Antonio del Pollaiolo. Il maestro dei maestri 8859615927, 9788859615927

Il progresso tecnologico degli anni recenti ha occupato tutti i campi del sapere, investendo anche la critica d'art

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Antonio del Pollaiolo. Il maestro dei maestri
 8859615927, 9788859615927

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I

l progresso tecnologico degli anni recenti ha occupato tutti i campi del sapere, investendo anche la critica d'arte. Il saggio pro­

pone un nuovo approccio valutativo ad alcune delle maggiori opere della seconda metà del Quattrocento, in particolare quelle del grande pittore, scultore e orafo Antonio del Pollaiolo, arrivando a formu­ lare attribuzioni diverse da quelle ormai consolidate. Mentre il mae­ stro fiorentino è stato negli ultimi anni oggetto di un tentativo di ri­ dimensionamento da parte della critica, l'autore ne riafferma l'impareggiabile livello artistico sottolineando al tempo stesso la grande generosità nel ritrasmettere ai suoi allievi, tra cui Leonardo, Botticelli e Antonello da Messina, i risultati del suo approccio scien­ tifico all'arte.

MAssiMO GIONTELLA, medico fisiatra, ha condotto per oltre quindici anni

sudi approfonditi sulla figura di Antonio del Pollaiolo, facendo riferi­ mento per la parre storica a Riccardo Fubini, Professore di Storia del Ri­ nascimento presso l'Università di Firenze. Nel volume la ricerca si concentra sugli aspetti stilistici delle opere, ma anche sugli studi avanzati che Anto­ nio del Pollaiolo fece sull'anatomia funzionale del corpo umano, e che lo portarono a intuire e porre in arre, secoli fa, ciò che oggi è considerato al­ l'avanguardia nei procedimenti della medicina riabilirariva.

ISBN 978·88-596-1592-7

€ 25,00

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massimo giontella

antonio delPollaiolo con la Premessa storica di

RiccaRdo Fubini

In copertina Annunciazione, 1472-75 circa, olio e tempera su tavola (part.), Galleria degli uffizi - Firenze

RinGRaziamenti: un sentito ringraziamento va al Prof. umberto de matteis, costantemente impegnato in Lombardia nelle battaglie per la legalità, che ha voluto onorare otranto, sua terra di origine, sostenendo finanziariamente l’edizione del presente volume, uno dei cui capisaldi è proprio il riconoscimento della città salentina sullo sfondo dell’Annunciazione degli uffizi.

www.polistampa.com

© 2016 edizioni PoListamPa Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze tel. 055 737871 [email protected] - www.leonardolibri.com isbn 978-88-596-1592-7

indice

Premessa storica allo studio di antonio del Pollaiolo di Riccardo Fubini

7

Prefazione di Massimo Giontella

13

introduzione

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i ritratti di Dama dei Pollaiolo

27

antonio del Pollaiolo: i rapporti con la famiglia bracciolini, i manoscritti e le vedute a volo d’uccello

33

antonio del Pollaiolo e Federico di montefeltro. il possesso di Rusciano e la Pala Montefeltro in brera

45

Ragioni storiche e ragioni stilistiche per l’attribuzione ad antonio del Pollaiolo dell’Annunciazione degli uffizi attribuita a Leonardo da Vinci

75

antonio del Pollaiolo e la casa montefeltro: il Dittico del Duca e della Contessa. La Madonna di Senigallia

89

antonio del Pollaiolo e andrea mantegna. L’incisione Orgia e Pentimento

117

antonio del Pollaiolo, bramante e Leonardo: gli affreschi di casa Visconti-Panigarola

125

APPENDICE I

antonio del Pollaiolo architetto progettista della Rocca di sassocorvaro

157

APPENDICE II

donato bramante: Antiquarie Prospectiche Romane Composte per Prospettivo Melanese Dipintore

171

ICONOGRAFIA

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premessa storica allo studio di antonio del pollaiolo di Riccardo Fubini

così annunciava la morte di antonio del Pollaiolo Piero Parenti, l’autore della più esauriente cronaca politica fiorentina al tempo di savonarola e machiavelli: «circa a questo tempo morì a Roma antonio del Pollaiolo, maestro fiorentino, statuario nobilissimo, il quale pontificali sepolture facea»1. La fama pubblica del nostro autore era dunque legata ai sepolcri in bronzo di sisto iV e di innocenzo Viii, da lui firmati e di cui aveva avuto pubblica commissione, e di qui proveniva la sua reputazione di eccellente scultore. ma vi è un’altra testimonianza non strettamente artistica di questi suoi ultimi tempi. nella sua predicazione sopra il profeta aggeo (siamo dunque nel 1494), Girolamo savonarola immagina che il signore gli venga in soccorso nella sua vocazione di predicatore. con ciò egli intende l’ispirazione profetica, che infonde alla predica un potere di convincimento superiore a ogni altra pratica religiosa, rinchiusa nella sua esclusività devozionale e scolastica. egli immagina di venire condotto dal suo divino istruttore nella bottega di un pittore, se per caso fosse capace di ritrarlo in scultura; la risposta è prevedibilmente negativa: «L’arte mia è sola el dipignere». una pari risposta riceve dallo scultore, richiesto di ritrarlo in pittura: «non è arte mia el dipigner». Piena soddisfazione incontra invece «alla bottega dello aurifice», capace di dominare ambedue le arti («una figura scolpita e di rilievo e dipinta»). così conclude il divino apologo: «non sai tu che alcune arti sono semplici, di saper fare una cosa sola, alcune sono miste, di far più cose insieme, com’è l’aurefice, che sa pignere e scolpire? così bisogna fare a te»2. È vero che l’orificeria fu la professione di base per vari artisti dell’epoca3; e tuttavia non può essere senza significato la solennità del contesto. La figura per antonomasia dell’orefice poliedrico era quella del Pollaiolo, circonfuso dallo spirito dell’arte, così come savonarola lo era da quello della profezia, sopravanzando ambedue i limiti di ogni ritualismo e di ogni specialità. ma se all’uno la libertà era concessa dalla diretta ispirazione sovrannaturale, nell’altro, molto più naturalmente, derivava dal primato assegnato al disegno. se Pollaiolo, come si è veduto, al termine della sua esistenza fu celebrato dalla voce comu-

1 PieRo di maRco PaRenti, Storia fiorentina. II (1496-1502), a cura di a. matucci, olschki, Firenze 2005, p. 202. 2 G. saVonaRoLa, Prediche sopra Aggeo, vol. i, a cura di L. Firpo, Roma 1965, p. 328; il passo è riportato e commentato da n. ben-aRyeh debby, Predicatori, artisti e santi nella Toscana del Rinascimento, edifir, Firenze 2015, p. 33. 3 cfr. m. G. ciaRdi duPRÈ daL PoGGetto (a cura di), L’orificeria nella Firenze del Quattrocento, Firenze, 1977.

