alterazioni artrosiche alla colonna lombare e alla caviglia destra e, infine, alterazioni a carico delle articolazioni delle dita del piede10. Le lesioni a carico dell’osso frontale, sebbene in un primo momento abbiano prodotto alcuni dubbi interpretativi, sono senz’altro
In definitiva, i dati anatomici suggeriscono che i Neanderthal fossero in grado di emettere suoni complessi, del tutto simili a quelle prodotti da H. Sapiens. Resta da chiarire se a questi suoni fossero correlati dei significati, ossia se la fonazione articolata fosse impiegata per trasmettere messaggi e concetti astratti, in definitiva se la fonazione stessa costituisse un linguaggio vero e proprio. Gli studi anatomici non sono in grado di fornire risposte. Tuttavia i dati archeologici hanno dimostrato che i Neanderthal possedessero modelli comportamentali complessi, paragonabili a quelli degli uomini anatomicamente moderni. Le popolazioni Frayer et al., 2012. Holloway, 1985, Holloway et al., 2005. 6 Gotts et al., 2013. 7 Sapiens, Boë, et al., 2002, Moggi-Cecchi et al., 2002. 8 Zilhão et al., 2010, Sommer, 1999, Henry et al., 2011, Tuniz et al., 2012. 9 Keller et al., 2012. 10 Capasso et al., 1992. 4 5
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro erano la caviglia, il ginocchio e il tratto lombare della colonna vertebrale, aree localizzate proprio al di sotto dei tatuaggi. La corrispondenza tra la posizione dei tatuaggi e le lesioni artritiche suggerisce, quindi, l’ipotesi di una funzione “terapeutica” dei tatuaggi, pratica questa ancora in uso in alcune tribù nomadi del Tibet nel trattamento dei dolori articolari. Questa terapia consiste nel praticare sulla pelle, un piccolo taglio, all’interno del quale vengono poste delle erbe medicinali, successivamente la lesione viene cauterizzata. La cicatrice quindi ingloba sottopelle le erbe combuste che rimangono visibili all’esterno come tatuaggi, con una colorazione che va dal nero al bluastro. Questa ipotesi è dimostrata anche della analisi istologiche eseguite su alcuni frammenti di cute dalla mummia, che hanno dimostrato la presenza sia di tessuto cicatriziale che di carbone vegetale. Sono presenti però alcuni tatuaggi in aree che non hanno nessuna connessione con le articolazioni, come il piccolo segno a croce sul polpaccio destro. In questo caso il tatuaggio quale forma di terapia articolare non avrebbe senso. Per spiegare questi “segni anomali” sono state prese in considerazione altre complicazioni del sistema muscolo-scheletrico, come le contratture muscolari, le quali dovevano essere comuni nelle popolazioni montane. I tatuaggi trovati sulla pelle della mummia della Val Senales sono molto importanti per la loro unicità, dato che sono le evidenze più antiche per l’Europa preistorica.
fovee a stampo del tavolato interno in regione paramediana conseguenti ad atrofia ossea da compressione. In questo distretto anatomico sono le granulazioni del Pacchioni (villosità venose aracnoidee) la causa di tali atrofie, specialmente frequenti nell’età adulta ed avanzata. Le lesioni artrosiche consistono in riduzione delle interlinee articolari, con pinzettatura delle giunzioni osteo-cartilaginee a livello della caviglia destra. Nel tratto lombare della colonna è possibile osservare una riduzione degli spazi intersomatici con sclerosi degli archi posteriori. La lussazione dell’articolazione coxo-femorale sinistra è una condizione occorso post-mortem, durante le prime operazioni di recupero della mummia. Le lesioni a carico del piede, infine, corrispondono ad erosioni conseguenti a necrosi del tutto simili a quelle causate dal freddo. L’ottima conservazione della cute ha permesso di analizzare macroscopicamente i segni pigmentati presenti sulla mummia, sia a livello morfologico che topografico. Questi segni consistono in disegni lineari molto semplici, di lunghezza variabile tra i 3 e i 5 cm di colore bluastro, e possono essere divisi in 2 tipologie differenti: segmenti paralleli, che consistono in 3 o 4 linee parallele tra loro, e croci, formate da 2 segmenti incrociati parallelamente. Un recente studio ha messo in evidenza anche la presenza di tatuaggi a forma di piccoli punti superficiali. Ad oggi sono state studiate e contate circa 61 lesioni cutanee. Le lesioni cutanee della mummia del Similaun si localizzano principalmente sulla parte posteriore del corpo; in particolare vicino la colonna vertebrale, sia a destra che a sinistra del tratto lombare, dietro il ginocchio destro, sul polpaccio sinistro, su entrambi i piedi e sulla caviglia sinistra. Infine è presente anche una lesione cutanea sul polso sinistro. Tutte le lesioni cutanee pigmentate di Ötzi possono essere interpretate come tatuaggi, tranne le due linee parallele, distanziate di circa 1 cm, che circondano il polso sinistro, causate dalla presenza di cinghie o lacci che hanno lasciato la propria impronta dopo la morte. I tatuaggi consistono, quindi, in disegni geometrici estremamente semplici, senza riferimenti antropomorfi e zoomorfi, ed inoltre sono situati in zone nascoste del corpo (ginocchia, caviglia, schiena). Esistono altre testimonianze di tatuaggi visibili su resti mummificati, come le mummie della Siberia (VI secolo a.C.) con i loro disegni complessi che coprivano più della metà del corpo, o le mummie della Groenlandia (XV secolo d.C.), con tatuaggi semplici ma in luoghi visibili come il viso. La funzione di questi tatuaggi era principalmente comunicativa, sociale, mentre i tatuaggi di Ötzi, semplici e coperti, avevano probabilmente un’altra funzione. Gli esami radiologici hanno dimostrato che l’uomo del Similaun soffriva di alcune patologie articolari, in particolare osteoartrosi, e che le articolazioni interessate 11 12
Il reperto Nº 168/1992, riferibile all’Uomo dei Ghiacci, è un’unghia caduta da una delle sue dita probabilmente come risultato della decomposizione del letto dell’unghia stessa. Questa mostra alcune caratteristiche morfologiche, oltre che segni patologici, che fanno luce su alcuni aspetti della paleobiologia dell’individuo. La lamina ungueale presenta tre linee di rallentamento della crescita (note come linee di Beau) causate da uno stress metabolico aspecifico, generalizzato, correlabile, ad esempio, a malattie infettive o carenze nutrizionali. Inoltre, la scoperta di uova di Trichuris trichiura, parassita intestinale che causa crisi emolitiche ricorrenti, nel tratto intestinale di Ötzi, giustifica la presenza delle linee di Beau e suggerisce come egli abbia subito tre gravi episodi di forte stress fisico rispettivamente quattro, tre e due mesi prima della morte11. Infine, il margine distale dell’unghia presenta una serie di lesioni traumatiche, che si riscontrano tipicamente in individui che manipolano oggetti duri, ad esempio, durante lo svolgimento di lavori manuali. Le indagini antropologiche e paleopatologiche hanno fornito un quadro esaustivo delle caratteristiche biologiche di Ötzi12, gran parte delle quali non sono state considerate in questo contesto, poiché esulano dal tema trattato, ossia la relazione tra Antropologia ed Archeologia. Alcuni dati
Hamilton et al., 1955, Sjvold, 1992. Müller et al., 2018, Lugli et al., 2017, Müller et al., 2017.
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paleopatologici, come ad esempio quelli inerenti i tatuaggi, gettano luce su modelli comportamentali e conoscenze “mediche”, che sono d’interesse per discipline non prettamente biologiche, quali l’Etnomedicina e la Storia della Medicina. Tuttavia, altri aspetti dell’Uomo dei Ghiacci sono desumibili solo dalle ricerche archeologiche.
Troviamo notizie riguardati le pratiche alimentari del periodo romano nelle fonti documentarie dell’epoca. I metodi agricoli sono stati descritti in maniera dettagliata per il periodo repubblicano da Catone nel De re Agricultura, da Varrone nel De re Rustica e da Columella nel De re Rustica. Molto interessante è il libro di cucina De re Coquinaria, attribuito ad Apicio, anche se probabilmente si tratta di una raccolta di ricette scritta da più autori. Il libro comprende numerose ricette di piatti a base di carne (uccelli e mammiferi), legumi, frutta e verdura. Molte ricette, tuttavia, hanno un carattere esotico e probabilmente non rappresentavano la dieta degli individui di ceto sociale inferiore. Allo stesso modo, le feste e i banchetti descritti in opere come il Satyricon di Petronio, insieme alle rappresentazioni nei mosaici e affreschi delle ville di Pompei potrebbero non essere rappresentative della dieta della società media romana. Ci sono poche fonti testuali riguardo la dieta dei Romani appartenenti alle classi sociali meno ambienti; tuttavia, Catone suggerisce che agli schiavi venivano forniti quattro modii di frumento e mezzo di olio di oliva ogni mese, olive, sale o salsa di aglio come condimento e 42 galloni di vino all’anno. In generale, l’alimentazione della classe media romana si basava principalmente sul consumo di cereali, olive e vino/uva, noti anche come “triade mediterranea”14. Il termine “cereali” viene utilizzato per indicare varietà di frumento, di barbabietole, di miglio, di avena e di segale; queste colture avrebbero costituito la maggioranza della dieta romana, soprattutto delle classi inferiori (Garnsey, 2000). Il grano, l’orzo e il miglio erano le colture cerealicole più popolari; il miglio però risulta utilizzato maggiormente in tempi di carestia o tra le classi più povere che non potevano permettersi di utilizzare il grano o l’orzo, o come cibo per animali (Killgrove, 2010). L’editto di Diocleziano nel 301 A.D. menziona novantacinque varietà di frutta e verdura nel suo catalogo dei prezzi, confermando la varietà di pietanze consumate dai romani (Killgrove, 2010). Insieme a diverse varietà di frutta e verdure, i romani consumavano legumi come lenticchie, fagioli e piselli, utilizzati come fonte di proteine in sostituzione del consumo di carne15. La carne di maiale era la carne maggiormente consumata, pur non essendo il piatto base della cucina romana16. Il consumo di carne di manzo era particolarmente raro, anche se i bovini erano allevati e utilizzati per ragioni economiche e agricole17. I romani si cibavano anche di altre tipologie di carni, come quelle derivate da pecore, capre e pollame. Risulta che la piccola avifauna fosse maggiormente consumata dalle classi inferiori, a eccezione di carni più “esotiche” come il fagiano e le oche18. L’allevamento di pecore e capre era abbastanza diffuso al fine di
Le indagini archeologiche eseguite nel 1992, infatti, hanno permesso il recupero di reperti archeologici quali abiti, armi, ed altri oggetti di uso quotidiano, grazie ai quali è stato possibile approfondire la conoscenza delle competenze e delle conoscenze dell’Uomo dei Ghiacci. Ötzi era perfettamente attrezzato per affrontare le sfide dell’ambiente freddo in cui viveva: il controllo del fuoco, la caccia con arco e frecce e la macellazione degli animali con lame in selce, erano abilità che appartenevano alla quotidianità dell’individuo. Inoltre, aveva una conoscenza molto approfondita dell’ambiente che lo circondava e ciò gli permetteva di sfruttare al meglio le materie prime a sua disposizione; infatti, sapeva quale era il legno più adatto alla produzione degli oggetti di uso quotidiano, come, ad esempio frecce ed arco ed era anche in grado di rammendare i propri indumenti utilizzando fibre vegetali. Ötzi conosceva altresì i funghi da impiegare come esche per il fuoco. Durante la traversata della valle del Similaun, che fu teatro dell’aggressione mortale subita da Ötzi, egli trasportava le proprie provviste in una gerla leggera mentre l’esca per il fuoco era avvolta in foglie verdi di acero e deposta all’interno di recipienti in corteccia di betulla. La mancanza di reperti ceramici ha fatto sì che non si potesse collocare Ötzi in un determinato gruppo culturale ma la presenza di un’ascia in rame ha permesso di retrodatare l’Età del Rame in Italia e collocare la mummia in questo contesto tecnologico e culturale.
CIBO: VETTORE DI MALATTIE O STRUMENTO DI CURA? IL CASO DI ERCOLANO. Notizie riguardanti la dieta nel periodo romano ci sono pervenute attraverso documentazioni storiche, letterarie e archeologiche. La dieta romana non era uniforme in tutto l’Impero e addirittura all’interno della stessa capitale romana vi era una distinzione in base all’età, al sesso, all’occupazione e allo status sociale13. Molte delle fonti storiche che hanno registrato e documentato informazioni riguardanti l’alimentazione tendono ad avere un carattere elitario e non sono necessariamente rappresentative delle classi inferiori.
Killgrove, 2010. Killgrove, 2010. Flint-Hamilton, 1999. 16 Garnsey, 2000. 17 Garnsey, 2000. 18 Killgrove, 2010. 13 14 15
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro per dimensione simile alle Salmonelle24. I romani erano soliti disidratare melograni ed i fichi, pressandoli e conservandoli nella paglia. Questo tipo di conservazione consentiva la proliferazione di muffe come streptomiceti, i quali sono responsabili della produzione di streptomicina, un batteriostatico naturale utilizzato come battericida dagli abitanti di Ercolano. Nella letteratura scientifica sono menzionati molti casi in cui la tetraciclina naturale ha lasciato informazioni della sua presenza all’interno delle ossa umane (Fig.3). Nel 1980, Bassett et al. hanno dimostrato la presenza di tetraciclina nel tessuto osseo umano in un’antica popolazione di Wadi Halfa in Nubia, datata intorno al 350-550 A.D., che indica come possibile fonte di antibiotici naturali il grano che, immagazzinato in bidoni, veniva facilmente contaminato da Streptomyces spp. In letteratura possiamo trovare consigli medici romani e pre-romani riguardanti il consumo di alcuni frutti freschi e conserve, compresi fichi e melograni, per il trattamento dell’infiammazione locale. Il melograno originario della Palestina è stato descritto da Ippocrate come un astringente, mentre Plinio e Dioscoride lo raccomandano come un delicato lassativo. Aulo Cornelio Celso, nel I secolo AD descrive come i frutti del melograno venissero utilizzati per curare la tonsillite, le ulcerazioni della bocca (afte), lesioni e infezioni suppurative dell’occhio, diarrea e per la disinfezione di aree cancrenose. Allo stesso tempo la farmacologia suggeriva l’uso dei fichi per trattare molte malattie infettive. Gli stessi frutti, bolliti nell’acqua, aceto, o acqua con l’aggiunta di miele, erano usati per curare la polmonite, infiammazioni gengivali e tonsillite, infezione della pelle e parotiti. Il basso livello di antibiotici naturali in alcuni alimenti, anche se inefficaci contro gravi e croniche infezioni, potrebbe essere utile per proteggere le persone da infezioni piogeniche occasionali. Ad Ercolano molti cibi erano contaminati microbiologicamente; alcuni alimenti erano fonte di infezioni croniche gravi come la tubercolosi e brucellosi, altri hanno conferito protezioni contro le infezioni meno gravi grazie alla contaminazione da specie microbiche producenti antibiotici naturali. Le indagini paleopatologiche eseguite sugli scheletri di Ercolano e lo studio microscopico dei resti di cibo hanno dimostrato la presenza di contaminanti biologici hanno dimostrato la stretta correlazione tra qualità del cibo e stato di salute. Alcuni alimenti costituivano vettori di patologie infettive, altri rappresentavano strumenti di cura, seppur efficaci contro infezioni meno gravi. Le fonti storiche ed archeologiche hanno da una parte confermato l’impiego consapevole da pare dei Romani di alimenti per la cura di alcune condizioni patologiche, dall’altra spiegato il ridotto tasso di incidenza di patologie
utilizzare i loro prodotti come risorse di lana, latte e formaggio, costituendo il secondo tipo di carne più consumato19. La perfetta conservazione degli oggetti, compresi i prodotti alimentari, rinvenuti nelle case della città romana di Ercolano fornisce una prospettiva unica sulla relazione tra lo stato di salute e la nutrizione in epoca romana. Il legame tra epizoonosi e uso del formaggio di capra è già stato dimostrato in passato,20 ma ci si è resi conto attraverso più approfondite analisi biologiche che anche altri cibi erano contaminati microbiologicamente e che i romani furono continuamente esposti a fonti alimentari contaminate da batteri, virus o funghi. Ciononostante, l’analisi antropologica degli scheletri di Ercolano ha mostrato una bassa prevalenza di infiammazioni ossee aspecifiche21. Analizzando al microscopio elettronico a scansione i resti di melograni e fichi, consumati principalmente in forma secca, si è potuto attestare come fossero invariabilmente contaminati da Streptomyces spp, un batterio che produce tetracicline, antibiotici naturali22 (Fig.2). L’analisi istologica delle ossa umane su campioni provenienti da Ercolano dimostra la fluorescenza tipica di queste molecole. Le ossa umane etichettate con tetraciclina evidenziano che gli abitanti di Ercolano avevano l’abitudine di ingerire cibi contaminati da streptomiceti; ciò potrebbe spiegare la minor frequenza di patologie ossee infiammatorie aspecifiche nella popolazione vivente. Questa interpretazione si adatta alle raccomandazioni terapeutiche di molti medici romani i quali consigliavano molto spesso l’utilizzo di alcuni frutti per curare spesso alcune patologie infiammatorie. Abbiamo recentemente esteso l’analisi microbiologica su tutti i tipi di alimenti trovati ad Ercolano, con lo scopo di confrontare i dati epidemiologici sulle malattie infiammatorie con dati sulla contaminazione microbiologica degli alimenti. Sono stati esaminati campioni di uova sode, vino, pane, fichi secchi e melograni essiccati23 e sono in corso di studio olio d’oliva, marmellata di prugne, garum (una salsa di pesce fermentato), zuppa di fagioli con rosmarino, mandorle e noci essiccate. I dati microbiologici preliminari mostrano la presenza di microrganismi in tutti i campioni di cibo. I residui del vino contengono inequivocabilmente Saccharomyces ellipsoideus (il lievito che trasforma il succo d’uva in vino). L’analisi del pane ha mostrato un’alta concentrazione di Saccharomyces cerevisiae con presenza di colonie in tutte le fasi di maturazione, inclusa la duplicazione. All’interno della superficie dei gusci d’uovo è stata riscontrata la presenza di differenti varietà di particelle virali e di batteri cocciformi, in particolare un batterio morfologicamente e Killgrove, 2010. Capasso, 2012. Sciubba et al., 2013; Capasso, 2000, 2001. 22 Capasso, 2007. 23 Capasso, 1999, D’Anastasio, et al., 2007. 24 Capasso, 2007. 19 20 21
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infiammatorie aspecifiche osservate nella popolazione di Ercolano.
Herculaneum (1st Century AD, southern Italy)”, European Journal of Inflammation 5 (3), 165-9 D’Anastasio, R., Wroe, S., C. Tuniz et al. 2013. “MicroBiomechanics of the Kebara 2 Hyoid and Its Implications for Speech in Neanderthals. PLoS ONE 8(12): e82261. doi:10.1371/journal.pone.0082261
CONCLUSIONI I casi di studio esaminati abbracciano un ampio arco temporale che va dal Paleolitico Medio, alla prima Età del Rame fino all’Epoca romana. I dati antropologici e paleopatologici hanno permesso di ricostruire il profilo biologico dell’Uomo dei Ghiacci, la patocenosi della popolazione romana di Ercolano, persino di ipotizzare che l’Uomo di Neanderthal possedesse una forma complessa di linguaggio. In tutti i casi il contributo dell’Archeologia ha confermato, completato e/o rafforzato le ipotesi formulate sulla base dei risultati delle ricerche antropologiche. La ricostruzione dei modelli comportamentali e degli stili di vita delle antiche popolazioni umane e dei singoli individui acquista completezza e maggiore credibilità quando scaturisce dalla collaborazione di figure professionali diverse, in grado di fornire autonomamente elementi di verità storica, che devono necessariamente essere confrontati.
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Fig. 1. Osso ioide di Neanderthal Kebara 2 (calco, Museo universitario, Università degli Studi “G. d’Annunzio”, Chieti-Pescara)
Fig. 2. Microscopia elettronica a scansione (SEM) del melograno mostra una ramificazione pseudo-ifale (Streptomices spp..)
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Fig. 3. Sezione istologica di un osso umano proveniente da Ercolano, osservato al microscopio confocale mostra una fluorescenza tipica della tetraciclina.
Enrico Giorgi, Anna Gamberini, Sara Morsiani*
Fenomeni di acculturazione in area medio-adriatica: Lo studio della cultura materiale tra archeologia e archeometria Abstract: The effects of Rome’s arrival in the Middle Adriatic region are examined in this article by focusing on material culture. The three sites analysed were chosen on the basis of their juridical status: on one hand the civitas foederata of Asculum and on the other, the municipia of Suasa and Mevaniola, in whose territory the site of Galeata was located. Focusing on the morphology of the vessels and their provenance, also with the help of archaeometric analyses, the question is how much the juridical status influences the choices of production and consumption of the vessels, by considering both fine tableware and impasto ceramics.
IDENTITÀ CULTURALE E ARCHEOMETRIA IN AREA MEDIO-ADRIATICA
materiale può dare per migliorare la nostra conoscenza sulla romanizzazione dell’area medio-adriatica. Dato che si tratta di riflessioni nate in seno a progetti di ricerca nei quali chi scrive è impegnato direttamente sul campo, si farà riferimento soprattutto a siti oggetto di indagine o di studio da parte degli archeologi dell’Università di Bologna, tenendo gli altri casi attinenti sullo sfondo, soprattutto come termini di confronto. L’intento vuole essere quello di attirare l’attenzione, in maniera assolutamente preliminare, su una direzione di ricerca certamente già nota agli specialisti del settore, che tuttavia sembra conservare campi di indagine ancora degni di approfondimento. In molti casi gli studi condotti su questo tema, infatti, si sono concentrati prevalentemente sull’analisi di un contesto o di un territorio particolare e raramente hanno ampliato l’orizzonte alle dinamiche riscontrabili in ambito regionale. Senza voler giungere subito a comprendere un panorama così vasto, in questa occasione vorremmo semplicemente sondare il terreno con pochi casi, tuttavia rappresentativi di dinamiche più ampie, che ci auguriamo possano essere approfondite più sistematicamente in futuro.
Lo studio della genesi urbana in area medio-adriatica è un tema che ha avuto un deciso incremento di interesse negli ultimi anni, sia grazie alle ricerche sistematiche condotte in alcuni centri abbandonati già in antico, sia grazie ai rinvenimenti occorsi nell’ambito dell’archeologia d’emergenza in aree urbane a continuità insediativa1. D’altro canto, l’analisi delle prime fasi di vita delle città in area medio-adriatica, nella maggior parte dei casi, diventa necessariamente una riflessione sull’impatto della romanizzazione. Com’è ben noto, infatti, è solo con la conquista da parte di Roma che in questi territori si struttura quel sistema ramificato di insediamenti che sarà alla base della fitta poleografia romana della regione, chiaramente enunciata, ad esempio, dalla lista pliniana dei centri urbani del Piceno2. Specialmente negli studi di sintesi, l’approccio a questi temi, tuttavia, ha tradizionalmente privilegiato l’analisi della forma urbana e degli sviluppi architettonici degli edifici pubblici, lasciando sullo sfondo altri ambiti della ricerca, come l’archeologia della produzione e del paesaggio, spesso utilizzati solo in maniera ancillare3. Non mancano, naturalmente, le eccezioni, come nel caso degli studi sull’Ager Firmanus, che hanno dedicato particolare attenzione all’analisi della cultura materiale, gettando le basi per una riflessione più ampia che travalichi i confini territoriali delle singole città4. Non ci soffermiamo in questa sede sul tema dell’archeologia del paesaggio, che meriterebbe un approfondimento autonomo, mentre vorremmo provare a focalizzare l’attenzione sul contributo che uno studio moderno della cultura
L’ambito geografico di riferimento sarà quello del Piceno, rappresentato da Asculum, dell’agro gallico, con il sito di Suasa, e di un settore della dorsale appenninica affacciato sull’adriatico, con il sito di Galeata5. Si tratta comunque di tre centri delle regiones V e VI dell’Italia augustea. Situazioni analoghe o comunque attinenti sono state riscontrate anche altrove nella medesima regione o comunque in altri luoghi omogenei sul piano geografico e cronologico, nei quali sono attivi progetti
Pur nella sua unitarietà, questo studio si deve a Enrico Giorgi per il primo paragrafo, a Sara Morsiani per il secondo dedicato ad Asculum e ad Anna Gamberini per il terzo e il quarto dedicati a Suasa e Galeata, mentre le conclusioni sono comuni. 1 de Marinis et al, 2012, Silani 2017, Vermeulen, 2017. 2 Alfieri, 1982. 3 Luni, 2003. 4 Ciuccarelli, 2009, Menchelli, 2012, Menchelli, Iacopini, 2016. 5 Il progetto di archeologia urbana ad Ascoli Piceno, in atto dal 2012, è frutto della felice collaborazione tra Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio delle Marche e Università di Bologna. Lo scavo dell’Università di Bologna a Suasa è in corso da oltre 30 anni mentre quello di Galeata, dopo quasi 20 anni di ricerche dell’ateneo bolognese, è ora un progetto dell’Università di Parma. *
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro precedente e quella portata dai vincitori e se certi fenomeni di persistenza o di innovazione tecnologica possano essere collegati al diverso rapporto tra vincitori e vinti nelle varie comunità civiche. In questo senso la scelta della civitas foederata di Asculum e quella della praefectura di Suasa paiono particolarmente significativi.
