Appunti di Storia della pedagogia [2ª ed.]

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Paolo Taroni Lorenzo Zaganelli

Appunti di Storia della pedagogia

Prima edizione in tiratura limitata e riservata: 2003 settembre Seconda edizione ampliata e corretta: 2004 settembre © Copyright Paolo Taroni, Lorenzo Zaganelli © Copyright per questa edizione Allori Edizioni Via S. Alberto, 225 – 48100 Ravenna http://www.alloriedizioni.com e-mail: [email protected]

A Carla e Angela per la loro pazienza

INDICE

1. Introduzione terminologica pag. 9 2. La Grecia arcaica 19 3. La polis greca 23 4. I Sofisti e Socrate 29 5. Platone 37 6. Aristotele 47 7. L’ellenismo 55 8. Cenni sull’educazione nella cultura romana 63 9. I principi educativi del Cristianesimo 69 10. Agostino 73 11. La pedagogia nel Medioevo 81 12. Tommaso d’Aquino 85 13. La scuola nell’Umanesimo e nel Rinascimento 93 14. L’idea pedagogica nella Riforma e nella Controriforma 99 15. Comenio 107 16. John Locke 111 17. L’educazione nell’Illuminismo 119 18. Jean-Jacques Rousseau 125 19. La pedagogia del Romanticismo 131 20. Johann Heinrich Pestalozzi 135 21. Friedrich Fröbel 141 22. Johann Friedrich Herbart 147

23. La pedagogia del Positivismo 24. La pedagogia italiana tra XIX e XX secolo 25. Karl Marx e Friedrich Engels 26. Anton Siemionovic Makarenko 27. Attivismo: “scuole nuove” e “scuole attive” 28. Maria Montessori 29. John Dewey 30. Ovide Decroly 31. Edouard Claparède 32. Giovanni Gentile e la scuola fascista 33. Giuseppe Lombardo Radice 34. Psicoanalisi e pedagogia 35. Le idee pedagogiche di Jean Piaget 36. Vygotskij e l’educazione 37. Jerome Bruner 38. Howard Gardner e la teoria delle intelligenze multiple Bibliografia

151 157 163 169 173 177 185 193 199 205 211 215 245 275 283 291 303

1 Introduzione terminologica

Cos’è la pedagogia? La pedagogia viene definita, con una affermazione semplice ma importante, scienza dell’educazione. Definire la pedagogia come una scienza significa affermare l’indipendenza di questa disciplina rispetto alla filosofia e nei confronti delle altre scienze umane, identificandola al contempo come disciplina scientifica, con un suo specifico campo d’indagine, dei metodi, delle possibilità sperimentali e di misurazione, delle attività i cui risultati possono essere verificati. Ma prima di giungere alla pedagogia intesa come scienza trascorreranno parecchi secoli e numerose teorie, pratiche educative nelle diverse epoche e civiltà. Il vocabolo pedagogia, in senso formale, indica la scienza e lo studio dell’educazione (come disciplina); in senso sostanziale, indica l’idea dell’educazione (come teoria e concezione). Etimologicamente, pedagogia deriva dal greco país che significa fanciullo e ágoghè che indica l’azione del condurre, del guidare: perciò vuol dire “arte di guidare i fanciulli”. Il pedagogo, nella polis greca era lo schiavo incaricato di condurre il figlio del suo padrone a scuola, alla palestra, ecc.; in seguito, divenne uno schiavo abbastanza colto da aiutare il fanciullo nello studio. Pedagogia, dunque, era il compito del pedagogo e, in generale,

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dell’educatore. In età moderna, il termine passò a indicare la riflessione sull’educazione, prima all’interno della filosofia (per quanto fossero i filosofi a occuparsi della riflessione sull’educazione non risulta, però, corretta una identificazione di pedagogia e filosofia) e, nella seconda metà del XIX secolo, dopo il Positivismo, una teoria elaborata con metodo scientifico e coadiuvata dai risultati delle altre scienze umane. Detto in questi termini il significato di pedagogia sembra riguardare solo l’infanzia e la fanciullezza, mentre sappiamo bene che lo sviluppo procede anche per la preadolescenza, l’adolescenza e l’età adulta, cosí come il processo educativo è legato all’intera vita umana, in quella che si definisce “educazione permanente”. Il termine pedagogia si è piú volte fuso e “con-fuso” con il termine, cui è correlato, di educazione. Alla lettera, educazione è il processo di formazione della personalità individuale, attraverso l’integrazione sociale e la trasmissione culturale. Le radici latine del termine (edere che significa “nutrire”, “allevare”; educare che sta per “trarre fuori”) sottolineano il legame del vocabolo con la crescita fisica e interiore, mentale e spirituale. In senso molto lato indica il “processo di formazione dell’uomo”, inteso sia come individuo sia come gruppo. In un significato piú specifico riguarda ogni azione intenzionale e consapevole voluta dall’adulto e dalla società per aiutare il bambino a crescere e svilupparsi in maniera armonica. L’idea che sta dietro la parola educazione può essere analizzata seguendo un percorso diacronico, che compie un esame storico, longitudinale, oppure uno sincronico, che esamina il concetto su base antropologica compiendo una analisi trasversale. Dal punto di vista storico bisogna riconoscere che è sempre esistito un processo di comunicazione e trasmissione di valori e beni culturali. Con il termine cultura si intende l’insie-

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me dei fenomeni che caratterizzano una popolazione, l’insieme degli usi, dei costumi, delle tradizioni, degli stili di vita, della lingua, della religione, ecc. L’esame antropologico riguarda lo studio del rapporto fra gli uomini come produttori di cultura. L’educazione è quindi l’insieme di atteggiamenti che servono a comunicare e a trasmettere i modelli e i valori culturali cui i giovani appartengono, e non solo i giovani. Comunicare indica lo scambio di informazioni, l’azione comunicativa fra gli individui. Trasmettere si riferisce all’azione che la società e la collettività compiono al fine di perpetuare nel tempo i modelli culturali. Comunicazione e trasmissione sono i due modi attraverso cui le informazioni e i modelli educativi “passano” da un individuo a un altro e da una società ai suoi appartenenti. La diffusione, invece, è il processo di passaggio di un modello culturale da una società a un’altra. L’educazione è un fenomeno sempre presente nella vita dell’individuo; può avvenire in maniera diretta, cioè operata dall’educatore sul discente in maniera consapevole, con un contatto personale e senza mediazioni; l’educazione può avvenire anche in maniera indiretta cioè tramite l’influenza dell’ambiente che plasma l’individuo. L’educazione può presentarsi sotto due forme diverse: a) intenzionale: quando è istituzionalizzata e organizzata, e una o piú persone si impegnano per perseguire un fine, essendone consapevoli. L’educazione diretta è sempre intenzionale, quella indiretta può essere intenzionale, ma anche: b) non intenzionale: quando è involontaria, quando viene fornita senza scopo preciso dall’ambiente sociale nel suo complesso o da gruppi associativi particolari (quelli che in sociologia vengono definiti “agenzie di socializzazione”) come la famiglia, il gruppo dei pari, l’ambiente di lavoro, la scuola, i mass-media, ecc. Riguarda tutto ciò che si apprende nei diversi contesti senza che ci sia una volontà precisa di comunicare e tra-

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smettere queste informazioni. Anche in una struttura specificamente preposta all’educazione diretta e intenzionale, come la scuola, in realtà, la stragrande maggioranza dei valori, dei modi di pensare e degli stili di vita, in una parola, della cultura, viene acquisita in maniera non intenzionale. Pedagogia come scienza dell’educazione Prima di parlare di pedagogia come scienza, sarebbe utile intendere in maniera univoca il significato del termine “scienza”. Non esiste una definizione unica del vocabolo “scienza” e di ciò che si intende per scientifico. In senso lato, il termine scienza indica un complesso di proposizioni ritenute “vere”, riferite a un determinato oggetto, che abbiano sufficiente unitarietà e che siano giustificate in maniera razionale. In questo senso, anche la filosofia è considerata scienza. In un significato piú specifico, e piú diffuso, scienza (o meglio l’insieme delle scienze) è il sapere fondato sull’osservazione e sulla misurazione di fatti empirici, sull’uso del metodo ipotetico-deduttivo, della possibilità di effettuare misurazioni, calcoli e di quantificare i dati raccolti, attraverso l’uso della matematica (o della statistica). La pedagogia intesa come scienza – o “scienze” – dell’educazione implica una presa di distanza dalla filosofia e dalle altre scienze umane (tutte nate come discipline autonome in epoca positivistica). Dire che la pedagogia è una scienza, dunque, significa definire, nella teoria educativa, un campo d’indagine e un oggetto di studio, un metodo preciso, una misurazione matematico-statistica e la possibilità di effettuare sperimentazioni e verifiche dell’esito dei risultati. In campo educativo, però, non si ha quasi mai un rapporto diretto fra fenomeno causa e fenomeno effetto, quindi si tratta di una scientificità di tipo diverso: non si possono fare previsio-

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ni precise e perfette, stabilire ipotesi universali, ma solo relative e probabilistiche, tramite indagini statistiche. Ciò nonostante, la pedagogia è scienza per la sua necessità di analisi metodologica e fenomenologica di tutti gli elementi che concorrono a produrre un certo evento o un dato comportamento. Certamente, la pedagogia può essere definita una disciplina scientifica in quanto ha un proprio campo di indagine, è in grado di compiere osservazioni ed esperimenti, opera e risolve i problemi che le si pongono seguendo dei metodi sperimentati e effettuando attività precise e rigorose che permettono di verificare i risultati dell’azione educativa. L’approccio scientifico della pedagogia, però, non si accontenta di una pedagogia “esteriormente scientifica”, ma va direttamente alla ricerca culturale dei processi formativi e studia le condizioni per la comprensione e il controllo dei fenomeni individuati. Terminologia pedagogica A completamento del discorso introduttivo sulla pedagogia, è utile aggiungere la definizione di alcuni altri termini che spesso si incontrano nel discorso sulle idee e teorie educative. Innanzi tutto è utile chiarire i termini principali che riguardano l’attività educativa e scolastica, quali didattica, istruzione, formazione, curriculum, scuola. Didattica designa il settore della pedagogia che si occupa dei metodi e delle tecniche di insegnamento, delle procedure di intervento pedagogico e degli strumenti operativi. Nelle origini etimologiche, il termine deriva dal greco didàskein, che significa insegnare, da cui didacticòs che vale per “atto ad istruire” e, in seguito, il latino medievale didactica ars, “arte didattica”, che venne assunto in maniera definitiva da Comenio nel XVII secolo con il suo Didactica magna, la “Grande didattica”.

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L’esistenza di tecniche di insegnamento e di apprendimento, e la loro applicazione metodica e razionale in attività utili all’insegnamento, è però intrinseca al concetto stesso di educazione come processo culturale storicamente e socialmente condizionato dall’uomo. La didattica – a prescindere dai diversi significati che storicamente ha avuto – è il momento operativo di una scienza dell’educazione e consente di considerare o meno validi i fini e gli orientamenti teorici della pedagogia; in questo significato didattica è un aspetto che rientra all’interno di ogni teoria pedagogica. Se, invece, si considera la didattica come teoria dell’istruzione allora deve essere intesa come una scienza autonoma, anche se in relazione con le altre scienze umane (psicologia, pedagogia, antropologia culturale, sociologia, ecc.) Strettamente connesso al termine didattica c’è quello di istruzione. Istruzione indica sia la trasmissione del sapere che il sistema istituzionale dell’insegnamento. Istruzione è l’azione svolta da un adulto, per lo piú l’insegnante, allo scopo di trasmettere all’allievo un certo insieme di nozioni. È un aspetto dell’educazione che contribuisce alla formazione intellettuale e mentale dell’individuo. Piú in generale l’acquisizione culturale rimanda al concetto di formazione. Formazione è il processo attraverso il quale le potenzialità complessive, naturali e ideali del soggetto pervengono armonicamente a maturazione. Il termine formazione è utilizzato nel valore di superamento dei due termini – troppo spesso impropriamente contrapposti – di educazione e istruzione. Il termine formazione, dunque, rimanda alla dimensione esistenziale dell’educazione, a tutto ciò che influisce a livello soggettivo sul modo di essere della persona, ma anche alla dimensione tecnica, consapevole e voluta dell’istruzione. Spesso il termine riguarda l’importante ruolo formativo che hanno diversi formatori che non siano i classici educatori o insegnanti (pro-

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fessionisti, come medici, ingegneri, economisti, tecnici specializzati, ecc.), quando sono chiamati ad aiutare il giovane ad acquisire le competenze specifiche di una professione, che non potrebbero essere apprese al di fuori dell’ambito lavorativo. Formazione indica, quindi, il fatto che si apprende e ci si forma anche al di fuori del luogo canonico e specifico dell’istruzione, la scuola. La scuola è l’istituzione preposta alla ricerca e alla trasmissione del sapere. Sorta per ovviare alla diminuita possibilità della famiglia e del gruppo sociale di trasmettere un patrimonio culturale sempre piú vasto e differenziato da una generazione all’altra, la scuola si pone come luogo dell’educazione intenzionale e specifica anziché spontanea e informale. All’interno della scuola e nel corso della formazione di ogni individuo viene seguito un curricolo. Il termine, usato spesso nel latino curriculum, indica il complesso integrato di esperienze scolastiche che hanno lo scopo di concorrere alla complessiva formazione dello studente. Non si identifica solo con le materie di studio, ma comprende anche l’intera gamma di risorse educative, e comporta la possibilità di programmazione intenzionale dell’esperienza formativa in una situazione scolastica. Piú specificamente, il curricolo investe i problemi dell’organizzazione delle conoscenze all’interno dei singoli gradi scolastici. Il curricolo attraversa i diversi piani dell’esperienza scolastica, dagli obiettivi cognitivi (le strategie dell’istruzione e le teorie dell’apprendimento) ai contenuti culturali (il sapere scolastico e la sua distribuzione in discipline), dalle metodologie dell’apprendimento (per materie, per aree disciplinari, ecc.) alle tecniche di valutazione (“formative”, “sommative”, in itinere, ecc.) Una impostazione curricolare razionale deve prevedere i contenuti essenziali della disciplina, le unità didattiche in cui suddividere la materia, le possibili espansioni disciplinari in collegamenti e riferimenti ad altre materie, i comportamenti

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cognitivi che una materia è in grado di attivare. Un curricolo va inserito nella prospettiva della programmazione, in una strategia e in un progetto in cui si deve tener conto dell’allievo (o gruppo di allievi) reale e concreto, con i suoi bisogni e interessi, si debbono definire finalità e obiettivi, stabilire attività, metodi, tempi, spazi e materiali, e predisporre una serie di verifiche. La programmazione non è un fare una volta per tutte, ma va costantemente e continuamente ripresa e risistemata alla luce dei risultati ottenuti tramite l’intervento educativo. In tutto questo processo e nelle diverse teorie pedagogiche, il concetto centrale è quello di metodo. Il termine metodo, come metodologia e metodica, nell’originaria etimologia greca deriva da metà, preposizione che indica “movimento”, “proseguimento”, “superamento”, e hodòs che significa “via”, “mezzo”, “modo d’agire”. Metodo, dunque, vale per “ricerca scientifica”, “processo per conseguire un fine”. Il metodo, quindi, è il mezzo che ogni teoria indica come il piú idoneo al raggiungimento degli obiettivi, è l’insieme dei criteri e delle norme con cui si deve compiere un determinato processo per essere efficace. In linea generale indica un modello di realizzazione dell’attività di insegnamento-apprendimento. È evidente che tale concetto varia e si modifica in ogni teoria pedagogica e sulla base delle esigenze che una società, una cultura hanno e richiedono dall’educazione. I metodi, come le tecniche e i mezzi utilizzati, sono sempre relativi ai contenuti culturali da trasmettere. I concetti e i termini principali della pedagogia, cui si è fatto rapido cenno, hanno quasi tutti – come si è visto – una loro origine nella civiltà e nella lingua greche, poiché – come è noto – la società occidentale prende origine e affonda le sue radici nella cultura ellenica. Per questa ragione, è utile vedere – in conclusione e, a mo’ di apertura, all’inizio della storia delle idee pedagogiche dell’Occidente – due termini chiave per compren-

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dere il significato di educazione, e i valori da questa trasmessi, nella società greca: paideia e areté. Paideia: termine greco che significa “formazione del fanciullo”; etimologicamente deriva da pâis che significa fanciullo, ed esprime l’ideale educativo della cultura greca. Viene tradotto spesso con il termine “educazione”, ma va inteso anche nel senso di cultura: ciò che una società trasmette, in maniera diretta o indiretta, ai suoi appartenenti. Assume accezioni diverse a seconda dell’epoca: nella cultura omerica corrisponde all’aristocrazia d’animo, alla nobiltà di azione e di mente; in epoca classica modelli di riferimento saranno quello spartano e quello ateniese, con Socrate passa a denotare la tensione al dominio pieno di sé; nell’ellenismo assume un contenuto culturale specifico di appartenenza alla comunità greca. Areté in greco antico, e quindi nella filosofia antica, indicava l’attitudine di ogni essere a esplicare nel migliore dei modi la sua specifica attività. Viene solitamente tradotto con “virtú”, ma va intesa come capacità di eccellere in qualche attività, senza nessun connotato e valore morale.

Bibliografia essenziale: W. JAEGER, Paideia. La formazione dell’uomo greco, 3 voll. [1936, 1944, 1945], trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1953, 1978; R. TISATO (a cura di), Enciclopedia di pedagogia, trad. it. Feltrinelli, Milano 1974; A. VISALBERGHI, Pedagogia e scienze dell’educazione, Mondadori, Milano 1978, n. ed. 1986; P. BERTOLINI (a cura di), Dizionario di pedagogia e scienze dell’educazione, Zanichelli, Bologna 1996; M. CALLARI-GALLI, Antropologia per insegnare, Bruno Mondadori, Milano 2000.

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2 La Grecia arcaica

La civiltà greca prese avvio intorno agli inizi del I millennio a.C., dopo che la penisola fu oggetto di successive invasioni di popoli provenienti dall’Europa danubiana. L’educazione della società ionica, fino al XI-VIII secolo a.C., seguí un’organizzazione patriarcale, svolgendosi all’interno della famiglia. I padri trasmettevano le conoscenze pratiche riguardanti la produzione dei beni ai figli, e le madri si occupavano dell’educazione delle figlie, legata alla gestione domestica e all’allevamento della prole. I modelli educativi erano fissati nel tempo, e i genitori assumevano il ruolo di insegnanti. L’apprendimento delle norme sociali era affidato a incontri comunitari, come i banchetti o le feste religiose. Questo ideale pedagogico era basato su un’idea del “dover essere”, della acquisizione cioè di un ruolo prestabilito dalla società stessa, che modellava gli individui a seconda dei gruppi di appartenenza. A partire dal XI secolo a.C., si introdussero nuovi procedimenti per la lavorazione del ferro, che resero questo metallo accessibile anche alle piccole comunità, consentendo cosí l’acquisizione di una maggiore autonomia ad artigiani e contadini,

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i quali videro accrescere le loro possibilità di sopravvivenza, grazie anche all’uso della moneta per gli scambi commerciali. Altrettanto importante, come elemento di progresso, si rivelò la scrittura, costituita sul modello di quella diffusa in tutto il Mediterraneo dai Fenici. La maggiore facilità di scambi commerciali, derivante da questi progressi, portò alla nascita dei primi centri urbani: le poleis, che fecero crescere sempre di piú il potere di mercanti, contabili, scribi, banchieri, artigiani, facendo diminuire al contempo quello della classe aristocratica. Questa crisi dell’aristocrazia, a livello educativo, trova espressione nelle opere dei poeti “eroici”, i quali criticarono la società moderna, proponendo una educazione basata sui valori della nobiltà, sullo sviluppo di doti innate appartenenti esclusivamente ai nobili, estranee quindi ai ceti emergenti. Questi ideali educativi furono trasmessi in primo luogo attraverso i poemi attribuiti al poeta Omero: Iliade e Odissea, i quali risalgono ad un periodo che va dalla fine dell’VIII secolo (Iliade) agli inizi del VII (Odissea). Il mondo greco è rappresentato, in questi poemi, come una società aristocratica (da áristos che significa il “migliore”), dominata da coloro che eccellono per la loro areté, la virtú intesa come possesso di qualità superiori. Questi antichi poemi possono essere considerati, quindi, come sintesi enciclopediche delle tradizioni di un popolo, descrivendo i criteri su cui si basava l’educazione dei giovani di nobile stirpe. Furono pertanto strumento privilegiato di trasmissione della paideia e di insegnamento delle areté della Grecia arcaica. Iliade È il poema piú antico, in cui si narra la guerra degli Achei

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contro la città di Troia. Lo stato di guerra descritto mette in primo piano la figura del guerriero, l’eroe; i personaggi sono simboli, i quali incarnano le qualità fisiche e morali dell’epoca (ad esempio ad Achille viene attribuita la forza e il valore militare; a Ettore, la dedizione alla patria e il senso dell’onore, ecc.) Nell’Iliade, oltre alla celebrazione degli attributi virili del guerriero, emerge un’idea di areté intesa come forza fisica, coraggio, aspirazione alla gloria e all’onore. Lo sfondo che viene presentato è un mosaico di scontri individuali e di episodi eroici, in cui la differente indole dei guerrieri dà comunque un’immagine abbastanza omogenea. Areté, nell’Iliade, è virtú di primeggiare, di eternarsi nel gesto eroico; il grado massimo di tale concetto si ha quindi nella vittoria o nella morte dell’eroe onorata sul campo di battaglia. L’ideale educativo che ne consegue – la paideia dell’Iliade – consiste nell’esempio di una vita condotta nella tensione verso l’ideale del “dover essere”, dei doveri che il proprio ruolo comporta. Odissea È il poema piú recente. Ci fa conoscere l’aristocratico in tempo di pace, e descrive i viaggi avventurosi di Ulisse (Odísseo). Lo sfondo è la rappresentazione della vita di corte, con le sue finezze. Acquistano importanza le figure femminili, appaiono celebrate le virtú muliebri come la bellezza, descritta con pudore, le abilità nei lavori femminili, la fedeltà coniugale, simboleggiata da Penelope che attende con pazienza il suo sposo. Un altro segno del progresso dei tempi può essere dato dal fatto che non solo i nobili, ma anche gli umili sono degni di rispetto: Ulisse viene accolto nella reggia di Itaca, sebbene indossi stracci da mendicante.

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Infine, un fattore importante che caratterizza e differenzia l’Iliade dall’Odissea sta nel fatto che in quest’ultima si hanno indicazioni precise circa l’educazione di un giovane di nobile stirpe. Penelope, madre di Telemaco, è la prima educatrice di suo figlio; per completare la sua educazione Telemaco deve viaggiare, conoscere altri popoli, altri costumi. Ci appare dapprima un giovane buono, docile, ma che ancora manca di sentimenti virili; per irrobustire le sue doti morali gli si pongono due guide: Mente e Mentore. Entrambi i precettori devono prepararlo al suo nobile destino, in quanto egli sarà vendicatore, insieme col padre, delle offese arrecate alla sua casa e futuro re del paese. Narrando l’epopea degli eroi sulla via del ritorno in patria, i personaggi hanno a che fare con le difficoltà della vita, dalle quali si può uscire solo con il coraggio e l’astuzia. Pertanto, le areté trasmesse dall’Odissea sono appunto il coraggio e l’astuzia, unite all’intelligenza e alla curiosità, al desiderio di ricerca, di scoprire sempre nuovi posti e compiere nuove esperienze, e non solo la forza fisica e l’uso delle armi.

Bibliografia essenziale: W. JAEGER, Paideia. La formazione dell’uomo greco, vol. 1, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1953, 1978; B. SNELL, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it. Einaudi, Torino 1963

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3 La pólis greca

La pólis (la città-stato) viene definita come l’istituzione politica caratteristica della Grecia, dove però non si giunse mai a uno stato unitario. Le singole città, infatti, mantennero sempre la loro autonomia, su di un piano culturale, sociale, politico, giuridico, religioso, anche a causa della posizione geografica del territorio greco, con catene montuose differentemente orientate che creavano regioni distinte con confini limitati. Nell’età arcaica, la pólis greca introduce quello che oggi chiamiamo res publica, ossia la partecipazione alla gestione della “cosa pubblica” di un numero sempre maggiore di individui. Le due póleis piú importanti della Grecia furono: Sparta e Atene. Educazione a Sparta Sparta è una città che vive di agricoltura, collocata lontano dal mare, chiusa in se stessa, e divisa rigidamente in classi: i cittadini, perieci, e gli iloti, gruppi subalterni. La legislazione spartana, scritta dal mitico re Licurgo, assegna il potere politico ai primi, che governano attraverso una assemblea di 28 membri e 2 re, eletti con diritto ereditario. Il momento di mas-

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simo splendore di Sparta è nel VII-VI secolo a.C., di poco posteriore all’epoca dei poemi omerici. Da questi, la società spartana prende il principio dell’areté eroica, che in questo contesto, però, non designa piú solo la vitalità, il coraggio, la forza fisica, ma assume contenuto e significato sociali. L’atto eroico, adesso, ha lo scopo di potenziare e difendere la patria, anziché perseguire la gloria individuale. È l’etica del membro di un organismo militare, di soldati coinvolti in un’azione e in un destino comune. Dopo il VI secolo a.C., la società spartana subisce una involuzione culturale, che la condurrà verso un progressivo declino. Una delle cause di questa involuzione è la situazione creatasi dopo la conquista della Messenia, che porta l’esercito spartano ad una situazione di guerra permanente con la popolazione locale. Si rende necessaria l’adozione di una nuova tecnica militare, lo schieramento oplita, che richiede professionisti militari estremamente addestrati, solidali fra loro fino a diventare una vera e propria casta chiusa. Vengono cosí a negarsi del tutto i valori individuali della società omerica: l’individuo subisce una totale spersonalizzazione, per essere sacrificato alla conservazione del potere politico da parte della classe dirigente. Il sistema educativo spartano è organizzato in modo da perseguire questi scopi politici. Il bambino, alla nascita, viene portato in un luogo detto tesche, e giudicato da una commissione di anziani; nel caso risulti troppo debole, gracile, o malformato, è gettato in una voragine del monte Taigeto, detta Apotete. Dopo la prima educazione in famiglia, dai sette anni in poi, lo Stato si impossessa del fanciullo fino ai 20 anni di età, educandolo all’interno di comunità istituzionalizzate. La musica e la ginnastica, insegnate in famiglia, lasciano il posto alla marcia militare e alla ginnastica volta all’indurimento del corpo. I

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ragazzi sono sottoposti al governo degli irèni, allievi piú grandi che svolgono il ruolo di superiori. Dopo i 20 anni ogni giovane è affidato a un anziano, che ne completa l’educazione. Nell’epoca del declino spartano, si giunge a esaltare il furto, la scaltrezza, la dissimulazione e la menzogna, e l’esercitazione militare arriva a prevedere anche spedizioni omicide contro gli iloti. L’educazione intellettuale prevede, oltre a leggere e scrivere, l’insegnamento (a memoria) dei poemi omerici. A causa di questa limitata educazione intellettuale, Sparta non diede contributi essenziali alla cultura greca. Caratteristica dell’oratoria spartana fu il discorso breve e conciso, tanto che ancora oggi si definisce “laconico” (poiché Sparta era situata nell’entroterra della Laconia, il Lácone, o Lacedemone, era lo spartano) quello stile che si esprime in poche parole. Anche le donne erano addestrate militarmente, e godevano di molti diritti. Non potevano scegliere lo sposo, ma avevano il diritto di unirsi ad altri uomini dopo il matrimonio, per procreare figli sani e robusti per la comunità. Educazione ad Atene Differente è il discorso per Atene, innanzi tutto perché, essendo situata sul mare, all’economia agricola si accosta, nel corso dell’VIII - VII secolo a.C., un’economia basata sul commercio, che si sviluppa sulle rotte aperte dai Fenici. Per conoscere i fondamenti dell’educazione ateniese è necessario rifarsi ad un poeta famoso: Solone, che nel 594 a.C. era alla guida della città. Egli diede alla polis una costituzione democratica, liberò i contadini, istituí il tribunale del popolo e creò il Consiglio dei Quattrocento. L’areté eroica diventa civile, assumendo il significato di “vivere equilibrato”. Il prevalere dell’aspetto civile su quello militare della vita della polis fa sí che l’educazione del cittadino comprenda: l’alfabetizzazione

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culturale, la quale rende possibile a tutti la partecipazione ai lavori dell’agorà (nell’antica Grecia era la “piazza”, centro d’incontro e di attività economiche, politiche e giuridiche), un organo deliberativo, e rende possibile il sorteggio dei membri della boulé (l’“assemblea”), un organo esecutivo; l’accostamento ai poemi della tradizione; l’insegnamento della musica e della ginnastica, la quale assume carattere sportivo e trasforma la vecchia educazione aristocratica in una pratica formativa piú accessibile a tutti (ricordiamo l’importanza delle Olimpiadi e la fama che gli atleti vittoriosi conquistavano in tutta la Grecia). Una delle migliori sintesi del percorso istituzionale dell’educazione in Atene è forse quella offerta da Platone: «dopo la prima educazione impartita dalla famiglia, i genitori mandano il fanciullo da un maestro. Dopo che il fanciullo ha imparato a leggere e a scrivere, vengono posti sui banchi di scuola alcuni poemi di buoni poeti. Al fanciullo viene insegnato a suonare la cetra e viene insegnata la ginnastica. Quando hanno cessato di andare a scuola, la città fa loro imparare le leggi». Platone sottolinea in questo passo dei suoi Dialoghi l’aspetto formativo e quindi propriamente pedagogico della formazione. Figura principale dell’educazione ateniese è il maestro, e successivamente l’intera città; i luoghi privilegiati per l’educazione sono il campo di battaglia, ma anche l’agorà, la boulé, il teatro… Tali luoghi educativi concorrono all’organizzazione del consenso ideologico, cioè alla omogeneizzazione culturale dei cittadini sulla base di una serie di valori comuni: la responsabilità individuale, il legame vita individuale-classe socialepolis, i sentimenti della libertà e della solidarietà. A 18 anni il giovane diventava efèbo, ed entrava a far parte della cittadinanza. L’efebía durava due anni, durante i quali si svolgeva la preparazione militare. A 20 anni la formazione era compiuta ed egli diventava membro della pólis.

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Nonostante l’alto livello di formazione culturale e di democrazia espresso dalla società ateniese, l’educazione era comunque riservata a una classe privilegiata: i cittadini aventi pieno diritto alla vita istituzionale della polis erano non piú del 5% della popolazione effettiva, in quanto i meteci (non originari di Atene), gli schiavi, gli schiavi liberati e i debitori non erano considerati cittadini. Per costoro, la formazione era limitata all’apprendimento di un mestiere, e si trasmetteva per via ereditaria. A partire dal V secolo a.C., comunque, anche al popolo e alla piccola borghesia fu concesso di accedere all’istruzione primaria. Tra gli esclusi rientravano le donne, la cui formazione prevedeva unicamente la gestione della casa e l’allevamento dei figli.

Bibliografia essenziale: W. JAEGER, Paideia. La formazione dell’uomo greco, vol. 1, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1953, 1978; B. SNELL, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it. Einaudi, Torino 1963.

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4 I Sofisti e Socrate

L’apertura sociale realizzatasi ad Atene a partire dal V secolo rende necessario un modello educativo nuovo, che consenta alla classe aristocratica di mantenere i privilegi che va progressivamente perdendo. La classe emergente, che potremmo definire “borghesia”, d’altra parte cerca di acquisire prestigio e potere “comprando” quella cultura alla quale non aveva potuto accedere. Si diffonde in questa situazione la figura del sofista, specialista che insegna la propria arte a pagamento, dimostrando che anche le conoscenze piú elevate possono essere insegnate a tutti. L’ideale pedagogico dei sofisti si fonda sulla convinzione che l’educazione non sia un processo naturale, ma debba essere guidata da un esperto, in un ambiente che favorisca la crescita e lo sviluppo dell’allievo. Il sofista è un esperto di tecniche, che trasmette un sapere non astratto, teorico, ma utile all’affermazione sociale, al successo nella vita pubblica. Non si cerca una verità astratta, assoluta, al di là dell’uomo; al contrario, l’unica verità è quella stabilita dall’uomo stesso. Questo è il significato della celebre frase di Protagora: “l’uomo è misura di tutte le cose”. La tecnica (in greco, techné) piú utile al fine di ottenere l’affermazione sociale desiderata, alla luce di questi presupposti, si

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rivela essere quella retorica e oratoria, che permette di tenere discorsi persuasivi, in modo da convincere gli altri delle proprie ragioni. La tecnica sofistica può essere suddivisa in tre parti: la grammatica (la conoscenza della lingua); la retorica (arte del discorso convincente); la dialettica (arte di confrontare due tesi contrapposte, facendole risultare vere o false a seconda della convenienza). Queste tre discipline costituiranno la base per la futura organizzazione degli studi umanistici. Tra i sofisti piú famosi, vi furono Protagora (492-411 a.C., date incerte) e Gorgia (485-376 a.C., date incerte). Il termine sofista (superlativo di sophós, per intendere una sapienza non comune, superiore) acquisí ben presto un connotato spregiativo, per indicare chi faceva uso di ragionamenti artificiosi, di retorici giochi di parole al fine di ottenere ragione anche con l’inganno. I sofisti vennero accusati di spregiudicatezza morale e di scarsa serietà scientifica, poiché miravano solo al successo verbale, senza nessun interesse per la ricerca della verità. Con i sofisti la filosofia operò in stretto contatto con la vita della pólis greca, affrontando principalmente problemi umani, del mondo sociale, civile e politico, al fine di trasmettere una istruzione e una educazione (paidêia), che insegnasse una “virtú” (areté) intesa come capacità retorico-dialettica di affermarsi con l’uso delle parole. Con Protagora di Abdera e Gorgia di Lentini si affermarono delle visioni del mondo antropocentriche e relativiste. Protagora, che esercitò con successo l’attività didattica ad Atene e subí un processo per empietà, dal quale si salvò fuggendo, sostenne che l’uomo è la misura (métron) di ogni cosa, per cui non esiste una verità assoluta, ma solo tante verità relative valide per ogni singolo individuo. Di ogni oggetto si può sostenere un ragionamento e il suo contrario, pertanto la verità è solo soggettiva; di conseguenza, ciò che è meglio e ciò che è peggio

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sono tali sempre in rapporto all’utile pratico dell’uomo che vive nella società. Per questo è possibile insegnare una virtú politica a tutti i cittadini, perché ognuno ha il diritto di far valere i suoi diritti di fronte all’assemblea. Gorgia, che sembra abbia vissuto piú di cento anni e che per dimostrare la sua abilità dialettica, pare si divertisse a sfidare la folla parlando senza preparazione di qualsiasi argomento, sostenne tre tesi: “nulla esiste”, cioè non esiste una verità; “se anche esistesse, non sarebbe conoscibile”; “se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile”, perché il linguaggio è un prodotto umano. Come si vede, con Gorgia il problema della realtà si legò strettamente a quelli della conoscenza e del linguaggio. Pertanto, se non esiste una verità oggettiva, il pensiero e il linguaggio sono indipendenti dalla realtà; per cui non si potrà insegnare una virtú universale, ma solo delle capacità, come la persuasione, la retorica, l’arte di costruire discorsi eleganti e persuasivi. Il personaggio che segnò un passaggio netto nel modo di far filosofia ad Atene e poi, in generale, in tutto l’Occidente, è Socrate (470/469-399 a.C.) che, benché fosse accusato di essere un sofista, dai sofisti si distaccò enormemente, per il suo metodo e per la sua levatura morale. Nato nel 469 a.C., ad Atene, città amata dalla quale volle allontanarsi il meno possibile, figlio di uno scultore, Sofronisco, e di una levatrice, Fenarete, sposato con una donna di nome Santippe (ricordata scherzosamente come la moglie bisbetica), d’aspetto piccolo e tozzo (la sgradevole figura esterna fece da contrasto con la straordinaria bellezza interiore), visse in povertà, perché rifiutò sempre di essere retribuito per la sua opera, in quanto continuava a sostenere di sapere solo una cosa: “saper di non sapere”.

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Pertanto, non poteva insegnare nulla; ciò nonostante trascorse buona parte del suo tempo a parlare con tutti i cittadini della pólis per stimolare tutti a riflettere sulla loro presunta sapienza, chiedersi, con spirito critico, il «che cos’è» delle cose e cercare la verità e il bene. Rimase coerente con le sue convinzioni fino alla morte; quando la città di Atene lo processò per le accuse (false e basate su indizi irrilevanti) di corrompere i giovani e di non credere negli dèi della tradizione, si difese senza umiliarsi, proponendo provocatoriamente di essere mantenuto a spese dello stato in quanto benefattore della città, accettò la condanna a morte, rifiutando le successive offerte di fuggire per aver salva la vita e, dopo un mese di prigionia, bevve con imperturbabile dignità la cicuta che lo uccise nel 399 a.C. Socrate non lasciò nulla di scritto; pertanto, ci si deve rifare a testimonianze dirette e indirette, le piú importanti delle quali sono quelle dell’allievo Platone, che però inizialmente tese a esaltare il maestro e, successivamente, utilizzò molto spesso nei suoi Dialoghi la figura di Socrate per esporre sue teorie; si debbono ricordare anche le testimonianze di Senofonte, che ebbe il limite di essere un letterato e di ridurre Socrate a un semplice saggio; del commediografo Aristofane, che cercò di ridicolizzare il filosofo ponendolo come modello dei peggiori sofisti; di Aristotele, che però aveva l’abitudine di reinterpretare i filosofi di cui parlava e che, inoltre, nacque quasi vent’anni dopo la morte di Socrate; e dei «socratici minori», discepoli di Socrate che interpretarono in maniera diversa da Platone le parole del maestro, ma dei quali si hanno scarse informazioni. Si deve, quindi, desumere da tutta questa massa di informazioni ciò che sicuramente o probabilmente è il pensiero di Socrate, eliminando tutto ciò che è falso, nella consapevolezza che non si potranno mai delineare con certezza tutte le sfumature del pensiero del filosofo ateniese.

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Per Socrate, il filosofo e, in generale, l’uomo devono cercare la verità e il bene. Socrate affermava, contro i sofisti, che la verità esiste e bisogna ricercarla, anche se egli affermava sempre di non possederla: è celebre la sua affermazione, «so di non sapere»; e quando, al riguardo, lo informano che l’oracolo di Delfi, alla domanda su chi fosse il piú sapiente della Grecia, aveva risposto: «Socrate», il filosofo spiegò che allora – visto che l’oracolo non può sbagliare – si deve considerare sapiente colui che riconosce che la sua sapienza umana, in verità, non ha nessun valore. In questo ragionamento è implicita la condanna contro tutti coloro che si arrogavano il diritto di essere sapienti in qualcosa e si attaccavano ai propri pregiudizi. Attraverso un metodo basato su un dialogo serrato fatto di rapide domande e risposte, Socrate intende svergognare questi falsi sapienti. Il primo momento del procedimento socratico è l’ironia: Socrate si rivolge ai “sapienti” manifestando deferenza, professando una profonda ignoranza e chiede di essere da loro istruito, ponendo domande precise. Queste persone, lusingate, per dimostrare la loro sapienza, rispondono e seguono il ragionamento di Socrate che, dopo altre lodi ironiche, inizia a insinuare qualche piccola obiezione; è questo il momento della confutazione: dopo una lunga serie di assensi, apparentemente ovvi e innocui, i cosiddetti sapienti si trovano a contraddire quanto avevano in principio sostenuto dimostrando, in realtà, di essere solo dei “falsi sapienti”. Dopo questa fase distruttiva, inizia la pars costruens con la domanda «che cos’è?» una determinata cosa, generalmente riguardo problematiche morali (per esempio, la virtú, il bene, la giustizia). Attraverso il che cos’è?, Socrate intende definire concetti universali, conoscenze valide per il maggior numero possibile di persone. A questo punto l’opera di Socrate procede con la sua attività piú importante: la maieutica (ossia il mestie-

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re di sua madre, l’ostetricia, l’arte della levatrice) riferita non ai bambini, ma alle idee degli individui con i quali dialogava. Se Socrate afferma di non sapere nulla, possiede però un metodo dialettico per aiutare a far venire alla luce le idee, i discorsi, le conoscenze degli uomini. Per questo Socrate continua a interrogare tutti coloro con i quali entra in contatto, alla continua ricerca della verità, sapendo che non sempre i ragionamenti porteranno a conclusioni e che non si possono insegnare conoscenze specifiche, ma solo un metodo di ragionamento. Socrate, dunque, non insegnò dei contenuti o una techné, ma attraverso il dialogo e la maieutica “insegnava” agli interlocutori a riflettere, ragionare e a “partorire” le proprie idee. Chiedendosi che cos’è l’uomo, Socrate mette in pratica il famoso motto dell’oracolo di Delfi, «Conosci te stesso»: questo lavoro di conoscenza interiore porta a dimostrare che l’uomo non è solo materia che sente stimoli e prova bisogni da soddisfare, ma possiede qualcosa in piú: l’anima (in greco psyché), che oltre ad animare i corpi, è la sede della coscienza e del pensiero. È proprio nell’anima che l’uomo deve indagare alla ricerca della conoscenza dell’uomo e del bene, per armonizzare l’esteriorità con l’interiorità. L’uomo non deve mirare a quelle virtú (areté) esteriori che erano tanto agognate dalla cultura e dall’educazione (paideia) tradizionali (come la forza, il potere, la prosperità), ma deve aspirare alla libertà, che consiste nel corretto agire morale che porta a fare il bene. Fare il bene significa essere felici, e presuppone la conoscenza del bene stesso. Colui che conosce il bene non potrà non farlo; infatti, il male è un errore, chi fa il male si sbaglia, non conosce il bene; è per questo che Socrate ritiene che la vita sia una continua ricerca della verità e del bene: come afferma nell’Apologia che «una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta».

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Bibliografia essenziale: PLATONE, Apologia di Socrate, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1966; SENOFONTE, Apologia di Socrate, trad. it. in Socrate. Tutte le testimonianze, Laterza, Roma-Bari 1986; SENOFONTE, Memorabili, trad. it. Rizzoli, Milano 1989. Letteratura critica: F. ADORNO, Introduzione a Socrate, Laterza, Roma-Bari 1973; G. REALE, Socrate, Rizzoli, Milano 2000.

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5 Platone

La morte di Socrate, avvenuta nel 399 a.C., segnò il momento ultimo di una crisi culturale e politica che decretò in Atene una frattura nel rapporto fra intellettuale e società, il quale si sposta adesso dal piano della concreta esperienza socio-politica della vita comunitaria a quello del puro pensiero. L’intellettuale trasferisce la propria riflessione sulla ricerca delle condizioni di possibilità di una rigenerazione dello Stato e dell’esistenza individuale e collettiva. La situazione storico-politica ateniese vide la città sconfitta dalla guerra del Peloponneso contro Sparta, e governata da una democrazia appena nata (dopo i governi oligarchici instaurati da Sparta), estremamente insicura, conservatrice, chiusa e difesa entro i confini dei valori tradizionali. Platone (428-348 a.C.) nacque ad Atene, da famiglia di nobili. Decisivo fu l’incontro con Socrate (avvenuto circa nel 408 a.C.), che lo introdusse al centro del dibattito culturale in Atene fra retorica e logica, politica ed etica. Pare che Platone, dopo la morte di Socrate, avesse viaggiato per qualche tempo; storicamente documentati furono i viaggi effettuati a Siracusa, dove strinse amicizia con Dione (cognato del tiranno di Siracusa). Progettò di fare di Siracusa un labora-

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torio sperimentale del suo Stato ideale, ma non riuscí mai in questa impresa. Nel 387 a.C. decise di istituire una scuola filosofica propria, l’Accademia. Abbandonato definitivamente il sogno di realizzare lo stato ideale nella città siciliana, si stabilí definitivamente ad Atene, e si occupò dell’Accademia fino alla morte, che lo colse nel 348 a.C. Platone è il primo filosofo della storia di cui si possiedano pressoché tutte le opere, esposte in forma elegante e coerente. Le sue opere (prevalentemente Dialoghi, cioè conversazioni fatte di domande e risposte, nei quali Socrate è spesso presente come personaggio principale), sono divise in nove “tetralogie” (cioè, gruppi di quattro), seppure alcune di dubbia autenticità, e divisibili cronologicamente – dopo notevoli studi stilistici e contenutistici, tutt’ora aperti – in dialoghi giovanili o del gruppo socratico (Apologia, Eutifrone, Critone, Carmide, Lachete, Ione, Protagora, Eutidemo, Repubblica libro I, Gorgia), dialoghi della maturità o del gruppo ideale (Cratilo, Menone, Convito, Fedone, Repubblica libri II-X, Fedro) dialoghi della vecchiaia o dialettici (Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Filebo) e opere pitagorizzanti (Timeo, Crizia, Leggi). Se il dialogo – come strumento – è parte integrante del metodo platonico, non minore importanza ha l’uso del mito, un tipo di linguaggio diverso dalla quello della tradizione, e che ha il cómpito filosofico di aiutare e spiegare il lavoro del lógos, stimolando l’immaginazione dell’ascoltatore. I miti sono narrazioni fantastiche utilizzate per spiegare in maniera semplice e intuitiva complesse teorie filosofiche. L’analisi filosofica di Platone comincia con l’accusa alla democrazia della pólis ateniese di essersi macchiata dell’intollerabile colpa di aver condannato a morte Socrate. Per questo Platone scaglia la sua pesante critica, attraverso il personaggioSocrate ai sacerdoti che elaboravano una ritualistica e una reli-

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gione superficiali e formali, ai poeti, falsi educatori e ai sofisti, che pretendono di insegnare la virtú, senza però conoscere la morale, la giustizia e nemmeno il bello e il bene, ritenuto vero fine e significato della realtà, ciò verso cui essa è orientata. Bisogna pertanto educare alla virtú, alla felicità, al bene. Se Platone procede dal suo maestro, intende anche superarlo, per trovare una risposta a cos’è il bene, il giusto, il bello: individuare, in sostanza, l’esistenza di una realtà indubitabile, certa e sicura. La sua dottrina divide la realtà in due dimensioni completamente diverse e separate (per quanto in rapporto fra loro): una è quella del mondo materiale, concreto, continuamente mutevole e in divenire, l’altra è quella del mondo ideale, il mondo delle Idee, o dell’iperuranio, un mondo al di là delle cose fisiche, eterno, immodificabile, immateriale, non sensibile. Le idee indicano le caratteristiche generali, universali delle cose concrete. Tutte le cose concrete (per esempio un cane) sono le copie, imitazioni (“imitazione”, in greco, si dice mímesis) delle idee, di cui condividono gli aspetti universali (il cane in sé, l’idea del cane di cui tutti i cani particolari partecipano: la caninità). L’idea universale è una realtà inintelligibile, che può essere còlta solo tramite il pensiero. L’idea è la vera realtà superiore, la forma, il modello, l’archetipo perfetto. Sia tutta la realtà concreta, sia quella astratta, cosí come tutte le azioni, partecipano (partecipazione, in greco, méthexis) delle idee universali (per esempio, un’azione giusta partecipa dell’idea di giustizia). Le idee esistono in un mondo ultraterreno, sovrasensibile, l’iperuranio, nel quale esse sono organizzate in maniera gerarchica, con in cima (come la punta di una piramide) l’idea che comprende, unifica tutte le altre, l’idea del bene. Essendoci due mondi, quello terreno (la copia) e quello delle Idee (vero), gnoseologicamente, vi sono anche due modi diffe-

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renti di conoscere (l’opinione – la dóxa – e la conoscenza vera, la sapienza – la sophía) e due differenti valori, per cui il mondo delle idee è il solo vero, bello e buono. Per approfondire ed esemplificare la teoria della conoscenza, Platone, nella Repubblica, utilizzò il celebre “mito della caverna”: si deve immaginare una caverna dove sono seduti, con le spalle rivolte all’ingresso, incatenati e immobili, degli uomini, che possono guardare solo il fondo della caverna; fuori c’è un muro oltre il quale camminano delle persone che sorreggono delle sagome; dietro di loro c’è un fuoco che illumina e proietta sulla parete della caverna delle ombre; per i prigionieri le ombre sono tutta la realtà; se qualcuno potesse liberarsi e uscire, in un primo momento rimarrebbe abbagliato dalla luce esterna, e, sconcertato, vorrebbe tornare indietro, poi scoprirebbe la vera realtà; gli uomini sono come quei prigionieri che scambiano le ombre (la realtà fenomenica) per la realtà vera (illuminata dall’idea del bene); il filosofo è come chi si è liberato dalle catene della sensibilità e attraverso l’intelligibilità scopre la vera realtà ideale e, dopo un primo momento di smarrimento, non vuol piú tornare indietro e capisce di avere il cómpito morale di liberare tutti gli uomini. L’uomo, per conoscere il vero, il bene, le idee, non deve costruire una verità che non esisteva prima, ma deve semplicemente ricordarsi, svelare una realtà già esistente, che è nascosta, ma posseduta da ogni uomo. Le idee, cioè, preesistono, non nella realtà sensibile, ma in un’altra dimensione (il mondo delle Idee), nella quale l’anima dell’uomo le ha potute conoscere prima di nascere e le ha dimenticate nel momento in cui è venuto al mondo; cosicché l’uomo non deve fare altro che ricordare ciò che si è imparato prima di nascere. Allora l’esperienza sensibile (anche se è di valore inferiore a quella intelligibile – delle idee –, non è però totalmente senza valore) ha il compito di stimolare il ricordo (vedendo le cose concrete, compiendo azioni,

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si recupera la conoscenza delle idee). Al proposito è celebre l’episodio dello schiavo, narrato nel Menone, che, dialogando con Socrate, riesce a trovare complesse verità matematiche, seppur non istruito. L’uomo può ricordare le idee perché è unità di corpo (sôma) e anima (psyché), che è immortale e dà vita al corpo e alla morte, l’anima si distacca e ha un destino indipendente dal corpo, andando a reincarnarsi (riprendendo la dottrina della metempsicosi di discendenza orfico-pitagorica) in altri corpi. Attraverso il famoso mito dell’auriga, esposto nel Fedro, Platone narra il “viaggio” dell’anima nell’al di là, una volta separata dal corpo, di come essa conosce le idee e come viene a reincarnarsi: l’anima è come un cocchio, trainato da due cavalli alati, uno bianco, docile agli ordini dell’auriga (simbolo degli impulsi buoni e razionali) e uno nero, ribelle (simbolo delle passioni carnali e mondane); quando domina il cavallo bianco, il cocchio vola nel mondo delle idee e partecipa di esse, quando domina quello nero, l’anima cade sulla terra, perde le ali e si incarna nei corpi. Per questo l’uomo deve tendere tutta la vita a riscattarsi, a purificarsi interiormente della caduta subíta e, liberatosi dalle passioni, giungere alla contemplazione pura delle idee, per arrivare a quella piú bella e piú buona: l’idea del bene. Anche l’amore (éros) può aiutare a raggiungere la sapienza (sophía), perché chi ama, disprezza il piacere fisico e si innamora dell’anima tentando di educarla, cioè di renderla migliore. Tendere a migliorarsi, a compiere azioni giuste, a prendere decisioni razionali, cercare il bene in terra è un cómpito estremamente importante dell’uomo e dell’educazione della società, perché nell’al di là – come racconta il mito di Er nella Repubblica, a dimostrazione dell’immortalità dell’anima – gli individui saranno gudicati dopo la morte e riceveranno premi e ricompense o castighi e punizioni a seconda della scel-

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te compiute e di come si sono comportati in vita; pertanto gli uomini possono scegliere una vita caratterizzata dalla virtú e dalla felicità. Questo mito ha un alto valore pedagogico perché insegna che gli uomini devono essere educati a compiere atti buoni e a compiere scelte giuste. Per rispondere a qual è il rapporto fra il mondo terreno e quello delle idee, fra finito e infinito, fra uno e molti, fra limite e illimitato, Platone ricorre all’opera del Demiurgo, cioè un artefice divino che non crea le cose dal nulla, ma che ha dato origine all’universo ordinando, organizzando la realtà materiale in base al modello perfetto dell’iperuranio, secondo un processo di imitazione. Il Demiurgo è buono e ha cercato di creare il cosmo, ispirandosi al modello eterno delle idee, perché fosse il piú bello e perfetto possibile. Come un artista, il Demiurgo ha operato al meglio sulla materia, ma l’opera non è perfetta come il modello ideale imitato per la pre-esistenza (oltre che di idee e materia) di una seconda causa, la chóra (traducibile con “ricettacolo”, “matrice”, il cui significato, però, si avvicina a quello di “non essere”, in quanto mancanza), che impedisce una copia identica all’originale. Per questo il mondo terreno tende a riprodurre quello ideale e a essere il migliore possibile; quindi sarà animato (vi è un’anima del mondo), in quanto ciò che è vivo è piú bello di ciò che è inanimato; l’iperuranio è eterno, allora nel cosmo vi sarà il tempo che è definito “un’immagine mobile dell’eternità”, perché il mondo terreno essendo generato ha un inizio e non può essere eterno, pertanto con il tempo si avvicinerà il piú possibile all’eternità. Il rapporto tra mondo delle idee e mondo terreno è dunque un rapporto di imitazione, pertanto si capisce meglio la svalutazione (che peraltro va ridimensionata) dell’arte effettuata da Platone: se il mondo terreno è una copia del mondo ideale, l’opera d’arte, che è una imitazione degli oggetti del mondo materiale, è imitazione di imita-

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zione, imitazione di secondo grado, quindi molto distante dalla perfezione delle idee. Come si è visto, Platone comincia a filosofare condannando la pólis di Atene per aver voluto la morte di Socrate; pertanto, se il governo ateniese ha sbagliato è necessario progettare uno stato con un ordinamento politico diverso e idealmente perfetto. È quello che elabora nella Repubblica, nella quale immagina che la giustizia dello Stato si regga sulla divisione in tre classi sociali, ognuna con il proprio ruolo: i produttori (nella cui anima prevale l’aspetto concupiscibile, e sono quindi “plasmati con metalli vili”) lavorano; i guardiani (dall’anima irascibile, “plasmati con l’argento”) difendono; i filosofi (dall’anima razionale, “plasmati con l’oro”) governano e educano il popolo per il bene di tutti, scegliendo, in base alle doti innate di ciascuno (cioè a quale parte dell’anima è piú sviluppata) a quale classe destinare gli individui, rimanendo sempre possibile il passaggio da una classe all’altra qualora si mostrassero sviluppate nuove caratteristiche. Nella Repubblica, assieme al suo ideale politico, Platone espose anche il suo ideale pedagogico. Poiché il fine pedagogico massimo è educare al bene collettivo e alla rinuncia di ogni individualismo, egli propose una educazione svolta in comune, in cui si condivida ogni cosa, persino le donne. Ciascuno dovrebbe fare al meglio ciò per cui è piú portato (per questo è stato definito aristocratico, perché devono governare i migliori, i piú idonei a farlo). I bambini dunque verrebbero cresciuti tutti insieme, in comune (sottratti ai genitori naturali, che non sanno quali siano i propri figli). Responsabili dell’educazione sono i filosofi-governanti i quali si occupano soprattutto delle classi dei guardiani-difensori e dei filosofi. Platone non mostrò particolare interesse educativo per la classe dei produttori, che deve provvedere unicamente alle necessità economiche.

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L’educazione è quindi inutile, e tutto ciò che serve è la formazione professionale, alla quale provvede la famiglia, o la corporazione di appartenenza. Una istruzione superiore porterebbe solo a non voler piú svolgere il compito assegnato, causando disagio e disordine sociale. Per l’educazione dei guardiani, Platone guarda in parte al modello spartano: alla nascita, i bambini vengono prelevati dalle famiglie per essere inseriti in comunità statali. Dopo i primi due anni, che prevedono l’ascolto della musica e la lettura delle fiabe, a 7 anni comincia l’educazione vera e propria, la cui prima fase prosegue fino a 18 anni. Le discipline sono: musica (che comprende tutte le arti legate alle Muse: strumento musicale, canto, declamazione, poesia) e ginnastica (scherma, corsa, marcia, tiro con l’arco, esercitazioni militari). Questa educazione è proposta anche per le donne. Dai 18 ai 20 anni sono previsti due anni di efebía, il servizio militare. Mentre i guardiani, a questo punto, concludono il loro iter educativo, per i filosofi si prevede una formazione piú lunga: dai 20 ai 30 anni la disciplina studiata sarà la matematica, la quale, per il suo aspetto formale, non legato al mondo fisico, avvicina al mondo delle idee; dai 30 ai 35 anni è previsto lo studio della dialettica, intesa come discussione e contemplazione della verità razionale pura. Seguono 15 anni di tirocinio, in cui il filosofo partecipa alla vita politica e sociale della polis. A 50 anni si conclude il cammino formativo del governante, il quale, a questo punto, potrà svolgere saggiamente il proprio compito, essendo in grado di prendere decisioni sagge per la vita della comunità.