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ne come «statuario nobilissimo», nella sua piena maturità egli era stato definito da un intenditore come Giovanni Rucellai quale «maestro di disegno»4. È probabile, per chi ora si accosti al libro che qui si presenta di massimo Giontella, che si senta spaesato rispetto alle nozioni tradizionali che si leggono sull’artista. delle sue più note raffigurazioni pittoriche (putacaso l’Ercole e l’Idra, La Danza dei Nudi, il Martirio di San Sebastiano ecc.), è taciuto, o quanto meno esse non vengono menzionate che in chiave di confronto. Parimenti implicita o solo accennata è la carriera dell’artista contrassegnata in Firenze dalle varie commissioni sacre e profane, come ci è possibile seguire nel puntuale articolo di marco chiarini nel Dizionario biografico degli italiani 5. il percorso artistico del Pollaiolo, ove considerato nei suoi tratti più innovativi e programmatici (o, se vogliamo riprendere per un attimo la terminologia del savonarola, nella carica a suo modo profetica), non è di quelli che si lascino cogliere dai meri contorni istituzionali. scrive per esempio chiarini che «il cartone michelangiolesco per la battaglia di cascina», o il «grande affresco murale di Leonardo in Palazzo Vecchio» sarebbero «senza la lezione del benci incomprensibili»; e tuttavia la fitta sequela di impegni professionali dell’artista, con tanta diligenza sopra tracciata, difficilmente di per sé vale a dar conto di un esito così impegnativo. tale è il quesito a cui mira a rispondere con dovizia di argomentazioni e riscontri il lavoro che qui si presenta di massimo Giontella. Pollaiolo costituisce un raro esempio di artista artigiano, che è al contempo uomo di cultura; è artista ubbidiente alle commissioni delle autorità civili (per esempio il tribunale della mercanzia), ma anche, fuor d’ufficialità, è artista di riferimento di signori (in modo speciale il duca di urbino), ed è questa la via che lo condusse a operare per conto di papa sisto iV o meglio, del cardinale Giuliano della Rovere, suo nipote, e di qui a stabilire la sua ultima residenza in Roma. su tale linea, culturale e politica ad un tempo, egli si pone nella scia copertamente tracciata da Leon battista alberti – un aspetto questo che sembra essere sfuggito non meno agli studiosi albertiani che a quelli del Pollaiolo. Questi impersona infatti il modello di artista preconizzato nel De pictura di L. b. alberti. come questi scriveva – siamo nel 1435 –, esso «non avrebbe dovuto identificarsi con nessuna delle forme di pittura praticate in Firenze», ma mostrarsi «appropriato alle condizioni del nuovo artista colto», alla pari dei cultori delle discipline liberali6. È vero che la redazione volgare (che precede nella composizione quella latina) reca una lettera di dedica a Filippo brunelleschi; essa tuttavia, piuttosto che un atto di deferenza, costituisce, nella sua volontà di innovazione, una presa di distanza rispetto al dedicatario, secondo la medesima intenzione delle dediche a Leonardo bruni e a Pog-

4 cfr. a. PeRosa (a cura di), Giovanni Rucellai e il suo Zibaldone. i, “Il Zibaldone quaresimale”, pagine scelte, Warburg institute, London 1960, p. 24. si tratta di un elenco di «cose di scholtura e di pittura» che «noi abiamo in chasa nostra». al contrario di «antonio d’iacopo del Polaiuolo», «maso Finighuerra» è definito come «orafo, maestro di disegno», mentre per es. Paolo uccello e domenico Veneziano sono definiti come «pittori», e andrea del Verrocchio, «schultore e pittore». 5 Dizionario biografico degli italiani, vol. 8, istituto della enciclopedia italiana, Roma 1966, pp. 183-189, alla voce Benci, Antonio, detto il Pollaiolo. 6 cfr. a. GRaFton, Leon Battista Alberti, un genio universale, trad. it., Laterza, Roma-bari 2003, pp. 147-198, qui p. 154.

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gio bracciolini, l’élite umanistica del tempo, nei primi libri delle Intercoenales7. nella dedica suddetta al brunelleschi compare un concetto importante, tipico del resto dell’alberti. egli non si appaga dell’antichità latina, ma estende la sua indagine a quella greca. Viva era la consapevolezza che si trattava di tradizione (letteraria, ma soprattutto filosofica e scientifica) pervenuta in forma largamente incompleta: compito dei moderni era di conseguenza quello di ripercorrere lo stesso tragitto, direttamente indagando i segreti della natura. da parte sua il pittore, oltre che impadronirsi delle conoscenze fisico-matematiche e delle regole della prospettiva, avrebbe raffigurato «corpi volumetrici tridimensionali, sotto la cui pelle si trovavano chiaramente ossa e muscoli, e che sono a loro volta ricoperti di tessuti che si muovono, come quelli reali, ad ogni spostamento d’aria»8. ecco l’origine della ricerca di Pollaiolo – come Giontella indica con competenza professionale –, che dall’anatomia dei corpi si estende con spirito di pioniere alla dinamica del movimento; ed ecco per altro verso la dignità sociale che egli, in qualità d’artista e di progettista, esige presso letterati e filosofi quali cristoforo Landino e marsilio Ficino, o addirittura presso un potente come Federico da montefeltro duca di urbino, dinanzi al quale si auto-rappresenta nella tavoletta unita al codice di dedica delle Disputationes Camaldulenses. La pittura, si diceva, è concepita da alberti, non come prodotto artigianale, ma come rappresentazione e racconto (o «historia»), autorizzati dalle regole della retorica9. ciò comporta una libera scelta del soggetto, bene al di là dei vecchi modelli devozionali. Lo sfondo d’oro è bandito, ed è aperto libero campo all’immaginazione. Pollaiolo continua e in certo modo radicalizza il discorso: la stessa immagine sacra è piegata, talora in modo sconcertante, ad indicare all’osservatore smaliziato eventi e situazioni coevi. un caso palese è l’Annunciazione degli uffizi, tradizionalmente attribuita a Leonardo, qui per la prima volta con solide argomentazioni iconografiche e figurative attribuita a Pollaiolo, anche sulla base di trasparenti allusioni politiche10. in tal senso, sempre rimanendo nella scia rarefatta del De pictura albertiano, Pollaiolo vi occupa una, per quanto disconosciuta, posizione strategica, al polo opposto del De prospectiva pingendi di Piero della Francesca, che si richiama all’alberti, non per l’“invenzione” retorica, ma dall’esclusivo punto di vista fisico e prospettico11. L’unico dipin-