di studio dell’università di Bologna, come Rimini, Pesaro, Senigallia, Ostra e Monte Rinaldo (Fig. 1)6. Tuttavia i siti presi in esame sono quelli nei quali le nostre ricerche sono più stratificate e le riflessioni ci paiono più mature e meritevoli di condivisione. La linea di ricerca che vorremmo così affrontare intende mettere in primo piano lo studio della cultura materiale, anche con l’ausilio delle indagini archeometriche, come pensiamo sarebbe piaciuto anche a Sara Santoro. Seppure a uno stadio preliminare, vorremmo impostare lo studio superando il livello della mera classificazione tipologica e cercando piuttosto di concentrarci sul significato dei reperti come indicatori della cultura di coloro che li utilizzavano. In questo senso lo studio della cultura materiale in area medio-adriatica sta mettendo in luce in maniera sempre più evidente la complessità del fenomeno di acculturazione, che affonda le sue radici nella complessa trama di relazioni commerciali e culturali che preparano l’arrivo di Roma e che, successivamente, si declina in maniera differente nelle varie comunità insediate sul territorio7. In questo senso risulta fondamentale non soltanto chiarire gli aspetti cronologici, ma anche quelli culturali, perché l’attenzione viene posta non solo sul quando e sul dove viene prodotto un oggetto, ma anche e soprattutto su chi lo produce e su chi lo utilizza. Certamente, anche in questo senso, l’aiuto delle analisi archeometriche può risultare determinante. Si tratta, ovviamente, di un tema complesso con una robusta tradizione di studi, che annovera sia fautori, sia detrattori, che in questa sede vuole porsi solo come una possibile chiave di lettura assolutamente interlocutoria8. Nel caso specifico la domanda che vorremmo porci riguarda la possibilità di osservare variazioni nei fenomeni di acculturazione latina nei casi di città romane che accoglievano diversi tipi di cittadinanza. Si tratterebbe di nuovo di spostare l’attenzione dall’urbanistica e dalla storia dell’architettura romana del Piceno e dell’agro gallico, alla ricostruzione della stratificazione sociale e culturale degli abitanti. In altri termini si tratta di concentrarsi più sulla cittadinanza (civitas) che sulla città (urbs). Calato nel contesto della romanizzazione del Piceno e dell’agro gallico, parlare di cittadinanza significa tenere conto anche dello statuto giuridico e amministrativo scelto da Roma per strutturare il popolamento del territorio, perché questa scelta determina anche la composizione sociale di coloro che vivevano nei singoli centri urbani e nel territorio circostante. Occorre dunque di capire se la cultura materiale può rivelare l’intreccio tra la tradizione
Nel primo caso si tratta di una comunità picena che viene risparmiata dopo la conquista (268-267 a.C.), perché presentava una compagine sociale già evoluta e pronta ad assimilare la cultura urbana dei vincitori, nel secondo di un aggregato di cittadini romani (conciliabulum civium Romanorum) che si sviluppa come prefettura (dopo il 232 a.C.) e poi come municipio (dopo il 49 a.C.) nel territorio che Manio Curio Dentato aveva debellato dai Galli Senoni (285 a.C.)9. Ad Asculum, abbiamo a che fare con una comunità picena che viene risparmiata dopo la conquista (268-267 a.C.), perché presentava una compagine sociale già evoluta e pronta ad assimilare la cultura urbana dei vincitori10. L’antica civitas caput gentis (Floro I, 14, 2) accoglie la cultura dei vincitori senza necessariamente mutare la consistenza del proprio corpo civico, se non in termini prevalentemente culturali. Com’è ben noto, infatti, gli Ascolani non subirono le deportazioni che Roma inflisse ad altre aree del Piceno e nel loro territorio non furono insediati coloni romani, tanto che almeno sino al tempo della Guerra Sociale la città poté godere di una certa autonomia politica (90-89 a.C.)11. Nelle stratigrafie databili alla prima fase del contatto con Roma (III a.C.) si nota, ad esempio negli scavi di Porta Romana e di via Capitolina sul Colle dell’Annunziata, la presenza contestuale di frammenti di olle a impasto picene e di ceramica a vernice nera di importazione dall’area laziale. La ceramica a impasto è presente in quantità consistente e con una ricorrenza tale da non poter essere spiegata facendo riferimento al fenomeno della residualità. Nei medesimi siti, a distanza di circa un secolo, si trova ceramica a vernice nera di produzione locale, anche con lettere latine incise, che coesiste con olle tipologicamente riferibili alla tradizione picena, che tuttavia sembrano prodotte tenendo conto delle innovazioni tecnologiche acquisite dalla cultura dei vincitori12. Suasa, invece, si sviluppò nella valle del fiume Cesano, in un territorio precocemente interessato dal popolamento da parte di cittadini romani, come diretta conseguenza della deduzione della vicina colonia marittima di Sena Gallica (290 o 283 a.C.), all’indomani della vittoria nella Battaglia di Sentino (295 a.C.)13. Probabilmente già
Belfiori, 2017, Belfiori, 2018, Lepore 2013, Demma, Giorgi, Kay, 2018. Si vedano ad esempio: Mazzeo Saracino 2010a; Dall’Aglio, 2014; Giorgi, Demma, 2018. 8 In questa sede, a titolo meramente esemplificativo, ci piace ricordare in particolare un contributo di Sara Santoro agli studi archeometrici, (Santoro, Fabbri, 1998). 9 Giorgi, 2010, Giorgi, Demma, 2018. 10 Giorgi, Demma, 2018. 11 Per una trattazione più approfondita si rimanda a Giorgi, Demma, 2018 con bibliografia relativa. 12 Si veda il paragrafo successivo. 13 Lepore, 2014. 6 7
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E. Giorgi, A. Gamberini, S. Morsiani
Fenomeni di acculturazione in area medio-adriatica: Lo studio della cultura materiale tra archeologia e archeometria
in questa fase si andò gradualmente sviluppando un aggregato spontaneo di cittadini romani (conciliabulum civium Romanorum)14. Successivamente, grazie alla legge agraria promossa da Gaio Flaminio (Lex Flaminia de agro Gallico et Piceno viritim dividundo), il territorio centuriato fu oggetto di assegnazioni viritane in favore dei coloni romani (232 a.C.)15. Nell’agro gallico, il popolamento viritano, improntato all’insediamento sparso di tipo pagano-vicanico, vide emergere alcuni aggregati che, soprattutto per ragioni topografiche, divennero i nuovi baricentri del territorio16. In questo momento a Suasa fu stabilita una praefectura che rimase tale sino all’acquisizione dello statuto municipale (dopo il 49 a.C.). Secondo la tradizionale ricostruzione storica, fondata soprattutto sulle fonti letterarie, la prefettura di Suasa sarebbe sorta su un territorio sottratto ai Galli Senoni sterminati da Manio Curio Dentato (285 a.C.). Già da tempo gli studiosi più accorti hanno notato che l’archeologia rivela una realtà più complessa17. Proprio gli studi sulla cultura materiale di Suasa inaugurati da Luisa Mazzeo Saracino, infatti, hanno da tempo mostrato che la ceramica presente nei contesti più antichi dell’abitato vede la persistenza di contenitori a impasto di tradizione picena che convivono con ceramica fine da mensa sia di produzione locale/regionale, sia importata dall’area tirrenica18. Dato che queste ceramiche sono associate con strutture stabili, impostate su solide fondazioni in ciottoli, si è ipotizzata la presenza di un primo aggregato demico, il conciliabulum civium Romanorum al quale si è già fatto cenno.
tirrenica, mentre i contenitori a impasto di tradizione locale sembrano attestati solo un contesto ancora in corso di studio. A Galeata, ossia nel territorio di Mevaniola, invece, accanto alla ceramica romana persistono a lungo e in quantità significative le olle a impasto di tradizione preromana, forse addirittura prodotte in una fornace recentemente individuata sul sito21. La consistenza statistica della ceramica a impasto nei casi a cui si è fatto cenno, unita alla presenza contestuale di ceramica a impasto di tradizione pre-romana e di ceramica fine romana, ricorrente anche in siti analoghi, non consente più di far riferimento alla consueta idea di residualità. Dobbiamo piuttosto considerare che i due tipi convivano per periodi più o meno lunghi. Tuttavia questa sorta di capacità di sopravvivere all’interno di un contesto storico e culturale rinnovato si declina in maniere differenti. Nella città federata di Ascoli perdura a lungo in maniera permeabile, tanto da fondere la tecnica di produzione romana con la tradizione materiale picena. Parallelamente la ceramica a vernice nera, talvolta incisa con lettere dell’alfabeto latino, non viene più solo importata ma viene prodotta anche localmente, a sottolineare l’acquisizione di un sapere tecnologico che verrà utilizzato anche per produrre le nuove olle morfologicamente affini a quelle picene. Possiamo considerare questo aspetto della cultura materiale come un segno del successo della scelta politica di Roma che aveva puntato all’inclusione e all’assimilazione culturale del corpo civico piuttosto che alla sua eliminazione? A Suasa e Galeata sembra che le olle a impasto continuino ad essere usate e prodotte anche dopo l’arrivo dei coloni romani. Tuttavia nell’area dell’abitato suasano, allo stato attale delle ricerche, non sembra che questa convivenza tra tradizioni diverse superi le fasi del primitivo conciliabulum. Alla luce di questa considerazione si può forse avanzare qualche ipotesi ulteriore. Possiamo pensare che questa diversa persistenza della cultura materiale locale sia collegata alla diversa compagine culturale delle due comunità? È possibile che a Suasa i coloni romani abbiano rapidamente assorbito e assimilato le poche componenti locali superstiti, mentre le comunità umbre di Mevaniola abbiano giocato un ruolo maggiore nella formazione della nuova compagine civica?
L’esempio di Galeata, infine, deve essere letto nell’ambito del popolamento romano di un territorio interessato, prima dell’arrivo delle genti latine, da una realtà composita comprendente genti Etrusche, Celtiche, Umbre. Tuttavia dal momento che Galeata rientra nell’agro di Mevaniola, che pure farà parte del sistema dei municipi romani della regio VI (I a.C.)19, la dinamica del suo popolamento pare simile a quella di Suasa, seppure in un ambito geografico e culturale differente. La genesi di questi due centri municipali presenta infatti tratti comuni, perché si tratta di cittadini romani di pieno diritto stanziati nei territori conquistati. Tuttavia si notano anche alcune differenze che meritano di essere considerate con attenzione20. A Suasa l’omologazione della cultura materiale sembra procedere in maniera più spedita, tanto che nei contesti del secolo successivo è ben attestata la ceramica fine di produzione locale, secondo i tipi e le tecniche dell’area
(E.G.)
Giorgi, 2010. Campagnoli, Giorgi, 2014. 16 Sisani, 2011, Silani, 2017. 17 Paci, 2008. 18 Mazzeo, Saracino, 2010a. 19 Morigi, Villicich, 2017. 20 Per i casi di Suasa e Galeata si vedano i paragrafi seguenti dedicati a questi siti. 21 Morigi, Villicich, 2017. 14 15
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
ASCULUM
argille meno ricche di ossidi di ferro e con la presenza, seppur sporadica, di piccoli inclusi di chamotte. Le forme attribuibili a questa produzione locale, avviata con buone probabilità già dalla seconda metà del II sec. a.C., ossia comunque in età precoloniale, fanno riferimento al repertorio della Campana B e delle produzioni su larga scala genericamente definite di area etruschizzante.
Le più recenti ricerche archeologiche condotte ad Ascoli Piceno, l’antica Asculum tradizionalmente ricordata dagli autori latini come centro capitale dei Piceni, hanno riportato in luce diversi contesti di grande interesse per analizzare il fenomeno dell’acculturazione di una comunità formalmente autonoma all’interno del più ampio panorama medio-adriatico dopo la conquista romana (III a.C.). Questo aspetto della ricerca è stato approfondito principalmente grazie allo studio della cultura materiale e in particolare dei resti ceramici, databili tra il III e il II secolo a.C., recuperati negli scavi condotti nell’area del centro storico della città marchigiana grazie al lavoro dei colleghi della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio delle Marche. Tali reperti sono stati analizzati sia dal punto di vista tipologico, sia facendo ricorso alle analisi archeometriche per verificare e dare fondamento alle ipotesi formulate attraverso metodi di ricerca più tradizionali 22.
Lo studio dei materiali provenienti da recenti scavi urbani ad Asculum, ed in particolare quelli sulle pendici del Colle dell’Annunziata, in via Capitolina, ha interessato anche un nutrito gruppo di cosiddette “olle picene” (Fig. 4) 23. Generalmente questi contenitori cilindrico-ovoidi, noti in diverse varianti e moduli, sono stati ricondotti alla fase del Piceno IV per la loro presenza in contesti funerari, come nei casi di Sirolo, Numana, Matelica, Ripatransone e Fossa, in sepolture databili tra la fine del VII e il primo quarto del V sec. a.C.24. Scavi in aree di abitato, come quelli condotti ad Ancona, hanno contribuito ad abbassarne la datazione almeno fino al IV-III sec. a.C.25. Nell’ambito di questo lungo arco cronologico non sono stati finora riconosciuti elementi utili per la definizione di una crono-tipologia della forma, soprattutto a causa della sua scarsa variabilità nel tempo, dovuta alle esigenze funzionali a cui doveva rispondere, che perdurarono senza sostanziali variazioni nel corso dei secoli.
Per quanto riguarda la ceramica a vernice nera cronologicamente inquadrabile nell’ambito del III sec. a.C., l’esame autoptico delle argille e delle vernici, incrociato con lo studio tipologico, ha permesso di affermare che tutto il vasellame riferibile alla fase iniziale del processo di romanizzazione di Asculum fosse esclusivamente di importazione, specialmente dall’area etrusco-laziale. Per confermare tale ipotesi sono state condotte analisi di tipo mineralogico su alcuni reperti (una ciotola Morel 2784c e una coppa Morel 1552, Fig. 2, 1 e 2), che hanno mostrato matrici ricche di ossidi di ferro con cristalli di quarzo, feldspati e fillosilicati, compatibili con la provenienza dall’area tirrenica.
In realtà, i dati provenienti dagli scavi ascolani permettono di aggiungere qualche elemento alla discussione sulla cronologia di questi contenitori. Sono state infatti notate alcune piccole differenze morfologiche e di impasto, che potrebbero forse essere utili per determinare un’eventuale evoluzione della forma; ovviamente, visto il limitato campione, si tratta di ipotesi che solo il prosieguo degli studi potrà confermare o smentire.
Si tratta di impasti ben distinguibili anche macroscopicamente rispetto a quelli delle ceramiche a vernice nera di epoca successiva, databili nel II-I sec. a.C., che presentano argilla abbastanza polverosa di colore grigio chiaro tendente al verdastro (Munsell 2.5Y 7/1), tendenzialmente depurata o con rari inclusi micacei, e vernice opaca, abbastanza compatta, di colore grigio scuro (Munsell 2.5Y 4/1 e 5/1-2) (Fig. 2, 3). Il riconoscimento frequente e costante di tali caratteristiche ha suggerito di condurre alcune analisi archeometriche che potessero fornire conferma dell’ipotesi che si trattasse di materiale prodotto a livello locale. Tali analisi, svolte su due piatti Morel 2252/2255 (Fig. 3, 4) e su una coppa Morel 2646 (Fig. 3, 5) hanno effettivamente dimostrato nette differenze mineralogiche tra i prodotti importati e quelli locali, realizzati questi ultimi in
Ad Ascoli le olle picene sono state rinvenute in rari casi in contesti di VI-V sec. a.C., ma più frequentemente in strati di fine IV - metà III sec. a.C. e in riporti di piena età romana (fine II-I sec. a.C.). I contenitori più antichi (Fig. 4, 6) hanno la presa posta ad alcuni centimetri sotto l’orlo e mostrano impasti grossolani e poco depurati, di colore grigio-marrone scuro, con frequenti e piccoli inclusi micacei e medio-grandi inclusi di pietra; la superficie appare abbastanza dura e ruvida, ma a volte reca segni di una sorta di lisciatura. Interessanti confronti sono stati rintracciati, con olle analoghe provenienti da Numana, Ripatransone e Ancona, dove la
A questo tema è stato dedicata la tesi di dottorato di Sara Morsiani, discussa presso l’Università di Bologna nel 2017, dal titolo “La romanizzazione nell’area medio-adriatica: le trasformazioni culturali e socio-economiche tra IV e III secolo a.C. attraverso lo studio della cultura materiale”. Si vedano anche: Mazzeo, Saracino, Morsiani, 2014; Morsiani, 2018, Per una sintesi sui rinvenimenti più recenti si veda Giorgi, Demma, 2018. 23 Una prima notizia su questo importante contesto in Lucentini et al. 2014, Giorgi, Demma, 2018, 58-60. 24 Sirolo, Landolfi, 1992, 310-312, fig. 6, n. 4, Numana: Lollini 1976, 152, fig. 20. Matelica, Silvestrini, Sabbatini, 2008, Cat. 178, p. 167. Ripatransone: Percossi Serenelli, 1989, 137, bicchieri tipo 1 e 3. Fossa: D’Ercole, Benelli, 2004, 18-19, Tav. 6, n. 5; ibid., 135-136, Tav. 102, n. 2; ibid., 163, Tav. 128, n. 1. 25 Pignocchi, Virzì Hägglund, 1998, 143-144, fig. 9, n. 1. 22
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E. Giorgi, A. Gamberini, S. Morsiani
Fenomeni di acculturazione in area medio-adriatica: Lo studio della cultura materiale tra archeologia e archeometria
forma si ritrova, come ad Asculum, in strati di fine IV-III sec. a.C.26.
A Urvinum Mataurense, in una fattoria romana nei pressi del municipium, è stata notata l’associazione tra vasellame a vernice nera e olle d’impasto legate alla tradizione protostorica30.
Le olle provenienti dai contesti più recenti, invece, paiono essere più curate nell’esecuzione, con impasti semi-depurati, di colore marrone-arancio o grigio scuro, ricchi di inclusi micacei ma prive di piccolo pietrisco (presente invece negli esemplari precedenti); la presa, in questi casi, è posta subito sotto l’orlo (Fig. 4, 7). Esemplari morfologicamente analoghi ai nostri, datati tuttavia fra la metà del VI e la fine del V sec. a.C., sono documentati a Numana, Sirolo, Camerano e Tortoreto27.
La medesima situazione è stata verificata, infine, per la fase più antica dell’anfiteatro di Ancona, datata tra la fine del IV e la fine del III sec. a.C., e ricondotta quindi all’ambito culturale piceno. L’associazione, nei livelli inferiori, di ceramica alto-adriatica e ceramica d’impasto, entrambe di produzione locale, con ceramica tipo Gnathia e ceramica a vernice nera etrusco-laziale rientra nel quadro culturale della fase finale della civiltà picena (Piceno VI), nota soprattutto attraverso i corredi tombali, ma che in questo caso si è rivelata attraverso un contesto insediativo31.
L’elemento significativo è che i contenitori di stampo piceno rinvenuti in questi strati tardorepubblicani presentano caratteristiche tecnologiche differenti rispetto a quelli delle fasi precedenti. Questo dato potrebbe testimoniare che il conservatorismo nell’ambito dell’alimentazione, dei sistemi di cottura dei cibi e dei relativi recipienti perdurò anche con il compimento del processo di romanizzazione, quando però la popolazione autoctona fece proprie le innovazioni tecnologiche introdotte dal dominio romano. Un segno in questo senso verrebbe proprio dal maggior grado di depurazione delle olle del secondo tipo, riconducibile alla maggiore finezza nella lavorazione delle argille raggiunta dai ceramisti romani e trasmessa agli artigiani locali.
(S.M.)
SUASA Come già ricordato, la genesi dell’abitato di Suasa, che divenne municipium alla metà del I secolo a.C., dunque due secoli dopo essere nata come praefectura, è differente rispetto a quella dell’abitato di Asculum. Lo studio della cultura materiale del sito ha contribuito a ipotizzare la strutturazione di un primo aggregato di cittadini romani (conciliabulum civium Romanorum), che probabilmente convisse e assimilò alcuni abitanti locali, nell’ambito di una stratificazione culturale composita e di una compagine sociale più articolata di quanto non si pensasse in precedenza. Questa comunità si iniziò a strutturare probabilmente contestualmente alla deduzione della colonia di Sena Gallica, avvenuta all’indomani della battaglia del Sentino (295 a.C.) o dopo la definitiva sconfitta dei Senoni nel 283 a.C., in un territorio dove credibilmente erano già presenti precedenti interessi economici romani (almeno all’inizio del III sec. a.C.) 32, comunque ben prima della prefettura.
Si tratta di un’ipotesi che troverebbe conferma nell’analisi dei materiali da ricognizione dell’ager Firmanus, per i quali, nel periodo tra il tardo Piceno (V-IV sec. a.C.) e l’età romana (III-II sec. a.C.), Maria Raffaella Ciuccarelli ha riconosciuto da un lato l’adesione alla tradizione formale picena, dall’altro un significativo progresso tecnologico da cui deriva una maggiore depurazione delle argille28. La compresenza di ceramica d’impasto di tradizione locale con vasellame realizzato al tornio e tipologicamente riconducibile all’età romana è stata notata anche in altri siti, ma non oltre il III secolo. A Cattolica, nello scarico di fornace rinvenuto presso la darsena e datato alla metà del III sec. a.C., contenitori fatti a mano o al tornio lento erano associati ad anfore greco-italiche e a ceramiche di uso comune con forme di matrice ellenistica e romano-laziale29.
Riflesso di questa presenza romana precoce è il vasellame a vernice nera più antico attestato nel sito. Si tratta di vasi di fine IV-III secolo a.C. di sicura importazione dall’area etruschizzante e volterrana in particolare33 (Fig. 5, in alto) e di vasi che le analisi archeometriche indicano come prodotti localmente già nella prima metà
Numana: Piceni, 1999, 216-217, n. 211. Ripatransone: Percossi Serenelli 1989, 137, bicchieri tipo 1 o 3. Ancona: Pignocchi, Virzì Hägglund, 1998, 143-144, Fig. 9, n. 1. 27 Numana: Lollini, 1976, 152, fig. 20; Piceni 1999, 217, n. 212., Sirolo: Lollini, 1985, 329-331, fig. 7,19; Landolfi 1992, 310-312, fig. 6, n. 4. Camerano: Lollini, 1985, 343, fig. 22,11. Tortoreto: D’Ercole, Festuccia, Stoppiello, 1995, 100-101, fig. 14. 28 Ciuccarelli, 2009, 7. 29 Lenzi, Carboni, 2008, 117. 30 Ermeti, 2002, 180. 31 Pignocchi, Virzì Hägglund, 1998, 151-152. 32 Sul passo di Livio che, narrando di fatti avvenuti nel 309-308 a.C., sottolinea quanto la Silva Cimina fosse impenetrabile “ne mercatorum quidem” (Liv., IX, 36, 1) si veda Dall’Aglio, 2014. 33 Si vedano ad esempio il cratere a campana Morel 4613, del quale sono stati rinvenuti diversi esemplari dalla Casa del Primo Stile e l’olla situliforme Morel 7431 a1, entrambi di produzione volterrana e databili a (fine) IV-III secolo a.C. (Mazzeo, Saracino, 2007, Ead., 2010b, p. 186). 26
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro del III secolo (Fig. 5, in basso)34. Essi testimoniano la frequentazione del territorio da parte di cittadini romani, che avviarono una produzione locale per soddisfare sia la richiesta dei primi nuclei di immigrati sia la domanda della popolazione in un momento di poco posteriore alla battaglia delle Nazioni, documentando quindi una fase insediativa precedente alla piena romanizzazione dell’ager Gallicus35. Questo fenomeno è ben noto in altri siti come Aesis, la vicina Sena Gallica e Ariminum36. In quest’ultimo sito, l’esame dei materiali rinvenuti in vari contesti della città37 ha evidenziato come non solo l’avvio della produzione riminese di ceramiche a vernice nera ma anche quello di ceramiche di uso comune e da cucina38 morfologicamente analoghe al “servizio da cucina” tipicamente laziale39 vada collocato in un periodo immediatamente precedente alla fondazione della colonia, ossia agli inizi del III sec. a.C.40.
di fondazioni in ciottoli. Le medesime associazioni di materiali, pur senza strutture ad essi collegabili, sono state notate anche in un saggio in profondità nel Foro della città45. Recentemente, dallo scavo della Necropoli Orientale46, uno strato ricco di materiali che colmava un canale la cui interpretazione resta al momento dubbia, ha infine restituito un discreto numero di frammenti di olle e coperchi modellati a mano, in impasti grossolani (Fig. 7) ricchi di inclusi calcarei contestualmente a materiali più recenti, di metà II-I secolo a.C.: l’omogeneità cronologica di tali reperti (anfore rodie e Lamboglia 2, vasellame a vernice nera, ceramiche comuni e da cucina) da un lato e la consistenza di tale nucleo di ceramica d’impasto dall’altro, pone il ragionevole dubbio che quest’ultimo non sia di natura residuale ma piuttosto possa essere contestuale ad essi, a testimoniando la probabile compresenza di ceramiche tornite e non anche nella tarda età repubblicana.
I vasi a vernice nera suasani comprendono anche una coppa a vernice nera riferibile alle serie Morel 2763 e 2764, databili entrambe all’incirca alla metà del III secolo a.C.41. Oltre a testimoniare l’esistenza di una produzione locale precoce, questo vaso si segnala per la presenza di segni graffiti che ne indicano la natura di alfabetario latino (Fig. 6). Tali segni comprendono un segno (un chi rovescio) certamente estraneo a quell’alfabeto e che l’analisi epigrafica ha assegnato alla lingua leponzia: i segni sono dunque stati graffiti da un personaggio identificabile con un Gallo Senone che vuole ostentare la propria conoscenza della lingua latina, ma che tradisce involontariamente le proprie origini celtiche42.
GALEATA Sebbene questo sito si trovi in un territorio relativamente distante dal Piceno e dall’Agro Gallico, ci è parso importante prendere in considerazione anche il caso di Galeata perché contribuisce a completare il quadro. Questo insediamento è ben noto per la sua importante fase di VI secolo d.C., quella della Villa di Teoderico; ma proprio le prolungate indagini nell’area hanno evidenziato come venne in realtà occupato per un periodo ben più lungo, compreso fra il VI-V secolo a.C. e l’età medievale: la sua fase romana repubblicana, di II-I secolo a.C., è testimoniata da un contesto rurale con spazi produttivi47 ed è certamente da leggere tenendo in considerazione il municipium di Mevaniola, distante poco più di 1 chilometro dall’area della villa teodericiana. Di questo centro conosciamo solamente l’originario contatto con la città Umbra di Mevania, testimoniato dal toponimo, e il suo status di municipium nel I secolo a.C.48.
La testimonianza materiale della commistione fra l’elemento autoctono e quello alloctono è percepibile anche osservando le associazioni fra diverse classi di materiali. È difatti interessante notare come in diversi contesti suasani al vasellame a vernice nera, o comunque a ceramiche tornite, si affianchino nuclei di ceramica d’impasto. Al di sotto della Casa del primo stile43 e della Domus dei Coiedii44 essi erano associati a ceramica a vernice nera di pieno III secolo a.C. e in relazione a lacerti
Le fasi più antiche, indiziate da alcuni frammenti di ceramica attica figurata da leggere assieme al noto
Mambelli, 2014, pp. 120-121. Brecciaroli, Taborelli, 1998, p. 153, Ead., 2005, p. 66; Mazzeo, Saracino, 2004b, pp. 59-65; Minak, 2005, pp. 110-111., Mambelli, 2010, pp. 287-288. 36 Per una sintesi del fenomeno nei siti citati si veda Mazzeo, Saracino, 2014, con bibliografia precedente. 37 Si tratta specialmente dei resti sotto Palazzo Diotallevi (Maioli 1984, p. 461), sotto il complesso di S. Francesco e sotto Palazzo Massani (Ortalli 2003, pp. 74-75; ivi bibliografia precedente). 38 Polenta, 2015, p. 102. 39 Si fa riferimento all’associazione, nei contesti di età medio-repubblicana (IV-II sec. a.C.), tra olle con alto orlo svasato distinto, tegami con orlo bifido, clibani e mortai (Olcese 2009, Fig. 8, p. 155). 40 Maioli, 1987, p. 388 e p. 391; Minak, 2005, p. 111; Ortalli, 2006, pp. 297-298; Mazzeo, Saracino, 2010a, p. 67. In contrasto con queste posizioni si pone L. Brecciaroli, Taborelli, che lega l’avvio della produzione necessariamente alla deduzione della colonia nel 268 a.C. (Brecciaroli, Taborelli, 2000, pp. 15-16). 41 Per le caratteristiche tecniche di impasto e rivestimento si veda Mazzeo, Saracino, 2007, 195, nota 84. 42 Gaucci, 2010; Id. 2012. 43 Mazzeo, Saracino, 2004b, 62. 44 Mazzeo, Saracino, 2014, 77-78. 45 Assenti, Roversi, 2010, 254-256. 46 Lo studio dei reperti dalla Necropoli Orientale confluirà in una monografia dedicata, in corso di preparazione. 47 Le fasi romane del sito sono oggetto di una recente monografia: Morigi, Villicich, 2017. 48 De Maria, Rinaldi, 2012. 34 35
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E. Giorgi, A. Gamberini, S. Morsiani
Fenomeni di acculturazione in area medio-adriatica: Lo studio della cultura materiale tra archeologia e archeometria
bronzetto di cavaliere etrusco49, hanno trovato una conferma nel rinvenimento di un importante nucleo di vasi in ceramica di impasto riconducibili quasi esclusivamente a olle con orlo rientrante e presa a linguetta (Fig. 8), detta “di tipo piceno” ma chiaramente non riconducibile a quella cultura: se è vero che il periodo precedente l’arrivo dei Romani non è ben noto, essendo indiziato quasi esclusivamente da rinvenimenti sporadici, la posizione del sito indica che esso venne interessato, nel corso del tempo, dalla presenza di Umbri, Etruschi, Celti50 e poi progressivamente di genti latine. Questi vasi sono stati rinvenuti in associazione a resti di pasto (ossa e conchiglie), all’interno di un largo fossato51 interpretato come canale di regimazione idrica di VI secolo a.C. ma conservato solamente nella sua parte inferiore.
le olle quanto queste ciotole ad analisi chimico-mineralogiche che possano indiziarne l’area di provenienza, nord italica o regionale. Piacerebbe difatti collegare le olle sopra menzionate ad una delle fornaci recentemente rinvenute nel sito, stratigraficamente precedente a quelle di età tardorepubblicana-augustea e morfologicamente differente da queste ultime, ma tale associazione necessita ovviamente di ulteriori indagini. (A.G.)
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE A conclusione di queste brevi note, pare opportuno sottolineare alcune dinamiche, che pur essendo state riscontrate anche in siti diversi da quelli presi in considerazione, traggono forza dalla lettura unitaria che questo breve intervento cerca di proporre. Tali dinamiche riguardano il ben noto tema delle conseguenze dell’arrivo di Roma sulla vita delle popolazioni con le quali entrò in contatto, nelle diverse modalità che la situazione politica imponeva.
Nel corso degli anni, procedendo nel rinvenimento delle sopracitate strutture tardorepubblicane e dei resti di una villa di età imperiale, sono emersi molti altri reperti in ceramica d’impasto modellata a mano o al tornio lento; la presenza del canale preromano e dell’importante nucleo di ceramiche ad esso correlate ha indotto inizialmente a considerare questi rinvenimenti come residuali rispetto alle ceramiche a vernice nera o in terra sigillata italica cui erano spesso associati. Alla luce delle considerazioni emerse dallo studio dei contesti ascolani e suasani è stato avviato un riesame di questi reperti che porta a rileggerne il significato.
L’osservazione della cultura materiale in siti con una storia insediativa molto diversa mostra come tali reperti possano riflettere il rapporto fra le due culture. Tale rapporto è riscontrabile attraverso lo studio del vasellame a vernice nera, ma anche e soprattutto attraverso quello delle ceramiche di uso comune, ed in particolare di quelle a impasto. È difatti assodato come sia frequente l’associazione, tanto nei casi studio presi in considerazione, quanto nei contesti utilizzati come confronto, di ceramiche tornite e ceramiche d’impasto. Tale associazione, unita alla consistenza e allo stato di conservazione dei reperti a impasto, permette di affermare con un buon grado di sicurezza la contestualità delle ceramiche d’impasto e di quelle tornite. Il caso ascolano mostra come, con il passare del tempo e la progressiva assimilazione della cultura latina, i vasi di tradizione locale subiscano un’evoluzione tipologica e tecnologica. I casi di Suasa e Galeata mostrano poi come la modellazione a mano dei vasi sia stata utilizzata, accanto alla modellazione al tornio, tanto nelle prime fasi di contatto fra le due culture, quanto nei secoli successivi (II e I a.C.), quando l’assimilazione doveva essere avvenuta.