Bibliografia essenziale. Opere di Platone: La Repubblica, trad. it. in Opere, Laterza, Roma-Bari 1966;

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Fedro, trad. it. in Opere, Laterza, Roma-Bari 1966; Menone, trad. it. in Opere, Laterza, Roma-Bari 1966. Letteratura critica: F. ADORNO, Introduzione a Platone, Laterza, Roma-Bari 1978; G. REALE, Platone, Rizzoli, Milano 1999.

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6 Aristotele

L’originalità di Aristotele (384-322 a.C.), rispetto a Platone, consiste nel concepire la filosofia come attività scientifica articolata in un sistema di discipline diverse e mirante ad abbracciare tutti gli aspetti della realtà. Abbiamo visto come per Platone, dato il suo interesse politico-educativo, l’idea pedagogica si rendesse esplicita fino a diventare oggetto di una trattazione analitica in virtú della relazione tra utopia politica e sistema formativo (condizione della sua concreta realizzazione storica). Solo un’educazione nuova (dei custodi perfetti) avrebbe potuto edificare il nuovo Stato secondo giustizia. Aristotele, al contrario, non ha utopie, e mira ad una analisi del reale che porti alla costruzione di una pedagogia fondata sulle caratteristiche psicologiche, etiche e sociologiche dell’uomo. La paideia, con Aristotele, allarga il suo orizzonte agli interessi scientifici, ma non interrompe la linea continua dell’idea educativa tradizionale, ancorata all’etica e alla politica. Aristotele nacque a Stagira, città macedone colonizzata dai greci, da padre medico, Nicomaco. Aristotele si interessò all’osservazione dei fenomeni naturali. Rimase orfano da piccolo e trovò ospitalità presso Prasséno, il quale nel 367 a.C. lo iscris-

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se all’Accademia di Platone. Il piano di studi dell’Accademia prevedeva: matematica, geometria, astronomia, medicina. Aristotele fu promosso abbastanza presto docente di retorica: in un primo momento rimase vicino alle posizioni di Platone, successivamente, nel 353 a.C., con l’opera Sull’anima iniziò a prendere le distanze da Platone, precisamente sul modo di intendere le idee. Nel 342 a.C., Filippo di Macedonia lo chiamò alla corte macedone, come precettore del figlio Alessandro (futuro Alessandro Magno; si vedrà poi che il disegno messo in atto da Alessandro seguirà direzioni opposte a quelle di Aristotele). Nel 335 a.C., quando Alessandro fu il dominatore indiscusso della Grecia, Aristotele Fondò ad Atene un grande ginnasio pubblico, il Liceo (perché sacro all’Apollo Licio). Il Liceo aveva un giardino e una passeggiata (perípatos), di cui Aristotele fece uso per le sue lezioni, segnando il suo distacco definitivo dall’Accademia. Nel 323 a.C., alla morte di Alessandro, Aristotele dovette lasciare Atene sotto l’accusa di empietà, e si trasferí a Calcide, dove morí l’anno seguente. Il corpus delle opere di Aristotele comprende 6 gruppi di opere: 1) scritti di logica (Organon = strumento): Categorie, De Interpretazione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici, Confutazioni sofistiche; 2) scritti di filosofia della natura o fisica: Fisica, De caelo; 3) I 14 libri sulla Metafisica; 4) opere scientifiche, di biologia, di metereologia, di psicologia: De anima, Della degenerazione e corruzione, Piccoli trattati di storia naturale, Parti degli animali, Riproduzione degli animali; 5) opere morali e politiche: Etica Nicomachea, Etica

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Eudemia, Grande Etica (opera spuria, sintesi delle due etiche precedenti), Politica, Trattato sull’economia, Costituzione degli Ateniesi; 6) opere di Retorica e Poetica. Aristotele iniziò il suo lavoro filosofico criticando la teoria di Platone, in particolare la dottrina delle idee. Per Aristotele non esistono idee separate dalle cose; al contrario, le idee risiedono nelle cose, sono i caratteri universali delle cose stesse, sono le caratteristiche comuni a piú cose. Da qui Aristotele elabora la sua teoria delle «categorie», cioè dei generi piú ampi delle predicazioni delle cose, i quali si distinguono in base alle domande che si possono porre riguardo le cose: se si chiede «che cos’è?» si tratta della categoria di sostanza, se «quale?», la categoria qualità, e cosí via per quantità, relazione, luogo, tempo, agire, subire, stare, avere. Alla nozione di sostanza si connette quella di accidente, ciò che in una cosa è variabile e non essenziale (per esempio che una persona sia al sole o all’ombra è un fatto accidentale, che non modifica la sostanza della persona). La sostanza negli individui concreti è l’unione di materia e forma nel sinolo (che significa «tutto insieme»), nel quale vi è un primato della forma, perché essa determina la materia. In sé, separate, materia e forma non esistono, ma esistono sono negli individui reali. Un’altra teoria fondamentale della filosofia aristotelica è quella riguardante i concetti di «potenza» e «atto», secondo la quale la potenza è la predisposizione di qualcosa ad assumere una determinata forma, mentre l’atto è la realizzazione compiuta della forma nella cosa. Per esempio, il seme è in atto un seme, e in potenza una pianta, che è l’atto di quella potenza. La materia è essere potenziale (possibilità di ricevere una certa forma); la forma è essere in atto (in essa si dispiega la potenzialità della

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materia). La sostanza, cioè ogni singolo ente, è sintesi di materia-potenza e forma-atto. Importante, poi, è la teoria delle cause dell’esistenza di un ente, che Aristotele individua in quattro: causa formale, che è la forma, l’ordine interno alla cosa; la causa materiale, ciò di cui la cosa è fatta; la causa finale, il termine del processo attraverso il quale la materia acquisisce una determinata forma; la causa efficiente, ciò che esternamente alla cosa realizza questo processo. Con lo scritto Sull’anima, Aristotele vuole spiegare la vita in tutte le sue forme. Per Aristotele, l’anima si divide in: 1) anima vegetativa (cioè spiega la vita del mondo vegetale e delle funzioni nutritive); 2) anima sensitiva (spiega i fenomeni della sensibilità, del piacere, del dolore e del mondo animale); 3) anima razionale (è propria dell’uomo e ne spiega l’attività del pensiero). Alla luce di quanto esaminato finora, l’antropologia aristotelica risulta cosí strutturata: - l’uomo è sinolo (etimologicamente significa “tutto insieme”; cioè, sintesi di materia e forma); - l’uomo è un individuo (essere sostanziale); - il corpo ha un suo spessore sostanziale, con propri bisogni ed esigenze; - l’anima è sostanza nell’accezione piú forte dei significati dell’essere, se è forma del corpo, e quindi sostanza, almeno per un certo aspetto, è autonoma. Possiamo notare che in Aristotele viene a cadere la relazione anima-corpo di Platone. L’uomo non è piú composto di elementi antagonistici, il corpo non è la prigione dell’anima; l’uomo si configura ora come un organismo complesso, una sintesi di ele-

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menti in interazione tra loro. L’antropologia aristotelica costituisce il primo modello di un soggetto educativo concreto, calato nel mondo biologico e sociale. A differenza di Platone, per Aristotele la psiche va vista nella totalità delle sue dimensioni: fisica-organica, sensitiva e intellettiva. Nell’uomo l’anima è una struttura unitaria portatrice di diverse funzioni, è atto di un corpo che ha vita in potenza. Questa interazione spiega i numerosi fenomeni psichici che alimentano l’esperienza umana. La psicologia di Aristotele è importante perché costituisce il primo modello organico di una psicologia che trova i propri fondamenti nella biologia (ciò pone la premessa in modo oggettivo per uno studio scientifico del soggetto da educare). L’alunno, quindi, non va considerato solo come ente razionale, ma è assunto come concreta individualità razionale e corporea, con bisogni che riguardano tutto il suo essere. Se ogni ente ha come fine quello di attualizzare la propria forma, l’individuo umano tende ad attualizzare le proprie funzioni organiche, sensitive ed intellettive. L’istruzione e l’educazione sono attività che assecondano un processo di sviluppo che è naturalmente attivo, la cui efficacia dipende sia dalle attitudini dell’individuo che dalle stimolazioni dell’ambiente. Aristotele ha un’idea di educazione intesa come processo attivato dall’interno del soggetto. All’inizio l’individuo non è portatore di alcun sapere, e giunge alla conoscenza attraverso gli organi di senso e l’intelligenza, assimilando forme sensibili e intelligibili. Abbiamo quindi due gradi del conoscere: 1) sensazione, che richiama il processo di assimilazione materiale propria dell’anima sensitiva; 2) conoscenza intellettiva, che induce le forme sensibili (immagini) a forme intelligibili (idee, concetti).

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L’apprendimento, dunque, è un processo che va dal particolare all’universale, dal concreto all’astratto, dal sensibile al mentale (induzione). Il risultato dell’apprendimento è l’esperienza, che dal punto di vista statico è patrimonio di dati acquisiti, e dal punto di vista dinamico è il processo di apprendimento. Una buona educazione, perciò, è quella che sviluppa l’utilizzo della razionalità e l’esercizio di esperienza. La virtú, per Aristotele, non riguarda però solo la dimensione razionale, ma tutte le dimensioni personali che intervengono nella condotta. La ragione si pone come principio di mediazione, di equilibrio tra passione e razionalità. Principio etico fondamentale è quello del giusto mezzo, che è criterio metodologico dell’educazione. Questa “medietà”, come è stata definita, non è da confondersi con la mediocrità, dato che proprio in essa si esplica l’eccellenza del valore morale. Il “mezzo” è sempre riferito al soggetto che agisce in determinate circostanze, variabili e contingenti. La virtú sta in questa disposizione, efficace per la scelta di una condotta intermedia, che eviti gli eccessi e i difetti passionali. Sul campo di battaglia, per esempio, vanno evitati sia l’eccesso di passione (la temerarietà) che il difetto (viltà); di fronte ai piaceri, il giusto mezzo sarà quell’atteggiamento fra l’incontinenza sfrenata e l’insensibilità disumana. Riguardo all’ira, Aristotele indica la virtú della “gentilezza”, che evita gli inopportuni eccessi di collera ma non esclude il giusto adirarsi per le eventuali offese ricevute. Questa è la condotta che permette all’uomo di raggiungere il proprio fine piú alto, la felicità, il quale non va confuso con i diversi fini particolari, raggiungibili attraverso condotte specifiche (ad esempio, studio al fine di essere un bravo insegnante). L’uomo deve quindi esercitarsi a compiere buone azioni, razio-

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nali, che mantengono un giusto mezzo per raggiungere il fine educativo della ricerca della felicità. Il fine etico, quindi fine dell’educazione, è il bene dell’uomo in due direzioni: 1) direzione conoscitiva (contemplazione riservata a pochi privilegiati, i filosofi), che mira al sapere come bene supremo dell’uomo, bene che permette di realizzare al meglio la propria natura di essere razionale. Il fine dello sviluppo umano sarà allora il tendere alla conoscenza nella sua forma piú elevata. 2) direzione pratica, che si esplica non nella contemplazione, ma nel concreto agire all’interno della società, ad esempio nella sfera politica. Nella Politica, Aristotele definisce l’uomo un animale politico, un animale sociale, che realizza cioè se stesso all’interno della polis, la comunità della quale fa parte. Il bene per il singolo, quindi, coincide con il bene per la polis, a tal punto che in Aristotele manca quella che possiamo definire “dimensione individuale”, una visione dell’uomo non inserito nella società. Una volta definite le scienze necessarie per il buon funzionamento della polis (strategia, economia, retorica), Aristotele indica le possibili forme di governo, le quali risultano essere: 1) politeia, il governo di molti; 2) aristocrazia, il governo di pochi (gli aristòi, in greco i “migliori”); 3) monarchia, il governo di uno solo. Queste, se mal interpretate, possono degenerare rispettivamente in: 1) democrazia, quando a dominare sono la confusione e la demagogia, che impediscono un governo razionale; 2) oligarchia, quando i pochi che detengono il potere non sono i migliori, ma i piú ricchi, che perseguono solo i propri interessi;

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3) dittatura, situazione politica in cui l’unico governante non gode del favore dei sudditi, ha usurpato il potere e lo usa a proprio esclusivo vantaggio. Come si vede, per Aristotele non è tanto importante quale forma di governo venga adottata, quanto piuttosto che essa sia correttamente messa in atto, e che si riveli quindi utile a perseguire il bene supremo: la felicità dell’uomo.

Bibliografia essenziale. Opere di Aristotele: Dell’anima, trad. it. in Opere, Laterza, Roma-Bari 1973; Etica nicomachea, trad. it. in Opere, Laterza, Roma-Bari 1973; Politica, trad. it. in Opere, Laterza, Roma-Bari 1973. Letteratura critica: G. REALE, Introduzione a Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1974; E. BERTI (a cura di), Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1997.

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7 L’ellenismo

Con la morte di Alessandro Magno, imperatore macedone, nel 323 a.C., ebbe inizio l’ellenismo, durante il quale, per tre secoli, si assistette a un’enorme diffusione della cultura e della lingua greche in buona parte del mondo allora conosciuto, dai confini con l’India alle coste dell’Africa, fino in Spagna. Questa età conobbe anche una profonda crisi, fatta di lotte e violenze politiche e sociali, che sfaldarono il grande Impero Macedone, fin quando Roma conquistò tutti i regni ellenistici, nel 37 a.C. Si registrarono grandi cambiamenti nella società, a livello economico, politico e culturale, determinati dall’accresciuto livello degli scambi. Questo portò a un accrescimento di ricchezza e potere, che si concentrarono però nelle mani di poche famiglie privilegiate. Una conseguenza derivata dalla vastità delle proporzioni raggiunte dal territorio dell’impero fu la scomparsa dell’attaccamento alla patria, determinato dal fatto che gli uomini non si sentivano piú legati ad una polis, ma appartenenti ad un grande impero, che includeva tutto il mondo allora conosciuto. La crisi della civiltà greca sarà sentita e vissuta tragicamente dagli intellettuali e dai filosofi, i quali si distaccarono sempre

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piú dalle vicende politiche, delusi dalla vita della polis, alla ricerca di una forma di felicità individuale, privata. Le filosofie ellenistiche, che ebbero larga diffusione e sviluppo nel mondo romano, abbandonarono le speculazioni metafisiche, interessate maggiormente alle questioni etiche e morali. Le scuole filosofiche piú importanti furono l’epicureismo, lo stoicismo e lo scetticismo. L’epicureismo si sviluppò nella scuola di Epicuro di Samo, chiamata il Giardino (aperta anche agli schiavi e alle donne), elaborando una filosofia concentrata sulla ricerca della felicità che fu portata avanti nel mondo romano in particolare da Lucrezio, autore del De rerum natura. La visione del mondo di Epicuro è chiaramente materialistica. Da un punto di vista della fisica, egli riprende la teoria democritea dell’atomismo, secondo la quale il mondo è costituito di atomi e di vuoto in modo da permettere il movimento degli atomi e l’incontro e l’aggregazione di essi in corpi, secondo la teoria della paránklisis o clinamen (rispettivamente in greco e in latino: «deviazione»). L’aspetto piú importante del pensiero epicureo è l’etica, basata sulla ricerca della felicità intesa come ataraxia, cioè imperturbalità, assenza di turbamento, per cui il piacere è assenza di dolore (aponia); pertanto anche la morte non è un male, in quanto assenza di dolore; di conseguenza non bisogna temere la morte, perché, come dice Epicuro nella Lettera a Meneceo, quando c’è lei non ci siamo noi e quando ci siamo noi non c’è lei. Il piacere è un attimo limitato, pertanto l’uomo deve cercare una felicità finita, terrena, in questa vita, e non deve aspirare a una vita eterna, che è un’illusione; dovrà cercare di vivere bene, e per realizzare questo fine eviterà ogni preoccupazione, turbamento, cercando una vita appartata, solitaria, isolata, lontana specialmente dalla politica (è famoso il motto «vivi nascosto!»), in compagnia degli

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amici (persone scelte liberamente, con cui trascorrere piacevoli momenti dialogando e conversando), concentrandosi sull’interiorità ed evitando desideri superflui, non necessari e non naturali. Per Epicuro gli dèi esistono, ma vivono separati, lontano dagli uomini e dalle loro preoccupazioni e disinteressati delle vicende terrene, negli intermundia, gli spazi vuoti fra un mondo e l’altro; questo è dimostrato dall’esistenza del male in terra, perché se esiste il male, allora o gli dèi non lo vogliono eliminare e allora sono malvagi, o non possono evitarlo e allora sono impotenti; ma tutto ciò è in contraddizione con l’esistenza degli dèi, che non possono essere né malvagi, né impotenti. In realtà l’uomo è un essere finito, solo in un mondo finito, e qui deve cercare di costruire la propria felicità. La visione degli dèi che vivono beati, in mondi separati, sembra essere la sublimazione del desiderio di Epicuro di vivere separato, lontano dai turbamenti, dagli eventi del mondo e della società. Lo stoicismo ebbe la sua origine antica nel III secolo a.C. per opera di Zenone di Cizio, Cleante e Crisippo, per poi svilupparsi in uno «stoicismo di mezzo», con Panezio e Posidonio e, a Roma, nella «Stoa nuova», con Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. Il nome stoicismo deriva dal nome della scuola, il Portico (in greco stoá, piú precisamente stoá poikylé, “portico dipinto”) fondata da Zenone attorno al 300 a.C. Proponendo una visione immanentista e panteista del mondo (animato), che coincide con Dio, inteso come il lógos, la legge, l’ordine razionale interno alla realtà che la guida nel suo sviluppo, gli stoici sono fermamente convinti dell’esistenza del destino, della provvidenza che guida la natura e le vicende umane verso il bene e il meglio.

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Originale e importante è la logica stoica, spesso in opposizione e contraddizione con quella aristotelica, dalla quale si differenzia perché non analizza termini, ma proposizioni (è, pertanto, una logica proposizionale e non formale), basate su fatti reali, empirici, che debbono essere verificati dall’esperienza. L’etica stoica ricerca la filosofia nella saggezza, che consiste nell’atarassia (assenza di turbamento) e nell’apatía (assenza di passioni, imperturbabilità anche di fronte agli eventi piú gravi), e si propone di vivere secondo natura, di adattarsi al lógos del mondo, allo sviluppo degli eventi, al corso delle cose; solo cosí si può raggiungere la felicità, ispirandosi alla ragione e alla virtú, la quale è premio a se stessa. Le azioni autenticamente virtuose sono quelle la cui intenzione è completamente pura, finalizzata a se stessa e sono compiute per il solo fine di perseguire la virtú. Lo stoico, inoltre, non si oppone al destino, accettando serenamente ogni evento, compresa la morte: se si rende conto che la soluzione piú razionale da adottare è il suicidio, egli non esita a metterlo in atto (come hanno fatto in età romana molti filosofi stoici, tra i quali, famoso, è il caso di Seneca). Lo scetticismo (dal greco sképsis, percezione, osservazione, ricerca) nacque per opera di Pirrone di Elide (perciò si parla anche di «pirronismo»), e viene proseguito da Timone, Arcesilao, Carneade e, nel mondo romano, da Sesto Empirico. Punto fondamentale di questa dottrina è l’affermazione secondo cui nulla è vero in senso assoluto; tutte le teorie possono essere sottoposte a critica, e dimostrare cosí i loro punti deboli. Per questa via si arriva a rifiutare il linguaggio come veicolo di conoscenza, tanto radicalmente da proporre l’afasía (cioè l’assenza di discorso), e l’epoché, la “sospensione del giudizio”.

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Alcuni stoici opposero agli scettici una critica alle posizioni piú radicali, perché se si afferma che “nulla è vero”, si cade in un circolo vizioso, per cui almeno una verità esiste, cioè la verità di questa affermazione. Durante quel periodo storico che va dal II-III fino al VI-VII secolo d.C., che in passato era considerato solo come età di decadenza, si sviluppò un pensiero ampiamente impregnato di problematiche religiose: dalla filosofia giudaica (il cui massimo esponente fu Filone di Alessandria), allo gnosticismo (da gnosis che significa “conoscenza”; non fu un sistema definito di dottrine, con un autore specifico, ma una varietà di opinioni su problematiche cosmogoniche, antropologiche e soteriologicoescatologiche), fino a giungere – attraverso il medio-platonismo – al neo-platonismo di Plotino (205-270) e del suo allievo Porfirio (233/234-305). Fin dalle origini queste nuove tendenze filosofico-religiose mostrano l’intento di rinnovare il paganesimo ellenico, avendo ricevuto influssi di credenze orientali egizie, caldaiche e giudaiche, presentano un notevole accento mistico ed estatico. Verso la fine del I secolo a.C., probabilmente l’Accademia platonica cessò la sua attività. Il platonismo continuò però per molti secoli la sua diffusione trovando in Alessandria il suo maggior centro di propagazione. Nell’età ellenistica la paideia greca assunse la sua forma definitiva; tale termine indicò non piú il processo educativo, ma il suo risultato, il contenuto culturale che viene trasmesso. L’ordinamento scolastico che si affermò in questo periodo costituí una razionalizzazione delle forme e delle strutture educative: venne colmato il vuoto esistente tra il corso elementare e quello superiore, con una connotazione precisa del corso secondario. Particolare importanza assunse l’insegnamento

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della lingua, sia la lingua madre che quella greca, vista come linguaggio comune per le diverse popolazioni dell’impero, alle quali si insegnò una lingua che era un adattamento del greco classico. Lo sviluppo educativo si venne a suddividere in varie fasi. Educazione familiare, fino ai 7 anni, durante i quali il bambino veniva affidato alla famiglia, alle cure della madre che si occupava dei problemi igienici e dello sviluppo biologico. Nelle famiglie aristocratiche, alla madre si univa una schiava che poteva adempiere a funzioni di nutrice ed educatrice. Educazione primaria, dai 7 fino ai 14 anni, durante i quali il bambino entrava a scuola, la quale poteva avere carattere pubblico, ma solitamente era privata. Le figure deputate all’educazione erano il maestro (didàscalos) e l’insegnante di lingua (grammatistès). Il primo trasmetteva un’educazione generica, non aveva alcuna qualifica professionale e godeva di un prestigio sociale bassissimo, mentre il secondo, che cominciava l’insegnamento solo quando l’allievo aveva 12-13 anni, insegnava lettura e scrittura, adottando un metodo mnemonico, basato sulla ripetizione, la declamazione, e l’uso di punizioni corporali: si diffuse l’uso della verga. Il materiale didattico era ancora pressoché assente. Un’altra figura rilevante per l’educazione del giovane era quella del paidagogòs, termine che inizialmente designava uno schiavo incaricato di accompagnare l’allievo a scuola, e poi passò a indicare il tutore domestico, il quale aveva anche un ruolo di supporto alla formazione degli alunni affidatigli. Spesso divenne piú importante del maestro, superandolo per importanza e prestigio. Educazione secondaria, dai 14 ai 18 anni, che fu caratterizzata per il ruolo privilegiato che veniva attribuito all’insegnamento letterario, a quello della grammatica e della geometria. Il termine coniato in questo periodo fu quello di enkyklios paideia

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(cultura enciclopedica): intendeva definire l’idea di una formazione generale, che però nei fatti si arrestava allo studio della logica, della lingua e della letteratura. La figura scolastica dominante era quella del grammatikòs, insegnante di lingua, letteratura classica e poesia, a cui univa in maniera non molto organica materie complementari quali il calcolo, disegno, la musica. Verso la fine dell’ellenismo prese il via la consuetudine di dividere le materie in due gruppi: quello letterario, che comprendeva grammatica, retorica e dialettica, e quello matematico, che includeva aritmetica, geometria, astronomia e musica. Piú ricco era l’insegnamento della ginnastica, che includeva la corsa, la lotta libera (il famoso “pancrazio”) e le esercitazioni ginniche, e non era piú appannaggio dei soli aristocratici come in precedenza. Queste discipline erano insegnate dal pedotríba, maestro di ginnastica e guida spirituale, a cui si affiancò poi il gymnastés, l’allenatore sportivo vero e proprio. Educazione superiore, che coincideva con l’età dell’efebía, intesa come momento di educazione del carattere, mentre l’educazione fisica assunse esclusivamente carattere sportivo. Il livello degli studi superiori restava riservato ad una élite. Il limite dell’ideale della formazione enciclopedica consistette nella sua astrattezza e nel suo formalismo. L’idea pedagogica dell’età ellenistica, nondimeno, ebbe il pregio di aver posto l’accento sulle dimensioni intellettuali ed etiche della formazione della personalità. La dimensione estetica, affidata al disegno (disciplina inserita per la prima volta nel curriculum di studi) e alla musica, fu destinata a decadere poi attraverso i secoli, cosí come l’educazione fisica, che perse la sua importanza di momento formativo.

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Bibliografia essenziale: A. LONG, La filosofia ellenistica, trad. it. il Mulino, Bologna 1991; G. GULLINI, L’ ellenismo, Jaca Book, Milano 1998; C. LÉVY, Le filosofie ellenistiche, Einaudi, Torino 2002.

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8 Cenni sull’educazione nella cultura romana

Nel 168 a.C. i romani conquistarono la Macedonia, e la Grecia cadde sotto il loro controllo. Con tali conquiste anche la cultura greca fece il suo ingresso a Roma, subendo però un processo di trasformazione che, per quanto riguarda la filosofia, ne accentuò la dimensione pratica, mettendo in secondo piano l’impegno speculativo e il valore della ricerca pura. Roma assorbí la filosofia, la religione e molti aspetti letterari dalla cultura greca, e li adattò alle proprie tradizioni. Le scuole di pensiero che incontrarono il maggior successo sono quelle dell’Ellenismo: l’epicureismo, lo scetticismo e, soprattutto, lo stoicismo, che attraverso la sua visione di un mondo unitario, gerarchicamente ordinato, costituiva la base teorica dell’Impero. Quando Roma diede inizio alla propria storia nel Latium, la penisola italica aveva già intrecciato rapporti di una qualche consistenza con la cultura greca: al sud con le colonie della Magna Grecia, al centro-nord con gli Etruschi. Non è da escludere che dai rapporti con queste aree geografiche i romani siano venuti in possesso dell’alfabeto. C’è però un elemento che caratterizzò in proprio i romani, ed è costituito dal tipo di eco-

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nomia che fece di Roma, originariamente, una città agricola, poco interessata al commercio con altri popoli. La conseguente mentalità romana, di origine contadina, risultò essere pratica, dedita alla risoluzione di problemi concreti, in quanto l’atteggiamento del contadino è, da sempre, conservatore e legato ai ritmi ripetitivi e sempre uguali della terra; non bisogna però pensare che la civiltà romana fosse esclusivamente dedita all’agricoltura, in quanto diventò famosa anche per le grandi opere di urbanistica, per la costruzione di palazzi, di strade e di piazze, per la bonifica delle zone paludose, per la creazione di imponenti acquedotti e di opere idrauliche, nonché (sempre significativo della tipica mentalità concreta del romano) l’elaborazione di codici di leggi e di una importante struttura giuridica. La storia dell’idea pedagogica a Roma deve prendere avvio dal fatto che è storia dell’educazione di un popolo di contadini, di proprietari terrieri. La struttura agricola dell’economia spiega tutta una serie di fenomeni educativi importanti, quali: il culto della tradizione, il rispetto della legge, la centralità della famiglia. Il primato etico occupato dal Mos Majorum (alla lettera, costume dei grandi) nasce dalla codificazione di un insieme di usi e costumi che tendono a consolidarsi nel tempo. Le forme di vita contadina hanno le caratteristiche di fissarsi in tradizione, in comportamenti, attività, abitudini e rapporti che si ripetono uguali, da una generazione all’altra. L’economia agricola ha carattere familiare, il che conferisce una naturale stabilità e solidità alla continuità delle forme di vita attraverso l’iniziazione delle nuove generazioni al lavoro. Una posizione centrale nel sistema di vita in età arcaica è occupata dalla famiglia, al cui interno la figura piú importante è quella del pater familias, il cui potere per lungo tempo non conosce limiti: può deci-

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dere della vita e della morte di domestici, schiavi e parenti. La tradizione educativa romana mira a formare un tipo di uomo, il proprietario terriero, che è sí nobile, ma non per questo disdegna il lavoro, e costruisce la sua vita su valori concreti: la famiglia, le sue tradizioni, la dignità personale, l’impegno civile. Il romano, inoltre, si preoccupa della grandezza e della potenza della patria non meno di quelle del proprio casato: rafforza i propri rapporti con lo Stato, partecipa alla vita politica e a quella militare. Tuttavia i due momenti, quello familiare (privato) e quello sociale (pubblico), restano distinti, concorrendo insieme alla definizione della condotta. L’educazione romana, almeno fino alle soglie del III secolo d.C., allorché presero corpo le prime tendenze innovatrici, si risolve in un processo di socializzazione che collega l’etica familiare a quella politica dello Stato. Educatrice naturale fino ai 12 anni era la madre e non una schiava, come invece avveniva in Grecia. L’istruzione cominciava con un livello primario, dai 7 ai 12 anni, a cui accedevano ragazzi e ragazze. Mentre l’educazione femminile si concludeva genericamente a questo punto (la donna era considerata già in età da marito: requisiti necessari per il matrimonio erano la verginità, la castità e l’esperienza nelle faccende domestiche), diversa era la situazione di quella maschile: nell’educazione del fanciullo, fattosi preadolescente, alla madre succedeva il padre; è questo un motivo pedagogico esclusivamente romano. Non solo il padre introduceva il figlio alla pratica del lavoro e dell’organizzazione aziendale della famiglia, ma gli stava accanto (con la sua presenza diretta o indirettamente, attraverso l’affido a un anziano di provata esperienza e saggezza) nel tirocinio delle armi e del fòro, la piazza, centro della vita cittadina, giuridica e politica. Verso i 14-16 anni una pubblica cerimonia

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religiosa (Liberalia) introduceva il giovane alla vita pubblica: egli dismetteva la toga listata di porpora e vestiva la toga bianca del cittadino, e da questo momento iniziava ad assistere col padre alle sedute del senato e a partecipare alla vita politica. Dopo il servizio militare, il giovane era poi affidato dal padre a una personalità di rilievo (fra gli esempi conosciuti, Cicerone, affidato dal padre a Muzio Scevola). Questo modello educativo subí inevitabilmente delle modifiche, le quali rispecchiavano l’evolversi della società romana. Al tempo di Cicerone, nel I secolo a.C., l’educazione non si realizzava piú prevalentemente attraverso il tirocinio e l’esempio, ma anche sui libri, al contrario di quanto avveniva in età arcaica, quando lo studio era limitato alle XII tavole delle leggi fondamentali di Roma. Va poi ricordato che tutto l’iter educativo descritto riguardava la classe dei patrizi, per quanto anche i plebei ricevessero comunque una educazione dal padre. I maestri scolastici furono a lungo sconosciuti. Prima della nascita della letteratura latina, nel III secolo a.C., i maestri erano greci (spesso schiavi che, a differenza di quelli della civiltà ellenica, erano cólti poiché conquistati in guerra, ma provenienti da grandi civiltà istruite, come quella greca), e insegnavano in lingua greca. Esistevano scuole pubbliche, ma l’istruzione era impartita generalmente in forma privata. Agli insegnanti si affiancavano poi i rhètores, professori nati sul modello degli oratori greci. La programmazione didattica non era stabilita in alcun modo, ed era l’insegnante a decidere tempi e modi per la trasmissione delle conoscenze. La figura del retore acquisí grande prestigio e fu ricercata e stimata piú di quella del filosofo: il retore rappresentava l’uomo libero, colto e rispettato nella vita pubblica.

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Con la nascita dell’impero l’educazione subí un mutamento ulteriore, avvicinandosi piú ai modelli ellenistici. La formazione era collegata al patrocinio diretto dello stato, venivano erette biblioteche ricche di opere latine e, sotto Vespasiano, si improntò addirittura una vera e propria politica pedagogica, con l’istituzione di una scuola superiore (e relativi insegnanti) dipendente dallo Stato. Tra i piú importanti pensatori che si sono occupati di problemi educativi a Roma – dei quali in questa sede, per motivi di spazio, non possiamo trattare – possiamo ricordare: per il periodo arcaico, Marco Porcio Catone (234-149 a.C.), detto il Censore; in epoca tardo-repubblicana, Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.); in epoca imperiale, Marco Fabio Quintiliano (35-95 d.C.) e Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C.).

Bibliografia essenziale: R. FRASCA, Donne e uomini nell’educazione a Roma, La Nuova Italia, Firenze 1991; F. JACQUES, J. SCHEDI, Roma e il suo impero, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1992; A. SPINOSA La grande storia di Roma, Mondadori, Milano 1998.

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9 I principi educativi del Cristianesimo

All’interno del periodo di massimo splendore dell’impero romano, si verificò un evento capitale per la storia dell’Occidente: la nascita, la vita e la predicazione di Gesú di Nazareth, detto il Cristo (cioè l’unto del Signore). La predicazione di Gesú, anche a prescindere dal significato religioso che ad essa si attribuisce, è stata per la civiltà occidentale un fatto molto importante, tanto da segnare l’inizio della nuova èra, quella cristiana. Nel messaggio cristiano, pur non essendo contenuto un sistema filosofico e pedagogico, si trovano concezioni e dottrine che hanno determinato conseguenze fondamentali per lo sviluppo della storia dell’Occidente. La situazione culturale all’inizio dell’èra cristiana vedeva la presenza di numerose correnti filosofiche e religioso-esoteriche (esoterico significa nascosto), assieme a quella del paganesimo dominante nella cultura romana. Il periodo era dominato da una grande incertezza sul futuro e da una vasta e diffusa angoscia, e le stesse filosofie dell’epoca avevano finito per assumere un significato prevalentemente etico e religioso. Il problema del significato e della destinazione dell’esistenza era divenuto prevalente, e le risposte che il cristianesimo forniva ne favorirono la diffusione.

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Nel caso della pedagogia cristiana, ciò che qui piú interessa è cogliere gli elementi di novità che la predicazione di Gesú introdusse nei vari aspetti della formazione dell’uomo. Il termine “cristianesimo” designa l’insieme delle dottrine e delle comunità che professano la fede in Gesú di Nazareth, figlio di Dio (la principale differenza nei confronti della religione ebraica consiste proprio nel rifiuto, da parte della religione giudaica, di riconoscere la divinità del Cristo), incarnato, morto e risorto in Cristo. Gesú è una persona storicamente esistita, che, proclamandosi figlio di Dio, determinò un nuovo tipo di rapporto tra Dio stesso e gli uomini (per questo si parla di Nuovo Testamento, che significa nuovo patto, per distinguerlo dal Vecchio Testamento, cioè il vecchio patto, il patto di Mosè; insieme, Vecchio e Nuovo Testamento costituiscono la Bibbia (che significa il Libro). Il messaggio evangelico si colloca all’interno della cultura romana come un messaggio rivoluzionario e dirompente rispetto alla tradizione accettata. È un messaggio di amore universale (“ama il prossimo tuo come te stesso”), di rispetto per ogni uomo, anche per il nemico (“porgi l’altra guancia”), di tolleranza nei confronti di tutti, perché nessuno può considerarsi senza peccato (“chi è senza colpa scagli la prima pietra”, dice Gesú quando il popolo vuole lapidare una prostituta), di umiltà e povertà (“è piú facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli”), quest’ultima non solo materiale, ma anche intellettuale, in quanto la ricchezza e l’eccessiva sapienza rendono l’uomo egoista, arrogante e lo privano dell’umiltà necessaria per vivere in pace e in amore. Come sostenne San Paolo, che prima della conversione sulla strada di Damasco, quando ancora si chiamava Saulo di Tarso, era uno dei piú acerrimi nemici e persecutori dei cristiani, Gesú è venuto in terra per morire sulla croce, e cosí facendo ha libe-

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rato gli uomini dal peccato originale. Dio, attraverso la Grazia, cioè il dono gratuito della fede, ha eletto fin dall’origine dei tempi coloro che si salveranno; l’uomo deve per tutta la vita impegnarsi per trovare la fede e scoprire la Grazia dentro di sé, perché ciascuno potrebbe essere l’eletto e scoprirlo solo in punto di morte. Questo messaggio ha una portata universale, e si diffonde innanzi tutto nelle classi piú povere che si videro offrire la possibilità di essere uguali di fronte a Dio. Inizialmente, il cristianesimo subí parecchie persecuzioni e fu osteggiato dalla cultura e dalla religione pagana di Roma. I primi cristiani dovettero diffondere il loro messaggio in segreto, rifugiandosi nelle catacombe. Pian piano i primi pensatori cristiani (cosiddetti “apologeti”, perché scrivevano in difesa della nuova religione), tra il I e il III-IV secolo dell’èra cristiana diffusero sempre piú la nuova religione e permisero la nascita e la lenta affermazione della Chiesa cattolica. L’ultima persecuzione che i cristiani subirono fu quella dell’imperatore Diocleziano alla fine del III secolo, dopodiché con l’editto di Milano del 313 d.C., sotto l’imperatore Costantino, iniziò una fase di tolleranza della nuova religione al pari delle altre professioni di fede. Fu con l’editto di Tessalonica, del 380 d.C., durante l’impero di Teodosio, che il cristianesimo diventò la religione ufficiale dell’Impero. Da questo momento in poi la Chiesa si espanse e arricchí sempre piú, fino a diventare la massima potenza e la detentrice della cultura e dell’insegnamento scolastico durante tutti i secoli del Medioevo, esercitando profondi influssi sulla vita individuale e sociale. Dal punto di vista pedagogico, con il suo insistere sull’importanza di temi come l’amore, la famiglia e l’educazione mediante l’esempio, anziché attraverso lo studio teorico, il cristianesimo trasmetteva un modello educativo piú simile a quello della Roma arcaica che a quello della Roma imperiale. Le

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prime figure di maestri all’interno delle comunità cristiane si occupavano della formazione di catecumeni, coloro che chiedevano di essere ammessi nella comunità. La formazione, oltre ai precetti religiosi, comprendeva l’alfabetizzazione degli allievi, non solo bambini ma anche adulti. A livello ideologico, la pedagogia del cristianesimo dei primi secoli coincise con la formazione a una vita nella ricerca della verità, attraverso un percorso essenzialmente spirituale. Questo atteggiamento portò i primi teorici cristiani a rigettare sempre piú la cultura pagana, a livello letterario e di valori. L’allontanamento dal mondo terreno spinse i pedagoghi cristiani a scoraggiare la ricerca del piacere fisico, le pratiche connesse alla cura del corpo, come la ginnastica e l’esercizio fisico in generale, e anche lo studio di discipline quali musica e danza.

Bibliografia essenziale: W. JAEGER, Cristianesimo primitivo e paideia greca, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1966; I vangeli, Mondadori, Milano 1973.

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10 Agostino

Agostino (354-429/430) visse negli ultimi anni dell’Età Antica (che storicamente si fa terminare, per convenzione, con la caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476 d.C.), ed è uno dei piú importanti padri della Chiesa. La sua epoca coincise con i secoli in cui il cristianesimo stava passando dalla condizione di religione “lecita” (con l’editto di Milano, nel 313) a quella di religione ufficiale dell’Impero (editto di Tessalonica, nel 380), e doveva fissare i capisaldi ufficiali della religione, al fine di combattere le dottrine pagane e le eresie. Quest’operazione filosofico-religiosa è detta Patristica, e Agostino ne è il massimo rappresentante. Nato a Tagaste, nella Numidia nordafricana nel 354, Agostino ricevette i primi insegnamenti sul cristianesimo dalla madre Monica. Visse in gioventú a Cartagine, conducendo un’esistenza travagliata e dissoluta, e nel 383 si trasferí a Roma. Durante un soggiorno milanese (384-387), incontrò il vescovo di quella città, Ambrogio, e si convertí al cristianesimo. In un famoso passo dell’ultimo colloquio di Agostino con la madre a Ostia, le ultime parole di lei esprimono la sua felicità per aver visto il figlio convertirsi finalmente alla religione cristiana. Nel 391 fu nominato vescovo di Ippona, città africana in cui morí nel 429/430, sotto l’assedio delle invasioni barbariche.

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Raccontò tutto il suo travaglio spirituale e filosofico nell’opera Confessiones (Le Confessioni), una sorta di autobiografia filosofica e spirituale, che rivela una sensibilità psicologica e pedagogica fino ad allora sconosciute. Altre opere importanti sono il De vera religione (Sulla vera religione), il De Trinitate (Sulla Trinità), il De Civitate Dei (Sulla città di Dio), il De Magistro (Sul maestro). Prima di giungere, attraverso il platonismo, al cristianesimo, Agostino abbracciò in gioventú dottrine diverse, il manicheismo e poi lo scetticismo. Il manicheismo, religione nata ad opera del persiano Mani, nel III secolo d.C., si fonda sulla concezione secondo cui esiste una netta divisione fra Bene e Male, ontologizzati in due principi supremi. Per poter raggiungere la salvezza, l’uomo deve separare in se stesso l’io divino dall’io demoniaco. È un compito molto arduo, che può essere portato a termine solo da pochi individui. In questa visione della realtà, il male non è privazione, negazione, ma qualcosa di esistente, autonomo. Questo concetto di Supremo Principio del male è – come dimostrerà S. Tommaso – una assurdità logica, in quanto una cosa completamente maligna, cattiva, distrugge anche se stessa, nella sua totale malvagità. Lo scetticismo non dà risposte, ma conduce alla drammatica condizione del dubbio sulla verità e su tutte le strade che conducono alla sua conquista. Al futuro Vescovo di Ippona serví però da base per liberarsi da ogni falsa certezza, eliminando qualsiasi credenza infondata e giungere cosí alla Verità del cristianesimo. Il filosofo classico al quale Agostino si ispirò maggiormente, integrandone il pensiero con la riflessione cristiana, fu però Platone, dal quale egli mutuò diversi temi. Il primo è individuabile nel convincimento della necessità di ritirarsi dall’esperien-

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za mondana, per potersi rivolgere verso le profondità della propria anima. Il secondo motivo platonico riguarda il problema del male, che non assume consistenza ontologica, come nel manicheismo, ma viene concepito solo in riferimento all’essere, rispetto al quale costituisce una privazione, una parziale negazione. Questo non significa che il male morale e fisico non esistano, ma solo che vanno caratterizzati in modo appropriato: il primo viene a definirsi come il pervertimento della volontà, che si distoglie da Dio e si rivolge a sostanze inferiori, mentre il secondo viene inteso come una conseguenza del peccato originale, che ha reso il corpo debole e soggetto alla morte. Nell’opera Sulla vera religione, Agostino espose il percorso che porta l’uomo a distogliere il pensiero dall’esteriorità, per rivolgerlo alla propria interiorità, in cui appare la luce divina. Nel paragrafo 73, al cap. XXXIX, scrive «Se non vedi ciò che dico e dubiti che sia vero, guarda almeno se non dubiti di dubitare di ciò, e, se sei certo di dubitare, cerca la ragione di questa certezza: in questo caso non ti si presenterà certo la luce di questo sole, ma la luce vera, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo [citazione da Giovanni, I, 9]. Essa non si può vedere con questi occhi, e neppure con quelli con cui sono pensate le rappresentazioni […]. Formula cosí questa regola che vedi: chiunque comprende di essere in dubbio, comprende il vero, ed è certo di questa cosa che comprende; dunque è certo del vero. Chi dubita, quindi, se vi sia la verità, ha in se stesso il vero per cui non deve dubitare; ma non v’è vero che sia vero se non per la verità. È necessario, dunque, che non dubiti della verità chi ha potuto dubitare per qualche motivo». È nel dubbio piú radicale che l’uomo trova la certezza: se si dubita di tutto, non si può dubitare però di una cosa, e cioè del fatto che si sta dubitando; di conseguenza si ha la certezza di dubitare. Una verità, allora, esiste, e se vi è una verità, vi è la Verità, che si

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identifica con il Principio divino, il Deus veritas, che risplende nel profondo dell’anima e che, dunque, l’uomo deve cercare dentro di sé. Non bisogna comunque pensare che il trovare la Verità luminosa di Dio all’interno di sé, nel profondo del proprio animo, implichi una visione completamente immanentistica; al contrario, Agostino sostiene che l’uomo può trovare dentro di sé la luce divina proprio perché Dio è Trascendente, e ci illumina; questo è evidente anche dal continuo uso, nelle Confessioni, del Tu, rivolto a Dio, al quale il Vescovo di Ippona si confessa; ciò implica una netta separazione fra l’io e il Tu, una esternità (che non significa totale estraneità) fra l’uomo e Dio Trascendente. Un altro richiamo al platonismo è costituito dal fatto che Agostino interpreta la luce divina come metafora del lógos, della ragione eterna che è Dio, Lógos che è nel mondo e nell’uomo, come affermano sia i platonici sia il Vangelo di Giovanni. Anche nella riflessione agostiniana sulla memoria e il ricordo emerge l’influenza platonica: la discesa all’interno dell’anima conduce alla luce divina attraverso il ricordo, l’anámnesis di cui parlava Platone (per esempio nel Menone). La Realtà originaria di Dio, però, precede l’uomo e la sua memoria, e si configura quindi come qualcosa di diverso e trascendente rispetto all’uomo. Il tema della memoria è strettamente ricollegato a quello del tempo, che Agostino elabora autonomamente con grande modernità. Il tempo è un grande mistero; ognuno crede di sapere che cos’è, ma quando si interroga veramente sulla realtà del tempo non sa dare risposta: il futuro deve ancora venire, il passato non c’è piú, e il presente è un istantaneo trascorrere dal passato verso il futuro, un fuggevole momento che non si riesce a fermare e a cogliere. Nell’impossibilità di definirlo oggettivamente, il tempo si configura come un’esperienza della

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coscienza, dell’interiorità, uno scorrere, un fluire qualitativo nel profondo di sé con un ritmo e un modo interiori, che non si può misurare e quantificare. È la forma della memoria, esistente solo in rapporto all’uomo, e non come realtà esterna e oggettiva. I temi platonici vengono integrati dalla riflessione cristiana. Oggetto della speculazione dapprima filosofica, e poi eticopedagogica, diviene la fede. Dio si offre all’uomo, ma solo all’uomo che lo cerca, il quale non conosce mai la condizione di un’appagante contemplazione, ma avverte sempre la distanza che lo separa da Dio. Avere fede significa seguire il Cristo, il quale, inserendosi nella vita dell’uomo, lo chiama ad un impegno continuo, decisivo, assoluto. Un altro tema cristiano è quello della Grazia: qui Agostino rovesciò completamente l’intellettualismo classico, che riteneva l’intelletto superiore alla volontà. Il punto di partenza agostiniano è proprio il primato della volontà sull’intelligenza. L’uomo è diviso in se stesso, capace di vedere il bene, ma incapace di compierlo. Se non fosse cosí, infatti, non sarebbero piú necessari il sacrificio di Cristo e l’ausilio della Chiesa. L’uomo è per natura peccaminoso; è Dio che, secondo il proprio misterioso disegno, lo predestina alla salvazione o alla dannazione. Senza l’intervento della grazia divina, quindi, l’uomo non potrebbe raggiungere la salvezza eterna. Agli esseri umani rimane comunque l’impegno della fede, allo stesso tempo riconoscimento del peccato e speranza della Grazia. Rispetto alla cultura del suo tempo, Agostino introdusse alcune riflessioni importanti dal punto di vista pedagogico. Nelle Confessioni, in cui viene tracciato l’itinerario formativo della personalità di ogni credente, il vescovo di Ippona vide l’infanzia non come una condizione di purezza o di incompletezza dell’uomo, ma come una fase della crescita umana, con

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caratteristiche proprie, anche se segnata, come le altre, dal peccato e dalla tendenza ad allontanarsi dalla via del bene. Agostino denunciò l’incapacità dell’educazione del suo tempo di aderire alle esigenze vitali del bambino, e la vacuità educativa dell’apprendimento retorico, che dava importanza solo alla ripetizione. L’educazione deve mirare, per i bambini come per gli adulti, al controllo delle passioni, che non costituiscono di per sé il male, ma possono condurre a esso. Nello scritto Sul maestro Agostino propose i fondamenti teoretici che istituiscono il rapporto educativo. Agostino analizzò innanzitutto le possibilità di comunicazione del linguaggio, poiché nella comune esperienza l’insegnamento viene concepito come quella attività attraverso la quale il maestro trasmette per mezzo del linguaggio il proprio sapere all’alunno. La conclusione di questa analisi è che la spiegazione dell’atto dell’insegnamento è inaccettabile, perché la comunicazione linguistica è impossibile. Il linguaggio è costituito da suoni e da segni, che non hanno alcun rapporto reale con gli enti: se io pronuncio la parola “tavolo”, il vocabolo resta un puro suono senza significato, a meno che colui che percepisce il suono non abbia già esperienza dell’oggetto corrispondente. L’apprendimento, dunque, anziché derivare dal linguaggio, sembra basarsi sul rapporto intuitivo con le cose, sulla percezione diretta, sensibile. Ma, a ben vedere, nemmeno questo risulta in grado, da solo, di differenziare ciò che nelle cose è essenziale da ciò che è accidentale: se non posseggo previamente una nozione dell’oggetto da conoscere, come potrò, unicamente attraverso il contatto diretto, distinguerne le proprietà essenziali da quelle accidentali? A questo punto, la conclusione raggiunta è che l’insegnamento è impossibile.

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Per questa via, Agostino non vuole dimostrare che sia impossibile apprendere la Verità, ma solo che essa non è insegnabile dall’esterno. Non è attraverso l’insegnamento derivante dall’uomo che possiamo diventare sapienti. L’unico vero maestro, infatti, è Dio, il principio fondamentale e il fine ultimo dell’educazione è l’amore e l’obiettivo del percorso pedagogico è la scoperta della Verità. La Verità – come abbiamo visto – si trova nell’interiorità dell’uomo, il quale deve scoprirla da sé. Risulta, a questo punto, molto svalutata l’attività didattica e pedagogica del precettore, che non consegna la verità all’alunno, ma ha il solo compito di guidarlo in quella ricerca interiore e quotidiana che deve condurlo a Dio, attraverso un atteggiamento spirituale aperto all’amore e alla fede. Il metodo pedagogico proposta da Agostino, in sintesi, può essere quello della ricerca dentro di sé della conoscenza e della Verità, attraverso un dialogo pedagogico interiore (come realizzò attraverso Le Confessioni); anche, però, tramite un dialogo maieutico tra maestro e discente che viene condotto a scoprire la Verità (come propose nello scritto Sul maestro). La fede, infatti, è il presupposto fondamentale per ogni ricerca e ogni conoscenza: “credo per conoscere”, si potrebbe dire con Agostino. Se si possiede la fede si possono scoprire le verità e l’amore divini, presenti dentro ciascuno di noi. Nel libro Sulla città di Dio, opera composta dopo il sacco di Roma compiuto nel 410 dai Visigoti di Alarico (evento che nell’immaginario collettivo del tempo rappresenta la fine del grande impero romano), il vescovo di Ippona delineò la prima filosofia della storia del pensiero occidentale. Egli riesaminò l’intero cammino dell’umanità, allo scopo di evidenziarne il senso complessivo e il fine ultimo. Questo viene indicato nel trionfo della Civitas Dei, la città dei giusti, illuminata da Dio, sulla città del demonio, abitata dagli uomini dediti al male, simbolo

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di tutti gli Stati violenti e malvagi. Per Agostino, il solo valore positivo dello Stato risiede nella sua capacità di permettere la vita associata. Il cristiano non si sente appartenente a nessuno Stato, perché la fede non è riconducibile a una entità politica particolare, ma riguarda l’umanità intera. La dimensione politico-statale, in questo modo, perde il suo valore tradizionale. Le due città, inoltre, simboleggiano il bene e il male insiti nell’anima dell’uomo, mai disgiunti nettamente, come nel manicheismo, ma sempre vicini, contemporaneamente presenti. Il cristiano, però, deve avere fiducia nel disegno divino, che prevede la vittoria finale del bene sul male alla fine del cammino dell’umanità. Dio conduce la storia dell’uomo verso una salvezza che è fuori dalla storia, al di là del tempo terreno, nell’eternità. Anche questo tema di filosofia della storia, e con finalità escatologico-religiose, contiene un alto valore pedagogico, poiché nella fiducia del trionfo del bene sul male e dell’avvento della città di Dio, il fedele riceve lo stimolo a educare, e ad auto-educarsi, alla ricerca del bene, a fare il bene, all’amore e alla scoperta di Dio e della salvezza, fin dalla vita terrena nel mondo della storia e del tempo.

Bibliografia essenziale. Opere di Agostino: Il maestro, Mursia, Torino 1993; La vera religione, Mursia, Torino 1997; Le confessioni, trad. it. Einaudi, Torino 1998. Letteratura critica: K. FLASCH, Agostino di Ippona, trad. it. il Mulino, Bologna 1983; E. GILSON, Introduzione allo studio di Sant’Agostino, trad. it. Jaca Book, Milano 1984.

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11 La pedagogia nel Medioevo

Il Medioevo è il periodo compreso fra il 476 d.C., data della caduta dell’Impero romano d’Occidente, e il 1492 d.C., data della scoperta dell’America. Storiograficamente, il Medioevo si divide in due fasi: Alto Medioevo, dal V al X-XI secolo d.C., e Basso Medioevo, da circa l’anno Mille in avanti. I due momenti fondamentali della cultura cattolica medioevale sono la Patristica: la filosofia dei primi Padri della Chiesa, durante i primi secoli del cristianesimo, il cui massimo esponente è S. Agostino, vissuto nel IV-V secolo; e la Scolastica: la filosofia e il suo metodo di insegnamento impartito nelle scuole cristiane dei monasteri, delle cattedrali e, successivamente, nelle Università (a partire dal XII secolo d.C.; le prime Università a nascere furono quelle di Bologna, Parigi, Cambridge, Oxford, Salamanca, Padova, Napoli). Il massimo esponente della scolastica è S. Tommaso, vissuto nel secolo XIII. I piú importanti centri culturali del Medioevo furono: le scuole palatine, delle corti dell’età feudale e dell’èra carolingia; le scuole dei monasteri; le scuole delle cattedrali (soprattutto la cattedrale di Chartres, del 990); le Università, a partire dal XII secolo.

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La cultura medioevale presenta una forte unitarietà, con un’organizzazione gerarchica che vede al vertice la teologia, e le arti e le scienze ai gradini inferiori, con una funzione strumentale, consistente nel fornire nozioni per agevolare il cammino verso la vita spirituale e la teologia. Il progressivo aumento del potere della Chiesa cristiana sul potere dello Stato si mostrò con evidenza all’epoca delle invasioni barbariche, quando la Chiesa rimase l’unico punto di riferimento culturale. I monasteri, sorti all’inizio come luoghi di rifugio e protezione, divennero anche punti di scambi economici, magazzini, mercati, banche. Essi erano anche il piú importante centro di formazione culturale. L’ideale pedagogico di cui la Chiesa era promotrice può essere esemplificato da quello dei monasteri benedettini. Benedetto da Norcia, il fondatore dell’ordine e dell’abbazia di Montecassino, coniò anche la regola adottata in quasi tutte le comunità religiose posteriori: il motto ora et labora, (prega e lavora), basato sull’idea che il frate non doveva mai oziare, ma occupare le sue giornate con la preghiera (o lo studio dei testi sacri) e con il lavoro. All’interno del monastero, però, vigeva un ordine gerarchico, che consentiva ai piú alti in grado di essere esentati dai lavori manuali, per potersi dedicare interamente allo studio e all’insegnamento. La trasmissione della cultura era destinata dunque solo a coloro che intraprendevano la vita monastica, eccezion fatta per i figli dei nobili cortigiani, che affiancavano alla preparazione militare un’educazione in campo letterario e giuridico. Per la grande maggioranza della popolazione non era previsto alcun tipo di istruzione, ritenuta inutile per il lavoro nei campi. Un tentativo di migliorare la situazione culturale è rappresentato dalla riforma carolingia. Carlo Magno si rese conto del basso livello dell’istruzione promossa da molte scuole ecclesiastiche, e del fatto che questa pur scarsa istruzione fosse ristret-

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ta a pochissime persone. Affidò allora funzioni civili agli ecclesiastici (organizzazione degli uffici anagrafici, restauro dei codici, insegnamento), con il preciso scopo di diffondere maggiormente l’istruzione e migliorarne la qualità. Il principale artefice di questo progetto fu Alcuino di York (730-804), che incontrò Carlo Magno a Parma nel 781 e insegnò per otto anni a corte. I risultati ottenuti furono però scarsi, perché il clero era riluttante a istruire chiunque ne facesse richiesta senza intraprendere poi la carriera ecclesiastica. Nell’825 Lotario, il successore di Carlo, aprí le prime scuole statali, ma gli iscritti laici furono scarsi. L’organizzazione didattica delle scuole carolingie prevedeva la divisione in due aree disciplinari: il trivio, comprendente grammatica, retorica e dialettica, e il quadrivio, che includeva aritmetica, geometria, astronomia e musica. La metodologia didattica era basata sulla lettura e il commento dei testi, attraverso varie fasi: la lectio, lezione del maestro o lettura di un testo, la quaestio, discussione e obiezione dell’argomento proposto, e la disputatio, presentazione della tesi risolutiva. Il trivio e il quadrivio rappresentavano quello che oggi è definito istruzione secondaria; l’istruzione primaria era oggetto di scarsa attenzione, impartita unicamente con esercizi di ripetizione di lettere e sillabe, seguite da parole e infine testi. Nel XII secolo il termine “università” indicava una associazione di piú corporazioni: c’erano quelle delle arti meccaniche (scuole per la formazione professionale sorte dopo l’XI secolo a seguito dell’incrementarsi del commercio e la maggiore richiesta di figure professionali a esso collegate: artigiani, commercianti) e quelle delle arti liberali: giudici, notai, medici e speziali. In seguito quel termine rimase a indicare solo il corso di studi delle arti liberali. Le prime università presentavano alcune caratteristiche ben precise: non avevano una sede fissa, erano indipendenti dal controllo ecclesiastico, erano promosse e gesti-

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te dagli studenti, dei quali i professori erano quindi dipendenti. Per essere ammessi agli studi non era previsto alcun esame, ma veniva richiesta una conoscenza di base della lingua latina, oltre al denaro per finanziarsi gli studi.