7 cfr. L. b. aLbeRti, Intercoenales, a cura di F. bacchelli e L. d’ascia, Pendragon, bologna 2003, pp. 82 sg., 222. sulla duplice redazione, si veda inoltre particolarmente L. b. aLbeRti, De pictura (redazione volgare), a cura di L. bertolini, Polistampa, Firenze 2011. 8 a. GRaFton, L. B. Alberti, cit., p. 153. 9 Ibidem: «infine deve fare recitare loro storie che siano coerenti dal punto di vista della disposizione nello spazio, della carica emozionale e del senso storico: storie che ispirino automaticamente all’osservatore le giuste emozioni, le stesse che il pittore aveva precedentemente provato». 10 Per un completamento della dimostrazione dal punto di vista dell’analisi storico-politica rispetto al capitolo in questione, cfr. m. GionteLLa – R. Fubini, Sacra rappresentazione, profezia e riferimenti politici nella “Annunciazione” degli Uffizi attribuita a Leonardo, in corso di stampa su “atti e memorie dell’accademia toscana di scienze e lettere, La colombaria”, 2014-2015. 11 cfr. il commento della curatrice in L. b. aLbeRti, De pictura, cit., p. 58: il trattato nei suoi intenti «non venne accolto, in tutta la sua carica propulsiva, dal pubblico dei pittori contemporanei in servizio dei quali egli l’aveva scritto e limato; … solo i decenni successivi videro la nascita di un pubblico di artisti»; fino a giungere a «lettori quali Piero della Francesca e Leonardo da Vinci», che accolsero la

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to moderno ricordato da alberti è il mosaico della Navicella di Giotto in Vaticano, apprezzato per il pathos infuso dall’artista12; mentre gli altri esempi (apelle, zeusi ecc.) sono comunemente addotti dalla tradizione letteraria antica. si tratta di un assunto tipicamente classicistico, dove un caso di artista moderno è introdotto, per dir così, in funzione di battistrada per la nuova arte, fuori dagli schemi correnti, per la sua capacità di rivaleggiare con la perfezione degli antichi. È questo il medesimo procedimento – come si può vedere nel capitolo pertinente di questo libro – usato da bramante, che indica a Leonardo la scultura di Pollaiolo, come del solo moderno degno per l’imitazione del corpo umano di stare alla pari dell’antico Prassitele («et anton Polli fè ’l proprio modello / per nothomia et ogni nervo et osso / come facto l’havesse Praxitello»)13. ma vi è un altro percorso seguito dal Pollaiolo, che ha per presupposto un’opera letteraria coeva: si vuol dire il De viris illustribus, scritto verso il 1456 dall’umanista bartolomeo Facio su commissione di alfonso i d’aragona, Re di napoli. ora quest’opera, che per la prima volta nelle tradizionali raccolte di profili biografici introduce nomi di pittori e scultori, si segnala – come è stato scritto – come «l’analisi più lucida delle scelte culturali del magnanimo e del suo interesse per la pittura dell’europa settentrionale»14. La pittura italiana vi è rappresentata dal gotico internazionale di Gentile da Fabriano e Pisanello (il primo dei quali, dichiara Facio, era giudicato dal fiammingo Roger Van der Weyden come preminente su tutti i connazionali)15; ma il massimo risalto è dato ai grandi pittori fiamminghi: Jan Van eyck innanzitutto (esaltato a comune giudizio come «nostri saeculi pictorum princeps»), e, appunto, Roger Van der Weyden16. il modello fiammingo, così spiccatamente presente nella pittura del Pollaiolo commissionata dalla corte urbinate, derivava dunque da tale archetipo napoletano, così come sanzionato in un’opera direttamente ispirata dalla volontà del sovrano17. ma va altresì notato, quanto alla corte di urbino, che si trat-

lezione dell’alberti. si veda anche m. baxandaLL, Giotto e gli umanisti. Gli umanisti osservatori della pittura in Italia e la scoperta della composizione pittorica, 1350-1450, Jaca book, milano 1994, p. 176: «solo due importanti pittori della metà del xV secolo si possono definire albertiani in modo più che occasionale: Piero della Francesca e mantegn». 12 cfr. a. Grafton, L.B. Alberti, cit., pp. 169 sg.; e L. b. aLbeRti, De pictura, cit., p. 282: «lodasi la nave dipinta a Roma, in quale el nostro toscano dipintore Giotto pose undici discepoli tutti commossi da paura vedendo uno de’ suoi compagni passeggiare sopra l’acqua, ché ivi espresse ciascuno con suo viso e gesto porgere uno certo indizio d’animo turbato: tale che in ciascuno erano suoi diversi movimenti e stati». il dipinto aveva mantenuto la sua fama nel xV secolo: ne furono tratti disegni, ed è ricordato nei Commentari di Lorenzo Ghiberti; cfr. a. tomei, alla voce Giotto, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, istituto della enciclopedia italiana, Roma 1995. 13 cfr. ai vv. 116-118 del poemetto qui riportato. 14 G. toscano, Naples et la Cour de Bougogne à l’époque des rois d’Aragon (1442-1494), in W. PaRaVicini (a cura di), La Cour de Bourgogne et l’Europe. Le rayonnement et les limites d’un modèle culturel, thorbecke, menningen 2013 (beihefte der “Francia”, herausgegeben von deutscher historischen instituts Paris, bd. 13), pp. 559-579, qui p. 563. 15 baxandaLL, Giotto e gli umanisti, cit., p. 210. 16 Ibidem. 17 cfr. al riguardo G. aLbanese (a cura di), Studi su Bartolomeo Facio, ets, Pisa 2000; e inoltre ead., Le sezioni “De pictoribus” e “De sculptoribus” nel “De viris illustribus” di Bartolomeo Facio, in “Letteratura e arte”, i, 2003, pp. 59-110. 10