Si tratta innanzi tutto di frammenti di dimensioni medio-grandi e rinvenuti in quantità notevoli (Fig. 9), spesso paragonabili, se non superiori, a quelle della ceramica tornita cui sono associati. Inoltre, da un punto di vista morfologico, essi non comprendono olle con presa a linguetta ma piuttosto, quasi esclusivamente, olle con orlo estroflesso e corpo ovoide. Se è vero che questa forma, molto comune, è attestata già dall’VIII secolo, in area laziale essa è diffusa, nella produzione tornita, fra la fine del IV e il III secolo, se non addirittura nel II52. Inoltre l’unica altra forma in ceramica d’impasto associata a queste olle è una ciotola-coperchio con corpo troncoconico (Fig. 9, in alto) che trova confronti puntuali in Lombardia, dove è datata fra la seconda metà del II secolo a.C. e l’età augustea ed è considerata fra le testimonianze materiali della “koinè culturale celtica”53. Sarà senz’altro interessante sottoporre tanto
Mazzeo, Saracino, 2004a. Si veda ad esempio il recente studio sul popolamento della Romagna ad opera di L. Malnati e C. Cornelio, (Malnati et al. 2016, 2-10, Figg. 1,2). Olle caratterizzate da linguette sono ben note anche in contesti celtici come la necropoli di Monte Tamburino, in corredi di V-metà III secolo a.C. 51 Indagato per un tratto di circa 8 metri, largo 2,80, il canale era rinforzato da una palificata lignea (riconoscibile da tracce carboniose lungo le due sponde del fossato) e reso transitabile da un pontile, anch’esso di legno, del quale erano ancora visibili le buche per i pali di sostegno. Nel tratto riportato in luce, a causa delle profonde arature e della conformazione del terreno, si è conservata solo la parte inferiore del fossato, che proseguiva verso est fino a rarefarsi del tutto ad oriente delle terme della villa teodericiana (Villicich, 2014). Dopo la consegna del presente manoscritto, in fase di correzione delle bozze, è stato pubblicato un mio lavoro sulle fasi tardorepubblicane a Galeata (Gamberini 2020), al quale rimando perchè approfondisce le considerazioni qui presentate . 52 Olcese, 2003, 78. 53 Della Porta, Sfredda, Tassinari, 1998, tipi 1-2, 134-135, 166-167, tav. 86, nn. 1-2. 49 50
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Le tradizioni artigianali autoctone continuarono dunque a essere mantenute in vita anche in secoli pienamente romani, specialmente con riferimento a forme ceramiche connotate per la loro funzione da forte conservatorismo, come nel caso della ceramica da cucina. Le abitudini alimentari dei popoli italici, infatti, da connettere a un sistema di cottura mediante lenta bollitura all’interno delle olle, si mantennero inalterate anche a seguito del contatto con la cultura di Roma, che comportò semplicemente un ampliamento del repertorio morfologico di tale forma.
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D’altronde, fenomeni di conservatorismo nell’ambito dell’alimentazione non sono nuovi nella ricerca storica, che spesso ha verificato la sopravvivenza di abitudini che travalicarono i cambiamenti politici e sociali sottesi alla romanizzazione. È stato effettivamente già autorevolmente sostenuto da Marco Galli che i “comportamenti connessi al regime alimentare, alle modalità della nutrizione e dell’assunzione di cibi tendono a sussistere nel tempo malgrado i cambiamenti radicali intervenuti nella compagine sociale”54.
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Fig. 1. Localizzazione delle principali città romane del Piceno e dell’Agro Gallico.
696
E. Giorgi, A. Gamberini, S. Morsiani
Fenomeni di acculturazione in area medio-adriatica: Lo studio della cultura materiale tra archeologia e archeometria
Fig. 2. Asculum. Ciotola Morel 2784c, d’importazione dall’area etrusco-laziale. Fine IV-III sec. a.C. (1); Coppa Morel 1552, d’importazione dall’area etrusco-laziale. Fine IV-III sec. a.C. (2); Ceramica a vernice nera di produzione locale. II-I sec. a.C. (3)
Fig. 3. Asculum. Vasellame a vernice nera di produzione locale: Piatti Morel 2252/2255. II sec. a.C. (4); Coppa Morel 2646. Metà II sec. a.C. (5).
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 4. Asculum. Frammenti di olle picene: Olla picena, variante più antica (6); Olla picena, variante più recente (7).
Fig. 5. Suasa. Vasellame a vernice nera importato (in alto) e di produzione locale (in basso).
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E. Giorgi, A. Gamberini, S. Morsiani
Fenomeni di acculturazione in area medio-adriatica: Lo studio della cultura materiale tra archeologia e archeometria
Fig. 6. Suasa. Coppa a vernice nera con alfabetario graffito.
Fig. 7. Suasa. Ceramica d’impasto rinvenuta nell’area della Necropoli Orientale.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 8. Galeata. Olla di tipo piceno rinvenuta negli scavi del 1942 (a sinistra); frammenti di ceramica d’impasto rinvenuti in un canale relativo all’insediamento protostorico (scavi Università di Bologna).
Fig. 9. Galeata. Ceramica d’impasto rinvenuta negli strati di II-I secolo a.C. (scavi Università di Bologna).
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Tangari A. C., Agostini S., Marinangeli L., Baliva A., Pompilio L., Somma M.C.
Analisi preliminare delle malte di alcuni siti archeologici di Corfinio (AQ)
Abstract: A series of samples of mortar from the archaeological site of Corfinio (province of L’Aquila, Italy) have been analyzed to characterize potential different origins of the material used in different historical periods. This work shows the first results of this characterization that has already allowed to identify four major groups of mortars with mineralogical affinities. The archaeological area of Corfinio is among the most important in this region. Probably, it was populated since the Paleolithic age, but its maximum splendor was reached during the Social War (91-88 BC) when it was chosen as the capital of the Italic League, the alliance between the Italic populations (Peligni, Marsi, Vestini, Marrucini, Piceni, Frentani, Samnites, Apuli, Lucani) who claimed the recognition of citizenship rights from Rome. The medieval village was born on the ruins of the ancient city with the name of Pentima and the name of Corfinio was returned to the town only in 1929. The archaeological area of Fonte Sant’Ippolito is located in the southern outskirts of the city of Corfinio, along an ancient path that connected the acropolis of the Roman city and the foothills of the Morrone mountain connecting the municipalities of the Peligna valley (Somma et al., 2015). This site was used in the V-IV century BC for funeral purposes while from the III century BC a sanctuary was built as two separate rectangular and parallel terraces: the upper one is limited by a square-shaped building wall which is flanked by two small quadrangular sacred buildings, while in the lower one there is a pool that collects the water of the source. Among the recognised groups, the calcareous composition is the most abundant. Calcareous rocks are indeed widespread in the Corfinio’s area. One sample is enriched with gypsum and we cannot exclude at this stage, the interaction with sulfur water of Sant’Ippolito springs. A few samples contain typical volcanic minerals of likely different origins. Layers of volcanic tephra are indeed outcropping in the lacustrine deposits of the Sulmona valley stratigraphic sequence. Further studies are needed to better relate the chemical composition to the identified groups to eventually recognise some sub-groups.
INTRODUZIONE
di Corfinio, lungo un antico percorso che collegava l’acropoli della città romana e la via pedemontana del Morrone che collegava i comuni della valle peligna1. Si tratta di un’area già utilizzata nel V-IV sec a.C. a scopo funerario mentre dal III secolo a.C. venne realizzato un santuario articolato in due terrazzi rettangolari e paralleli separati: quello superiore è limitato da un muro di costruzione di forma quadrata al quale si addossano due piccoli edifici sacri a pianta quadrangolare, mentre in quello inferiore viene realizzata una vasca che raccoglie l’acqua della fonte.
Una serie di campioni di malte edilizie del sito archeologico di Corfinio (provincia del L’Aquila) (Fig. 1) sono state analizzate per caratterizzare potenziali provenienze diverse del materiale utilizzato nelle diverse epoche storiche. L’area archeologica di Corfinio è tra le più ricche nella piana di Sulmona. Probabilmente il sito era popolato fin dall’età paleolitica ma il suo massimo splendore lo raggiunse come Corfinium durante la Guerra Sociale (91-88 a.C.) quando venne scelta come capitale della Lega Italica, l’alleanza tra i popoli italici (Peligni, Marsi, Vestini, Marrucini, Piceni, Frentani, Sanniti, Apuli, Lucani) che rivendicavano il riconoscimento dei diritti di cittadinanza da Roma. Il borgo medioevale nacque sulle rovine dell’antica città con il nome di Pentima. Solo nel 1929, con un Regio Decreto, venne restituito al paese il nome di Corfinio, a ricordo del glorioso passato di epoca romana.
Questo lavoro mostra i primi risultati di questa caratterizzazione che ha già comunque permesso di evidenziare alcuni gruppi di malte con affinità mineralogiche.
INQUADRAMENTO GEOLOGICO DELL’AREA DI STUDIO
GENERALE
L’area di Corfinio è situata nel settore nord-occidentale del bacino di Sulmona (Abruzzo, centro-occidentale), che rappresenta una delle principali depressioni tettoniche intermontane della catena appenninica, formatasi durante la fase di tettonica distensiva plio-quaternaria. La formazione di questa depressione è legata ad un sistema di faglie normali con direzione NO-SE2 che hanno dissecato la struttura orogenetica compressiva originaria3. In particolare, tale depressione è bordata a nord
I campioni di malte analizzati vengono dalle strutture della Cattedrale di San Pelino e dalla Fonte Sant’Ippolito. La Cattedrale di San Pelino, situata all’esterno dal borgo, venne eretta durante il periodo medievale, sulle basi di una precedente costruzione. L’area archeologica della Fonte Sant’Ippolito è localizzata nella zona periferica meridionale della città
Somma et al., 2015. e.g. Centamore et al., 2003, Galadini e Messina, 2004. 3 e.g. Doglioni et al., 1995, Patacca e Scandone, 2001; Cosentino et al., 2003. 1 2
701
Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro direttamente su polveri mediante l’utilizzo della diffrattometria a RX. Le misure sono state eseguite mediante diffrattometro miniflex II della Rigaku, con una radiazione Cu-Kα. L’acquisizione dei dati è stata effettuata eseguendo una scansione continua da 3 a 60° 2θ con step pari a 0.03° 2θ al secondo e lavorando a 50 kV e 1mA. I diffrattogrammi acquisiti, sono stati in seguito interpretati mediante l’utilizzo del software Match! 3, sfruttando il database COD, per la determinazione qualitativa delle fasi mineralogiche presenti in ciascun campione.
ovest dalla struttura tettonica, attualmente attiva, costituita dal sistema di faglie del Monte Morrone, di età quaternaria4. Come osservato da diversi studi, il bacino di Sulmona è stato interessato da deposizione di tipo continentale, dagli inizi del Pleistocene, che culmina con la deposizione di una successione lacustre di elevato spessore nel Pleistocene medio5. Nel tardo pleistocene la sedimentazione continentale è stata infine, interessata da depositi alluvionali sulla quale successivamente si sono sovrapposti i depositi colluviali nell’Olocene. Pertanto, dal punto di vista litostratigrafico, nel suo complesso, questa successione è principalmente caratterizzata da due unità6 quali (Fig.2): l’unità basale, costituita prevalentemente da limi sabbiosi con lenti di conglomerati e l’unità sommitale, caratterizzata prevalentemente da conglomerati e ghiaie. In particolare, l’unità basale è costituita da due sub-unità (Pliocene superiore-Pleistocene medio): l’unità dei “depositi palustri di Pratola Peligna” e l’unità dei “depositi lacustri di Gagliano” in rapporto di eteropia fra loro, raggruppate nel Supersintema Aielli-Pescina7. Si tratta nel complesso, di limi sabbiosi, calcarei, argillosi ed argille grigie con frequenti lenti di ghiaie nella quale sono intercalati livelli di sabbie vulcano clastiche e di ligniti. Per quanto riguarda l’unità sommitale è costituita dai “Depositi fluviali e di conoide alluvionale della Terrazza Alta di Sulmona”, appartenente al Sintema di Catignano (Pleistocene medio-Pleistocene superiore) all’interno del quale sono presenti principalmente conglomerati e ghiaie fluviali a composizione prevalentemente calcarea. L’intera successione continentale affiorante comprende infine i depositi olocenici -fluviali (sabbie, ghiaie) ed eluvio-colluviali (sabbie, ghiaie e limi prodotti dall’alterazione dei depositi quaternari più antichi). L’età della successione è stata messa recentemente in discussione da Giaccio et al., 2009 che mediante lo studio stratigrafico isotopico dei livelli di tephra presenti nella successione ha riconosciuto 6 unità di cui 2 più antiche (SUL5 e SUL6) correlabili con il supersintema AielliPescina (età comprese tra 400 e >700 ka) un’unità intermedia (SUL 4, età compresa fra 100 e 80 ka) correlabile con il sintema di Catignano ed altre 3 unità (SUL1,SUL 2 e SUL 3 età compresa tra 80 ka e 1000 anni) corrispondenti ad altrettanti cicli fluvio-lacustri più recenti sovrapposti o incassati nelle precedenti unità di età compresa tra Pleistocene superiore e Olocene recente.
Per quanto riguarda, l’analisi della composizione chimica è stata eseguita utilizzando la fluorescenza a raggi-X su pasticche di polvere pressata. Tali pasticche sono state preparate utilizzando 6 g di campione su una base di acido borico (massima pressione raggiunta 25 bar). Le misure sono state eseguite con uno spettrometro a fluorescenza a RX Supermini, della Rigaku, costituito da un tubo a raggi X con anodo al palladio. Tale analisi ha permesso di determinare la quantità di elementi maggiori, come % in peso (SiO2, TiO2, Al2O3, Fe2O3, MnO, MgO, CaO, Na2O, K2O, P2O5) ed elementi in tracce espressi in ppm (Cr, Rb, Sr) presenti in ciascun campione. Tutti i campioni sono stati inoltre analizzati al microscopio digitale. Per ciascun campione nella tabella 3 sono riassunti la fabric, la consistenza, la porosità, il sorting dell’aggragato, la morfologia dell’aggregato (sfericità e arrotondamento), il colore ed il rapporto aggregato/ legante (espresso in % volume). I campioni sono stati prelevati in superficie e non all’interno delle strutture, pertanto, si presentano con alterazioni e degrado. Comunque, la possibilità di eseguire le osservazioni su volumi discreti e superfici non alterate dei campioni, ha permesso una loro buona caratterizzazione. La descrizione è basata sulle linee guida del documento UNI Normal 11176 Petrografic description of a mortar (2006) e sul protocollo analitico formalizzato dal Servizio Geologico e Paleontologico della Soprintendenza per l’Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo (SABAP Abr).
ANALISI MACRO CAMPIONI
E
MICROSCOPICA
DEI
Le analisi macroscopiche delle malte sono state riassunte nella Tabella 1. In particolare, la fabric varia da isotropa sabbiosa nei campioni costituiti da poca calce, fino a isotropa micro-conglomerato nei campioni con consistenza piuttosto alta e rapporto aggregato/legante nella norma. Tutti gli altri campioni presentano una fabric grossolana-sabbiosa. Per quanto riguarda il
METODOLOGIE Le analisi hanno riguardato la caratterizzazione mineralogica e chimica di 25 campioni di malte prelevati dalla chiesa di Sant’ Ippolito nell’area archeologica di Corfinio (Fig.1). L’analisi mineralogica è stata effettuata e.g. Miccadei et al., 1998, Ciccacci et al., 1999. Cavinato e Miccadei, 2000; Miccadei et al., 1998. 6 Miccadei et al., 1999, ISPRA e Regione Abruzzo, 2006. 7 Aielli-Pescina, ISPRA e Regione Abruzzo, 2006. 4 5
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Tangari A. C., Agostini S., Marinangeli L., Baliva A., Pompilio L., Somma M. C.
Analisi preliminare delle malte di alcuni siti archeologici di corfinio (aq)
sorting, varia da ben classato a scarsamente classato, con una morfologia dei clasti caratterizzata da un arrotondamento da fortemente angoloso a sub-arrotondato ed una sfericità che varia da angolosa nei campioni con poca calce a media e alta, prevalentemente, nei campioni con rapporto aggregato/legante nella norma. Per quanto riguarda il colore, nel complesso risulta essere bianco. Le analisi macroscopiche dei campioni di malta effettuate al microscopio digitale hanno confermato alcuni caratteri già visibili macroscopicamente. Esempi di alcuni campioni sono riportati nella Fig.3.
ricadono i campioni USM_036, USM_037, USM_004 costituiti dalla sola presenza delle fasi predominanti, calcite e quarzo (Fig.5a) ed i campioni USM_023 e US_27 nella quale oltre alle fasi predominanti è stata riscontrata la presenza dei picchi di diffrazione del plagioclasio (Fig.5b). Il terzo gruppo di malte presenta una componente mineralogica calcarea associata ad una componente vulcanica caratterizzata da un basso contenuto in SiO2 rappresentata dalla presenza della leucite (Fig.6). In particolare, a questo gruppo appartengono il campione US_550 costituito da calcite, quarzo, dolomite e leucite (Fig.6a) e US_22dove si riscontra la presenza delle stesse fasi senza la dolomite e con la presenza del sanidino (Fig.6b). L’ultimo, gruppo è rappresentato dal campione US_033 dove associata frazione calcarea è stata riscontrata la presenza dei picchi di diffrazione del gesso (Fig. 7).
In particolare, in Fig.3a si osserva un aggregato a clasti medio grandi sfericizzati con concrezioni tipo cavolfiore, calce tenace che potrebbero essere legate ad ambiente idraulico. Il campione mostrato in Fig. 3b è invece, caratterizzato da un aggregato medio-grande sfericizzato, con calce granulare. Le malte mostrate in Fig. 3c e d hanno mostrato entrambe clasti medi con calce granulare. In particolare, nella Fig.3d si osserva la presenza di componenti mineralogiche di colore scuro di probabile provenienza vulcanica. Clasti medi, medio sfericizzati senza calce granulare, colore grigio chiaro con sabbia media indica materiale tipo “pozzolanico” (Fig.3e). Clasti medi con sfericità media e non, calce granulare sabbia media, semi tenace sono rappresentati nel campione di malta in Fig.3f. Alcuni campioni hanno anche mostrato una fabric isotropa sabbiosa (Fig.3g). Clasti grandi calce granulare-sabbiosa con presenza ossidi di ferro e manganese (Fig.3h)
Le analisi chimiche delle malte analizzate sono riportate in Tabella 3 e 4. Quest’analisi ha mostrato elevati contenuti in CaO (~77.35%) e SiO2 (~ 15,34) confermando un’elevata abbondanza di calcite e quarzo. I contenuti in MgO (~ 1.10 %) sono compatibili con una bassa concentrazione di mica e minerali argillosi (smectite) e con la presenza della dolomite in alcuni campioni. Na2O e K2O presenti, rispettivamente in concentrazioni piuttosto basse di ~0.25 % e ~0.62 % indicano la presenza di scarse concentrazioni di plagioclasio a maggiore componente anortitica e K-feldspato quali leucite e sanidino. Fe2O3 mostra contenuti maggiori di ~ 2.65 % nei campioni costituiti da componenti argillose confermando la probabile presenza di smectite e nei campioni costituiti da mica. Per quanto riguarda la concentrazione degli elementi in tracce, i contenuti elevati in S, pari a 4440 ppm, nel campione US_033 sono in accordo con la presenza del gesso.
ANALISI MINERALOGICA E CHIMICA L’analisi mineralogica effettuata sui 25 campioni di malte prelevati ha mostrato in tutti i campioni una predominanza di calcite e quarzo seguita da altre fasi mineralogiche, che hanno permesso di suddividere le malte in 4 diversi gruppi (Tab. 2). Un primo gruppo costituito dalla frazione calcarea associata ad una componente mineralogica vulcanica più acida (Fig.3).
SINTESI DELLE OSSERVAZIONI Sulla base dell’analisi mineralogica sono stati riconosciuti quattro gruppi con affinità composizionali, dominante è comunque la matrice calcare di tutte le malte (Tab. 5). Infatti i clasti della componente aggregato in tutti i campioni sono carbonatici, derivati da rocce calcaree molto abbondanti, anche in affioramento nell’area di Corfinio. La morfologia è sia clastica sia arrotondata. Le dimensioni dei clasti variano da 6-5 mm a 1-2 mm. Di norma il rapporto legante/aggregato ha valore 20-25%. Le malte con poca calce derivano probabilmente dalla miscela (confezionamento della calce) diretta dei limi calcarei dell’unità basale con la componente aggregato. Simili malte sono state riconosciute in altri siti archeologici (es. Peltuinum) presenti nel bacino aquilano dove la suddetta unità, con terminologia differente, affiora a costituire i noti limi bianchi di facies lacustre e palustre. Composizione anomala perché ricca di gesso, è stata riscontrata per il campion USM_033,
A questo gruppo appartengono i campioni, USM_031, USM_007, USM_009, USM_018, USM_019, US_029, US_476, dove sono stati identificati oltre alla componente dominante, i picchi di diffrazione del plagioclasio, della mica e di minerali appartenenti al gruppo delle argille (Fig.4a). Mineralogia simile è stata riscontrata anche nei campioni USM_030, USM_034, USM_035, USM_38, 05_US_23, US_343, US_418, dove però risulta essere assente la componente argillosa (Fig.4b) mentre il campione 04_US_23 risulta essere composto da calcite quarzo e mica (Fig.4c). Gli ultimi, campioni associati a questo primo gruppo sono USM_032 e US_2 costituiti anche da dolomite e mica associata alla componente predominante (Fig.4d). Il secondo gruppo di malte analizzate presenta una frazione dominante calcarea associata a limi calcarei lacustri (Fig.5). In questo gruppo 703
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mentre i campioni USM_022 e US_550, si contraddistinguono per contenere materiale legato a rocce vulcaniche sottosature di silice. Nei limi presenti nella conca di Sulmona si rinvengono livelli consistenti e sottili di tephra vulcanici o anche i loro minerali dispersi nei limi bianchi. Questo dato è in accordo con i risultati analitici dei campioni USM_022 e US_550.
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Per quanto riguarda la presenza di gesso si ipotizza la sua presenza in relazione a processi chimico fisici legati alle acque solfuree (vedi Fonte Sant’Ippolito) presenti in zone localizzate dell’acquifero che caratterizza la successione quaternaria. Precedenti lavori inediti8 hanno dimostrato la correlazione tra la lisciviazione degli orizzonti più o meno consistenti di torbe e ligniti, con locali sorgenti sulfuree.
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I quattro gruppi di malte identificati, non sono così evidenti dall’analisi chimica degli elementi maggiori effettuata tramite XRF, mentre il contenuto di elementi in tracce sembra essere più discriminante. Quest’ultimo dato richiede ulteriori correlazioni per poter identificare potenziali sottogruppi delle malte.
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Tangari A. C., Agostini S., Marinangeli L., Baliva A., Pompilio L., Somma M. C.
Analisi preliminare delle malte di alcuni siti archeologici di corfinio (aq)
Tabella 1 Descrizione riassuntiva delle principali caratteristiche macroscopiche dei campioni di malte.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Tabella 2 Composizione mineralogica dei campioni di malte analizzate.
Tabella 3 Contenuto in % in peso degli elementi maggiori ottenuto tramite l’analisi in fluorescenza a raggi X (XRF).
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Tangari A. C., Agostini S., Marinangeli L., Baliva A., Pompilio L., Somma M. C.
Analisi preliminare delle malte di alcuni siti archeologici di corfinio (aq)
Tabella 4 Contenuto in ppm degli elementi in tracce ottenuto tramite l’analisi in fluorescenza a raggi X (XRF).
Tabella 5. Classificazione preliminare delle malte analizzate.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 1. Localizzazione della città di Corfinio.
Figura 2 Geologia dell’area di Corfinio (ISPRA Carta geologica d’Italia scala 1:50000-foglio 369 Sulmona) con ubicazione siti campionamento malte.
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Tangari A. C., Agostini S., Marinangeli L., Baliva A., Pompilio L., Somma M. C.
Analisi preliminare delle malte di alcuni siti archeologici di corfinio (aq)
Figura 3 Foto al microscopio digitale riguardanti i seguenti campioni: USM_004 a); USM_007 b); USM_ 009 c); USM_ 018 d); USM_022 e); USM_032 f); USM_019; g) USM_031 h).
Figura 4 Composizione mineralogica ottenuta mediante diffrattometria a RX (XRD). I diffrattogrammi rappresentati in figura riguardano i seguenti campioni: USM_031 a); USM_030 04_US_23 c); USM_032 d). Le sigle riportate sui singoli picchi diffrattometrici, riguardano i seguenti minerali: Calc=calcite; Qtz= quarzo; Dol=dolomite; pl= plagioclasio; K-mica=mica potassica; clay= argilla;
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Figura 5 XRD riguardanti i campioni USM_036 a); USM_023 b). I minerali riportati sui singoli picchi diffrattometri riguardano: Calc=calcite; Qtz= quarzo; pl= plagioclasio.
Figura 6 Analisi mineralogica dei campioni US_550 a) e USM_022 b) costituiti da : Calc=calcite; Qtz= quarzo; Dol=dolomite; K-mica=mica potassica;Sa=sanidino; Lct=leucite.
Figura 7 Analisi diffrattometrica relativa al campione USM_033 la sigla Gyp= gesso.
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Francesco Stoppa
Interpretation of SEISMIC disasters in the Central Abruzzi (Italy) traditional culture Abstract: he 6 April 2009 earthquake generated an argument about unpreparedness for an event, which was clearly likely to occur and was instead underestimated in several ways. It has been inferred that this is due to a scarce scientific, social, and cultural perception or estimation of the seismic hazard and poor effectiveness of risk mitigation measures. This may be due to a lack of attention to long established local culture about earthquakes, which prompted instead this geo-anthropological study. Some ancestral behaviours and interpretative mechanisms, which are still active, must be considered, and, if ignored, may frustrate mitigation measures. When human interpretation of an earthquake, or other disasters, is based on the idea of a “miracle”, this is called thaumatosis. Knowledge of the cultural and psychological pattern followed to elaborate thaumatosis can be of great help in understanding psychological dynamics, which may be crucial for efficient communication, preparedness and seismic risk mitigation. Geo-anthropological studies could fill the gap created between probabilistic forecasting methods (PSHA) and those unexpected geological hazards that happen in Italy. Telluric rites and temples located on active faults in Abruzzi region suggest a widespread awareness of the high seismicity of the area and an attempt to interpret, represent, and accept it and pass information on to descendants through symbols. Anthropologic interpretation of local feasts shows that below a thin layer of Christian religion emerges a powerful pagan base, which is germane with telluric cults and their symbols such as snake-dragon/ earthquake. The local Saints’ powers link protection, rock worship, fecundity, and earthquakes. They are thought to refer to an agricultural matriarchy related to goddesses who are mothers, nurses, and dispensers of milk and grains, the key elements of the diet of Mediterranean peoples. Gods who are patrons of thunder and earthquakes also supervise wine production and adolescents’ initiation into adult life by means of a blood sacrifice to the Earth. Among those feasts “barefoot runners” and “snake charmers” are particularly instructive in demonstrating this logic. On the other hand, symbolic representation of the hazard can be combined with social organization in the attempt to optimize the mitigation of the risk. So the natural hazard problem becomes a telluric harvest (i.e. chthonian) worship related to natural renewal, which is much easier to accept and remember. In fact, these virtues are sublimated in the concept and hope of rebirth after death. Worships and rites overlap an area, which is plenty with monuments showing repeated seismic effects. Based on the distribution of these occurrences we confirm the strict relationship between chthonian worships and earthquakes in the L’Aquila province. In addition, it is deduced that a large area corresponding to the Chieti province could have an underestimated seismic potential and hazard and consequently a very high seismic risk. This is in conflict with allowing dangerous industrial plants and an unsustainable development model, which in turn aggravate the risk.
1. - INTRODUCTION
attention to mitigation planning and the sustainable use of the territory is at the base of the severe impact of the earthquake. As a consequence a strong argument developed about the unpreparedness of administrators and was echoed in investigations by Italian scientists and officials, especially considering that L’Aquila is a highly seismic area, which experienced destructive earthquakes in 1349, 1461, 1703 (epicentre outside Abruzzi region), and 1762 (Fig. 7) and damaging ones in 1646, 1786, 1791, 1809, 1916, 1950, and 19584. It is clear that there is extreme divergence between the opinions of the public (including administrators and politicians) and scientists, which generates a conflict and prevents effective earthquake risk mitigation5. The maximum effort is required to understand and interpret the naive theories developed by the public before and after a natural disaster, which interfere with more scientific assumptions, which in turn seem too optimistic6. On the
The 6 April 2009 earthquake of L’Aquila caused 308 fatal casualties but it has been calculated that it would have left at least 3000 victims if it had happened during the daytime, due to the high number of public buildings and schools, which collapsed and the daylight road traffic1. In spite of its moderate magnitude of 5.8 (6.1 Mw) on the Richter scale, hundreds of brick-stone houses but also concrete-reinforced new buildings suffered heavy damage and experienced partial collapse (Fig. 1a-d), which extended so far as to Chieti (Fig. 1e,f). The population was not specifically alerted or informed about the local seismic risk. Instead, population was invited to stay “at home” by the authorities even after an increase in the frequency and magnitude of foreshocks, their clustering, and some damage2. There was a clear vulnerability to an event, which was likely to occur3. A scarce Ferreira and Oliveira, 2009. Papadopoulos et al. 2010. Lavecchia E. G. et al. 2009. 4 Boschi et al. 1995; Camassi and Stucchi, 1997. 5 Lucantoni et al. 2001. 6 Stoppa and Berti, 2013. 1 2 3
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro was forbidden to put boats into the sea that day except for the procession. A church was built on the sea shore at the place where the tsunami stopped10.
other hand, risk mitigation has to deal with a “cultural” approach, as it is apparent that a merely ‘geologic’ one is unsuitable and unable to diminish the risk efficiently. In fact, the effectiveness of the measures taken to decrease the risk passes through the sharing of communities to which they are addressed.