Bibliografia essenziale: PH. ARIÈS, G. DUBY, La vita privata dal Feudalesimo al Rinascimento, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1987; A. DE LIBERA, La filosofia medievale, trad. it. il Mulino, Bologna 1991; J. LE GOFF, Medioevo, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1996.

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12 Tommaso d’Aquino

Tommaso d’Aquino (1221 o 1225-1274), nacque a Roccasecca, in provincia di Frosinone, nel Lazio, nel 1221 (o nel 1225, a seconda delle fonti), iniziò i suoi studi nell’abbazia benedettina di Montecassino e li proseguí a Napoli, nell’Università fondata da Federico II. Fu poi a Colonia con Alberto Magno e, infine, si recò a Parigi, dove iniziò la carriera universitaria. Morí nel 1274, a Fossanova, durante il viaggio che avrebbe dovuto condurlo al secondo Concilio di Lione. Il passaggio dalla Patristica alla Scolastica vide il pensiero cristiano impegnato a darsi una veste filosofica, e a chiarire le problematiche sorte all’interno di diversi contesti culturali e storici: Agostino si poneva ai confini tra il crollo dell’Impero romano d’Occidente, e quindi la fine dell’età Antica, e le origini dell’età medioevale, ed è chiamato a fare i conti con il platonismo; Tommaso si colloca ai confini tra l’età Medioevale e le origini dell’età Moderna, e deve confrontarsi con Aristotele, il cui pensiero era rimasto sconosciuto per tutto l’alto Medioevo, e venne riscoperto grazie ai commentatori arabi (Averroè, Avicenna). Il tentativo di Tommaso fu quello di far coincidere, per quanto possibile, il pensiero di Aristotele con quello cristiano. Egli cercò di conciliare anche ragione e fede, perché la fede

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è il completamento del lavoro e dell’intelligenza umana: “conosco per credere”, si può dire con Tommaso. È tramite la conoscenza, la ricerca (oggi diremmo scientifica), l’esercizio delle esperienze e l’uso della ragione (sulla scia di Aristotele) che si trova la fede. È studiando le creature e tutto il mondo creato che si può risalire al Creatore. La riflessione filosofica di San Tommaso si colloca ai vertici della Scolastica (la filosofia cristiana del basso Medioevo), cosí come quella di Sant’Agostino si collocava ai vertici della Patristica. La posizione che occupa Tommaso è di mediazione: disposta a riconoscere alla ragione la funzione di premessa fondamentale rispetto alle tematiche teologiche ed educative, secondo una prospettiva in cui ragione e fede istituiscono positivi rapporti di collaborazione. La filosofia è vista come sapienza cristiana, cioè come presenza-possesso della beatificante verità, che è Dio. Nelle sue opere piú importanti, De Ente et Essentia (Sull’ente e l’essenza), scritta fra il 1254 e il 1256, la Summa contra Gentiles (Somma contro i Gentili), del 1269-1273, la Summa Theologiæ (Somma teologica), iniziata nel 1269, Tommaso rivendicò il carattere di scienza della Teologia. Teologia e filosofia sono due vie di accesso all’unica verità. Nella Teologia è importante soprattutto l’indagine razionale. Ciò da cui si parte è la ragione, che accomuna tutti gli uomini. Anche per il credente la ragione è necessaria, e viene elevata dal dono della Grazia. Tommaso compí una distinzione tra Ente ed Essenza: l’ente è concreto, l’essenza è astratta. Gli enti sono di due tipi: gli enti reali e gli enti logici. Il reale è la sostanza, ciò che è qualcosa; l’ente logico è quello del verbo, dell’essere, della copula “è”. Tommaso distinse poi le sostanze in semplici e composte: le sostanze semplici sono quelle spirituali (angeli), quelle compo-

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ste sono il sinolo (unione) di materia e forma. La sostanza assolutamente semplice e pura è Dio. Nelle sue opere piú importanti (le Summae) Tommaso si pose il problema di Dio: Dio esiste, e questo è un dogma. Tommaso cercò però di giustificare razionalmente l’esistenza di Dio. Egli sostenne che la conoscenza e l’intelletto razionale sono estremamente importanti per il credente, il quale ha il cómpito di indagare la realtà naturale, che è la creazione di Dio. Tommaso dimostrò l’esistenza di Dio attraverso cinque vie, di chiara ispirazione aristotelica: 1) moto: dato che alcune cose si muovono e che “tutto ciò che si muove è mosso da un altro”, allora, non accettando il regresso all’infinito, si deve giungere a un primo motore immobile, che è Dio; 2) causa: se vi sono degli effetti, debbono esserci le rispettive cause e, non potendo recedere all’infinito, deve esserci quindi una causa prima non causata: Dio; 3) possibile e necessario: le cose che vediamo possono essere e non essere; la loro esistenza non è cioè necessaria, e infatti in origine non esistevano. Deve quindi esserci una causa necessaria e da sempre esistente; deve esistere, cioè, un essere per sé necessario, in cui l’esistenza e l’essenza coincidono: Dio; 4) gradi: dato che ci sono gradi di perfezione, un piú e un meno nelle cose (piú o meno buono, ecc.), deve esserci un valore assoluto a fondamento di tutti gli altri, e questo valore è Dio; 5) fine: ogni cosa tende al suo fine, quindi deve esserci un fine ultimo di tutte le cose: Dio. Tutte queste “vie” si fondano sul principio aristotelico che non è possibile procedere all’infinito, e si basano sulla conoscenza sensibile, la quale non è cosí svalutata, ma ha un ruolo importante nella ricerca della verità; è importante, ancora una volta, conciliare razionalità e fede.

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È possibile dunque dimostrare filosoficamente l’esistenza di Dio a partire dalle creature, e sempre movendo da esse si può dire qualcosa sugli attributi divini. Poiché infatti c’è proporzione fra causa ed effetto, possiamo sostenere che la causa possiede in modo eminente tutte le perfezioni che sono nell’effetto. Queste perfezioni, esistenti in forma limitata nelle creature, sono riunite al massimo grado in Dio. Questa analogia fra Dio e le creature, tuttavia, non consente all’uomo di conoscere l’essenza divina: essa resta inconoscibile, e l’uomo può procedere solo per via negativa, dicendo solo quello che Dio non è (per esempio, non è corpo). Le cinque vie dimostrano inoltre che Dio è il creatore del mondo, e che gli esseri sono nature reali, esistenti nella loro concreta individualità, non “partecipazioni di forme eterne”. Gli enti creati sono sostanze spirituali o corporee. Quelle spirituali sono gli angeli, intermediari fra l’uomo e Dio, che Tommaso chiama forme pure, prive di materia. Al vertice del mondo materiale sta l’uomo, concepito come sinolo di materia e forma, corpo e anima. L’anima è legata al corpo per le funzioni vitali e sensitive (l’anima vegetativa e sensitiva di Aristotele), ma è da esso indipendente per le funzioni intellettive (l’anima razionale). Quest’anima è indipendente dalla materia, sussistente di per sé, immortale. La conoscenza comincia dai sensi, le sensazioni sono unificate dal senso interno e formate come immagini nella fantasia (o immaginativa), conservate poi nella memoria sensitiva. Queste immagini sono poi comparate, per distinguerle l’una dall’altra. Fin qui a livello sensibile, per animali e uomo. Quest’ultimo, però, è capace anche di una conoscenza superiore, propria dell’anima razionale, che considera il mondo corporeo ma secondo concetti universali: le forme, o essenze delle cose.

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Morale e Politica L’uomo, grazie al suo intelletto, è libero di conoscere e scegliere il bene, e i mezzi per ottenerlo. L’intelletto, dunque, può dominare la volontà, alla quale però resta un margine di autonomia, per il fatto che l’intelletto non presenta ad essa il bene assoluto, ma dei beni particolari, finiti, che possono non essere riconosciuti come tali. Gli uomini possiedono degli “abiti”, cioè delle abitudini e, al di là di questi, la legge divina, presente anche nella legge naturale. Se dunque l’uomo segue la legge naturale, che tende al bene, conoscerà ciò che si deve o non si deve fare. Questa etica naturale si completa poi con l’etica cristiana della redenzione, della grazia e della vita eterna. Per Tommaso l’uomo è per natura un animale socievole, ma non può esserci vita associata senza il comando di qualcuno che abbia di mira il bene comune. In questa ottica, giusto è il governo che tende al bene della collettività, e ingiusto quello che si rivolge all’esclusivo interesse dei governanti. Si avranno cosí varie forme di governo giuste (monarchia, aristocrazia e politia) o ingiuste (tirannide, oligarchia e democrazia). È evidente anche qui, come in altri aspetti della dottrina tomistica, il richiamo ad Aristotele. È importante il fatto che la legittimazione del potere non si fonda sulla sua origine divina, ma sulla natura dei fini che vengono perseguiti dagli uomini: fini che per Tommaso convergono nel bene comune e si specificano nell’ordine e nella giustizia. Considerazioni particolarmente importanti per quegli anni travagliati dalle lotte fra Chiesa e Impero e tra potere spirituale e potere temporale. Tommaso si distaccò dal pensiero di Aristotele quando trattò l’antropologia cristiana. Mentre per i pensatori dell’età classica lo Stato esauriva tutti i fini dell’uomo, per Tommaso ciò fu reso impossibile dal fatto che l’uomo, data la sua duplice essen-

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za, naturale e spirituale, persegue entrambi i fini. Due devono essere le autorità: lo Stato per realizzare i fini naturali, e la Chiesa per realizzare i fini spirituali. Poiché questi ultimi si identificano con la salvezza, che è bene superiore rispetto ai fini terreni, Tommaso poté affermare che lo Stato porta i suoi membri alle soglie delle virtú sovrannaturali e della beatitudine contemplativa. Pedagogia Anche Tommaso – come in precedenza Agostino – scrisse un’opera intitolata De Magistro (Sul maestro), in cui affrontò tematiche di carattere pedagogico. Il De Magistro di Agostino si occupava delle condizioni di possibilità, di educazione e di istruzione, tematiche riprese da Tommaso anche nella Summa Theologica: il problema trattato riguardava l’analisi critica del rapporto didattico come atto di trasmissione e di comunicazione del sapere. Il concreto atto didattico ha una struttura triangolare: l’atto didattico sembra presentarsi come rapporto tra due soggetti, maestro e scolaro, messi in relazioni da uno o piú dati culturali (scienza) che il primo intende trasmettere al secondo. Il maestro possiede la scienza, l’alunno non sa; l’atto didattico persegue come obiettivo di condurre l’alunno ad impossessarsi del sapere primo. Questa è l’istruzione ed è anche l’educazione, come questione già affrontata da Agostino. Quest’ultimo affermava che l’insegnamento è impossibile, poiché non si riesce a spiegare quell’atto della trasmissione, della scienza, in cui si fa consistere l’atto didattico. Tommaso è di altro parere: accoglie alcune tesi di Agostino, ma non è disposto a seguirlo fino alla svalutazione totale dell’azione positiva esercitata dal maestro nel processo di insegnamento. La scienza – secondo Agostino e tutto il platonismo – era un

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possesso originario dell’interiorità del soggetto. Per Tommaso, invece, l’alunno possiede originariamente la scienza nel senso che dispone dei princípi primi che istituiscono il sapere, princípi che sono in lui non in quanto derivati dall’esterno, ma perché costitutivi del suo intelletto; egli però possiede la scienza come organizzazione ordinata di concetti, perché i princípi sono delle potenzialità, degli strumenti per costruire la scienza, ma non constituiscono la scienza nel suo ordinamento definitivo. L’alunno ha in sé la scienza in potenza, ma non in atto. Dispone dell’attività intellettuale, dei princípi primi o dei concetti universali, ma mentre questi sono còlti dall’intelligenza in via immediata, l’ordinamento dei dati sensibili in funzione dei princípi è un atto di mediazione prodotto dall’attività sintetica della mente. La conoscenza, dunque, si caratterizza come un processo: si tratta di spiegare come la scienza si formi in conoscenza mediata prodotta dall’incontro fra contenuti della sensibilità e princípi primi dell’intelletto. Agostino, per spiegare la conoscenza, risaliva alla causa prima (illuminazione diretta di Dio). Per Tommaso l’azione del maestro è necessaria per facilitare la dinamica che va dalla potenza all’atto. L’atto del conoscere è interiore all’alunno, ma la condizione ottimale della sua effettuazione è costituita da un agente esterno, il maestro. È quest’ultimo che, essendo in possesso della scienza in atto, può attivare nell’alunno il processo costruttivo del suo sapere. Tommaso esclude l’autoeducazione, ma è a favore di un rapporto didattico inteso come rapporto di comunicazione, col conseguente riconoscimento di una filosofia dell’educazione.

Bibliografia essenziale. Opere di Tommaso: Il maestro, trad. it. Armando, Roma 1965. Letteratura critica:

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S. VANNI ROVIGHI, Introduzione a San Tommaso d’Aquino, Laterza, Roma-Bari 1973.

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13 La scuola nell’Umanesimo e nel Rinascimento

Nel Medioevo, la cultura si presentava come un organismo unitario e ordinato gerarchicamente secondo il principio agostiniano della reduction artium ad theologiam (“riduzione delle arti alla teologia”). Le arti del trivio e del quadrivio si disponevano idealmente sui gradini di una piramide, con al vertice la teologia, e tracciavano un itinerario che, se percorso interamente, permetteva all’uomo di avvicinarsi progressivamente a Dio. Con l’Umanesimo si introdusse un fattore importante, determinato dalla scoperta dell’autonomia dell’arte. Si cominciò ad apprezzare le opere d’arte per la loro bellezza o per il loro contenuto di elevata umanità, anziché guardarle alla luce del pensiero cristiano, come mezzi per una conoscenza piú approfondita dei testi sacri. L’arte fu considerata una creazione che ha il proprio fine in se stessa, trova la sua giustificazione nel valore del bello (di un bello ideale che consiste anche nel rispetto di regole canoniche della creazione artistica). Il termine “umanesimo” venne a indicare una maggiore attenzione alla vita e alle attività dell’uomo nella società, che venivano rivalutate rispetto al Medioevo, in cui tutto ciò che riguardava la vita terrena dell’uomo era svalutato, visto come semplice passaggio per arrivare al regno dei cieli. Questo non deve però far pensare all’Umanesimo come a un periodo senza

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Dio e religione; al contrario, questi aspetti rimasero estremamente importanti, ma vennero affiancati da un recupero dei valori mondani. Diventarono importanti tutte quelle attività e discipline realizzate dall’uomo (humanitas): arte, letteratura, politica (per la prima volta come scienza autonoma, distinta dalla filosofia e dalla religione), etica e morale. Perciò si riscoprirono i classici latini e, soprattutto, greci: nacque una nuova disciplina, la filologia (lo studio della struttura della lingua), e si registrò un rinnovato interesse per la lingua dei poemi omerici. Nella cultura greca, gli umanisti trovarono quegli ideali di bellezza, di ordine, armonia, equilibrio ed euritmia (perfetta serenità dell’animo, buon rapporto dell’individuo con se stesso, con gli altri e con tutto il mondo) che caratterizzavano la cultura antica. Cosí, gli intellettuali umanisti pensarono che, riproponendo le forme artistiche e letterarie degli antichi, si potesse ritrovare quella serenità d’animo, quella nobiltà interiore e quella grande virtú che erano sottintese alle loro opere d’arte. Inoltre, nella vita tipica dell’intellettuale umanista, svolta all’interno delle corti (importanti soprattutto quelle dei Signori degli Stati italiani: i Gonzaga a Mantova, i Medici a Firenze, gli Estensi a Ferrara, dei Visconti a Milano, dei Montefeltro a Urbino, e ancora le corti di Napoli, dello Stato della Chiesa a Roma), diventò fondamentale l’ideale di eleganza, di raffinatezza dei modi (come è sottolineato anche dalla realizzazione di opere come il Galateo di Giovanni Dalla Casa o Il cortegiano di Baldassarre Castiglione); la vita dell’intellettuale umanista si svolge prevalentemente alla corte, dove il Signore diventa un “mecenate” mantenendo a spese proprie i piú importanti intellettuali: artisti, filosofi, letterati, poeti, pittori, architetti, i quali danno prestigio alla corte, contribuiscono a renderla sempre piú splendida e aiutano il loro signore nelle mansioni amministrative e di ambasceria.

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Le humanæ litteræ, dunque, vennero esaltate e ricercate perché rispondevano a una serie di bisogni e di valori che si erano venuti a formare attraverso la vita comunale, la nuova economia e la vivace esperienza della vita cittadina, e successivamente delle Signorie, le quali pian piano soppiantarono, tra la fine del XIV secolo e il XV secolo, i Comuni. L’Italia si trovò, durante l’Umanesimo e ancor piú durante il Rinascimento, nella paradossale situazione di essere il punto di riferimento e modello di vita, di stile, di arte e di cultura per tutta l’Europa, mentre politicamente era estremamente fragile e soggetta a subire le lotte delle varie potenze straniere, già organizzate in grandi Stati nazionali, come la Francia e la Spagna. Non fu la cultura classica a creare la figura dell’umanista, ma furono gli umanisti, ancora immersi nel mondo medievale in trasformazione, che si accostarono alle opere classiche come a dei modelli per meglio definire la loro identità e per costruirsi l’immagine morale del loro futuro. Se l’Umanesimo coprí circa i primi ottant’anni del Quattrocento, il Rinascimento, dalla fine del XV secolo, proseguí l’opera di rinnovamento iniziata dagli umanisti e portò questo processo ai massimi livelli nei primi anni del Cinquecento, fino al progressivo declino nella seconda metà del Cinquecento. Umanesimo e Rinascimento, dunque, possono essere considerati distinti per molti aspetti, ma anche intesi come un unico processo storico, che si conclude con il XVI secolo. Il termine “Rinascimento” indica la rinascita della vita e della cultura, dopo i secoli dominati dalle preoccupazioni di carattere religioso e per il Trascendente, caratteristiche del Medioevo. Con il Rinascimento il fenomeno piú caratteristico è dato dall’ampliarsi del processo di disgregazione dell’unità del sistema culturale del Medioevo. Come era stato per l’arte, in questi anni la politica, la filosofia e la scienza si disposero su di

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un piano orizzontale: ogni disciplina si distaccò dalle altre, rendendosi autonoma e fondandosi su di un distinto valore: l’utile per la politica, la spiegazione della natura secondo propri princípi per la filosofia, la prospettiva come cànone di bellezza perfetta per la pittura. È il fenomeno che portò alla nascita delle scienze moderne nel Seicento, anticipata nell’Umanesimo dal grande sviluppo dell’astrologia, dell’alchimia e delle scienze magiche: esse, sebbene in maniera “magica”, possedevano già il criterio che, nel secolo successivo, caratterizzò le scienze moderne: cercare di conoscere la natura per dominarla e sottometterla agli scopi dell’uomo. Con l’astrologia, soprattutto, l’uomo cercò di trovare una corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo, vedendo ripercorrere nel ciclo vitale del singolo individuo tutta l’esistenza e la struttura dell’universo intero. Si cercò di stabilire un rapporto fra le influenze degli astri, gli elementi naturali e l’uomo, per consentire a quest’ultimo di piegare la natura ai propri fini. Da qui nacque la nuova idea pedagogica fondata sulla volontà umana e sulla fiducia nei poteri della ragione e della fantasia creatrice. L’idea della renovatio proposta dagli umanisti rimanda all’imitazione dell’antico e si pone come idealizzazione del passato, ripreso e rinnovato per essere adattato alle nuove esigenze della vita umanistica. Il passato viene esaltato perché creduto modello di perfezione morale, civile e sociale. Attraverso l’imitazione, dunque, si cercò di riprodurre i grandi valori del passato. A questo significato morale e artistico si legò, però, anche un valore religioso-spirituale. Si volle far rinascere il passato come atto di fede in una perfezione (come una verità rivelata) che viene assunta quale modello al fine di rimuovere la realtà esistente e edificarne una nuova: l’imitazione del passato diventa quindi un processo creativo e di adattamento da attivare nel presente e nel futuro. La continuità sotterranea fra passa-

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to e presente aiutò anche a dare evidenza all’idea pedagogica dominante nel corso dell’Umanesimo-Rinascimento: un’idea pedagogica che mantenne ancor fermo il rapporto tra cultura e religione, spostando l’accento sul momento morale del cristianesimo, e guardò al passato, alle humanæ litteræ come a un repertorio di modelli per la perfezione interiore, nonché per la proiezione dell’uomo entro la vita politica e civile. L’Umanesimo assunse connotazioni diverse nei vari paesi europei, sia per effetto dei rapporti che devette necessariamente istituire con le diverse tradizioni culturali con le quali venne in contatto, sia e soprattutto per la creatività di alcune personalità di eccezione. Una di esse fu Leon Battista Alberti (14041472) che, nel suo trattato della famiglia, delineò la figura dell’uomo “nuovo”, che grazie alle sue virtú riesce a costruire da solo il proprio destino. Dal punto di vista pedagogico, Alberti valorizzò il lavoro e l’esercizio, sia in ambito individuale che in ambito sociale. La famiglia è il luogo ideale in cui si compie il processo educativo, che deve formare l’individuo in tutti i suoi aspetti, al fine di ottenere una personalità equilibrata e completa. Altre personalità eccezionali, per cultura e capacità creative, furono Leonardo da Vinci (1452-1519), che fu a un tempo pittore, architetto, ingegnere, poeta, letterato, filosofo, scultore, inventore: vera realizzazione dell’uomo completo, e Giovanni Pico della Mirandola (1463-1495), celebre per la sua sterminata cultura e per la prodigiosa memoria. L’idea pedagogica della civiltà umanistico-rinascimentale, nei vari modelli elaborati, trovò le forme piú adeguate di concreta espressione nelle scuole di Guarino Veronese (13741460) e di Vittorino da Feltre (1378-1447): la prima orientata alla formazione degli insegnanti e degli ecclesiastici, e dunque con un fine professionale; la seconda diretta alla formazione

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completa dei giovani chiamati a servire “Dio nella Chiesa e nello Stato”: magistrati, teologi, capi di stato, comandanti di eserciti. Fondamento comune del curriculum delle due scuole, come di tutte le scuole umanistiche sono la letteratura greca e latina. Altre discipline comuni sono l’arte, la poesia, la retorica, la dialettica, ecc. Diversi, invece, sono i metodi impiegati: piú severo e filologicamente agguerrito quello di Guarino; piú aperto e liberale, anche se con una forte impronta morale, quello del suo discepolo e collega Vittorino, il quale recuperò le arti del trivio e del quadrivio, e allargò le attività educative fino a comprendere il gioco e l’educazione fisica.

Bibliografia essenziale: E. GARIN, Educazione umanistica in Italia, Laterza, Roma-Bari 1975; E. GARIN, L’educazione in Europa. 1400/1600, Laterza, Roma-Bari 1976.

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14 L’idea pedagogica nella Riforma e nella Controriforma

Il motivo della renovatio ispirò sia gli esponenti della Riforma protestante che quelli della Controriforma cattolica: i primi per il tema del ritorno alla parola della rivelazione e alla semplicità del cristianesimo primitivo, senza mediazioni di strutture esterne ecclesiali; i secondi per l’esigenza di una restaurazione del contenuto dottrinale della Scolastica e della Patristica, che alimentò un movimento di rigenerazione interno alla Chiesa stessa. Questo movimento precedette, per alcuni versi, anche la stessa Riforma protestante, e costituí uno dei fondamenti su cui si resse il rinnovamento della Chiesa nei paesi dell’Europa meridionale. L’idea pedagogica nella Riforma protestante Il principale esponente della Riforma protestante fu Martin Lutero (1483-1546). Il motivo rivoluzionario del pensiero di Lutero (che dette inizio in Germania al movimento protestante e alle Chiese riformate, le quali si separarono successivamente dalla Chiesa di Roma) è costituito dal rifiuto del principio di autorità. La teologia luterana nacque dalla riscoperta della fede come fondamento unico della salvezza.

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Solo la fede giustifica l’uomo, che nasce peccatore, e nulla potrebbe senza l’intervento gratuito di Dio. Intorno al 1521 Lutero tradusse la Bibbia in tedesco, e l’anno successivo tradusse anche il Nuovo Testamento, in modo da permettere a tutto il popolo, che non conosceva il latino, di leggere direttamente il testo sacro e comprenderlo con le proprie capacità, in modo che il libero esame dei testi sacri costituisca la base della nuova dottrina, senza la necessaria mediazione dell’ecclesiastico. Il protestantesimo trovò un altro esponente fondamentale in Giovanni Calvino (1509-1564). Calvino realizzò la sua riforma protestante in Svizzera. Il suo libro, Institutio christianæ religionis (L’istituzione della religione cristiana, del 1534), si può considerare un trattato filosofico-religioso che contiene una precisa visione del mondo, e tocca tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva. Il suo capolavoro, da un punto di vista pratico, fu lo “Stato teocratico” creato a Ginevra, che restò un modello per l’organizzazione politico-religiosa del calvinismo europeo. Calvino, rispetto a Lutero, accentuò la distanza che separa l’uomo da Dio: l’uomo è nulla, mentre Dio è tutto, Essere trascendente e sovrano dell’universo; Dio è conoscibile solo attraverso le scritture, che sono la parola di Dio. La salvezza non è nelle nostre mani, ma risiede nei disegni di Dio, e noi possiamo solo presentirla attraverso la nostra attività, come segno della nostra predestinata chiamata tra gli eletti: è questa la dottrina della salvatio per vocationem (salvezza per vocazione). La pedagogia della riforma protestante Una delle conseguenze indirette della riforma fu l’affermazione della scuola pubblica, affidata allo Stato nel caso dei luterani, o alla Chiesa in quello dei seguaci di Calvino. Si diffuse cosí il principio della obbligatorietà dell’istruzione, considerata

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dai protestanti condizione essenziale della pratica effettiva della fede, incentrata sul libero esame dei testi sacri. Lutero si pose come continuatore dello spirito rinascimentale, sia per l’istanza della riforma e del rinnovamento della Chiesa e dell’esperienza religiosa, sia per l’individualismo della sua nuova dottrina, fondata sul libero esame e sul sacerdozio universale. La dignitas hominis, che sembra recuperata nella riconquista della fede e del pensiero, di fatto subisce un colpo mortale: il principio del “servo arbitrio”, in opposizione a quello del “libero arbitrio”, toglie all’uomo ogni possibilità di contribuire alla propria salvezza, rimettendo il destino dell’uomo in mano a Dio. Il principio di obbedienza è centrale sia in Lutero che in Calvino, e porta con sè conseguenze pratiche importanti, nella sottomissione a un sovrano assoluto (in Lutero) o a una teocrazia non meno assoluta (in Calvino). Se da una parte la riforma protestante contribuí a diffondere l’istruzione, dall’altra, però, essa impoverí l’idea pedagogica dell’umanesimo originario, e segnò un momento di arresto nel suo sviluppo. L’ordinamento degli studi prevedeva il primato esasperato dell’educazione religiosa, mentre lo studio delle humane litteræ si fece sempre piú formalistico ed esteriore. L’idea pedagogica nella Controriforma cattolica La Controriforma designò un periodo storico che va dalla metà del XVI secolo ai primi decenni del XVII secolo. Piú esattamente, l’inizio della Controriforma cattolica si indica con il Concilio di Trento, tenutosi dal 1545 al 1563, con due lunghi periodi d’intervallo, in cui si discussero le misure da prendere contro le Chiese riformate e contro il dilagare del protestantesimo, al fine di ricomporre l’unità dei cristiani. Il Concilio di Trento operò su due piani distinti: uno dottrinale, in cui si volle riconfermare il principio di autorità, il primato del Papa e la

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funzione mediatrice della Chiesa, e l’altro organizzativo-culturale, che introdusse una serie di innovazioni che liberarono la Chiesa dal malcostume dilagante, dall’immoralità del Clero, dall’ignoranza dei fedeli e del basso clero, cioè i parroci di campagna, che spesso erano semi-analfabeti. In questi anni la Chiesa provvide ad arginare gli effetti del protestantesimo, mediante il riordino della propria dottrina e la riorganizzazione delle proprie strutture istituzionali. Il termine “Riforma cattolica” indicò, invece, un vasto movimento che ebbe le sue radici nel tardo Medioevo, e che attraverso Umanesimo e Rinascimento fu vòlto al rinnovamento interno della Chiesa. Riforma e Controriforma cattolica giunsero, a un certo punto, a intrecciarsi, contribuendo a innescare un processo di reazione della Chiesa a difesa del papato. Gli ordini religiosi (fra i quali si possono ricordare i Gesuiti, i fratelli delle scuole cristiane di San Giovanni Battista de La Salle, i Barnabiti, i Somaschi, gli Scolopi, la congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri) costituirono un’espressione delle esigenze di riforma interiore della vita religiosa e del modo di porsi della Chiesa nel mondo, nonché degli strumenti per mezzo dei quali il neo-cattolicesimo della Controriforma riuscí ad affermarsi nei paesi non ancora conquistati dal protestantesimo. I seminari di nuova istituzione provvedettero alla formazione morale e culturale dei sacerdoti, anche in funzione dell’educazione popolare delle parrocchie. La Controriforma costituí una svolta che, nella storia della Chiesa, ebbe un significato importante: segnò il passaggio dal caos all’ordine, da una religione fattasi strumento di potere a una religione vòlta alla salvezza dell’individuo. Nel sistema della cultura, la Controriforma riportò a nuova vita la lingua latina e ripristinò la centralità della Scolastica. Tra i metodi repressivi venne ripristinata e aumentata la forza del

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tribunale della Santa Inquisizione, che condannava tutte le eresie, e in molti casi arrivò anche a decretare la morte per gli appartenenti a una setta giudicata eretica, o chi era sospettato di idee eretiche (pensiamo all’esecuzione della condanna al rogo di Giordano Bruno avvenuta il 17 febbraio 1600, in Campo de’ Fiori a Roma); inoltre venne pubblicato l’Indice dei libri proibiti dalla Chiesa. I gesuiti e la ratio studiorum Lo strumento piú energico di difesa e di controffensiva della Chiesa di Roma nell’età della Controriforma fu rappresentato dalla Compagnia di Gesú, sorta grazie a Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), un ex-generale spagnolo. La struttura dell’ordine fu contraddistinta da un vocabolario e una disciplina militareschi, e nacque con precisi compiti: la lotta all’eresia e la difesa della Chiesa. L’ordine si pose alle dirette dipendenze del Papa, Paolo III, come corpo d’assalto per lottare contro l’eresia e propagare la fede cristiana nel mondo, e ai tre voti tradizionali degli ordini religiosi, obbedienza, povertà e castità, ne venne aggiunto un quarto: assoluta sottomissione al Papa e al generale dell’ordine. I gesuiti intesero divulgare la cultura e l’educazione cattolica in diversi modi: da una parte, tramite la realizzazione di scuole per poveri nelle campagne, cosí da educare i bambini fin da piccoli alle regole cristiane; dall’altra, attrverso la diffusione del messaggio evangelico anche ad altre culture, che vennero cosí convertite, a opera di varie Missioni con lo scopo di evangelizzare. A questo proposito, particolarmente importanti si riveleranno le missioni in Cina e in tutto l’estremo oriente, che aprirono le strade alla successiva colonizzazione europea. La formazione del gesuita era severissima, e prevedeva sia la totale abnegazione di ogni moto spontaneo della volontà e del-

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l’intelligenza individuale, sia l’assoluta disponibilità all’obbedienza, che è via di perfezione interiore e di disciplina e si acquista mediante appositi esercizi spirituali. Importantissimo era poi l’accurato studio letterario da svolgere all’interno del “collegio”, in cui la disciplina era mantenuta attraverso punizioni anche corporali, e in cui i ragazzi erano sollecitati a denunciare, attraverso la delazione, i compagni che trasgredivano le regole. L’ordine degli studi, come venne fissato dalla Ratio atque Institutio Studiorum Societatis Jesu, compreso nelle Costituzioni (del 1599), distingue tre livelli: un corso di grammatica triennale, un corso di umanità e retorica biennale, e un corso di filosofia, che coincide col ginnasio inferiore, e uno di teologia, che corrisponde al ginnasio superiore, al liceo e all’università. Inoltre, era obbligatorio l’uso della lingua latina nel parlato. La scuola dei gesuiti ricevette in eredità il piano di studi degli umanisti, cristallizzandolo però entro l’area privilegiata dello studio letterario, e limitandone cosí la portata nella destinazione sociale, ristretta ai membri della futura classe dirigente. L’idea pedagogica che essa cercò di realizzare risultò pertanto quella di una formazione retorica: una formazione solida che, però, lasciò scoperte molte direzioni formative individuate in età umanistica, come l’educazione allo spirito critico e alla creatività e l’esercizio pratico. Altri limiti della formazione dei gesuiti risiedono nel fatto che non veniva data importanza alle scienze sperimentali, e il loro insegnamento scadeva nel manierismo e nel convenzionalismo morale. Altre scuole da ricordare dell’età della Controriforma con orientamenti culturali e metodologici di grande interesse psicologico, etico-religioso e sociale, furono: la “comunità dei fratelli”, il cui fondatore è San Giovanni Battista de La Salle (1651-

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1719); le scuole parrocchiali; le scuole domenicali, per operai e piccoli apprendisti; le scuole tecniche.

Bibliografia essenziale: H. OBERMAN, I maestri della riforma, il Mulino, Bologna 1982; J. LORTH, E. ISERLOH, Storia della riforma, il Mulino, Bologna 1974. Opere di Ignazio di Loyola: Esercizi spirituali, trad. it. tea, Milano 1988. Letteratura critica sulla Controriforma: A. PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996.

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15 Comenio

Johann Amos Komenski, latinizzato in Comenio (15921670), nacque in Moravia. Fu una delle maggiori figure della pedagogia e della scuola del XVII secolo. Durante la sua vita travagliata scrisse molte opere a carattere mistico-religioso e pedagogico didattico, tra cui le piú importanti sono: Didactica Magna (La grande didattica), del 1631; Leggi di una scuola ben ordinata, pubblicata nel 1653; Quadro del mondo delle cose sensibili, del 1658. L’ampia diffusione delle sue opere fece di Comenio un personaggio famoso in tutta Europa, tanto che i governi di Inghilterra, Svezia, Olanda e Ungheria lo invitarono a riformare i sistemi scolastici dei relativi paesi. Nominato vescovo, terminò la sua vita ad Amsterdam. Nel corso del XVII secolo la riflessione sulla problematica dell’educazione assunse una nuova consapevolezza di sé e una nuova forma sistematica. Essa partecipò all’esigenza di elaborare fondamenti e metodi certi, relativamente ad àmbiti di indagine miranti ad acquisire uno statuto teorico rigoroso. Pedagogia e indagine giuridico-sociale si riferirono a tematiche per piú versi analoghe, a cominciare dalla riflessione sulla natura razionale dell’uomo e dal problema delle procedure piú opportune di analisi dell’essere umano.

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Il pensiero di Comenio rimase legato a due ideali del tardo rinascimento europeo: la ricerca di un metodo universale capace di organizzare tutto lo scibile umano, e la dottrina pansofica (da pan, che significa tutto, e sofia, che significa sapienza), per cui ogni uomo deve tendere a una formazione piú completa e integrale possibile, mirando a realizzare il piú alto grado di umanità. Come sostennero, in seguito, anche gli empiristi, per Comenio la mente umana, nonostante l’esistenza di alcune capacità potenziali, è sostanzialmente una tabula rasa, per cui assume assoluta centralità il processo educativo. La teoria pedagogica di Comenio si basa sui seguenti punti fondamentali: 1) l’educazione deve essere concepita come un processo naturale, che tenga conto dei ritmi e delle istanze che si susseguono nel bambino e nell’adolescente nel corso dello sviluppo; 2) la trasmissione delle conoscenze consiste nel passaggio dal semplice al complesso e dal facile al difficile; 3) il processo educativo deve utilizzare le funzioni che Dio ha donato all’uomo; bisognerà partire da nozioni acquisite dai sensi, fissate dall’immaginazione e dalla memoria e infine elaborate dall’intelletto; 4) questo processo deve seguire un ordine: l’educazione deve essere fatta di cose, e non di parole. Le cose, e con esse l’esperienza diretta del mondo naturale e umano, divennero le protagoniste della filosofia di Comenio. Contro la cultura e l’educazione retorico-letteraria, Comenio affermò che il conoscere è soprattutto un fare: la genesi e la struttura delle cose si apprendono facendole, agendo su di esse. Riguardo all’aspetto etico-spirituale, Comenio diede importanza all’educazione morale e a quella religiosa. L’istruzione venne articolata in quattro fasi, ciascuna della

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durata di sei anni, alle quali corrispondevano quattro diversi tipi di scuola: per prima la Scuola Materna, in ogni casa, per i bambini fino ai sei anni, base per ogni sapere successivo; poi la Scuola Elementare, in ogni comune, dai sei ai dodici anni, il cui fine è coltivare l’intelligenza, l’immaginazione e la memoria; vi si insegnava a scrivere e a far di conto, lo schema della storia e della geografia, alcuni lavori manuali, e qualche nozione di politica ed economia. L’educazione religiosa si svolgeva attraverso la lettura di brani della Sacra Scrittura. Lo studente passava poi alla Scuola Latina o Ginnasio, in ogni città, dai dodici ai diciotto anni, divisa in sei classi: grammatica, fisica, matematica, etica, dialettica e retorica. L’ultima scuola inserita nella riforma di Comenio era l’Accademia (l’istituzione piú diffusa nel Seicento in ambito culturale elevato), in ogni regione o grande provincia, dai diciotto ai venticinque anni, affinché gli allievi potessero studiare una scienza speciale a loro scelta. Il contenuto della conoscenza è uno; a variare, nei diversi livelli scolastici, sono solo i metodi di trasmettere le conoscenze, legati alle diverse età dei discenti: è questo il principio dell’insegnamento globale e ciclico, in cui ogni tappa scolastica abbraccia un insieme compiuto e organico di conoscenze adeguate all’età e alle capacità dello studente, e insegnate secondo un metodo atto a sviluppare il suo senso critico. Comenio riassunse in un “decalogo” la sua teoria pedagogico-didattica: 1) nessuno potrà essere istruito in modo perfetto in una scienza sola, senza dare uno sguardo alle altre; 2) si può diventare uomo solo per opera dell’educazione; 3) la prima scuola del bambino è sulle ginocchia della madre; 4) si lasci che i bambini giochino molto a loro piacere;

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5) il maestro è il sole della scuola; 6) bisogna presentare alla gioventú non le ombre delle cose, ma le cose stesse; 7) una scuola senza disciplina è come un mulino senz’acqua; 8) la natura passa dalle cose piú facili alle cose piú difficili; 9) tutto a tutti; 10) buona parte di un retto ordinamento scolastico consiste nel ben distribuire le fatiche e le ricreazioni.

Bibliografia essenziale. Opere di Comenio: Opere, trad. it. UTET, Torino 1974

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16 John Locke

John Locke (1632-1704) nacque a Wrigton, nei pressi di Bristol, in Inghilterra. Dal 1652 frequentò il collegio di Christ Church a Oxford. Pur non conseguendo il dottorato in medicina, esercitò per lunghi anni la professione di medico. Conobbe Lord Ashley, conte di Shaftesbury ed esponente del nascente partito whig (progressista) durante gli anni della monarchia degli Stuart, di cui divenne medico e collaboratore personale, dal 1672 al 1691. All’epoca l’Inghilterra viveva un periodo di grande travaglio politico; la situazione politica vedeva la contrapposizione di due partiti: il partito whig, liberale, progressista, a favore del parlamento, e il partito tory, conservatore e sostenitore della monarchia. La nascita del nuovo partito dei whigs gettò le basi per la grande rivoluzione parlamentare del 1688, che portò al governo Guglielmo d’Orange, di idee liberal-costituzionali. Locke può essere considerato, grazie alle sue opere politiche, l’autore principale dell’ideologia whig. Nel 1671, intanto, Locke iniziò a scrivere il suo capolavoro filosofico, Il Saggio sull’intelletto umano, che pubblicò nel 1690. Dovette compiere parecchi viaggi, per sfuggire a una repressione contro i whigs, in Francia e in Olanda, dove morí

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Lord Shaftesbury. Oltre al Saggio, scrisse opere di carattere politico, come i due Trattati sul governo (1690), di tema religioso, come l’Epistola sulla tolleranza (1689), e pedagogico, quali i Pensieri sull’educazione (1693), che mira alla formazione del gentleman, il rappresentante della nuova classe borghese affermatasi in Inghilterra nel XVII secolo. Teoria della conoscenza Locke è considerato il padre dell’empirismo moderno, teoria secondo la quale tutta la conoscenza deriva dall’esperienza. Nel Saggio sull’intelletto umano, egli volle indicare i limiti dell’intelligenza umana, analizzando criticamente le capacità cognitive dell’uomo. La polemica di Locke si rivolse contro la teoria delle idee innate, che nel Seicento aveva i suoi principali sostenitori nei cosiddetti “platonici di Cambridge”. Locke negò l’esistenza di idee, conoscenze e princípi morali o religiosi innati, per affermare invece che la mente umana, alla nascita, è una tabula rasa, e apprende tutte le conoscenze solo attraverso le esperienze che derivano dai sensi esterni, e vengono elaborate in seguito dai sensi interni e dalla ragione. La mente dell’uomo, in altre parole, è come un foglio bianco privo di ogni carattere, o una tavoletta di cera, su cui l’esperienza scrive le informazioni. Locke fondò la sua teoria su tre princípi: 1) L’ipotesi innatista non è indispensabile: si può conoscere tutto attraverso l’esperienza. 2) È falso che vi sia un accordo universale su certi princípi innati. Questo è dimostrabile analizzando i bambini, gli idioti o i selvaggi, che non hanno conoscenze innate e non distinguono il bene dal male. 3) Nemmeno le idee religiose e l’idea di Dio possono essere considerate universali e innate; infatti, vi sono persone atee e

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popolazioni che non le hanno, o le possiedono in maniera differente dalla nostra. Locke, comunque, non è ateo, ma pensa che Dio esista e sia la causa prima di tutte le cose. Per il pensatore inglese le esperienze possono dividersi in due tipi: - esperienze esterne (le sensazioni), che derivano dai sensi esterni; - esperienze interne (le percezioni, la memoria, il pensiero, il discernimento, il volere), effettuate dai sensi interni. Le sensazioni, a loro volta, sono di 2 tipi: - primarie, cioè oggettive (figura, estensione, solidità, movimento); - secondarie, cioè soggettive (colori, suoni, odori, ecc.). Le sensazioni vengono a costituire le idee semplici delle cose, dalle quali derivano le idee complesse, ottenute dalla comparazione, unione ed elaborazione delle idee semplici. Per esempio, l’idea complessa dell’argento è formata dalle idee semplici di estensione, colore, peso, ecc. Politica Locke è reputato anche il filosofo della borghesia. Il borghese è colui che si è fatto da sé, con la propria attività e intraprendenza: è la classe piú moderna e dinamica del Seicento, rispetto alla nobiltà. Dal punto di vista politico, Locke elaborò una teoria contro il governo monarchico e contro tutti i privilegi che i nobili possedevano, senza aver fatto nulla per meritarli. Locke fu favorevole alla moderna concezione dello stato liberale e costituzionale, in cui il potere è in mano a tutti i cittadini che eleggono i loro rappresentanti. Ipotizzò, come altri pensatori, uno stato di natura in cui gli uomini vivevano in origine liberi, ma in uno stato di guerra di tutti contro tutti. Per poter convivere è necessario stipulare un contratto sociale, che

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faccia uscire gli uomini dallo stato di barbarie tramite l’adozione di leggi razionali. I cittadini non possono però, come scrisse il filosofo inglese Thomas Hobbes nella sua opera principale, il Leviathan (Leviatano), cedere completamente i propri diritti naturali a un sovrano assoluto. È il popolo che deve essere sovrano, ed eleggere liberamente i propri rappresentanti in Parlamento. I poteri dello Stato, secondo Locke, devono essere divisi in: a) potere legislativo: votare le leggi, che spetta al Parlamento; b) potere esecutivo: mettere in atto le leggi, che spetta al Governo; c) potere giudiziario o federativo: far rispettare le leggi, che spetta alla Magistratura e alla polizia. Il primato deve essere dato al potere legislativo, in quanto è il popolo che elegge i propri rappresentanti in Parlamento, e ha il diritto di ribellarsi a uno Stato i cui governanti commettano abusi di potere e ingiustizie. Religione Le teorie religiose di Locke sono esposte nell’Epistola sulla tolleranza, in cui egli sostiene che nello Stato debba esistere una pacifica convivenza di religioni diverse, e Stato e Chiesa debbano mantenere una vita autonoma e indipendente l’uno dall’altra. Locke rifiutò l’idea che il genere umano discenda da Adamo ed Eva, e confutò senza difficoltà la teoria di Robert Filmer, il quale sosteneva che il monarca ha diritto a essere tale per discendenza diretta da Adamo o dai Patriarchi. Il cristianesimo deve essere il piú possibile semplificato e razionalizzato, eliminando le superstizioni per diventare “ragionevole”.

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Pedagogia Il pensiero pedagogico di Locke è la diretta conseguenza del suo pensiero filosofico e politico. I Pensieri sull’educazione nascono con l’intento di educare non tutta la popolazione, ma il gentleman, cioè il rampollo della nuova classe sociale emergente, la borghesia, quel ceto che, durante le trasformazioni sociali dell’Inghilterra del XVII secolo, entrò nell’industria, nel commercio, nella finanza, e si volle affermare per mezzo delle proprie ricchezze, capacità, intelligenza, cultura, intraprendenza e con grande spirito d’iniziativa. La pedagogia proposta da Locke educa alla libertà, attraverso una istruzione sciolta da precetti e norme universali; l’uomo deve conquistare la libertà attraverso il rigore e la disciplina, cosí da giungere all’autogoverno (il self-governement). Come abbiamo visto, gli individui nascono senza alcuna idea innata; la mente del bambino è una tabula rasa, ed è l’esperienza che forma le idee nella mente. Di conseguenza, nell’educazione l’aspetto piú importante è l’apprendimento. Perciò al bambino deve essere insegnato ogni sapere e comportamento corretto, attraverso la disciplina e l’uso di premi e punizioni, la lode e il biasimo, la stima e i castighi, in una parola: la capacità di autogovernarsi. Educare, per Locke, significa far capire agli allievi che le capacità e le nozioni trasmesse sono ragionevoli e utili e, se si comanda o proibisce qualcosa, non è per caso, per capriccio o per collera; è importante la persuasione e l’uso del ragionamento anche con i bambini, i quali, se il precettore adotta le giuste parole, sono in grado di capire. L’educazione proposta da Locke non tende però al conformismo o all’autoritarismo: l’individuo deve sviluppare la propria personalità, e non conformarsi passivamente alle regole della società. Contro il verbalismo e il dogmatismo delle scuole uma-

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nistiche, Locke afferma l’importanza del rapporto diretto con le cose concrete, anche attraverso il gioco, o meglio un’attività giocosa e divertente. Riguardo al metodo e ai contenuti dell’insegnamento, Locke sottolineò che lo studio non deve essere sentito come un dovere, ma come un gioco; bisogna prestare attenzione alle esigenze psichiche del bambino, e offrirgli continuamente novità interessanti che lo attirino, senza annoiarlo. L’iter educativo deve partire dalle idee semplici, per arrivare gradatamente a quelle complesse, sempre con la conferma dell’esperienza e dell’analisi critica. Una volta raggiunta questa capacità, l’allievo potrà anche percorrere il cammino inverso, andare cioè dal complesso al semplice, scomponendo una questione complessa nei suoi elementi primari. Il curriculum delle materie da studiare è contrario a quello degli umanisti, i quali davano molta importanza alle discipline anziché all’allievo, e attribuivano la precedenza alle materie umanistiche: arte, letteratura, retorica, lingue classiche. Locke propone di modellare il curriculum scolastico sullo sviluppo biologico e psicologico dell’individuo, e sull’utilità della cultura; l’insegnamento non deve essere dogmatico, né astratto, né autoritario, ma deve sviluppare lo spirito critico della persona. Infatti, il fine ultimo dell’educazione è l’utile, un sapere che sia utile all’affermazione dell’individuo nella società moderna. I contenuti devono essere concreti e vicini all’esperienza diretta; per esempio, per studiare la lingua madre, si dovranno privilegiare le esperienze dirette del soggetto, fargli toccare le cose e far capire la loro utilità. Anche la seconda lingua, che deve essere viva e utile, come il francese, deve essere appresa con la pratica, parlando, e non attraverso la grammatica e le regole astratte, come invece veniva insegnato il latino in passato.

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Si dovranno fare inoltre molti viaggi, affinché il ragazzo entri in contatto con altri mondi e culture diverse e allarghi i propri orizzonti. Il latino, anche se lingua morta, si deve imparare, perché serve per leggere altri libri e imparare altre discipline. Ciò che comunque va evitato, anche nell’insegnamento di questa lingua, è il metodo mnemonico basato esclusivamente sullo studio della grammatica, mentre bisogna privilegiare un apprendimento che si fondi sull’uso concreto della lingua. Le materie piú importanti sono quelle che hanno una utilità pratica e servono ad affermarsi in società: materie tecniche e scientifiche, quali la geografia, l’astronomia, la storia, la cronologia, la matematica, la geometria e l’anatomia. Rimangono inoltre importanti l’etica, il diritto e la conoscenza delle leggi del proprio paese, mentre vengono svalutate le materie artistiche, quali pittura e poesia.

Bibliografia essenziale. Opere di Locke: Pensieri sull’educazione, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1942. Letteratura critica: M. SINA, Introduzione a Locke, Laterza, Roma-Bari 1982.

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17 L’educazione nell’Illuminismo

L’Illuminismo è una corrente di pensiero che sentí una profonda fiducia ottimistica nella capacità della ragione. Nacque in Inghilterra, si sviluppò soprattutto in Francia nel XVIII secolo, per diffondersi poi in quasi tutti i paesi dell’Europa. Si ispirò alla cultura razionalista di Cartesio, alla scienza del Seicento, al pensiero del filosofo materialista inglese Thomas Hobbes (1588-1679). I maggiori pensatori inglesi, primo fra tutti David Hume (1711-1776), diedero vita a concezioni filosofiche illuministiche le quali fecero propria la dottrina della conoscenza dell’empirismo. In Francia, dove l’Illuminismo ebbe il suo centro promotore piú fertile e dinamico, vissero importanti filosofi (i philosophes) come Voltaire, Condillac, Cabanis, Destutt de Tracy; i materialisti D’Holbach e Helvètius; gli autori dell’Encyclopèdie (il primo grande progetto di realizzare un’opera enciclopedica monumentale in cui fosse contenuto tutto il sapere): Diderot e D’Alambert; l’autore dell’opera L’homme machine, La Mettrie. I nomi piú importanti e originali dell’Illuminismo sono, però, Charles-Louis de Secondat barone di La Brède e di Montesquieu (1689-1755) e JeanJacques Rousseau (1712-1778).

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Il pensiero dell’Illuminismo, con i suoi ideali di ragione e di libertà, uguaglianza e fraternità, portò alla rivoluzione francese (1789), con la proposta dei valori di liberté, egalité e fraternité. Il piú grande filosofo illuminista tedesco fu Immanuel Kant (1724-1804) che, nel 1784, scrisse un libretto in Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo, in cui cerca di dare una definizione dello spirito illuministico, affermando che l’Illuminismo è “l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità” (minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di altri); l’Illuminismo quindi sostenne l’importanza di servirsi della propria ragione per risolvere i problemi umani e del mondo, e volle porre ad analisi critico-razionale tutto il sapere, il ragionamento, le convinzioni, la fede, i dogmi e le superstizioni. L’Illuminismo fu un movimento laico, cioè indipendente da ogni fede religiosa. Dal punto di vista religioso gli illuministi furono prevalentemente atei, cioè non credevano in Dio. Molti di loro, oltre a essere atei, si dichiaravano profondamente nemici di ogni fede religiosa, mentre alcuni si definirono deisti (il deismo è la fede in un dio razionale, filosofico) e avevano una propria fede individuale. Inoltre, nonostante fossero atei, gli illuministi sostennero l’importanza della tolleranza religiosa, verso ogni fede o credenza, in nome della libertà di pensiero e di opinione. Per gli illuministi l’uomo è un essere terreno che, in questa terra, deve trovare la propria felicità, senza preoccuparsi di problemi metafisici, del futuro dell’anima e dell’Aldilà. L’Illuminismo è quindi materialista, ovverosia rifiuta ogni entità metafisica e spirituale, affermando che tutti gli aspetti della realtà, compresa l’uomo, l’anima, il pensiero e i suoi piú astratti sogni, sono materia e spiegabili in termini materiali. Tutta la realtà è materia; può e deve essere conosciuta solo attraverso gli organi di senso.

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Gli ideali politici degli illuministi di giustizia sociale, libertà, democrazia, portarono a un grande movimento politico di stampo progressista e riformatore, che sfociò nel XVIII secolo in due importanti rivoluzioni: quella americana contro il dominio inglese (1773-1783), alla metà del secolo, e quella francese alla fine del XVIII secolo (1789-1792). Queste rivoluzioni realizzarono una profonda trasformazione nella società e nelle idee politiche, ad opera soprattutto di una nuova classe sociale in ascesa, la borghesia, la quale volle conquistare l’egemonia e il potere politico contro la nobiltà e la monarchia. Gli illuministi, mostrando l’ignoranza e l’arretratezza delle leggi e delle strutture politiche a loro precedenti e contemporanee, diedero vita, tramite la proposta dell’uso della ragione e un’opera di educazione alla volontà illuminata, a grandi e profonde riforme politiche e sociali. La cultura, con l’Illuminismo, si allargò a vasti strati sociali e diventò sempre piú ampia e disponibile al pubblico. Si formarono centri intellettuali nelle Accademie, ma la diffusione delle notizie, delle nuove idee e dei nuovi ideali di riforma sociale avvenne soprattutto nei salotti, nei caffè, e attraverso i giornali che in questi anni si moltiplicarono e ampliarono la loro distribuzione. L’educazione svolse una funzione fondamentale e indispensabile per riformare la società illuminata; si rese indispensabile una profonda riforma di scuole e metodi didattici. Per questo motivo, si sviluppò un ampio dibattito attorno ai problemi educativi, che prese in esame fini, metodi e contenuti dell’istruzione. Fu indispensabile, per la riforma sociale, che fosse lo Stato a prendersi cura, a proprie spese, dell’educazione, e organizzasse in maniera sistematica e razionale un sistema scolastico nazionale, che desse ordine e omogeneità ai vari gradi di scuola, preparasse e controllasse il lavoro degli insegnanti.