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tava di un interesse precoce. È Facio stesso ad informarci di una raccolta di pitture di Van eyck, in specie di soggetto profano, che si ammirava presso ottaviano ubaldini della carda, fratello minore di Federico da montefeltro, e poi suo stretto collaboratore nel governo, reggente infine per conto dell’erede minorenne Guidubaldo, che ebbe sicuramente parte dirigente nelle committenze artistiche, a maggior ragione in quelle celebrative in morte di Federico18. ed infine un altro particolare è notevole in rapporto alle committenze urbinati. al modo delle corti, si trattava di una produzione destinata agli appartamenti privati del signore: così l’Annunciazione di Van eyck collocata «in penetralibus alfonsi regis»; ovvero l’Adamo ed Eva di Roger Van der Weyden, visibile «in penetralibus principis Ferrariae»19. Rimane da premettere qualcosa sulle circostanze per nulla ovvie dell’incontro del Pollaiolo, artigiano e artista cittadino, con Federico da montefeltro, e sulle modalità, altrettanto poco ovvie, del rapporto fra di loro stabilito. così scriveva l’umanista Francesco Filelfo a Federico da montefeltro il 15 marzo 1473, in risposta alle critiche da più parti sollevate per l’ambiziosa costruzione del castello d’urbino: «non solo non biasimo la distinzione e l’orgoglio dell’animo tuo, ma anzi li lodo e li ammiro: tu che in ogni cosa non vieni meno ai requisiti della virtù, e soprattutto ti distingui per quel vanto di eccellenza che i greci chiamano megaloprépeia (magnificenza), così chiamata perché si addice agli uomini grandi»20. La costruzione, così sproporzionata rispetto alle modeste proporzioni della città e contea di urbino, rifletteva l’ambizione politica del personaggio. Perno, oltre che capitano condotto, della Lega di napoli, milano e Firenze che nel 1467 si era posta a garanzia dei pericolanti equilibri dei principati d’italia, in seguito a dissidi con il duca di milano era rimasto vincolato al solo re di napoli, Ferrante d’aragona, nonché, per quota minoritaria, a Firenze. e tuttavia nel 1472, quando il regime di Lorenzo de’ medici in Firenze si trovò a repentaglio, anche interno, per la rivolta di Volterra, Federico, su richiesta fiorentina ma contro il volere del suo principale, Ferrante d’aragona, prestò il suo soccorso, a ciò segretamente incoraggiato dal Papa, sisto iV, che aspirava a subentrare nella condotta. ciò avvenne nel 1474, quando Federico, che aveva rinnovato la condotta con il Re, accettò di appoggiare la spedizione ecclesiastica diretta a piegare l’insubordinazione al governo della chiesa nelle città dell’umbria e in particolare a città di castello, essendo per questo premiato dal Papa con l’investitura ducale. La mossa andava viceversa contro

18 cfr. maxandaLL, Giotto e gli umanisti, cit., p. 211: «sunt item picturae eius [scil. iohannes Gallicus] nobiles apud octavianum cardam, virum illustrem»; segue la descrizione del quadro che rappresentava con ricchezza di particolari donne che escono dal bagno, riflesse con vivi effetti di luce in uno specchio. sulla questione dinastica, si veda la puntualizzazione di L. bei, La vera paternità di Federico da Montefeltro e Ottaviano Ubaldini, in “Ver sacrum. Ricerche di storia, ambiente e cultura locale”, http://versacrumricerche.blogspot.it/p/la-verapaternità-di-federico-da.html. 19 Ibidem, pp. 210, 212. 20 «Quem sane tuam elegantiam splendoremque animi non modo non reprehendo, sede laudo potius et admiror, qui cum omnibus in rebus te nulla virtute inferiorem geras, tum eius praestantiae gloria in primis polles, quam Graeci megaloprépeian appellant, idcirco huiusmodi nomine appellatam qud magnos deceat viros»; cfr. R. Fubini, Italia quattrocentesca. Politica e diplomazia nell’età di Lorenzo il Magnifico, angeli, milano 1994, p. 258.

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gli interessi di Firenze e di Lorenzo de’ medici, che negò bruscamente il rinnovo della condotta al capitano; parte di qui la trama che sfocerà poco più tardi, nel 1478, nella congiura dei Pazzi, che ebbero in Federico, capitano condotto del Re e del Papa, il principale punto di riferimento militare21. tutt’altri erano stati i rapporti nel 1472, quando per l’espugnazione di Volterra furono tributati a Federico in Firenze i più alti onori (il sacco della città, rimasto tristemente celebre, non fu per la verità responsabilità diretta dell’esercito assediante, venuto ormai a patti con gli assediati, ma di soldatesche sbandate fra cui quelle stesse assoldate dai Volterrani, a cui il grosso della compagnia tenne poi dietro)22. Fra gli altri onori, Lorenzo curò personalmente l’acquisto della Villa di Rusciano, che era appartenuta a Luca Pitti, e che fu ora donata a nome della città al capitano insieme al privilegio di cittadinanza. Le opere letterarie dedicate a Federico, fra cui principalmente le (ancora inedite) Storie fiorentine di Poggio bracciolini volgarizzate dal figlio Jacopo e, più tardi, le Disputationes Camaldulenses di cristoforo Landino, furono fra i segni del suo familiarizzarsi con la vita cittadina, nonché della volontà di fare di Firenze e del suo reggimento uno dei contrafforti della sua politica avventurosa. Fu in questa occasione che avvenne l’incontro di Federico da montefeltro con antonio del Pollaiolo, che ne fece il suo artista di riferimento – ciò che sta nel cuore del libro di Giontella –, in modo particolare nella decorazione al modo fiammingo della Villa di Rusciano e della sua cappella. Pollaiolo viceversa trovò nello stretto rapporto che aveva stabilito con il signore la sponda, per dir così, che difficilmente la madrepatria gli avrebbe offerto nel suo ambizioso intento di combinare classicismo umanistico e verismo fiammingo, e in particolare di svolgere con libertà i suoi soggetti, in implicita continuità con i precetti albertiani. tale è la direttiva fondamentale di questo libro, e non resta che cedere doverosamente la parola al suo autore.