This paper combines the geo-anthropologic study of local festivals and rituals, which are reminiscent of ancient disasters and environmental changes, and adds to previous palaeo-seismological and archaeo-seismological studies11.
The influence of earthquakes on Abruzzi cultural heritage is impressive and deserves a better insight with the aim of understanding why a symbolic representation of the earthquake is constructed instead of a rational approach being chosen. This mechanism extends to the present and involves mass media and political authorities. In addition, there is a possibility that past seismic events, which are not easily measurable, quantifiable, or reproducible, determine reminiscences that could lead to unexpected contributions to the definition and risk mitigation of seismic hazards. This possibility would fill the gap created between merely probabilistic forecasts and those disasters that happen in Italy. There are several intrinsic factors, which may produce underestimations in PSHA (Probabilistic Seismic Hazard Analysis) calculations7. In fact, results from PSHA have been proved inadequate in recent damaging earthquakes in Italy, such as in San Giuliano di Puglia, when 27 children died in the collapse of a school on 30 October 2003 or in the 2012 Emilia Eathquakes when 27 people, mostly because working in industrial sheds not designed to withstand earthquakes. Both areas had a maximum ground acceleration expected much lesser than that occurring8.
2. - THEORETICAL BASES To better assess the hypothesis about the link of chthonian worships with earthquakes it is necessary to go back to the basic facts, which legitimate some assumptions. Classical philosophical sciences mixed up endogenous and exogenous phenomena and their causes. Aristotle (384–322 BC) postulated that the deep Earth, through the warming effect of the sun, generates a dry exhalation, which, by blowing, expanding, and compressing air into empty ducts, finally triggers vibrations and combustion. The base of the theory is addressed by Iulius Firmicus Maternus (349 AD): “Terram omnem circumfluunt maria, et rursus inclusa Oceani ambientis circolo stringitur, caeli etiam rotonda sublimitate operitur, perflatur ventis, aspergitur pluviis, et timorem suum assidui motus tremoribus confitetur”. He explains that the motions of the atmosphere and hydrosphere determine the tremors of the earth. This idea dominated scientific thinking until the eighteenth century, but the link between endogenous and exogenous phenomena and especially the impact of “underground voids” are still incredibly popular in the Italian cultural substrate. It is believed that earthquakes are influenced by weather conditions as well as by the presence of underground voids or, as an extension, that “soft” terrains would mitigate the seismic waves – although in fact nothing is further from the truth. Lately, the discovery of electrical phenomena gave credence to the theory that electricity and earthquakes had a relationship based on co-seismic lights or auroras. Nowadays, plate tectonics considers earthquakes as a simple consequence of the heat inside the planet due to radioactive decay and the resulting convective motions of the Earth’s mantle. Movements are such that they drag and deform the rigid outer planet, the lithosphere, where most earthquakes occur. However, plate tectonics does not account for larger scale planetary phenomena such as mass extinctions, inversion of the magnetic field, resurfacing, and in general core dynamics and core–mantle interactions. Consequently, global society continues to amplify the “representation” of large scale geological
Rites and legends in the Abruzzi may orally hand down the memory of past destructive events not accounted for in seismic catalogues9. Geo-anthropology is the discipline that studies these phenomena. Geoanthropology has to do with history and even with the finite sciences, it is something very complex. This encourages the hypothesis that a given culture develops its own long-term disaster awareness which is also based on more gradual environmental changes, producing a complex phenomenon of thaumatosis. Thaumatosis is the processes of interpretation of a natural phenomenon by means of a miracle. This ameliorates the grief and trauma caused by a past disaster as far as possible. It is not only a matter of representation, but rather a symbol that contains an assessment of the geological hazard and risk. An example is the feast of Our Lady of the Port of San Vito Chietino. The southern Abruzzi suffered a catastrophic earthquake (M 6.8) on 30 July 1627 AD (originated in Northern Puglia region), the date of the feast. The chronicles describe a large tsunami, which struck the coast up to Pescara, in memory of which it Anderson and Brune, 1999. Stucchi and Meletti, 2013. 9 Stucchi and Albini, 2000. 10 Stoppa, 2014. 11 Galadini and Galli, 1996, 1999, 7 8
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disasters by invoking deus ex machina triggers (solar flares, core rotation inversions, meteorites and so on) and still develops urban legends. A study of web blogs reveals forms of neo-thaumatosis, which have been elaborated after the 6 April earthquake perpetuating the old telluric symbol of the dragon (Fig. 2a-d). In fact, dragons and snakes are variously linked to one of four elements: earth, water, fire, and air and to natural phenomena. For example, they are used to represent veins of underground water (e.g. dragonera in Sardinia or dragonara in Abruzzo). In the same way, mud volcanoes are called ‘dragoon’ in some Italian areas (es sdrahu, drahu in the Marche area at Castelleone di Fermo, Fig. 2c).
and powers in forms of worship adapted to the local seismic hazard and vulnerability. The frequency and intensity of natural disasters are the dominant factors driving the evolution and maintenance of worships. On the other hand, symbolic representation of the hazard is combined with social organization in an attempt to optimize the mitigation of the risk. So the natural hazard problem becomes a chthonic worship related to plant renewal and endogenous fertilization, which are much easier to accept and remember. In fact, these virtues are sublimated in the concept and hope of rebirth after death. Goddesses are mothers, nurses, and dispensers of milk and grains; gods are patrons of thunder and earthquakes and supervise wine production and initiation of youths into adult life by means of blood sacrifices to the Earth. All these attributes have a propitiatory significance and are often associated with a dragon or snake, which expresses the cyclical nature of life and the renewal of the vegetation.
But what are the natural characteristics of the phenomena that triggered this type of worship and kept it alive in various forms for thousands of years? In any ancient or new form of thaumatosis any sign of exhalation from the earth is important. It is known that gas emission (CO2, radon) is generally related to active tectonics and is an earthquake precursor. The concept of thaumatosis is allied to theophany (i.e. the appearance of a deity), which occurs by the action of the spiritus, testified by seismic flashes, roars and sudden wind, gaseous emissions, gas torches, patches where the vegetation dies and does not grow, intermittent water springs, subsidence, fractures and dislocations, and sand and mud volcanoes (Fig. 3a-c). All these effects are typical of active seismic areas and where these effects are more evident, frequent, and intense in Abruzzi, rites were established or Italic were located12. Very frequently archaeologists and anthropologists miss the broader link to geological structures and events with which they are unfamiliar and prefer to relate worship location to the presence of a minor feature (e.g. a water spring, a peculiar rock, a peculiar geo-morphology). In many case these occurrences are a consequence of the presence of an active fault, not the cause of the statement of a worship.
Angizia, the Abrutian goddess of snakes, has deep chthonic attributes and presides over a worship of “renewal and fertilization”, as the ancients understood very well that life primarily depends on the active forces within the planet. Her snake, which is round like the universe and infinitely winding like the Greek river Meander, changes its skin, renews itself year after year, and lives underground. The Samnites, who venerated the telluric goodness Mephitis (Fig. 3a), had a thousand year experience of earthquakes as their territories were located in one of the most seismic areas of Italy14. The Abrutian populations were completely permeable to the Samnitic culture. The same applies to the seismic history of the two areas, which share destructive events that have expanded from Irpinia, Molise, and Abruzzi until recently. Very often the archaeological remains of temples and shrines, or sometimes just a epigraphic documentation, are accompanied by the persistence of a syncretic worship of that of Hercules, typically San Michele Arcangelo, or a chthonic female deity (San’Agata, Santa Gemma etc) (Tab. 1).
There are countless examples in the world of ancient worships powered by gaseous emanations related to active faults. Just think of the Greek Pythia (Πυθία), who pronounced the oracles in the name of Apollo in Delphi sanctuary located at the omphalos filled with gas fumes. But in Italy there is perhaps the best demonstration of what, the temple of the goddess Mephitis built over the larger issue of Carbon Dioxide and Hydrogen Sulphide in the world in the area of the devastating Irpinia earthquake of 1980 and other earlier13.
The methodology used in this paper is a combination of the classic had adopted in geoarcheology15 combined with an anthropologic approach.
3.SELECTION OF A CASE HISTORY The earthquake strongly influenced customs and traditions in Abruzzi, an area of ancient settlement and deep Roman penetration. The thaumatosis is passed on through the worships and shrines of Italic populations (i.e. Peligni, Vestini, and Marrucini-Frentani tribes), then
Given the link between natural and supernatural, the animist and pagan deities all have physical attributes Stoppa, 2010a. Di Lisio, 2014, Galli and Peronace, 2014. 14 Galadini et al. 2004. 15 e.g. Rapp and Hill, 2006. 12 13
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro seismogenetic structures of about 20–25 km propagation of seismic rupture able to release high seismic energy (6.5 > M < 7), which are called seismogenic boxes19. These geological structures are associated to neotectonic basins, which have influenced settlements of the Italic Abruzzi tribe of Peligni and geo-anthropologic occurrences in ancient to recent times (Fig. 7). The occurrences are particularly concentrated in middle Aterno valley, considered to be silent during historical times, and Majella, probably activated by the earthquake which affected the area 130–150 AD20. So far, a similar assessment for seismogenetic boxes is missing in the Chieti province, probably due to deeper seismic sources and/or poor faulting of the surface, longer return times and/or frequency of earthquake disaster, and a lack of a local seismic array to determine the focal solution for low magnitude seismic events. However, this area has historycal earthquakes linked to the presence of fold-thrust active structures (Fig.7).
through syncretism with the Roman gods, and finally is transferred to the Christian Saints and churches. Shrines were rebuilt in the same places for a thousand years and they display not only phases of collapse and rebuilding, but also variation in the functions of use due to socio-economic and religious changes induced by earthquakes16. There are too many cases to be described in the Abruzzi, so it is worth focusing on a selected one which is particularly instructive for the aims of this paper: the Majella-Sulmona area. Majella-Sulmona is an area of high mountains surrounding a tectonic basin, the Conca Peligna. The Conca Peligna can be subdivided into a lower part, the Sulmona valley, and a higher area, the middle valley of Aterno and the adjoining valleys of Sagittarius and Subecquana. We know little about its prehistoric seismicity but it was probably similar to that observed in the historic period, based on what it is known of the seismic potential of the area17. There are no doubts about the continuity and the large energy released by earthquakes in this area. It is believed that earthquakes of magnitude 6.5 to 6.8 can be repeated about once every 500 to 1000 years, while more limited but ruinous earthquakes (5.5 > M < 6.5) are repeated at least once every 50 years. We do not have evidences of larger earthquakes but their effects sometimes produced devastating landslides (Pacentro, Fig.7) not observed in historical time but recounted by legends (e.g. Scanno). However, this interesting topic is beyond the scope of the present study and will be treated separately in future works. A second century Roman inscription incorporated in the abbey of San Clemente a Casauria (Fig. 4a) contains an account of a destructive earthquake in Interpromium (now San Valentino in Abruzzi Citeriore) which corresponds to major collapses in all the archaeological sites of the Majella-Sulmona area. The abbey continued to undergo severe damage and records most of the earthquakes of the Middle Ages (Fig. 4b).
3.1. -SEISMIC PANTHEON AND MONUMENTS IN THE MAJELLA-SULMONA In this area there are some important occurrences of a twin worship related to a chthonian female deity (Angizia) and Hercules (Tab. 1, Fig. 7). Interpretation varies in function of the hypothesis built on a selected clue but in the absence of direct dedication it is quite difficult to assess the exact nature of the deity involved. In other cases, the statement is only epigraphic so we do not know the exact location of the geological place of worship21. Hercules is associated with an incredible amount of telluric mythopoetic phenomena. His first cry produced an earthquake while springs sprang on his arrival in Sicily and his struggle with the Hydra seems to be the exact representation of a submarine Surtseyan volcanic eruption; according to legend, his club sank the craters of the gigantic Vulsini caldera (Central Italy). During the Middle Ages, the chthonic pagan rites adhered to the worship of local Christian Saints with some adjustments typical of intellectual Christian centralism: the fusion of religious and civil power, the predominance of male over female, and the right to dominance over Nature. However, the need for a link with Mother Earth remains, and indeed remains primarily at the level of popular religiosity. These worships are particularly dense in the Majella-Chieti province area: in Goriano Sicoli, Rajano, Cocullo, and Pacentro in the Majella-Sulmona area and Atessa, Fara San Martino, San Martino sulla Marrucina, Bucchianico, and Pretoro in the Chieti province (Fig. 7). In the first
In more recent times the Majella-Sulmona area and Chieti province suffered the greatest destruction and loss of life in 1209, 1315, 1456, 1627 (epicentre outside the Abruzzi region), 1706, 1881-2, 1907, and 193318. All municipalities in the area received at least one shock of VIII MCS degrees of intensity and a quarter of them experienced intensities of IX–X, which are very disastrous or catastrophic. Thus, to establish a parallel we will first consider the Majella-Sulmona area and then the Chieti province. Geologic information on the geometric, kinematic, and energetic parameters of the major active faults in these areas defines discrete e.g. Galadini et al. 1996. Boncio et al. 2004. Boschi et al. 1995, Boncio et al. 2004, Rovida et al. 2011, Fig. 7. 19 Boncio et al. 2004. 20 Galadini and Galli, 2001, Fig. 7. 21 Bencivenga, 2013; Van Wonterghem,1999. 16 17 18
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3.1.1. - MIDDLE ATERNO RIVER VALLEY
area the worship of Santa Gemma and Sant’Agata is directly linked with the places where pagan snake goddesses were venerated. Saint Anne is linked to sinkhole formation, earthquakes, and grain crops and is syncretic of Demetra22. Telluric male Saints are more related to weather and to initiation rites. They inherit from Mars and especially Hercules the association with the earthquake. For example: San Domenico is related to initiation, weather protection, rock worships, earthquakes, snakes; Sant’Urbano is related to weather protection, thunder; San Venanzio is related to rock worships; San Michele Arcangelo is related to male initiation, earthquake, rock worships; and Sant’Emidio is related to earthquake23. The appearance of Saint Emidio, or a City Patron Saint, coincides with an earthquake, as seen in historical iconography (Fig. 5a-c). It would be a mistake to consider Sant’Emidio a “protector” from earthquakes: he is indeed the incarnation of the phenomenon itself and by invoking him (abr. trəttecə Sandə’Mmiddiə, meaning “Sant’Emidio is rocking”) the Abrutian people ingratiate the earthquake rather than calling on the protection of the Saint. In reality, the properties of telluric pagan gods came to us through Sant’Emidio and other Saints almost unchanged, while the complex rituals associated with the “positive” side of the natural renewal cycle are echoed in the customs, beliefs, and habits which serve as social glue of the community. The most important Saint in the Majella area, from a seismic point of view, is definitely San Martino. His relationship with the faults and earthquakes is direct and immediate. Legend says that he opened a wide crack called “Stretta di San Martino” with his elbows. The same fracture is believed to be caused by the earthquake that shook the earth at the time of the death of Jesus Christ.
The shrine of Corfinio was frequented from at least the third century BC until the first century AD. It consists of two large terraces at different heights on the hillside, in fact the fault scarp, similarly to the shrine of Hercules Curino near Sulmona (Fig. 7). Many fragments of terracotta were found there with the representation of Potnia Theron (goddess of animals) as well as numerous ex-votos representing parts of the human body and about one hundred bronze statues of Hercules. The place of worship is on the lower terrace, where a sulphurous spring is still in use for ritual ablution. A block reports an inscription about an offering to Hercules. There is therefore no doubt that the practices are linked to the worship of Hercules. Until a few years ago, a pilgrimage reached the spring on 13 August, the day of the Ides dedicated to Hercules and Diana-Hecate in the Roman calendar. A notable occurrence in the area is the church of San Michele Arcangelo in Vittorito, whose age ranges from pre-Roman to medieval times. A parallel is the church of San Michele Arcangelo in San Vittorino (place-name equivalent to Vittorito), Aquila (Fig.7 and Tab. 1) There is a sulphur spring at the foot of the shrine, similarly to the Hercules shrine of Corfinio, and the place is a venue for spectacular co-seismic phenomena such as sand volcanoes (Fig. 3c). San Vittorino was martyred in 96 A.D. at Aquae Cutiliae (Terme Cotilia) in Castel Sant’Angelo (Ritei) area and has earned a broad consideration of worship in Aquila province which is just south of the martyrise place. Notably, according to legend, Vittorino (or Vittorito) was tied and left hanging upside down on a spring of sulphurous water poisoned to die. The medieval church was built using some elements from an older building, which was perhaps just in the same place and went back to the seventh/eighth or ninth/tenth centuries. The presbytery and part of the nave stand on the ruins of a Roman temple which had the same orientation as the church (northwest– southeast) and dates back to the second century BC. The western corner of the podium of the temple is in fact under the first pillar of the right aisle, and the ancient stone blocks appear to have been reused in the façade24.
Concerning material seismic monuments, the term “temple” (templum) that we use today did not refer specifically to buildings or places of a worship and consequently is a poor indicator of the sacred bond with a deity. Aedes is a term that more properly defines the “home” of the deity. Fanum is indeed the natural sacred place where a sacrifice or devotion is made. Aedes and Fanum were well-settled by the Roman sacred law and their evidences in Abruzzi are both historical and archaeological. The Majella-Sulmona area has many pre-Roman shrines, which extend towards Aesernia (Isernia). Along this path are distributed occurrences of very ancient fertility worships and Aedes and Fanum, which are linked to telluric phenomena. From north to south, shrines show evidence of sudden collapse and rebuilding and many have been converted into Christian churches.
Castel di Ieri complex is a sacred Italic area in the municipality of Castel d’Ieri (Fig.7), along the road to Goriano Sicoli. Here, in 1882 a votive stone devoted to a goddess of snakes (Angizia?) was found. The shrines are at the foot of a cliff (fault scarp) where there was a spring in ancient times. Excavations have unearthed the remains of two temples. The oldest temple (temple “B”), dated
Stoppa, 2009, Di Nisio, 2010. Varasso, 1989. 24 Bencivenga, 2006. 22 23
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Another interesting link between underground rivers, snakes, and sulphur springs is the local belief that the water of the Sulphur rivers (called Petogna) can protect against poisonous snake bites. It is no surprise that the Petogna rivers are in the most seismic areas in Abruzzi such as Conca del Fucino and L’Aquila.
to the fourth century BC, was a wooden building on a stone platform (podium). At a higher level a second temple (temple “A”) was built, dating from the second century BC and probably abandoned in the second century AD. The second temple has a polygonal podium covered with slabs of limestone and accessible from a front staircase. The tripartite cell was preceded by a deep portico with four ionic columns. The three rooms were paved with a mosaic and retained traces of painted plaster on the walls. At the bottom of the cells were some small rooms enclosed by gates, which were intended to keep the objects of worship or archives and the treasure. The central cell on the bottom has the base for the worship statue to which some marble pieces of robe decorated with snakes may refer (Fig. 2a). Votive bronzes comprise a figure of Hercules. The centre of the floor shows a black and white mosaic whose corners display solar symbols alternated with a horizontal hourglass or the “symbol of infinity”25.
Other seismic reminiscences in the area are found in the crop feast of Saint Anne (Demeter). In fact, on the evening of 26 July 1805, an earthquake (M ~ 7) hit Molise area and was associated with significant changes in hydrology27. The earthquake was felt in the Chieti province and Majella-Sulmona area and was rapidly associated with the Santa Anna worship. In fact the earthquake took place during the grain harvest. At Rajano near La Quaglia sinkhole, which is believed to have formed during the earthquake28, and the adjoining sulphur springs, the memory of this earthquake is renewed with the sound of bells at 10 pm, along with the worship of Saint Anna, to whom people offer grains (Fig. 7). On the other hand, even before 1805 there were myths about Saint Anne which link well to the grain harvest feast with sinkholes and earthquakes, a sign of previous heritage29.
The survival in this area of a snake worship, which is a symbol of the earthquake and infinity, is astonishing26. It is worth mentioning the ritual of the feast of St Domenico in Cocullo (Fig. 7), held on the first Thursday of the month. The snake charmers (serpari) offer their reptiles to people who want to encircle the snakes devotionally. Nobody hesitates to flaunt their courage over natural disgust and fear of the snakes, resisting frequent bites, and they are finally irresistibly attracted by the snakes. For many it is a “first time” and form here derives a unique attachment to the feast and the rite. Young people of the village parade ritually, handling snakes, behind the statue of San Domenico, which is covered with snakes (Fig. 6a). The magic of the divine snake power passes through St Dominic to them and this explains why the ritual is felt strongly by younger generations who do not renounce the practice of culturally distant traditions. Cocullo rite can be interpreted as a reminiscent of telluric fertilization, which is expressed through a male initiatory sacrifice generated by the bite of harmless reptiles. Blood is also offered in another feast, “the race of the barefoot runners”, in Pacentro (Fig. 6c,d and Fig. 7). The theophanic symbol is in both cases the dragon-serpent, which in Pacentro dwells in the valley of Vella and remains in the stone from which the sacrificial path starts. The idea that such worships are located where the earthquake or the divinity manifested itself physically by the earthquake is fascinating. The size of the sacrifice and suffering is sublimated into a “game” that strengthens the role and status of the teenager through a struggle with the “dragon”.
3.1.2. - SULMONA AREA More to the south, near Sulmona, there is a spectacular concentration of worship sites and festivals. Some shrines are built directly on the Morrone-Porrara faults and the most famous is dedicated to the Italic Hercules Curino (Fig. 7). The shrine was probably expanded from a purely local temple to a large terraced structure in the first century BC. God is worshiped here with the significant epithet Curinus or Quirinus, an epithet that also appears alongside other deities in the region of Peligna, especially the Jupiter Quirinus of Superaequum. Quirinus means founder, in itself the mythical “father” of the Italics. The shrine is built on two terraces, which are relevant to each of the two phases. The lower is the most recent, and is a great platform 71 m long, topped by 14 rooms covered with vaults. The upper terrace was closed on three sides by a portico with columns whose bases are still in place. In the centre stood the offices of worship, an altar covered, unusually, with bronze plates, and the small chapel that was to be the real place of worship. From inside the chapel, it is worth remembering, come the most important materials of the complex: two highly refined statuettes of Hercules, one bronze (now in the Museum of Chieti) and the other in marble. The upper part of the sanctuary was buried by a landslide in ancient times, perhaps as a consequence of the second century AD earthquake. The substructure
Campanelli, 2007. Stoppa F. 2010b. 27 Sardelli, 1984 28 Di Nisio, 2010. 29 Di Nisio, 2010. 25 26
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of the terraces has signs of dislocation and restoration which may be related to previous seismic events. Traces of the earthquake have also been found in Sulmona, where a domus of the first imperial age (first century BC – second century AD) was found beneath the SS. Annunziata monastery. The house of the Roman period was abandoned after the earthquake and its construction materials were reused for the construction of later buildings.
fortification where the landowners have the emblem of the dragon-snake (Fig. 2b). On the first Sunday of September, the Pacentro people honour Our Lady of Loreto with a race called “the race of barefoot runners”. The youth of the village reach an area halfway up the Scipione hill, gathering in front of a split stone, a large block of limestone painted green, red, and white so as to be readily identifiable (Fig. 6c). We already cited this locality as the site of an old Earth worship. During the race the runners rush off onto different paths and come to the Vella river and through it and then up the path leading to the church, where they arrive wounded and tested, leaving bloody footprints on the ground. After the washing of the wounded feet, the villagers carry the first arrival, leading him in triumph while waving lu ‘bbalie, a blend of wool cloth suitable for making a suit (Fig. 6d). The winners are put on the doorstep, displaying the wounds on their feet, to receive the tributes of family and friends. The first observation about the rules of the race is that it is reserved for the youth of the village, but the eldest are also admitted. However, the winners are always teenagers, who come prepared for this race since an early age. The winner’s prize has a strong symbolic attribute; in fact, the first suit is certainly a sign of male emancipation, a status symbol recognized as the entry into the adult clan. This is a collective rite: all participants share the pain and are acknowledged; all are encouraged and applauded even if they arrive very late compared to the winner. It is therefore a collective rite of passage that is repeated over time. The female element sides with the opposite gender and young admirers, perhaps future girlfriends, cheer wildly. Having seen the festival we have no reason to doubt that it was the same in the past. What is more important to note is the link with the dragon or snake, which is fully justified by the geological nature of the valley of Vella and co-seismic phenomena regularly observed here during the seismic activity (e.g. in 1706, 1933, and 2009). Pacentro blood is offered to the deity who spreads it on the sacrificial path, with the path mimetic being linked to the manifestation of the spiritus earthquake. The winding route of the valley covered by co-seismic phenomena will certainly have aroused witnesses to the evocation of a fiery dragon-snake.
The adjacent territory of Pacentro (pagus Pacinus) presents evidence of prehistoric settlements as well as continuity of fertility worships up to Roman times, and in its territory there are a number of Italic shrines. At Colle San Leopardo there are the remains of a terraced building of the first century BC, which given the location and structure seems to be a little shrine. On a block of the building an apotropaic double phallus surmounted by a small figure of a man was visible, a symbol found commonly in Hercules’ sanctuaries. The environment was reused in the Middle Ages as the church of San Leopardo and abandoned after an earthquake (1315 or 1349). In San Leopardo there is also a small cave with a water spring which has evidence of worship frequentation in pre-Roman time. Not far away is Colle Scipione, where there is also a second cave evidencing the worship of St Michael the Archangel, which is syncretic to Hercules. This situation is similar to that of the nearby shrine of Hercules Curino, although smaller in size. South of Pacentro and in continuation of the fault of Morrone, there is the most important shrine complex, Ocriticum, in the territory of Cansano (Fig. 7). Inside its τέμενος, the holy place related to the sanctuary and his fence, there is a complex layering of buildings from the Italic to the Hellenistic Roman age. Excavations found objects of female worships, as well as small statues depicting Demeter (Ceres) and Kore (Persephone). Taken together, the Hercules Curino, San Leopardo, and Cansano shrines testify to an exceptional concentration of shrines with chthonic worships along the active faults of the Morrone-Sulmona-Porrara. The Morrone and Sulmona fault system, which is traceable for more than 25 km, and Mt Porrara are capable of a potential Mw 7 earthquake (Fig.7). Drawing from a survey conducted by the writer in relation to the “race of the gypsies” (i.e. the party of barefoot runners) in Pacentro, it is possible to highlight certain assumptions about a surprising layer linked to ancestral chthonic worships, and the direct binding of the latter, hitherto concealed by syncretism and the subsequent accretion, with the telluric phenomena and rituals of male initiation (Fig. 6c and d). As an example, a brief comparison can be drawn between the party and the feast of St Dominic of Cocullo, where the element of the “snake” is present and the properties of the telluric and initiatory rite are combined. Pacentro is a medieval
4. - PROBABILISTIC APPROACH AND SEISMIC RISK It is clear that ancient and folk culture does not remove the memory of the disasters and links the local effects to worships and rituals. Abruzzi preserves a surprising amount of anthropological evidence that the Italic civilization elaborated its own recognition and acceptance of the seismic hazard. The link of worships and related buildings with the seismogenic structures, precursory phenomena, and co-seismic changes in groundwater and gas emissions is astonishing. In the worship of the 717
Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
5. - CONCLUSIONS
snake/dragon, physically and virtually present in many festivals, the Abruzzi tradition preserved a unique evidence of the relationship between earthquake and natural renewal as well as a mitigation of seismic risk through its function as a means of awareness. Historical evolution created an inextricable link between Christian places of worship and festivals of magic and religious nature which are distributed in clusters with an identity possibly related to an evaluation of the seismic hazard. This complex and varied phenomenon therefore requires a special study of the links among earthquakes, weather, snakes, cycles, infinity, crops and harvest, adult life initiation and fertility, chthonian deities, and syncretic Saints who offer protection from earthquakes and thunder storms and who heal with rock contacts and sulphur waters.