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L’estensione dell’istruzione riguarda, in realtà, solo la classe borghese. Per il popolo, i teorici illuministi prevedevano solo l’insegnamento dell’istruzione primaria: leggere, scrivere, far di conto e le nozioni tecniche necessarie per il lavoro da svolgere. Questo perché si temeva un abbandono, da parte delle classi piú povere, dei lavori manuali, umili, di cui una società in espansione economico-industriale aveva ancora molto bisogno. Celebre, a questo riguardo, rimase l’affermazione di Voltaire: “il popolo non deve essere istruito: non ne è degno”. La scuola diventò quindi laica e nazionale. L’educazione mirò a far conoscere e capire in modo chiaro e vivo la realtà, attraverso l’esperienza, l’intuizione empirica, l’osservazione e il ragionamento. L’insegnamento doveva seguire lo sviluppo naturale dello spirito umano, che va dall’esperienza sensoriale alla riflessione e alla sistemazione scientifica. Si volle sviluppare allo stesso modo anche la volontà dell’individuo. All’autorità e alla costrizione adottate dalla scuola precedente, per lottare contro i difetti delle tendenze naturali, si sostituirono il principio della libertà, dell’autonomia e del rispetto dell’individuo. Gli intellettuali illuministi sostennero che non si dovesse comprimere e obbligare la volontà del fanciullo, ma fosse piú utile sorvegliarlo e guidarlo, lasciando sbocciare la sua natura semplice e buona. Nacque in questi anni l’idea che originariamente la natura umana fosse buona, ma venisse corrotta dalla società: per questa ragione diventò fondamentale e prioritaria una rifondazione dell’educazione per giungere a una società equilibrata che rispettasse l’individuo, lo rendesse migliore e felice e non lo corrompesse. Si incentivò l’uso del ragionamento e della persuasione anziché la richiesta di sottomissione.

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Bibliografia essenziale: A. TAGLIAPIETRA (a cura di), Che cos’è l’illuminismo?, Bruno Mondadori, Milano 1997

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18 Jean-Jacques Rousseau

Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) nacque a Ginevra, nella Svizzera francese. Visse una gioventú travagliata e avventurosa. Venne affidato dal padre ad alcuni parenti, da cui a 16 anni fuggí, trovando ospitalità presso M.me de Warens, che fu per lui madre, amica e amante. Nel 1740 fu a Lione, e in seguito si recò a Parigi, dove partecipò agli ideali dell’Illuminismo, divenendo amico dei piú importanti philosophes francesi e coltivando scambi culturali con i piú celebri pensatori europei del suo tempo. Rispetto alle idee illuministe, però, rivalutò l’importanza delle passioni, del sentimento e della religione, venendo cosí ad anticipare alcuni motivi che, da lí a poco, caratterizzarono il Pre-Romanticismo e il Romanticismo di fine Settecento inizi Ottocento. A Parigi, partecipò a due concorsi letterari con due opere: il Discorso sulle scienze e sulle arti (1750) e il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1754). Dopo un clamoroso litigio con Diderot e D’Alembert, gli organizzatori dell’Enciclopedia, la grande opera alla quale collaborò per la stesura di alcune voci, Rousseau si isolò sempre piú dall’ambiente culturale francese, e scrisse le sue opere piú importanti: Giulia o la nuova Eloisa, del 1761, un romanzo

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pedagogico; Emilio. Ovvero dell’educazione, del 1762, il suo capolavoro pedagogico; il Contratto sociale, sempre del 1762, un’opera di filosofia politica. Queste opere, a causa delle teorie esposte dall’autore, suscitarono l’ostilità delle autorità politiche e religiose; privo della protezione dei philosophes, con i quali aveva ormai rotto ogni rapporto, Rousseau dovette rifugiarsi in Svizzera e poi in Inghilterra, chiamatovi da Hume; venuto in contrasto anche con quest’ultimo, rientrò in Francia, dove si concentrò particolarmente su se stesso, analizzando i propri travagli di coscienza e le proprie crisi depressive. In questo periodo scrisse Rousseau giudice di Jean-Jacques (1772), e portò a termine le Confessioni, un’autobiografia filosofica divenuta molto celebre, iniziata nel 1765 e pubblicata postuma. Morí nel 1778, ormai in completo isolamento. Nel suo Discorso sulle scienze e sulle arti, Rousseau protestò contro la corruzione e la degradazione dei rapporti umani nella società moderna, esaltando la purezza dei costumi antichi. Successivamente, nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, il filosofo tracciò una genesi storico-teorica della perdita della libertà individuale e dell’instaurarsi del dispotismo politico, anticipando le tematiche della sua piú importante opera di filosofia politica, il Contratto sociale. Contrariamente a quanto sosteneva Hobbes, secondo Rousseau l’uomo è buono per natura, e la vita associata è il prodotto di una spontanea convivenza di sentimenti, bisogni e interessi. La società, però, corrompe questa originaria bontà creando profonde disuguaglianze sociali, attraverso l’insorgere della proprietà privata e della divisione del lavoro, che sono quindi le cause principali dell’egoismo e delle ingiustizie. Per porre rimedio a questi effetti, però, Rousseau non auspicò un

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impossibile ritorno a uno stato di natura originario, peraltro puramente teorico; ciò che egli propose è invece un nuovo contratto sociale, attraverso il quale ricostruire la società intera. Per portare a termine questo progetto affermò la necessità di rinnovare l’uomo, impresa realizzabile solo tramite nuove leggi e una nuova educazione, che riformasse e modificasse il modo di pensare e di vivere degli individui. Sottoscrivendo il contratto sociale, gli individui rinuncerebbero spontaneamente alla libertà assoluta, propria dello stato di natura, per accettare una convivenza che porti vantaggio alla collettività, e conseguentemente al singolo. Nascerebbe cosí l’uomo nuovo, il cittadino (le citoyen), che si realizzerebbe consegnando il potere al popolo divenuto sovrano. La libertà quindi consiste nell’agire non secondo la volontà individuale, ma nel comprendere la razionalità e la convenienza della vita collettiva, in cui gli uomini sono uguali e accettano liberamente di sottomettersi alla volontà generale, la quale garantisce la giustizia, la libertà e l’uguaglianza fra gli uomini. In questo modo il ginevrino volle arrivare a una forma democratica di governo. Bisogna però precisare che l’ideale politico di Rousseau è riferito a una piccola comunità (la città ideale, per Rousseau, è Ginevra, o le città-stato greche, o ancora l’antica Roma repubblicana), in cui tutti possano partecipare direttamente alle decisioni collettive. Con Rousseau la pedagogia conquistò per la prima volta una propria autonomia. Nell’Emilio il filosofo realizzò un esperimento ideale, mirando a definire l’educazione dell’uomo in quanto tale. Non piú, quindi, come in passato, una educazione per un particolare esponente della società, come il gentleman di Locke, o il militare, o il cortigiano o il religioso, bensí l’uomo. Il bambino, inoltre, non è visto come un adulto imperfetto, ma come un essere diverso dall’adulto, che va rispettato per quello che è.

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Se l’uomo è buono per natura, innocente, senza colpa alcuna (nemmeno quella del peccato originale, ciò che portò Rousseau fuori dall’ortodossia cristiana), saranno l’educazione e le regole da questa dettate a corrompere la natura umana. Il bambino, allora, andrebbe cresciuto in una condizione di isolamento dalla società. Emile, nel progetto ideale di Rousseau, è educato in campagna, con un precettore che si dedichi solo alla sua educazione, per farlo vivere nella tranquillità, nella pace e nella bellezza della natura, dove possa esercitare felicemente le funzioni fisiche, psicologiche e spirituali che si manifestano spontaneamente nelle varie fasi dello sviluppo. Il bambino deve essere abituato a conoscere il mondo stimolando la curiosità e l’interesse, in modo attivo, scoprendo le cose attraverso l’esperienza. Il precettore non deve forzare a imparare piú di quello che l’allievo è realmente in grado di apprendere; non si debbono insegnare troppe parole incomprensibili, né si devono inculcare concetti, dogmi, leggi e idee morali (bene-male) rigide e astratte. Il metodo educativo deve essere ricavato dall’evoluzione del soggetto, che si sviluppa secondo 5 fasi, in base alla formula dell’educazione negativa. Questo termine indica la negazione di ogni intervento impositivo dell’educatore (di ogni obbligo), nel rispetto dell’evoluzione naturale del soggetto e dei suoi bisogni, preservandolo da influenze dannose e corruttrici, per evitare che cada nel vizio e nell’errore. Apparentemente il precettore non educa, ma in realtà il non intervento e la libertà del bambino sono illusorie, perché questi è costantemente sorvegliato assieme all’ambiente circostante, anch’esso adattato a seconda delle esigenze. Le situazioni cosí appaiono spontanee, quando invece sono costruite e indotte dal precettore. I periodi in cui Rousseau divide lo sviluppo dell’individuo sono:

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1) Prima infanzia, da zero a due anni, durante la quale il bambino è messo in contatto con la natura e in rapporto immediato con gli oggetti, per provare sensazioni attraverso la manipolazione diretta delle cose. 2) Seconda infanzia, da tre a dodici anni. Quando inizia a camminare e parlare, il bambino è in grado di usare la ragione, e viene educato alla conquista della libertà. Non conosce comandi, divieti, doveri, obblighi, ma viene messo in contatto con la dura legge della necessità delle cose (forza, necessità, impotenza, soggezione). L’educatore non deve anticipare intempestivamente con il proprio insegnamento lo sviluppo naturale, ma l’educazione deve adeguarsi al livello del soggetto, fondandosi sui bisogni e sugli interessi. 3) Fanciullezza, fino a 15 anni: ora si rafforza la ragione, che va comunque sempre sostenuta dalla curiosità. Il metodo educativo diventa positivo: muovendo dalla curiosità, e ponendo attenzione all’utilità di quanto ci si occupa, l’educazione diventa ricerca e scoperta. Il fanciullo deve entrare nella vita sociale con la mente sgombra da pregiudizi, essendo in grado di valutare le cose in base al criterio naturale dell’utilità, e non del lusso, del capriccio, delle apparenze o delle mode. In questa fase le conoscenze pratiche, sempre molto importanti, sono impartite attraverso l’esempio e il lavoro. 4) Adolescenza: in questa età scoppiano le passioni. È un periodo critico e tempestoso, che coincide con l’ingresso nella vita sociale e con l’accesso ai valori morali. Con lo svilupparsi dell’immaginazione e lo scoppiare delle passioni, anche il metodo e i contenuti educativi devono mutare, per inserire l’allievo nella società e immergerlo nelle problematiche morali, sviluppando concetti astratti, fino alla conquista razionale dell’idea di Dio. L’origine delle passioni è naturale, ma bisogna mettere in guardia dalle deviazioni dovute all’immaginazione;

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per questo l’educatore deve sorvegliare affinché la personalità si sviluppi correttamente. Si deve evitare che l’amore di se stesso, positivo, non si corrompa in amor proprio, che invece è vero e proprio egoismo, evitando vanità, invidia, odio, ostentazione e orgoglio, e accostando invece l’adolescente a esperienze di sofferenza e dolore, in modo da sviluppare in lui la pietà e l’amore per tutti gli uomini, e condurlo gradualmente all’assimilazione di valori come la giustizia e la pace, e al sommo valore che è Dio. Il tema della religione è trattato nel libro IV dell’Emilio, la Professione di fede del Vicario Savoiardo. 5) Età adulta, in cui Emilio può sposarsi con la sua Sofia, la donna ideale. La bambina e la donna, inoltre, sono educate in vista della subordinazione all’uomo, nei classici ruoli della moglie e della madre, e la loro istruzione deve riguardare solo le conoscenze utili per il loro status sociale. L’educazione proposta da Rousseau restò comunque, di fatto, riservata al borghese.

Bibliografia essenziale. Opere di Rousseau: Il contratto sociale, Rizzoli, Milano 1993 Le confessioni, Rizzoli, Milano 1978 Emilio, ovvero dell’educazione, Mondadori, Milano 1997 Letteratura critica: P. CASINI, Introduzione a Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1981

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19 La pedagogia del Romanticismo

Il termine romantico deriva dall’inglese romantic per indicare il favoloso, lo stravagante, il fantastico, l’irreale. Anche se il termine è di origine inglese, il centro di diffusione del Romanticismo fu soprattutto la Germania. Il Romanticismo fu un movimento artistico, letterario e filosofico. Indicò una nuova sensibilità, che per le sue caratteristiche si contrappose al razionalismo illuministico. Alla ragione, che per gli illuministi era il fondamento di tutta la conoscenza, il movimento romantico oppose il sentimento, la fantasia, l’intuizione, la soggettività, gli aspetti irrazionali della nostra piú nascosta individualità, il sogno, l’inconscio. Il Romanticismo propose una visione tragica e sentimentale della vita, in cui l’uomo è alla perenne ricerca dell’infinito, di qualcosa di vago, di indeterminato, di qualcosa che non si può esprimere completamente. Il Romanticismo ritenne che l’uomo fosse in grado di sentire quella fusione totale con la realtà, per cui Spirito e Natura vengono a unificarsi in una dimensione totale che può essere afferrata solo tramite l’intuizione, la poesia, o una visione mistica intesa come consapevolezza immediata. Il movimento romantico rivalutò l’arte, la religione e la storia, soprattutto il Medioevo, screditato e definito dagli Illuministi i “secoli bui

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della storia”, in quanto vere espressioni dell’uomo, della sua creatività e della sua irrazionalità. Il primo movimento che anticipò tematiche romantiche fu lo Sturm und Drang (“tempesta e impeto”), che rifiutò l’imitazione a favore della spontaneità e dell’immediatezza. I primi movimenti romantici sorsero a Jena; i principali esponenti furono il poeta Novalis (1772-1801, il cui vero nome era Friedrich von Hardenberg) e nei fratelli Schlegel, August (1767-1845) e Friedrich (1772-1829). Si diffuse l’idea di una unione di Spirito e Natura che in seguito venne teorizzata dal filosofo Friedrich Schelling (1775-1854). Altri centri importanti di un secondo Romanticismo furono i circoli di Heidelberg (con von Arnim e i fratelli Grimm) e di Monaco (con van Baader e Carus). Una delle tematiche centrali del Romanticismo è la concezione dell’uomo come essere pervaso da un’ansia profonda, eternamente insoddisfatto, che anela qualcosa di irraggiungibile. Un termine fondamentale dell’essere romantici è Sehnsucht, che significa “nostalgia”, “struggimento”, “male del desiderio”, desiderare qualcosa che si è avuto e che si sa non poter piú avere, in contrapposizione alla Stille dei neo-classici, cioè all’ordine, all’equilibrio, alla calma serenità interiore. Il Romanticismo rivalutò la religione, soprattutto nella sua tensione verso l’Infinito e l’Assoluto, ed esplorò il mistero dell’interiorità che entra in rapporto con l’Eterno. La visione filosoficoreligiosa dei romantici giunse al panteismo (“Dio è in tutte le cose”), poiché è una concezione che meglio esprime il senso di infinito e la possibilità di cogliere l’Assoluto tramite la poesia e l’amore. La Natura, cosí, venne considerata un grande organismo vivente in cui l’uomo è immerso, e che crea continuamente l’uomo e il mondo, in una unione con lo Spirito. Altrettanto importante fu la concezione della libertà, che si contrappone

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alla rigida necessità meccanica delle leggi fisiche, ed esprime l’essenza stessa dello Spirito, che agisce e sceglie.

Bibliografia essenziale: C. DE PASCALE, Il problema dell’educazione in Germania dal neoumanesimo al romanticismo, Loescher, Torino 1979 S. GIVONE, La questione romantica, Laterza, Roma-Bari 1992 C. LARMORE, L’eredità romantica, Feltrinelli, Milano 2000 I. BERLIN, Le radici del romanticismo, Adelphi, Milano 2001

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20 Johann Heinrich Pestalozzi

Dopo le grandi novità proposte da Rousseau, lo studioso della Svizzera tedesca Johann Heinrich Pestalozzi (17461827) ebbe il merito di introdurre in campo pedagogico importanti visioni originali, che confluiranno nelle sue opere. Inoltre si impegnò concretamente in molti progetti educativi, seppur piú volte fallimentari sotto l’aspetto pratico, prestando la sua opera in diversi istituti a Neuhof, Stans, Burgdorf e Yverdon. Scrisse e operò per dare vita a una scuola rinnovata, popolare e nazionale, riscoprendo e rivalutando il modello educativo della famiglia, come riferimento fondamentale per un’autentica educazione secondo natura. La formazione che ricevette fu piuttosto chiusa e protettiva, e favorí le attitudini all’immaginazione e al sentimento a scapito delle capacità pratiche e organizzative, al punto che egli stesso si definí “delicato, debole, disattento, svagato, irriflessivo”. Il suo percorso lo portò infine verso una fede religiosa elevata, sincera, profonda, semplice e pia, che ispirerà un modello educativo tendente a formare integralmente l’uomo, tutto incentrato sulla figura della madre, nella famiglia e sull’amore. Le sue opere piú importanti sono: La veglia di un solitario (1780), Leonardo e Gertrude (romanzo, 1781-1787), Mie inda-

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gini sul corso della natura nello sviluppo dell’umanità (1797), Come Gertrude istruisce i suoi figli (1801), Canto del cigno (1825). Nel 1769 fondò un istituto educativo nella sua tenuta agricola di Neuhof, nel cantone di Berna. In questa struttura, che funzionò fino al 1779, assieme alla moglie Anna, ospitò ragazzi poveri e bisognosi, fornendo loro una istruzione elementare di base e una educazione etico-sociale, e insegnando al contempo un mestiere, in agricoltura o manifattura, che doveva garantire agli allievi la possibilità di un riscatto sociale. I guadagni dell’attività lavorativa avrebbero dovuto fornire introiti finanziari sufficienti per la gestione della scuola, ma il progetto fallí, a causa dell’incapacità di Pestalozzi di fronteggiare le problematiche pratiche e finanziarie. A questa delusione seguí un periodo di disperazione, depressione e angoscia profonde, alle quali si uní un forte senso di colpa per il fallimento della sua esistenza e dei suoi ideali. Scrisse un romanzo a sfondo morale, Leonardo e Gertrude, che gli diede un certo successo come autore. È la storia di un villaggio di montagna in cui gli abitanti sono vittime di un oste usuraio, che li costringe a ridursi in miseria per chiedere denaro a lui. Fra le vittime, Leonardo, marito di Gertrude, la quale però, con la forza del suo amore, riesce a salvare prima il marito, e poi tutto il paese. È qui che Pestalozzi rende evidente quanto sia per lui importante l’amore, e soprattutto la figura della donna come madre e moglie amorevole, che con le sue forze sconfigge il male. Nel 1798, nella cittadina di Stans, il direttorio elvetico gli affidò la direzione di un istituto educativo per bambini abbandonati e per l’educazione degli orfani di guerra. Sebbene anche questa esperienza fosse destinata a concludersi dopo pochi mesi per mancanza di fondi governativi, Pestalozzi compí dei passi

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in avanti da un punto di vista teorico, maturando una nuova concezione del lavoro, inteso ora, oltre che come strumento di riscatto sociale, anche come occasione per formare la personalità dell’allievo. Divennero ora piú chiari gli scopi dell’educazione, e la natura dell’animo umano. Nel 1799, dopo solo cinque mesi, terminò l’esperienza di Stans, comunque molto importante per la precisazione del suo metodo pedagogico. Nel 1800 Pestalozzi aprí un proprio istituto nel castello della cittadina di Burgdorf. Grazie a questa esperienza cercò di semplificare ulteriormente i propri metodi didattici, per realizzare una scuola elementare accessibile e utile a tutti, quindi veramente popolare. Fra i metodi da lui sperimentati, possiamo ricordare quello di usare gli allievi piú grandi come maestri per gli alunni delle classi inferiori. Terminata anche questa avventura, l’educatore svizzero era ormai famoso in tutta Europa. L’ultimo suo progetto ebbe vita nel castello di Yverdon, nel cantone di Vaud, quando nel 1804 accettò un’offerta del governo democratico di Losanna. Qui Pestalozzi organizzò il suo metodo educativo nella forma piú compiuta, facendone un modello per tutta la Svizzera e ricevendo visite d’eccezione, fra cui quella di Friedrich Fröbel (1782-1851), Madame de Staël (1776-1817), Robert Owen (1771-1858). Ciò nonostante, nel 1810, una commissione ispettiva diede parere sfavorevole sull’organizzazione educative e didattica della scuola di Yverdon. L’esperienza si concluse nel 1825, allorché, divenuto ormai troppo anziano, Pestalozzi si accorse che i collaboratori che avrebbero dovuto prendere il suo posto alla guida dell’istituto non avevano una visione univoca sulla via da seguire. Per volontà del suo stesso fondatore la scuola chiuse i battenti, e i suoi ex collaboratori si separarono. Pestalozzi si ritirò a Neuhof dove tracciò un bilancio della propria esperienza didattica, scrivendo l’opera Il canto del cigno.

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Per l’importanza attribuita a madre, famiglia, amore e a un metodo basato principalmente sull’intuizione, la pedagogia di Pestalozzi può essere considerata una delle massime espressioni del primo Romanticismo, quanto la cultura era ancora molto permeata di idee illuministiche. Infatti, uno dei primi punti di riferimento del pensiero di Pestalozzi fu lo studio delle concezioni di Rousseau. Mentre in una prima fase della sua pedagogia, Pestalozzi condivise con Rousseau l’idea della naturale bontà dell’animo umano, in seguito alle delusioni e ai fallimenti, Pestalozzi si convinse che nell’uomo convivono stati benevoli e stati egoistici. Nell’analisi della natura umana, secondo Pestalozzi, alla nascita l’uomo è un misto di egoismo e benevolenza, sottoposto all’influenza della società. L’educazione deve fornire un insegnamento etico, che consenta di superare gli egoismi individuali e collettivi, attraverso l’amore. Per Pestalozzi, lo sviluppo dello spirito passa attraverso tre stati: naturale, sociale e morale. Lo stato naturale è la metafora del piú alto grado di innocenza animale, è ingenuità istintuale che spinge a ogni godimento sensibile, è allo stesso tempo innocenza e bestialità. L’uomo, da questa situazione, può elevarsi verso la sua natura superiore di innocenza e virtú, oppure cadere nel caos dei propri impulsi egoistici; l’essere umano dunque è possibilità, che va guidata e sostenuta per tendere verso il bene. Il sostegno viene da buone leggi e dall’educazione, fondata sulla famiglia e sulla madre. Lo stato sociale è la condizione in cui il debole cerca protezione, e il forte cerca di prevalere; è necessario perciò trovare l’equilibrio e la giustizia, attraverso la morale. La legislazione può agevolare il sorgere della moralità, la quale però, per essere efficace, da eteronoma deve divenire autonoma. Non è pos-

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sibile, cioè, raggiungere una autentico stato morale se si costringono semplicemente i cittadini a obbedire alle leggi dello Stato, ponendo loro come alternativa lo spauracchio della pena; la costrizione deve essere accompagnata sempre dall’opera educativa, che mostri la bontà delle leggi, e la convenienza di seguirle. Solo cosí si progredirà verso la perfezione morale, la quale resta comunque un’idea limite, un fine ideale a cui bisogna tendere con un impegno costante e infinito, al fine di migliorare continuamente la condizione umana. L’attività spirituale si esplica attraverso il sentimento, l’intelletto e l’attività pratica (che Pestalozzi rappresentò attraverso tre organi: il cuore, la mente e la mano), che vanno armonizzati fra loro. L’attività didattica prevede che il processo di apprendimento cominci a partire dall’intuizione. L’intuizione non è la semplice sensazione passiva, come la concepivano gli empiristi, ma è una funzione che implica l’attività del soggetto, il quale si rapporta con gli oggetti caratterizzandoli progressivamente nella forma, nei loro rapporti quantitativi e nella definizione linguistica, secondo la triade parola-numero-forma. Questa didattica è definita elementare, perché si basa sugli elementi piú semplici del sapere, sui quali va costruita gradatamente tutta la conoscenza e l’intera formazione culturale del soggetto. È fondamentale seguire il processo naturale dello sviluppo delle facoltà del soggetto, avanzando per gradi, dal concreto all’astratto, e predisponendo strumenti per fare acquisire abilità concrete, osservando attentamente il bambino. Il suo metodo didattico non si fissò mai in un modello rigido, nella convinzione che non sia possibile pre-determinare il processo di apprendimento, perché la natura spirituale del soggetto sfugge a ogni legge e a ogni rigido determinismo. Pestalozzi colse la pedagogia in tutta la sua problematicità, sperimentando continuamente, mantenendo sempre viva la sua

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curiosità in piú direzioni, cercando di trovare un equilibrio tra la forza impetuosa del suo sentimento e la ricerca di categorie logiche per la spiegazione della realtà, sorretto sempre da una precisa finalità antropologica. Per questo, nonostante i suoi progetti educativi non fossero riusciti a dotare concretamente i poveri di autentici strumenti di emancipazione (come gli venne contestato soprattutto dagli studiosi di stampo marxista), resta uno dei piú grandi pedagogisti moderni.

Bibliografia essenziale. Opere di Pestalozzi: Scritti scelti, UTET, Torino 1970 Letteratura critica: A. BANFI, Pestalozzi, La Nuova Italia, Firenze 1961

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21 Friedrich Fröbel

In maniera autonoma e originale Friedrich Fröbel (17821851) prese spunto dal Romanticismo e dall’Idealismo tedeschi a lui contemporanei, ispirandosi in particolar modo dal filosofo Schelling. Elaborò una pedagogia che tradusse poi in istituzioni scolastiche concrete, le prime del tempo in Germania. Compí studi disordinati, e visse in contatto diretto con la natura, lavorando nell’orto-giardino del padre (un pastore protestante), facendo lunghe passeggiate nelle foreste della Turingia, e svolgendo l’attività di apprendista forestale. Queste esperienze furono decisive per la maturazione di un rapporto mistico-sentimentale con la natura, di cui cercava l’interna struttura per scoprire le leggi che la regolano, e avere la conferma della sua intuizione idealistica che tutto il molteplice è riconducibile all’unità, che comprende in sé realtà e cultura. Tutto per Froebel è unità, tutto è fondato sull’unità, muove dall’unità, tende, conduce e ritorna all’unità di tutto il cosmo, per giungere all’unità assoluta di Natura e Spirito. La sua pedagogia, e l’educazione conseguente, si basarono su un grande sistema filosofico idealistico, che lo espose ai rischi dell’eccessiva teoria, dell’astrattezza e del simbolismo didattico. Dal punto di vista metodologico si basò sulle idee di

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comunità, contro l’individualismo di Rousseau, di gioco (fu il primo teorico nella storia della filosofia dell’educazione a valutarlo come momento fondamentale dello sviluppo creativo del bambino), e di doni, intesi come materiale didattico. Fondò un istituto educativo di istruzione secondaria e, nel 1839-1840, il primo “Giardino d’Infanzia” (Kindergarten) della storia, che però venne chiuso dal Governo prussiano con l’accusa di “ateismo e socialismo” nel 1850. Si dedicò in seguito ad attività di riforma educativa e alla formazione degli educatori. Le sue opere principali sono: L’educazione dell’uomo (1826), Progetto di un piano per la fondazione e la realizzazione di un giardino d’infanzia (1840), Canti e carezze materne (1844). Secondo Fröbel, esiste una legge eterna, che si rivela all’esterno nella natura, e all’interno nello spirito; è l’unità, vivente, autocosciente ed eterna: Dio. Non è però il Dio trascendente della tradizione cattolica, ma una attività creatrice continua e infinita, che si esplica e realizza nel mondo. Questa visione è detta panenteismo, che significa “Dio in tutto”, ed è raggiungibile attraverso l’intuizione di un principio di unificazione della molteplicità dei fenomeni osservabili, in cui la natura, i fiori, gli alberi, tutto è indissolubilmente legato in una essenziale unità. Questa intuizione è il risultato di uno sforzo ininterrotto di ricerca e di riflessione, in cui una parte fondamentale ha l’educazione. Lo sviluppo del bambino, come quello di tutti gli esseri, è un processo creativo. Fröbel delinea due periodi della crescita: la prima infanzia, durante la quale la creatività è espressiva, manifestandosi dall’interno all’esterno in direzione centrifuga, e la seconda infanzia, in cui il bambino diventa consapevole che interno ed esterno sono aspetti di un’unica realtà. In questo momento il bambino può cominciare ad apprendere. Il bambi-

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no non nasce come una tabula rasa, ma possiede delle potenzialità da estrinsecare in modo libero e spontaneo, per realizzare il suo sviluppo. Esaminiamo i due periodi dello sviluppo piú approfonditamente: 1) Prima infanzia: dallo stato di poppante, in cui viene semplicemente allevato, il bambino passa all’infanzia attraverso la comparsa del linguaggio, che gli consente di inserire nell’unità originaria indifferenziata il molteplice, e di esteriorizzare i sentimenti e le impressioni traducendoli in rappresentazioni e poi in azioni, in una parola è in grado di esprimersi. La creatività di ogni atto umano è il momento espressivo del divino che è nell’uomo; è perciò importante che le rappresentazioni siano spontanee, naturali. L’attività fondamentale del bambino è il gioco (Fröbel è stato il primo a identificare infanzia con gioco), attraverso il quale egli penetra nelle cose, e queste entrano in lui; il bambino attribuisce vita, capacità di sentire, parlare e udire a tutto ciò che lo circonda. L’attività ludica prepara e promuove lo sviluppo del bambino verso il disegno, il linguaggio, le attività logico-matematiche e il futuro lavoro. Gioco, linguaggio e disegno sono dapprima manifestazioni del mondo interno del bambino, e diventano poi il tramite per conoscere, assumendo quindi funzioni cognitive. Il disegno sta a metà fra le parole (è un’immagine) e le cose (rappresenta le forme e i contorni): con esso ordina e trova un nesso fra le quantità delle cose, portandolo alla conoscenza del numero (armonia). Nell’educazione della prima infanzia sono inclusi il movimento, gli esercizi corporei, il ritmo, la musica (il canto), la danza. 2) Seconda infanzia: in questa fase il bambino comincia a interessarsi al mondo esterno, guidato dalla curiosità e dall’interesse. Anziché esprimere la propria interiorità con un movimento centrifugo, dirige la sua attenzione sul mondo, conoscen-

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dolo e interiorizzandolo. L’azione del soggetto può definirsi ora centripeta; è il periodo in cui comincia l’apprendimento vero e proprio, attraverso l’istruzione, il cui compito è far penetrare lo scolaro nell’unità delle cose. La didattica fröbeliana è basata su una intuizione mistica che, trascurando la psicologia, conduce al simbolismo e al mito. C’è un’unica intuizione, perché l’universo è unità. Essa è conoscibile in tre modalità diverse, che si oggettivano in Dio, Natura, Se stesso. Dio è conoscibile attraverso l’insegnamento della religione, al primo posto per far cogliere, intuire e presentire l’unità di tutto il creato. La natura è la rivelazione dell’unità divina, e va penetrata attraverso la ricerca scientifica, mediata da alcuni oggetti solidi fondamentali, i doni, veri e propri strumenti didattici che servono a far cogliere l’unità del tutto negli oggetti primi. Strumento fondamentale per la conoscenza del sé è la lingua, principale mezzo espressivo dell’uomo, che manifesta la mobilità e la trasformazione continua del vivente. La scrittura, sia per immagini (il disegno) che per codici convenzionali (l’alfabeto), è un vero e proprio bisogno per l’uomo, che gli permette di estrinsecare la propria natura. È molto importante anche l’insegnamento artistico, che è legato al movimento (i suoni: musica e canto), a linee e superfici (i colori: pittura), corpi (la massa: arte plastica). La pittura e le arti plastiche sono unificate dal disegno. Fröbel realizza un modello istituzionale di scuola dell’infanzia: il Giardino d’Infanzia, organizzato secondo molteplici modalità, per cercare di soddisfare le multiformi esigenze dei soggetti da educare: all’esterno presenta piccole “proprietà private”, per il lavoro individuale (la coltivazione di un piccolo

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giardino), e un’area piú ampia per il lavoro in comune. In questo modo viene alla luce la dialettica fra individualità e socialità, e si soddisfa un bisogno psicologico, il possesso, strumento fondamentale per l’identità e l’educazione alla responsabilità, attraverso il lavoro nelle proprietà individuali, e lo sviluppo della cooperazione e della collaborazione, tramite il lavoro nei campi in comune. All’interno del Kindergarten la didattica si esplica attraverso l’uso del materiale didattico prestrutturato, i doni – cui si è fatto cenno in precedenza – che riproducono le strutture fondamentali della natura e dell’essere. Essi, manipolati concretamente, permettono lo sviluppo della comprensione delle forme della realtà, delle loro connessioni, la numerazione, le qualità. In ordine di utilizzo, i sei doni sono: sfera, realizzata in 6 gomitoli di lana in 6 tinte diverse; sfera e cubo di legno, accompagnati dal cilindro come forma intermedia; Cubo diviso in 8 cubetti; Cubo diviso in 8 tavolette; Cubo diviso in 27 cubetti; Cubo diviso in colonne e mattoni. Tralasciando la funzione metafisica attribuita da Fröbel ai doni, è da notare che essi hanno una loro precisa valenza didattica, e aiutano a formare i concetti di categorizzazione e classificazione, permettendo al bambino di esprimere la sua creatività attraverso attività costruttive e fantastiche. L’attività attraverso la quale si deve utilizzare tutto il materiale didattico è il gioco, naturale espressione del vivere del bambino, in cui la fantasia si fonde con la realtà. Esso ha valenze estetiche, cognitive, motorie, costruttive e sociali, ed è un diritto dell’infanzia, la modalità unica della prima educazione. È fondamentale che l’attività ludica sia spontanea, anche se questo non implica una svalutazione del ruolo del precettore, il quale dovrà comunque

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guidare il bambino verso esperienze utili a sviluppare precisione e chiarezza.

Bibliografia essenziale. Opere di Fröbel: L’educazione dell’uomo, La Nuova Italia, Firenze 1993. Letteratura critica: R. SPRANGER, Il mondo e il pensiero di Fröbel, Armando, Roma 1960.

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22 Johann Friedrich Herbart

Johann Friedrich Herbart (1776-1841), filosofo tedesco, fu precettore in Svizzera, dove incontrò Pestalozzi. Insegnò nelle Università tedesche, succedendo alla cattedra di Filosofia e Pedagogia che era stata di Kant a Könisberg, all’epoca in cui regnavano il Romanticismo e l’Idealismo, a cui si contrappose con una visione filosofica realista, basata su una costruzione metafisica e su considerazioni psicologiche ed etico-estetiche. Fra le sue opere piú importanti, citiamo Pedagogia generale (1806), Psicologia come scienza (1825), Metafisica generale (1828), Lezioni di pedagogia (1835). In campo filosofico, Herbart si contrappose decisamente ai maggiori filosofi idealisti tedeschi, Fichte, Schelling e Hegel, i quali avevano la pretesa di spiegare tutto il reale partendo dall’Io. In questo modo, si generava la contraddizione di voler rendere conto delle facoltà conoscitive dell’uomo attraverso quelle stesse capacità che si dovrebbero spiegare. Herbart si pose contro il rifiuto del principio di identità (A=A) in filosofia; esso rimane lo strumento per elaborare concetti, eliminando le contraddizioni che derivano dagli oggetti dell’esperienza. Da un punto di vista pedagogico, la critica di Herbart si rivolse contro Rousseau e Locke; quest’ultimo era colpevole di

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promuovere una pedagogia volta al conformismo, mentre il primo non si rendeva conto che l’uomo non deve sviluppare la propria spontaneità senza integrarsi anche da un punto di vista sociale. Un altro bersaglio di Herbart fu Pestalozzi, che non aveva dato a suo parere una base sistematica alla pedagogia, fondandola sull’intuizione. Herbart fu il primo educatore a teorizzare una pedagogia scientifica (anche se si tratta di una scienza filosofica), basata sulla psicologia e sull’etica. Quest’ultima definisce il fine generale dell’educazione, mentre la psicologia chiarisce i mezzi per giungere agli scopi morali prefissi dall’educazione. La psicologia si basa sull’esperienza interna, i cui dati sono gli accadimenti psichici, le impressioni sensibili, le rappresentazioni, alla cui base sta il reale: l’anima semplice, immateriale, immutabile. Alla nascita, l’individuo non possieda alcuna conoscenza innata, e gli oggetti della realtà restano in qualche modo inconoscibili (come il noumeno kantiano). L’oggetto dell’analisi psicologica sono dunque le rappresentazioni che, se coerenti da un punto di vista logico, vengono assimilate e associate in masse, tramite l’appercezione, mentre se risultano confuse e incoerenti vengono rimosse sotto la soglia della coscienza (anticipando di parecchi decenni il concetto di inconscio frudiano). L’etica, l’atto morale concreto, si basa sul giudizio estetico, e nasce dal sentimento di approvazione e disapprovazione che sorge nel confronto fra l’ideale e il reale concreto agire: percependo e vivendo il Bello (estetica) si sente anche il Bene (etica). La pedagogia ha il fine morale di formare il carattere, introducendo le idee pratiche che servono da modello per la condotta: libertà interna (l’armonia e la coerenza fra volontà e condotta), perfezione (il massimo di forza della volontà), benevolenza (l’armonia fra la nostra volontà e quella degli altri), diritto (la concordanza di due volontà su un oggetto), equità (l’eliminazione di ogni volontà intenzionale di male).

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L’apporto fondamentale di Herbart alla pedagogia è di aver contribuito a fondarla come scienza autonoma, sistematica, con adeguati strumenti, e averla sottratta alla parzialità dell’empirismo. Il suo limite rimane quello di aver però fondato la psicologia e l’etica sulla sua filosofia, che è definita come metafisica realista. La pedagogia di Herbart è istruzione, e deve insegnare e guidare il soggetto rispettando i suoi ritmi di sviluppo naturale, ma al contempo cercando di integrare momento naturale e momento sociale, nella prospettiva piú vasta della moralità. L’educazione morale si compone di tre piani: 1) Governo: guida esterna dell’educatore che aiuta il bambino a reprimere i suoi impulsi, attraverso la volontà. 2) Istruzione: una didattica rigorosa, che istruisca e insegni tenendo conto delle diverse fasi d’età, e sia soprattutto capace di dare stimoli e interessi, formando le idee e il giudizio. 3) Autogoverno: è la sintesi di volontà e giudizio, che permette al ragazzo di proseguire, educandosi da sé. L’educatore deve escludere la sorveglianza, per basarsi sull’autorevolezza e sull’amore, facendo leva sull’interesse per saldare disciplina e apprendimento. Inizialmente l’interesse è oggettivo, cioè definito in base all’oggetto che interessa (per esempio, una palla), poi può essere soggettivo, e sarà allora lo stato d’animo del soggetto che lo spinge a interessarsi a qualcosa. L’unità di coscienza si polarizza in due momenti: quello della concentrazione, l’approfondimento dell’oggetto in esame, e quello della riflessione, la sintesi di piú approfondimenti. Herbart fornisce anche una classificazione degli interessi, che risultano essere di due tipi: 1. Conoscitivo, l’interesse per gli enigmi del mondo, diviso in tre modelli: a) empirico, b) teoretico, c) estetico;

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2. Compartecipante, l’interesse per esigenze degli uomini, che si divide in: a) simpatetico, b) sociale, c) religioso. Gli interessi devono presentarsi simultaneamente; per i fini della didattica l’apprendimento deve svilupparsi per gradi; la concentrazione e la riflessione devono conferire chiarezza a dati e rappresentazioni, quindi istituire associazioni fra le varie rappresentazioni, fino a organizzarle in sistema, che è lo strumento, il metodo per verificare e controllare quanto è stato sistemato e appreso. La didattica deve muoversi dall’esperienza, per poi superarla con l’istruzione: è importante dunque che l’educazione agisca direttamente per realizzare la crescita culturale del bambino, fornendogli una conoscenza vasta e profonda che lo inserisca attivamente e consapevolmente alla vita sociale e culturale.

Bibliografia essenziale. Opere di Herbart: Antologia pedagogica, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1973 Letteratura critica: R. PETTOELLO, Introduzione a Herbart, Laterza, Roma-Bari 1988

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23 La pedagogia del Positivismo

Nella seconda metà dell’Ottocento, il grande sviluppo economico-industriale e tecnologico della Rivoluzione industriale portò a un mutamento della visione del mondo, della conoscenza e anche, di conseguenza, della pedagogia. Il Positivismo e il materialismo storico-dialettico (di Karl Marx e Friedrich Engels) dominarono in questi anni; il Positivismo aveva la certezza che la ragione e la scienza potessero spiegare tutto in modo sicuro e certo. Alla visione già positiva dell’Illuminismo, si aggiunse lo sperimentalismo permesso dai grandi progressi scientifici e tecnologici, con invenzioni e scoperte che modificarono il modo di vivere degli uomini e il loro modo di esperire il mondo (mezzi di comunicazioni, di trasporto, di produzione nuovi furono il fondamento materiale per il nuovo orientamento di pensiero: telefono, radiotelegrafia, macchina per scrivere, raggi x, fonografo, cinema, bicicletta, automobili, dirigibili e aereoplani, tramway elettrici, navi a motore e sommergibili). Atteggiamenti tipici e caratteristici della mentalità positivista furono l’esaltazione incondizionata delle scienze particolari e del loro metodo di ricerca empirica e analitica, la fiducia di poter estendere tale metodo a tutti i campi della realtà (compre-

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si l’uomo, la psicologia umana, la società umana e l’educazione), la negazione alla filosofia – e particolarmente alla metafisica – di un proprio campo d’indagine e di un loro metodo specifico, con conseguente riduzione della loro attività a sistemazione dei dati e delle conquiste scientifiche, quindi a fondazione e giustificazione dei procedimenti gnoseologici ed epistemologici dello scienziato. In sostanza: la filosofia venne considerata ancella di tante scienze isolate, poi ri-composte e ri-compattate in un sistema totale. Restò intatta, nel Positivismo, una fiducia illuministica nel continuo progresso della scienza, con un corrispondente costante miglioramento morale e sociale, e una ottimistica certezza che grazie ai risultati della scienza, prima o poi, si potranno conoscere e risolvere tutti i problemi. Causalismo e determinismo meccanicistico rimasero presenti, trasformandosi in riduttivismo e scientismo. Gli elementi di cui si compone il mondo vennero considerati elementi omogenei e passibili di essere studiati con lo stesso unico metodo della scienza. Con la fede nel progresso, nella scienza, nella tecnologia e nell’industrializzazione, che avrebbero portato l’uomo a liberarsi sempre piú dai bisogni concreti, il Positivismo basò la sua ricerca sul mondo naturale, sull’oggettività e necessità delle cose, del mondo, delle leggi, attraverso una rigorosa osservazione dei fatti e dei dati di esperienza, cosí da poter applicare lo stesso metodo delle scienze oggettive anche all’uomo e alla società. Il Positivismo pedagogico, in generale, propose: che l’educazione formi il bambino alla vita e alla convivenza sociale; che l’educatore sia preparato scientificamente; di attribuire importanza alla psicologia; che la scuola e l’educazione debbano essere laiche; di utilizzare il metodo oggettivo; di far uso della percezione sensibile come fondamento delle conoscenze

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razionali. Esalta l’importanza dell’osservazione e dell’esperimento anche nella ricerca pedagogica, formulando leggi dell’educazione. Come ogni tendenza di pensiero che si affermi, gli elementi eccessivi e autodistruttori dello scientismo positivistico furono caratteristici e presenti piú nella “mentalità dilagante” dei personaggi meno noti e meno importanti, che negli scienziati e filosofi piú seri. Infatti l’esaltazione irrazionale della tecnologia, l’elezione a dogma assoluto della scienza, dopo che si era voluta distruggere la metafisica proprio per le sue pretese di assolutezza, furono atteggiamenti tipici di piccoli scienziati poco originali, che abbracciavano un sapere come una “scuola”, acriticamente, decantandolo illimitatamente. I grandi pensatori e teorici del Positivismo (August Comte, Ernest Renan, Hippolyte Taine in Francia; James Stuart Mill, Herbert Spencer in Inghilterra; Roberto Ardigò, Aristide Gabelli e Andrea Angiulli in Italia), invece, stemperarono la visione ottimistica, prendendo in considerazionc piú aspetti possibili di critica, meditando prudentemente i procedimenti del proprio pensiero. John Stuart Mill (1806-1873) e Herbert Spencer (18201903) si ispirarono all’evoluzionismo di Charles Darwin (1809-1882), portandolo sul piano sociale, ricollegando l’uomo alle forme inferiori di vita in una unità e continuità evolutiva. Si originò il darwinismo sociale, con risvolti piuttosto inquietanti specie quando ci si riferí a esso a proposito delle persone piú deboli, malate o handicappate, o quando ci si serví di esso per giustificare e legittimare operazioni espansionistiche o imperialistiche: da questo derivò anche un darwinismo pedagogico, che legittimò e giustificò come positive la competitività e la selezione scolastica.

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Herbert Spencer (1820-1903) criticò e si oppose all’educazione tradizionale, libresca, astratta e sostenne la necessità di reimpostare i curricola e i programmi su base piú moderna. Le prime nozioni da insegnare devono essere quelle di piú immediata utilità, che preparino alla vita concreta: fisiologia, igiene, educazione fisica (che servono alla conservazione della specie); poi le discipline scientifiche: biologia, matematica, chimica e geologia (che servono alla propria professione e allo sviluppo industriale); infine le conoscenze utili ai genitori nell’allevamento dei figli: principi di alimentazione, educazione del corpo. saperi morali e intellettuali, elementi di psicologia. Alla base vi è l’idea che il bambino, nel suo sviluppo debba ripercorrere in breve l’evoluzione di tutta l’umanità (il bambino è visto come l’uomo primitivo: deve essere lasciato libero di esprimersi secondo natura e far emergere i propri bisogni, ma deve anche essere aiutato a imparare le nuove tecniche di adattamento all’ambiente). Il processo della conoscenza nell’uomo procede dal semplice al complesso, dall’indefinito al finito, dal concreto all’astratto, dall’empirico al razionale. Auguste Comte (1798-1857) fu allievo e collaboratore di Saint-Simon, ma se ne staccò presto poiché riteneva che la nuova società industriale non potesse sorgere per mezzo di una semplice azione politica, bensí doveva essere preparata e preceduta da una profonda rivoluzione intellettuale e morale. Egli ritenne che si possono cambiare le istituzioni solo dopo aver cambiato le opinioni e i sistemi filosofici. Nel suo Corso di filosofia positiva (1830-1842), in 6 volumi, egli riordinò tutte il sapere secondo una scala delle scienze con in cima la sociologia (fondata come scienza) e presentò anche alcune importanti riflessioni sull’educazione, piú adatta alla civiltà moderna e industriale.

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Egli ritenne che a fondamento di tutto il sapere vi siano le scienze, alla cui base sta la matematica, lo strumento umano piú potente per lo studio dei fenomeni naturali, per poi sviluppare lo studio delle scienze esatte nell’ordine in cui si sono venute a creare nella storia dell’umanità: quell’ordine che segue la successione delle scienze presente nell’età moderna, dalla matematica, all’astronomia, alla fisica, alla chimica, alla biologia, alla fisiologia; solo i fatti sociali devono diventare oggetto di una scienza positiva, autonoma, la “fisica sociale”, o sociologia, che deve collocarsi in cima a tutte le scienze. Escluse la psicologia, perché Comte riteneva che l’uomo potesse essere studiato nelle sue funzioni organiche dalla biologia e nelle sue attività sociali dalla sociologia. Le scienze naturali si possono distinguere in due generi: le prime sono astratte e cercano le leggi che regolano i fenomeni; le seconde sono concrete, particolari e descrittive e sono subordinate alle altre; è pertanto pericolosa l’eccessiva specializzazione e l’idea di considerare un’unica scienza come totale e valida anche per spiegare le altre, per questo è utile unirle e collegarle tutte in una rete di relazioni e connessioni (un sistema). L’evoluzione delle conoscenze umane è costata secoli e millenni di ricerche e lo sviluppo del genere umano è paragonabile a quello del singolo uomo: vi è stata un’infanzia del genere umano (a cui corrispondono, nel pensiero, lo stato teologico, o fittizio; politicamente, c’è la supremazia di poteri monarchicomilitari, con prevalenza della casta sacerdotale: vi è ignoranza delle leggi e si cercano le cause prime delle cose attraverso l’immaginazione; gli uomini si rappresentano i fenomeni come se fossero prodotti grazie a interventi soprannaturali); poi si è avuta una giovinezza (lo stato dei pensiero metafisico, o astratto; in politica, si affermano gli ordinamenti di sovranità popolare, con prevalenza di giuristi: all’immaginazione subentra la

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ragione come facoltà di astrazione, ma si cercano sempre le cause prime delle cose in entità astratte, forze inesistenti); infine si è giunti alla maturità (lo stato del pensiero positivo, che vede l’affermarsi in campo politico del mondo dell’industria: si rinuncia a cercare le cause dei fenomeni, per accertarne invece le leggi che sono sempre relative e relazionali in cui si riconosce l’impossibilità di ottenere nozioni assolute; si rinuncia quindi a cercare l’origine e la destinazione dell’universo e ci si impegna a conoscere, scoprire, osservare e ragionare sulla base delle effettive leggi del mondo fisico-naturale). Non essendo possibile pretendere che un solo individuo possa ripercorrere passo a passo, in pochi anni, tutti questi processi di pensiero, è piú logico cogliere i risultati delle ricerche nelle loro relazioni, per cui è utile una esposizione e classificazione sistematica delle scienze, per poterle meglio studiare e apprendere. Comte mise dunque in guardia contro la specializzazione eccessiva nella formazione dei lavoratori, che abbruttisce gli individui in un esercizio miserabile e ripetitivo.

Bibliografia essenziale: S. POGGI, Introduzione al Positivismo, Laterza, Roma-Bari 1987

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24 La pedagogia italiana tra XIX e XX secolo

La pedagogia del cattolicesimo reazionario e liberale In Italia, dopo il 1820-21, nel clima politico della Restaurazione, il movimento reazionario cattolico assunse consistenza, per contrapposizione alle apparenti tensioni rivoluzionarie. Gli esponenti piú reazionari del cattolicesimo proposero una prospettiva dell’istruzione e dell’educazione popolare in linea con i loro principi politici: considerando che il bambino delle classi popolari, dopo l’asilo, avrebbe dovuto vivere in tuguri, officine sporche e fumose, e si sarebbe abituato a una vita dura, fatta di privazioni e sofferenze, si affermò che sarebbe stata una crudeltà e un’imprudenza, oltre che un atteggiamento non cristiano, educare il bambino a condizioni di vita che non avrebbe potuto piú mantenere. Meglio sarebbe stato infondere rassegnazione, tranquillità, contentezza di vivere umilmente. Negli stessi anni, la cultura risorgimentale italiana diede vita a idee liberali e democratiche, dai caratteri moderati, e propose una ricerca pedagogica che si sforzasse di trasformare la società italiana in una nazione, per cui si dovevano cambiare la mentalità, la cultura, raccordare le classi sociali attraverso un ampio processo educativo, che rendesse i cittadini uniti e sudditi di uno stato nel quale si riconoscessero.

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Il punto di riferimento fondamentale era essenzialmente costituito dalle idee filosofiche di Vincenzo Gioberti, e soprattutto dal pensiero di Alessandro Manzoni. Quest’ultimo, infatti, proponeva di educare il popolo alla morale cattolica, per instillare la fiducia nella Provvidenza divina che avrebbe fatto trionfare il bene sul male. Egli sostenne che “è il popolo a fare la storia”, e che per realizzare una vera unità d’Italia è necessaria un’unità linguistica. I principali autori della pedagogia del cattolicesimo liberale furono Ferrante Aporti e Gino Capponi. Ferrante Aporti (1791-1858) fu sacerdote, e diresse la scuola elementare di Cremona, dove aprí poi la scuola infantile nel 1837. Scrisse il Manuale di educazione, del 1833 e gli Elementi di pedagogia, del 1847. Nell’Italia risorgimentale, in ritardo rispetto agli altri paesi nello sviluppo economico e industriale, in cui l’infanzia viveva in condizioni igieniche, morali e materiali miserevoli, Aporti dette vita a numerose iniziative filantropiche. Organizzò le sue scuole non come semplici sale di custodia, ma cercò di fornire un metodo educativo, dei contenuti disciplinari, e di educare il bambino tenendo conto dei suoi bisogni e formarlo globalmente da diversi punti di vista: morale, religioso, fisico, affettivo, sociale. Per capire l’importanza dell’opera di Aporti è necessario ricondurla al periodo storico nel quale si svolge: infatti, molti consideravano l’educazione infantile dei poveri un pericoloso strumento di emancipazione sociale. Pertanto, la sua proposta risultò progressista e all’avanguardia da un punto di vista liberale. Gino Capponi (1792-1876) operò in Toscana. Scrisse i Pensieri sull’educazione, pubblicati nel 1845. Attento alle classi piú povere, si interessò all’educazione dei bambini, cercando di crescerli in modo da farli sentire, da adul-

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ti, elementi di una collettività, di un popolo, al quale, per dare coscienza dei propri doveri, è necessaria una formazione culturale. L’educazione deve sfociare in un impegno etico, morale e civile, risultato che si ottiene attraverso la trasmissione di idee elevate, “grandi”, che Capponi chiama “idee-forza”: uguaglianza, libertà, patria. La pedagogia del Positivismo italiano I pedagogisti piú importanti del Positivismo italiano furono: Aristide Gabelli (1830-1891), che riprese Stuart Mill e criticò Rousseau in nome di una superiorità dell’intelligenza sulla sensibilità e di un uso critico dello “strumento testa”, proponendo l’osservazione diretta della realtà come metodo educativo; Andrea Angiulli (1837-1890), che tese a privilegiare gli aspetti tecnici dell’educazione in nome del principio che ogni metodo didattico non può prescindere dai dati della ricerca antropologica e sociologica. Un altro importante esponente del Positivismo educativo e filosofico in Italia fu Roberto Ardigò (1828-1920). Fu sacerdote dal 1851 al 1871, quando in seguito a una “conversione all’ateismo”, rinunciò all’abito. Morí suicida all’età di 92 anni. Vicino alle idee di Spencer, propose una filosofia della natura su basi positivistiche. Fra le sue opere: La psicologia come scienza positiva, del 1870, e Scienza dell’educazione, del 1893. La pedagogia – secondo Ardigò – è scienza che deve formare l’individuo con abilità utili, decorose e nobili. Il bambino non possiede capacità innate, e l’educazione è formazione dall’esterno, azione dell’ambiente sul soggetto. I valori devono essere formati attraverso l’esperienza e l’abitudine, e il metodo da utilizzare guarda sia alla conoscenza sensibile, diretta, sia allo studio del patrimonio culturale e scientifico. Didatticamente, si oppose ai metodi verbalistico-retorici, e valorizzò l’esperienza

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diretta. Sostenne che la scuola debba essere laica e professionale. Il curriculum che propose ricalcò quello di Spencer, con il primato della scienza rispetto alle discipline umanistiche. Per Ardigò, in linea con il Positivismo, non esiste nulla di inconoscibile, la scienza può arrivare a conoscere tutto, e l’educazione può modellare gli uomini per i propri fini. Il metodo delle sorelle Agazzi Rosa (1866-1951) e Carolina (1870-1945) Agazzi nacquero a Volongo, in provincia di Cremona, e fondarono a Mompiano, in provincia di Brescia, nel 1895, un asilo, chiamato la “casa dei bambini”. Il lavoro teorico fu il frutto soprattutto del lavoro intellettuale di Rosa Agazzi, la quale pubblicò numerose opere, fra cui: Come intendo il museo didattico nell’educazione dell’infanzia e della fanciullezza (1923); L’arte delle piccole mani (1929); Guida per educatrici dell’infanzia (1932). Nella loro “casa dei bambini”, rifiutando il convenzionalismo delle sale di custodia e lo scolasticismo nozionistico, incoraggiarono le attività individuali dei bambini, concedendo libero sfogo alle loro forme di vita spontanea. Con la “casa dei bambini” di Mompiano, diretta da Rosa dal 1896 in poi, diedero l’avvio a una riforma dell’educazione infantile che serví da esempio a molti asili che sorsero in seguito col nome e utilizzando il metodo delle sorelle Agazzi. Considerarono l’asilo per l’infanzia la continuazione della vita all’interno della famiglia cercarono di realizzarlo in collaborazione con la famiglia. Ebbero molta cura dell’igiene, della cura e della pulizia personali. Il loro metodo si fondava sulla spontaneità e sull’esperienza personale dei bambini, i quali vivevano in comunità, attendevano a lavori vari, alternati alla musica, al canto, alla conoscenza

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di cose nuove e ad esercizi di giardinaggio e all’allevamento di animali domestici. La libertà, la spontaneità e la operosità individuale, naturalmente, erano regolate dalle esigenze della vita in comune e stimolate da un materiale didattico spesso raccolto o fabbricato dalla maestra e dai bambini stessi (che sostituiva quello precostituito dei “doni” di Fröbel). Agli esercizi tradizionali di tipo fröbeliano, esse iniziarono a sostituire esercizi di vita concreta, manuale, venendo cosí a perfezionare le capacità creative ed estetiche. Mediante l’introduzione della pratica, altamente educativa, dell’aiuto e dell’assistenza fornite dai bambini grandicelli verso i piú piccoli, favorirono lo sviluppo della socializzazione. Cominciarono a far uso di contrassegni personali, affinché ogni bambino mettesse le proprie cose al loro posto. Lo strumento educativo nell’asilo di Monpiano è il “Museo Pedagogico”, o “Museo delle cianfrusaglie”, perché raccoglieva tutte le cianfrusaglie, utilizzate come materiale didattico, che il bambino trovava o costruiva da sé. Lo strumento educativo – il Museo Pedagogico, o Museo Didattico – era un luogo (scaffale, teca, armadio) in cui si raccoglievano tutte le cianfrusaglie trovate dal bambino o da esso costruite e venivano disposte per colore, o per forma, o per somiglianza, o per nome, contrassegnate in vari modi, per insegnare al bambino le differenze, le qualità e le somiglianze fra gli oggetti e a prendere possesso della realtà. Inoltre, essendo raccolte come reliquie, le cianfrusaglie facevano sí i bambini vedessero attribuito valore alle loro piccole proprietà e ciò risultò molto utile per lo sviluppo della sicurezza individuale. Il metodo Agazzi non ha nulla di artificioso e di meccanico; perciò è stato talora contrapposto al metodo Montessori, ma in realtà quella delle Agazzi rimase un’esperienza molto piú limi-

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tata e concreta rispetto alla costruzione teorica dell’altra grande studiosa italiana. Il metodo Agazzi ebbe, comunque, enorme successo (piú di quello della Montessori) nell’Italia di fine Ottocento, inizi Novecento, perché era molto economico da realizzare e facile da attuare. Queste erano caratteristiche fondamentali per attuare una scuola nazionale, nella situazione italiana post-unitaria; l’Italia, infatti, si trovava in grave crisi economica, ma con l’urgenza di realizzare un’istruzione e una scuola pubblica nazionale, uguale per tutti e unitaria, in breve tempo; cosí, con il metodo Agazzi era possibile aprire a costi limitati molti asili e insegnare questo metodo molto semplice a chiunque intendesse impegnarsi nell’insegnamento infantile, in modo da preparare, senza grande spesa e senza necessità di molta istruzione, parecchie maestre, in tempi rapidi.