21 cfr. id., Federico da Montefeltro e la congiura dei Pazzi: immagine propagandistica e realtà politica, in id., Italia quattrocentesca, cit., pp. 253-326. 22 cfr. id., Lorenzo de’ Medici e Volterra in id., Quattrocento firentino. Politica diplomazia cultura, Pacini, ospedaletto (Pisa) 1996, pp. 123-139.

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prefazione

La finalità del volume è riposizionare antonio del Pollaiolo sullo scranno di grande maestro del Quattrocento, così come lo consideravano i principali personaggi del suo tempo. Purtroppo, fin dall’inizio del cinquecento la critica storico-letteraria ebbe un approccio limitativo nei riguardi dell’artista, tendente a snaturarne la figura tanto da non curarsi della rivalutazione operatane da Vasari. Vi fu all’inizio del novecento una netta riconsiderazione di antonio del Pollaiolo da parte della critica, cui seguì negli anni una sorta di oblio fino allo stravolgimento di giudizio operato recentemente sull’attività e sulle doti dell’artista. il volume non è una monografia ma una silloge di studi e ricerche disposti secondo una precisa scaletta; talora dei passi potrebbero apparire ripetitivi ma sono riproposti per dare completezza di risposte argomento per argomento. alla presentazione generale dei fondamentali e dei campi di applicazione del Pollaiolo seguono considerazioni sull’attività di pittore in cui viene contestata senza mezzi termini la predominanza che, in questo campo, è stata data ultimamente al fratello Piero. il volume incentra le sue ricerche sui rapporti, mai messi in luce, che si stabilirono negli anni ’70 del Quattrocento tra antonio del Pollaiolo e Federico di montefeltro. il duca di urbino volle fare di antonio del Pollaiolo ciò che era stato Van eyck per Filippo il buono, duca di borgogna: non soltanto l’artista di riferimento, ma un cortigiano a tutti gli effetti. come vedremo, il duca di urbino, come ultima commissione prima della sua dipartita, si fece ritrarre insieme all’artista nella tavoletta che funge da piatto anteriore del codice urbinate latino 508 Disputationes Camaldulenses; una disposizione di tal genere, assolutamente inusitata per il tempo, testimonia il tipo di rapporto che si era stabilito negli anni ’70 tra il Principe e l’artista. tratteremo di seguito del contrasto che si generò, a seguito dell’ingresso a urbino di antonio del Pollaiolo, tra il grande pittore locale Piero della Francesca e la corte del ducato. si passerà quindi a trattare dei rapporti che antonio del Pollaiolo ebbe con i grandi maestri del suo tempo: scambiò le sue esperienze con andrea mantegna e fu maestro di pittura di Leonardo, botticelli, botticini, antonello da messina e Fra carnevale, fu maestro di scultura di andrea sansovino e maestro di architettura albertiana di donato bramante. antonio del Pollaiolo è da ritenersi a tutti gli effetti un edificatore del secondo Quattrocento nell’arte, così come masaccio lo è stato per la prima metà del secolo. Per quanto riguarda la parte storica dei vari capitoli mi sono avvalso del sapere e della grande disponibilità di Riccardo Fubini, Professore di storia del Rinascimento presso l’università di Firenze; al Prof. Fubini va il mio più sentito ed affettuoso ringraziamento. Massimo Giontella 13