The human interpretation of earthquakes may prepare us to give priority to the mitigation of seismic risk rather than to other socio-economic factors. Consideration of thaumatosis may lead to a more severe assessment of geological hazards. If one compares the seismic hazard established with conventional probabilistic methods, it is very clear that the density of “seismic monuments” does not fit with calculated hazard. This would indicate the possibility that probabilistic forecasts (PSHA) may be insufficient. Large uncertainties exist in the PSHA in Chieti province, including the active faults and seismicity parameters. This paper introduces the status and issues related to the distribution of geo-anthropological features in the Chieti province, making a comparison with the better known Majella-Sulmona area. Even if research in seismology, geology, and earthquake engineering may significantly reduce uncertainties in the future, a considerable further reduction will take several years. The geo-anthropologic data suggest rejecting the idea that the Chieti province is an area of minor seismic hazard that may be suitable for a nuclear power plant or other major hazardous industries as recently suggested. Geoanthropologic data are sufficient to consider this area as having high seismic risk and requiring a prudent approach to elicit expertise and investigation of still neglected seismogenetic sources.
In Fig. 7 it is possible to compare the distribution of seismic monuments and rites as a function of the seismic hazard intensity modelled by a probabilistic approach. The maximum hazard may correspond to the cropping out of active seismogenetic structures while buried ones may be not recognized. Historical seismicity has had a good definition only for the last five or six centuries; all the rest is very uncertain or limited to the bigger events (M ≥ 6.5). This problem extends to the seismic hazard identified by PSHA, which may be dramatically wrong for this specific area. It is evident that if in the inner part of the Abruzzi the seismic monuments and rites show a good match with the geological structures and hazards, this is not the case in the southern Abruzzi (Chieti province). The abundant occurrence of seismic monuments and rites in Southern abruzzi region suggests that it is likely that some unrecognized seismic source may be able to produce strong earthquakes (Fig. 7). The Roman city of Iuvanum (Fig. 7) bears signs of reconstruction after a major earthquake, perhaps that of Sannio-Matese in 346 AD30. In fact, the southern part of the Chieti province suffered a lot from earthquakes with epicentres in Molise and the northern Puglia area. It is more difficult to establish the chronology of damage at the Roman baths of Chieti and at the north entrance of the amphitheatre at Civitella in the same city (Campanelli A. and Agostini S. pers. com.). Chieti experienced the worst damage during the 1706 Majella earthquake but damaging local earthquakes also occurred. Isolated shakes also indicate seismic activity, for example those of M 5.2 in 1882 and M 4.3 in 1992 near Chieti. Concerning the Chieti province, medieval chronicles of the destruction of the Monasteries of Santo Stefano in rivo maris, San Liberatore a Majella, San Giovanni in Venere, and that of Diocletian Bridge in Lanciano31. indicate poorly defined, locally intense earthquakes.
30 31
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Interpretation of SEISMIC disasters in the Central Abruzzi (Italy) traditional culture
Figure 1. Cumulate damage produced by the 2009 Aquila earthquake in different areas and building types. a: XVIII century, bricks and stones building, total collapsed in Onna, 9 km E-SE form the epicentre; b. XIX century, brick and stone building, partial collapse in Castelnuovo, 22 km E-SE from the epicentre; c. 1970’s concrete reinforced building, pillar breakage in Pettino 3.5 km N-NW from the epicentre; d. 1960’ concrete reinforced building, total collapse in Aquila, 1 km N from the epicentre; e-1970’s 10 stores concrete reinforced building, masonry damage in Chieti Scalo 65 km E from the epicentre; f. 1990’s concrete reinforced building, masonry detachment and collapse in Chieti University, 65 km E from the epicentre. Pictures by the author.
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Fig. 2. Persistent dragoon symbol in different ages and context in Abruzzi area related with erathquakes. a. Fragment of worship statue with snakes decorated garment from the Italic Temple of Castel di Ieri (Fig. 7); b. Caldora family arms in Castrovalva, a medieval family from Pacentro a site linked to the Valla Valley dragoon and dragoon cave which are included in the telluric rite of the Corsa degli Zingari festival described in the text and shown in Fig.7; c. XVI century fresco of San Maro with chained dragon in Castelleone (Marche area), mud-volcanoes from this site erupted violently in the aftermath of the 2009 earthquake. d. Fantasy image of the Fucino’s dragoon from a post-2009 earthquake blog (http://viaveritavita-rasthafari. blogspot.it/2009/04/segni-del-cielo-della-terra-e-di-nuovo.html). The writings in Italian say from top left to bottom right: - It all began when life began on Earth, that is Pangea-, -A dragon or devil that lying measures more than 50 km, including wings-, - (in red) so you would put the brand on a leg of an animal; however this is the rest of three 6 on the thigh of the dragon-, -only certainties, there are the remains of three 6 on foot, such as those near the bust of the dragon of Monte San Franco situated 40 km away on the chain of the Aielli. The chain as in the vision of St. John is the last discovered in order of time-, -the parts in yellow are those that emerged, those in red are submerged-. Pics b and c bu the author.
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Interpretation of SEISMIC disasters in the Central Abruzzi (Italy) traditional culture
Figure 3. a. Site of the Mephitis temple in Irpinia, one on the largest emission of natural Carbon dioxide and Hydrogen sulphide emission all over the world (pic by the author); b. Senizzo lake sink-hole at san Demetrio nei Vestini, Aquila, large ground cracks and subsidence occurred during the 2009 earthquake (pic courtesy of G. Pomposo); c. Sand volcanoes formed during the 2009 earthquake near the medieval church of San Michele Arcangelo in Vittorito (place-name equivalent to San Vittorino), Sulmona. Under the Church is the podium of a II sec. BC temple and nearby is a wall structure that could be a terrace where there was one of the temples of the italic Peligno people (Pic courtesy of F. Santangelo).
Figure 4. a. San Clemente abbey in Tocco a Casauria showing damage suffered during 2009 earthquake. Very sensitive indicator because built on a seismic high-magnification site, had suffered major damages during 1349, 1456, 1703-6 from its building on 871 AD. b. Carved stone with the account of a II century earthquake in Interpromium recycled to built the abbey. Inscription bearing the commemoration of the restoration of “public weighing” made in Interpromium by two magistrates of Sulmona after the earthquake of the second century. -AD [C. C.] SVLMONII PRIMVS ET FORTVNATVS / [P]ONDERARIVM PAGI INTERPROMINI / [VI] TERRAEMOTVS DILAPSVM A SOLO / [S]VA PECVNIA RESTTVERVNT. - Primo and Fortunato of Sulmona rebuilt at his own expense the public weighing of the city of Interpromium destroyed by the earthquake (Buonocore and Firpo, 1091); Staffa, 2004; Mancini and Menozzi, 2013)
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Figure 5. Abruzzi “seismic” Saints. a. St. Justin appears in flight above the city of Chieti shaken by the earthquake of 1706 that produced the partial collapse of the bell tower of the Cathedral. The picture is stored in the same cathedral and is associated with a commemorative inscription of the earthquake. b. Sant’Emidio appears above the Trinity square in Chieti while the bell tower tilts and the population flees in panic during the Chieti earthquakes of 1881-82. The painting is kept in the same church in the image and bears a commemorative inscription. In the same church there is a plaque commemorating the great Isernia earthquake of 1805, the Sant’Anna earthquake, which did not damage Chieti. c. The worship of Santa Reparata is widespread in places considered to have received protection from the earthquake. The Santa is depicted holding the city in her hands.
Figure 6. Abruzzo seismic festivals wirth snakes. a. Cocullo, The Saint Dominick statue covered in snakes during the religious parade; b. Lu Lope (the wolf) festival in Pretoro, snakes hunters; c and d. Pacentro, b. the dragoon rocks painted in the Italian flag colours and the competitors climbing towards it before the race, d, the winners, with the ritual cut of wool as a flag, cannot stand because the hurt feets and are carried by supporters . See sites location in Fig.7. (Pics a and b by the author, pic c courtesy of S. Agostini)
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Interpretation of SEISMIC disasters in the Central Abruzzi (Italy) traditional culture
Figure 7. Main active seismogenetic structures and epicentral location of relevant historical earthquakes (Romano et al. 2013; Lavecchia et al. 2012; de Nardis et al. 2011), ancient chthonic worship sites and traditional snake festivals in Abruzzo;. Grey areas are quaternary sediments deposited in tectonic basins associated to the active faulting, a favourable position for ancient settlements.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Table 1 - Evidence of chthonic worships in the Abruzzi Central Western area Reference Nearest village, number locality/ archaeological in fig.7 excavations
Source of the information Additional information
Site coordinate
San Vittorino - Aquila Amiternum
Epigrapher (Hercules) plus ruins in the church of St. Michael the Archangel; San Vittorino is related to sulphur gases
42°23’47,51’’N 13°18’49,05’’E
Popoli
Only epigraphic attestation (Hercules)
4
Secinaro
Only epigraphic attestation (Hercules)
42°10’9.95”N 13°49’49.77”E
5
Molina Aterno
Only epigraphic attestation (Hercules)
6
Raiano
7
Sulmona - Villa di Ovidio
Only epigraphic attestation (Hercules) San Venanzio church (lithotherapy, rock worship)
8
Massa d’Albe Alba Fucens
Hercules Temple in the church of San Peter and Hercules Forum
10
Cocullo
11
S. Ippolito
Only epigraphic attestation (Hercules) San Dominick worship and snakes festival
42°1’55.10”N 13°46’30.34”E
12
Vittorito
13
Castel di Ieri
Temples ruins in the church of St. Michael the Archangel, sand volcanoes and sulphur spring on the fault
42°07’23.40’’ N13°49’02.30’’E
14
Pacentro
15
Cansano
16
San Benedetto dei Marsi
Small worship area (Angizia?), shrine on the fault
17
Pettorano
Temple ruins in the church of Santa Margherita
18
Scanno area
Only epigraphic sources may also refer to a single votive context.
1 2 3
9
Prata d’Ansidonia Peltuinum
Goriano Siculi
Hercules τέμενος and bronzes
Ruins of a Sanctuary of Hercules Curino
42°17’9.39”N 13°37’11.28”E
42°9’13.95”N 13°41’2.30”E 42°8’51.21”N 13°44’5.90”E
42°6’39.32”N 13°47’45.65”E 42°5’18.68”N 13°56’5.52”E
42°4’36,99’’N 13°24’39,12’’E
Finds of storeroom of bronzes attesting a Hercules worship- Santa 42°4’52.16”N Gemma worship (phallic worship + lactation) 13°46’26.97”E
Ruins of a Hercules Sanctuary
Ruins of a Hercules Sanctuary
Temple ruins at Colle S. Leonardo (phallic worship) plus epigrapher (Hercules), snake festival Sanctuary ruins
42°07’25.23’’N 13°51’08.74’’E
42°06’07.53’’N 13°45’21.17’’E 42°03’03,14’’N 14°00’00.90’’E 42°00’11.58’’N 13°59’24,26’’E 41°59’40.81”N 13°38’46.32”E
41°58’24.76’’N 13°57’36,38’’E
41°54’12.16”N 13°52’51.72”E.
Evidence of chthonic worships in the Central Eastern Abruzzi area 19
Pretoro Touta Marouca
Snake festival, in the nearby Rapino Cerere- Magna Mater worship, legends about Maja (Tellus) from which Majella mountain (chthonic worship)
42°13’0.55”N 14° 8’27.55”E
20
Palombaro
Snake festival (not active) and rupestrial worship
42° 7’30.23”N 14°13’50.79”E
21
Fara San Martino
Pilgrimage to San Martino, rock therapy and legends related to earthquake
42° 5’32.28”N 14°12’5.36”E
22
Montenerodomo Iuvanum
Evidence of multiple seismic destruction of the roman city, τέμενος devoted to Hercules plus a worship of waters.
41°59’52.93”N 14°14’59.61”E
Table 1. Italic temples and Sanctuaries devoted to Hercules and female chthonian gods and other epigraphic or archeological sources plus ethnologic data. The tables contain a critical revision of the source of locations.
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Enrico Zanini
Anatomia di un istante: la ceramica di un pozzo nero a Roma, il sacco dei Lanzichenecchi del 1527 e qualche idea sulle vite di un contesto archeologico Abstract: An excavation in the area of the Temple of the Nymphs in Rome has brought to light the remains of a modern black well. The glass, metalwork and pottery assemblage related to the abandonment of that structure, seems credibly to be connected to the sack of Rome, carried out by Lansquenets in 1527. However, the preliminary analysis of this assemblage has highlighted some apparent inconsistencies, claiming for a more careful reflection about the different timing in the formation of an apparently unitary archaeological context.
Argomento di questo breve contributo non sarà la presentazione di un contesto di reperti, quanto piuttosto un insieme di piccole notazioni metodologiche sparse che sono nate nel corso del tempo dall’esame, in sé non ancora definitivamente concluso, di quel contesto.
la regola aurea sopra indicata identifichi realmente la data di formazione di un contesto sono infatti necessari almeno tre fattori: 1. che il contesto sia effettivamente “chiuso”; 2. che la sua formazione sia stata in qualche modo lineare e continua nel tempo fino alla chiusura; 3. che il reperto più recente in esso contenuto sia ben databile, ovvero che siano ben determinabili la data della sua produzione e l’arco cronologico del suo plausibile utilizzo precedente il suo ingresso nella stratificazione archeologica.
Si tratta di appunti che si sono accumulati nel corso degli anni – evidentemente troppi – che sono passati dallo scavo di quel contesto: in questo lungo lasso di tempo, ho utilizzato più volte questo caso di studio nelle lezioni di Metodologia della ricerca archeologica all’università di Siena per discutere aspetti diversi. Mi è capitato anche di parlarne con Sara, quando lei mi invitò a tenere un seminario a Parma, a conclusione del suo ultimo anno di insegnamento in quella università. Fu una discussione molto viva e partecipata con un bellissimo gruppo di suoi allievi, e mi è sembrato quindi particolarmente appropriato riprendere il tema in questa occasione: come se Sara fosse ancora qui con noi a discuterne.
1. LA DATAZIONE COME PUNTO INTERSEZIONE TRA DUE ANTROPOLOGIE
Sul punto 3, almeno apparentemente, c’è poco da dire: si tratta in buona sostanza di “fortuna”, da parte dell’archeologo, nell’incontrare sulla sua strada un reperto ben databile (per esempio una moneta) e dal presumibile tempo di utilizzo relativamente breve. Anche sotto quest’ultimo aspetto, una moneta farebbe al caso nostro, anche se sappiamo tutti benissimo quanto in realtà la circolazione delle monete segua delle dinamiche che possono variare moltissimo da epoca ad epoca, da contesto sociale a contesto sociale, da caso a caso.
DI
Più complessi, e quindi più interessanti, sono invece i punti 1 e 2, perché dipendono evidentemente in maniera più diretta da fattori umani: il modo di pensare e di agire degli uomini del passato che crearono il contesto che ci interessa e gli uomini del contemporaneo che, agendo nel concreto di uno scavo, quel contesto hanno individuato, documentato e scavato; in una parola “costruito”.
Nello schema mentale proprio dell’archeologia stratigrafica contemporanea, la datazione di un contesto “chiuso” è un tipico esempio che si propone agli studenti del primo anno di università: posto che il contesto sia davvero “sigillato”, basterà infatti individuare tra i reperti presenti quello più recente e si otterrà la data a partire dalla quale si dovrà necessariamente datare la formazione del contesto stesso. Giacché è evidente che un contesto non si potrà essere formato prima che sia stato prodotto il reperto più recente in esso contenuto.
In buona sintesi, si potrà quindi sostenere che il nostro oggetto di studio sia per l’appunto il prodotto di due “costruzioni” avvenute a distanza di tempo e ciascuna frutto di scelte deliberate, idee correnti e pure casualità, che finiscono per determinare concretamente il contesto nella sua oggettività e nella nostra percezione soggettiva.
A ben guardare, però, questa idea così lineare finisce per semplificare in maniera eccessiva il concetto di datazione, che ha invece in sé una serie di elementi di complessità che meritano di essere evidenziati.1 Perché 1
In questa prospettiva, può essere utile provare a
Sulla complessa questione della datazione dei contesti in archeologia, cfr. Cau Ontiveros et al., 2011; Furlan, 2019.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Le demolizioni di epoca fascista interessarono in quell’area un tessuto urbano di epoca medievale e moderna, conservato invece sul lato opposto della strada e oggi trasformato in sede del Museo Nazionale Romano – Crypta Balbi.5 Nulla di quegli edifici sopravvisse e l’unica traccia archeologica di quella importante fase di vita della città che fu possibile recuperare è per l’appunto costituita da un pozzo nero, collocato in rottura, probabilmente a partire da una cantina, a una quota inferiore a quella dei pavimenti di epoca romana, che vennero raggiunti dallo sterro.
ragionare sul nostro contesto nei termini in cui ha lavorato, in alcuni suoi romanzi, un grande scrittore spagnolo, Javier Cercas. Il tema, reso esplicito nel titolo del suo lavoro forse più famoso (Anatomia di un istante, del 2009), ma presente in quasi tutta la sua opera, è quello di analizzare scrupolosamente la grande complessità di situazioni diverse, ciascuna caratterizzata ovviamente da un suo tempo, che si coagulano in un attimo preciso: nel caso di Anatomia di un istante, il momento, fissato da un fotogramma di una ripresa video casuale, in cui il colonnello della Guardia Civil Antonio Tejero fece irruzione nel parlamento spagnolo per tentare un colpo di stato, il 23 febbraio 1981.
Al momento dello scavo, il pozzo nero – che era stato evidentemente demolito nella sua parte alta nel corso dello sterro – si presentava privo di copertura, nelle forme di una fossa grossomodo quadrata, foderata su due lati da rozzi muretti in materiali misti, mentre gli altri due lati non presentavano rivestimento, probabilmente per permettere la dispersione dei liquami [FIG. 1].
Nelle molte centinaia di pagine del suo romanzo, Javier Cercas ricostruisce minuziosamente appunto le idee correnti, le scelte deliberate e le pure casualità che portarono a quel fatidico istante in cui si confrontarono direttamente il colonnello golpista e tre politici spagnoli di primissimo piano: Santiago Carrillo, Gutiérrez Mallado e Adolfo Suarez. Con un percorso di analisi che può adattarsi benissimo, mi pare, anche al nostro caso di studio.
Lo scavo venne condotto in condizioni operative difficili, perché ciò che restava del pozzo nero era posto molto vicino alla quota della falda idrica sotterranea e, dopo un primo parziale svuotamento, l’approfondirsi dello scavo causava una risalita di acqua non controllabile, che rendeva problematico uno scavo accurato e un recupero adeguato dei reperti. Si decise pertanto di non procedere oltre con lo scavo, rinviandolo al momento in cui sarebbe state possibili condizioni migliori. Va da sé che tali condizioni non si sono poi verificate, almeno finora.
2. L’ISTANTE 1: LO SCAVO Punto di partenza del nostro ragionamento sono le condizioni oggettive in cui il nostro contesto ha smesso di essere una traccia di un avvenimento del passato depositatasi nella stratificazione del centro storico di Roma per divenire un pezzo della nostra contemporaneità. Lo scenario è lo scavo nell’area del c.d. Tempio delle Ninfe, lungo Via delle Botteghe Oscure: un intervento condotto da una équipe dell’Università di Siena diretta da Daniele Manacorda e da me, in due riprese, tra il 1996 e il 1998.2
I materiali recuperati da questo scavo parziale furono trattati preliminarmente e immagazzinati presso l’allora Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena (oggi confluito nel Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali), dove sono ancora in corso di analisi in vista di una pubblicazione dell’intero scavo che si spera non sia a questo punto troppo lontana nel tempo.
Obiettivo dello scavo era quello di indagare ciò che rimaneva della stratificazione archeologica in quell’area, largamente asportata dagli sterri di epoca fascista legati al progetto di ampliamento della stessa Via delle Botteghe Oscure3 e poi ulteriormente rimaneggiata negli anni Sessanta, in occasione dell’allestimento dell’area archeologica attualmente visibile. Lo scavo era collegato da un lato alla grande indagine archeologica condotta a partire dai primi anni ‘80 nell’area della Crypta Balbi e dall’altro alla progettazione di un intervento di riallestimento dell’area archeologica che tenesse conto sia dei mutamenti intervenuti nella conoscenza complessiva di quella porzione del centro di Roma e sia di nuovi criteri di messa in rapporto della città del passato e con la città del contemporaneo.4
2. IL CONTESTO Al momento in cui ci si imbatte in un deposito archeologico di vasellame di uso comune con specifiche caratteristiche – presenza prevalente di pezzi interi o in grossi frammenti, oppure comunque integralmente ricostruibili o quasi – ci si deve porre preliminarmente la questione della reale natura del deposito. In particolare, se si tratti di un immondezzaio – con ciò intendendo un luogo di accumulo e di smaltimento di rifiuti di vario genere – oppure se si possa parlare propriamente
Rapporti preliminari sul progetto in Manacorda, 1997b; Zanini, 1997a. L’edizione definitiva non ha ancora trovato la via della pubblicazione: mea culpa. 3 Santangeli, Valenzani, 1995. 4 Pallottino, 2013. 5 Manacorda, 2001. 2
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di pozzo nero, con ciò intendendo una struttura destinata specificamente allo smaltimento delle deiezioni umane, collegata quindi con gli impianti igienici di una abitazione.
XIV secolo, un gruppo di ciotole quasi sempre intere o interamente ricostruibili databili tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo [FIG. 3], un gruppo di piatti, scodelle, boccali e ciotole in maiolica di varia provenienza anch’essi quasi tutti interi o ricostruibili databili nei primi decenni del XVI secolo tranne in un caso che discuteremo [FIG. 4], e poi un gruppo di frammenti molto piccoli e pertinenti a forme e produzioni molto diverse, indicativamente databili a epoca più recente, tra XVII e XVIII secolo.
Va da sé che nel primo caso la presenza di quantità anche rilevanti di vasellame è del tutto normale, mentre nel secondo la stessa presenza apre lo spazio a qualche riflessione in più. Nel nostro caso, la morfologia del pozzo (stretto e profondo) e la sua collocazione al di sotto delle case che tra medioevo ed età moderna prospettavano sul lato nord di Via delle Botteghe oscure porterebbero a pensare che si tratti più propriamente di un pozzo nero, all’interno del quale, quindi, la presenza di grandi quantità di ceramica non è immediatamente normale.
Il metallo è rappresentato da soli due manufatti, ma particolarmente significativi: si tratta infatti di due frammenti di un candelabro in bronzo, probabilmente in origine argentato, [FIG. 5] e di una moneta d’oro, uno scudo veneziano a nome del doge Andrea Gritti (15231538), coniato molto probabilmente nel 1523 [FIG. 6].
Vediamo rapidamente che cosa c’era all’interno di quel pozzo nero – o meglio nella frazione di pozzo nero che abbiamo potuto scavare nelle condizioni sopra descritte – con l’intento, vale la pena di ripeterlo, non di studiare analiticamente le singole componenti di quel contesto archeologico, ma di comprenderne (o almeno di ipotizzarne) alcune dinamiche di formazione.
La presenza di tutto questo materiale all’interno di un pozzo nero richiede evidentemente una spiegazione, giacché è evidente come il nostro contesto presenti più di qualche anomalia cronologica, soprattutto nei due nuclei principali di ceramica da mensa smaltata le ciotole e i boccali che appaiono il prodotto di uno stesso tipo di azione umana (un riempimento volontario di una struttura originariamente destinata ad altro scopo), ma con un evidente iato temporale nel loro verificarsi.
A parte la matrice, che non è stato possibile prelevare in maniera controllata nelle condizioni in cui è avvenuto lo scavo e la cui analisi potrà evidentemente in futuro fornire informazioni di grandissimo interesse, il nostro deposito conteneva un buon numero di ossa animali, probabilmente derivate dalla preparazione e dal consumo di cibo, come del resto è normale attendersi in questo genere di contesti.
La stratigrafia purtroppo aiuta poco, giacché, nelle difficili condizioni operative cui si è accennato, il recupero dei materiali non poté rispettare le regole del gioco di uno scavo tecnicamente ineccepibile e l’unica osservazione che fu possibile condurre è che le ciotole provenivano da un livello inferiore del riempimento, che tuttavia per qualità della matrice appariva se non unitario, almeno non nettamente distinguibile su base stratigrafica. Non fu infatti possibile stabilire se la posizione delle ciotole fosse frutto di una loro deposizione in un momento precedente o non fosse invece solo dovuta alla loro maggior “densità” fisica rispetto a piatti, scodelle e boccali, circostanza che ne avrebbe facilitato una più profonda immersione all’interno di una matrice che ci dobbiamo immaginare semiliquida.
Per quando riguarda i reperti non organici sono presenti tre macro gruppi: ceramica, vetro e metallo. Del vetro, che non è stato ancora oggetto di una analisi specifica, non ci occuperemo in questa sede, anche se la sua presenza in quantità piuttosto rilevante e in grandi frammenti quasi tutti riconducibili a bottiglie e a coppe e/o calici è, come vedremo, comunque interessante ai fini del nostro discorso. La ceramica si presenta a sua volta articolata in due grandi insiemi: il primo è costituito da invetriate da cucina, presenti in forme intere o comunque largamente ricostruibili [FIG. 2]; si tratta di materiale molto difficile da datare con precisione a causa della durata nel tempo delle forme essenzialmente funzionali e che può quindi essere solo genericamente assegnato al XV e/o al XVI secolo.6 Il secondo insieme è costituito da ceramica da mensa smaltata, a sua volta distribuita in quattro grandi gruppi: un gruppo di frammenti relativamente piccoli e pertinenti a produzioni databili nell’ambito del
3. L’ISTANTE 2: LA DEPOSIZIONE La presenza di una moneta d’oro in un pozzo nero è di per sé un fatto inusuale. Se non è impossibile pensare a una perdita accidentale, magari al momento dell’uso degli impianti igienici connessi al pozzo stesso, appare oggettivamente più difficile che non si sia pensato a un recupero successivo, magari in occasione di uno degli svuotamenti periodici cui questo tipo di strutture sono inevitabilmente soggette.
Per una discussione sulla cronologia di questi materiali nei contesti formatisi nell’area della Crypta Balbi a cavallo tra XV e XVI secolo, cfr. Ricci, Vendittelli, 2010, 292-296; 2013, 406-424. 6
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Nel primo caso, forse, la causa dell’occultamento potrebbe essere ricercata nella volontà non tanto di salvare dalla razzia un manufatto percepito come pregiato, quanto dalla opportunità di cancellare ogni connotazione di qualche prestigio dalla casa, nella malaugurata ipotesi di un “sopralluogo” da parte dei razziatori. Il secondo caso appare invece forse più esplicito, perché sul semplice piatto compare, nel campo centrale della decorazione, l’emblema araldico della casata dei Colonna. Si tratta di un motivo molto diffuso su questo tipo di manufatti, ma che, nel caso specifico, fu probabilmente letto come possibile portatore di un pericolo concreto per il suo possessore: in linea teorica, i Colonna erano i principali esponenti della parte della nobiltà romana avversa al papa Clemente VII e quindi potenziali “alleati” dei Lanzichenecchi;13 ma, nel caos drammatico di quei giorni, l’essere identificati come appartenenti o collegati a una famiglia comunque nobile poteva significare rischiare in ogni caso di essere rapiti per cercare di ottenere un riscatto.14
Altrettanto inusuale e decisamente più difficilmente riconducibile a una perdita accidentale è la presenza del candelabro. I due indizi sembrano dunque convergere verso una deposizione volontaria e questa ipotesi appare senz’altro rafforzata dalla presenza tra i materiali ceramici recuperati di un frammento di parete di un manufatto di ceramica di forma globulare, che reca all’esterno, ripetuta apparentemente più volte, la scritta “danaro”, a indicare esplicitamente la funzione dell’oggetto.7 [FIG. 7] Collegare queste tre presenze “anomale” ad un unico evento è a questo punto facile e la probabilità che si sia di fronte ai resti di un nascondimento volontario avvenuto in occasione del sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi del 1527 appare oggettivamente molto alta. Elaborata l’ipotesi, si tratta ora di vedere come a questa ipotesi si possano rapportare gli altri manufatti rinvenuti in quel contesto, per rafforzarla o, al contrario, per falsificarla.
Il boccale, che invece non appartiene a nessuna delle due categorie sopracitate, è una presenza in qualche maniera curiosa, in primo luogo perché è isolata, mentre questo tipo di manufatti, per la loro diffusione e la lo intrinseca fragilità, costituiscono quasi sempre la presenza prevalente negli immondezzai di quell’epoca. L’ipotesi che possa essere stato quindi utilizzato come contenitore per introdurre deliberatamente qualcosa nel nascondiglio appare dunque credibile.
Tra i manufatti in maiolica da mensa rinvenuti, spiccano due scodelle di produzione derutese, entrambe quasi integralmente ricostruibili, del tipo con decorazione anche sul retro (c.d. “petal back”),8 ben databili tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo.9 Si tratta di prodotti di alta qualità – e conseguentemente di valore relativamente elevato – la cui presenza in questo contesto si spiegherebbe quindi tutto sommato bene.
Nel complesso, a questa immagine potrebbe corrispondere bene anche la presenza nel nostro contesto di grandi quantità di frammenti di bottiglie e coppe/calici di vetro, che potrebbero essere stati anch’essi occultati – o meglio sacrificati, vista l’impossibilità di recuperarli intatti in seguito – per tentare di cancellare ogni possibile traccia di benessere dalla casa cui il pozzo nero era collegato. A meno che la loro presenza non debba essere invece spiegata con un fenomeno diverso, ma comunque legato allo stesso evento, cui accenneremo fra breve.