Bibliografia essenziale: G. LOMBARDO RADICE, Il metodo Agazzi, La Nuova Italia, Firenze 1952 F. CAMBI, La pedagogia borghese nell’Italia moderna, La Nuova Italia, Firenze 1974 D. MARCHI, La scuola e la pedagogia del Risorgimento, Loescher, Torino 1985.

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25 Karl Marx e Friedrich Engels

Nella seconda metà dell’800, se il Positivismo esaltò i valori laici e l’organizzazione sociale ed educativa della classe borghese, con il mito del progresso, la fiducia nella scienza e nella tecnologia, il Socialismo, d’altro canto, espresse la posizione, l’ideologia e i valori della classe antagonista, il proletariato. Il movimento socialista esaltò i valori di solidarietà, uguaglianza, partecipazione popolare al governo, delineando una società “senza classi”. Il socialismo si avviò, già prima del 1848, con le posizioni del socialismo utopico (soprattutto con Fourier in Francia e Owen in Inghilterra), per poi definirsi in modo “scientifico” attraverso l’opera di Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895), autori tra l’altro del Manifesto del Partito Comunista (1847-48), e fondatori del materialismo storico: filosofi, teorici dell’economia e politici allo stesso tempo, elaborarono anche alcune proposte intorno all’istruzione. Fin da subito il socialismo evidenziò, oltre a un nucleo centrale di problematiche politiche, anche interessi pedagogici, esaltando gli ideali di giustizia sociale e di uguaglianza tra gli uomini, con il principio di solidarietà e di libertà all’interno delle classiche istituzioni sociali: la famiglia, la fabbrica, lo

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Stato. Colse in maniera consapevole il legame stretto tra educazione e società, tra pedagogia e politica. La cultura socialista non fece nessun richiamo al Trascendente (a Dio) e cercò l’affermazione di ideali umani in cui le condizioni di vita delle masse popolari non fossero caratterizzate dallo sfruttamento e dall’ignoranza. Per Marx ed Engels la pedagogia doveva essere impostata su una rigorosa base storico-materialista, contro ogni metafisica astratta, ed evidenziare l’importanza delle condizioni economico-sociali in cui l’individuo viveva e maturava per la formazione e il pensiero dell’uomo. Per Marx, l’uomo, attraverso il proprio lavoro e la sua dialettica rivoluzionaria, è attivo e prepara il proprio riscatto. Il lavoro è l’attività propria dell’uomo e dunque va messo al centro anche della formazione individuale. Il lavoro è attività dialettica in quanto capace di mutare, attraverso la lotta di classe da parte degli operai in senso rivoluzionario, le condizioni di alienazione che storicamente contraddistinguono l’uomo. Contro l’individuo unilaterale e specializzato, Marx credette che l’evoluzione economico-politica della società moderna portasse alla formazione di un “uomo nuovo” che avrebbe riunito in sé le attività manuali e intellettuali, in maniera completa e armonica. Marx ed Engels criticarono l’istruzione popolare, rimasta circoscritta alle attività di leggere, scrivere, far di conto e al catechismo religioso. Sottolinearono la dipendenza dell’educazione dalla società, cioè dalla classe dominante che decide chi e come educare. In questo modo l’educazione era vista come uno strumento ideologico che esprime le concezioni della classe al potere, venendo a rimarcare la divisione tra le classi sociali (borghesia e proletariato), con indirizzi scolastici diversificati. Evidenziando le oggettive condizioni di miseria e sfruttamento in cui i fanciulli delle classi povere vivevano (gli studi

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effettuati da Marx si riferivano soprattutto all’Inghilterra), ritennero che l’educazione si dovesse riferire alla realtà socioeconomica e alla lotta di classe che le caratterizzava e che il lavoro, da intendersi come lavoro produttivo, legato alla fabbrica e alla società, dovesse entrare nell’àmbito scolastico. Marx propose che ogni fanciullo, a partire dai nove anni di età, diventasse un operaio produttivo; divise i fanciulli in tre gruppi a seconda dell’età: dai 9 ai 13 anni, dai 13 ai 15, dai 16 ai 17, in cui l’attività lavorativa dovesse essere rispettivamente di due, quattro e sei ore. L’istruzione doveva essere innanzitutto formazione spirituale, poi educazione fisica (ginnastica) e, infine, istruzione politecnica (che unisse, cioè, il lavoro produttivo all’istruzione), che trasmettesse i fondamenti scientifici generali di tutti i processi di produzione e iniziasse il fanciullo all’uso degli strumenti di tutti i mestieri. In sostanza il contributo piú rivoluzionario che Marx ed Engels hanno dato alla pedagogia consiste: 1) nel richiamo la lavoro produttivo (contro le tendenze intellettualistiche e spiritualistiche); 2) nell’affermazione del rapporto dialettico (di scambio) tra educazione e società, per cui ogni tipo di ideale formativo e di pratica educativo risente di valori e interessi ideologici, connessi alla struttura economico-politica della società che li esprime e agli obiettivi pratici che la governano; 3) nel legame tra educazione e politica, secondo cui le strategie educative devono richiamarsi alla praxis, all’azione politica e rivoluzionaria; 4) nella formazione integralmente umana dell’uomo, cioè completa e armonica, non assoggettata, subalterna e alienata. L’interpretazione marxista diede inoltre importanza all’opposizione a ogni forma di spontaneismo e di naturalismo ingenuo per realizzare, attraverso la disciplina educativa, una conforma-

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zione degli individui, tutti uguali fra loro (aspetto che fu privilegiato soprattutto là dove il socialismo reale si affermò, e cioè nella Russia post-rivoluzionaria – in URSS sino alla caduta del regime comunista nel 1989 e la nascita della C.S.I. nel 1991). La cultura marxiana si diffuse in tutta Europa e venne portata avanti da molti studiosi, fra i quali, in Italia, alla fine del XIX secolo Antonio Labriola (1843-1904) e nel XX secolo Antonio Gramsci (1891-1937), che ripensò i principi metodologici del marxismo, realizzando una delle piú ricche e piú alte esperienze pedagogiche del marxismo. La sua esperienza influí notevolmente sulla pedagogia italiana del secondo dopoguerra, guidando la strategia educativa del PCI e ispirando molti pedagogisti italiani di oggi, fra cui Dina Bertoni Jovine, Lucio Lombardo Radice, Mario Alighiero Manacorda. L’educazione marxista Per Marx l’educazione deveva essere intellettuale, fisica e tecnica, e trovare il completamento nel lavoro produttivo, che non è il semplice lavoro manuale, in quanto prevede la pianificazione e la specializzazione dell’attività produttiva. In Russia, all’indomani della Rivoluzione d’ottobre del 1917, si cercò di rifondare l’educazione e la pedagogia in modo non borghese, ispirandosi al materialismo storico e dialettico del marxismo. In questo periodo due erano le correnti pedagogiche maggiormente diffuse in Russia, l’educazione libera e l’educazione scientifica, a cui si aggiunse la pedagogia socialista. a) L’educazione libera si rifaceva a Rousseau e a Tolstoy, e sottolineava l’importanza della spontaneità e della creatività individuale. Per l’enfasi posta sulla libertà poteva rientrare nella costruzione della nuova società sovietica senza stato, formata da individui liberi e uguali. b) La pedagogia scientifica continuava a essere “borghese”,

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perché si fondava sull’idea di natura del soggetto, ma si basava su strutture ritenute “scientifiche”. Questa pretesa scientificità, che implicava una possibilità di controllo, esercitò una notevole presa nella cultura marxista. c) la pedagogia socialista doveva formare il combattente, che liberasse il proletariato e costruisse nuovi valori morali, culturali, economici e politici; deveva ricostruire l’educazione in concordanza con le tesi del materialismo storico e dialettico, unendo lo studio con il lavoro produttivo e offrendo una formazione politecnica. Nel 1918 e nel 1923 si realizzarono due riforme scolastiche. Nella prima si affermò che la scuola doveva essere unica, aperta a tutti, laica e in stretta connessione con il lavoro produttivo, in modo da preparare il futuro comunista lavoratore. Nel ’23 si ammise però che questo processo non poteva realizzarsi in modo spontaneo, ma andava sorretto da un intervento ideologico, che inculcasse i nuovi principi socialisti. L’educazione, quindi, non doveva piú essere libera, bensí doveva essere regolata sulla visione ideologica marxista, che ricollegava e coordinava le relazioni fra gli uomini (Società) e la realtà (Natura), attraverso i rapporti di produzione (Lavoro).

Bibliografia essenziale. Opere di Marx e Engels: Il manifesto del partito comunista, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1995 Letteratura critica: M.A. MANACORDA, Il marxismo e l’educazione, Armando, Roma 1964 A. BROCCOLI, Marxismo e educazione, La Nuova Italia, Firenze 1978 G. BEDESCHI, Introduzione a Marx, Laterza, Roma-Bari 1981 F. CAMBI, Libertà da… L’eredità del marxismo pedagogico, La Nuova Italia, Firenze 1994.

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26 Anton Siemionovic Makarenko

Anton Siemionovic Makarenko (1888-1939) realizzò la propria attività pedagogica nella Russia post-rivoluzionaria, attuandola con ragazzi abbandonati o orfani traviati e a rischio di delinquenza, all’interno di strutture collettive: nel 1920 creò la Colonia “Gorki” (di cui raccontò le attività in Poema pedagogico; pubblicato nel 1933) e dal 1928 andò alla Comune “Derzinski” (esperienza narrata in Bandiere sulle torri, del 1938). Makarenko diede organicità al sistema pedagogico, creando un organico modello educativo che costituisse la teoria su cui si poggiavano tutti gli elementi (scuola unica, laica, politecnica, ecc.) già presenti nella nascente cultura sovietica. Il punto di riferimento privilegiato fu il marxismo e volle rompere con la pedagogia del passato borghese (considerata l’espressione della sovrastruttura di quella società da superare). Riconobbe che la società senza stato era lontana a venire e che la dittatura del proletariato sarebbe durata a lungo, per cui si pose dei fini reali e immediati: formazione del “comunista” e del “lavoratore”. La pedagogia e l’educazione, cosí, si posero al servizio della politica e dello stato (ideologizzazione).

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Makarenko sostenne che l’educazione è il processo della socializzazione, per cui è importantissima, non ha basi psicologiche, biologiche e non deriva da una vaga natura creatrice; è escluso ogni individualismo e intellettualismo. L’educazione deve essere eteronoma, per cui le norme sociali derivano dall’esterno, il singolo deve piegarsi alle superiori esigenze dello Stato, il fine della società deve determinare il fine personale e non viceversa; inoltre essa deve basarsi sulla disciplina, tenendo presente che le leggi imposte dall’alto devono però essere comprese e interiorizzate: in un primo momento sono dettate dall’esterno, e in seguito vengono auto-imposte, facendo coincidere la propria volontà con le esigenze del collettivo. Il collettivo è un organo unitario e totalitario, strumento di tutti i processi che intervengono nella formazione della personalità, al cui interno si organizzano tutte le forme di vita dei soggetti. Il collettivo generale, cioè l’intero istituto, è suddiviso in collettivi di base, o reparti. Ciò che ne risulta è quindi una organizzazione a classi aperte, in modo da evitare la chiusura di un gruppo in se stesso. Sono presenti ragazzi di diverse età, per fare in modo che gli interessi dei componenti non siano focalizzati sulle problematiche tipiche di un periodo della crescita. L’educazione nel collettivo è attuata in modo rigido, secondo una disciplina e un’estetica militaristica, con adozione di uniformi e gradi. Grande importanza è attribuita alla tradizione, ritenuta solida base sulla quale costruire la stabilità e la continuità del collettivo stesso. Il lavoro produttivo è parte integrante dell’attività educativa, composta di alcune ore dedicate allo studio, e altre riservate interamente al lavoro: in questo modo i collettivi si auto-finanziano, preparando una “dote” a disposizione dello studente il quale, una volta uscito dal collettivo, avrebbe potuto meglio inserirsi nella società. Il collettivo realiz-

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za al proprio interno un’autentica forma di auto-governo, con le sue squadre, comandanti, regole, punizioni, valori, in cui sono sottolineati il senso del dovere e dell’onore, e gli individui vengono responsabilizzati singolarmente con incarichi e mansioni lavorative.

Bibliografia essenziale. Opere di Makarenko: Bandiere sulle torri, 2 voll. trad. it. Edizioni di Cultura Sociale, Roma 1955 Poema pedagogico, 3 voll. trad. it. Editori Riuniti, Roma 1975 Letteratura critica: J. BOWEN, Anton S. Makarenko e lo sperimentalismo sovietico, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1973 A. KAMINSKI, La pedagogia sovietica e l’opera di A. Makarenko, trad. it. Armando, Roma 1962.

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27 Attivismo: “scuole nuove” e “scuole attive”

Nel xx secolo, con le grandi trasformazioni che investirono la società e la cultura occidentali, sempre piú indirizzate verso sistemi democratici, libertari e pratici, si assistette a un profondo e radicale rinnovamento delle scuole, dell’istruzione e delle teorie pedagogiche. La scuola si aprí alle masse, diventò sempre piú ideologizzata e si rivolse a tutti. Il fiorire di “scuole nuove” e di “scuole attive” caratterizzò l’educazione fino a tutti gli anni Cinquanta. Caratteristiche peculiari dell’attivismo furono: il porre al centro del processo educativo il bambino, con i suoi bisogni, interessi, le sue capacità; il fare che deve precedere il conoscere, il quale si evolve dal globale al distinto e si misura inizialmente su un piano “operatorio” (secondo le grandi teorizzazioni di Piaget); la concezione di un sapere costruito in un ambiente specifico, non piú fissato rigidamente, codificato e da imparare cosí com’è. Infine, si diede sempre piú valore e importanza alla psicologia del bambino, riconoscendo la radicale diversità della psiche infantile rispetto a quella adulta. Le “scuole nuove” che si diffusero soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, richiamarono l’attenzione sull’infanzia come età pre-morale e pre-intellettuale, nella quale i processi cognitivi si intrecciano strettamente all’operare, alla senso-motricità

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e al dinamismo spontaneo del fanciullo. L’importanza di attività non solo intellettuali, ma anche di manipolazione, che rispettino la natura “globale” del fanciullo, furono affermate, in maniere diverse fra loro, un po’ da tutti i rappresentanti del rinnovamento scolastico novecentesco, e della “scuola attiva” (come venne definita dal ginevrino Pierre Bovet) a partire dai grandi nomi quali John Dewey (1859-1952) negli Stati Uniti, Maria Montessori (1870-1952) in Italia, Ovide Decroly (1871-1932) in Belgio, Édouard Claparède (1873-1940) in Svizzera (direttore all’Istituto Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, dove piú tardi avrebbe lavorato Jean Piaget, fondando il Centro di Epistemologia genetica), fino ai nomi meno noti come Hellen Parkhurst (1887-1973) che fu attiva a New York ispirandosi alle posizioni montessoriane, Carleton W. Washburne (1889-1968) operante vicino a Chicago, Roger Cousinet (1882-1973) in Francia, Célestin Freinet (18961966) che dalla Francia ebbe ampia diffusione in Europa e soprattutto in Italia. Il movimento delle “scuole nuove” fu accompagnato da un intenso lavoro di elaborazione teorica, mettendo in luce i fondamenti filosofici e scientifici che sono alla base della pedagogia. Gli autori – Montessori, Dewey, Decroly, ecc. – elaborano teorie molto diverse fra loro, ma condivisero alcuni aspetti caratteristici del rinnovamento delle “scuole attive” (il cui massimo rappresentante si può considerare Dewey). L’attivismo collegò strettamente la pedagogia alle scienze umane, soprattutto alla psicologia e alla sociologia, e ne indicò anche le implicazioni politiche (in senso democratico) e antropologiche (per formare un uomo piú libero e felice, piú intelligente e creativo). Questo movimento operò una svolta profonda nella pedagogia occidentale, durante i primi cinquant’anni del XX secolo,

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dando vita anche a importanti associazioni mondiali quali la «Lega Internazionale per l’Educazione Nuova», fondata nel 1921 a Calais, o il CEMEA, l’MCE sorto nel 1951, vennero pubblicate nuove riviste, furono organizzati numerosi convegni e congressi. In Italia, l’attivismo trovò ampio sostegno solo nel secondo Dopoguerra, con pedagogisti quali Lamberto Borghi (nato nel 1907), Francesco De Bartolomeis (nato nel 1918), Aldo Visalberghi (nato nel 1919). Verso la fine degli anni Cinquanta, negli Stati Uniti prima e in Europa poi, l’attivismo ricevette aspre critiche e subí una radicale revisione. I suoi teorici furono accusati di aver dato vita a una scuola eccessivamente permissiva da un punto di vista disciplinare, di promuovere una formazione scientifica insoddisfacente per le nuove generazioni e di avere privilegiato troppo la manualità a scapito delle finalità culturali e cognitive, giudicate ora determinanti per la vita di una società in rapida evoluzione e crescita tecnologica, dominata dai computers e dall’informatica, e caratterizzata da una civiltà delle comunicazioni sempre piú rapide ed efficienti. Queste critiche sorsero soprattutto in ambiente cognitivista, e in particolar modo vennero sviluppate da Jerome Bruner. Riassumendo in maniera schematica, i grandi temi dell’attivismo comuni pressoché a tutti gli autori possono essere cosí sintetizzati: 1) il puerocentrismo: il riconoscimento cioè del ruolo essenziale e attivo del bambino in ogni processo educativo; 2) il valore al “fare” nel rapporto educativo, inteso non come fare fine a se stesso, ma come fare per imparare, come strumento didattico per conoscere il mondo, tendendo quindi a dar valore allo svolgimento, a scuola, di attività manuali, al gioco (con l’eccezione di Montessori) e al lavoro;

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3) tenere in grande considerazione le motivazioni e gli interessi dei bambini, spinti cosí a cercare di conoscere e a sviluppare un migliore apprendimento; 4) la centralità dello studio dell’ambiente in cui il bambino vive, ma anche dell’ambiente in cui si svolge il processo educativo, perché proprio dalla realtà che lo circonda il fanciullo riceve stimolo all’apprendimento; 5) l’accento sulla socializzazione, considerata un bisogno primario del bambino che deve essere soddisfatto e incentivato; 6) l’importanza di un atteggiamento anti-autoritaristico, per rinnovare profondamente la tradizione educativa e scolastica che fino ad allora continuava a dare importanza ai fini dell’adulto a scapito delle esigenze del bambino; 7) l’anti-intellettualismo: il non dare importanza cioè solo ai contenuti culturali dei programmi scolastici, ma valorizzare una organizzazione delle conoscenze piú libera da parte del discente, per dotarlo di strumenti utili ad affrontare meglio il mondo anziché di una massa di informazioni frammentarie e disarticolate, imparate in maniera mnemonica.

Bibliografia essenziale: L. BORGHI, Il fondamento dell’educazione attiva, La Nuova Italia, Firenze 1952 A. ATTISANI, Problemi e prospettive di scuola attiva, Armando, Roma 1968.

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28 Maria Montessori

Maria Montessori (1870-1952) studiò all’Università di Roma, dove si laureò in medicina nel 1896. Fu la prima donna in Italia a esercitare la professione medica. Cominciò a lavorare alla clinica psichiatrica di Roma come assistente, operando con bambini anormali. Questa esperienza fu molto rilevante al fine della successiva realizzazione della sua teoria pedagogica, che conterrà innovazioni sull’educazione dei soggetti anormali, quali il fatto che il bambino anormale ha bisogno non solo di cure e assistenza, ma anche di una azione educativa che modifichi complessivamente la sua personalità, riducendo gli insegnamenti ai suoi elementi piú essenziali, piú semplici, e adottando un metodo chiaro, definito e scientifico. Per la preparazione scientifica della Montessori furono molto importanti la lettura e la traduzione delle opere sulla deficienza mentale degli studiosi francesi Itard e Séguin. Il 6 gennaio 1907, nel quartiere San Lorenzo di Roma, uno dei quartieri piú poveri, emarginati e degradati della capitale, Maria Montessori aprí il suo asilo, la “Casa dei bambini”, nel quale dovette affrontare problemi pedagogici e didattici estremamente complessi, che richiesero un risanamento sia civile che sociale, oltre che educativo.

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Il metodo educativo proposto dalla sua “pedagogia scientifica” fu molto innovatore rispetto al passato. Se Fröbel vedeva un bambino ludico, la Montessori intese il suo bambino come laborioso, impegnato nei suoi lavori svolti all’interno della “Casa dei bambini”, in maniera dinamica e attiva; il bambino non deve giocare per puro divertimento, per tenersi impegnato, ma deve essere coinvolto nelle sue attività. Tutto questo non deve far pensare a un metodo duro, impositivo, coercitivo, dogmatico; al contrario, si debbono rispettare bisogni e interessi del soggetto da educare, che è laborioso perché segue la sua natura; il bambino si impegna spontaneamente, perché si diverte, perché ogni cosa è una nuova scoperta su cui concentrarsi ed esercitarsi; quel bambino tutto frivolezze e pianti che molti conoscono è il prodotto dei genitori che lo viziano, lo tengono sempre sotto il loro controllo, risolvendogli tutti i problemi, anche i piú piccoli e insignificanti. Il metodo della Montessori ebbe poca diffusione in Italia negli anni in cui operò la pedagogista, perché richiedeva uno sforzo finanziario molto alto e insostenibile a causa della grave situazione economica in cui versava l’Italia all’inizio del Novecento: fu necessario costruire gli asili che richiesero strutture particolari, fornire il materiale didattico, formare gli insegnanti. Si preferí quindi adottare il metodo Agazzi, molto meno impegnativo e piú economico. Inoltre, la Montessori fu perseguitata dal fascismo, dopo gli anni ’20 e costretta a riparare all’estero. Viaggiò in tutto il mondo, realizzando numerose esperienze pedagogiche, fra le quali importanti furono quelle in India. Soggiornò a lungo in Olanda, dove morí. Solo nel secondo dopoguerra il metodo e gli asili in stile Montessori si diffusero anche in Italia. Le sue opere principali sono: Il metodo della pedagogia scientifica applicata all’educazione infantile nelle Case dei

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bambini (1909), ristampato poi con il titolo La scoperta del bambino (1948); L’autoeducazione nelle scuole elementari (1916); Manuale di pedagogia scientifica (1930); Il segreto dell’infanzia (1938); La mente del bambino (Mente assorbente) (1952). Maria Montessori utilizzò la psicologia, la psichiatria, la medicina, la biologia e l’antropologia culturale, allo scopo di fornire un fondamento quanto piú possibile scientifico alla sua teoria pedagogica. Il suo metodo didattico-educativo, proposto nella Casa del bambino fin dal 1907, prevedeva un utilizzo progressivo e graduale di materiale elementare prestrutturato, attraverso il quale il bambino inizia a compiere varie attività, come inserire figure geometriche negli spazi appositi di uguale forma, lettere con le quali comporre le prime parole, esercizi di manualità, materiale per imparare a contare, per i colori, le figure, le dimensioni, per la musica e i suoni, e altro ancora. Il metodo scientifico della Montessori, per quanto conservasse un debito nei confronti della pedagogia positivista, si oppose però allo “scientismo”, all’ambientalismo e al “sociologismo” da essa propugnato. Montessori sostenne la necessità di stimolare l’attività e il rapporto col bambino partendo dai suoi bisogni e interessi, e ciò implica, contro l’empirismo e il Positivismo, che il bambino possieda caratteristiche sue peculiari già alla nascita. Inoltre, il bambino deve sentirsi libero, e imparare a divenire autonomo; non bisogna abituarlo alla passività, ma dargli il materiale strutturato in base ai suoi bisogni e alle sue capacità, lasciarlo scegliere, operare e impegnarsi liberamente. L’educatrice di Chiaravalle fu estremamente critica nei confronti delle famiglie che rovinano i bambini facendoli solo giocare, imponendo costantemente la presenza dell’adulto per

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risolvere loro ogni problema, anche solo per prendere un oggetto o aprire una porta, controllandoli sempre e offrendo troppe cose già “fatte”, rendendo i bambini dipendenti, passivi, invece che attivi, liberi e autonomi. Per raggiungere l’autosufficienza, il fanciullo deve imparare da solo a fare ciò che è potenzialmente in grado di fare: deve cioè autoeducarsi, e raggiungere cosí l’autonomia. Pertanto bisogna partire da zero con l’educazione: costruire un nuovo tipo di asilo e utilizzare un nuovo metodo, assieme a nuovo materiale didattico strutturato. Tutto dovrà essere a misura di bambino, vale a dire in miniatura, piccolo e basso, in modo che egli sia in grado di fare tutto da solo: aprire le porte, accendere gli interruttori, prendere e rimettere in ordine gli oggetti dagli scaffali, andare in bagno da solo e altro ancora. Tutto è a sua disposizione, ferme restando la sicurezza e la continua supervisione e attenzione degli insegnanti. Senza dipendere dall’adulto, il bambino lavorerà impegnato, con piacere e rendimento. Il gioco è previsto dalla Montessori, ma non come attività fine a se stessa; deve invece intendersi come momento della formazione della personalità del fanciullo, fondamentale per sviluppare la creatività. Bisogna invece criticare molto severamente il gioco fine a se stesso e l’utilizzo di giocattoli per “distrarre” o “tenere impegnato” il bambino. L’ambiente proporzionato, creato nell’asilo “Montessori”, assolse anche un altro compito: quello di educare al bello, inteso come un’estetica ordinata. La vita scolastica, inoltre, è anche vita di gruppo, perciò è bene che i bambini si organizzino tra loro, formino dei gruppi, lavorino in coppia e vengano rispettati dagli adulti, che dovranno cercare di non interferire nei gruppi e non aiutare i fanciulli, ma lasciare che facciano da soli; il cómpito del maestro, quindi, sarà quello di essere una buona guida. Il maestro deve avere

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una grande preparazione scientifica, psicologica e un’enorme capacità di osservare e scoprire il bambino nel suo mondo naturale, con la sua spontaneità, per cogliere i bisogni, gli interessi, i problemi, le caratteristiche e le peculiarità di ciascuno. Il maestro, però, deve essere anche umile, deve saper tollerare, rispettare senza intromettersi, dare gli strumenti didattici adeguati all’età e appropriati alle esigenze, allo sviluppo, ai bisogni e agli interessi. A proposito dell’uso del materiale didattico, questo non va consegnato tutto insieme, perché ciò creerebbe confusione e disorientamento nel fanciullo, che rischierebbe di non concludere nulla; nemmeno cambiare troppo spesso il materiale è indicato, quando il bambino lo sta ancora utilizzando con interesse, perché bisogna lasciargli il tempo di esercitarsi e acquisire ciò che lo coinvolge, ma si deve al contempo evitare di annoiarlo troppo a lungo con un unico cómpito, o con un materiale strutturato non piú adeguato alla sua età, quando egli è in grado di risolvere attività piú complesse. Una delle critiche rivolte al metodo ideato dalla Montessori è la sua eccessiva rigidità: tutto è programmato, e non c’è spazio per l’immaginazione, la creatività, la fantasia, che secondo l’educatrice servono solo a rendere il bambino viziato. La scelta della Montessori, però, nacque da una importante scoperta: ella rimase colpita dal fatto che il fanciullo non è tutto assorbito dal gioco, dall’immaginazione, ma è concentrato totalmente, senza distrarsi, nelle sue attività; ripete i suoi esercizi molte volte senza stancarsi, perché sta imparando, è curioso e se vive in un ambiente adatto, quando è libero è anche calmo, disciplinato, organizzato e tranquillo: questo è il segreto dell’infanzia scoperto dalla Montessori.

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Come si è già detto, il primo momento indispensabile del lavoro nella scuola è l’osservazione del bambino; ciò presuppone, quindi, una buona padronanza della psicologia dell’infanzia, perché la mente del bambino ha una sua specificità, è diversa da quella dell’adulto; inoltre, ogni bambino presenta alcune caratteristiche peculiari e irripetibili, che lo rendono unico; ogni bambino è – come scrsse la Montessori – un embrione spirituale, cioè è portatore di una energia vitale interna, psichica, una potenza che si sviluppa nel rapporto con gli altri e con se stesso; perciò ogni individuo ha il diritto di essere libero, di essere se stesso con la propria inconfondibile originalità, e va rispettato per ciò che è. L’embrione spirituale è il punto di partenza dello sviluppo psichico dell’energia vitale che si realizzerà poi nel rapporto con l’ambiente. Nello sviluppo dell’embrione, la mente del bambino potrà acquisire conoscenze, imparare, crescere, apprendere, incarnare, mettere dentro di sé le nozioni e le conoscenze. Le informazioni che l’ambiente offre al bambino non sono organizzate e strutturate; si presentano piuttosto come delle nebule (nebule del linguaggio, nebule dei costumi, delle abitudini, dei numeri, dei colori, ecc.), delle spinte nebulose, degli ammassi di stimoli confusi da cui la mente assorbe i contenuti e le conoscenze indispensabili alla propria crescita; gli stimoli che giungono in maniera vaga, disordinata, caotica, vengono selezionati in maniera inconscia, per mezzo della mente assorbente (tendenza di tutti ad assorbire inconsapevolmente i dati che si incontrano nell’ambiente, selezionando e imparando in maniera non volontaria e cosciente); la nostra mente, cioè, assorbe senza rendersene conto dall’ambiente certe informazioni invece di altre, ordinando il caos nebuloso dei dati dell’esterno; seleziona gli aspetti piú rilevanti e importanti e le regole che servono per operare. Lo sviluppo dell’embrione spirituale e l’apprendimento inconscio tramite la mente assorbente avviene

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in tempi differenti e in momenti privilegiati, i periodi sensitivi, quando il bambino è piú adatto e pronto ad apprendere certe informazioni e conoscenze; lo sviluppo perciò sarà sempre diverso da individuo a individuo, anche se i tempi sono vicini, e l’iter scolastico non potrà mai essere identico per i diversi soggetti. In questo modo ciascuno sceglie dal mondo esterno e segue uno sviluppo individuale, realizzando l’energia creativa che possiede, e crea la propria personalità, impossessandosi di tutte le conoscenze, del linguaggio, dei costumi, dei comportamenti, diventando una persona autonoma, libera, adeguata ad agire e interagire, a rispondere alle richieste del tempo, del mondo, della società, dell’ambiente circostante.

Bibliografia essenziale. Opere di Montessori: L’educazione alla libertà, Laterza, Roma-Bari 1950 Dall’infanzia all’adolescenza, Garzanti, Milano 1970 La scoperta del bambino, Garzanti, Milano 1991 L’autoeducazione, Garzanti, Milano 1992 La mente del bambino, Garzanti, Milano 1992 Il segreto dell’infanzia, Garzanti, Milano 1992 Letteratura critica: F. DE BARTOLOMEIS, Maria Montessori e la pedagogia scientifica, La Nuova Italia, Firenze 1953 A. SCOCCHERA, Maria Montessori. Quasi un ritratto inedito, La Nuova Italia, Firenze 1990.

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29 John Dewey

John Dewey (1859-1952), filosofo e pedagogista statunitense, attento alla vita, alla cultura e alla scienza del Novecento, nella sua lunga vita partecipò in maniera consapevole alle grandi trasformazioni che la società occidentale ha subito tra il XIX e il XX secolo. Egli risentí delle influenze culturali di Morris e del Pragmatismo di Charles Pierce e William James. Il Pragmatismo fu quella filosofia, maturata alla fine dell’800, che considera come verità ciò che è azione pratica e concreta utile all’affermarsi dell’uomo nella società. Questa corrente di pensiero diede vita, per opera di James e Granville Stanley Hall – primo psicologo che si occupò dei problemi evolutivi – alla psicologia funzionalista; assieme al Funzionalismo e alla Scuola Progressiva di Dewey, fu la piú chiara espressione della tipica mentalità americana, migliorista, ottimista, pragmatica, di chi vuole affermarsi rapidamente e in maniera attiva, trasformando il mondo e la natura alle proprie esigenze, e di chi deve risolvere in breve tempo i problemi di adattamento e convivenza con un mondo fino ad allora impervio e selvaggio. Al fondo della visione pragmatista ci furono l’affermazione dei diritti naturali originari e indipendenti dal vivere sociale, la fiducia nelle capacità dell’individuo, l’avversione per ogni

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forma di violenza e oppressione, secondo una linea politica democratica, l’ottimismo per lo sviluppo tipico degli Stati Uniti che, da una forma di economia prevalentemente agricola, stavano passando a una produzione industriale che li portarono a essere, nel giro di pochi decenni, la prima potenza mondiale. Nel modo di pensare americano rimasero però presenti i valori delle originali condizioni pionieristiche di vita: il lavoro, l’abilità e il talento individuali, lo spirito d’iniziativa e, soprattutto, l’adattabilità personale. La società in cui visse Dewey (e in cui viviamo anche oggi) è in rapidissima trasformazione e necessita di efficienza e di attività: è una civiltà interessata alle abilità e alle competenze concrete. La società americana di fine Ottocento, inizi Novecento era profondamente ottimista, credeva in un miglioramento e in un progresso continui e Dewey si fece partecipe e portavoce in pedagogia di questa tendenza, che rimase profondamente delusa (e Dewey subí forti attacchi e ricevette aspre critiche) quando l’economia su cui questo mondo basava la propria certezza cadde miseramente con il crollo della borsa di Wall Street nel 1929, portando la società americana ed europea a livelli di miseria, disoccupazione e povertà che non si sarebbe mai piú creduto di rivedere. Dewey si occupò di pedagogia in maniera sia teorica sia concreta, aprendo una scuola elementare annessa all’Università di Chicago (dove insegnò fino al 1905, per poi trasferirsi a quella di New York); viaggiò molto e pubblicò parecchie opere, di filosofia, psicologia e pedagogia, tra cui, per l’educazione, le piú importanti sono: Il mio credo pedagogico (1897); Scuola e società (1899); Come pensiamo (1910); Democrazia ed educazione (1916); Esperienza e natura (1925); Le fonti di una scienza dell’educazione (1929); La ricerca della certezza (1929); Esperienza ed educazione (1938); Logica. Teoria dell’indagine (1938); Libertà e cultura (1938).

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Dewey sostenne che la pedagogia è una scienza autonoma che utilizza i risultati delle altre scienze. Spostò l’interesse dell’educazione sulla totalità della natura biofisica, psichica e sociale del bambino, con i suoi bisogni, interessi, processi logici e psichici, le sue conoscenze, la sua affettività, le sue reali esperienze. La nozione di esperienza fu posta al centro della sua pedagogia. Nell’empirismo inglese del XVII-XVIII secolo, la nozione di esperienza implicava il fatto che l’individuo fosse passivo, una “tabula rasa” che nel contatto con l’ambiente registra e fissa le impressioni ricevute dall’esterno traducendole in idee e giudizi. In Dewey la nozione di esperienza si allargò, fino a concepire un io attivo che opera e trasforma il mondo, l’ambiente esterno e la società per meglio adattarsi ad essi; l’esperienza è la totalità della realtà che include tutti gli aspetti della realtà, in una continuità indissolubile fra fisico, biologico, psichico, coscienziale e mentale. Il rapporto uomo-ambiente si configura come un rapporto problematico fra individuo e mondo esterno, in cui l’uomo cerca di intervenire sulle cose, le quali oppongono resistenza, allo scopo di modificarle a proprio vantaggio; l’esperienza è un adattarsi agendo, un modificare l’ambiente per adattarsi meglio. Esperienza è vivere e agire, fare (mai però un fare fine a se stesso) guidato dal pensiero, al fine di superare gli ostacoli, ricostruire le situazioni, senza nessuna garanzia di verità e certezza. Anche la scuola è coinvolta in questa continuità; l’educazione, per Dewey, è un processo continuo che inizia dalla nascita e continua nella costante assimilazione di conoscenze attive nel rapporto con l’ambiente; la scuola deve essere continuità con la vita reale nella società, per preparare i bambini a fronteggiare le questioni reali della vita futura. Tutta l’attività dell’insegnamento consiste quindi nel dare agli allievi gli strumenti (“strumentalismo”) per padroneggiare,

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interpretare e modificare la realtà, in modo da adattarsi attivamente ai mutamenti sociali ed economici del mondo contemporaneo, al fine di realizzare una pacifica convivenza in democrazia. Il processo educativo che porta alla democrazia è possibile solo tramite una comunicazione continua, tanto per chi trasmette quanto per chi riceve; «l’educazione non è un’istruzione formalistica: è un processo di nutrizione, di allevamento, di coltivazione, è crescita, perché come la vita, anche l’educazione è sviluppo; come la vita non ha altro fine che vivere, cosí la crescita mira soltanto a una crescita ulteriore». È importante che l’insegnante conosca gli interessi dei bambini per porli in un rapporto attivo con l’ambiente, perciò i docenti debbono essere preparati, oltre che nelle loro discipline, anche in altre scienze, in filosofia, in biologia, sociologia, psicologia. L’educazione deve essere una pratica continua che guida l’azione al miglioramento della società e deve incentrarsi su forme di attività pratica, utili per la cultura e la società. Il pensiero è sempre legato all’azione, è lo strumento che guida la conquista attiva dell’ambiente. È importante osservare i dati a disposizione, far osservare il bambino, per poi sperimentare le ipotesi poste. La ricerca e la conoscenza, sia all’interno della scuola che a livello scientifico debbono essere sempre aperte alla novità e mai porsi come risultato ultimo e definitivo. La scienza deve avere grande onestà intellettuale e apertura mentale, cogliendo la profonda connessione fra individuo e società, e deve sempre essere consapevole di essere ricerca continua. Per questa ragione pertanto Dewey fu estremamente critico nei confronti del Positivismo, e della pretesa infallibilità della scienza. Anche la pedagogia e il lavoro didattico devono essere scientifici in questi termini, cioè aperti alla novità, al cambiamento e alla loro possibile falsificazione. Pertanto l’educazione non consiste nell’applicazione pura e semplice delle indicazio-

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ni offerte dalle scienze e di regole pedagogiche rigide e sempre uguali e valide tali e quali; al contrario, l’educazione si fonda sempre sull’esperienza reale e concreta. La pedagogia si basa sulla psicologia e sulla sociologia; infatti nel processo educativo ci sono due aspetti, uno psicologico e uno sociale, e nessuno dei due deve essere subordinato all’altro o trascurato senza che ne conseguano sterili risultati. L’impegno per una autentica “scuola progressiva” non è una semplice questione di pedagogia, ma una questione civile, politica e culturale, perché il futuro è legato al diffondersi dell’atteggiamento scientifico. Il processo didattico non può, perciò, isolarsi dalla società, non deve chiudersi nello stretto rapporto maestro-alunno, bensí deve allargarsi dall’individuale al sociale, e portare dentro di sé la società intera, con i suoi compiti e le sue regole. È importante, quindi, che la scuola insegni anche pratiche le quali abbiano una effettiva utilità nella realtà sociale (il giardinaggio, la cucina, il laboratorio artigianale, ecc.). Anche l’educazione morale avviene nella scuola come modo di vita sociale. Dewey fu critico nei confronti della vecchia scuola e dei vecchi programmi, perché si deve pensare alla crescita del fanciullo e distinguere i vari periodi della crescita in modo che a certi interessi corrispondano certi atteggiamenti didattici. Per esempio, in un primo periodo della vita del bambino, che va dai 4 agli 8 anni domina l’immediatezza degli interessi personali e sociali i quali lo spingono a muoversi per esprimersi, collegando idee e azioni, pertanto la scuola dovrebbe unire l’apprendimento all’azione, quindi si dovrebbe insegnare sempre attraverso l’operare e l’agire concreti; mentre in un secondo periodo, dagli 8-9 ai 10-11 anni, il fanciullo cerca risultati permanenti per la sua azione, i quali richiedono possesso di tecniche, e assumono cosí grande significato il leggere, lo scrivere, il far di conto.

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Dewey rifiutò ogni autorità esterna nella scuola, ma ciò non significa rifiutare ogni autorità in assoluto, perché rimuovere la costrizione esterna non è sufficiente per far nascere l’autodisciplina negli allievi. Non si deve quindi abolire il maestro il quale – certo – non deve essere un rigido dittatore del gruppo, ma dovrà comunque essere presente come direttore di attività associate. L’insegnante deve essere il leader, la guida che realizzi l’unità e la continuità del rapporto fra educazione ed esperienza, fra soggetto e oggetto, fra scuola e società. Continuità significa che ogni esperienza riceve qualcosa dalle esperienze precedenti e influenzerà quelle future. Dewey, soprattutto nell’opera Ligica. Teoria dell’indagine, distinse il pensiero «che capita si abbia», cioè quel pensiero che sorge involontariamente, dal pensiero «riflessivo», che invece segue una consequenzialità del ragionamento. La scuola ha anche il compito di educare a pensare, cioè fare in modo che il fanciullo trasformi il pensiero “che ha” in pensiero riflessivo e, per fare questo, è utile impegnarlo in occupazioni attive, che suscitino l’interesse e lo coinvolgano, che lo stimolino a progettare, a creare e a realizzare sempre nuove esperienze; inoltre è importante che al progetto di lavoro vengano dedicati lo spazio e il tempo occorrenti per la sua realizzazione. Tutto ciò, unito alla necessità di osservare attentamente il bambino e di educarlo a osservare la realtà, implica una grande preparazione professionale degli insegnanti, i quali devono conoscere profondamente le menti degli allievi e interpretare correttamente e prontamente ciò che essi dicono e fanno. Scuola e pedagogia progressiva, per Dewey, significarono pratica di un’esperienza educativa caratterizzata dall’apertura e dalla continuità, da configurarsi nei termini dello sperimentalismo pedagogico. La scuola divenne sede di ricerca metodologica, che mira a svilupparsi e progredire, in un processo aperto.

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Al contrario dei pedagogisti neo-idealisti italiani, che negarono il metodo in nome della creatività dello spirito, Dewey sostenne che un metodo deve essere utilizzato; non però in maniera dogmatica, ma in base all’esperienza, scegliendo quello piú efficace e didatticamente produttivo e, comunque, aperto alla novità e alle modifiche. In Italia la pedagogia di Dewey fu a lungo ostacolata, sia dall’educazione di stampo cattolico, perché la pedagogia dello statunitense era laica, sia dal versante marxista, perché espressione della cultura borghese americana.

Bibliografia essenziale. Opere di Dewey: Scuola e società, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1949 Il mio credo pedagogico, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1954 Democrazia e educazione, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1961 Esperienza e educazione, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1984 Letteratura critica: L. BORGHI, John Dewey e il pensiero pedagogico contemporaneo negli Stati Uniti, La Nuova Italia, Firenze 1951 A. GRANESE, Introduzione a Dewey, Laterza, Roma-Bari 1973.

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30 Ovide Decroly

Ovide Decroly (1871-1932), nacque a Renaix, in Belgio. Fu educato dal padre nell’ampio giardino di casa con la possibilità di osservare e di curare piante e animali, e con un laboratorio a sua disposizione per giocare e lavorare assieme ai fratelli. Durante la scuola superiore si scontrò con un insegnamento distaccato dalla realtà e dall’esperienza, tutto fondato sui libri, tanto da essere cacciato da scuola. Decroly, si laureò in medicina nel 1898, si occupò dapprima della rieducazione dei bambini anormali, fondando, nel 1901, con l’aiuto della moglie, nella sua casa di Bruxelles, l’Istituto di Insegnamento Speciale per Ritardati e Anormali. Sempre alla ricerca di una scuola nuova e da rinnovare, elaborò una teoria educativa estremamente scientifica e aggiornata con i piú recenti studi psicologici, riconoscendo l’indispensabile apporto della psicologia sperimentale e della psicologia dell’età evolutiva alla pedagogia, in rapporto con i test di Alfred Binet e l’istituto psicopedagogico ginevrino di Edouard Claparède. Nel 1904 venne nominato ispettore delle classi d’insegnamento speciale di Bruxelles. Nel 1905 fondò la Società di pedotecnia, all’interno della quale tenne corsi, lezioni e conferenze per diffondere le sue esperienze. Si accorse che per eliminare le cause

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dell’anormalità e del disadattamento era necessario trasformare il tradizionale sistema scolastico. Nel 1907 fondò a Ixelles la Scuola dell’Eremo, dove applicò a bambini “normali” i metodi e i materiali sperimentati con quelli “anormali”. Nel 1920 venne nominato professore di Psicologia e poi di Igiene educativa all’Università di Bruxelles, città in cui morí all’età di 61 anni. Le sue opere piú importanti sono: Una scuola per la vita attraverso la vita (1908, 1921); Nozioni generali sull’evoluzione affettiva del fanciullo (1927); Verso la scuola rinnovata: una prima tappa (1921, 1927): La funzione di globalizzazione e l’insegnamento (1912, 1929). Nell’opera Verso la scuola rinnovata: una prima tappa (1921, 1927), Decroly avanzò la proposta di un programma basato sui centri d’interesse, che sostituisse a una programmazione centrata sui contenuti disciplinari una pianificazione di attività formative basate sugli aspetti e sui problemi dell’esperienza del bambino, cosí come emergono a partire dai suoi bisogni e conseguenti interessi. Per quanto riguarda gli interessi, questi concernono l’uomo in riferimento all’universo, ai suoi simili, ai minerali, ai vegetali, agli animali, al suo organismo. Nello scritto La funzione di globalizzazione e l’insegnamento (1912, 1929), in sintonia con le scoperte contemporanee di psicologia della forma (gestalt), sostenne che il punto di partenza per l’apprendimento di qualsiasi contenuto, comprese la scrittura e la lettura, dovesse essere la visione sincretica (con-fusione), globale del bambino, all’interno della quale tutto è indifferenziato; questa visione sincretica produce una totalità già organizzata della percezione (gestalten) nella coscienza, e non percezioni frammentate e sommate. All’inizio della percezione del bambino, quindi, la funzione di globalizzazione assume un ruolo di fondamentale importanza.

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È dal debito nei confronti della cultura positivista del secondo Ottocento, specialmente di Spencer con l’opera del 1896, Educazione intellettuale morale e fisica, che Decroly dedusse l’importanza educativa dei bisogni (prima di tutto biologici: nutrirsi, difendersi, agire, migliorarsi) e degli interessi nel corso dell’evoluzione, sia filogenetica, cioè riferita alla specie, che ontogenetica, vale a dire dell’individuo. Per realizzare un’educazione scientifica, secondo il Positivismo di Spencer, si doveva porre al centro dell’attenzione il soggetto, rispettando i suoi ritmi di sviluppo psicologico e disponendo di conseguenza le materie da insegnare in un ordine cronologico e gerarchico, che è il medesimo sviluppo ripercorso durante l’evoluzione culturale e sociale dell’umanità. Importanti furono anche gli influssi ricevuti dalla psicopedagogia dello statunitense Granville Stanley Hall, secondo cui il metodo della ricerca sperimentale va ricavato induttivamente dalla psicologia, cioè dall’osservazione diretta del bambino in laboratorio, perché solo cosí si può costruire una pedagogia scientifica, e ricavare un metodo educativo rigorosamente controllato. Ancora, importanti furono i contributi di Cattel e di Binet e Simon per l’uso dei tests mentali in psicologia e pedagogia, trasferendo la ricerca sperimentale dal laboratorio alla scuola. Decroly sostenne che la vita è un processo di adattamento all’ambiente e costituisce il principio dinamico (l’energia) che attraversa l’intero universo, basandosi sui bisogni e sugli interessi originari ed essenziali di conservazione dell’individuo e della specie. Decroly intense proporre una metodologia rinnovata e un piano di studi nuovo, che tengano conto dei bisogni naturali degli individui nel rapporto con l’ambiente. Sentí dunque il bisogno di rinnovare profondamente la scuola per renderla piú aderente alla vita; perciò Decroly programmò le attività

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educative facendole convergere intorno a diverse unità, i centri di interesse, adeguandosi ai livelli e alle caratteristiche dei singoli soggetti (individualizzazione). Le singole unità devono integrarsi e congiungersi fra loro per formare un tutt’uno indivisibile nel quale ogni argomento sia collegato e converga verso un’idea centrale presente in ogni lezione, affinché ciascun individuo possa trarre il massimo profitto dall’insegnamento ricevuto. È importante infondere in ognuno il desiderio di conoscere, e offrire agli allievi gli strumenti necessari per apprendere e realizzare un adattamento rapido, facile e sicuro. Per fare ciò è indispensabile quindi studiare la vita individuale e l’ambiente. Decroly affermò che molti ragazzi sono delusi dalla scuola e ottengono scarsi risultati perché sono abituati a distrarsi, sono disinteressati e arrivano a essere disgustati dallo studio che svolgono con pigrizia, avversione, ribellione, scoraggiamento. Centrando l’attenzione sui loro bisogni e interessi (prima biologici, poi psicologici e sociali), essi verranno coinvolti, parteciperanno, in stretto contatto con l’ambiente, compiendo esperienze reali e significative. Bisogna perciò fissare dei centri di interesse che siano prima spontanei, occasionali, poi centrati sui bisogni, dopodiché si dovranno raccordare questi bisogni con tutte le possibili esperienze attive e coinvolgenti che l’ambiente offre (l’ambiente vicino, costituito dall’ambiente naturale: mondo inorganico, vegetale, animale; dall’ambiente sociale: famiglia, scuola, società; e l’ambiente lontano, nello spazio e nel tempo), con attività percettivo-conoscitive ed espressive (concrete, come il disegno e il lavoro; o astratte, in forma scritta e orale): è questo il programma delle idee associate. Si debbono attivare le tre funzioni psicologiche fondamentali, il cosiddetto trittico: osservazione (impressioni, percezioni, misurazioni, controlli); associazione (generalizzazioni, confronti, giudizi) ed espressione (rappresentazioni, costruzioni,

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riflessioni, sintesi, valutazioni), in un processo circolare, nel quale i tre momenti si completano. Tornando alla funzione di globalizzazione, secondo Decroly il bambino fin dalla nascita ha percezioni ed espressioni che non sono analitiche, riferite ad aspetti o parti isolate, ma a un tutto, a una unità: la percezione è globale, sincretica, riferita a una forma totale, unitaria, una totalità nel suo insieme. La funzione di globalizzazione è una struttura mentale, un modo di funzionamento dell’attività psichica infantile che riguarda la percezione e l’espressione. Successivamente il bambino passerà dalla fase sincretica a quella analitico-sintetica e anche il gioco può essere utilizzato, come esercizio quotidiano, per permettere questo passaggio, per giungere cioè dalla fase di globalizzazione a quella di analisi e sintesi. Decroly propone l’uso di materiali per favorire la mobilitazione delle energie e delle competenze creative del ragazzo. Con il suo lavoro su bambini anormali, con disturbi mentali, con deficit fisici e mentali, Decroly dimostrò che è falso che essi siano incurabili e irrecuperabili, che non c’è una pedagogia diversa per bambini diversi (fu contro la pedagogia speciale), che l’educazione è un fenomeno unico, che va adattato ai singoli casi, esigenze e situazioni, ma non va divisa settorialmente. Quindi i bambini anormali vanno educati affinché si formino le loro personalità, curandone tutte le componenti: fisica, motoria, percettiva, intellettuale, affettiva, sociale, etico-professionale.