introduzione

cenni biografici preliminari dati contraddittori rendono difficile determinare con esattezza la data di nascita di antonio del Pollaiolo a Firenze, ma il 1431 sembra essere l’anno più probabile, come da dichiarazione in catasto del 1480. secondo una prassi seguita da tutti i grandi maestri del Quattrocento, antonio del Pollaiolo iniziò l’apprendistato artistico come orafo con Lorenzo Ghiberti, lavorando fianco a fianco con maso Finiguerra nei disegni e nelle incisioni. subì inevitabilmente l’influenza di brunelleschi e donatello; ebbe come maestri di pittura domenico Veneziano e andrea del castagno, collaborò con Luca della Robbia, antonio e bernardo Rossellino (cappella del cardinale del Portogallo in san miniato). L’influenza classicista della scuola italiana si fuse, in antonio, con l’esperienza naturalista fiamminga i cui grandi maestri di riferimento furono sluter e Van eyck. antonio ebbe con suo fratello Piero un rapporto simbiotico che si protrasse per tutto l’arco della vita, con lunghi periodi di reciproche, singole esperienze. antonio rimase a lungo orafo ma negli anni ’60 decise di dedicarsi primariamente alla pittura, mentre nel decennio successivo si aggiunsero le attività di scultore e architetto. negli anni ’70 svolse prevalentemente la sua attività per il duca di urbino; negli anni ’80 ebbe la commissione del sepolcro di sisto iV e si trasferì definitivamente a Roma, ma non abbandonò la sua bottega di orafo, che continuò a lavorare sotto la direzione del socio Paolo sogliani. Periodicamente antonio fece ritorno a Firenze recandosi a soggiornare nella sua proprietà nei pressi di Poggio a caiano. dopo aver fatto testamento, nel 1496, antonio del Pollaiolo morì a Roma il 4 febbraio del 1498 e fu sepolto, insieme al fratello Piero, nella tomba di san Pietro in Vincoli. sebbene l’uomo fosse sempre in cerca di nuove commissioni, vi fu una certa determinazione da parte sua nel celare buona parte dell’attività artistica, attribuita conseguentemente oggi ad altri, in special modo quella svolta per il signore di urbino; un tale comportamento può essere ricondotto a differenti motivazioni. L’ingresso di antonio del Pollaiolo alla corte di urbino scalzava Piero della Francesca, il rinomato e ovunque ossequiato pittore locale; si trattava per il fiorentino di una situazione un po’ imbarazzante cui cercò di rimediare agendo dietro le quinte, e appoggiandosi a Fra carnevale per la pittura e ad ambrogio barocci per la scultura; come vedremo in seguito, grandi artisti ritrassero il Pollaiolo voltato di spalle per focalizzarne l’intendimento di celare la propria identità. Federico di montefeltro era il capitano Generale di Ferrante Re di napoli, grande estimatore dell’arte fiamminga, al pari del padre alfonso, che aveva fatto arrivare dalle antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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Fiandre opere d’arte di ogni genere. seguendo le orme del suo datore di lavoro, il montefeltro desiderava opere totalmente ispirate all’arte fiamminga del primo Quattrocento, qualcosa che forse ancorava troppo saldamente antonio del Pollaiolo alla passata esperienza d’oltralpe; oltre a ciò le risolute intromissioni del signore committente nell’elaborazione delle opere d’arte erano tali da richiedere una posizione defilata del grande maestro fiorentino nell’attività svolta per il duca di urbino. Vi era ancora una motivazione di carattere generale nel non volersi esporre per quanto il suo talento avrebbe richiesto, che si riallacciava alle radici culturali di antonio del Pollaiolo; la sua formazione artistica si era consolidata con la frequentazione di un grande umanista e di un grande filosofo: Leon battista alberti e marsilio Ficino. L’umanista profetizzava il celarsi dell’uomo di cultura e dell’artista; fece firmare ad altri alcuni suoi scritti ed elaborò anche un alfabeto cifrato. alberti sosteneva inoltre che il momento Principe nella realizzazione di un’opera d’arte era la progettazione, mentre l’esecuzione materiale poteva anche essere affidata ad altri. Ficino faceva, per parte sua, del messaggio criptato la modalità più appropriata di trasmettere le sue teorie filosofiche, assegnando comunemente alle esternazioni due diverse possibilità di lettura. sebbene disdegnati, gli epicurei con il loro Lathe Biosas avevano fatto breccia nei due pensatori, dei quali antonio del Pollaiolo è da considerare la musa. studiare le sue opere è spesso come partecipare ad una impegnativa caccia al tesoro; l’artista, seguendo i precetti albertiani e ficiniani, cripta se stesso e il messaggio della propria arte, ma lascia sempre un segno, una recondita chiave di lettura.

i fondamentali dell’arte di antonio del pollaiolo La combinazione tra mitologia, religione e f ilosof ia Le dissertazioni religioso-filosofiche della seconda metà del Quattrocento danno spazio, in chiave avventistica, ai personaggi mitologici dell’antichità: l’umanista cristoforo Landino nelle Disputationes Camaldulenses (una disputa sul sommo bene, di cui tratteremo approfonditamente in seguito) riunisce in uno stesso ragionamento le esperienze terrene di Paolo di tarso e di mosè con le imprese di ercole, l’eroe della mitologia classica che meglio rappresentava i legami del cristianesimo con la religione antica. ercole e cristo avevano molto in comune: furono concepiti per intervento divino nei grembi mortali di alcmena e di maria, sfuggirono a era ed erode che volevano ucciderli, entrambi dovettero subire umanamente la passione, rispettivamente sull’eta e sul calvario, sotto lo sguardo straziato delle loro madri, per poi salire in cielo a lato del Padre. ercole era pertanto la figura ideale che potesse saldare la religione e la filosofia antiche con il credo e il pensiero moderni; l’eroe mitologico era il simbolo del primato della filosofia, della vittoria della vera sapienza sui sofismi. scrive Landino nelle Disputationes Camaldulenses: «se fosse rimasto presso il suo precettore atlante, dedito solo ad una oziosa sapienza, avremmo al posto di ercole un sofista…». antonio del Pollaiolo fece una lunga serie di rappresentazioni di ercole ma fu criticato dall’umanista napoletano Pomponio Gaurico, nel suo De Sculptura di inizio cinquecento, in quanto, a suo dire, il volto dell’eroe mitologico era stato rappresentato dall’artista fiorentino sempre con fattezze diverse; l’estensore del trattato non aveva re16