Meno bene, ma solo apparentemente, si spiegherebbe la presenza di altri due grandi piatti e di un boccale, tutti sostanzialmente integri, che non presentano caratteri di particolare qualità o valore. Nello specifico, si tratta di un grande piatto da parata, ben riconoscibile in questa sua funzione per la presenza sul piede ad anello di un foro per consentirne l’utilizzo a decorazione di una muro o di un’altra superficie verticale, che si data bene ai decenni iniziali del XVI secolo o forse anche a quelli finali del precedente.10 Ad esso si aggiunge un piatto più dozzinale di un tipo largamente diffuso in tutti i contesti archeologici della prima metà del XVI secolo a Roma.11 Il boccale, infine, è di un tipo piuttosto comune, che si data anch’esso bene tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo.12
Messi tutti insieme, i nostri reperti sembrano quindi concordare bene con l’ipotesi iniziale di leggere nella loro disposizione la fotografia di un istante preciso: quella porzione specifica del nostro contesto può
Salvadanai simili sono ben attestati nei contesi romani già a partire dal Medioevo, ma la forma continua a essere molto diffusa fino all’età moderna: cfr. Ricci, Vendittelli, 2010, 299-300. 8 Cfr. Fiocco, Gherardi, 1988, 57-71. 9 l confronto più convincente, rispettivamente per la decorazione della tesa e del fondo, è con i piatti “da pompa” provenienti da alcuni contesti della Crypta Balbi: cfr. Ricci, Vendittelli, 2010, 239-241. 10 Ricci, Vendittelli, 2010, I, 220-222. 11 Ricci, Vendittelli, 2010, confronti molto puntuale, 226. 12 Cfr. Ricci, Vendittelli, 2010, 186-190. 13 Truppe “irregolari” al servizio dei Colonna furono esse stesse protagoniste di alcune delle fasi più dure del saccheggio, secondo la testimonianza di Francesco Guicciardini (Storia d’Italia, 18,8): “E quello che avanzò alla preda de’ soldati (che furno le cose più vili) tolseno poi i villani de’ Colonnesi, che vennero dentro. Pure il cardinale Colonna, che arrivò (credo) il dì seguente, salvò molte donne fuggite in casa sua. Ed era fama che, tra denari, oro, argento e gioie, fusse asceso il sacco a più di uno milione di ducati, ma che di taglie avessino cavata ancora quantità molto maggiore”: cfr. Chastel, 1983, 10. 14 Cfr. Roberto, 2012, 236. 7
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essere messa efficacemente in relazione con i giorni e le settimane immediatamente successivi al 5/6 maggio 1527, quando per circa un mese la città fu teatro di un saccheggio sistematico, mirato in primo luogo a cercare potenziali ostaggi da liberare a fronti di onerosi riscatti e poi a recuperare manufatti più o meno preziosi da rivendere poi, magari agli stessi originari proprietari, in cambio di denaro contante più facilmente trasportabile.
più piccoli rispetto a quelli che costituiscono il nucleo che abbiamo fin qui discusso.17 Altro elemento distintivo è la conservazione solo di frammenti sparsi, con manufatti che sono spesso rappresentati da un solo frammento. Questi tre elementi – cronologia, indice di frammentarietà e percentuale di conservazione – sembrano convergere nell’identificazione di questo gruppo come materiale residuale, la cui presenza nel nostro pozzo potrebbe essere il prodotto di un accumulo o di più accumuli avvenuti in uno o più momenti precedenti seguito/i da svuotamenti quasi totali, che avrebbero tralasciato alcuni frammenti, magari depositatisi in prossimità del fondo o rimasti attaccati alla fanghiglia che ricopriva certamente le pareti.
Che questa ipotesi sia la più credibile è confermato anche da una rete di indizi ulteriori, provenienti da sistemi di fonti diversi da quello archeologico e quindi molto interessanti. In particolare, la pratica del nascondimento di somme anche piccole nel corso del saccheggio è testimoniata, per esempio, da un passo di una lettera che Pietro Paolo Santini, dal luogo sicuro in cui si è rifugiato, scrive il 21 giugno 1527 a Lelio della Valle, che invece continua a risiedere a Roma, dandogli indicazioni su come raggiungere un piccolo tesoro rimasto nella sua casa: “aprite la mia cassa, alzate la prima scudella de stangio, sotto troverete sei scudi”.15
Questo scenario si attaglierebbe bene all’immagine di un uso “proprio” di un pozzo nero, utilizzato essenzialmente per lo smaltimento dei rifiuti organici e in cui solo occasionalmente venivano deposti, e in piccola quantità, materiali derivanti da rotture accidentali di vasellame nell’ambiente domestico.
Che fogne e pozzi neri fossero poi un luogo di nascondiglio ampiamente utilizzato lo sappiamo da altre testimonianze: il saccheggio dei Lanzichenecchi fu infatti interrotto ai primi giorni di giugno a causa dello scoppio di una violenta pestilenza in città, a causa del gran numero di cadaveri lasciati insepolti e poi proprio dello scoperchiamento di impianti destinati allo smaltimento dei rifiuti organici, alla ricerca di tesori eventualmente lì occultati.16 Fu questa circostanza a convincere i soldati di ventura ad abbandonare la città fino alla fine dell’estate, per tornarvi poi in settembre per continuare il saccheggio sistematico fino ai primi mesi del 1528.
Più difficile leggere in questo senso la presenza del nucleo, molto consistente numericamente e molto omogeneo sotto il profilo morfologico, delle ciotole carenate, la cui circolazione nell’ambiente romano è normalmente assegnata alla fine del XIV secolo e agli inizi del successivo.18 In questo caso siamo evidentemente di fronte a una deposizione massiccia e volontaria di materiali di uso del tutto comune, che, almeno teoricamente, non collima bene con l’ipotesi di un nascondimento volontario di materiali preziosi o comunque in qualche modo significativi sotto il profilo della comunicazione di un particolare status del loro proprietario.
4. UNA SEQUENZA DI ISTANTI?
Le ipotesi plausibili sembrano a questo punto essenzialmente due, di segno diametralmente opposto riguardo la funzionalità del pozzo nero.
Se la relazione del nucleo principale dei materiali rinvenuti nel nostro pozzo nero con gli eventi legati al sacco di Roma del 1527 appare decisamente solida, rimane però da spiegare la presenza nello stesso contesto di scavo – che a questo punto non coincide evidentemente con il contesto / i contesti di deposizione – degli altri nuclei di reperti diversi che abbiamo rapidamente elencato in precedenza.
La prima ipotesi vedrebbe la deposizione di quel materiale legata alla volontà di creare uno strato di drenaggio dei liquidi, in maniera tale da favorire la dispersione della frazione liquida degli scarichi organici, garantendo in questo modo un migliore funzionamento del pozzo stesso e, probabilmente, un maggiore intervallo nelle operazioni di svuotamento periodico.
Un primo insieme è rappresentato da materiali indicativamente databili entro i primi due terzi del XIV secolo e che sono pervenuti in frammenti significativamente
La seconda ipotesi potrebbe andare invece nella direzione contraria e vedere nella deposizione di tutte quelle ciotole un modo per chiudere definitivamente il
Piergentili, Venditti 2009, 192. Cfr. Roberto, 2012, 237. Si tratta per lo più di ciotole emisferiche o carenate che trovano generico confronto, per forma e decorazione, negli esemplari discussi in Ricci, Vendittelli, 2010, 159-160; per la decorazione, decisiva nell’attribuire una datazione ad esemplari con forme di lunga durata, cfr. p. 149, in particolare l’esemplare II.1.116. 18 Cfr. Ricci, Vendittelli, 2010, 145-148. 15 16 17
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro casa e da questo punto di vista qualcosa evidentemente non torna: bene la quantità e la varietà della ceramica da cucina, meno bene la presenza di due scodelle di grande pregio e di due altri piatti comunque “significativi”, nella totale assenza di altri piatti e scodelle di uso quotidiano; molto meno bene la presenza di grandi quantità di ciotole così antiche e di un unico boccale. Insomma, sembra più opportuno di mantenere la nostra ipotesi iniziale e di spiegare in maniera differenziata le diverse presenze.
pozzo, in un momento in cui in quel quartiere di Roma si poteva essere passati a una diversa gestione degli scarichi domestici, con la costruzione dei primi collettori fognari di epoca moderna.19 Va da sé che, sulla base delle informazioni a nostra disposizione, non c’è alcun modo per preferire una ipotesi all’altra, ma varrà comunque la pena di sottolineare come la seconda ipotesi avrebbe il pregio di lasciarci immaginare uno scenario credibile per il nascondimento dei materiali nel 1527: un pozzo nero abbandonato e parzialmente riempito di materiali inerti avrebbe infatti costituito un nascondiglio ideale, nel quale magari calare, non necessariamente gettandoli, dei materiali, con l’intenzione di recuperarli in seguito. Le vicende successive, che evidentemente impedirono il recupero degli oggetti nascosti, e il mettersi in atto di meccanismi postdeposizionali importanti avrebbero poi alterato questo contesto originario, portando alla scomparsa di un eventuale contenitore in materiale deperibile (un cesto, un sacco?) e alla dispersione e frammentazione dei nostri reperti del gruppo principale.
Più facile è infine spiegare la presenza di materiali molto frammentari e pertinenti a numerosi manufatti diversi, che coprono un arco temporale lungo e certamente posteriore alla metà del XVI secolo. Le caratteristiche di questo gruppo mostrano palesemente come non si tratti di un riempimento di un pozzo di butto, quanto piuttosto di materiali sparsi che possono essere arrivati nella stratificazione superiore del pozzo a seguito dei movimenti di terra nel corso degli sterri e delle indagini archeologiche precedenti il nostro scavo e che la matrice fangosa in cui sono stati rinvenuti sia anch’essa – al pari di quella in cui erano inseriti gli altri nuclei di cui si è fin qui discusso – il prodotto di processi post-deposizionali, in particolare quelli legati al rialzamento della falda acquifera sotterranea in quel quartiere di Roma a seguito dei lavori di arginamento del Tevere condotti in età moderna e contemporanea.
In qualche maniera in relazione con la seconda ipotesi a proposito delle ciotole potrebbe stare anche la presenza del nucleo di ceramica da cucina, che ha per sua parte caratteri specifici (pezzi interi o interamente ricostruibili, varietà di forme, difficoltà nell’attribuzione di una cronologia precisa) che appaiono decisamente incompatibili con l’ipotesi di un nascondimento volontario. Se le ciotole segnassero la fine dell’uso del pozzo nero con la sua funzione originaria, la presenza di quella varietà di forme nella ceramica da cucina potrebbe spiegarsi con un uso diverso della stessa struttura, come punto di smaltimento del vasellame che si andava via via rompendo durante l’uso quotidiano (gli impianti sanitari erano spesso in vicinanza proprio delle cucine).
5. UN ELEMENTO RIFLESSIONE FINALE
DISSONANTE
E
UNA
In questa ricostruzione che, salvi tutti i limiti di un ragionamento basato solo su indizi, può essere considerata come lineare, c’è un elemento dissonante, che richiede quindi un supplemento di riflessione e che potrà costituire anche il punto di partenza per un ulteriore approfondimento.
Un’altra ipotesi plausibile è che la deposizione della ceramica invetriata da cucina possa essere il prodotto di uno sgombero di materiali frantumati proprio nel corso del saccheggio, quando non è difficile immaginare che proprio le pentole di una cucina potessero essere sospettate di contenere monete o preziosi, occultati al loro interno nella speranza di salvarli alla rapina.
Tra i reperti che per natura del manufatto originario e caratteri specifici di ciò che si è conservato potrebbero teoricamente essere collegati a un episodio di nascondimento ci sono almeno cinque grandi frammenti che, seppure non tutti contigui, appaiono evidentemente riconducibili a un unico esemplare di una scodella in ceramica smaltata, nella tecnica c.d. dello smalto “berettino”, con ogni probabilità di provenienza ligure.20 [FIG. 8] Il manufatto da cui derivano i nostri frammenti, per provenienza, qualità intrinseca e valore di mercato, si poteva connotare, nell’ambiente romano e magari in una fase precoce della sua diffusione, come una produzione di relativo lusso e la sua presenza nel
Questa ipotesi potrebbe apparire in prima battuta estensibile a praticamente tutti i materiali, esclusi naturalmente quelli dichiaratamente preziosi, che abbiamo rinvenuto nel nostro pozzo nero / nascondiglio. In realtà, si tratta di una spiegazione solo apparentemente semplice, perché, se così fosse, i materiali rinvenuti nel pozzo sarebbero un riflesso diretto di quelli in uso nella
19 Vale la pena di ricordare che nell’adiacente area della Crypta Balbi, con ogni probabilità in relazione con i lavori di ampliamento del Conservatorio di Santa Caterina databili intorno al 1630, venne realizzato un grande collettore fognario che correva in direzione S-N e che andava quindi a scaricare in un sistema che dobbiamo immaginare essere allestito al di sotto della Via delle Botteghe Oscure, su cui prospettava anche la casa cui era collegato il nostro pozzo nero; cfr. Tortorella, 1985. 20 Su questa produzione e sulla sua diffusione a Roma, in particolare nei contesti dell’area della Crypta Balbi, cfr. Ricci, Vendittelli, 2013, 314-326.
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nostro deposito potrebbe essere quindi ben spiegabile per l’appunto con la necessità di occultare gli oggetti che potevano attrarre l’attenzione dei razziatori sulle effettive possibilità economiche dei proprietari dell’abitazione cui il nostro pozzo nero era collegato, non diversamente dai due esemplari di produzione derutese di cui si è già trattato.
del ragionamento che ho fin qui presentato non poteva quindi non colpirmi il fatto che lo spartiacque cronologico assunto per la divisione tra i due volumi sia il 1530, o meglio la fine del terzo decennio del XVI secolo, che effettivamente rappresenta un cambiamento molto significativo nel panorama delle attestazioni della ceramica, soprattutto la maiolica, nei contesti da scavo di Roma. La coincidenza tra questo spartiacque evidenziato dagli studiosi e l’epoca del sacco dei Lanzichenecchi è troppo stretta per poter essere ignorata, ma le domande a questo punto sono nuovamente molte e interessanti. In primo luogo, si tratta di una casualità oppure no: o, altrimenti detto, i due fenomeni sono distinti o indipendenti oppure sono legati tra loro in rapporto di causa ed effetto?
La dissonanza sta nel fatto che, a differenza per l’appunto delle due scodelle derutesi, il nostro manufatto in smalto berettino dovrebbe datarsi nella seconda metà del XVI secolo, quindi diversi decenni dopo le vicende legate al sacco di Roma.21 Va da sé che la presenza di un manufatto più tardo in un contesto così articolato come quello che stiamo descrivendo non crea particolari problemi: come abbiamo visto, le condizioni per un possibile ulteriore utilizzo del pozzo come luogo di scarico ci sono tutte, così come è ampiamente possibile un inquinamento a posteriori del contesto archeologico a causa delle numerose azioni antropiche che si sono susseguite in quell’area.
E nel secondo caso, qual è il fenomeno su cui dobbiamo indagare? La cesura ceramologica del 1530 è un prodotto diretto dei comportamenti umani di allora, ovvero della devastazione operata dai saccheggiatori e dal tentativo di sottrarre manufatti preziosi e indizi pericolosi a quel saccheggio, che innescò all’indomani un ricambio della ceramica in uso e quindi un rinnovamento del panorama ceramologico? Oppure è un effetto indiretto dello stesso fenomeno e che dipende in realtà dal pensiero degli studiosi di oggi, che si trovano di fronte, magari inconsapevolmente, a una cesura determinata da un picco statistico di attestazioni, a loro volta originate da un anomalo concentrarsi di contesti di deposizione in un arco di tempo molto ristretto, proprio a causa di un fattore esterno quale poté essere il sacco di Roma, anche se magari nella stragrande maggioranza dei casi possono mancare indizi evidenti come quelli che ci hanno consentito di sviluppare una anatomia dettagliata del nostro contesto e degli istanti che contribuirono a conformarlo.
La vicinanza tipologica, dal punto di vista del reperto e non da quello del manufatto originario, del nostra scodella ai materiali che abbiamo pensato essere riferibili al sacco dei Lanzichenecchi invita però, se non alla prudenza, almeno alla riflessione circa la possibilità che le cose siano andate diversamente e che quel manufatto sia la traccia di una circolazione di quel tipo di ceramica sul mercato romano assai più precoce di quel che viene generalmente ritenuto.22 La discussione su questo punto non può evidentemente che rimanere aperta, ma sarà comunque interessante prendere in considerazione l’ipotesi che il manufatto che troviamo depositato nel nostro pozzo e che ora datiamo alla seconda metà del XVI secolo possa aver avuto in realtà una cronologia di produzione e circolazione più prolungata, che potrebbe essere cominciata anche prima del fatidico 1527.
Il tema mi pare particolarmente intrigante e quindi uno stimolo per ulteriori riflessioni e approfondimenti: è davvero un grande rimpianto non poterne più discutere con Sara.
Quest’ultima considerazione apre lo spazio per un’ulteriore ultima riflessione, che riguarda questa volta il modo in cui si formano e si formalizzano le griglie cronologiche che applichiamo alle nostre tipologie.
BIBLIOGRAFIA Cau Ontiveros, M.A., Reynolds P., Bonifay M., (edd.), 2011, LRFW 1, Late Roman Fine Wares. Solving problems of typology and chronology. A review of the evidence, debate and new contexts, (Oxford).
Lavorando alla stesura finale di questo contributo, ho ovviamente ripreso in mano i lavori fondamentali sulla circolazione della ceramica a Roma in età rinascimentale e moderna, e tra essi in primo luogo i due capisaldi rappresentati dai volumi sulla ceramica nel Museo Nazionale Romano – Crypta Balbi.23 Sulla base
Chastel A., 1983, Il sacco di Roma: 1527, (Torino). Fiocco C., Gherardi G., 1988, Ceramiche umbre dal Medioevo
Per la datazione di questa produzione cfr. Milanese, 1990, che discute, tra l’altro, un esemplare che reca la data 1568. Vale la pena di ricordare che la massiccia attestazione nei contesti provenienti dall’area della Crypta Balbi si riferisce all’ingresso di questa produzione tra le forniture destinate alle ospiti del Conservatorio di Santa Caterina (com’è certificato dai graffiti di proprietà presenti sul fondo di numerosi esemplari) e che potrebbe far riferimento quindi a un secondo momento della diffusione di questa produzione in ambito romano, quando queste ceramiche potrebbero aver perso almeno parzialmente il loro connotato di materiali di relativo lusso. 23 Ricci, Vendittelli, 2010, 2013. 21 22
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro allo Storicismo. Parte prima: Orvieto e Deruta, (Faenza).
Piergentili P.P., Venditti, G., (edd.), 2009, Scorribande, lanzichenecchi e soldati ai tempi del sacco di Roma : Papato e Colonna in un inedito epistolario dall’Archivio Della Valle-Del Bufalo (1526-1527), (Roma).
Furlan G., 2019, Dating Urban Classical Deposits. Approaches and problems in using finds to date strata, (Oxford). Manacorda D., 2001, Crypta Balbi: archeologia e storia di un paesaggio urbano, (Milano).
Ricci M., Vendittelli, L., 2010, Museo nazionale romano, Crypta Balbi, ceramiche medievali e moderne, I. (Milano).
Manacorda D., Zanini E., 1997a, “Il tempio di Via delle Botteghe Oscure: indagini stratigrafiche”, Ostraka 6, 249–293.
Ricci M., Vendittelli, L. 2013, Museo nazionale romano, Crypta Balbi, ceramiche medievali e moderne, II. (Milano).
Manacorda D., Zanini E., 1997b, Il tempio di Via delle Botteghe Oscure, Forma Urbis 3, 13–17.
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Milanese M., 1990, “La maiolica ligure cinquecentesca: un bilancio del contributo dell’archeologia”, in Castelli e la maiolica cinquecentesca italiana. Atti del convegno in Pescara, 22-25 Aprile 1989 (Pescara), 194–198. Pallottino E., 2013, “Architettura e patrimonio: secondo le “regole” della filologia. Roma: programma di valorizzazione dei resti della Porticus Minucia del Tempio di via delle Botteghe Oscure”, in Wulff Barreiro F., Guirnaldos Diaz M., (edd.), Arquitectura Contemporánea en el Patrimonio Histórico (Granada), 45-51.
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Fig. 1. I resti della struttura pozzo nero al momento dello scavo.
Fig. 2. La ceramica invetriata da cucina rinvenuta nel contesto.
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E. Zanini
Anatomia di un istante: la ceramica di un pozzo nero a Roma, il sacco dei Lanzichenecchi del 1527 e qualche idea sulle vite di un contesto archeologico
Fig. 3. Parte delle ciotole in maiolica tardomedievale rinvenute nel contesto.
Fig. 4. La maiolica rinascimentale rinvenuta nel contesto.
Fig. 5. Il candelabro in bronzo rinvenuto nel contesto.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro
Fig. 6. Scudo veneziano a nome del doge Andrea Gritti (1523-1538).
Fig. 7. Il salvadanaio rinvenuto nel contesto.
Fig. 8. I frammenti di una scodella in smalto “berettino” rinvenuti nel contesto.
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Liborio Stuppia
Le prospettive della Archeogenetica Abstract: In recent years, great interest has been devoted to the application of the new technologies of the Molecular Genetics to the study of ancient DNA. The availability of novel approaches, such as the Next Generation Sequencing, has provided very interesting information about the genetic profile of ancient humans, their phenotypic features and the migration of the different populations. One important example of the information that can acquired by using molecular genetics techniques comes from the data collected about the DNA of the Homo Neanderthalensis, which lived in Europe and was replaced by the Homo Sapiens about 30.000 years ago. In fact, DNA analysis have demonstrated that crossbreeding between Sapiens and Neanderthal occurred, but only between male Neanderthalensis and female Sapiens, as confirmed by the lack of Sapiens mitochondrial DNA in all the examines samples. A very few genes originally present in the Neanderthal genome have been fixed in the modern Sapiens DNA, but only in individuals living in Europe, non in Africa. These results demonstrate that the application of the study of DNA to the modern Archaeology could provide novel information and increase our knowledge about the history of humanity and the relationship between different species.
I progressi tecnologici fatti registrare negli ultimi anni da diverse discipline scientifiche hanno aperto la porta a possibilità di ricerche interdisciplinari fino a qualche decennio fa assolutamente impensabili. Un esempio di questo fiorire di nuove possibili interazioni scientifiche è dato dalla nascita di una nuova disciplina, la “Archeogenetica” in grado di applicare lo moderne tecnologie di analisi della Genetica Molecolare con la ricerca di tracce del passato tipica della Archeologia. Grazie a questa interazione, una disciplina tradizionalmente votata a guardare al futuro ed una tradizionalmente votata a guardare al passato si fondono nel generare un nuovo approccio scientifico in grado da un lato di fornire tecnologia allo studio dell’antico a dall’altro a donare umanità a un campo di studio troppo spesso portato a scivolare nel riduzionismo.
alcune patologie, ha una base culturale, prima ancora che tecnica. Archeologia e Genetica, infatti, insieme alla antropologia, sono le discipline che più di tutte le altro hanno permesso di ricostruire la storia della umanità, che è poi la nostra storia, la storia della nostra specie. La specie umana è una ed una sola, tutti noi siamo degli Homo Sapiens Sapiens. Le differenze morfologiche che riscontriamo nei diversi componenti di questa specie, come il colore della pelle o la variabilità dei lineamenti del volto, non permettono di identificare all’interno della specie Homo Sapiens Sapiens diverse razze. Nell’uomo le razze non esistono, benchè esistano i razzisti. Nelle specie animali in cui le razze esistono, le differenze sono tali da poter molto facilmente identificare i connotati di ogni specifica razza. Nei cani, ad esempio, tutti sono in grado di capire che tra un Pechinese e un Doberman esistono differenze che non si limitano al colore del pelo. Ci sono differenze di morfologia, di stazza e, da non sottovalutare, differenze caratteriali. Queste differenze sono geneticamente determinate, come è facile desumere dal fatto che se si incrociano due individui della stessa razza canina, i cuccioli apparterranno alla stessa razza.
L’Archeogenetica è stato il sogno più luminoso degli ultimi anni di carriera di Sara Santoro, un sogno nato dalla straordinaria opportunità di vedere lo stesso dipartimento rappresentante sia la Archeologia che la Genetica Medica. Infatti, nel corso di un processo il cui percorso ha più volte sfiorato la alchimia, ossia quello della costituzione del Dipartimento di Scienze Piscologiche, Umanistiche e del Territorio (in seguito rinominato di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio), esperienze fino a quel momento sconosciute le une alle altre si sono fuse in un crogiuolo virtuoso che ha fatto delle differenze scientifiche una risorsa, e non un limite.
Nell’uomo, le poche differenze morfologiche esistenti tra gli individui non sono riconducibili a differenze razziali, ma a differenze etniche, ossia sono legate alla regione geografica di origine della stirpe dell’individuo in questione. Dallo studio dei reperti scheletrici scoperti in secoli di ricerca, è stato possibile stabilire con certezza che l’Homo Sapiens Sapiens non è stato la prima specie umana a distaccarsi dai nostri antenati più prossimi, ossia
L’idea di Sara Santoro sulla possibilità di acquisire dalla genetica molecolare informazioni aggiuntive sui suoi reperti, quali la presenza di relazioni di parentela, l’origine etnica, la eventuale presenza di suscettibilità ad 737
Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro i primati. Tra lo scimpanzè e il Sapiens Sapiens, infatti, sono esistiti, per poi estinguersi, altri ominidi, quali l’Homo Abilis, l’Homo Erectus e l’Homo Neanderthaliensis. Queste specie, però, non rappresentano un continuo in cui ogni specie deriva da quella precedente. Al contrario, le diverse specie sono apparse in momenti diversi e in luoghi diversi nella storia dell’umanità, e spesso non si sono nemmeno incontrati (o almeno questo è quello che si pensava fino a qualche tempo fa…). La nostra specie, i Sapiens, apparve in Africa tra 400.000 e 100.000 anni fa. Il primo Sapiens, pertanto, era di colore. In Africa avere la pelle scura, infatti, rappresenta un vantaggio, non tanto, come si pensa spesso, perché la pelle scura protegge dal sole, quanto perché la pelle scura protegge i danni indotti dal sole ai folati che circolano nel sangue. I folati altro non sono che vitamine che hanno un formidabile effetto protettivo sulla capacità riproduttiva delle persone (tant’è che tuttora vengono prescritti alle donne in gravidanza), e quindi, ovviamente, quanto più la presenza di pelle nera aumentava e la capacità di riprodursi, tanto più si riproducevano gli individui di pelle scura, che a loro volta generavano altri individui di pelle scura.
come nel caso dell’India o della Australia, ma generarono cambiamento del colore della pelle e dei tratti somatici quando i migranti si spingevano in regioni più a Nord, come nel caso della Cina o della Mongolia. In sintesi, l’Homo Sapiens Sapiens apparve in Africa più o meno 200.000 anni fa, era nero di pelle, e tale rimase fin quando, 100.000 anni fa, iniziò a migrare. I Sapiens che si spostarono verso l’Europa, progressivamente, assunsero il colore bianco della pelle. In questo viaggio, tra 70.000 e 30.000 anni fa, i Sapiens Europei si imbatterono in un’altra specie umana, i Neanderthal, da cui quindi non discendevano affatto, ma con cui hanno condiviso il territorio europeo fino a rimpiazzarli definitivamente circa 30.000 anni fa. Perché si estinsero i Neanderthal è tuttora un mistero, certo è che questa specie era sicuramente meno evoluta dei Sapiens. Non siamo ancora certi se fossero in grado di articolare qualcosa di simile a un linguaggio, né se avessero capacità di astrazione. Da poco è stato scoperto che avevano la consuetudine di seppellire i loro morti, e quindi erano verisimilmente capaci di elaborazioni rituali. È possibile che i più evoluti Sapiens li abbiano sterminati, o che fossero immunologicamente più vulnerabili a patologie portate in Europa dai Sapiens ma precedentemente inesistenti nel nostro continente. Da qualche anno, però abbiamo una informazione in più, fornita dalla archeogenetica, e dalla grande rivoluzione consentita a questa disciplina dall’uso di tecniche in grado di analizzare anche un DNA molto frammentato e degradato, come ovviamente è quello che possiamo trovare in reperti di decine di migliaia di anni fa. Studiando il DNA di questi uomini antichi, infatti, noi possiamo in qualche modo ricostruire alcune loro caratteristiche in maniera molto più precisa di quanto permesso dai classici studi di antropologia. Analizzando le sequenze del DNA, infatti, noi possiamo verificare quale assetto avessero i geni deputati a determinare il colore degli occhi, o dei capelli, e possiamo quindi ricostruire l’aspetto fisico del reperto che stiamo analizzando anche partendo solo da un frammento osseo. Possiamo stabilire se questi individui avessero una certa suscettibilità ad alcune patologie, quali fossero le relazioni di parentela tra reperti identificati nella stessa zona, identificare la loro origine etnica. Grazie a queste nuove possibilità, si iniziano a scoprire nuove e interessanti cose. Accade così, ad esempio, che nel 2014 su Nature viene pubblicato un articolo che dimostra come, analizzando i resti di un tipo di Sapiens vissuto 7.000 anni fa, si osserva che questi soggetti avevano una particolare combinazione di pelle scura e occhi chiari che negli Europei attuali non esiste più. L’evoluzione fa esperimenti, va a tentativi, e i prototipi che non risultano vincenti si estinguono, come questo Sapiens del Mesolitico. Il Neanderthal però non era un esperimento, era una specie che fino all’arrivo del Sapiens aveva rappresentato la specie più evoluta nel continente Europeo. Ed è proprio dalla analisi
Casualmente alcuni soggetti di pelle bianca nascevano di certo, e lo sappiamo perché tutt’ora è possibile che in africa nascano individui albini, ossia individui che hanno mutazioni genetiche che non fanno produrre il pigmento scuro della pelle. Gli individui di pelle chiara, però, erano svantaggiati nella riproduzione, perché i loro folati erano meno protetti, e pertanto nel passaggio delle generazioni progressivamente questo carattere si estingueva. Tutto cambiò quando alcuni Sapiens dall’Africa intraprendono processi di migrazione verso l’Europa e verso l’Oriente, spinti dalla necessità di trovare territori più ospitali e nei quali fosse più possibile praticare la agricoltura. I Sapiens che migrarono verso l’Europa, si trovarono ad affrontare condizioni climatiche decisamente diverse da quelle della loro regione di origine. Nel Nord Europa, in particolare, la durata e la intensità della esposizione al sole erano molto minori, e quindi gli individui di pelle chiara che casualmente venivano generati per via di nuove mutazioni non presentavano alcuno svantaggio riproduttivo rispetto ai neri. Anzi, in realtà nel Nord Europa avere la pelle chiara era un vantaggio, in quanto la possibilità che il sole penetrasse l’epidermide permetteva la fissazione della Vitamina D e quindi la prevenzione del rachitismo, altra patologia che comportava, a quei tempi, una drammatica riduzione della fitness riproduttiva. Per questo motivo, man mano che ci si sposta verso il Nord dell’Europa le popolazioni diventano sempre più caratterizzati dalla presenza di pelle chiara e occhi azzurri. Le migrazioni verso oriente non portarono mutazioni del colore della pelle quando interessarono zone comunque equatoriali, 738
L. Stuppia
Le prospettive della Archeogenetica
del DNA dei resti del Neanderthal e del Sapiens Europei che giunge la vera sorpresa. Si scopre infatti che nel DNA dei Sapiens ci sono tracce di alcune sequenze del DNA dei Neanderthal, ma solo nei Sapiens europei, non in quelli africani. Questo può significare solo una cosa: Neanderthal e Sapiens non solo si sono incontrati in Europa, ma sono intervenuti rapporti tra alcuni di loro che hanno generato dei figli, che hanno tramandato il DNA delle sue specie, solo che col passare dei millenni è rimasto molto del DNA di Sapiens e molto poco del DNA dei Neanderthal, che evidentemente presentava dei geni meno capaci di fornire capacità di adattamento all’ambiente.
antico che tanto avrebbe affascinato la collega e amica Sara Santoro. Alla sua persona, nel ricordo della grande scienziata e grande donna che era, è dedicata la storia che abbiamo raccontato.