Bibliografia essenziale. Opere di Decroly: Una scuola per la vita attraverso la vita, trad. it. Loescher, Torino 1973 Verso la scuola rinnovata, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1973 La funzione di globalizzazione e l’insegnamento, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1974

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Letteratura critica: F. DE BARTOLOMEIS, Ovide Decroly, Verso la scuola rinnovata, La Nuova Italia, Firenze 1953

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31 Édouard Claparède

Édouard Claparède (1873-1940) nacque a Ginevra. Dopo gli studi scientifico-medici e di psicologia, nel 1912 fondò a Ginevra il centro “Jean-Jacques Rousseau”, specializzato nelle ricerche sull’età evolutiva, il centro presso cui, nel 1921, andrà a lavorare anche il giovane Jean Piaget, e in cui operarono anche Pierre Bovet (1878-1944), Adolphe Ferrière (1879-1960) e Henri Wallon (1879-1962). Lo spirito di questa scuola di “scienze dell’educazione” è espresso dal motto “Discat a puero magister” – utilizzato da Claparède stesso nella sua autobiografia – il quale esprime la necessità di conoscere i bambini prima di istruirli ed educarli. Dal 1915 insegnò psicologia sperimentale all’Università di Ginevra, concentrandosi sulle applicazioni pedagogiche della psicologia. Le sue opere più importanti sono: Psicologia del fanciullo e pedagogia sperimentale, del 1905, edizione definitiva in 2 volumi: Lo sviluppo mentale e I metodi, del 1946-47; La scuola su misura, del 1920; L’educazione funzionale, del 1931; La genesi dell’ipotesi, del 1934. In teoria dell’apprendimento, in contrasto con la teoria asociazionista, Claparède riprese i presupposti della tradizione funzionalista, vedendo una stretta relazione dinamica fra il com-

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portamento dell’individuo, i suoi processi psichici e l’ambiente cui deve adattarsi attivamente. In altre parole, ogni singolo fenomeno psichico non può essere considerato isolato, ma va visto in rapporto al soddisfacimento di un bisogno di adattamento e alla totalità del comportamento. Il concetto di “educazione funzionale”, e quello di “scuola su misura” (in cui i metodi didattici vanno adeguati allo sviluppo e alle attitudini del bambino), costituiscono i perni attorno ai quali ruota tutta la sua teoria globale dell’educazione. Al centro della sua teoria – come di ogni teoria funzionalista e/o attivista – c’è il concetto di bisogno. L’organismo è un sistema in equilibrio che di continuo viene rotto in funzione dell’evoluzione. La rottura dell’equilibrio provoca un nuovo bisogno che ricerca il proprio soddisfacimento. I bisogni, quindi, sono alla base delle condotte, dell’evoluzione e dell’equilibrio sempre ricercato. Per questa ragione bisogna rivedere tutti i programmi di studio e i metodi d’insegnamento tradizionali che non tengono conto delle motivazioni, dei bisogni e della partecipazione degli allievi. Per queste ragioni la scuola nuova deve essere “su misura” del fanciullo, rispettandone la natura, i bisogni e i processi individuali di sviluppo e di apprendimento: è il principio nuovo e fondamentale dell’individualizzazione dell’insegnamento. La scuola deve offrire diverse attività tra cui il bambino possa scegliere liberamente. Il bambino sceglie sulla base dei propri bisogni che hanno messo in atto i processi mentali funzionali al loro soddisfacimento. Questo processo è chiamato da Claperède appunto “educazione funzionale”. Il modello di scuola nuova alternativa a quella tradizionale deve rispettare le leggi del bisogno e dell’interesse che sostengono la condotta umana. La legge del bisogno afferma che “ogni bisogno tende a provocare le reazioni adatte a soddisfarlo” e, di conseguenza, “l’attività è sempre suscitata da un biso-

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gno”. La legge dell’interesse riguarda lo sviluppo mentale inteso come “proporzionale allo scarto esistente tra i bisogni e i mezzi per soddisfarli”: indica il legame tra il bisogno e i mezzo che lo soddisfa, per cui ogni condotta umana mira a ottenere un risultato che serve ed è, pertanto, sempre sorretta da un interesse. Di conseguenza, la legge dell’autonomia funzionale sostiene che ogni individuo è un’unità funzionale in quanto agisce e reagisce in rapporto ai suoi bisogni di organismo autonomo. Ogni individuo è un organismo complesso che ha sviluppato i diversi processi psichici per rispondere e adattarsi all’ambiente, risolvendo i problemi fisici e sociali. Da un punto di vista funzionale – nell’opera L’educazione funzionale, del 1931 – Claparède elaborò sei “leggi” che sono alla base di ogni attività educativa: 1. Legge della successione genetica: “Il fanciullo si sviluppa naturalmente passando attraverso fasi determinate, che si succedono in ordine costante. […] L’educazione deve conformarsi al procedere dell’evoluzione mentale.” Il bambino, in altre parole, si sviluppa in maniera costante, secondo delle tappe ordinate che ripetono lo sviluppo della specie. 2. Legge di esercizio funzionale: “L’esercizio di una funzione è condizione del suo sviluppo.” Ogni funzione, cioè, viene sviluppata sulla base del suo esercizio. 3. Legge di esercizio genetico: “L’esercizio di una funzione è la condizione per la quale determinate funzioni ulteriori possono manifestarsi.” È la conseguenza diretta della precedente legge, per cui l’esercizio di una funzione è la premessa del sorgere, manifestarsi ed esercitarsi delle funzioni successive. 4. Legge di adattamento funzionale: “L’azione si manifesta quando per sua natura è atta a soddisfare il bisogno o l’interesse del momento. Se si vuol far agire un individuo bisogna porlo nelle condizioni atte a far nascere il bisogno che l’azione che si desidera di suscitare ha la funzione di soddisfare.” In sintesi, l’esercizio si produ-

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ce solo quando ci sono il bisogno e l’interesse che, quindi, vanno suscitati e stimolati. 5. Legge di autonomia funzionale: “Il fanciullo di per se stesso non è un essere imperfetto, ma è un essere adeguato alle circostanze che gli sono proprie; la sua attività mentale è relativa ai suoi bisogni e la sua vita mentale è unitaria.” Il bambino, in sostanza, deve essere considerato un essere autonomo e completo in sé. 6. Legge d’individualità: “Per quanto riguarda le caratteristiche fisiche e psichiche, ogni individuo differisce in varia misura dagli altri.” Ogni individuo, quindi, è unico è l’educazione deve essere personalizzata e individualizzata. Queste leggi costituiscono i presupposti e le condizioni di ogni azione educativa rivolta al bambino o all’adolescente. Claparède, inoltre, approfondisce quelle attività da cui il bambino è naturalmente e primariamente attratto per soddisfare i propri bisogni e interessi: l’imitazione e il gioco. Queste attività costituiscono le fondamenta di una pedagogia attiva. In alcuni bei capitoli sul gioco e sull’imitazione di Psicologia del fanciullo e pedagogia sperimentale. Lo sviluppo mentale, Claparède analizza le varie teorie del gioco, le sue funzioni primarie e secondarie, i vari tipi di giochi e di giocattoli che possono essere utilizzati per stimolare l’esercizio della funzione; esamina inoltre le funzioni dell’imitazione per lo sviluppo del bambino, l’imitazione riflessa e automatica, l’imitazione acquisita, sia involontariamente che volontariamente. Sulla base di queste ricerche e di un’attenta indagine della psicologia infantile, con spirito scientifico, attraverso osservazione, sperimentazione e applicazione, Claparède propose di rinnovare l’attività educativa e la preparazione degli educatori, sostenendo che la nuova didattica deve basarsi su bisogni, interessi e motivazioni dell’allievo, utilizzando l’esplorazione, il gioco e la scoperta attiva dell’ambiente, costruendo una scuola che si adegui alle

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effettive capacità e alle esigenze (bisogni e interessi) peculiari di ciascuna individualità.

Bibliografia essenziale. Opere di Claparède: Psicologia del fanciullo e pedagogia sperimentale (1905, edizione definitiva in 2 volumi, 1946-47), Lo sviluppo mentale; I metodi, trad. it. Giunti, Firenze 1955; La scuola su misura (1920), trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1952; L’educazione funzionale (1931), trad. it. Bemporad-Marzocco, Firenze 1967; La genesi dell’ipotesi (1934), trad. it. Giunti, Firenze 1972. Letteratura critica: J. PIAGET, La psicologia di Edouard Claparède, in Psicologia del fanciullo e pedagogia sperimentale. I metodi, cit. pp. 1-28; L. MEYLAN, Il funzionalismo di Claparède, in La scuola su misura, cit. pp. 3-29; R. TITONE, Claparède, La Scuola, Brescia 1958 C. TROMBETTA, Edouard Claparède. La famiglia, l’infanzia, gli studi, la bibliografia, Bulzoni, Roma 1977.

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32 Giovanni Gentile e la scuola fascista

La filosofia idealistica tedesca di Fichte, Schelling e Hegel, venne riproposta in maniera originale nel primo Novecento da vari autori europei, fra cui, in Italia, Benedetto Croce (18661952) e Giovanni Gentile (1875-1944). Quando nell’ottobre del 1922, dopo la “marcia su Roma”, il re consegnò il governo nelle mani di Mussolini, e prima che questi trasformasse lo Stato italiano in una dittatura fascista (cosa che avvenne dopo il 1925 e l’assunzione di responsabilità di Mussolini del delitto Matteotti, avvenuto nel 1924), a svolgere il ruolo di Ministro della Pubblica Istruzione fu chiamato, in qualità di “tecnico”, Giovanni Gentile, il quale svolse il suo mandato nel periodo fra il 1922 e il 1924, dando vita a una importante riforma scolastica che prese il suo nome. Gentile abbandonò il Ministero, dopo il 1924, non per dissidi politici con il fascismo, a cui restò anzi fedele fino alla morte, ma perché fautore di una scuola laica, che contrastava con la tendenza del fascismo a scendere a compromessi con la Chiesa, tendenza che sfociò nel Concordato tra Stato e Chiesa Cattolica (Patti lateranensi del 1929) firmato da Mussolini e papa Pio XI. Giovanni Gentile nacque a Castelvetrano (Trapani), studiò alla Scuola Normale Superiore di Pisa, insegnò all’Università di

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Palermo, poi a Pisa e a Roma. Le sue opere filosofiche piú importanti sono: Teoria generale dello Spirito come Atto puro (1916) e Riforma della dialettica hegeliana (1913). Nominato senatore nel 1922, lasciò il governo dopo il delitto Matteotti. Per aver confermato la sua adesione al fascismo e alla Repubblica sociale di Salò, anche dopo l’8 settembre 1943, Gentile fu ucciso da un gruppo di partigiani dei GAP a Firenze, il 15 aprile 1944. Le sue opere pedagogiche principali sono: Sommario di pedagogia come scienza filosofica (1912, 1919, 1925); La riforma dell’educazione (1919, 1923, 1928); Preliminari allo studio del fanciullo (1921); La riforma della scuola in Italia (1924, 1932). La filosofia di Gentile va sotto il nome di attualismo. Il filosofo siciliano intese contrastare il materialismo e il naturalismo positivistico dominanti nella cultura italiana di fine Ottocento, e contemporaneamente recuperare e sviluppare le tesi idealistiche dei filosofi del Romanticismo. Il Soggetto (o Spirito, o pensiero) è il fondamento di tutta la realtà, e il principio creativo di tutto il conoscere. È un principio che precede ogni altra entità, la quale, per poter essere, deve sempre essere pensata, e dunque presupporre il pensiero che la pensa. Il mondo è quindi legato all’attività del pensiero, esiste solo nell’atto del pensare (di qui “attualismo”). La pedagogia venne considerata da Gentile una scienza filosofica. Richiamandosi a Hegel, affermò un’assoluta unità dello Spirito: questo è cioè uno, puro divenire in atto. L’educazione, quindi, è il suo continuo svolgimento, che si esplica nei singoli soggetti empirici, identificandosi con essi. È il percorso interiore dalla coscienza fino all’autoconquista di sé, fino a divenire auto-educazione. La scienza dell’educazione è teoria e coscien-

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za delle forme del divenire dello Spirito, quindi in quanto dottrina dello Spirito è filosofia; la pedagogia pertanto non può essere una scienza autonoma, ma si identifica con la filosofia: la pedagogia è vera scienza solo se diviene filosofia. La vera pedagogia scientifica è quella che pensa l’uomo in termini di Spirito. Nella teoria pedagogica di Gentile, l’educazione è educazione umanistica, antropologico-spiritualistica e critica, poiché la vita stessa è critica perpetua e perpetuo progresso in un sapere che non è mai concluso definitivamente. La possibilità, quindi, di un sapere e di una scuola nazionali si devono fondare sulla volontà comune che si realizza in sé e nello Stato contemporaneamente; in altre parole, la vita di ogni uomo porta con sé l’impronta della propria nazionalità, e ogni scienza è scienza nazionale. Ogni individuo e ogni sapere sono autenticamente se stessi solo nel contesto nazionale della vita dello Stato. La pedagogia di Gentile si contrappose, pertanto, a ogni naturalismo scientifico, positivistico, e a ogni teoria che consideri la pedagogia come una “tecnica”. Piú che una scienza, la pedagogia per Gentile era un’arte, che deve conoscere e far conoscere la spiritualità, la libertà e la spontaneità della vita psichica. La vita nella scuola, per Gentile, si riduce al rapporto tra maestro e scolaro, che si unificano nella concreta vita dello spirito che si realizza nel processo formativo della lezione. A ben vedere, però, l’unità viene ad affermare, nella pratica, la centralità dell’insegnante, della sua cultura e della sua autorità di adulto che ha raggiunto uno sviluppo spirituale piú elevato, mentre il fanciullo, con la sua identità, i suoi bisogni e interessi, risulta emarginato. La scuola di Gentile è la scuola del maestro e della cultura e non quella del fanciullo, in cui si svolge una lezione di trasmissione di cultura e una scuola “di cattedra”

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tradizionali, giustificata con il principio della comunicazione spirituale in interiore homine (che si realizza all’interno di ciascun individuo). Gentile distinse tre diversi tipi di fanciullo: il “fanciullo eterno” (quello che si incontra in qualunque età della vita, e che ognuno sente nel proprio animo), il “fanciullo fantoccio” (costruito dalla psicologia dell’infanzia, che appare come un “fanciullo mitico”), e il “fanciullo reale” (che esiste in carne e ossa, vivo e bisognoso di cure, artista e sognatore, che gioca ma ha anche una morale, una volontà e un’autonomia, ed è spontaneità e sviluppo). C’è, quindi, un’oscillazione tra spontaneismo e disciplina, che recupera però, in sostanza, la scuola tradizionale legata alla centralità della figura del maestro, della lezione “passiva”, con orientamento autoritario e conservatore dell’educazione. Questa scuola – che ci sembra oggi spesso ancora cosí presente – si contrapponeva, negli anni in cui Gentile elaborava la sua teoria, a quella positivista, allora dominante in Italia. La sua concezione pedagogica influenzò largamente la sua Riforma scolastica del 1923, che è rimasta presente (nonostante enormi e radicali modifiche, introdotte però solamente per Decreto Legge a partire dal secondo dopoguerra, fra le quali vanno segnalate l’unificazione delle scuole medie e la liberalizzazione dell’ingresso alle Università) fino alla fine del XX secolo, orientando la scuola italiana verso una difesa della superiorità della formazione umanistica e verso uno spiritualismo in gran parte retorico e astratto. La pedagogia del Neo-Idealismo italiano, oltre che da Croce (Ministro dell’Istruzione nei governi precedenti il fascismo, amico e figura di riferimento giovanile per Gentile, con il quale poi litigò aspramente) e Gentile, venne portata avanti da altri autori quali Ugo Spirito, Guido Calogero e, in particolare,

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Giuseppe Lombardo Radice, collaboratore di Gentile per la riforma del 1923, che abbandonò poi il fascismo dopo il 1924 divenendo antifascista.

Bibliografia essenziale. Opere di Gentile: Sommario di pedagogia come scienza filosofica, in Opere, voll. I e II, Sansoni, Firenze 1954 La riforma dell’educazione, in Opere, vol. VII, Sansoni, Firenze 1954 Preliminari allo studio del fanciullo, in Opere, vol. XLII, Sansoni, Firenze 1954 La riforma della scuola in Italia, in Opere, vol. XLI, Sansoni, Firenze 1954 Letteratura critica: M. OSTENC, La scuola italiana durante il fascismo, Laterza, Roma-Bari 1981 A. LO SCHIAVO, Introduzione a Gentile, Laterza, Roma-Bari 1986

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33 Giuseppe Lombardo Radice

Giuseppe Lombardo Radice (1879-1938), nato a Catania, professore di pedagogia e docente universitario a Catania e a Roma, nel 1922 venne chiamato da Gentile a collaborare alla riforma della scuola varata nel 1923, come direttore generale per l’istruzione elementare. Dopo il delitto Matteotti, nel 1924, ruppe i suoi rapporti con il regime fascista, e rinunciò a qualsiasi incarico pubblico per dedicarsi unicamente all’insegnamento. Le sue opere più importanti sono: Saggi di propaganda politica e pedagogica (1910), Lezioni di didattica (1912), Lezioni di pedagogia generale (1916), Educazione e diseducazione (1922), Pedagogia di apostoli e di operai (1936). Collaborò anche a diverse riviste di pedagogia, la più importante delle quali è «L’educazione nazionale», edita dal 1919 al 1933. Sebbene da un punto di vista filosofico Lombardo Radice si collochi nell’ambito del neo-idealismo italiano, la sua teoria pedagogica differisce in alcuni punti sostanziali da quella di Gentile. Innanzitutto, lo spazio alla didattica vera e propria, intesa come disciplina che ha un suo specifico oggetto e alcuni peculiari problemi, è molto maggiore di quello che a questa disciplina aveva riservato il filosofo di Castelvetrano. Per Lombardo Radice, infatti, è necessario scrivere e parlare di pro-

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blemi didattici, cioè di come fare scuola, come tenere le lezioni, rapportarsi agli alunni, permettere diversi approcci alle varie materie di studio, formare gli insegnanti. Problemi reali, concreti, particolari, ai quali Lombardo Radice cerca di dare una soluzione sempre evitando di perdere di vista i maestri e gli scolari, intesi nelle loro relazioni concrete, storicamente determinate. Se Gentile intende la scuola come scuola del maestro, in Lombardo Radice l’accento si sposta sulla relazione fra maestro e alunni, intesa come collaborazione. Il maestro è sì spirito creatore, ma la trasmissione della cultura deve avvenire tenendo conto delle esigenze degli allievi e dell’ambiente in cui vivono, permettendo di liberare le loro potenzialità creative. La lezione, quindi, non si configura più come mera trasmissione di dati che presuppone l’assenso dell’alunno, ma come occasione per affrontare un problema, che deve essere sentito, fatto proprio dall’alunno. Il rapporto maestro – allievi si configura così come dialogo e ricerca continui, dove la cultura del primo interviene per contribuire a risolvere i problemi dei secondi. In quest’ottica diventa fondamentale il rispetto per gli alunni, a cui si devono sottoporre i quesiti tenendo conto ovviamente del loro grado di sviluppo intellettivo. Si deve sempre procedere dal facile al difficile, intendendo per facile ciò che in qualche modo è già noto, che si trova già nell’attuale cultura dell’alunno, nella sua esperienza, che costituisce un riferimento. È dunque fondamentale partire dall’esperienza vissuta, per giungere alla scienza (momento in cui si sintetizzano i dati delle varie esperienze) senza forzature. Storia, geografia, scienze naturali, matematica, devono partire da episodi di vita locale, per poi allargare i propri orizzonti approfondendo i loro oggetti: le età storiche, le varie categorie geografiche, le connessioni causali tra i fenomeni ecc.

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Lombardo Radice sviluppa il suo programma pedagogico alla luce di una specifica concezione dell’infanzia, vista come età creativa in cui domina un approccio alla conoscenza di tipo magico. Il fanciullo è un poeta, e manifesta se stesso nel modo più completo nell’espressione artistica (da notare come in questa teoria siano rintracciabili non solo gli influssi gentiliani, ma anche quelli di pedagogisti dell’idealismo come Fröbel). In particolare, allora, nella scuola elementare sarà dato spazio al gioco e ad attività artistiche quali disegno e canto, che prepareranno all’educazione linguistica, vista come il centro di tutto l’insegnamento successivo. Lombardo Radice elaborò un modello di scuola detto «Scuola serena», che, sebbene tenesse conto delle novità introdotte dall’attivismo, ne rifiutava al contempo alcuni eccessi. Per esempio: non puerocentrismo, concetto che presuppone una perdita di importanza della figura dell’insegnante, ma collaborazione. Allo stesso modo, il fare generico è sostituito da attività artistiche. L’argomento in cui Lombardo Radice è più vicino a Gentile è l’insegnamento religioso. Entrambi sono infatti convinti sostenitori di una scuola laica, senza che questo implichi l’esclusione della materia religiosa dai programmi di insegnamento. La religione deve entrare nella scuola come fondamento della vita morale, ma è intesa come filosofia minore, come un modo semplice e diretto di spiegare ciò che al momento opportuno sarà oggetto della filosofia. Non quindi religione come insegnamento di dogmi, ma pratica estetica (Lombardo Radice la definisce canto della fede) che prepara alla vita futura, in cui i temi morali verranno affrontati più compiutamente. Un ultimo aspetto a cui Lombardo Radice attribuisce una particolare importanza (distaccandosi da Gentile) è quello della formazione degli insegnanti, per la quale sono previsti corsi di

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specializzazione in cui deve essere riconosciuto un ruolo importante anche alla psicologia e alla didattica.

Bibliografia essenziale. Opere di Lombardo Radice: Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale (1913), Sandron, Firenze 1936; Saggi di critica didattica (antologia), SEI, Torino 1937; Didattica viva. Problemi ed esperienze (antologia), La Nuova Italia, Firenze 1951; Educazione e diseducazione (antologia), Marzocco, Firenze 1952. Letteratura critica: I. PICCO, Giuseppe Lombardo Radice, La Nuova Italia, Firenze 1951; G. CIVES, Giuseppe Lombardo Radice: didattica e pedagogia della collaborazione, La Nuova Italia, Firenze 1970; G. CATALFAMO, Lombardo Radice, La Scuola, Brescia 1973; G. CIVES, Attivismo e antifascismo in Giuseppe Lombardo Radice, La Nuova Italia, Firenze 1983.

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34 Psicoanalisi ed educazione

Sigmund Freud (1856-1939) nacque a Freiberg (in Moravia). Nel 1860, con la sua famiglia, si stabilí a Vienna. Si laureò in medicina nel 1881 e iniziò a occuparsi di pazienti malati di disturbi nervosi. Nel 1885 si recò a Parigi, dove frequentò la Clinica Psichiatrica della Salpêtrière, diretta dal professor Jean Charcot, con il quale affrontò casi di isteria utilizzando l’ipnosi come terapia. L’isteria, nel XIX secolo, era considerata una patologia tipicamente femminile, di eziologia nervosa. Nei casi di isteria, si verifica un sintomo, quali per esempio la cecità, la paralisi di un arto, l’afasia, senza che vi sia una causa organica (trauma fisico, incidente, tumore, ecc.). Esistono anche casi di gravidanza isterica. Freud si rese conto che l’isteria è una malattia non solo femminile e la classificò fra le nevrosi. La nevrosi è, infatti, una patologia i cui sintomi sono l’espressione somatica di un conflitto psichico che ha le sue radici nelle esperienze vissute e, in particolar modo, nell’infanzia del soggetto. Il paziente nevrotico è consapevole del suo stato, ma non è in grado di controllare i sintomi e di riconoscere (e ammettere) le cause. È importante distinguere la nevrosi dalla psicosi che comprende una

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gamma di malattie mentali molto ampia, di notevole gravità, in quanto il paziente non ha completa consapevolezza di essere malato. I casi piú gravi, le schizofrenie (termine derivato dal greco, che significa scissione, rottura, taglio) manifestano una dissociazione del paziente dalla realtà e dal mondo esterni. Nel 1895, Freud pubblicò Studi sull’isteria, assieme a Joseph Breuer. All’inizio, Freud tentò di curare l’isteria e le nevrosi tramite l’ipnosi. Attraverso il rilassamento e l’induzione del sonno ipnotico, il paziente può essere condizionato a non sentire piú, dopo il risveglio, un determinato sintomo. Questo meccanismo viene definito condizionamento post-ipnotico. Sempre grazie al condizionamento, il paziente ipnotizzato può essere indotto a compiere, in stato di trance, una qualche azione (solo se per lui è moralmente accettabile) senza che ne sia consapevole. Attraverso l’ipnosi, inoltre, il paziente può essere portato “indietro nel tempo” con la memoria e rivivere le emozioni traumatiche del passato, spesso rimosse e dimenticate. Si definisce abreazione l’atto di provare di nuovo un’emozione forte vissuta in passato e poi rimossa; tramite l’abreazione il soggetto scarica le proprie emozioni e si libera dalle tensioni affettive legate al ricordo dell’evento traumatico, fino alla piú o meno totale “purificazione” (definita catarsi, riprendendo un concetto della Poetica aristotelica relativo al teatro). Freud però scoprí che l’ipnosi non garantiva risultati terapeutici definitivi, poiché eliminava il sintomo, senza rimuovere completamente le cause, cosí che i sintomi tornavano trasformati sotto altre forme. Freud elaborò, dunque, una nuova tecnica terapeutica, la psicoanalisi. La terapia psicoanalitica si realizza facendo rilassare il piú possibile, disteso, il paziente e invitandolo a parlare in libertà

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dicendo tutto quello che gli “viene in mente”, cercando di non lasciarsi bloccare e inibire dal pensiero cosciente; con questo metodo, detto delle libere associazioni, si può interpretare simbolicamente il discorso del paziente e cercare di risalire, cosí, alle motivazioni inconsce delle azione quotidiane. Oltre al metodo delle libere associazioni, la psicoanalisi utilizza, per risalire all’inconscio, l’interpretazione dei sogni, dei lapsus, degli atti mancati, dei motti di spirito. Le opere piú importanti di Freud sono: Studi sull’isteria (in collaborazione con Joseph Breuer), 1895; L’interpretazione dei sogni, 1900 [in realtà risale al 1899]; Il sogno, 1900; Psicopatologia della vita quotidiana, 1901; Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905; Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, 1905; Il caso di Dora, 1905; Il caso del piccolo Hans, 1909; Il caso dell’uomo dei topi, 1909; Sulla psicoanalisi: cinque conferenze, 1909; Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, 1910; Totem e tabú, 1913; Il caso dell’uomo dei lupi, 1914; Al di là del principio del piacere, 1920; L’avvenire di un’illusione, 1927; Il disagio della civiltà, 1929. I fenomeni mentali si possono dividere in inconsci, preconsci, consci. Quelli coscienti sono quelli presenti attualmente, quelli preconsci quelli che possono facilmente divenire coscienti (tramite uno sforzo dell’attenzione e del ricordo, pensandoci o parlando), mentre quelli inconsci sono rimossi e l’individuo non è consapevole; non è possibile accedervi, se non per mezzo di un notevole sforzo di analisi e interpretazione. Lo studio e l’indagine approfondita dell’inconscio (e non tanto la sua scoperta, che fu già stata effettuata da altri studiosi e filosofi, quali Leibniz, Herbart, Schopenhauer) è la caratteristica piú importante e originale del pensiero di Sigmund Freud.

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Freud, nella sua organizzazione e strutturazione della vita mentale (topica, termine che deriva dal greco tópos che significa “luogo”), evidenziò tre istanze psichiche (che non sono tre zone del cervello, ma tre modalità funzionali della mente): Es (o Id), Io (o Ego) e Super-io (o Super-Ego), fra loro collegate e in continuo scambio. Ciò di cui un individuo è dotato fin dalla nascita è l’Es, che costituisce l’aspetto pulsionale (pulsione significa “carica di energia inconscia”, che produce uno stato di eccitazione e necessita di essere scaricata, sfogata, gratificata, al fine di ridurre la tensione). L’Es è il serbatoio primario dell’energia psichica e richiede un soddisfacimento immediato. Le pulsioni possono essere ridotte essenzialmente a due gruppi: pulsioni sessuali e pulsioni aggressive. Libido è il termine con il quale si indicano le energie pulsionali della sessualità. Ovviamente, la considerazione che fin dalla nascita, ogni individuo possieda una forma di sessualità e un’aggressività, si scontrò notevolmente con la cultura benpensante viennese e mitteleuropea di fine Ottocento inizio Novecento, che considerava il bambino una creaturina innocente, buona, pura e incapace di egoismo; Freud inoltre scandalizzò anche perché attribuendo tanta importanza alla vita inconscia e alle spinte che questa dava ai comportamenti coscienti veniva a limitare notevolmente la capacità di autocontrollo e auto-dominio degli individui, i quali spesso agiscono nascondendo, o senza sapere quali sono le vere motivazioni delle loro azioni. Per questo motivo si è parlato, riguardo alla psicoanalisi, di terza rivoluzione copernicana, dopo quelle di Copernico e Darwin: dopo aver perso il dominio sull’universo e sugli esseri viventi, con Freud l’uomo ha perduto anche il dominio su se stesso. Nell’interazione con l’ambiente e il mondo esterno, le pulsioni dell’Es si scontrano con i limiti che la realtà pone al sog-

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getto. Si forma cosí gradualmente l’Io, che cerca di mediare, di trasformare, di placare la pulsione inconscia, per permettere un controllo e un soddisfacimento successivo o mediato dello stimolo. Tramite la socializzazione, il rapporto con gli adulti, in particolare con i genitori, il bambino inizia a conoscere le regole (sociali, morali, religiose, ecc.) che questi impongono. Il processo di interiorizzazione di queste regole, porta alla formazione della terza istanza psichica: il Super-io, appunto l’insieme delle norme e regole di condotta morale “introiettate”. Il Superio è come un io ideale, è ciò a cui ciascuno aspira, la perfezione che si vorrebbe raggiungere, ma che viene a scontrarsi con gli istinti inconsci (dei quali non si accetta la soddisfazione immediata e brutale) e con l’impossibilità materiale che la realtà esterna pone (per esempio se qualcuno vuole diventare il migliore in qualche campo di attività, può scoprire l’esistenza di limiti – di tempo, di capacità, fisici, ecc. – che gli si pongono). In questo continuo scontro fra Es, mondo esterno e Super-io, l’Io si pone da mediatore, con il suo bisogno di auto-conservazione. Esso cerca di mediare le varie, diverse e contrapposte esigenze. Se i bisogni dell’Es non vengono sfogati e vengono continuamente inibiti, si creano stati di ansia; nell’interazione fra le varie istanze e necessità, l’individuo può andare incontro a stati di angoscia, paure (fobie), depressione, vergogna, invidia, gelosie, sensi di colpa, i quali possono, se non risolti, degenerare in forme piú o meno gravi di nevrosi o psicosi. L’Io, per cercare una situazione di ottimale equilibrio fra le varie istanze psichiche, per la sopravvivenza dell’individuo, mette in atto i meccanismi di difesa, i quali hanno lo scopo di spostare, trasformare, modificare, inibire le pulsioni inconsce e di permettere una migliore sopportazione delle frustrazioni che l’ambiente e

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la vita quotidiana continuamente impongono. I meccanismi di difesa agiscono prevalentemente in maniera inconscia e richiedono molta energia per opporsi alle pulsioni che vogliono emergere e mantenere uno stato di normalità. I piú importanti meccanismi di difesa sono: rimozione, sublimazione (è un processo mentale che – come l’identificazione e la compensazione – a volte viene utilizzato come difesa), conversione, inibizione, censura, spostamento, razionalizzazione, formazione reattiva, regressione, proiezione, negazione, isolamento dell’affetto, ecc. Attraverso i meccanismi di difesa è possibile scaricare le tensioni e sfogare le pulsioni in maniera diversa da quella iniziale o su oggetti o persone diverse da quelle a cui originariamente erano dirette. Un celebre esempio di sublimazione è quello del chirurgo che sublima la sua pulsione aggressiva e il piacere per la vista del sangue nella nobile arte della chirurgia, oppure quello dell’artista che sublima le sue pulsioni sessuali (e le sue frustrazioni – direbbe qualcuno pensando magari a Leopardi) nell’arte poetica. È importante ricordare e sottolineare che l’Es è totalmente inconscio, ma non è tutto l’inconscio, mentre L’Io e il Super-io sono in parte inconsci e in parte coscienti. Non vi è simmetria, quindi, tra Es, Io, Super-io e Inconscio, Preconscio, Conscio. Quando scrisse L’interpretazione dei sogni, nel 1900, Freud affermò che «il sogno è la via maestra per accedere all’inconscio». Il ricordo cosciente della narrazione del sogno, al risveglio, è chiamato contenuto manifesto del sogno, mentre il significato inconscio e simbolico che sta dietro al sogno, è chiamato contenuto latente. I sogni secondo Freud seguono una logica diversa da quella razionale; sono l’espressione delle pulsioni inconsce, dei conflitti emotivi vissuti e non resi consapevoli, secondo un linguaggio simbolico; gli elementi e i personaggi dei sogni devono pertanto essere interpretati simbolicamente e

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associati alla sessualità; sebbene Freud mettesse in evidenza il rischio di compiere accostamenti troppo semplicisti, si può, schematicamente, dire che tutto ciò che ha una forma cilindrica e penetrante (per esempio: bastoni, alberi, colonne, spade, ecc.) può essere associato all’organo genitale maschile, mentre tutto ciò che può accogliere come un antro (per esempio: casa, caverna, grotta, contenitori, ecc.) è simbolo dell’organo genitale femminile. Durante il sonno le difese psichiche vengono alquanto ridotte e i contenuti dell’inconscio potrebbero facilmente emergere disturbando il sonno e svegliando il soggetto. A tale scopo l’Io mantiene un’attività minima per salvaguardare il sonno: maschera i contenuti inconsci mediante alcuni artifici. Un sogno è dunque una rappresentazione di un contenuto onirico latente che viene dapprima trasformato in immagine e poi manipolato in vari modi tale da permettere di evitare la tensione che lo riguarda (spostamento, condensazione, dispersione, simbolizzazione, ecc…); in seguito, il sogno viene articolato secondo una logica piú coerente possibile. Questi due momenti (trasformazione e successivamente riarticolazione logica) sono l’elaborazione primaria e quella secondaria. Utilizzando il metodo psicoanalitico, Freud richiamò l’attenzione su un altro gruppo di fenomeni, i lapsus, fino ad allora trascurati, che dimostrano come le attività mentali inconsce possano interessare il nostro pensiero cosciente; molto schematicamente si può dire che i lapsus avvengono nella vita quotidiana, in stato di veglia e sono errori della lingua, azioni compiute per errore, senza volere (atti mancati), sbagli che indicano le vere volontà inconsce del soggetto agente. L’inconscio determina spesso tanti piccoli incidenti durante la giornata. Può cadere qualcosa di mano (atti mancati), ci si può sbagliare nel pronunciare una parola (lapsus linguae), si dimenticare un appuntamento, ci si può ferire accidentalmente. Dietro a queste

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mancanze sta spesso l’inconscio. Infatti, a volte, per scaricare parzialmente la tensione, ciascuno di noi proietta il contenuto inconscio su qualcosa o qualcuno di esterno cosicché la causa della tensione diventa esterna invece che interna. Una causa esterna può essere facilmente trattata dall’Io. Tuttavia ciò è un artificio, e ovviamente non risolve il problema interno. Freud trattò ampiamente questi problemi nell’opera Psicopatologia della vita quotidiana, nella quale dimostrò come gli individui continuamente subiscano spinte inconsce dal mondo psichico sommerso che sempre tende ad emergere. In un’altra celebre opera, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, spiegò il concetto di motto di spirito. Questo è un altro modo di manifestarsi dei contenuti inconsci. Attraverso di esso ogni individuo riesce a scaricare la tensione legata al contenuto del motto stesso. Con una barzelletta, (ma anche una battuta di spirito, uno scherzo, una “verità” detta ridendo), ad esempio, viene risolta una tensione e quindi l’Io risparmia l’energia necessaria a contrastare tale contenuto. Nella terapia psicoanalitica il terapeuta utilizza la tecnica delle libere associazioni. Il paziente è invitato a dire tutto quello che gli viene in mente riguardo ad un qualsiasi fatto proposto dall’analista o dal paziente stesso. Quando il paziente si avvicina a ciò che lo turba (il motivo della rimozione delle tensioni) allora il suo Io ricorre alla censura e l’analista può avvertire tale reticenza e focalizzare la propria attenzione su quell’argomento. Essendo una terapia, in realtà, la prima osservazione effettuata dal terapeuta si concentra sul sintomo. Il sintomo è un azione che mira a proteggere il soggetto dal contenuto inconscio. Il fatto che egli possa interrompere l’azione sintomatica stabilisce se il sintomo stesso è patologico o meno. In questo caso il contenuto inconscio viene ad essere cosí pressante che il

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nevrotico elabora questa tecnica, la quale segue le regole della realtà interna, per controllarlo. Il sintomo è quindi una difesa dall’Es, un tentativo del paziente di superare il problema anche se con armi che sono scese al livello dell’inconscio stesso. Ad esempio, un tic può servire a controllare un senso d’inferiorità derivante dal complesso d’Edipo; ovviamente riesce a fare ciò “magicamente”, seguendo le regole dell’inconscio (onnipotenza del pensiero). È indispensabile ribadire e sottolineare ancora che la psicoanalisi nasce come terapia per curare le malattie mentali meno gravi, le nevrosi (anche se autorevoli studiosi hanno cercato di applicarla, con risultati alterni, alle psicosi e alle schizofrenie); nel rapporto terapeutico si incontrano alcuni ostacoli, come il transfert e il contro-transfert. Con il transfert il paziente, durante le sedute psicoanalitiche, trasferisce a livello inconscio e simbolico sul terapeuta la persona con la quale ha vissuto la situazione conflittuale (generalmente un genitore) che ha scatenato il problema nervoso, scaricando su di esso tutti i propri sentimenti, le emozioni, le invidie, le gelosie, l’ansia, i sensi di colpa, l’amore e l’odio che prova. Il transfert è lo strumento piú potente a disposizione dell’analista, infatti, poiché il paziente tende a proiettare (trasferire) sull’analista le cause dei suoi conflitti e poi a introiettarle (le trasferisce nuovamente su se stesso), il terapeuta deve imparare a utilizzare il transfert per acquisire la fiducia del paziente e guidarlo verso la guarigione. Se con il transfert il paziente identifica il terapeuta con la persona del suo conflitto, con il contro-transfert avviene lo stesso da parte del medico, il quale “carica” il paziente di valori affettivi relativi ad altre persone; è compito (difficile e pericoloso per la cura) del terapeuta riuscire a controllare questo reciproco scambio di affettività. Il controtransfert, come strumento, è l’ultimo ad essere stato scoperto (e non a caso). Per Freud

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esso costituiva l’insieme di tutte le proiezioni dell’analista sul paziente e perciò era considerato un elemento di disturbo nell’analisi. Oggi invece è considerato lo strumento piú prezioso in mano all’analista e viene visto come l’insieme delle emozioni che l’analista prova nei confronti del paziente. In effetti, le proiezioni del paziente costringono l’analista a difendersi dalle qualità negative che il paziente gli ha attribuito. L’analista, buon conoscitore del proprio inconscio (a questo serve il lungo training) riesce a dare soluzione emotiva a questo conflitto dell’inconscio. Fasi di sviluppo della sessualità In particolar modo nei Tre saggi sulla teoria sessuale, Freud elaborò la sua teoria dello sviluppo sessuale: il bambino, fin dalla nascita, dirige le sue pulsioni sessuali verso determinate aree del proprio corpo, investe cioè di piacere sessuale una zona (detta zona erogena) dalla quale trae godimento. Freud distinse varie fasi. Fase orale: è la fase durante la quale il bambino investe di piacere sessuale la bocca, prova cioè piacere mettendo tutto in bocca; è la fase della suzione, importante per la sopravvivenza dei primi mesi (per prendere il latte), con cui il bambino entra cosí in contatto con il primo oggetto d’amore, il seno materno, che in breve diventerà la madre intera. Fase anale: è la fase nella quale si investe di piacere l’ano, il bambino prova cioè piacere nel trattenere ed espellere le feci e l’urina; è molto importante perché porta al controllo degli sfinteri. Fase fallica: è la fase in cui si investe di piacere sessuale l’apparato genitale; avviene quando il bambino inizia a riconoscere la differenza fra i sessi (in maniera molto elementare: come presenza o assenza del pene) e comincia a conoscersi, a

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scrutarsi, a guardarsi, a giocare con il proprio sesso e a toccarsi (masturbazione infantile). Con il riconoscimento della differenze fra i sessi nella bambina insorge l’invidia del pene e il conseguente complesso di castrazione, a causa del quale ella accusa e rimprovera piú o meno inconsciamente la madre di averla fatta nascere senza il pene. È in questa fase (circa dai 3 ai 5 anni) che il bambino vive, in maniera inconscia, il Complesso di Edipo (o di Elettra per le bambine). In maniera molto schematica si può dire che il bambino si innamora del genitore di sesso opposto e prova odio verso quello del proprio sesso, visto come l’antagonista che gli sottrae il proprio oggetto d’amore. Nello stesso tempo il bambino prova anche soggezione, paura – oltre che odio – nei confronti del genitore del proprio sesso, dal quale teme una vendetta per questo suo odio vissuto; la vendetta piú grande, temuta da parte del maschio, è la castrazione. Riconoscendo la somiglianza con il genitore del proprio sesso, il bambino inizia a imitarlo, perché se lui (o lei nel caso di Elettra) è riuscito a conquistare la madre (o il padre per la bambina), allora comportandosi allo stesso modo avrà maggiori possibilità di conquistare la persona amata. Cosí facendo, però, si identifica nel genitore del proprio sesso e l’odio inizia gradualmente a svanire, superando il Complesso di Edipo e giungendo alla consapevolezza che si deve trovare il proprio oggetto d’amore maturo nel proprio “principe azzurro”, cioè in una persona all’incirca coetanea. Bisogna notare che nella femmina vi è una importante differenza, in quanto la bambina non può provare la paura della castrazione nei confronti della madre, contro la quale anzi, a causa dell’invidia del pene, già provava rancore accusandola di averla fatta nascere senza l’organo genitale maschile. Alla fine del Complesso di Edipo, che ha costituito l’aspetto piú importante e coinvolgente di tutta la vita affettiva ed emoti-

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va del bambino in questo periodo, avviene una rimozione degli eventi legati a questa enorme situazione angosciosa; tutti gli avvenimenti vissuti dal bambino durante questi anni, attraverso la rimozione edipica vengono dimenticati; con essi vengono rimossi anche la maggior parte dei ricordi dei primi anni di vita ed è per questo, secondo Freud, che non si ricordano che pochi frammenti degli avvenimenti dalla nascita fino ai 4-5 anni. Dopo questa fase, le pulsioni sessuali vengono provvisoriamente e parzialmente accantonate (fase di latenza), finché non ritorneranno prepotentemente con lo sbocciare della sessualità matura durante l’adolescenza. All’interno della Società Psicoanalitica (di cui bisogna ricordare i memorabili incontri del mercoledí a casa Freud) vi furono spesso scontri e fratture fra i vari allievi di Freud e il maestro stesso. Freud venne piú volte accusato di essere troppo autoritario con gli allievi, che trattava un po’ come “bambini”; storici furono i litigi, per motivi teorici (ma che celavano cause anche affettive), con il suo piú grande allievo, lo svizzero Carl Gustav Jung, che fondò la Psicologia Analitica e con un altro allievo, Alfred Adler, che costituí la scuola di Psicologia Individuale. Altri nomi importanti della storia della psicoanalisi sono, oltre a questi: il biografo di Freud: Ernest Jones, Karl Abraham, l’ungherese Sandor Ferenczi, Georg Groddeck, Otto Rank, Hanns Sachs, la figlia di Sigmund: Anna Freud, Melanie Klein, Lou Andreas- Salomé, l’italiano Edoardo Weiss, Wilhelm Reich. Negli anni Trenta, con la crescita della tensione internazionale, l’avvento del nazismo e delle leggi antirazziali, Freud e molti suoi allievi furono costretti a fuggire da Vienna, dall’Austria e dalla Germania perché di origine ebrea; le opere di Freud vennero pubblicamente bruciate, a Berlino e in tutta la

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Germania nazista, nel rogo dei libri pericolosi del 1934; nonostante non volesse lasciare Vienna, Freud fu costretto a riparare con la famiglia a Londra, nel 1938, dove morí l’anno seguente. Per comprendere meglio gli elementi fondamentali della psicoanalisi è utile vedere, in sintesi, quali sono i principali meccanismi di difesa individuati da Freud e dagli altri studiosi di psicoanalisi; è inoltre utile un rapido cenno sulle distinzioni tra i piú importanti sintomi di tipo nevrotico e psicotico. Il principale meccanismo di difesa è la rimozione, che esclude parzialmente o totalmente dalla coscienza la rappresentazione connessa a un’azione il cui soddisfacimento sarebbe in contrasto con le altre esigenze psichiche. Quando questa funzione fallisce, in parte o del tutto, intervengono altri meccanismi di difesa in maniera “stratigrafica”, accumulandosi cioè l’uno sull’altro. I piú importanti sono: la sublimazione, cioè la trasformazione delle pulsioni dannose o inaccettabili (sessuali o aggressive) in attività riconosciute come valide o socialmente utili, come l’arte, la medicina, l’assistenza, in modo da convogliare e incanalare l’energia inconscia e poterla cosí sfogare senza danni; la regressione, che consiste nel trovare gratificazione ritornando inconsciamente a stadi psichici precedenti; la formazione reattiva, meccanismo che consente di volgere al contrario tendenze inaccettabili (per esempio il bambino che ha ricevuto un pesante divieto di sporcarsi da piccolo, con le feci o altro, può diventare un maniaco della pulizia); l’isolamento, cioè la tendenza a chiudersi sempre piú in se stessi per evitare le situazioni che possono causare tensione; la proiezione, cioè l’attribuire un’origine esterna a sentimenti che non si vogliono riconoscere come propri (per esempio nel “Complesso di Edipo”, il bambino dirà: “il babbo mi odia”, proiettando sul

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padre quelli che sono i suoi sentimenti); l’introiezione, il contrario della proiezione, che consiste nel volgere su se stessi sentimenti di altri; la negazione, in cui semplicemente si nega una pulsione; la razionalizzazione, che si verifica quando si cerca una spiegazione razionale per non ammettere i motivi inconsci, le delusioni e i fallimenti, e sopportare meglio la realtà. Con il fallimento della rimozione, e la conseguente messa in atto degli altri meccanismi di difesa, si verificano a volte alcuni sintomi nevrotici e psicotici. Vediamo alcune fra le forme piú importanti di tipo nevrotico. Le nevrosi d’angoscia: sono stati di paura attivati dal sistema nervoso autonomo; l’individuo non è consapevole dell’origine della sua angoscia, ma avverte un senso di dolore che sfocerà in sintomi somatici quali tachicardia, sudorazione, vertigini, secchezza delle fauci, difficoltà a inghiottire, disturbi digestivi, frequenza urinaria, impotenza, eccesso di ossigeno nel sangue, ecc. Le nevrosi fobiche: sono paure irrazionali di qualcosa (gli esempi piú diffusi sono la claustrofobia, l’agoràfobía, l’aracnofobía), che provocano un carico di angoscia intensa; il fobico può riconoscere che la sua paura è esagerata, rimane perplesso se deve spiegarla, ma non può sottrarsi a essa. Le fobíe sono comuni a tutti; diventano però gravi quando condizionano pesantemente la vita dell’individuo. Per superare le nevrosi fobiche, i metodi piú usati prevedono una terapia graduale di tipo comportamentale. Per esempio, per la aracnofobía, si può cominciare mostrando in fotografia un ragno al paziente, poi questi procederà a toccare la foto, successivamente vedrà dei ragni finti, poi ragni veri in teche di vetro, e cosí via. La psicoanalisi serve per scoprire le cause del sintomo ed evitare che questo si manifesti di nuovo anche sotto altre forme nevrotiche.

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Le nevrosi isteriche: sono sindromi nevrotiche che dànno luogo a disturbi di due tipi: nel primo caso riguardano le funzioni motorie o sensorie, quali paralisi, dolore, anestesie, cecità, impotenza psicogena, gravidanza isterica ecc.; nel secondo caso si tratta di disturbi mentali, come amnesie, stati di fuga, personalità multiple, ecc. Le nevrosi ossessivo-coatte: sono caratterizzate da pensieri ossessivi (un pensiero ossessivo tende continuamente a intromettersi nella consapevolezza e non c’è modo di arrestarlo: fra le forme piú leggere e diffuse, per esempio, si possono ricordare quelle parole, quelle canzoni, quelle frasi, quei desideri che tornano ciclicamente e ossessivamente in mente) e azioni coatte (ripetute continuamente). Le reazioni depressive: sono le forme di disturbi psichici piú comuni; sono sgradevoli reazioni affettive temporanee, originate dalla reazione infantile alla perdita d’amore dei genitori; nelle persone adulte sono evocate da varie perdite: lutto, divorzio, fine di un legame affettivo o di un’amicizia, perdita del lavoro o di uno status sociale, ecc. Gli stati maniacali: in apparenza si manifestano in maniera opposta alla depressione: l’individuo è esultante, euforico, iperattivo, espansivo, ottimista, entusiasta in maniera illimitata, dorme poco, parla incessantemente, è arrogante, si sente onnipotente (arrivando, nelle forme psicotiche piú gravi, a credersi un re, un genio, un messia); non coglie realisticamente la realtà e, ogni tanto, cade in forme di paranoia: accusa gli altri di minacciarlo, di perseguitarlo, o di essere pazzi; è una reazione opposta alla depressione, detta anche stato depressivo-maniacale. Il soggetto paranoico è solito adottare quale caratteristico meccanismo di difesa la proiezione: spesso attribuisce ad altre persone i propri impulsi primitivi ostili e non accettati (per esempio l’omicidio). Le paranoie hanno una gamma molto

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ampia di casi, in quelli estremi si può giungere alla schizofrenia. Sembra dunque esserci una gradualità dalle semplici nevrosi agli stati psicotici, fino alle forme di schizofrenia. La schizofrenia è l’area della psichiatria piú controversa e incerta. Vi rientrano casi molto diversi, compresi tutti gli individui definiti in passato genericamente “pazzi”, “matti”, o “folli”. Alcuni casi di schizofrenia sembrano essere l’effetto di una soverchiante tensione ambientale, per esempio la guerra; altri sembrano dovuti a traumi infantili. Molti studiosi hanno ipotizzato e sostenuto anche la presenza di disturbi biologici, a livello genetico ereditario. Il termine schizofrenia indica scissione della mente, divisione, a indicare la discordanza di pensiero, sentimento e comportamento, in una personalità che si chiude in se stessa isolandosi dal resto del mondo, o che vive in maniera alterata rispetto alla norma. Lo schizofrenico spesso è caotico, irrazionale, è in grado di esibire un discorso (e a volte una scrittura) fluido e rapido, ma senza un legame logico comprensibile, mostra emozioni inappropriate alle situazioni, e vive rapporti ambivalenti (mescolanza di amore-odio nei confronti delle persone); non è cosciente dei confini del proprio Io, non ha ben determinato il rapporto fra Io e non-Io, ha una carente capacità di esame della realtà. Psicoanalisi e Pedagogia Sappiamo che Freud aveva elaborato una teoria nella quale tutta la vita adulta è determinata a partire dalle esperienze della prima infanzia, attraverso le varie fasi della sessualità e il sorgere delle istanze psichiche in diverse età della vita del bambino. Ciò nonostante, egli non si occupò quasi mai delle implicazioni pedagogiche che la sua teoria poteva avere e curò raramente bambini, se non nel famoso caso del “Piccolo Hans”.