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cepito che il messaggio era proprio la possibile immedesimazione in ogni essere umano dell’uomo-dio per il tramite delle rispettive virtù. nel De Vita Ficino avvicina ercole a Poliziano, che debellava mostri orribili nei codici, generatisi per l’incuria di copisti antichi e moderni. L’altro grande personaggio che per il neoplatonismo fungeva da trait d’union tra la religione antica e il cristianesimo era ermete trismegisto, chiamato “tre volte grandissimo” perché fu grandissimo filosofo, grandissimo sacerdote e grandissimo Re. Quando i Greci entrarono in contatto con la cultura egizia ne assimilarono il culto di alcune divinità, tra queste il dio toth, lo scriba degli dei cui fu attribuita l’invenzione della scrittura e di molte altre arti, come la medicina, la magia, l’astronomia e la teosofia. toth venne dapprima identificato con l’hermes greco, ma in seguito divenne indispensabile differenziarlo dal dio hermes ed identificarlo con ermete trismegisto. Platone nei suoi dialoghi introdusse il thot-ermete che, come mosè, codificò le sue leggi incidendole sulla pietra: “La tavola smeraldina”. L’opera letteraria di ermete, il Corpus Hermeticum, che rappresentava una sorta di bibbia pre-cristiana incentrata sulla Genesi, fu portata in italia dal monaco Leonardo da Pistoia per i primi quattordici libri. cosimo il Vecchio, fortemente interessato a quei testi, chiese a Ficino di tradurli dal greco in latino; l’attesa dell’ambiente culturale fiorentino nei confronti dei testi ermetici era grande, tanto che dopo la traduzione di Ficino, nello stesso 1463, il testo fu volgarizzato da tommaso benci. i primi quattordici libri del Corpus Hermeticum, denominati “Pimander”, erano preceduti nella traduzione da una prefazione di Ficino, l’Argumentum, in cui veniva compiutamente illustrata la figura di ermete come colui che aveva rivelato la filosofia, l’astrologia e l’alchimia, ma il tributo più significativo che Ficino dava ad ermete era il riconoscimento di essere stato il primo a studiare la contemplazione divina e a divulgare lo studio della teologia, seguito nell’ordine da orfeo, aglaofemo, Pitagora, Filolao e da ultimo Platone. come profeta pagano che aveva preconizzato la rovina della religione antica, la venuta di cristo e la resurrezione degli uomini, ermete poteva essere rappresentato in ambienti sacri cristiani, come nel commesso di marmo disposto sul pavimento del duomo di siena (derivato, a mio avviso da un disegno di antonio del Pollaiolo), dove la figura del Profeta è simbolo della conoscenza e veicolo per la introduzione al tempio di dio. ermete si appoggia con la mano sinistra ad una tavoletta “La tavola smeraldina” in cui è annunciata l’incarnazione di cristo, mentre le due sfingi o sibille che la sorreggono preconizzano e testimoniano il legame della cultura e della religione antiche con il cristianesimo. se il neoplatonismo trova una comoda sponda nell’arte per esternare i suoi principali dettami filosofici, per contro si sdebita partecipando agli artisti uno dei suoi più importanti segreti: l’armonia. il platonismo è una emanazione diretta del pitagorismo, che il movimento neoplatonico rinascimentale intende rivalutare. Qual è la cosa più bella? «L’armonia» rispondeva Giamblico; come si crea l’armonia? «L’armonia nasce solo coi contrari, perché l’armonia è unificazione di molti termini mescolati, e accordo di elementi discordanti» sentenziava Filolao, il maestro di Platone, che rappresentò graficamente con il tetracordo i numeri con i quali si realizza la perfetta armonia. seguendo i dettami pitagorici, l’artista rinascimentale introdotto al neoplatonismo, in primis antonio del Pollaiolo, ricerca nella realizzazione dell’opera d’arte l’armonica sintesi di elementi contrari. tra i suoi capisaldi la dottrina neoplatonica annoverava la teoria tolemaica antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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dell’organizzazione celeste, la cui rappresentazione era la sfera armillare; al centro era disposta la terra e intorno ad essa le armille (dal latino: anelli) che costituivano i cerchi celesti: il meridiano celeste, l’equatore celeste, l’ellittica, l’orizzonte, i tropici e i coluri (i cerchi che si intersecano perpendicolarmente ai poli). La sfera armillare riproduceva l’armonia dell’universo tramite le sue due figure componenti, il cerchio e la sfera, simboli del ritorno dell’essere alla sua origine e del tutto nell’uno. Lo strumento con cui si poteva “leggere” la sfera celeste era l’astrolabio, letteralmente “cercatore di stelle”. il principio su cui si basa l’apparecchio è quello di realizzare la proiezione stereografica della sfera celeste. in geometria e in cartografia, “per proiezione stereografica” si intende la proiezione dei punti della superficie di una sfera sul piano equatoriale partendo da un punto n della stessa (che viene chiamato polo Nord). in pratica con l’astrolabio la sfera celeste viene trasformata in un cerchio cosicché le misurazioni della organizzazione astrale da curvilinee divengono rettilinee. L’apparecchio era di grande aiuto per l’astronomo rinascimentale perché consentiva, nei vari spostamenti, di valutare sempre la corretta disposizione dei corpi celesti; l’astrolabio permetteva ancora, con semplici calcoli geometrico-matematici, di misurare, a distanza, le altezze e le profondità. conoscere in ogni momento l’esatta ubicazione delle stelle era per il neoplatonico di grande aiuto per l’humour e la creatività. secondo Ficino, lo studio del cosmo era finalizzato a focalizzarne l’interazione con i moti dell’animo umano; il filosofo, continuamente condizionato dagli influssi di saturno, cadeva dapprima in uno stato di depressione, cui seguiva la folgorazione della intuizione filosofica. L’uomo di pensiero, scrutando le stelle, trovava le risposte alle problematiche della sua esistenza e del suo futuro, giungendo alla sublimazione dell’essere tramite le virtù, che lo ponevano in comunione diretta con l’universo. L’artista rinascimentale, seguendo il nuovo movimento filosofico, lavora alle sue creazioni in interazione con il macrocosmo; le arti figurative divengono vere e proprie immagini dell’ordine cosmico, così come la sapienza è un immenso specchio dove risplendono le similitudini di tutte le cose. antonio del Pollaiolo fu molto legato a marsilio Ficino, come documenta la lettera scritta da questi al patrizio veneto Pietro molin nell’anno 1482: antonius noster pictor et sculptor insignis, cum hesterno vesperi me meosque familiare in foro tuo nomine salutaret, ita tuos nostris vultibus pinxit vultus ita tuos affectibus nostris insculpsit affectus, ut non tam tuae nobis ab illo narrari salutes quam a te ipso coram agi perspicue viderentur. itaque assurreximus omnes subito neque Florentinum antonium ulterius, sed ipsum molinum tam praesentem agnovimus, et nudo capite (ut par est) honoravimus. salve et tu semper doctissime Petre nosque, (ut coepisti) salutari hac praesentia tua salvos frequentissime redde. tamdiu nos honorandos revera putabimus quadiu ipse vos honoraveris. tantum et nostra nobis placebit civitas quantum tibi eam placere noverimus. utinam tibi nostra magis in dies placeant ut nos ipsi nobis in dies vehementius placeamus, bene vale. “il nostro antonio, pittore e scultore insigne, salutando a tuo nome ieri sera in piazza me ed i miei famigliari, così come dipinse i vostri nei nostri volti, parimenti scolpì i tuoi nei nostri affetti, al punto che essi non parevano più tuoi che nostri. il voto di prosperità che egli ci porgeva era come se fosse stato proferito da te alla nostra presenza. noi tutti allora ci levammo e riconoscemmo la presenza non già di antonio, ma dello stesso molin; sicché, come debito, gli prestammo onore a capo scoperto. 18

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salve a te, come sempre, o dottissimo Pietro, e facci lieti con la tua presenza, dal momento che hai incominciato, il più spesso che puoi. tanto più degni di onore noi ci considereremo, quanto più tu stesso ci avrai onorato; e tanto più ci compiaceremo di questa nostra città, quanto più sapremo che essa ti piace. L’augurio è che ti piaccia sempre di più, in modo che noi possiamo sempre più ardentemente compiacerci di noi stessi. addio”. (da m. Ficino, Opera Omnia, Lettere, Firenze 1482, p. 856).