BIBLIOGRAFIA Cavalli Sforza L. Geni 1996, popoli e lingue. 1996. Olalde I, Allentoft ME, Sánchez-Quinto F, Santpere G, Chiang CW, DeGiorgio M, Prado-Martinez J, Rodríguez JA, Rasmussen S, Quilez J, Ramírez O, Marigorta UM, Fernández-Callejo M, Prada ME, Encinas JM, Nielsen R, Netea MG, Novembre J, Sturm RA, Sabeti P, Marquès-Bonet T, Navarro A, Willerslev E, Lalueza-Fox C. 2014. Derived immune and ancestral pigmentation alleles in a 7,000-year-old Mesolithic European. Nature. 2014 Mar 13;507(7491):225-8.
Ma le sorprese non finiscono qui. Questi incroci tra Neanderthal e Sapiens non avvengono casualmente, ma sempre seguendo un preciso modello: la riproduzione avviene solo tra uomo Neanderthal e donna Sapiens, mai al contrario. Come facciamo a saperlo? Perché le donne quando si riproducono trasmettono non solo il DNA nucleare, come fanno gli uomini, ma anche il DNA mitocondriale, ossia il DNA citoplasmatico presente negli organuli detti mitocondri. Il DNA mitocondriale di ognuno di noi, dunque, è sempre materno mai paterno. Ebbene, mentre nel DNA dei resti analizzati noi troviamo DNA nucleare del Neanderthal e mitocondriale dei Sapiens, i DNA mitocondriale del Neanderthal non viene mai trasmesso. Le donne Neanderthal, quindi, non fanno figli con gli uomini Sapiens. Perché? La risposta più plausibile è tanto semplice quanto brutale. Per i Sapiens, la donna Neanderthal era poco più di una scimmiona, sicuramente meno attraente di una Sapiens, e quindi non era oggetto di corteggiamento. Al contrario, per i Neanderthal la donna Sapiens doveva apparire molto bella e desiderabile. Si potrebbe obiettare che anche per la donna Sapiens l’uomo Neanderthal non fosse certamente un modello di bellezza. Purtroppo, come la storia e la cronaca ci insegnano, i rapporti tra uomini e donne non sono sempre consenzienti. In altre parole, l’uomo Neanderthal, tozzo ma forte, poteva abusare della donna Sapiens, mentre l’uomo Sapiens non aveva alcun interesse ad abusare della brutta donna Neanderthal, e così le uniche coppie a riprodursi erano quelle composte da un uomo Neanderthal e da una donna Sapiens.
Gibbons A 2016. Human evolution. Five matings for moderns, Neandertals. Science. 2016 Mar 18;351(6279):1250-1. Gibbons A 2017. Neandertals mated early with modern humans. Science. 2017 Jul 7;357(6346):14. Sriram Sankararaman, Swapan Mallick, Michael Dannemann, Kay Prüfer, Janet Kelso, Svante Pääbo, Nick Patterson & David Reich 2014. The genomic landscape of Neanderthal ancestry in present-day humans. Nature 2014, Mar 20; 507: 354–357.
Cosa hanno lasciato nel nostro genoma Sapiens i Neanderthal? Pochi geni, ma utili a sopravvivere a latitudini fredde, quali alcuni geni capaci di aumentale la forza muscolare ed altri in grado di garantire un ispessimento della cheratina della pelle che offriva più protezione dal freddo. Le analisi del DNA dei resti dei Neanderthal, pertanto, ci hanno insegnato molto di più di quello che potessimo attenderci, e hanno gettato nuova luce sul nostro passato. La prosecuzione di questi studi porterà a nuove conoscenze, in un virtuoso congiungersi di nuovo e di 739
Vasco La Salvia
Sensi e metallurgia: Organi della percezione e valutazione tecnica nel periodo della rivoluzione scientifica. Nuove riflessioni intorno ai filosofi e le macchine Abstract: The late 15th century and 17th century witnessed a radical change in the concepts of physical reality, scientific investigation and craftsmanship. In this period the foundations were laid for science, technical development, experimentation and craft production ceasing to be separate worlds and becoming part of the same economic and cultural horizon. This short contribution examines this question, highlighting its complexity, non-linear development and the difficulties of communication between “craft and philosophers,” due primarily to the slowness and difficulty in discovering and manufacturing precise measuring instruments that could be applied to industrial production.
Platone ed Aristotele frequentavano l’accademia di Atene. Questo edificio è collocato su di un lato dell’Agorà, ossia della piazza del mercato. È lontano il più possibile dall’Herculaneum, il tempio dedicato alla divinità del fuoco, al patrono di coloro che lavorano i metalli. Si trova proprio “da tutt’altra parte.” Fedeli a questa distinzione di classe, noi conosciamo qualcosa della geometria greca e degli insegnamenti dei filosofi. Chi sa qualcosa sulla metallurgia greca? Eppure forse le divinità ci parlano alla loro maniera. Di tutti gli edifici che un tempo ingentilivano l’Agorà di Atene, solo uno persiste saldo come sempre è stato, non scalfito dal tempo o dalle ricostruzioni. È il tempio dei metallurgisti. La Accademia crollò tanto tempo fa. È stata ricostruita –impiegando in parte il denaro guadagnato nelle fabbriche siderurgiche di Pittsburgh.1
livello di approssimazione ormai incompatibile con la precisione richiesta dal livello di uniformità al quale si intendevano far giungere tanto la scienza e quanto la tecnica.2 L’organolessi, infatti, non è in grado di andare oltre le distinzioni macroscopiche e qualitative della realtà corporea, senza mai perciò cogliere la struttura discreta della materia. La tesi sostenuta in questo breve contributo, tuttavia, è che nonostante l’immane sforzo teorico effettuato dai grandi esponenti del pensiero scientifico (fra cui Galilei e Bacone) e dagli stessi colti maestri d’officina (tra i quali Agricola, Biringuccio, Neri), la produzione rimase pressoché esclusivamente legata al sapere artigianale cresciuto nell’oralità delle officine, assecondando ancora per lungo tempo le inclinazioni empirico-manuali dei maestri e dei loro apprendisti. La lunga durata dei processi tradizionali della produzione artigiana fu, dunque, in gran parte dovuta al fatto che mancò, accanto all’elaborazione teorica della geometria, della fisica e della meccanica, la parallela realizzazione di un apparato di strumenti di misurazione applicati alla produzione che consentisse di incamerare nella macchina le capacità tecniche, fino ad allora incorporate nell’artigiano, rendendole così ripetibili indefinitamente e di misurare i processi di trasformazione della materia in maniera indipendente rispetto alle sue stesse ‘qualità secondarie.’ La regola baconiana, espressa nel Nuovo Organo ovvero che quello che nella teoria fa da causa nella operazione tecnico-pratica diviene regola, non raggiunse, dunque, un’immediata piena applicazione.3
In Europa tra il XVI ed il XVII secolo si manifestano, senza dubbio, numerosi elementi che indicano una svolta in atto nello sviluppo della scienza e della tecnica. Si assiste, infatti, al processo di fondazione critica di un pensiero tecnico-scientifico che si rende conto di essere privo della possibilità di comunicare, esprimere e trasmettere al futuro in modo univoco le esperienze realizzate. Questo fatto, che inevitabilmente, veniva avvertito come un impedimento all’accumulazione del sapere e, quindi, come un effettivo intralcio al progresso, iniziava così a mettere in dubbio la grossolanità della percezione sensibile sulla quale fino ad allora si basava la pratica dell’arte e che, variando da individuo ad individuo e nel tempo, cominciava ad essere ritenuta portatrice di un
Hacking 1983, 178-79. Per i concetti qui sopra espressi e per quanto riguarda la Rivoluzione Scientifica, una sua definizione, il rapporto fra pratici (artigiani/artisti) e teorici (scienziati/filosofi), e l’insieme dei progressi tecnico-empirici realizzati in quel periodo, vedi i classici Stabile 1990, 245-46; Ferrone and Rossi 1994; Farrington 1980, in particolare, 27-35; Rossi 1984, specie, 11-32, 44-67; Dijksterhuis 1980, 293-670; Wootton 2015. 3 Bacone 1965, vol. I, lib. 1, aforisma 3, 257. 1 2
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Non è dubbio alcuno, che il vetro è uno dei veri frutti dell’Arte del fuoco, poiche molto si assomiglia ad ogni sorte di minerale, & mezzo minerale, quantunque sia un composto e dall’Arte fatto. Ha fusione nel fuoco; & permanentia in quello, anzi à guisa del perfetto e lucido metallo dell’Oro, nel fuoco si affina, pulisce, & fassi bello.7
La “rivoluzione copernicana” dei mezzi e dell’organizzazione della produzione arriverà, così, più tardi, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, con la Rivoluzione Industriale (di cui certamente quella scientifica costituisce il presupposto teorico), quando il veicolo di crescita economica dominante divenne l’energia di origine minerale, che grazie all’elevato aumento nella disponibilità della stessa energia rispetto ai sistemi economici precedenti, eliminò la dipendenza diretta del lavoro dalla capacità produttiva della terra.4 É, quindi, soltanto il passaggio dallo strumento artigiano alla macchina utensile a segnare un completo rivolgimento tecnico che, incorporando nello strumento le capacità di produrre abilità, rende eccedente e soppianta l’abilità manuale acquisita dai maestri artigiani nel corso dei secoli. Esso solo comporta la demolizione dei secolari rapporti sociali di produzione e la rottura definitiva con la tradizione.5
Le arti ed i mestieri sono, dunque, in un certo senso incapaci di costruire un linguaggio unico e comune pur quando si tratti di tecniche produttive contigue. Il lavoro di bottega rimane chiuso in un ambito separato dal resto della società e dalle stesse limitrofe officine; l’abilità lavorativa acquisita attraverso un rigoroso e continuo esercizio si è venuta costituendo in un sapere fisicamente memorizzato nella mano, e negli utensili che di essa sono il prolungamento, e che però non è in grado di elaborarsi in teoria.8 Per cui si impara attraverso l’osservazione e la pratica. Pochissime sono le spiegazioni verbali, in quanto questo sapere operativo non concepisce il discorso tecnico come momento separabile, indipendente, preliminare o successivo all’operare.9 Viene, cosi, sedimentandosi un patrimonio di conoscenze tecnico-empiriche, acquisito attraverso l’apprendistato e l’abitudine, che ha come suo fulcro un’inscindibile unità, costituita da un lato dagli strumenti di lavoro e, dall’altro, dall’artigiano stesso che è l’unico in grado di farli funzionare. In questo ambito, il pensiero tecnico guida l’azione, diversifica le strategie, identifica e combina fenomeni e fattori nel campo del lavoro, sviluppa ipotesi, fa diagnosi, e trova soluzioni a “situazioni problematiche,” basandosi, costantemente, su una sorta di produzione ‘metaforica’ che consente di operare sull’oggetto, sulla materia. In questo caso, la ‘metafora’ va intesa come quello strumento pratico-concettuale che permette di predire e rappresentare l’impatto che il gesto, la postura, l’attività dell’uomo avranno sullo strumento, sul materiale di lavoro, sul prodotto finito o sul proprio corpo nel corso del processo di fabbricazione.10 Un’attività interamente legata alla fisiologia dell’artigiano che conosce come unici elementi esterni al corpo gli utensili utilizzati durante il lavoro.
Gli esempi di questo tipo di valutazione tecnica fondata sull’organolessi sono presi dalla trattatistica della prima Età Moderna che presenta, per la prima volta in forma scritta, le tecniche specifiche di determinate branche dell’artigianato: in particolare, sono state utilizzate le opere sulla lavorazione dei metalli di Biringuccio e sulla lavorazione del vetro del Neri. Vetro e metallo non sono, infatti, tecnologicamente distanti: i comuni requisiti fisico-mecanici dei metalli fanno si che essi vengano a costituire un bloc technologique nell’accezione dell’antropologo francese Leroi-Gourhan, ovvero sia un insieme di materiali che grazie alle loro caratteristiche fisico-chimiche rispondono alla manipolazione imposta dall’uomo secondo percorsi tecnici determinati. Grazie a questo raggruppamento tecnico-funzionale è possibile capire per quale motivo il vetro nell’antichità, nel medioevo ed ancora nell’età moderna, venisse classificato insieme ai metalli.6 Questa nozione di comunanza tecnica fra le procedure produttive dei metalli e del vetro, basata sul fatto che tutti questi materiali subiscono artificiali modifiche a causa dell’azione del fuoco (la cosiddetta pirotechnia), è di natura del tutto empirica e poco ha a che fare con una reale indagine e comprensione delle modificazioni imposte dal calore alla struttura cristallina delle relative materie prime (in realtà fra loro assai differenti da un punto di vista chimico-fisico), e viene espressa chiaramente dal prete ed artigiano fiorentino Antonio Neri nelle pagine iniziali della sua opera sull’arte vetraria:
Proprio nell’opera di Biringuccio è possibile riscontrare una costante tensione fra una chiara tendenza verso la strutturazione di un nuovo sistema produttivo e, allo stesso tempo, i numerosi problemi tipici del modo di
Tesi brillantemente sostenuta da in Wrigley 1992, 24-25, 31-33, 35, 38-39. Assecondando una lettura materialista ciò è ben descritto in Lenin 1956, 457-458; vedi anche Giannichedda 2006, 58, 167-68, 195-203; La Rosa, Rizza, Zurla 2013, ad esempio, 56-60. 6 Leroi-Gourhan 1993, 117; Mohen, 1990, 18; La Salvia 2000, 18; Giannichedda 2006, 22. 7 Barovier Mentasti R. 1980, pp. n.n. 8 Stabile 1990, 258, 264, 268-270; Mannoni e Giannichedda 1996, 8, 12-13, 47. 9 Angioni 1986, 95; inoltre, sullo stesso argomento si veda anche Ong 1990, 72; Stabile 1990, 271 ove si sottolinea che: «Il precetto orale non è l’enunciato formale di una teoria ma la idiomatizzazione della pratica: se privato della contestuale e simultanea applicazione al caso concreto perde gran parte della sua efficacia comunicativa e dialettica … La verbalizzazione delle pratiche tecniche è spesso affidata a formulazioni brevi, di struttura aforistica e ammonitiva, molte volte sotto forma di formule ripetute, di proverbi o di prosa ritmata». 10 Salmona 1983, 81; Sigaut 2012, 7-8; Mannoni e Giannicchedda 1996, 6, 12-14. 4 5
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produzione artigianale legati alla mancanza di uniformità nelle procedure di produzione e di sistemi “assoluti” di controllo.11 Per quel che concerne la produzione delle armi da fuoco, ad esempio, la questione tecnica di più complessa soluzione risultava essere l’eliminazione delle differenze nella procedura della produzione fra i diversi maestri d’officina nonostante l’identità della materia prima trattata. Come scrive Biringuccio:
del combustibile.16 D’altro canto, sempre attraverso le stesse pagine della sua opera, tuttavia, è possibile rendersi conto di quanta libertà ancora godesse ogni singolo artefice all’interno della propria officina nel corso dell’applicazione delle operazioni produttive, fatto che conduceva ad una completa mancanza di uniformità tanto nella produzione quanto, di conseguenza, nei prodotti finiti.17 Variabilità e disomogeneità nell’attuazione delle procedure di produzione che lo stesso autore rimarca essere una costante a proposito, ad esempio, della fabbricazione dei modelli per la colata:
Ogni maestro di qualsivogli arte che sia per far la sua opera più facile sempre tira a quel camino che gli ha imparato, o a quello chel suo ingegno o buon iudicio per miglior gli demostra, & in questo del far dele forme dele artigliarie, benche varii li modi … pur quasi di tutte una medesima via si cammina.12
& questo da maestri hor e chiamato maschio & hora anima,& in farlo chi tiene una via & chi un’altra ogni homo camina secondo el suo cosi haver imparato, over secondo el iudicio, o chel suo ingegno gli detta,18
L’uso del termine quasi è certamente indicativo di un modo di produzione caratterizzato da un notevole livello di “approssimazione” per il quale misure, calcoli ed uniformità della procedure produttive non sempre coincidono.13 Proprio nel quadro dell’attenzione a questo valore tempo-misurazione, è possibile riscontrare un elemento di profonda differenza fra la produzione artigianale e quella industriale. Infatti, sia quando questo valore venga inteso come tempo=strumento di misurazione assolutamente precisa delle diverse operazioni tecniche, sia quando invece, lo si consideri come semplice misura della quantità di tempo che un singolo artigiano può spendere intorno ad una sola opera, esso è comunque funzione della discrezione dell’artigiano;14 al contrario, come detto, in un sistema produttivo di tipo industriale questo valore è appannaggio dei tempi di lavoro della macchina, precisi e prestabiliti.
e ancora affar questa susa diverse vie, ogni maestro fa quela che fa o che piu gli par breve.19 Anche per quanto riguarda misure e calcoli, ed in particolare intorno ad un’importante innovazione, quale la scala campanaria, è chiaro che persino nella fase progettuale della manifattura, la matrice empirica del saper fare contende la supremazia nell’azione ad un operare fondato, invece, sull’astrazione “extrasensoriale,” ovvero, in questo caso, geometrica; l’autore scrive: E stato trovato dali maestri campanari piu per sperientia che per geometricha ragione anchor che essa ragione la visia dele campane si grandi come picchole una certa misura, … dele quali infra di loro ne hanno fatto regola el’han chiamata la scala campanaria … che e gran luce non havendo di campana fatta altro riscontro…& per far questo hanno preso per loro guida & fondamento l’orlo della campana che far vogliano, cioe qual luocho dove perche la suoni percuote con la matarozza el battaglio… e con le forze dele misure dela scala & col vostro buon giudicio e arte del disegno lhavrete a vagha e garbeggiante… 20
Dunque, ancora una volta, si presenta un’apparente contraddizione che scorre lungo il sottile filo teso fra innovazione e tradizione. Infatti, da un lato va sottolineato come Biringuccio consigliasse comunque un uso continuo della bilancia,15 e come fosse certo che ogni risultato ottenuto durante l’assaggio dovesse poi ottenersi anche su una più ampia scala, avendo così stabilito i principi per una chimica quantitativa ed affermato l’esistenza di proporzioni fisse fra i diversi componenti per determinate reazioni. La bilancia e la penna per appuntare pesi e misure appaiono nell’ottica di Biringuccio altrettanto importanti per una buona riuscita della lavorazione della qualità della fornace e
ed ancora
La Salvia 2000a, 14. Carugo 1977, f. 83 v. 13 Koyré 1992, 87-111. 14 La Salvia 1997, 51; Giannichedda 2006, 31-46. 15 Guareschi 1903-04, 441; La Salvia 2000a, 14-15. 16 Smith e Teach Gnudi 1942, xvi. 17 Variabilità che trova una inequivocabile e diretta conferma anche nel record archeologico come si evince da La Salvia 2007, 119-22; Neri 2006, 119-71; Lusuardi Siena and Neri 2007. 18 Carugo 1977, f. 78r. 19 Carugo 1977, f. 87r. 20 Carugo 1977, f. 94r. 11 12
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro Azzalino bello, e buono della Inf.e qualità cioé, alla martellina, all’usanza spagnuola, ó vero alla Romana, cavando uno di questi alla Sorte, ed in oltre d.° tale, che pretenderà d’esser ammesso p. maestro come s.ª dovra cavar dal foro, e far un vidone, ó sia fondello di canna, e invidarlo sopra una Canna, e ritirare puntualm.e essa Canna á giudit.e de detto Abb.e e Sindici, e d.° tale facendo bene, ó male tal operat.e dovrà in ogni caso sempre pagare l’imortanza del carbone ed altro, che havera consumato al padrone della bottega, et in caso che sij meritevole d’esser ammesso p. maestro, dovra pagare una volta tanto il parattico a d.ª Unità nella mani del suo Thes.e lire quaranta impe(riali) ...24
Come dela scala campanaria v’ho detto non sene puo dar terminata regola, cosi ancho vi dico dei battagli.21 Non vi è dunque, alcuna certezza positiva della possibilità di costituire un canone uniforme oltre l’esperienza sensibile: l’effettivo esempio di una campana già costruita viene, infatti, considerato un modello altrettanto valido della scala campanaria cui conformarsi in vista della produzione. Queste citazioni sembrano, dunque, provare che il livello qualitativo della produzione artigiana rimaneva legato sostanzialmente alle abilità lavorative che il singolo artefice acquisiva attraverso una lunga consuetudine empirica all’interno della bottega. Infatti, come sottolineato da Pistofilo Bonaventura nella sua Oplomachia:
Ancora, i seguenti passi di Biringuccio e di Bossi, che insistono sulla medesima questione, chiariscono ulteriormente questa tematica dell’impermeabilità dell’arte— certamente non perfetta ma sicuramente auspicata dalle consorterie artigiane— nei confronti del resto della società:
Niuno si può dire eccellente nella sua professione, se non sà bene adoperare tutti gli stromenti necessari ad essa.22 L’ambito della pratica dell’arte era conseguentemente ancora pensato come un “mondo chiuso” che teneva le proprie procedure tecniche rigorosamente segrete: numerose sono le testimonianze che riguardano ricette segrete, fonti miracolose, minerali velenosi, che sarebbero stati usati dagli artigiani per ottenere oggetti di elevata qualità. Finché la produzione si è basata sulle sole capacità empirico-tecniche degli artefici, infatti, numerosi erano i fattori che potevano provocare variazioni anche sensibili nella qualità del manufatto. Il sapere artigianale, acquisito con grande fatica e tenuto segreto, e la trasmissione orale e gestuale della tradizione così assimilata, sono anche in questo caso la migliore spiegazione della invariata costanza di numerosi procedimenti tecnici attraverso i secoli.23 Gli Statuti degli Armaioli milanesi ancora nel XVII sec. costituiscono e provvedono un eccellente esempio di questa concezione dell’arte come “universo chiuso,” a sé stante, geloso e conservatore delle proprie tradizioni: infatti è praticamente impossibile divenire artigiano provenendo dal “mondo esterno” e, soprattutto, senza aver dato prova della propria abilità manuale:
& tanto piu quanto tal arte & esercitio e pocho noto alla persone, per il che non la puo, chi quasi non vi nasce dentro, overo chi non e di molto ingegno & gran iudicio;25 quelli, che ricercano di mettere in essecutione detta inventione, sono più tosto gente di bello spirito, che di pratica & esperienza; perche molte cose l’ huomo s’ imagina, che siano riuscibili, che quando si vogliono metter in uso, si trovano piene di difficultà & imperfettione. ... il che à me è intervenuto più e più volte nel fare esperienza.26 Ancora, la descrizione del processo della tempra dell’acciaio di Biringuccio non lascia dubbi in proposito: essa mostra, infatti, che l’artigiano nel corso della valutazione dell’andamento dell’operazione, fa esclusivo riferimento alle sue conoscenze empiriche che controlla basandosi su indicazioni qualitative, come l’osservazione dei diversi colori assunti dalla superficie del metallo durante la forgia che valgono come altrettante informazioni essenziali per individuare la corretta successione delle fasi necessarie al completamento dell’operazione tecnica:
Dell’admissione de’ Maestri. Cap. 6. Si statuisce ed ordina..., che no si possa per l’avenire admettere niuno p. Maestro se prima no haverà esercito p. lavorante con uno del d.° parattico p. tre anni, et se no sarà prattico, et habile, al quale effetto dovrà far prima la prova della sua idoneità vanti dell’Abb.e et Sind.i in quella bottega, che sarà da loro destinata e fare un
Ha ancora in sé questa arte alcuni secreti come ... sonno diverse tempere d’acqua, sughi d’erbe, o oli, come anchora quelle delle lime, e in le medesime cose,
Carugo 1977, f. 98v. Bonaventura 1621, 3. Ffoulkes 1912, 13; Wolf and Mauro 1962, 77; V. La Salvia 2000a, 14-15. 24 Gelli 1905, 48. 25 Carugo 1977, f. 75v. 26 Bossi 1626, pp. 78-79. 21 22 23
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e nell’acqua comuna è di bisogno intenderle bene li colori che [il ferro] fredando dimostra e getta. De quali secondo li lavori, e ancho secondo la finezza de l’acciaio è di bisgono nel fredare vederla di saperla bene pigliare. Perché il primo che ci si dimostra quando lo spegni infuocato è biancho el chiamano argento, el secondo è giallo come oro el dicano oro, el terzo è azurrigno e pavonazzo el chiamano viola, el quarto è cennarigno nel termine delli quali secondo che gli volete di tempera più o meno duri gli smorzate, e volendolo durissimo scaldate el vostro ferro bene e nelle tempere che havete preparato o in acqua chiara fredda a un tratto dentro ve lo smorzate, è anchora secreto el tocchare che si fa dove volete temprare quando el ferro è caldo con savone, o con la ponta d’un corno di castrato per fare che meglio scopra quando è in el termine a ponto del suo colore .27
Lo stesso Biringuccio ci fornisce un esempio che coinvolge un altro senso, il tatto:
La tempra, dunque, fin dai tempi omerici ritenuta la causa della durezza del ferro,28 veniva effettuata attraverso l’uso di procedure che tenevano inconsapevolmente sotto controllo le “variabili quantitative” della temperatura (il fuoco della fornace) e del metallo, grazie soltanto alla abilità empirica acquisita dall’artigiano nel corso del tempo e che gli permetteva di riconoscerle attraverso “spie qualitative” e, conseguentemente, di agire, seppure indirettamente, su di esse.29 Infatti, l’andamento di questa stessa operazione, che serve a ridurre la durezza del metallo mantenendone le tenacia, è controllato mediante la valutazione-esame del colore (“spia qualitativa”) assunto dalla superficie del ferro nel corso del processo di forgiatura effettuato attraverso numerosi e successivi riscaldamenti e raffreddamenti. Il risultato di tale procedura termo meccanica sulla struttura del ferro può essere “tradotta”nella seguente corrispondenza colore-temperatura:30
Inoltre, nel corso della preparazione dei sali per la produzione dei cristalli, Antonio Neri presenta l’azione sensibile del gusto e della vista come parte delle procedure di valutazione tecnica dell’operazione produttiva:
Lequali cennare cosi lunna come laltra che vogliate pigliare si mettano in un capistero o altro vaso di legno o daltra materia, & fatta humida con alquanto dacqua, & con essa sempre maneggiandola si ha da condurre a tanta humidita che presa in pugno & stretta si sustenga bene insieme.31 La consistenza della argilla diviene così una sorta di attributo, una qualità che si crede essere essenzialmente inerente all’oggetto stesso ovvero, una caratteristica che esiste in quanto riconosciuta dall’artefice che è l’unico in grado di valutarla ed utilizzarla come parametro di valutazione di conformità.32
La cenere di Soria si vagli con vaglietto fitto, acciò i pezzetti non passino: ma solo la cenere la rocchetta si pesti in pile di pietra, e non di metallo, perche piglia il suo colore, con pestoni di ferro, & simile la soda di Spagna, e si vaglino con vaglietto fitto che in questo consiste il cavarne più, o meno sale. Nel comprare l’una, e l’altra si avverta che sia copiosa di sale: questo si conosce a toccarla con la lingua, per sentire, come sia salata; ma più sicuro modo di tutti, e farne il saggio in un corregiolo, & vedete come comporta assai rena, ò tarso, cosa volgare nell’arte, e che i conciatori sanno benissimo,33 ed ancora questo si reiteri fino l’acqua habbi cavato tutto il sale, che si conosce quando al gusto l’acqua non è più salata, & a l’occhio non è più carica di colore.34
Temperature in C° - Colore - Uso – 220-250°C raschietti
giallo
r a s o i ,
– 250-270°C ceselli per legno
marrone
asce
– 270-290°C coltelli
porpora
spade,
– 290-330°C pietra
blu seghe, ceselli per
Tuttavia, è importante notare che Neri assume anche la possibilità di esperire le qualità del sale mediante un’indagine sperimentale, ovvero pratica delle qualità del sale prodotto: la valutazione empirica del prodotto può quindi sostituire l’organolessi.
e
L’osservazione diretta delle procedure di produzione per una valutazione dei risultati è, dunque, esclusivamente basata su un sapere empirico che non conosce
Carugo 1977, f. 137r e 137v. Omero, Odissea, vol. III, libri IX-XII, vv. 391-93, 34-35: Come quando un fabbro immerge una grande scure/o un’ascia nell’acqua fredda con acuto stridio/ per temprarle - ed è questa la forza del ferro -/... 29 La Salvia 1997, 32; La Salvia 2000b, 166. Sullo stesso argomento Lévi-Strauss 1964, 27; Mannoni e Giannichedda 1996, 13-14. 30 Healy 1978, 234; V. La Salvia 2000b, 166-67. 31 Carugo 1977, f. 45v. 32 Galilei, al contrario, naturalmente contesta in pieno tale teoria che vuole la qualità di un corpo essere vero accidente affezione e qualità che realmente risegga nella materia, cfr. Sosio 1965, 261. 33 Barovier Mentasti 1980, 1. 34 Barovier Mentasti 1980, 6. 27 28
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro tradizionali, la buona riuscita e l’uniformità della produzione erano assicurate. Infatti, numerosi documenti del periodo ci presentano contratti nei quali è stabilito che il pagamento dell’artigiano debba avvenire soltanto quando si stata provata la funzionalità dell’artefatto.38
l’uso sistematico di strumenti di misurazione scientifica. Perciò, sono i sensi dell’artefice a dirigere l’operazione tecnica attraverso la “valutazione sensibile” di modi e tempi delle catene operative necessarie alla creazione di un prodotto finito rispondente alla propria funzione. Attraverso questa “valutazione sensibile,” sono però solo le “qualità secondarie” (colore, forma, sapore) dei materiali che possono essere esaminate essendo le quantità, ovvero le proprietà fisico-chimiche, fuori dalla portata di un’indagine impossibilitata ad accedere alla struttura discreta della materia a causa della mancanza non tanto e non solo di un apparato teorico ma sopratutto, occorre sottolinearlo, strumentale e in grado di coglierla.