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Infatti, in questo studio clinico Freud, per la prima e unica volta, si confrontò con la pedagogia e le problematiche inerenti l’infanzia. Freud, in realtà, non analizzò mai direttamente dei bambini, ma applicò la psicoanalisi indirettamente al conflitto vissuto da Herbert Graf, descritto appunto come “il piccolo Hans”. Hans era affetto da una grave fobia per i cavalli, animali dai quali fino a poco prima era profondamente attratto. Aveva paura di essere morso dai cavalli e si rifiutava di uscire di casa. Il padre di Hans si rivolse a Freud, il quale vide il bambino una sola volta, ma ne seguí le angoscie, le fantasie, le curiosità e i progressi, attraverso i resoconti del padre. È curioso notare che Freud rivide di nuovo Hans solamente quando questi era diventato adulto e non si ricordava piú del conflitto vissuto durante l’infanzia. Il bambino, in piena fase edipica, spostò i sentimenti negativi provati nei confronti del padre sull’animale. Ma questo trasferimento di affetti negativi si ritorse su se stesso sotto forma di fobia. Questo caso clinico costituí il preludio all’analisi infantile, ponendo al centro dell’attenzione i temi della castrazione e del complesso edipico, oltre che degli impulsi, delle curiosità sessuali dei bambini e delle loro identificazioni. Un ruolo determinante, nel caso di Hans, giocò la madre, ex paziente di Freud, la quale, con le sue fobie, le sue ansie, il suo stile educativo altalenante (a volte troppo rigido, a volte troppo permissivo), aveva trasmesso al bambino messaggi ambivalenti che crearono confusione nello sviluppo affettivo del bambino. In realtà, nonostante sia difficile dedurre rigidamente dai principi psicoanalitici una pedagogia positiva, la loro conoscenza risulta molto utile per cogliere meglio il rapporto adultobambino, in maniera piú consapevole nei rapporti con la società, l’intera famiglia e la scuola, oltre che per criticare molti aspetti delle pedagogie contemporanee. «Il rapporto che i geni-

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tori intrattengono con ciascuno dei figli è unico ed irripetibile; […] è un rapporto in cui vengono coinvolti diversi aspetti affettivi e tutta l’esperienza precedente dei genitori, la loro infanzia, i loro timori, le loro speranze, che vengono riattivati con la nascita di un figlio. Sul figlio viene proiettato l’Io ideale dei genitori, ma tale proiezione non è esente da angosce, timori, ambivalenze, cosí come il bambino non è un essere inerte, ma con i suoi comportamenti interagisce sulle aspettative dei genitori, confermandole o smentendole. I rapporti originari fra il bambino e i genitori sono differenti: se il legame con la madre è inizialmente corporeo, istintivo, radicato nella necessità naturale della sopravvivenza, quello con il padre è mediato dalla parola, si svolge su di un piano simbolico-culturale in cui il genitore di sesso maschile opera, nell’àmbito della famiglia, come rappresentante delle esigenze sociali. L’identificazione con la figura paterna, con la quale termina il conflitto edipico, è essenzialmente un’identificazione con il suo Super-io che garantisce pertanto una trasmissione di norme e di obblighi morali, sociali, di valori e comportamenti da una generazione all’altra.» L’ingresso dei bambini nella scuola comporta un distacco dagli oggetti affettivi della vita della famiglia e coincide (a circa 6 anni) con l’inizio del periodo di latenza. È possibile pertanto formulare un bilancio delle esperienze e dei vissuti del periodo precedente, perché se il bambino avrà superato felicemente tutti i conflitti, le angosce e le ansie ad esso legate, potrà utilizzare l’energia pulsionale al servizio dell’attività intellettuale e scolastica. Se Freud non si preoccupò di applicare la psicoanalisi all’educazione, questo tentativo fu invece compiuto successivamente da molti psicoanalisti (come Donald Winnicott – importante per i suoi studi sul gioco – e René Spitz – che studiò, tra l’altro,

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le conseguenze dovute alla mancanza della figura materna sui bambini piccoli, come racconta nel suo libro Il primo anno di vita del bambino del 1958). Coloro che si occuparono per prime del rapporto fra psicoanalisi e pedagogia furono, in maniere molto differenti fra loro, Anna Freud e Melanie Klein. Anna Freud (1895-1982) nacque a Vienna, ultima dei sei figli di Sigmund, fu l’unica a seguire le orme paterne, portando avanti la psicoanalisi. Ebbe sempre un rapporto estremamente affettuoso con il padre, spesso anche di vera e propria dipendenza. Essendo ebrea, quando nel 1938 cominciarono le persecuzioni naziste, dovette fuggire con il padre da Vienna, e si stabilí a Londra, dove fondò alcuni centri per bambini sfollati, privi di casa e famiglia. Assunse il ruolo di direttrice delle scuole da lei fondate (“Hampstead War Nurseries”, “Hampstead Child-Therapy Corse”, “Hampstead Child-Therapy Clinic”), all’interno delle quali si occupò della formazione di terapeuti infantili, influenzando con il suo lavoro l’organizzazione degli asili di Vienna, Londra, Boston, Detroit, Los Angeles, New York. Si occupò di divulgare la psicoanalisi applicata all’infanzia tenendo parecchie conferenze e scrivendo varie opere, le piú importanti delle quali sono: Quattro conferenze di psicoanalisi per insegnanti e genitori (1930); L’Io e i meccanismi di difesa (1936); Problemi dell’analisi didattica (1938); Il trattamento psicoanalitico dei bambini (1946); Normalità e patologia nell’età infantile (1965). Anna Freud si occupò di quell’istanza psichica che il padre aveva maggiormente trascurato, considerandone lo studio estremamente problematico: l’Io. Esso ha il compito di mediare le pulsioni e le fantasie inconsce dell’Es, da una parte con i limiti posti dal mondo esterno, e dall’altra con gli ideali, le regole e le leggi morali rappresentate dal Super-io. Per cercare di ordinare,

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armonizzare e far convivere tutte queste esigenze contrastanti, l’Io, che mira principalmente alla sopravvivenza, mette in atto i meccanismi di difesa. Data la sua enorme importanza nella vita del singolo individuo, l’Io necessita di una analisi dettagliata del proprio funzionamento; in questo modo, con Anna Freud, la psicoanalisi diventò analisi della personalità totale. Anna Freud fu molto piú cauta e prudente di quanto non fosse Melanie Klein riguardo le possibilità di applicare la terapia psicoanalitica ai bambini, ritenendo che la terapia analitica andasse applicata all’infanzia solo in casi di estrema gravità. Sul rapporto psicoanalisi-educazione Anna Freud affermò che la psicoanalisi offre i mezzi per criticare i metodi educativi contemporanei, e può ampliare le conoscenze psico-pedagogiche disponibili sull’individuo. Inoltre, essa permette di approfondire i rapporti tra bambini e adulti, in modo che la terapia possa riparare ai danni che spesso l’educazione provoca. Tramite una analisi dell’intera famiglia coinvolta nel rapporto educativo si cerca di guidare l’insieme delle relazioni affettive in direzione equilibrata e “sana”. In ogni caso, Anna Freud sottolineò che l’analisi dei bambini debba essere profondamente differente rispetto a quella classica degli adulti, perché nel rapporto terapeutico non è il bambino a decidere di curarsi; oltretutto il piú delle volte egli non è nemmeno consapevole di costituire un problema, non ha nessuna comprensione della malattia, e nemmeno il desiderio di curarsi e guarire (presupposti essenziali affinché qualsiasi terapia abbia effetto). Infine, ed è importantissimo per il successo della terapia psicoanalitica, egli non è in grado di attuare il transfert (problema riguardo al quale Anna Freud entrò in aperto conflitto con Melanie Klein). Anna Freud fu propensa a far trascorrere un periodo preliminare alla vera e propria analisi del bambino, durante il quale

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cercare di interpretare i suoi sogni con l’ausilio dei disegni e delle libere associazioni. Se necessario, arrivò a ipotizzare, come già accennato, una psicoanalisi dell’intera famiglia, terapia utile anche per i genitori. Per questo, Anna Freud si prodigò nel sensibilizzare i puericultori, gli insegnanti, i genitori, i medici, le infermiere, a cogliere i bisogni infantili prima che l’indifferenza degli adulti li trasformi in sintomi. Anna Freud si convinse che l’educazione debba stare a metà strada tra autorità e permissività: la migliore educazione è la minore educazione. Questo non elimina la necessità del processo educativo; l’educazione è anzi necessaria, perché se lasciato solo a se stesso il bambino rimarrebbe preda delle proprie pulsioni incontrollate, che creano angoscia; ma si deve, comunque, riconoscere la spontaneità dell’evoluzione psichica infantile. Ecco perchè è necessario educare il meno possibile, ma intervenire quando serve, facendo attenzione a non reprimere eccessivamente gli impulsi del bambino. Ciò di cui egli ha bisogno in età infantile è un aiuto nell’affrontare i suoi processi interni, e non di biasimo, di punizioni e di severità, che creano inibizioni e frustrazioni, aumentando ulteriormente il suo senso di isolamento e amarezza. Per educare in questa maniera, è importante conoscere le caratteristiche di Es, Io e Super-io, oltre ai tempi e ai modi attraverso i quali si afferma l’Io. Studiando l’evoluzione della struttura dinamica della psiche infantile, Anna Freud individuò tre tappe fondamentali: 1) infanzia (dalla nascita ai 5/6 anni); 2) latenza (dai 6 agli 11/12 anni); 3) pubertà (che sfocia nell’età adulta). Ogni età è caratterizzata da una diversa strutturazione interna della personalità: nella prima infanzia, all’inizio domina l’Es con le pulsioni istintive, poi sorge l’Io, che acquisterà sempre piú forza contrapponendosi all’Es come antagonista. In questo

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primo periodo, quando l’Io emerge e si sta strutturando, le sue funzioni essenziali sono l’esame della realtà, la memoria, le facoltà di sintesi e il controllo dell’emotività. Per lo studio dell’infanzia, specialmente in età pre-verbale, è essenziale l’osservazione diretta. In seguito si formerà il Super-io. Nel periodo di latenza l’Io riuscirà a dominare, creando un equilibrio che però verrà messo in crisi durante l’adolescenza, quando la ricca dinamica interiore si evolverà in un rapporto fluido e mutevole fra l’Io e l’Es. È importante che gli educatori siano accorti nel non cercare un precoce equilibrio psichico che anticipi i tempi naturali, perché questo bloccherebbe le dinamiche psichiche; è chiaro allora perché l’educazione debba porsi a metà strada fra autorità e permissività: spesso le pretese degli educatori sono eccessive, ma l’inibizione di certe espressioni pulsionali è necessaria affinché si diano al bambino i mezzi per interiorizzare le norme morali, trasformandole da imposizioni esterne in regole interne. Lo sviluppo dell’interazione tra Es, Io e Super-io e le loro reazioni agli influssi ambientali, la loro strutturazione e l’adattamento, seguono una linea evolutiva che va dalla totale dipendenza del figlio dalla madre, periodo caratterizzato dal narcisismo, alla costituzione di un rapporto con l’oggetto parziale (il seno materno), solo nel momento del bisogno, fino all’interiorizzazione dell’oggetto, il quale raggiunge cosí una esistenza psichica costante, per instaurare un rapporto con l’oggetto caratterizzato dall’ambivalenza pre-edipica (oggetto, cioè, amato e odiato allo stesso tempo); dopodiché, la teoria dello sviluppo psichico di Anna Freud segue quello del padre (fase fallica, periodo di latenza, pre-adolescenza, adolescenza ed età adulta). L’ideale educativo di Anna Freud è quello di realizzare uno sviluppo armonico tra mondo esterno e mondo interno, oltre a

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un equilibrio delle tre istanze psichiche, in cui l’Io è la zona di incontro tra questi vari aspetti. Si è già detto che l’Io controlla le pulsioni istintuali (sessuali e aggressive) dell’Es e organizza tutte le resistenze, opponendosi anche all’analisi terapeutica, attraverso i meccanismi di difesa; è importante però aggiungere che i meccanismi di difesa sono messi in moto da tre tipi di angosce che colpiscono l’Io di fronte: 1) alla morale (scontro con il Super-io); 2) alla realtà (conflitto con il mondo esterno); 3) alle pulsioni (lotta contro l’Es). I meccanismi di difesa servono appunto per tenere lontani dalla coscienza gli impulsi inconsci primitivi, incompatibili con la realtà, e pertanto inaccettabili; essi scattano in modo automatico, il piú delle volte in maniera inconsapevole e involontaria. Melanie Klein (1882-1960) apportò numerose, importanti e profonde modifiche alla terapia freudiana, contribuendo ad applicare la psicoanalisi all’educazione, assieme ad Anna Freud, con la quale entrò in profonda polemica. Nacque a Vienna, da una famiglia di ebrei; il padre, Moriz Reizes, era medico e morí quando Melanie aveva 18 anni. Tutta la sua esistenza fu tempestata di lutti (quando aveva 5 anni le morí una sorella, quando ne aveva 20 morí un fratello, successivamente uno dei tre figli); tutte queste esperienze luttuose contribuirono a formare in maniera indelebile il suo carattere spesso depresso e malinconico. Non poté laurearsi in medicina, come avrebbe desiderato. All’età di 21 anni si sposò con Stephen Klein; tra i frequenti spostamenti dovuti al lavoro del marito, nel 1910 ci fu il trasferimento a Budapest; qui Melanie Klein entrò in analisi con lo psicoanalista Sandor Ferenczi e iniziò ad analizzare a sua volta alcuni bambini, tra cui i suoi figli. Nel 1921, in seguito alla separazione dal marito, si trasferí a Berlino, dove lavorò con Karl Abraham, fino alla morte di que-

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sti avvenuta 9 mesi dopo (anche questo lutto la prostrò gravemente). Entrata in contrasto con i colleghi berlinesi riguardo le tecniche adottate (in particolar modo quella del gioco), nel 1926 si trasferí a Londra, dove si acuí il suo conflitto con Anna Freud circa gli aspetti clinici e teorici della psicoanalisi infantile (in particolare sul problema del transfert; Melanie Klein fu molto piú possibilista riguardo le opportunità di applicare la psicoanalisi all’infanzia, specialmente approfondendo l’aspetto fantastico, la produzione immaginaria della vita infantile e utilizzando il gioco come strumento diagnostico e terapeutico. Morí a Londra nel 1960, dopo una vita molto travagliata, piena di conflitti e scontri. Come ricorda la sua allieva e biografa Hanna Segal, Melanie fu una donna che suscitava forti emozioni, amore o odio e, nonostante i lutti continui e le crisi depressive che la coglievano, fu sempre piena di vitalità e di entusiasmo, e continuò a esser ricordata per la «sua esuberanza, la sua verve erotica e la sua forza persuasiva». Le sue opere principali sono: La psicoanalisi dei bambini (1932); Nuove vie della psicoanalisi (1933, con altri autori; di Melanie Klein è presente un importante articolo sul gioco); Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco depressivi (1935); Invidia e gratitudine (1957); Analisi di un bambino (1961, postuma); Il nostro mondo adulto (1963, postuma). Melanie Klein sostenne con forza la grande importanza della possibilità di applicare l’interpretazione psicoanalitica all’infanzia, approfondendo particolarmente gli aspetti fantastici e le produzioni immaginarie della vita infantile; per fare questo, ideò una metodologia basata sulla interpretazione del gioco (la “tecnica del gioco” corrisponde alle libere associazioni per l’analisi dell’adulto). Nel gioco il bambino esprime e manifesta spontaneamente tutta la sua vita inconscia. Attraverso di esso, l’Es scarica la

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propria tensione sulle cose, sugli oggetti, le persone, e si traduce in simboli, comportamenti e linguaggi interpretabili. Nel gioco si esprimono i desideri, le fantasie, le esperienze del bambino, perciò il rapporto terapeuta-bambino sarà mediato da materiale e attività ludico-creative: piccoli giocattoli, lavabo, bottigliette, bicchieri, cucchiai, giochi di ruolo (giocare al dottore e all’ammalato, a fare il genitore, ecc.), giochi con l’acqua, un elemento con un’alta simbologia inconscia, che richiama la condizione di pace, protezione, sicurezza e calore della vita intrauterina, e inoltre canto, disegno spontaneo, pittura. Quando il bambino gioca e finge di essere un adulto – specialmente se gioca separato e non visto dai genitori – è possibile cogliere la sua personalità, le sue ansie, le angosce, le invidie, i sensi di colpa, ed eventualmente le nascenti nevrosi e psicosi (per esempio può fantasticare, nel gioco o attraverso un disegno, di distruggere la mamma). Il gioco è agire, costruire, rompere, manipolare, imitare: è un linguaggio e, come tale, manifesta l’inconscio del bambino. La produzione immaginaria ha un aspetto cosciente e uno inconscio, che corrispondono ai contenuti manifesto e latente del sogno, e a significante e significato del linguaggio. Il compito della psicoanalisi infantile sarà, allora, quello di risalire dal contenuto cosciente a quello inconscio. Molti dei problemi che il bambino vive dipendono da un Super-io troppo esigente che, quindi, blocca le immagini arcaiche, le pulsioni inconsce del bambino. Melanie Klein si convinse che i contenuti fantastici (i “fantasmi”) compaiono già nel primo anno di vita, e cercò di studiare la formazione e la presenza dell’Io e degli aspetti pre-edipici fin dai primi mesi dell’esistenza dell’individuo. Secondo la psicoanalista, oltre l’Es, alla nascita esiste già un Io elementare, estremamente precoce,

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capace di provare angoscia, di mettere in atto meccanismi di difesa e stabilire primitivi rapporti con oggetti, sia nella realtà che nella fantasia, perciò viene presto a scontrarsi con le richieste del Super-Io. Come è evidente, questi elementi costituirono una rottura profonda con il padre della psicoanalisi e con ogni forma di terapia ortodossa. Il primo anno di vita del bambino è caratterizzato da due aspetti, due posizioni: la prima è detta schizoparanoide, e si manifesta durante i primi mesi di vita del bambino; la seconda è la posizione depressiva, ed è tipica dei mesi successivi. Le caratteristiche di entrambe le posizioni permarranno anche in futuro, e si evolveranno durante tutta la vita dell’individuo senza mai scomparire completamente, anche se si manifesteranno in maniera piú attenuata. Nella posizione schizoparanoide avviene una scissione nei confronti di un oggetto, che è visto a volte come buono e a volte come cattivo. Il primo conflitto vissuto dal bambino deriva dall’innata polarità e contrapposizione tra istinto di vita e istinto di morte (eros e thanatos). In questa fase il bambino vive chiuso in se stesso, percependo solo oggetti parziali come il seno materno, che è fonte di gratificazione quando nutre (pulsioni di vita) e fonte di frustrazione quando è assente (pulsioni di morte). Tutte le prime attività psichiche del bambino sono quasi allucinazioni in cui l’intero mondo è un agglomerato di oggetti parziali; queste allucinazioni sono connotate da sentimenti di amore e odio, di affetto e aggressività. È importante, a questo punto, vedere come Melanie Klein inserí i concetti di invidia e gratitudine all’interno di questo discorso. L’invidia non deve essere confusa con la gelosia; quest’ultima, infatti, compare successivamente, si fonda sull’amore e tende al possesso dell’amato e alla eliminazione del rivale;

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fa parte quindi di un momento della vita in cui gli oggetti sono riconosciuti come autonomi, e prevede sempre un rapporto di tre elementi; l’invidia, diversamente, è una relazione a due, che investe un oggetto o una persona per qualche sua qualità posseduta; è sperimentata fin dall’inizio della vita, su oggetti parziali (primo fra tutti il seno, e dato che investe l’oggetto che è fonte di vita, l’invidia viene ad essere la prima precoce espressione dell’istinto di morte). All’invidia si contrappone la gratitudine nei confronti dell’oggetto, per ciò che questo offre al bambino. L’oggetto ideale diventa cosí una parte dell’Io e ne accresce la capacità d’amore. Le energie non sono piú riversate verso l’esterno; in questo modo si rafforza l’Io e il mondo apparirà meno pauroso. Il bambino nasce con un profondo istinto di sopravvivenza, che gli fa percepire il mondo esterno come pauroso; se viene gratificato, riceve l’amore, le attenzioni materne, soddisfa i propri bisogni, allora avrà meno paura del mondo esterno. I bisogni primari del bambino sono avvertiti come stimoli spiacevoli, che producono ansia e fanno scattare dei meccanismi di difesa; al riguardo, Melanie Klein elaborò il concetto di identificazione proiettiva, un meccanismo psichico attraverso cui si scinde l’Io e si proiettano parti di sé dentro un’altra persona. Questo meccanismo è accompagnato dall’introiezione dell’altro, una configurazione che è il prototipo del rapporto oggettuale primitivo dal punto di vista aggressivo e libidico. Il passaggio dall’oggetto parziale all’oggetto intero, che avviene verso i sei mesi, segna il superamento della posizione schizoparanoide e l’inizio di quella depressiva, nella quale il bambino impara a dominare le proprie angosce. Nella posizione depressiva gli oggetti, compresa la madre, non sono piú visti come parti disgregate (seno, occhi, bocca, mani), ma come un oggetto intero, che può essere presente o

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assente, buono o cattivo, amato e odiato. La madre cosí unificata è un oggetto ambivalente, visto a volte come buono, altre volte come cattivo: il bambino scopre che la madre non esiste solo in funzione dei suoi bisogni, ma ha una vita autonoma e relazioni diverse, tra cui essenziale è quella col padre. Il bambino teme di perdere la madre, si sente impotente a trattenerla e, nello stesso tempo, si riconosce totalmente dipendente da lei per la sopravvivenza; dipendenza e impotenza provocano depressione. A differenza di Sigmund Freud, Melanie Klein non ritenne che il conflitto edipico insorga nel corso della fase fallica: la sua concezione dei “fantasmi” inconsci che preesistono a qualsiasi esperienza rende inutile chiedersi quando avviene l’inizio di determinate situazioni (le varie fasi sessuali), che sono, invece, coestese alla vita stessa.

Bibliografia essenziale. Opere di Freud: Opere, trad. it. 12 voll., Boringhieri, Torino 1967, 1989; Epistolari, trad. it. 5 voll., Boringhieri, Torino 1960, 1990. Letteratura critica: E. JONES, Vita di Freud [1953], trad. it. il Saggiatore, Milano 1977; P. RICOEUR, Dell’interpretazione. Saggio su Freud [1965], trad. it. il Saggiatore, Milano 1966; D. STAFFORD-CLARK, Che cosa ha “veramente” detto Freud [1965], trad. it. Astrolabio-Ubaldini, Roma 1967; O MANNONI, Freud [1968], trad. it. Laterza, Roma-Bari 1970, 1982; C. MUSATTI (a cura di), Freud, Boringhieri, Torino 1970; R. WOLLHEIM, Guida a Freud [1971], trad. it. Rizzoli (BUR), Milano 1977; P. ROAZEN, Freud e i suoi seguaci [1975], trad. it. Einaudi, Torino 1998; G. JERVIS, G. BARTOLOMEI, Freud, Carocci, Roma 1996; V. CAPPELLETTI, Introduzione a Freud, Laterza, Roma-Bari 1997; G. RICCI, Sigmund Freud, Bruno Mondadori, Milano 1998. Opere di Anna Freud:

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L’io e i meccanismi di difesa, trad. it. Martinelli, Firenze 1967 Conferenze per insegnanti e genitori, trad. it. Boringhieri, Torino 1982 Letteratura critica: E. YOUNG-BRUEHL, Anna Freud. Una biografia, Bompiani, Milano 1983 Opere di Melanie Klein: Invidia e gratitudine, trad. it. Martinelli, Firenze 1969 La psicoanalisi dei bambini, trad. it. Martinelli, Firenze 1988 La tecnica psicoanalitica del gioco, in AA.VV., Nuove vie della psicoanalisi, Saggiatore, Milano 1966 Letteratura critica: A. VOLTOLIN, Melanie Klein, Bruno Mondadori, Milano 2003 H. SEGAL, Melanie Klein, Boringhieri, Torino 1981 Letteratura critica su psicoanalisi ed educazione: S. VEGETTI FINZI, M. CATENAZZI, Psicoanalisi ed educazione sessuale, Laterza, Roma-Bari 1994 S. VEGETTI FINZI (a cura di), Psicoanalisi al femminile, Laterza, RomaBari 1992 C. FISCHETTI, La psicoanalisi infantile, Newton Compton, Roma 1996 Letteratura critica sui meccanismi di difesa e sintomi nevrotici e psicotici: J. LAPLANCHE, J.-B. PONTALIS, Enciclopedia della psicoanalisi, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1968; R.B. WHITE, R.M. GILLILAND, I meccanismi di difesa, trad. it. Astrolabio-Ubaldini, Roma 1977; H.W. LOEWALD, La sublimazione, trad. it. Boringhieri, Torino 1992; V. LINGIARDI, F. MADEDDU, I meccanismi di difesa, Cortina, Milano 1994.

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35 Le idee pedagogiche di Jean Piaget

Dati sulla vita e sulle opere di Piaget Jean Piaget (1896-1980) nacque a Neuchâtel, nella Svizzera francese, dove si laureò in Biologia nel 1918 con una tesi in zoologia. Studiò anche parecchi filosofi quali Kant, Bergson, Spencer, Comte, Durkheim, William James, ma sentí l’esigenza di realizzare una ricerca piú concreta e sperimentale di quella che i filosofi offrivano. Per questo si indirizzò verso la psicologia sperimentale, lavorando alla Sorbona di Parigi. Furono importanti l’incontro con Théodore Simon che gli consigliò di standardizzare i test di ragionamento di Binet, e l’offerta, del 1921, che gli fece Edouard Claparède, di entrare all’Istituto “Jean-Jacques Rousseau” di Ginevra. Insegnò presso le Università di Neuchâtel, Ginevra, Losanna e della Sorbona. Nel 1955, grazie alle sovvenzioni della fondazione Rockefeller, istituí a Ginevra il “Centre International de Epistemologie Génétique”, punto d’incontro interdisciplinare per filosofi e psicologi. Fu autore di un numero enorme di opere (circa un migliaio fra libri e articoli) su svariati argomenti (dalla biologia alla filosofia, dalla psicologia alla logica, dalla sociologia all’educazione). Divenne famoso anche negli Stati Uniti solo verso la fine degli anni Cinquanta, quando l’ambiente psicologico vide decadere pian piano il predominio che il comportamenti-

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smo aveva avuto per piú di 30 anni, lasciando spazio alle nuove ricerche di psicologia cognitivista che con Jerome Bruner e numerosi altri studiosi ripresero e criticarono le concezioni di Piaget e del sovietico Lev Vygotskij, e quando Flavell scrisse un’opera in inglese che compendiò tutto il pensiero di Piaget (La mente dalla nascita all’adolescenza nel pensiero di Jean Piaget, 1963). Piaget impostò la sua teoria sullo sviluppo cognitivo del bambino negli anni Venti-Trenta, osservando e studiando soprattutto i suoi figli. Queste ricerche portarono alla pubblicazione di 5 libri: Il linguaggio e il pensiero del fanciullo (1923), Giudizio e ragionamento nel bambino (1924), La rappresentazione del mondo nel fanciullo (1926), La causalità fisica nel bambino (1927), Il giudizio morale nel fanciullo (1932). Oltre a queste opere, sulla teoria dello sviluppo cognitivo pubblicò anche La nascita dell’intelligenza nel fanciullo (1936), La costruzione del reale nel bambino (1937), La formazione del simbolo nel bambino (1945). Questa teorizzazione venne riassunta in maniera chiara e sintetica nello scritto, del 1964, Lo sviluppo mentale del bambino e nel libretto, scritto in collaborazione con la sua piú fedele assistente, Barbel Inhelder, La psicologia del bambino (1966). Piaget riprese i principali concetti elaborati, in modo da ampliarli e modificarli nelle opere successive e, soprattutto, applicarli a vari campi della ricerca: la memoria, la percezione, le quantità, il numero, il movimento, la velocità, il tempo e lo spazio. Si possono infine ricordare le opere di carattere epistemologico, quali Biologia e conoscenza (1967) e L’epistemologia genetica (1970). Premesse sull’Epistemologia Genetica La premessa al carattere evolutivo della ricerca piagetiana è la specificità, la differenza, fra il pensiero del bambino e quello

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dell’adulto. Piaget studiò la genesi e lo sviluppo delle forme di conoscenza del bambino. Diede vita all’epistemologia genetica, disciplina che studia lo sviluppo della conoscenza e dell’intelligenza come costruzione attiva dell’individuo; “epistemologia” indica teoria della conoscenza, studio dei metodi e delle forme attraverso cui gli individui conoscono; “genetica” (non nel senso di “innato” o geneticamente determinato) indica, non tanto l’origine, quanto lo sviluppo delle conoscenze e dell’intelligenza; l’epistemologia genetica studia, dunque, le origini della conoscenza, i meccanismi psicologici che consentono la sua realizzazione e le varie tappe dello sviluppo dell’organizzazione psicologia da forme di equilibrio meno evolute a quelle piú evolute. Con le parole di Piaget: «L’epistemologia genetica si occupa della formazione e del significato della conoscenza e dei mezzi attraverso i quali la mente umana passa da un livello di conoscenza inferiore a uno giudicato superiore.» Piaget elaborò una grande costruzione teorica dello sviluppo dell’intelligenza dalla nascita all’età adulta, che venne man mano verificata, confermata e modificata dalle ricerche sperimentali dello studioso svizzero. Nella ricerca di Piaget si vennero a fondere assieme le esigenze sistematiche, filosofiche e quelle concrete dello psicologo scientifico. Infatti Piaget, a una giovanile formazione scientifica di Biologo, aggiunse grandi interessi filosofici, per passare a elaborare il piú importante modello di psicologia dello sviluppo cognitivo del Novecento. Agli importanti studi biologici, filosofici e psicologici, Piaget aggiunse anche interessi sulla logica, sulla società e sull’educazione. Impostazione della teoria evolutiva di Piaget Secondo Piaget sussiste una continuità fra biologico e mentale. Il soggetto non risponde passivamente agli stimoli esterni e nemmeno è il veicolo di idee innate. Piaget si allontananò e

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cercò di superare la classica contrapposizione fra innatismo e ambientalismo: l’individuo è sempre attivo nei confronti dell’ambiente e nel processo di conoscenza del mondo esterno. Piaget insistette sull’attività organizzatrice dell’individuo e sull’intelligenza intesa come costruzione (da qui la definizione di costruttivismo data alla sua teoria). La conoscenza non è uno stato, ma un processo, un evento, una relazione fra conoscente e conosciuto (vi è un’interazione costante fra colui che conosce e il mondo esterno); la persona “costruisce” la sua conoscenza, in quanto prende parte attiva e dà forma al processo di conoscenza. La conoscenza che il bambino ha del mondo cambia con lo sviluppo del suo sistema cognitivo. Piaget studiò l’origine e lo sviluppo dell’intelligenza e sostenne che l’intelligenza è la migliore capacità di adattarsi attivamente all’ambiente: intelligente è quel comportamento che è appropriato alle richieste dell’ambiente. Il rapporto fra uomo e ambiente si realizza attraverso uno sviluppo per gradi, che è un equilibramento progressivo, un passaggio cioè da una condizione di equilibrio precario, attraverso la rottura di questo equilibrio, a un equilibiro superiore. In questo processo di crescita, costruzione e sviluppo ci sono varie funzioni, gli invarianti funzionali, cioè quegli aspetti che nell’evoluzione continuano a funzionare; sono modalità di funzionamento generale che governano tutte le azioni della persona dalle piú concrete azioni all’intelligenza piú astratta. I piú importanti invarianti funzionali sono l’organizzazione e l’adattamento, il quale si scinde in assimilazione e accomodamento. L’organizzazione indica il fatto che il pensiero tende a essere costituito di sistemi o strutture, le cui parti sono integrate in modo da formare un insieme; cosí come, per esempio, i sistemi corporei, digestivo, circolatorio, nervoso. Le strutture sono le

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forme che assume l’organizzazione interna. Fin dalla nascita e in ogni momento dello sviluppo l’organismo possiede una organizzazione e tende a migliorarla sempre piú per avere un equilibrio maggiore. Esiste quindi un insieme di strutture o sistemi interni che costituiscono il substrato del comportamento e che consentono all’individuo di comprendere la realtà e attribuire significato all’esperienza. Le strutture sono totalità in cui il tutto è piú della somma delle parti e in cui ogni elemento agisce in relazione agli altri e in funzione delle leggi che ne regolano l’interazione. Con lo sviluppo cambia la natura delle strutture mentali, perciò oltre alle relazioni fra il tutto e le parti sono importanti anche quelle fra uno stato precedente e uno seguente. Le strutture cognitive del bambino piccolo sono chiamate schemi, e precisamente schemi di azione, limitati alla percezione sensibile e alla motricità (da qui la denominazione di stadio senso-motorio per il primo periodo della vita del bambino). Gli schemi sono le unità piú elementari della conoscenza e il loro sviluppo avviene attraverso l’interazione con l’ambiente. Gli schemi di azione sono programmi motori che permettono la manifestazione delle azioni. Lo schema d’azione è un modo particolare di comportamento (i primi schemi di azione sono i riflessi, come la prensione, la suzione, il rooting, la visione di un oggetto in movimento, il moro, la marcia automatica, il pianto, il sorriso, ecc…) Lo schema è una totalità organizzata che nell’interazione con l’ambiente e nello sviluppo si viene a generalizzare e a coordinare con altri schemi d’azione per costruire strutture piú complesse (ad esempio lo schema suzione, inizialmente manifestato a vuoto, viene poi a coordinarsi con gli schemi visione, motricità e prensione, per guardare un oggetto in movimento, allungare il braccio, prenderlo e portarlo alla bocca per succhiarlo). Solo quando gli schemi di azione diventano schemi mentali e questi si organizzano in unità piú

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ampie si può parlare di vera struttura mentale (processo che avviene nei primi 7-8 anni di vita del bambino). L’organizzazione è inseparabile dall’adattamento: organizzazione e adattamento sono i due aspetti complementari di un meccanismo unico; il primo è l’aspetto interno del ciclo, di cui l’adattamento costituisce l’aspetto esterno. Nello sviluppo mentale le strutture interne si modificano di continuo attraverso gli scambi fra soggetto e ambiente e l’adattamento che si verifica. L’adattamento implica, si scinde e si realizza in due processi contemporanei e complementari: assimilazione e accomodamento. Vi è uno scambio continuo di adattamento attivo all’ambiente, che costituisce l’evoluzione dell’intelligenza. L’uomo conosce per assimilazione dell’ambiente, ma raramente questa assimilazione è totale, si verifica spesso una “resistenza” dell’oggetto, che porta all’accomodamento del soggetto all’ambiente. L’assimilazione indica la tendenza a incorporare ogni dato nuovo, un elemento esterno, all’interno degli schemi (o strutture) che l’individuo possiede e che non vengono quindi modificati dall’incontro con stimoli nuovi. L’assimilazione è un processo di adegamento alla realtà. L’accomodamento è invece il processo inverso, per cui lo schema o la struttura si modifica per accogliere i nuovi oggetti di esperienza, in funzione delle sue caratteristiche. Le strutture si adeguano alla novità. L’individuo si sviluppa attraverso un continuo scambio con l’ambiente: assimila oggetti ed esperienze nei suoi schemi mentali fino a che questi non sono adeguati a contenerli, poi adatta le proprie strutture alle nuove esperienze, creando cosí sempre nuovi equilibri tra assimilazione e accomodamento. Questo adattamento attivo e continuo all’ambiente costituisce l’intelligenza; l’intelligenza è la forma piú alta di adattamento, in cui

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assimilazione e accomodamento raggiungono l’equilirbio migliore. Ci sono momenti in cui prevale l’accomodamento come nell’imitazione (si arricchisce di schemi già preparati da altri e accomoda i propri per compiere le azioni che vuole imitare), e momenti in cui prevale invece l’assimilazione, come nel gioco (assicura il consolidamento degli schemi e gratifica il bambino con l’esercizio di attività; il bambino cioè ripete una azione imparata per assimilarla meglio). Bisogna notare, però, che in ogni momento dello sviluppo assimilazione e accomodamento interagiscono sempre assieme e nello stesso tempo, senza che nessuno dei due venga totalmente annullato. In Piaget è costantemente riaffermato il primato dello sviluppo sull’apprendimento. L’apprendimento non può di per sé creare una struttura logica, può solo anticiparne i tempi, a condizione però che lo sviluppo sia giunto a maturazione sufficiente per realizzare quella struttura. Per Piaget, l’apprendimento è una complessa attività di rielaborazione mentale permessa da un incremento di maturità, innescato dalla rottura di un equilibrio a cui si sostituisce un nuovo equilibrio piú alto ed evoluto: esplorazione, manipolazione e rielaborazione, non solo ricezione di stimoli ed eventi. Tutto questo processo evolutivo di costruzione dell’intelligenza si sviluppa attraverso fasi o stadi di equilibrio temporaneo, verso forme sempre piú evolute. Piaget individuò 4 periodi, fasi o stadi dell’evoluzione cognitiva (bisogna notare che a volte Piaget in alcune opere raggruppò il secondo e il terzo periodo in un unico periodo piú ampio, per cui parlò di 3 periodi invece di 4); all’interno di ogni periodo o stadio si possono indicare altri sotto-stadi. Uno stadio, per Piaget, è un periodo di tempo in cui il pensiero e il comportamento del bambino in una varietà di situazioni riflettono

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un tipo particolare di struttura mentale. Lo sviluppo è, cosí, sia un processo continuo sia discontinuo, nei passaggi fra l’organizzazione strutturale di uno stadio e quella successiva qualitativamente diversa. Le età di passaggio da una fase all’altra non sono cronologicamente rigide, ma delle medie; ciò che è rigido è l’ordine di successione delle fasi. Per esempio, può verificarsi che alcune caratteristiche del terzo stadio, invece di manifestarsi a 7 anni, comincino a 6, ma non si realizzeranno mai prima degli aspetti caratteristici del secondo stadio. L’ordine di successione, in altre parole, è costante e le strutture caratteristiche di ogni stadio presuppongono le strutture dello stadio precedente e sono la necessaria premessa di quelle che appariranno nella fase successiva. Ogni stadio incorpora e trasforma il precedente secondo un ordine invariante e senza che si possa saltare nessuno stadio. Gli stadi sono universali e valgono quindi per tutti, di conseguenza i fattori sociali e culturali non possono determinare un ordine differente, ma possono tutt’al piú influire sulla collocazione cronologica delle varie fasi (problema dei decalagès). Nelle sue ricerche sperimentali Piaget ha fatto uso di vari metodi di ricerca psicologici, soprattutto l’osservazione (senza interferire nell’azione del bambino), e il metodo del colloquio clinico (realizzato ponendo una domanda e proseguendo sulla base delle risposte date dal bambino alla risposta precedente). Periodi evolutivi I periodo (0/2 anni-18/20 mesi), stadio senso-motorio (o sensorio-motorio): il bambino nasce dotato di pochi schemi innati (i riflessi: cioè reazioni innati come: succhiare, afferrare con le mani, guardare un oggetto in movimento, fonazione, audizione), che gli permettono di effettuare le prime esperienze. Inizialmente il bambino esercita e consolida i propri riflessi

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e poi li applica in situazioni sempre piú numerose. I riflessi primitivi del bambino si trasformano in schemi senso-motori (la prima forma di adattamento). In questo periodo il bambino è assolutamente egocentrico (egocentrismo radicale o adualismo: non distingue il mondo esterno da se stesso): inizialmente il bambino non riconosce che il braccio che muove è il suo (collega la cosa verso i 4-5 mesi); questa coordinazione gli permette di farsi, attorno ai 6 mesi, un’idea di sé in quanto entità separata dalle altre; poi scopre che gli oggetti hanno una esistenza autonoma e persistente, indipendentemente dal fatto che egli li percepisca (fino a 8 mesi il bambino perde interesse per un oggetto che viene nascosto, poi, fra gli 8 e 12 mesi, lo va a cercare là dove era stato nascosto); arriva a finalizzare un’azione all’ottenimento di una mèta. È il periodo delle reazioni circolari (ripetizione di un’azione prodotta inizialmente per caso, poi eseguita per interesse, cosí da consolidarla e perfezionarla, in modo da diventare uno schema ripetibile a piacere in altre circostanze). Alla fine è superato completamente l’egocentrismo assoluto e riconosce la permanenza dell’oggetto indipendente da sé. Piú in dettaglio lo stadio senso-motorio si divide in 6 sottostadi. 1) Dalla nascita fino ai 2 mesi: con la riproduzione, tramite l’esercizio riflesso, si consolidano (assimilazione riproduttiva o funzionale) gli schemi innati (succhiare, afferrare, vocalizzare, ecc.) e si generalizzano (assimilazione generalizzatrice: per esempio, prima il lattante succhia a vuoto poi succhia tutto ciò che gli capita, cioè generalizza uno schema a vari oggetti). Attraverso la suzione, il neonato, comincia a coordinare braccio-mano-bocca, costruendo uno schema senso-motorio. Manca la differenziazione tra esterno e interno (adualismo iniziale), non differenzia tra se stesso e il mondo circostante (egocentri-

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smo assoluto che continua per tutto lo stadio successivo). In questo sotto-stadio non si osservano né gioco, né imitazione. Sviluppo del linguaggio: nel pianto e non solo, si manifestano i primi vocalizzi, suoni prolungati vocalici (ahaaaa) o consonantici (ccchhhhh). 2) 2-4 mesi: è il momento delle reazioni circolari primarie (ripetizioni di un’azione che riguarda il suo corpo, prima effettuata per caso, poi ripetuta per piacere o interesse; per esempio, far schioccare la lingua, toccare parte del suo corpo, ecc.): acquisisce nuovi schemi d’azione (le prime abitudini) e comincia a coordinarli tra loro (per esempio, coordina visione e prensione: guarda le sue mani mentre afferrano qualcosa; oppure unisce allo schema della suzione un oggetto esterno, il suo dito pollice). L’oggetto costituisce ancora un prolungamento dell’azione (per fare venire la madre, per esempio, guarda nella direzione dove prima era scomparsa). La ripetizione effettuata per puro piacere delle reazioni circolari è la prima forma di gioco; inizia a imitare, ma solo ciò che è parte dei suoi schemi riflessi (non può imitare le parti del corpo che non può vedere). Sviluppo del linguaggio: i vocalizzi sono caratterizzati come nel sotto-stadio 1. 3) 4-8 mesi: è caratterizzato dalle reazioni circolari secondarie (ripetizione di un’azione rivolta agli effetti sul mondo circostante; se per caso tira con le mani un cordone sopra la sua culla che provoca il movimento di un sonaglio, poi ripete il movimento per riprodurre il suono); c’è interesse per la realtà. L’intenzionalità però è solo operatoria (ripete l’azione, ma non capisce il meccanismo di funzionamento, non si fa un’immagine mentale). Il bambino agisce sugli oggetti e produce degli effetti, ma non sa perché, inizia comunque ad esplorare la realtà. L’oggetto inizia ad avere una sua realtà autonoma, indipendentemente dalla sua attività percettiva o motoria. Però se gli si

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nasconde sotto una coperta il gioco a cui poco prima era interessato, non riesce a recuperarlo e si comporta come se non esistesse piú. Il gioco e l’imitazione sono come nel sotto-stadio 2. Sviluppo del linguaggio: a 5-6 mesi si osservano i primi balbettíi, sillabe e sequenze di sillabe (popopopopo, mamamama) da non confondere con prime parole; essi hanno origine innata, poiché si verificano anche nei bambini sordi fin dalla nascita. 4) 8-12 mesi: il bambino sa coordinare una sequenza di schemi d’azione, differenziando tra mezzi e scopi (il bambino, per esempio, cerca di eliminare gli ostacoli-mezzi, utilizzando gli schemi d’azione noti, come battere, tirare, prendere, per raggiungere uno scopo, come trovare un oggetto nascosto dietro o sotto questi ostacoli). Compare cosí l’intelligenza senso-motoria proprio perché appare una differenziazione tra mezzi e fini. Mostra di attribuire un’esistenza indipente dalla propria percezione agli oggetti, vuole raggiungere uno scopo per il quale non dispone però di uno schema appropriato. Per la formazione della nozione di oggetto, limita la propria ricerca al luogo dove ha visto sparire l’oggetto, se lo si nasconde una seconda volta in un altro luogo, il bambino non è piú in grado di ritrovarlo e lo cercherà dove era stato nascosto la prima volta (è celebre al riguardo l’esperimento effettuato da Piaget con la figlia Giacomina). Inizia a imitare anche movimenti a lui invisibili (riesce ad aprire e chiudere gli occhi, tirare fuori la lingua). Nel gioco inizia a ritualizzare alcuni schemi (sequenza di gesti: è un primo inizio di gioco di finzione). Sviluppo del linguaggio: alla fine del primo anno il bambino imita i suoni: è il cosiddetto gergo espressivo (intonazione e ritmo). 5) 12-18 mesi: reazioni circolari terziarie (ripetizione di azioni, variandole per trovare nuovi mezzi di azione intenzionale sul mondo circostante: il bambino cerca di applicare ai nuovi oggetti tutte le azioni che sa eseguire; cosí scopre nuove rela-

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zioni, per esempio che un oggetto può spingere, trainare, tirare un altro oggetto; oppure fa scivolare, girare una catena secondo traiettorie differenti). Sperimenta attivamente, inventando mezzi nuovi e costruendo schemi nuovi che applica a una varietà di situazioni. È completamente cosciente della sostanzialità e permanenza degli oggetti. Cerca l’oggetto nel posto dove è stato nascosto e segue i vari spostamenti da un nascondiglio all’altro e lo cerca nell’ultimo luogo, ma non lo ritrova se è stato nascosto in posti invisibili (per esempio, se una pallina è tenuta chiusa nel pugno, e poi viene fatta scivolare sotto il cuscino, il bambino non è piú in grado di ritrovarla). Imita azioni per lui nuove, anche di parti del corpo che egli non può vedere, mettere la mano sulla fronte, toccarsi la lingua, fare “marameo”). Sviluppo del linguaggio: a 15 mesi circa emette le prime parole; i suoni accompagnano le azioni (dice “ciao” muovendo insieme la mano): di solito si tratta di nomi di oggetti che egli può manipolare; usa un linguaggio olofrastico (con una parola intende esprimere una frase intera, per esempio dice “pappa” per intendere “voglio ancora della pappa”). 6) Dopo i 18 mesi, fino ai 24 mesi: può agire sulla realtà con il pensiero; si basa sull’invenzione e non piú sulla scoperta. Il bambino utilizza gli schemi precedenti in modo simbolico (immagina l’effetto dell’azione, senza bisogno di prove). Ha totalmente costruito la nozione di oggetto permanente, infatti sa cercare oggetti nascosti in posti non visti (per esempio la pallina fatta scivolare nella manica). Le azioni sono ora interiorizzate. Il bambino è in grado di anticipare mentalmente l’effetto delle azioni, il che indica la comparsa della rappresentazione. Oltre alla nozione di oggetto, costruisce anche le nozioni di causa, spazio, tempo, che gli consentono di agire su oggetti in un ambiente obiettivo. Inizia a usare il linguaggio per descrivere cose non presenti o raccontare ciò che ha visto o fatto tempo

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prima e non solo per descrivere le azioni che sta compiendo. È capace di giochi simbolici (fingere di mangiare, di bere, di dormire): il bambino può fingere (usare un oggetto come se fosse un altro). L’imitazione si estende ai movimenti di oggetti e può imitare un’azione a distanza di tempo (imitazione differita). Sviluppo del linguaggio: dopo i 18 mesi, per mezzo della funzione simbolica (o semiotica), il bambino inizia a formare delle frasi e si ha cosí il linguaggio vero e proprio (il linguaggio referenziale con il quale usa le parole come referenti di qualcosa che non è presente; parla di cose che sono altrove, o eventi passati, o situazioni fittizie). II periodo (2-7 anni) stadio pre-oeratorio: è caratterizzato dall’inizio dell’attività simbolica, rivelata dal linguaggio verbale, dall’imitazione differita e dal gioco simbolico. Il bambino riesce a rappresentarsi un’azione con il pensiero, ma non è in grado di compiere operazioni con il pensiero, cioè di modificare tramite il pensiero i dati percettivi di un’attività motoria. Fino a 7 anni, il pensiero del bambino è caratterizzato dall’egocentrismo del pensiero (o intellettuale), cioè dall’incapacità di concepire punti di vista differenti dai suoi. Fra le varie operazioni, una di quella che piú di tutti mostra in maniera evidente l’uscita dall’egocentrismo è quella che riguarda lo spazio geometrico. Infatti, attraverso un celebre esperimento effettuato con un plastico costituito da tre monti, uno grande che sormonta e copre la visuale di altri due piú piccoli, Piaget evidenziò l’incapacità del bambino dello stadio pre-operatorio, dominato dalla percezione, di cambiare prospettiva e comprendere che altre persone possono avere punti di vista differenti. Solo grazie all’uscita dall’egocentrismo del pensiero e la conquista delle operazioni reversibili, egli riesce a coordinare i diversi punti di vista e costruire dei rapporti proiettivi, comprendendo che a

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ogni posizione dell’osservatore corrisponde un certo sistema di relazioni e una diversa prospettiva. Il pensiero del bambino è di tipo magico. È caratterizzato da animismo, artificialismo e finalismo. Con l’animismo egli attribuisce vita a ogni oggetto. Il bambino non distingue le cose animate da quelle inanimate, per esempio si arrabbia con la finestra, con la sedia o con qualsiasi oggetto, perché “l’ha fatto apposta a sbattergli contro e a fargli male”, oppure considera i movimenti degli astri, delle nuvole, del vento come fossero guidati da scelte volontarie compiute dagli oggetti stessi dotati di intenzionalità che si muovono verso le loro mète: «Le nuvole sanno quindi di avanzare, perché portano la pioggia e soprattutto la notte, la quale è una grande nuvole nera che copre il cielo quando è ora di dormire. Piú tardi solo il movimento spontaneo è dotato di coscienza. Per esempio le nuvole non sono piú consapevoli «perché non è una persona», ma «sa di soffiare, perché è lui che soffia»! Gli astri sono particolarmente intelligenti: la luna ci segue nelle passeggiate e torna indietro quando noi invertiamo il cammino» L’artificialismo indica la convinzione che le cose siano state costruite dall’uomo o da una attività divina che operi secondo le regole della costruzione umana. Il bambino non distingue gli oggetti naturali da quelli creati dall’uomo. Egli pensa, per esempio, che i fiumi, i laghi e il mare possano essere stati scavati dall’uomo o da un essere supremo (un grande uomo, un Signore potente, o dai primi uomini) che vi hanno versato l’acqua: «gli uomini hanno scavato il lago, vi hanno messo dentro l’acqua e tutta quest’acqua viene dalle fontane e dai tubi.» Tutto è stato “costruito”: «le montagne «crescono» perché hanno piantato delle pietre, dopo averle fatte; i laghi sono stati scavati, e ancora per molto tempo il bambino immagina che le città siano esistite prima dei laghi».

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Con il finalismo egli ritiene che tutti i fenomeni abbiano uno scopo e che la loro ragione consista nell’uso che il bambino vuole farne; per esempio, il sole illumina per fare luce agli uomini, oppure la pallina rotola in una discesa per andare verso il bambino che desidera giocare. «Perché rotola?» chiede, per esempio, il bambino di sei anni alla persona che si occupa di lui, indicando una biglia che, su di una terrazza leggermente inclinata, si dirige verso la persona che sta all’estremità della pendenza; gli si risponde allora: «Perché è in discesa», cioè con una risposta soltanto causale, ma il bambino, non soddisfatto da questa spiegazione, aggiunge una seconda domanda: «Ma la biglia sa che tu sei lí?». Gli eventi non sono fortuiti o casuali, tutta la realtà, secondo il bambino, è creata su misura per gli uomini e, soprattutto, per i bambini; anzi, principalmente per se stesso, bambino: crede che ogni oggetto, compresi i corpi naturali, sia come fatti per…, secondo la formula sintetica dello stile infantile. Il sole, il lago, o la montagna, è ritenuto «fatto per» scaldare, per andare in battello, o per salirvi; ciò vuol dire che esso è concepito come fatto per l’uomo e, di conseguenza, legato strettamente all’uomo. Un altro esempio chiarisce ancor meglio il significato e la caratteristica del pensiero finalista, nel suo inscindibile legame con l’egocentrismo: un bambino si chiede perché sopra Ginevra vi siano due monti Salève, mentre non ci sono due monti Cervino sopra Zermatt. La risposta, per il bambino, non presenta nessuna difficoltà: «c’è un grande Salève per le lunghe gite e le persone grandi, e un piccolo Salève per le piccole passeggiate e i bambini. […] In altri termini, nella natura non esiste il caso, perché tutto è «fatto per» gli uomini e i bambini, secondo un saggio piano prestabilito di cui l’essere umano è il centro» Animismo, artificialismo e finalismo, sono caratteristiche indissociabili e perfettamente compatibili fra loro, per la mente

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intuitiva ed egocentrica del fanciullo. Il bambino non segue i princípi di causa-effetto e non agisce secondo gli schemi della logica. Il bambino non è in grado di realizzare seriazioni e classificazioni: per esempio, se si danno al bambino tre bastoncini, A, B, C, a coppie A-B e B-C, egli vede che A è piú lungo di B e che B è piú lungo di C, ma non riesce a dedurre che A è piú lungo di C, se non li confronta direttamente; oppure – per riportare un altro esempio – egli non è in grado di comprendere che la stessa quantità di liquido rimane uguale, se versato in recipienti di diverse dimensioni; oppure, ancora, non comprende che la quantità di sostanza di una pallina di creta rimane la stessa se viene schiacciata. Il dominio della percezione impedisce l’impiego della logica, cosí che il bambino supplisce a questa carenza con la sola intuizione: appunto per questo si tratta di un pensiero pre-logico o intuitivo. Il pensiero del bambino, quindi, non è in grado di compiere una seriazione (come nemmeno una classificazione), poiché il suo pensiero è irreversibile, fintanto che rimane dominato dall’intuizione. L’intuizione corrisponde a una irreversibilità degli eventi; la seriazione è, invece, la capacità di costruire un processo reversibile, in contrasto con il corso della realtà, che è irreversibile. Tra l’intuizione percettiva, immediata, e il ragionamento operatorio, vi sono vari livelli intermedi attraverso i quali il bambino giunge dall’una all’altro in maniera graduale. III periodo (7-11 anni) stadio delle operazioni concrete: conquista la capacità di compiere operazioni mentali (o intellettuali) sugli oggetti, ma solo con un riferimento concreto a oggetti materiali e ad azioni reali. Questo è lo stadio delle vere e proprie strutture intellettuali: le azioni interiorizzate si coordinano e si raggruppano per dar

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luogo a delle strutture di insieme, appunto le operazioni intellettuali. Le operazioni sono caratterizzate dalla reversibilità. La reversibilità del pensiero caratterizza la novità rispetto allo stadio precedente; la reversibilità permette di ritornare, mentalmente, al punto di partenza: ogni azione è collegata logicamente alla sua inversa. Le operazioni compiono delle trasformazioni, mentali o concrete, ma conservano immutati alcuni aspetti dell’oggetto: invarianti. La nozione di conservazione della sostanza, dei liquidi, del numero, della lunghezza, dell’area, del peso, del volume, ecc., viene acquisita in momenti e a età leggermente differenti. Se per la conservazione dei liquidi fin dai 7 o 8 anni, il bambino dirà: “è la stessa acqua”, “non si è fatto altro che versare”, “non si è tolto né aggiunto nulla”, “è piú alto, ma è piú stretto, allora fa lo stesso”, diversamente comprenderà la conservazione della sostanza, attraverso le compensazioni della deformazione di una pallina di argilla verso gli otto anni, quella riguardante il peso verso i nove-dieci anni, e quella del volume solo attorno agli undici anni. La prima, e forse piú semplice, nozione di conservazione acquisita dal bambino è quella dei liquidi. Si presenta al bambino un contenitore con dentro una certa quantità di liquido; successivamente, si travasa il liquido in un contenitore di forma diversa, per esempio piú stretto e alto. I bambini del pensiero egocentrico non considerano costante la quantità di liquido; in seguito, dopo uno stadio intermedio, i bambini di sei anni e mezzo o sette comprendono la conservazione della quantità di liquido anche se contenuto in recipienti di forma diversa, unendo la credenza nella conservazione a una capacità di misurazione sistematica. Per studiare la conservazione della sostanza si utilizza una pallina di creta e si chiede al bambino di darle un’altra forma.

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Gli si chiede, per esempio, di allungarla a forma di salame, o appiattirla come una pizza, oppure ancora dividerla in due palline piú piccole; il bambino prima degli otto anni circa non riuscirà a comprendere che, anche nelle diverse forme, permane sempre la medesima quantità di sostanza; acquisirà questa capacità solo quando riuscirà a compensare le diverse trasformazioni della forma della materia, mantenendo invariata la sostanza materiale, anche in contrasto con la percezione visiva, che può portare a vedere come piú grande una pizza che una pallina. Riproducendo lo sviluppo della conservazione della sostanza, quella riguardante il peso avviene in seguito perché presenta elementi nuovi. Per giungere poi alla comprensione della conservazione del volume servono ancora alcuni anni poiché la nozione è estremamente complessa. Ancora piú complessa è la acquisizione della conservazione della materia che cambia di stato, come lo sciogliersi dello zucchero nell’acqua, che sembra scomparire e dileguarsi come materia. Per comprendere che la materia si trasforma in profondità fino a fondersi con un’altra sostanza di cui ne modifica le caratteristiche, il bambino deve porre in rapporto la conservazione della sostanza, del peso, del volume, fino a giungere a una comprensione dell’atomismo del reale e vedere che la zolletta di zucchero si scompone in «piccole briciole» durante la dissoluzione. Inoltre, durante il pensiero operatorio concreto, il bambino diventa capace di compiere le piú importanti ed elementari operazioni logiche: classificare e costruire delle serie. Classificazione e seriazione sono due strutture che rimandano ad altre due funzioni importanti che vengono coinvolte: nella classificazione agisce in maniera piú rilevante il linguaggio infantile, mentre nella seriazione prevalgono i fattori percettivi, anche se vi sono meccanismi comuni che attivano entrambe le capacità.

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Compiere una classificazione consiste nell’individuare e collegare rassomiglianze tra oggetti o eventi; la classificazione costituisce un raggruppamento fondamentale che gli permette di costruire insiemi di oggetti che hanno caratteristiche comuni e sotto-insiemi composti da elementi che possiedono solo una delle caratteristiche e comprendendo quali sono gli insiemi inclusi in insiemi piú ampi e quali insiemi si intersecano fra loro grazie a sotto-insiemi. Quando il bambino giunge a incastrare le classi fra loro, attorno agli 8 anni, si ha la vera «classificazione operativa». Il principio dell’inglobamento delle parti nel tutto o la scomposizione dell’intero nelle parti è la base della classificazione logica e non semplicemente intuitiva. «Si presenti ad esempio al soggetto una scatola aperta con una ventina di palline nere e due o tre palline bianche, tutte di legno, e dopo aver fatto costatare quest’ultimo dato (con la manipolazione), si chieda semplicemente se nella scatola vi sono piú palline di legno o piú palline nere. Ebbene, la grande maggioranza dei piú piccoli, prima dei sette anni, non riesce a rispondere altro che: «ci sono piú palline nere», perché nella misura in cui dissociano il tutto («tutte di legno») in due parti, non riescono piú a paragonare una di queste parti al tutto distrutto mentalmente, e si limitano a paragonare una parte all’altra! Verso i sette anni invece questa difficoltà dovuta all’intuizione percettiva si attenua, e si riesce a paragonare il tutto a una delle parti, ed ogni parte viene ormai concepita in funzione del tutto (una parte = il tutto, meno le altre parti, con l’intervento dell’operazione inversa).» Il bambino è in grado, allora, di compiere addizione e moltiplicazione di classi. Le classificazioni additive aggiungono elementi all’interno di una classe (per esempio, inserire una foglia all’interno la classe delle foglie o un oggetto verde nella classe degli oggetti verdi); con la classificazione moltiplicativa si ha a

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che fare con una matrice a doppia entrata, per esempio dei quadrati e dei cerchi, rossi e azzurri, cosí che si possono creare le classi dei quadrati e dei cerchi e quelle degli oggetti rossi e di quelli azzurri. In questo modo il bambino, per compiere una classificazione moltiplicativa dovrà classificare nello stesso tempo piú classificazioni additive. La seriazione è la capacità di mettere in serie, dal piú piccolo al piú grande, o viceversa, degli oggetti, per esempio di ordinare una serie di bastoncini secondo l’altezza. È evidente che il bambino di qualsiasi età è in grado di distinguere due bastoncini in rapporto alla loro lunghezza, ma all’inizio si tratta soltanto di un rapporto percettivo o intuitivo, non di una operazione logica. Al fine di riuscire a compiere una seriazione, è necessario che il bambino sia in grado di realizzare delle corrispondenze fra gli elementi o gli eventi a cui assiste. Deve essere in grado, in altre parole, di “rovesciare”, tramite il pensiero, l’azione compiuta o vissuta e ottenere cosí una operazione reversibile. Il bambino acquisisce questa capacità logica operatoria attraverso alcune tappe. Se si dà al bambino dieci asticelle di poco differenti, tali da necessitare un confronto due a due, all’inizio il piú piccolo forma delle coppie o dei piccoli gruppi; in seguito costruisce una serie per tentativi empirici; infine, verso i sette anni, raggiunge «un metodo sistematico che consiste nel cercare attraverso confronti due a due dapprima l’elemento piú piccolo, quindi il piú piccolo di quelli che restano, ecc.» L’acquisizione della seriazione come operazione logica avviene quando il bambino opera sugli oggetti attraverso la reversibilità del pensiero e la comprensione, operatoria concreta, della transitività, per cui se un oggetto concreto A è piú grande di un altro B e questo, a sua volta, è maggiore di un terzo C, allora A è piú grande di C.

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Oltre alle operazioni effettuate sull’universo fisico e le operazioni logiche legate al mondo concreto, il fanciullo riesce a effettuare delle operazioni aritmetiche di numerazione (che costituiscono la sintesi di classe e di serie). Se il bambino piccolo intuisce i primi numeri perché corrispondenti a figure percepibili, solo verso i sette anni riesce a comprendere la serie infinita dei numeri e le operazioni aritmetiche dell’addizione (e la sua inversa, la sottrazione) e della moltiplicazione, come somma di somme (e la sua inversa, la divisione, come sottrazione di sottrazioni). In particolare, il bambino giunge a conquistare la nozione di numero attraverso la corrispondenza termine per termine tra due oggetti diversi, posti in rapporto fra loro, per esempio bicchieri e bottiglie, fiori e vasi, uova e porta-uovo. Il bambino giunge pian piano ad associare in maniera durevole due oggetti fra loro appartenenti ai due gruppi. Poiché alcuni oggetti raggruppati occupano piú spazio, il bambino – per passare dalla quantificazione globale alla corrispondenza termine a termine – deve uscire dal dominio della percezione e porre in rapporto fra loro le unità, prescindendo dalla forma e dalla dimensione degli oggetti, oltre che dalla lunghezza e dallo spazio occupati. Egli giunge a comprendere cosí i giudizi di equivalenza e di corrispondenza accompagnati dalla numerazione. Le operazioni logiche e aritmetiche – come si è visto – hanno bisogno di un riferimento agli oggetti del mondo reale fisico collocati nello spazio e nel tempo, che si muovono secondo velocità e stanno in rapporti di causalità o casualità, di necessità o possibilità e probabilità. La costruzione delle nozioni di tempo, spazio, velocità, causa, caso, costituiscono le operazioni infra-logiche. IV periodo (da 11 anni) stadio delle operazioni formali: il pensiero non esige piú il sostegno dell’esperienza, né di schemi

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d’azione o di supporti materiali: procede da dati teorici e si esercita su ipotesi, lavora con concetti astratti (logica formale), e ricava conclusioni logiche attraverso deduzioni e induzioni: utilizza il procedimento ipotetico-deduttivo; si sviluppa cosí il pensiero di tipo scientifico, oggettivo. Il pensiero astratto, ipotetico-deduttivo dello stadio operatorio-formale inizia a partire dalla pre-adolescenza, verso undicidodici anni, e continua durante tutta l’adolescenza, giungendo al massimo equilibrio attorno ai quattordici-quindici anni e conduce alla logica dell’adulto. La capacità di riflettere astrattamente porta l’adolescente a orientarsi verso l’inattuale, il futuro. È un periodo di «grandi ideali o di inizio di teorie.» L’adolescente costruisce – anche se il piú delle volte in maniera inconsapevole – dei grandi sistemi ed è interessato a problemi talvolta inattuali. La scoperta delle grandi potenzialità del pensiero astratto porta l’adolescente, negli anni in cui sta formando una identità dell’Io, a sopravvalutare le possibilità della riflessione, fin quasi a credere a una onnipotenza delle idee. Il pensiero formale supera i limiti della realtà esterna rappresentata. Attraverso l’esercizio del pensiero astratto e logico-formale l’adolescente giunge a una nuova condizione di equilibrio. Con il periodo operatorio-formale, il pensiero non esige piú il sostegno dell’esperienza, né di schemi d’azione o di supporti materiali. Il ragazzo procede da dati teorici e si esercita su ipotesi, lavora con concetti astratti (quelli della logica formale), e ricava conclusioni rigorose attraverso deduzioni e induzioni: utilizza il procedimento ipotetico-deduttivo. Il pensiero è formale, astratto, e può operare in maniera preposizionale. Si sviluppa, in questo modo, un pensiero di tipo scientifico, oggettivo. Si forma spontaneamente nell’adolescente uno spirito sperimentale: egli, cioè, vuole verificare le ipotesi poste e

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analizza le differenze in base alla modificazione degli elementi della situazione. Il ragazzo è in grado di porre delle ipotesi, verificarle e variarle; tutto questo, restando su di un piano puramente formale, astratto e verbale. Naturalmente, le operazioni che l’adolescente compie sono anche le stesse degli stadi precedenti: classificazioni, seriazioni, enumerazioni, misura, disposizione o spostamento nello spazio o nel tempo, ecc.; ma tali operazioni vengono elaborate sotto forma di proposizioni linguistiche che le esprimono. Vi sono però alcuni schemi operatori nuovi che compaiono nello stadio formale. C’è lo schema delle operazioni combinatorie, tra cui le combinazioni, le permutazioni, le aggregazioni. Le piú importanti operazioni conquistate in questo stadio sono le operazioni proposizionali. I connettivi logici piú utilizzati e le conseguenti operazioni sono: la disgiunzione (p v q: o… o; significa che la proposizione è vera se è vera una delle due, oppure entrambe), la congiunzione o esclusione (p · q: e… e; significa che la proposizione è vera solo se sono vere entrambe, vale nel senso di aut aut della logica medievale), la negazione (~p: non; che serve per negare la proposizione), l’implicazione logica (p q: se… allora; nel senso che la proposizione è sempre vera eccetto quando p è vera e q è falsa), fino alla contraddizione (p · ~p; che è una proposizione sempre falsa) e alla tautologia (p v ~p; che è una proposizione sempre vera). L’adolescente è, dunque, in grado di elaborare e comprendere la logica delle proposizioni. La mente dell’adolescente riesce a utilizzare insieme, contemporaneamente, in maniera astratta tutta una serie di operazioni attraverso un metodo sperimentale e ipotetico-deduttivo. Questa complessità logica via via crescente che si è costruita nello sviluppo cognitivo dell’adolescente è mostrata in maniera emblematica da quello che forse è il piú celebre espe-

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rimento piagetiano riguardante lo stadio delle operazioni formali: l’esempio del pendolo. In questo esempio si vede chiaramente che le diverse operazioni vengono utilizzate assieme agli schemi derivati della logica proposizionale e alla coordinazione di inversione e reciprocità. Attraverso la sperimentazione ordinata di tutte le combinazioni possibili, variando un elemento alla volta, lunghezza del filo, peso, altezza della caduta, slancio iniziale, il ragazzo verifica qual è l’elemento che causa la variazione della frequenza delle oscillazioni. Ora, quindi, grazie alla logica delle classi o delle serie, egli non ha piú bisogno degli oggetti concreti, ma coglie immediatamente i rapporti logici e matematici (+ A – A = 0; se A > B e B > C allora A > C). L’adolescente – come l’adulto – è in grado di comprendere, pertanto, i rapporti formali di inclusione, reversibilità, transitività, ecc. ed è in grado di operare con la logica delle proposizioni. È ben chiaro che avere la capacità di utilizzare o comprendere le operazioni logiche e proposizionali non significa averne coscienza e consapevolezza. Il piú delle volte gli individui compiono operazioni e ragionamenti senza rendersi conto della possibilità di formalizzare questi pensieri. L’adolescente, come l’adulto, oltre a compiere questi ragionamenti è in grado di comprenderli e riconoscere il sistema di connessioni delle diverse operazioni, senza necessariamente esserne cosciente in maniera spontanea. Può non sempre essere consapevole dei meccanismi logici sottesi al ragionamento, ma li utilizza ed è perfettamente cosciente di sé, di essere in grado di riflettere e di avere un pensiero in grado di compiere tutte le operazioni logiche. Grazie alla consapevolezza cosciente della propria interiorità distinta dal mondo esterno, il ragazzo (come l’adulto) può cogliere in maniera soggettiva, ma anche razionale (e non egocentrica), la percezione del proprio vissuto personale, distinta

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dal tempo oggettivo del mondo fisico esterno a lui. Il ragazzo, ormai pre-adolescente o adolescente, comincia a riflettere sui propri processi di pensiero e ad avere consapevolezza della propria conoscenza. Inizia ad avere coscienza di sé e dei propri processi mentali, riuscendo a mettere in atto quello che si chiama un meta-pensiero o una meta-conoscenza. Riesce a compiere auto-analisi e introspezione cosí da giungere a costruire un Io piú solido ed equilibrato che lo porterà nel mondo adulto. Solo durante il pensiero operatorio-formale, dunque, l’adolescente è in grado di riflettere sui propri aspetti soggettivi, ha consapevolezza di sé, del proprio vissuto individuale e dei propri processi di pensiero. Lo sviluppo psichico, dunque, realizza la costruzione dei processi conoscitivi. Un presupposto dello sviluppo cognitivo è la maturazione del sistema nervoso, a cui si debbono aggiungere l’esperienza (sia acquisita, come ripetizione di azioni e percezioni, sia logico-matematica, che riguarda la possibilità di sperimentare le proprietà delle azioni) e l’interazione sociale, il cui strumento principale è il linguaggio. Lo sviluppo è un continuo riequilibrarsi delle strutture cognitive che progrediscono attraverso operazioni di autoregolazione (utilizzando feed-back che l’ambiente fornisce) per costruire strutture sempre piú globali e integrate. Quindi, per riassumere, gli aspetti invarianti del sistema di base sono: organizzazione (schemi e strutture) e adattamento (assimilazione e accomodamento); a queste bisogna aggiungere una terza invariante funzionale: equilibrazione (quando assimilazione e accomodamento sono coordinate in maniera bilanciata). Questa continua equilibrazione avviene attraverso vari periodi in cui l’equilibrio è provvisorio, dopodiché si rompe e si raggiunge un livello “migliore” di equilibrio.

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Considerazioni sulla pedagogia e sull’educazione Nonostante la conoscenza di Piaget sia necessaria a pedagogisti ed educatori, lo studioso svizzero non prestò particolare attenzione alle indicazioni metodologiche e didattiche sull’applicazione delle sue teorie alle situazioni concrete nella scuola e nell’educazione. Piaget scrisse pochi e brevi testi sui problemi dell’educazione e della pedagogia, quali: Psicopedagogia e mentalità infantile (1928); Il diritto all’educazione nel mondo attuale (1948); Dove va l’educazione (1948); L’insegnamento della matematica (1955); Psicologia e pedagogia (1969). È comunque evidente l’importanza essenziale, per chiunque debba operare con i bambini, della conoscenza di un sistema cosí globale e ampio sull’evoluzione cognitiva come quello di Piaget. Oltre ad alcune indicazioni generali si possono anche ricavare possibili applicazioni specifiche del sistema di Piaget ai problemi educativi. La teoria piagetiana ha avuto una profonda influenza sui metodi e sull’organizzazione scolastica. Piú di tutti ha cercato di sviluppare delle tecniche didattiche dal pensiero di Piaget, lo studioso H. Aebli, nel suo Didattica psicologica del 1951: anche se questo lavoro è stato contestato da molti ricercatori, perché è piú importante la globalità del lavoro di Piaget per l’educazione del fanciullo e la formazione umana, che non l’applicazione didattica spicciola. Dato che ogni pedagogia si basa sempre su una psicologia, Piaget si augura che il rapporto fra la sua psicologia genetica e la pedagogia diventi costante e sistematico, anche se non si può, secondo Piaget, trarre direttamente dalla psicologia un programma educativo. Comunque sia, la teoria di Piaget che il pensiero è azione interiorizzata, cioè operazione, e che “essere significa fare”

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sono importanti indicazioni che furono utilizzate per la realizzazione di scuole nuove e di una didattica attiva che riconoscesse l’importanza del fare per apprendere. Per Piaget pensare è operare secondo stili diversi, relativi alle diverse tappe dell’età evolutiva. Piú che dare indicazioni metodologico-didattiche, dunque, lo studio del pensiero di Piaget aiuta a capire il significato dell’educazione, la sua importanza e i suoi compiti. Inoltre, l’attenzione data alla razionalizzazione, alla scientificità e alla sperimentazione, l’interesse per le scienze e l’interdisciplinarietà della ricerca di Piaget offrono indicazioni anche sul rigore e sulla scientificità necessarie nell’attività didattica, nonché l’importanza di collegare assieme tutte le discipline di studio. È importante notare che sperimentazione per Piaget non si riferisce agli esperimenti in laboratorio, bensí alle situazioni naturali in cui si svolgono i processi di apprendimento. Tutto lo studio dello sviluppo psichico del bambino e tutti gli esperimenti realizzati da Piaget e raccontati nei suoi testi possono essere utilizzati e riproposti nei vari livelli per controllare e verificare l’apprendimento, senza pretendere di richiedere prestazioni dal bambino che questi non è in grado di dare proprio perché non adeguatamente strutturato cognitivamente e non giunto a determinati stadi di sviluppo. Se non si ha, per esempio, la nozione di numero non ha senso lo studio dei numeri. Imparare determinate materie significa prima di tutto imparare ad eseguire certe operazioni utili per conseguire le nozioni e le conoscenze. Se un bambino non possiede le operazioni di classificazione e seriazione e le nozioni topologiche di spazio geometrico, non si potranno insegnare algebra e geometria. Finchè non si sono costruite le nozioni infralogiche di spazio e tempo non avrà senso affrontare lo studio della geografia e della storia.

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Infatti l’aspetto che Piaget ha maggiormente sottolineato riguardo l’educazione è il legame indispensabile tra lo sviluppo psico-genetico del bambino e il contenuto dell’insegnamento; le strutture conoscitive possono servire da punto di riferimento nella scelta dei contenuti dell’insegnamento. È necessario, dunque, riformare i programmi e i metodi di insegnamento in conformità con i risultati della psicologia dello sviluppo, ma ancor piú importante – come sostiene in Psicologia e pedagogia del 1969 – è preparare adeguatamente gli insegnanti alle nozioni di teoria dello sviluppo, di psicologia dell’apprendimento, di psicologia dell’intelligenza e di pedagogia sperimentale. Questo porterebbe a ridurre il conservatorismo presente nelle scuole, a migliorare lo sviluppo dei bambini e ad elevare il livello culturale dei popoli, portando anche un miglioramento di ordine economico (sia per gli insegnanti che per la società intera). È chiaro che la formazione scientifica dell’insegnante non deve penalizzare né la cultura generale necessaria a produrre una certa apertura mentale, né lo sviluppo delle attività pratiche, collegate con il mondo esterno. Dato che il bambino non impara in modo passivo dall’ambiente e dal linguaggio, ma da una assimilazione attiva, è importante che la scuola gli permetta di imparare in questa maniera. Piaget sostiene che le scuole attive e i radicali mutamenti di prospettive pedagogiche realizzati da pensatori quali Dewey, Claparède, Decroly, Montessori, hanno potuto nascere e verificarsi nel XX secolo grazie anche alla psicologia genetica ed evolutiva che ha vivificato la pedagogia. Tutte queste considerazioni implicano che non si possano piú fare le solite lezioni tenute con un linguaggio adulto, ma bisogna far agire (ma non nel senso di una pratica del lavoro manuale), cioè permettere che egli possa esercitare i propri meccanismi mentali in corrispondenza con la sua evoluzione

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strutturale (dunque un bambino piccolo del periodo pre-logico dovrà manipolare, affinché in età scolare cominci a sperimentare da solo). L’insegnante, per esempio, se vuole spiegare il concetto di frazione non presenterà delle figure di oggetti divise in parti uguali, ma dividerà effettivamente un oggetto concreto di fronte alla classe o lo farà fare agli alunni stessi. Il maestro deve saper dosare le novità degli oggetti da studiare, senza eccedere (perché l’eccessiva confusione di stimoli blocca e fa regredire il bambino). L’educazione attiva, però, non è un’educazione individualista, al contrario si realizza in società, combinando il lavoro individuale con quello di gruppo. In questo modo, ai 7-8 anni, sarà stimolato a superare l’egocentrismo del pensiero e trasformarlo in reciprocità operante. È di primaria importanza la dimensione sociale in cui l’educazione del pensiero si svolge. Il maestro deve unire alla solida formazione scientifica, anche la capacità inventiva e creativa per poter svolgere al meglio il proprio lavoro, ma senza dimenticare la sperimentazione continua e metodica. Piaget polemizzò contro i falsi tentativi di realizzare metodi pedagogici attivi attraverso una pura e semplice attività di contatto con i fenomeni; allo stesso modo contestò l’uso di fare esperimenti in classe se questi vengono fatti solo dall’insegnante; o anche l’uso di audiovisivi se questi rischiano di riproporre il tradizionale verbalismo, applicato alle immagini anziché alle parole; criticò anche l’istruzione programmata di stampo comportamentistico e le “macchine per apprendere” realizzate da Skinner, in quanto non lasciano spazio all’iniziativa e alla creatività dell’alunno. In conclusione, per Piaget l’insegnamento attivo si basa sull’azione che tende a una costruzione operatoria dell’astrazione e a favorire lo sviluppo dell’intelligenza.

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Bibliografia essenziale. Opere di Piaget sulla psicologia: Psicologia dell’intelligenza, trad. it. Giunti, Firenze 1952 Lo sviluppo mentale del bambino, trad. it. Einaudi, Torino 1967 La psicologia del bambino, trad. it. Einaudi, Torino 1970 L’epistemologia genetica, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1971 Opere di Piaget sulla pedagogia: Psicologia e pedagogia, trad. it. Loescher, Torino 1970 Dove va l’educazione, trad. it. Armando, Roma 1974 Cos’è la pedagogia, trad. it. Newton Compton, Roma 1999 Letteratura critica: H. G. FURTH, Piaget per gli insegnanti, Giunti Barbèra, Firenze 1980 E. GATTICO, Jean Piaget, Bruno Mondadori, Milano 2001

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36 La scuola storico-culturale e la psicologia di Vygotskij

In Unione sovietica, negli anni Venti-Trenta, in stretto rapporto con le trasformazioni sociali e politiche prodotte dalla Rivoluzione bolscevica dell’Ottobre del 1917, si sviluppò una prospettiva psicologica la quale intesse essere aderente ai principi filosofici di Marx e del suo materialismo storico-dialettico, sulla base dei quali si era realizzata la rivoluzione: la scuola storico-culturale di Lev S. Vygotskij (1896-1934), Aleksej Leont’ev (1903-1979) e Aleksandr Lurija (1902-1977). Essi svolsero importanti ricerche sui processi cognitivi, studiando il comportamento e le funzioni psichiche in prospettiva evolutiva. Studiò le opere di alcuni dei piú importanti psicologi occidentali, quali Piaget, Freud, gli psicologi della Gestalt e tanti altri celebri autori, rimanendo invece da questi sconosciuto per lunghi anni. Nonostante la base del materialismo storico-dialettico, quando il regime comunista sovietico divenne piú rigido e autoritario (soprattutto con Stalin), si preferí una psicologia come quella di Pavlov, piú rigorosa e quantitativa, a quella storicoculturale, colpevole di lasciare “troppo spazio” all’individualità. Per questa ragione, non venne molto diffusa in URSS, dal 1936, due anni dopo la morte di Vygotskij, in seguito al decre-

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to contro la pedologia del Comitato centrale del PCUS, le sue opere vennero proibite). Oltre a questo, altri due elementi impedirono la diffusione delle teorie della scuola storico-culturale nel resto del mondo, e per parecchi decenni: da una parte la scarsa conoscenza in Occidente della lingua russa, e dall’altra la situazione politica del secondo dopoguerra, che vedeva la divisione, con la “cortina di ferro”, dei due blocchi, sovietico e occidentale. Bisogna ricordare, poi, che Vygotskij si ammalò molto giovane di tubercolosi e morí a soli 38 anni, lasciando comunque un’importantissima eredità, la sua scuola e una importantissima opera pubblicata postuma, nel 1934, Pensiero e linguaggio. Nonostante la genialità di Vygotskij, non bisogna commettere l’errore di ridurre la scuola storico-culturale esclusivamente alle sue idee, poiché anche il lavoro di Leont’ev e Lurija è estremamente importante e stimolante. Comunque, solo a partire dagli anni Sessanta del XX secolo questi autori furono studiati e tradotti anche in America e in Europa, e solo negli anni Ottanta si cominciò a ricostruirne in maniera rigorosa la biografia e il pensiero. Fra coloro che contribuirono maggiormente alla riscoperta della scuola storicoculturale possiamo ricordare Jerome Bruner (nato nel 1915), il quale colse l’importante valore degli studi sulla cognizione e sullo sviluppo psichico; egli valutò soprattutto l’importanza della rappresentazione del mondo costruita dal bambino sulla base delle regole socioculturali, delle convenzioni linguistiche e dei sistemi semiotici. In Italia, uno dei maggiori studiosi di Vygotskij che, a partire dalla fine degli anni Settanta, ha tradotto le opere direttamente dal russo, è stato Luciano Mecacci. Il nucleo centrale della scuola storico-culturale è la “teoria dell’attività” elaborata da Leont’ev.

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Cercando di realizzare una psicologia in sintonia con i princípi del materialismo storico-dialettico marxiano, la scuola storico-culturale (come è spiegato nei saggi contenuti nel libro di Leont’ev, Attività, coscienza, personalità del 1975) sostenne che il rapporto dell’individuo con l’ambiente è sempre mediato dall’attività del soggetto, per cui, sebbene la conoscenza cominci dagli stimoli ricevuti dall’ambiente (soprattutto sociale, storico e culturale), il soggetto non è passivo (al contrario di quanto sostenuto dalla teoria S-R dei comportamentisti) e, dopo aver raccolto gli stimoli dall’ambiente esterno, agisce a sua volta sulla realtà, trasformandola. Si può riassumere il rapporto fra individuo (soggetto=S) e ambiente (oggetto=O), tramite questo schema in cui l’elemento che media è sempre l’attività (A): O A S A O Come si può osservare, tutto ha inizio con l’oggetto, con l’ambiente esterno (materiale, storico e sociale) che fornisce gli stimoli, ma questo è recepito dal soggetto in maniera attiva tramite un lavoro mentale, a cui segue un ulteriore processo di rielaborazione e trasformazione dello stesso mondo esterno. Anche il lavoro di Lurija risultò molto importante e stimolante, soprattutto per le ricerche sui sistemi funzionali cerebrali, che ebbero origine dagli studi compiuti sui feriti al cervello della Grande guerra. Lurija rifiutò la localizzazione rigida delle funzioni cerebrali; sia la funzione, sia la localizzazione nel cervello sono estremamente dinamiche: l’organizzazione cerebrale, cioè, è in continua evoluzione dall’infanzia all’età adulta. Vygotskij nacque a Orsha, una piccola città della Bielorussia, nel 1896, l’anno della nascita di Piaget, da famiglia di origini ebree; studiò filosofia, si appassionò all’arte e alla let-

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teratura e si laureò in giurisprudenza. Lavorò come critico d’arte e insegnante. Divenne celebre a partire dal 1924, quando il suo genio venne notato in una famosa conferenza al “Secondo congresso di psiconeurologia”. Dal 1924 al 1934, anno della sua morte, diede vita alla “troika” (dei tre) con Leont’ev e Lurija, all’Istituto di Psicologia di Mosca. L’opera principale di Lev Vygotskij fu Pensiero e linguaggio, uscita postuma nel 1934, anno della morte. Il primo aspetto del pensiero di Vygotskij da sottolineare è la priorità dell’azione sulla cognizione. Egli sostenne che si debba studiare lo sviluppo sia individuale (ontogenesi) sia delle specie (filogenesi), ma vi è un “salto qualitativo” tra gli animali e l’uomo. Nell’uomo è riscontrabile una continuità fra strutture e funzioni psichiche, la quale presenta dei momenti critici che distinguono i comportamenti (vi sono dei salti nel modo di interagire con ambiente). Il salto dall’animale all’uomo che c’è stato nello sviluppo filogenetico corrisponde, nello sviluppo ontogenetico, alla formazione umana di funzioni complesse. Solo nell’uomo l’interazione con l’ambiente si caratterizza per l’uso di strumenti, sia materiali (utensili: la costruzione di oggetti come attrezzi e macchine è stato il salto che ha dato vita all’intelligenza umana) sia di simboli (linguaggio: i sistemi di numerazione, la scrittura, le scienze). Questi strumenti sono appresi nel rapporto con il contesto sociale, poi impiegati come strumenti interiori senza bisogno di stimoli esterni. La caratteristica della vita umana è, quindi, l’uso di strumenti, che da strumenti materiali diventano strumenti psicologici: concetti, simboli, opere d’arte, scrittura. Il sistema scolastico è il luogo in cui questi strumenti psicologici vengono trasmessi. Il linguaggio è l’elemento centrale che media il passaggio dall’azione alla cognizione. Pensiero e linguaggio, per Vygotskij hanno radici genetiche differenti (inizialmente vi è una attività di pensiero senza uso

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del linguaggio). Poi, a un anno e mezzo o due circa, nel bambino il pensiero e il linguaggio cominciano a interagire (il linguaggio diventa uno strumento di comunicazione del pensiero). A quattro anni circa, il linguaggio è usato come strumento di regolazione del proprio comportamento (prima a voce alta: fase egocentrica), fino a sette anni circa, quando l’interiorizzazione diventa completa (graduale). A questo riguardo è celebre, e importante da ricordare, la critica di Vygotskij a Piaget sul concetto di fase egocentrica. Per Vygotskij, il linguaggio ha inizialmente una funzione interpsichica (è un’attività sociale che mette in rapporto una persona con un’altra per fini comunicativi e di interazione sociale), poi diventa intrapsichica (un’attività individuale che permette di regolare dall’interno i propri processi psichici e il comportamento). Con il linguaggio egocentrico, quindi, il bambino inizia a orientarsi mentalmente, a riflettere e a pensare. La comunicazione verbale tra bambino e adulto è il momento interpersonale (interpsichico) che precede la comunicazione mentale interna del bambino (intrapsichica). Per Piaget, invece, il percorso è opposto: il linguaggio, da iniziale funzione interna, diventa sociale (il linguaggio egocentrico manifesta l’egocentrismo del bambino, che è il passaggiocompromesso tra autismo iniziale e prima socializzazione). Inoltre, l’intelligenza – secondo Piaget – nel corso dello sviluppo psichico costruisce le varie attività e funzioni psichiche, tra cui il linguaggio (per cui quest’ultimo è un prodotto dell’intelligenza), mentre – secondo Vygotskij – linguaggio e intelligenza hanno origini differenti, e il linguaggio ha un ruolo centrale nello sviluppo dell’intelligenza. Vygotskij concepisce, quindi, una molteplicità di aspetti psichici che si sviluppano, per poi incontrarsi e coordinarsi nel pensiero, mentre in Piaget vi è un unico sviluppo dell’intelligenza.

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Considerazioni psico-pedagogiche Tutti i processi comunicativi e lo sviluppo cognitivo conseguente, si verificano sempre in un contesto sociale e culturale. Ogni mente che si sviluppa ha una sua storia individuale, personale, che si svolge nella relazione con le altre menti all’interno della società. Vygotskij sottolinò l’importanza dell’ambiente sociale e dell’apprendimento, senza assolutamente eliminare la presenza dell’individuo con le proprie capacità di elaborazione e creazione. Nel processo di apprendimento, in particolare scolastico (che invece Piaget aveva eccessivamente sottovalutato), è importante il concetto di “zona di sviluppo prossimale”, secondo il quale il bambino ha determinate potenzialità che può sviluppare e attualizzare, solo se stimolato adeguatamente dall’esterno dall’adulto; il fanciullo, autonomamente, non sarebbe in grado di ottenere quei risultati che invece riesce a raggiungere grazie a questi stimoli. Il linguaggio ha una struttura innata, ma concretamente (la lingua realmente parlata) si determina nell’ambiente sociale e culturale in cui si vive. Lo sviluppo potenziale può essere avviato – come si è appena detto – attraverso opportuni interventi pedagogici (si nota l’importanza fondamentale dell’istruzione che deve prospettare lo sviluppo di nuove potenzialità attraverso un intervento dell’adulto): «in collaborazione, sotto la direzione e con l’aiuto di qualcuno, il bambino può sempre fare di piú e risolvere problemi piú difficili di quando agisce da solo» e, in seguito, sarà in grado di fare da solo ciò che prima faceva con l’adulto. L’apprendimento, dunque, è una funzione di natura sociale e comunicativa, in opposizione alla teoria di Piaget che nega un ruolo rilevante ai processi apprenditivi (apparato educativo). Alla predominanza data da Piaget allo sviluppo rispetto all’apprendimento, Vygotskij contrappone una relazio-

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ne di complementarietà (una dialettica; una dinamica processuale continua), in cui l’apprendimento ha un ruolo attivo nel produrre sviluppo (promuovere, anticipare e sviluppare le potenzialità evolutive del bambino). Vygotskij sostenne che è molto importante, per l’educazione del bambino, anche il gioco, che è la realizzazione di desideri, un addestramento, un rispetto delle regole; in sostanza esso è sia piacere sia rispetto delle norme, sia progetto sia esercizio. È anche importante l’attività creativa: creare non significa inventare, ma rielaborare la realtà, smontare e ricomporne i dati e gli elementi, dare risposte nuove e diverse ai problemi (non serve essere dei genî per essere creativi). Tutto ciò nasce vivendo in un ambiente libero, stimolante, con un intervento educativo rispettoso dell’espressione personale, teso a stimolare domande piú che a dare risposte. Ciò che è appreso dall’ambiente (l’oggetto) viene poi interiorizzato (dal soggetto) e viene a costituire l’insieme di regole, strategie e contenuti dell’attività psichica e infine viene riutilizzato per modificare l’ambiente (ancora il circolo: oggetto-attività-soggetto-attività-oggetto). La scuola storico-culturale studiò soprattutto lo sviluppo nel bambino delle funzioni psichiche superiori, quali il ragionamento, la volontà, il pensiero logico, la formazione dei concetti; tutti questi aspetti – come già anticipato – divennero gli argomenti di ricerca privilegiati della psicologia cognitivista, dopo gli anni Sessanta del XX secolo, in particolar modo in ambiente inglese e statunitense.

Bibliografia essenziale. Opere di L. Vygotskij Pensiero e linguaggio, trad. it. Giunti, Firenze 1966 Lo sviluppo psichico del bambino, trad. it. Editori Riuniti, Roma 1973 Immaginazione e creatività nell’età infantile, trad. it. Editori Riuniti, Roma 1972

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Pensiero e linguaggio, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1992 Opere di A. Lurija Un mondo perduto e ritrovato, trad. it. Editori Riuniti, Roma 1973 Verso una teoria dell’istruzione [1966], Armando, Roma 1967 Il significato dell’educazione [1971], Armando, Roma 1973 Opere di A. Leont’ev Attività, coscienza, personalità, trad. it. Giunti, Firenze 1977 Letteratura critica: O. LIVERTA SEMPIO, Vygotskij, Piaget, Bruner. Concezioni dello sviluppo, Cortina, Milano 1998.

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37 Jerome Seymour Bruner

Dopo il crollo della borsa di Wall Street del 1929, che portò enormi conseguenze nella crisi degli anni Trenta, e in seguito in quella post-bellica degli anni Cinquanta, la situazione politica, sociale e, di conseguenza, le principali dottrine psicologiche e pedagogiche (la scuola attiva e il pensiero di Dewey, il comportamentismo, la Gestalt e la psicoanalisi freudiana) subirono una crisi molto travagliata, e si cominciò a sentire la necessità di una loro revisione. L’ottimismo pragmatista tipicamente americano subí un ulteriore attacco quando avvenne il lancio del primo satellite sovietico nel 1957, lo Sputnik, che dimostò la superiorità tecnologica dell’URSS nei confronti degli USA. La società americana, per colmare la distanza dai paesi comunisti, richiese una maggiore efficienza e piú concreti risultati educativi. Jerome Bruner (nato nel 1915), laureatosi in psicologia ad Harvard nel 1941, fu chiamato a presiedere la Conferenza di Woods Hole del 1959, organizzata dall’Accademia Nazionale delle Scienze per la revisione dei programmi allora adottati nelle scuole americane. Nel 1960 fondò il Centro per gli Studi Cognitivi. Si oppose alla teoria di Dewey e le idee del comportamentismo, in nome di un maggior sviluppo e utilizzo all’in-

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terno della scuola delle funzioni cognitive superiori, eccessivamente trascurate o negate sia dall’attivismo sia dagli psicologi behavioristi; fu critico, inoltre, anche nei confronti della psicologia della Gestalt e della psicoanalisi freudiana. Storicamente è stata una delle figure centrali della pedagogia negli anni del cognitivismo. Fu soprattutto merito di Bruner la riscoperta nei paesi di lingua anglosassone del lavoro di Vygotskij e della scuola storico-culturale. Le sue opere piú importanti sono: Il pensiero: strategie e categorie (1956); Dopo Dewey; il processo di apprendimento nelle due culture (1960); Il conoscere. Saggi per la mano sinistra (1962); Verso una teoria dell’istruzione (1966); Lo sviluppo cognitivo (1966); Il significato dell’educazione (1971); Il linguaggio del bambino (1983); La mente a piú dimensioni (1986); La ricerca del significato (1990); La cultura dell’educazione (1996). Come accennato, Jerome Bruner criticò profondamente le scuole psicologiche entrate in crisi negli anni Cinquanta. Al comportamentismo rimproverò di voler spiegare con la teoria della risposta allo stimolo ciò che in realtà è molto piú complesso; alla psicoanalisi di aver ridotto l’attività razionale a un ruolo marginale nella vita cognitiva dell’individuo; alla scuola della psicologia della forma, infine, di voler ridurre la percezione a fenomeno a sé, slegato dalla vita psichica dell’uomo. Partendo da un approccio cognitivista, al quale uní una componente psicologica e una sociologica, Bruner si interessò poi di pedagogia, educazione e didattica, finché giunse a elaborare una vera e propria teoria dell’istruzione. Oggetto privilegiato dei suoi studi fu l’attività cognitiva del pensiero; definí il pensiero un processo costruttivo che elabora i dati dell’esperienza culturalmente determinati. Questa definizione è densa di implicazioni e significati, che vanno ben messi

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in luce per poter comprendere le tesi dello studioso americano. Il primo processo cognitivo preso in esame è la categorizzazione, atto che consiste nel raggruppare in classi o rendere equivalenti vari oggetti, persone o eventi fra loro diversi. Bruner considerò questa capacità un atto di invenzione, perché la categorizzazione degli stessi dati può di volta in volta fondarsi su categorie affettive, funzionali, formali, e dunque rispondere a esigenze diverse provenienti dal soggetto. Ciò che troviamo come costante è semplicemente l’atto del categorizzare, mentre le categorie impiegate sono variabili. Non è però solo una questione soggettiva; secondo Bruner, le categorie scelte riflettono profondamente la cultura di provenienza. Il linguaggio, il modo di vivere, la religione, la scienza di un popolo, tutto ciò concorre a formare la storia personale di un individuo, e influenza profondamente il suo modo di pensare il mondo. La categorizzazione è alla base di processi piú complicati, quali le inferenze, le elaborazioni di ipotesi e le loro verifiche. Secondo Bruner, l’evoluzione umana ha trasformato biologicamente gli esseri attraverso agenti esterni, e non interni; evoluzione e adattamento si spiegano cioè come trasformazione genetica e psichica determinata dalla necessità di adeguare le abilità interne (gli atti sensoriali, la percezione, il pensiero) alle esigenze poste dagli utensíli esterni: “l’uso degli arnesi, la vita sul suolo, la vita di caccia crearono il grande cervello umano, e non fu l’uomo dal grande cervello a scoprire certi modi di vita”. Per lo studioso americano, quindi, l’uomo dipende dall’ereditarietà di caratteristiche acquisite dal patrimonio culturale anziché da quello cromosomico. La cultura diventa allora lo strumento principale per garantire la sopravvivenza. Da questa prospettiva, lo psicologo americano prese in esame gli studi compiuti da Piaget sull’età evolutiva. La prima critica rivolta al ginevrino fu che egli si è limitato a descrivere

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il processo di maturazione delle strutture mentali, trascurando gli altri elementi che influenzano lo sviluppo. Ciò che Bruner conservò delle teorie piagetiane è il modello dello sviluppo articolato in tre fasi: attività psico-motoria, pensiero pre-operatorio e operatorio concreto, pensiero operatorio formale; a sua volta, Bruner distinse tre modalità rappresentative: esecutiva, iconica, simbolica. Nella prima fase, quella definita esecutiva, il mondo è rappresentato prevalentemente attraverso l’azione; la fase iconica costruisce il mondo attraverso l’immagine, la quale si libera progressivamente dai condizionamenti percettivi; la terza fase, simbolica, usa il sistema simbolico del linguaggio per esprimere concetti e categorizzazioni. A differenza di Piaget, però, secondo Bruner non possiamo parlare di stadi evolutivi distinti; se è vero che ciascuno dei tre tipi di rappresentazione incide maggiormente sulla vita mentale degli esseri umani in età diverse (bambino, fanciullo, preadolescente), lo sviluppo intellettuale non è una semplice sequenza automatica, ma risente delle influenze ambientali e dell’ambiente scolastico. L’educazione al pensare scientifico non deve seguire passivamente lo sviluppo dell’allievo, ma guidarlo, proponendo problemi impegnativi e tali da consentirgli di porsi a capo del suo sviluppo. I tre sistemi della rappresentazione (esecutiva, iconica e simbolica) non sono da considerare “stadi”, termine che indica una consequenzialità rigida, ma caratteristiche salienti nel corso dello sviluppo. Una conseguenza delle teorie di Bruner è il fatto che tutto può essere insegnato a qualsiasi età, purché il contenuto dell’apprendimento sia tradotto in forme di rappresentazione adeguate. È quindi possibile accelerare i processi di apprendimento, anziché seguire passivamente lo sviluppo cognitivo dell’allievo.

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Un altro bersaglio delle critiche di Bruner fu la “scuola attiva” di Dewey, colpevole di privilegiare troppo gli obiettivi di socializzazione rispetto a quelli intellettuali. Per Dewey la scuola era una forma di vita comunitaria che trasmette la cultura, era cioè vita essa stessa, e non preparazione alla vita. Se vuole assolvere il suo compito, la scuola deve portare a contatto con visioni del mondo diverse da quella della propria cultura, per esplorarle. Dewey, inoltre, attribuiva un primato all’azione del bambino, ritenendo che il metodo di insegnamento fosse implicito nella sua natura; secondo Bruner, invece, il metodo va cercato all’interno delle discipline. L’educazione inoltre deve rispondere alle richieste della società contemporanea; pur considerando il mondo psichico dell’alunno, bisogna metterlo di fronte alle esigenze del mondo attuale. In una civiltà tecnologicamente avanzata, il processo di apprendimento perde inevitabilmente il suo carattere di continuità con la vita adulta, per svolgersi al di fuori del contesto dell’azione, lontano dalla percezione diretta della realtà; la rappresentazione esecutiva e quella iconica hanno quindi meno spazi per il loro uso, mentre prevale la comunicazione simbolica. Una scuola conforme alle necessità di oggi, allora, deve superare rapidamente i momenti dell’azione e dell’immaginazione, e introdurre gli alunni nel mondo dei simboli. Questo non significa assolutamente privilegiare il momento razionale su quello intuitivo; l’esperienza immediata rimane un momento non eliminabile, sul quale bisogna costruire il processo dell’apprendimento. Per Bruner, quindi, è necessario prestare attenzione sia allo sviluppo delle funzioni logiche e scientifiche (la mano destra) sia di quelle intuitive (la mano sinistra), vale a dire la metafora, il simbolo, il mito, la capacità narrativa. Il pensiero narrativo, in particolare, è generalmente considerato in opposizione a quello logico-scientifico. Si ritiene che esso sia

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innato, non insegnabile e, piú che utile, “decorativo”. Bruner mise in discussione tutti questi luoghi comuni, e sottolineò l’importanza di questa modalità cognitiva per lo sviluppo dell’individuo. Il “creare storie” risulta essere importante almeno quanto le capacità logico matematiche. La scuola, quindi, deve essere in grado di definire esperienze utili e stimolanti per l’apprendimento, programmare tempi e modi in cui si realizzano le proposte didattiche (programmi d’insegnamento e metodi), verificare l’effettivo sviluppo raggiunto dagli allievi attraverso l’esame di azioni, immagini o simboli a seconda dei casi, organizzando una struttura ordinata delle discipline da proporre e prevedendo un sistema di gratificazioni e punizioni. Nello svolgimento del curricolo di studi si devono assolvere quattro compiti: 1) stabilire le esperienze che motivano e predispongono ad apprendere; 2) le materie, i contenuti, le informazioni e le conoscenze devono essere strutturate in modo da esser comprensive e assimilabili; 3) individuare il processo ottimale per presentare la materia; 4) indicare punizioni e ricompense per rinforzare nozioni e abilità acquisite. Bruner delineò un metodo generale, ma all’insegnante rimane la responsabilità di interpretare e adattare il tutto alla situazione individuale, ambientale e sociale.

Bibliografia essenziale. Opere di J. Bruner Verso una teoria dell’istruzione, trad. it. Armando, Roma 1967 Il conoscere: saggi per la mano sinistra, trad. it. Armando, Roma 1968 Il significato dell’educazione, trad. it. Armando, Roma 1973 Il processo educativo dopo Dewey, trad. it. Armando, Roma 1977

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Autobiografia. Alla ricerca della mente, trad. it. Armando, Roma 1984 Il linguaggio del bambino, trad. it. Armando, Roma 1987 La mente a piú dimensioni, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1988 La ricerca del significato, trad. it. Bollati Boringhieri Torino 1992 La cultura dell’educazione, trad. it. Feltrinelli, Milano 1997 Letteratura critica: M. GROPPO, V.ORNAGHI, I.GRAZZANI, L. CARRUBBA, La psicologia culturale di Bruner, Cortina, Milano 1999

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38 Howard Gardner e la teoria delle intelligenze multiple

Howard Gardner, nato a Scranton, in Pennsylvania, nel 1943, da genitori ebrei tedeschi emigrati negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste, dopo una formazione in provincia, nel 1961 si iscrisse all’Università di Harvard. Iniziato alla psicologia da Erik Erikson, abbandonò presto gli studi sul profondo per dedicarsi all’esplorazione del cervello e della mente da un punto di vista cognitivo. Fu la conoscenza di Jerome Bruner a indirizzarlo alle ricerche delle funzioni cognitive dei bambini. Dopo aver studiato un anno a Londra, frequentò a Ginevra un seminario di Jean Piaget su “biologia e conoscenza” che lo influenzò notevolmente. Studiò, tra gli altri, Noam Chomsky e Jerry Fodor. Partecipò al Progetto zero, di cui in seguito diventò direttore, una ricerca sperimentale di psicologia evolutiva sulla creatività e sullo sviluppo simbolico dei bambini. La sua opera piú celebre in cui sintetizzò la sua teoria è stata Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, del 1983. Altre opere importanti sono: La nuova scienza della mente, del 1985, una storia delle scienze cognitive; Aprire le menti, del 1989, sulla creatività nella scuola in Occidente e in Cina; Educare al comprendere, del 1991; Intelligenze creative del 1993, sulla creatività in Freud, Einstein, Ricasso,

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Stravinskij, Eliot, Gandhi, Martha Graham; Personalità egemoni, del 1994, sull’attitudine al comando; Sapere per comprendere, del 1998. L’opera di Gardner è una critica severa alla scuola e alla formazione dei giovani americani. Infatti – dice Gardner – «all’età di diciassette anni l’80% dei nostri studenti sembra essere incapace di scrivere una lettera convincente». Alla ricerca di una soluzione che ponga rimedio alla crisi della scuola americana, propose la teoria delle Intelligenze Multiple (IM), scrivendo un’opera che cercò di far breccia in un pubblico vasto di insegnanti e studiosi di educazione, Formae mentis. La teoria delle IM suscitò grandi discussioni che oggi sono ancora accese e attuali. La teoria delle IM è stata definita “un frutto maturo del cognitivismo” e, infatti, è la teoria piú celebre e discussa fra quelle recenti maturate nella psicologia cognitivista. Il punto di partenza della teoria è il vecchio “problema di Platone”, ripreso da Chomsky fin dalla fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Il “problema di Platone” rimanda a una concezione innatista della conoscenza ed è una rilettura e rimeditazione del Menone platonico. Nel celebre dialogo – come noto – si racconta del giovane schiavo, completamente ignorante di tutto, che viene guidato da Socrate alla soluzione di un problema di geometria. La riflessione sulla conoscenza che ne deriva è riassunta nella domanda di Chomsky: «Come mai gli esseri umani, il cui contatto con il mondo è cosí breve, personale e limitato, sono in grado di avere una conoscenza cosí ampia come di fatto hanno?» [N. Chomsky, Regole e rappresentazioni (1980), trad. it. il Saggiatore, Milano 1989, p. 5] L’unica risposta possibile – secondo Chomsky – è una tesi profondamente innatista della conoscenza (in netta contrapposizione del comportamentismo di Skinner). Gardner non ha una incrollabi-

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le fede innatista, anche se la teoria delle IM pone un suo presupposto nell’eredità genetica. Gardner collocò la sua teoria all’interno delle scienze cognitive, delle quali offrí un’ampia sintesi nell’opera del 1985 La nuova scienza della mente, in cui propose l’esagono cognitivo, le sei discipline, fra loro in relazione, che costituiscono le scienze cognitive: Filosofia, Psicologia, Linguistica, Intelligenza Artificiale, Neuroscienza, Antropologia culturale. Una base filosofico-psicologica importante della teoria delle IM viene individuata da Gardner nella teoria modulare di Jerry Fodor, allievo di Chomsky, e docente a New York. La teoria computazionale e rappresentazionale della mente viene elaborata da Fodor nell’opera La mente modulare del 1983, dopo averla anticipata in Il linguaggio del pensiero, del 1975, e riprendendola in seguito in Psicosemantica (1987), Concetti (1998), La mente non lavora cosí (2000). Per spiegare l’organizzazione funzionale della mente bisogna utilizzare i risultati della psicologia cognitiva, dell’analogia mente/computer, proposta dall’IA e della linguistica generativa di Chomsky. La mente è il software, il programma, dell’hardware cerebrale. Le attività mentali sono processi computazionali, che combinano i segni secondo “regole sintattiche di composizione”; affinché ciò sia possibile devono esistere rappresentazioni mentali che possono essere combinate secondo certe regole. Il sistema computazionale e rappresentazionale implementato dal cervello (la mente) è un “linguaggio del pensiero” (le rappresentazioni sono le parole), che segue un codice innato (le regole grammaticali del mentalese). La struttura della mente proposta da Fodor, il suo modularismo, ha una “architettura cognitiva” verticale: i moduli che trasformano coputazionalmente gli input in rappresentazioni (i sistemi di analisi dell’input, percezione, linguaggio, ecc. trasformano gli input sensoriali in rappresentazio-

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ni) che vengono offerte alla parte centrale del sistema cognitivo. I moduli, in quanto sistemi di analisi dell’input, sono “specifici per dominio” (sono strutture altamente specializzate e differenti da modulo a modulo), hanno un funzionamento obbligato (in presenza di un certo input non possono che entrare in azione), costituiscono un accesso limitato al sistema centrale della coscienza (al quale portano la rappresentazione che hanno computato), sono molto veloci nel funzionamento, sono incapsulati informazionalmente (cioè non possono avere accesso alle conoscenze memorizzate a lungo termine nel sistema centrale mentre lavorano, in modo da essere veloci). Come la teoria di Fodor, anche quella di Gardner delle IM, è una teoria localizzazionista e modulare. La mente, cioè, è suddivisa in moduli preposti a specifiche attività e funzioni cognitive. Gardner però riconosce che la teoria localizzazionista (chiamata anche delle “volpi”) e verticale dell’intelligenza (i vari moduli cognitivi sono verticali, cioè non operano in contatto fra loro) va coniugata con quella generalista, o olistica (chiamata dei “ricci”) e orizzontale dell’intelligenza (tutte le funzioni cognitive sono in rapporto fra loro e lavorano assieme costituendo l’intelligenza in generale), perché esistono comunque sistemi cognitivi molto generali. La teoria delle IM, comunque, si inquadra in un contesto di ricerche orientate in senso modulare. Le intelligenze di Gardner, però, non sono esatti equivalenti dei moduli computazionali di Fodor, ma qualcosa di piú, perché i moduli hanno la caratteristica di elaborare informazione, mentre per Gardner un centro computazionale non fa un’intelligenza. L’ipotesi dell’organizzazione modulare della mente sembra includere l’idea di una elaborazione “in parallelo” dell’informazione, grazie a numerosi processori (in elettronica e informatica i processori sono gli elementi centrali dell’elaboratore elet-

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tronico e il funzionamento in parallelo dei circuiti integrati significa che piú informazioni possono essere elaborate contemporaneamente da piú processori – quindi da piú computers – che lavorano in parallelo e sono collegati fra loro in una rete; il singolo computer con un unico processore funziona, per quanto in maniera estremamente veloce, “in serie”, cioè elaborando un’informazione dopo l’altra). La teoria di Gardner, invece, incorpora anche la dimensione diacronica, temporale, dello sviluppo cognitivo ed evidenzia l’interazione tra le potenzialità dell’intelletto umano e l’ambiente, valutando il ruolo della cultura sull’orientamento dello sviluppo simbolico. La teoria delle IM è una concezione dell’intelligenza diversa da quella comune ed esclude, dal significato di intelligenza, i concetti di intuizione, analisi, sintesi. Questi aspetti vanno presi in considerazione e spiegati, ma all’interno di una concezione di una pluralità di intelligenze, per cui l’intuizione matematica sarà diversa dall’intuizione artistica, perché riferita a tipi di intelligenza differenti. Le intelligenze si possono raggruppare sulla base di vincoli, di “costrizioni” di natura fisica, biologica, culturale. Le intelligenze non sono equivalenti a sistemi sensoriali e non dipendono da un singolo sistema sensoriale, ma sono capaci di realizzarsi attraverso piú di un sistema sensoriale. Le intelligenze sono entità parzialmente generali (non come intuizione, analisi, sintesi) che operano ciascuna secondo procedimenti suoi propri e con sue basi biologiche. Ogni intelligenza è un sistema a sé, con regole sue proprie. Per comodità, si possono considerare le varie intelligenze, ciascuna come un insieme di procedimenti di know-how per fare qualcosa (knowhow, “conoscere come”, è la conoscenza di come eseguire qualcosa, mentre know-that, “conoscere cosa”, è la conoscenza discorsiva dell’insieme reale di procedimenti implicati nell’esecuzione). Le diverse intelligenze sono:

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1) Intelligenza linguistica. 2) Intelligenza musicale. 3) Intelligenza logico-matematica. 4) Intelligenza spaziale. 5) Intelligenza corporeo-cinestetica. 6) Intelligenza personale. 7) Intelligenza interpersonale. Le intelligenze linguistica e musicale hanno vincoli interni e sono senza rapporto con gli oggetti; mentre le intelligenze logico-matematica, spaziale e corporeo-cinestetica hanno vincoli esterni e si riferiscono agli oggetti; infine, le intelligenze personali (intrapersonali) e interpersonali hanno sia vincoli interni (la propria persona) sia esterni (le altre persone e il Sé nelle altre culture), afferiscono al piano dell’affettività e degli scambi relazionali. L’intelligenza linguistica e lo sviluppo del linguaggio costituiscono la prova migliore della modularità dell’intelligenza. Questo tipo di intelligenza non è controllata dagli oggetti ed è vincolata solo dalle caratteristiche strutturali delle lingue (la localizzazione del linguaggio nelle aree cerebrali), anche in riferimento alla cultura di cui una lingua è espressione (pensiamo alla differenza culturale dei cinesi e dei giapponesi che usano lingue dalla logica ideografica completamente differente da quella alfabetica). La lingua ha un aspetto creativo e libero, come dimostrano i poeti che hanno «sviluppato a un grado superlativamente acuto capacità che sono alla portata di tutte le persone normali, e perfino di molti subnormali». L’intelligenza musicale, che nel suo sviluppo probabilmente ha condiviso un’origine comune con il linguaggio, è un’abilità comune a tutti gli individui anche se la vera competenza musicale è una versione piú raffinata e articolata. Per quanto riguarda l’intelligenza musicale la localizzazione è difficile da effet-

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tuare rispetto a quella linguistica, ma il fatto che possa esserci una localizzazione non identica in tutti gli individui non impedisce di mostrare che le abilità musicali sono univoche e non coinvolgono altre abilità differenti, mostrando cosí di essere una intelligenza autonoma. L’intelligenza logico-matematica – come già sosteneva Piaget – tende all’astrazione a partire dall’azione. Per questo l’intelligenza logico-matematica (come anche quelle spaziale e corporeo-cinestetica) realizza un rapporto con gli oggetti. Anche se è difficile localizzare le abilità matematiche, l’intelligenza logico-matematica è estremamente specifica e costituisce un sistema “puro” e “autonomo”. L’intelligenza spaziale è quella che molti psicologi hanno chiamato “l’altra intelligenza”, o “intelligenza visiva”. L’intelligenza spaziale ha a che fare con l’immagine e ha un rapporto privilegiato con gli oggetti. Le abilità dell’intelligenza spaziale (riconoscere, trasformare, produrre una rappresentazione grafica, capacità di orientamento) sono separate. L’intelligenza spaziale riguarda, quindi, soprattutto il disegno e l’espressività artistica. L’intelligenza corporeo-cinestetica integra e completa il quadro delle abilità umane che interagiscono con gli oggetti. Prendendo coscienza della realtà degli oggetti, il bambino nel corso dello sviluppo prende coscienza anche della propria realtà individuale. L’intelligenza corporeo-cinestetica, che riguarda il movimento, il rapporto del corpo con gli oggetti fisici, le abilità pratiche, manipolative, imitative, resta immutata anche quando ci sono deficit nella comunicazione e nelle altre forme di intelligenza. Le intelligenze personali riguardano i problemi dell’io in rapporto con se stesso (intrapersonale) e in rapporto con gli altri (interpersonale). Le persone si distinguono le une dalle

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altre per aspetti difficilmente misurabili in maniera quantitativa (in contrapposizione netta con le teorie dei test di intelligenza e con la psicometria in generale). L’intelligenza intrapersonale è strettamente legata alla creatività e la figura di Freud, ma anche quella di Gandhi, sono emblematiche della possibilità di raggiungere alte vette di creatività, grazie a una intelligenza particolare che ha saputo far tesoro dell’analisi dei propri pensieri e sentimenti. Gardner, parlando di intelligenze personali, compie un esplicito riferimento alla dimensione affettiva della mente. Nelle intelligenze personali opera lo sviluppo degli aspetti interni dell’individuo, l’accesso alla propria vita affettiva (intrapersonale), e la propensione a sensibilizzarsi ai problemi degli altri (interpersonale), rilevare e fare distinzioni fra gli individui. La teoria delle IM di Gardner ha avuto molta fortuna anche, e soprattutto, per le sue possibili implicazioni pedagogiche ed educative. I suoi numerosi viaggi di ricerca in paesi occidentali e orientali, come la Cina e il Giappone, la partecipazione a programmi internazionali di ricerca e a studi sulle varie strutture scolastiche (importante l’organizzazione di alcune scuole dell’infanzia in Olanda e in Italia a Reggio Emilia), hanno spinto Gardner ad attribuire importanza fondamentale al contesto nella sua strategia educativa. L’idea che l’intelligenza non sia una qualità nascosta e segreta di ciascun individuo, ma che al contrario si diffonda alle altre menti in una continua interazione, ha portato Gardner a pensare che, per aprire le menti, serva un’educazione “egualitaria” delle abilità intellettive. In questo modo, egli si è opposto al classico predominio delle abilità linguistiche e logico-matematiche diffuso nelle scuole. La nuova scuola del progetto di Gardner, quindi, eleva le abilità spaziali, musicali, cinestetiche, ecc. a un rango paritario

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rispetto alle altre. Poiché è la scuola stessa una delle cause piú importante dell’attuale crisi dell’educazione, per uscire dalla crisi e migliorare l’efficacia della didattica si dovranno modificare radicalmente le pratiche diffuse nelle scuole in contrasto con i nuovi principi dell’apprendimento. L’educazione formale aveva separato apprendimento e contesto. Nell’educazione nuova e concreta è fondamentale, dunque, il processo di ri-contestualizzazione del sapere e dei processi di apprendimento, poiché tutta la conoscenza nasce in un preciso contesto. Il termine contesto non è uno “sfondo” vago e indefinibile, ma la condizione culturale precisa nella quale si svolge l’apprendimento. La scuola offre contesti adatti solo all’apprendimento dell’algebra e di una cultura astratta rispetto ai normali contesti di vita nei quali le persone intrattengono rapporti, comunicano, lavorano e operano. In coerenza con le caratteristiche delle abilità delle varie intelligenze multiple, anche nella scuola si dovrà insegnare un insieme di know how, di “come” fare, delle modalità di azione e soluzione dei problemi, e non dei “saperi”, dei know that, che sono il contenuto della scuola formale tradizionale. L’obiettivo della scuola, dunque, diventa la prospettiva di una scuola “fatta su misura per ogni singolo bambino” (come già sosteneva Édouard Claparède, il teorico dell’ècole sur mesure, la scuola su misura, ma anche in parte l’educazione progressiva di John Dewey). La scuola proposta da Gardner è una scuola che mira a educare alla comprensione da parte dell’allievo e a sviluppare la capacità di comprendere (al riguardo si possono vedere i suoi libri Educare al comprendere del 1993 e Sapere per comprendere del 1999). Per questa ragione, non può valere piú il principio che nelle scuole (soprattutto nelle scuole dell’infanzia ed elementari) si debbono rispettare determinati standard. È invece importante

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chiedersi come l’alunno potrà utilizzare ciò che ha imparato per inserirsi nel tessuto sociale con un proprio ruolo. La scuola deve, quindi, «avere il proprio punto di riferimento in una vita produttiva all’interno della comunità». La scelta fra quale tipo di scuola adottare, però, non è una questione scientifica e pedagogica, ma è “una questione politica”. La scuola di Gardner vuole essere “distribuita”: a partire dall’ambiente, ricco e stimolante, deve individuare le intelligenze per impostare una didattica individualizzata, in un rapporto dinamico fra scuola e strutture del territorio (musei, atelier, associazioni, ecc.) e valutare non piú tramite test e verifiche standard, bensí tramite valutazioni contestualizzate, come i “portfolio”, i “dossier di progetto”, ecc., in cui ogni alunno fa parte di un gruppo di lavoro finalizzato al compimento di un “apprendistato” sotto la guida di un maestro. Per questo, un insegnante valido e ben preparato è sempre meglio di qualsiasi tecnologia per quanto sviluppata e avanzata, senza però in questo modo addossare agli insegnanti tutto il peso del cambiamento che, invece, avviene per vie istituzionali e politiche: semplicemente, Gardner vuole restituire credibilità al loro ruolo di educatori.

Bibliografia essenziale. Opere di H. Gardner Formæ mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, trad. it. Feltrinelli, Milano 1987 HLa nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, trad. it. Feltrinelli, Milano 1988 Aprire le menti. La creatività e i dilemmi dell’educazione, trad. it. Feltrinelli, Milano 1991 Educare al comprendere. Stereotipi infantili e apprendimento scolastico, trad. it. Feltrinelli, Milano 1993 Intelligenze creative. Fisiologia della creatività attraverso le vite di Freud, Einstein, Picasso, Stravinskij, Eliot, Gandhi e Martha Graham, trad.

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it. Feltrinelli, Milano 1994 Personalità egemoni. Anatomia dell’attitudine al comendo, trad. it. Feltrinelli, Milano 1995 Sapere per comprendere. Discipline di studio e disciplina della mente, trad. it. Feltrinelli, Milano 1999 Letteratura critica: N. FILOGRASSO, H. Gardner. Un modello di pedagogia modulare, Anicia, Roma 1995

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Bibliografia

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