Ancora una volta, la posizione di Biringuccio si rivela essere in bilico fra innovazione e tradizione. Da un lato, egli comprende l’importanza del concetto di esattezza e di calcolo, e l’erroneità di concetti quali “malasorte” nella pratica dell’arte; dall’altro, l’unico parametro che egli conosce e ritiene valido per ottenere buoni risultati resta la consuetudinaria sottomissione al rispetto delle tradizionali catene operative della produzione:
L’estrema varietà della produzione riscontrabile nell’ambito della produzione artigiana, e la ricerca dei metodi per evitarla, fornirono agli artigiani come Biringuccio nuove opportunità di riflessione anche intorno al concetto di insuccesso tecnico. In relazione a questo punto, ad esempio, egli suggeriva che la mala sorte altro non fosse che ignoranza e disattenzione, e che il fonditore potesse assicurarsi i favori della fortuna attraverso un attento ed assoluto rispetto per i minimi dettagli.35 Questa attitudine verso l’apparato delle conoscenze e delle regole dell’arte da rispettare non facilitava certo l’insorgenza di modifiche e di novità nell’ambito delle procedure produttive: di fatto, ogni singolo successo tecnico finiva per essere identificato con lo scrupoloso rispetto per le operazioni tradizionali, la specificità degli strumenti di lavoro, le peculiarità della materia prima, in una parola la routine. La particolare struttura di questo patrimonio di conoscenze influenza consistentemente anche la sopravvivenza stessa dell’arte: infatti, quando non siano più garantite le condizioni che consentano una trasmissione continua di informazioni fra le generazioni nel tempo, l’arte scompare.36 Quindi, essendo l’insieme di queste nozioni tecniche tradizionali principalmente empirico, la tendenza era quella di identificare misurazione e calcolo non con un dato metodo scientifico di misurazione strumentale bensì con l’accuratezza, ovvero lo scrupoloso e paziente rispetto delle consolidate tradizioni di officina:
Atteso che voi sempre usarete le debite diligentie a condurre li suoi mezzi perfetti, mai vi verra il suo fine in fallo, Perche quante volte me manchato, o ad altri ho visto manchare, sempre me parso sia proceduto dal mio manchare … avertendovi che mai se ben considerate v’avverra cosa che prima il iudicio vostro non velaccenni, anchor che non si possi manifestare leffeto certo prima al fine… Et pero ve havete da presupporre di non fuggire nisuna fadiga o spesa, & dessere in ogni parte diligente & patientissimo per poter condurre a perfetione tutti li mezzi di che v’havete a servire.39 Inoltre, secondo Biringuccio, strumenti e abilità dell’artigiano sono sullo stesso piano rispetto alla riuscita dell’attività produttiva. La discussione intorno alla produzione di campane chiarisce questo concetto. Parlando del disegno della campana, Biringuccio asserisce che l’artigiano deve procedere nel rifinire l’opera: levando o col giudicio o col compasso gli estremi.40 Per quel che riguarda la scala campanaria, è possibile capire come questa non fosse affatto seguita come un moderno metodo di misurazione scientifico: infatti, ogni singolo artigiano applicava a questa i suoi personali aggiustamenti o, comunque, non la seguiva in nessun caso con il giusto grado di scientifica precisione.41
Avertirete anchora di non vi lassar trasportar dala impatientia di voler sforzar li effetti piu che l’arte nella natura non concede.37
Quindi, il principale metodo per raggiungere una certa uniformità di produzione e risultati tecnicamente funzionali non era ancora fondato sul calcolo e sulla misura così come vengono modernamente intesi, bensì sull’accuratezza. Il sistema produttivo risultava quindi basato
Tuttavia, neppure assecondando strettamente le regole Smith e Gnudi 1942, xv. Stabile 1990, 264 e 269. 37 Carugo 1977, f.93r. 38 Blagg 1978, 429-30. 39 Carugo 1977, f. 75v.-76r. 40 Carugo 1977, f. 94v. 41 Carugo 1977, f. 96r. 35 36
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su procedure apprese nell’officina attraverso un metodo empirico per prove ed errori.42 Sempre riguardo alla fabbricazione delle forme di fusione, Biringuccio sottolinea l’impossibilità di realizzare un prodotto quando non si sia cresciuti nell’ambiente artigianale:
l’ipotesi di una struttura discreta e, quindi, quantitativa della materia in qualche modo “sottostante” alle qualità attraverso le quali gli artigiani controllavano i processi tecnici di manipolazione della stessa, restava sempre una distanza incolmabile fra la “nuova” teoria della realtà e la possibilità di testare e controllare effettivamente la portata delle variazioni strutturali legate al risultato di tali processi produttivi. Il caso di Galilei è esemplare. In proposito del fuoco e del calore egli sagacemente afferma nel Saggiatore che:
&ancho se far si vuole vacua o pur piena ci se ha d’haver maggiore consideratione, & a questo & a ogni altro effetto se loperaro d’haverle condotte non sete stato voi vi bisogna essere un pratico ministro a poterle osservare senza defetto… Ma essendone stato voi lartefice visi rende el modo piu facile, pigliando la via comuna…43
ad eccitar il caldo non basta la presenza de gli ignicoli, ma ci vuol il lor movimento ancora, quindi pare a me che non fusse se non con grande ragione detto, il moto essere causa di calore. Queso è quel movimento per lo quale si abbruciano le frecce e gli altri legni e si liquefà il piombo e gli altri metalli, mentre i minimi del fuoco, mossi o per se stessi con velocità, o, non bastando la propria forza, cacciati da impetuoso vento de’ mantici, penetrano tutti i corpi, e di quelli alcuni risolvono in altri minimi ignei volanti, altri in minutissima polvere, ed altri liquefanno e rendono fluidi come acqua.45
Il cuore della produzione e della conseguente valutazione della effettiva funzionalità tanto delle procedure quanto del prodotto finito è certamente identificabile con il binomio artigiano-strumenti. Questo rapporto si sviluppa e viene necessariamente supportato da un’esperienza pratica accresciutasi intorno all’esercizio continuativo dei cinque sensi dell’artigiano stesso, in effetti, i soli mezzi in grado di consentire l’approccio alla struttura del reale, alla materia che deve essere modellata. Il metodo seguito per costruire un criterio di uniformità procedurale, sembra, quindi, essere ancora basato su un sistema “interno” al corpo dello stesso artigiano per il quale l’utensile svolge il compito di estendere le possibilità delle capacità artificiali della mano e non già un ruolo di mediazione fra l’attività produttiva e la struttura del “materiale di lavoro.” Soltanto l’affermazione definitiva e diffusa del macchinismo realizzerà la definitiva affermazione di tale differenziazione, ponendo l’attività lavorativa del singolo operaio quale “semplice” mezzo di controllo del ciclo produttivo della macchina. Da questo momento in poi, non sarà più il sapere empirico-manuale dell’artigiano a guidare le procedure di produzione che, invece, risulteranno sotto il completo controllo delle leggi meccaniche che si esprimono attraverso il lavoro della macchina stessa.44
In questo caso, la sola riduzione della natura a schema geometrico-matematico non è, tuttavia, sufficiente a creare le condizioni per il sorgere di un sistema che sia in grado, non solo di spiegare in che modo effettivamente avvenga la trasformazione della struttura cristallina della materia, ma di valutare il procedere di questi cambiamenti strutturali nel tempo in vista di un fine produttivo. Se Galilei avesse, dunque, avuto come fine primario della sua discussione il controllo del calore di quei mantici di cui descrive l’impetuosa azione in vista di un’operazione produttiva (ad esempio in una fornace metallurgica) non sarebbe stato in grado di misurarlo assecondando i parametri geometrici e matematici attraverso i quali descrive la struttura del reale e, quindi, di sperimentarne l’effetto sulla materia prima: non possedeva, infatti, alcun mezzo esterno al proprio corpo (cioè oltre le sensazioni) che gli consentisse di
D’altro canto, anche quando sia accolta e verificata
42 Sul concetto di calcolo e misura tipico della scienza moderna e contemporanea vedi Hacking 1983, 253 e ss., 276-91; in merito alle differenze fra misura, calcolo ed accuratezza nel mondo della produzione pre-industriale vedi La Salvia 2000b, 168 e Giannichedda 2006, 41 e ss. che insiste sulla specificità del modello produttivo pre-industriale, specificità che sono spesso alla base delle variazioni riscontrabili nel record archeologico per oggetti e processi che, invece il ricercatore sarebbe portato a ritenere invariabili e costanti. In questo caso, invece, occorre proprio mettere l’accento sulla diversa concezione del tempo per l’artigiano (rispetto al ritmo dell’industria) e sulla dialettica fra materia prima e capacità manipolatorie dell’operatore umano. La variabilità complessivamente riscontrabile sia nelle differenti tecniche di fabbricazione che nella qualità dei prodotti finali spicca, dunque, come caratteristica generale della produzione artigianale (divenendo rintracciabile ed evidente nella stratigrafia archeologica). Proprio nel quadro della attenzione a questo valore tempo-misurazione, è possibile ritrovare un elemento di profonda differenza fra la produzione artigiana e quella industriale. Infatti, sia quando questo valore sia inteso come tempo = strumento di misurazione assolutamente precisa delle diverse operazioni tecniche, sia quando invece lo si consideri come semplice misura della quantità di tempo che un singolo artigiano può impiegare/impegnare intorno ad una sola opera, esso è legato esclusivamente alla discrezione dell’artigiano; al contrario, nel sistema produttivo industriale, questo valore è appannaggio dei tempi di lavoro della macchina, precisi e prestabiliti. Dunque, tra l’invarianza di alcuni procedimenti tecnici artigiani necessari alla trasformazione di materia prima in prodotti finiti e l’uniformità della produzione in serie dell’industria contemporanea resta una grande differenza. La prima è, infatti, il frutto pressoché esclusivo delle qualità fisico-chimiche della materia prima contro cui si scontrano e confrontano gli scarsi mezzi a disposizione dell’artigiano, la seconda è, invece, basata sulla completa identità della capacità lavorativa della macchina che opera sulla materia prima sempre, precisamente e nella stesso modo. 43 Carugo 1977, f. 80v. 44 Marx 1990, 6-7. 45 Sosio 1965, 266.
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Archaeologiae. Una Storia al plurale. Studi in memoria di Sara Santoro continuamente posta in opera da numero grande di artefici, tra i quali, e per l’osservazione fatte da i loro antecessori, e per quelle che di propria avventura vanno continuamente di per se stessi facendo, è forza che ve ne siano dei peritissimi e di finissimo discorso.47
farlo: non aveva un appropriato strumento, come fu il telescopio per l’astronomia e la fisica celeste. Lo sviluppo del concetto di temperatura come quella proprietà fisica che regola il trasferimento di energia termica da un sistema a un altro, infatti, arriverà più tardi. Se è vero che i primi tentativi di misurare la sensazione di caldo o di freddo risalgono all’epoca di Galileo, con la realizzazione di termoscopi ad acqua o altri liquidi, la termometria di precisione (con il mercurio) deve essere, infatti, attribuita a Fahrenheit e Celsius che introdussero rispettivamente nel 1714 e nel 1742 due differenti scale di temperatura in uso ancora oggi. La relativa precocità della scoperta e della applicazione delle misure di temperatura, tuttavia, non risolse affatto i problemi rispetto alla chiarificazione del concetto di temperatura e la definitiva distinzione fra quest’ultima ed il calore fu posta chiaramente solo dopo la metà del XVIII secolo. Prima, dunque, che lo strumento diventi pienamente mediatore fra l’individuo e la realtà, l’organolessi rimane l’unico metodo di valutazione e, in modo particolare, il mondo della produzione artigianale non è in grado di rinunciare alle “qualità secondarie della materia” proprio in quanto è senza strumenti.46 Lo stesso Galilei, d’altro canto, si rendeva conto che il sistema produttivo a lui contemporaneo poneva ancora al suo centro l’esperienza accumulatasi attraverso i tradizionali canali d’officina:
L’accento baconiano che insiste sull’artificio, sulla trasformazione, certamente, ha rappresentato un efficace spinta verso la creazione di tali strumenti di misurazione applicati alla produzione data l’identità fra progresso nella teoria e progresso nella pratica, fra potenziamento degli strumenti conoscitivi e potenziamento delle capacità operative dell’uomo.48 Tuttavia, il successo del tentativo di scienziati e filosofi quali Bacone e Galilei di instaurare un apparato completo di teoria, strumenti e procedure uniformi che soppiantasse del tutto la visione “pressappochista e qualitativa” della realtà, si venne realizzando con estrema lentezza e precisamente è soltanto a partire dal periodo della Rivoluzione Industriale che il suddetto apparato tecnico-scientifico inizia ad incidere profondamente nel solco della storia creando la possibilità, attraverso le macchine utensili, di riprodurre esperimenti ed operazioni produttive sempre seguendo un ordine determinato e preciso, costantemente uguale a se stesso.49 Al contrario, la forma particolare del patrimonio di conoscenze tecnico-empiriche della produzione artigianale comporta che l’efficienza dei sensi sia direttamente proporzionale al successo tecnico. A tal proposito,
Largo campo di filosofare a gl’intelletti specolativi parmi che ponga la frequente pratica del famoso arsenale di Voi Signori Veneziani ...; atteso che quivi ogni sorta di strumento e di macchina vien
46 Non è compito di questo breve saggio riscrivere la storia della chimica e della fisica classica, si intende solo sottolineare come alle intuizioni galileiane non faccia riscontro sul piano pratico un effettivo programma ed intenzionale sforzo di controllo della realtà nel senso delle prospettive del suo mutamento/trasformazione materiale e rimarcare come e quanto tortuoso sia stato il cammino della chimica, proprio in questo torno di secoli (specie fra XVI e XVII). Infatti, occorre ricordare che come detto da Abbri 1988, vol I, 343-344: «gli oggetti della chimica moderna si sono venuti faticosamente costruendo nel tempo: la teorizzazione di un approccio al mondo della materia secondo specifiche modalità chimiche é frutto di un processo lento, contraddittorio, fatto di svolte e di ritorni che, iniziato nel Cinquecento, è destinato a a delinearsi compiutamente solo alla fine del Settecento. … la chimica come scienza è un prodotto della rivoluzione scientifica. Essa non sorse da una tradizione precisa e consolidata, né può venire considerata un prodotto diretto o una “conseguenza” dell’alchimia. La tradizione alchemica lasciò una ricca eredità di esperienze e di strumenti all’indagine chimica, ma quest’ultima si inserì in quadri concettuali completamente diversi. … A partire dal Cinquecento le teorie chimiche vennero emergendo da diverse radici, da diversi e spesso contraddittori campi di ricerca. … Il chimico attuale trova i suoi progenitori in una eclettica popolazione costituita da maghi, alchimisti, paracelsiani, peripatetici, iatrochimici, e da altri personaggi stravaganti. ...»; 346: «I “chimici” della fine del Cinquecento svilupparono in maniera decisiva l’analisi delle sostanze, anche se dovettero superare gli ostacoli costituiti dalla mancanza di una teoria utile per guidare la pratica analitica ...»; 352: «All’inizio del Seicento la chimica cominciò ad assumere lo status di scienza specifica. Il riconoscimento ufficiale ed accademico di questa scienza fu tuttavia posteriore rispetto all’emergenza di un chimico di professione, vale a dire di un personaggio che mostrava maggiori affinità con un chimico moderno che non con l’alchimista o con il filosofo rinascimentale. Il centro della ricerca e dell’insegnamento chimico fu solo in casi rarissimi l’Università: il negozio privato del farmacista, le accademie mineralogiche e metallurgiche, gli orti botanici divennero i luoghi deputati per la diffusione della chimica.»; ancora Abbri 1988a, vol I, p. 722: «Nella letteratura chimica del Seicento è rilevabile un marcato atteggiamento critico nei confronti della terminologia in uso. Quest’ultima non era mai stata relata alla composizione chimica delle sostanze. i colori, la forma cristallina, le qualità organolettiche, i nomi degli scopritori delle sostanze, le proprietà mediche, le modalità di preparazione, la terminologia alchemica costituivano i criteri che venivano usati, in maniera del tutto acritica, per designare le sostanze. … La mancanza di criteri chiari e accettati da tutti i naturalisti per denominare le sostanze aveva portato ad una confusine linguistica impressionante; la mancanza di una nomenclatura sistematica costituiva uno ostacolo notevole ai pregressi della scienza … Una riforma radicale del linguaggio chimico venne realizzata nel 1787 da Lavoisier e seguaci, ma durante il Settecento si erano verificati importanti tentativi in questo campo»; infine, sulla storia delle teorie del calore, della temperatura (e della sua misurazione) e della combustione si veda Enriques e De Santillana 1982, 390-394; Gregory 1934; Zemansky 1971; Middleton 1966. 47 Infatti, poco più avanti Galilei chiarisce il problema indicando i limiti di un sistema produttivo che non asseconda le regole della geometria e della fisica-meccanica; ciò, tuttavia, esprime anche la preoccupazione per il ritardo accumulato dalla struttura produttiva nell’assimilare la nuova scienza: E pur quello che poco fa ci diceva quel buon vecchio è un dettato ed una proposizione ben assai vulgata; ma però io la reputava in tutto vana ... la quale io ho sempre stimata concetto vano del vulgo; cioè che in queste ed altre simili machine non bisogna argumentare dalle piccole alle grandi, perchè molte invenzioni riescono in piccolo, che in grande poi non sussistono. In proposito vedi, Carugo e Geymonat 1959, 13-14. 48 Rossi 1973, 155, vedi anche 140-41. 49 Vedi quanto riportato alla nota 5.
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V. La Salvia
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Biringuccio ricorda:
dela spesa, & ancho per saper provedere a lor defetti se alcuna malignità l’offendesse.53
Accioche andiate con gli occhi aperti a lopera vostra per potervi accorgere del errore quando voi proprio avete errato, o che da altri fuste stato ingannato ... Altrimenti senza far questo, andarete nel opera ciecho.50
Risulta, così, confermata la regola tipica della produzione artigianale, un sistema produttivo con al suo centro l’artigiano ed i suoi utensili: perche con l’esperienza si trova, & impara più assai, che non si fà con lungo studiare.54
La similitudine o meglio l’equazione cecità=inefficienza tecnica non rappresenta, dunque, soltanto un’azzeccata metafora puramente linguistica, ovvero un topos letterario, bensì essa deve essere interpretata quale inequivocabile segno della diretta dipendenza delle procedure di controllo tecnico della produzione artigiana dalla fisiologia dei cinque sensi.51 Infatti, nella pressoché completa assenza di strumenti di valutazione del prodotto esterni al corpo stesso dell’artigiano, l’organolessi rappresenta l’unica possibilità di costruire dei parametri di controllo e conformità, che tuttavia non sono standardizzati e presentano, al contrario, un’ampia gamma di variabilità essendo strettamente connessi alle capacità ed alla esperienza d’officina di ogni singolo artefice accumulatesi attraverso procedimenti esperiti e valutati on a hit-or-miss basis. L’efficienza delle procedure tecniche di controllo derivava, quindi, esclusivamente dall’empirica constatazione che alcune peculiarità di determinati materiali con caratteristiche più nette di forma, colore, ed odore permettono all’osservatore, in questo caso lo stesso artigiano, il diritto sia di postulare che esse individuino il segno di proprietà altrettanto specifiche ma celate, sia quello di procedere tecnicamente ammettendo, dunque, che il rapporto tra le due sia anch’esso sensibile. Tuttavia, saranno gli stessi maestri d’officina ad iniziare a sentire l’inadeguatezza della valutazione organolettica delle loro procedure tecniche. Ma, ancora una volta, non un apparato di strumenti scientifici di controllo estraneo all’osservazione del lavoratore bensì la sola esperienza, ovvero l’attenta valutazione del risultato ottenuto –a lavoro quindi terminato–, permetterà di giudicare della conformità funzionale del prodotto, fatto che presuppone secoli e secoli di osservazione attiva e metodica, ipotesi ardite da scartare o da convalidare attraverso il controllo di esperienze infaticabilmente ripetute:52
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... per non esser il iudicio delochio bastante a conoscere non solo che quantità ma che sustantia contenghino ... & con la cognitione dela sperientia ponderare le virtù & sequitare o ritrarsi dela fadiga &
Abbri 1988a Abbri F., “La Rivoluzione Chimica,” in F. Abbri, E. Bellone, W. Bernardi, U. Bottazzni, A. La Vergata, S.
Carugo 1977, f. 66r. D’altro canto, già Cirese 1984, 17 riprendeva un tema simile quando, citando una terzina dantesca della Commedia («non s’accorda/molte fiate all’intenzion dell’arte/perch’a risponder la materia è sorda»), notava come non fosse casuale la metafora utilizzata dal poeta medievale per spiegare le difficoltà di accordare forma e materia nella produzione artigianale. Sullo stesso argomento vedi anche Stabile 1990, 248, 256, 258. 52 Bartlett Wells 1969, 227; La Salvia 2000b, 168; La Salvia 2000a, 21-22; Lévi-Strauss 1964, 27, 28-29. 53 Carugo 1977, f. 44v. 54 Barovier Mentasti 1980, 8. 50 51
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…ricordando i momenti con Sara
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…ricordando i momenti con Sara
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Il volume è dedicato da amici e colleghi allaecompianta che è stata archeologa Il volume è dedicato da amici colleghiSara allaSantoro, compianta Sarauna Santoro, che è stata u di fama ed una studiosa poliedrica, che ha insegnato a Bologna, Parma e Chie� e ha lavorato di fama ed una studiosa poliedrica, che ha insegnato a Bologna, Parma e Chie� alacremente in Italia, in Francia ed Francia Albania. Iled testo presentaIluna seriepresenta di contribu� che serie sono di contrib alacremente Italia, Albania. testo una organizza� in sei sezioni, che corrispondono ai principali interessi di Sara e cheinteressi sono edi� di daiSara suoi e che son organizza� in sei sezioni, che corrispondono ai principali colleghi presso l’Università G.d’Annunzio di Chie� -Pescara. La prima sezione, Semata, Schemata colleghi presso l’Università G.d’Annunzio di Chie�-Pescara. La prima sezione, Sem and Topoi, è a cura è di a O.Menozzi ed è dedicata aed studi iconografici, lologici e di Storia dell’Arte. and Topoi, cura di O.Menozzi è dedicata a fistudi iconografi ci, filologici e di S La seconda parte, a cura di S.Antonelli, è dedicata a contribu� e ricerche sull’Adria� La terza sull’Adri La seconda parte, a cura di S.Antonelli, è dedicata a contribu�co. e ricerche sezione, che è incentrata su ricerche esu studi sul campo, è statasul curata da M.Moderato. M.C. da M.M sezione, che è incentrata ricerche e studi campo, è stata curata Mancini cura la quarta sezione su valorizzazione e proge�azione neie Beni Culturali. La quinta Mancini cura la quarta sezione su valorizzazione proge� azione nei Beni Cultu sezione, a cura di M.C.Somma, è dedicata ai cosidde� ‘centri minori’ e analizza ruolo e network sezione, a cura di M.C.Somma, è dedicata ai cosidde� ‘centri minori’ e analizza ru di talidiinsediamen� . La sesta sezione è incentrata su èmetodologie e scienze applicate ai Beni tali insediamen� . La sesta sezione incentrata su metodologie e scienze app Culturali ed è curata da V.La Salvia. Culturali ed è curata da V.La Salvia.
SoniaSonia Antonelli insegna Archeologia Tardoan�ca e Cris� ana, ha ca collaborato Antonelli insegna Archeologia Tardoan� e Cris�con ana,Sara haSantoro collaborato con in Albania e in Francia; a� ualmente dirige le Missioni Archeologiche a Durazzo e a Bliesbruck. in Albania e in Francia; a�ualmente dirige le Missioni Archeologiche a Durazzo e VascoVasco La Salvia Professore di Metodologia Archeologia e a� dirige gli scavi a LaèSalvia è Professore di in Metodologia in ualmente Archeologia e a� ualmente dir CastelCastel Seprio eSeprio la Missione in Kerala-India. e la Missione in Kerala-India. MariaMaria CristinaCristi Mancini Economia e Monete del Mediterraneo collaborato An�co,h na insegna Mancini insegna Economia e MoneteAn� delco,ha Mediterraneo con Sara Laboratori di Mosaico An� co. connei Sara nei Laboratori di Mosaico An�co. Oliva Oliva Menozzi è professore di Archeologia e dirige Classica progetti ineItalia e Missioni Menozzi è professore di Classica Archeologia dirige progetti in Ital . Archeologiche in Libia, Egitto e Cipro Archeologiche in Libia, Egitto e Cipro.
Marco Moderato è stato uno studente e collaboratore di collaboratore Sara Santoro e a� è Marco Moderato è stato uno studente e diualmente Sara Santoro e a ricercatore a Chie� con ricerche nei proge� in Francia, Albania, India e Corfi nium. ricercatore a Chie� con ricerche nei proge� in Francia, Albania, India e Corfinium MariaMaria Carla Somma Professore Archeologiadi Medievale e dirigeMedievale scavi e ricerche a Corfinio Carla èSomma è di Professore Archeologia e dirige scavi e ricer e Cencelle. e Cencelle.
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