La lettera ci fornisce delle indicazioni molto precise: Pietro molin, personaggio di grande spessore del mondo politico-culturale veneziano, era stato ambasciatore a Firenze nel 1477 ed era stato subito inserito da Ficino tra i membri del suo circolo neoplatonico; il rivolgersi al molin definendo antonio «nostro» vuol significare che questi era inserito a pieno titolo tra gli adepti. il documento epistolare spinse andré chastel a formulare la plausibile ipotesi che il Pollaiolo sia stato l’autore dell’affresco ritraente democrito che ride ed eraclito che piange, fatto eseguire da Ficino sulla porta di ingresso della Villa di careggi; vedremo nella trattazione che importanza può avere questa ipotesi. La lettera di cui sopra, scritta nel 1482, definendo antonio «pittore e scultore insigne», ne certifica le attività a quella data vanificando le ultime, infondate ipotesi che antonio avesse abbandonato la pittura addirittura negli anni ’60. L’artista era, peraltro, strettamente legato anche alla componente “aristotelica” del movimento neoplatonico, capeggiata da cristoforo Landino; questi, imparentato tramite sua moglie Lucrezia con Leon battista alberti, mette in particolare risalto della filosofia platonica quella parte che più si avvicina al cristianesimo, contenuta essenzialmente nel Fedro e nel Timeo: il demiurgo, l’artigiano divino che plasma il cosmo, non è creatore della materia ma ha comunque molti punti di contatto con il dio di abramo. il Fedro si conclude con il messaggio che la morte determina la liberazione dell’anima dal corpo e il suo ricongiungimento con il mondo delle idee: qualcosa di non molto dissimile dai principi cristiani sulla vita dell’uomo. come vedremo, la prova del legame di antonio del Pollaiolo con cristoforo Landino la fornisce Federico di montefeltro facendo inserire, nel manoscritto delle Disputationes Camaldulenses a lui donato dall’umanista, il proprio ritratto e quello di antonio, realizzati dall’artista medesimo.

L’insegnamento di Leon Battista Alberti L’artista del Quattrocento, seguendo i principi codificati da Leon battista alberti, innalza il livello della propria attività; l’opera d’arte non è più il frutto dell’istinto di un artigiano particolarmente dotato, ma il risultato di un lavoro professionale; un processo intellettuale che comporta una primaria elaborazione mentale, cui segue la sua materializzazione tramite il disegno con il quale l’artista può visualizzare come si svilupperà l’opera e come potranno armonizzarsi al meglio la bellezza strutturale (pulchitudo) con la bellezza ornamentale (ornamentum). il disegno è la chiave che apre le porte alle arti figurative e le fa entrare nell’atelier delle arti liberali; gli onori di casa li fa la musica, che serve secondo Platone «per comporre in modo ordinato e rendere consono a se stesso il moto periodico dell’anima». il neoplatonismo, movimento filosofico con il quale alberti doveva “quotidianamente” confrontarsi, considerava la musica, secondo l’input pitagorico, prima tra le arti liberali perché, essendo rigidamente basata sui rapporti antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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numerici, riusciva a ricreare la perfetta armonia del cosmo ed era altresì percepita da un unico senso. architettura e musica è il binomio elaborato da Leon battista alberti nel De re aedificatoria: in una struttura architettonica tutte le parti, anche le più piccole, se sono progettate secondo costanti di riferimento, partecipano in maniera solidale alla unitarietà della costruzione così come tutte le componenti di un brano musicale sono unificate da specifici accordi armonici che le rapportano periodicamente ad una nota principale (W. a. mozart: sinfonia in la maggiore n. 29K 201). È la “musica dei numeri” che consente di applicare alle opere d’arte quel rapporto perfetto tra le parti chiamato divina proporzione o sezione aurea. il procedimento scientifico derivava dall’osservazione della natura; le proporzioni perfette furono rilevate dagli antichi nel corpo umano, nella distribuzione dei rami degli alberi, nella struttura delle conchiglie e delle foglie. Graficamente, la sezione aurea può essere rappresentata da un segmento diviso in due parti a e b, tali che il rapporto tra l’intero segmento a+b e la parte più lunga a sia uguale al rapporto tra la parte più lunga a e la parte più corta b. il progettista del Rinascimento, secondo quanto codificato dall’alberti, utilizza appropriatamente la sezione aurea per costruire griglie architettoniche che consentano la realizzazione di edifici in cui l’organizzazione strutturale del microcosmo si concilii con le leggi del macrocosmo. Prima della definitiva realizzazione dell’opera d’arte, al disegno doveva seguire il modello; l’idea di un progetto, secondo alberti, finché rimane nella mente è necessariamente imperfetta. nella realizzazione di un’opera si esegue un modello per poter avere una visione in anteprima del lavoro definitivo ed effettuare eventualmente le dovute correzioni; il modello pertanto è uno strumento di lavoro e non una lusinga per il committente. La rivalutazione della cultura antica, operata dal neoplatonismo, fu seguita anche da alberti, che fu tra i primi a rielaborare in chiave umanistica il linguaggio figurato degli egiziani costruendosi il famoso emblema dell’occhio alato, testimonianza dell’esperienza visibile, simbolo per l’artista del contatto diretto e continuato con la realtà, così come viene percepita, e non nella sua reale essenza. Gli elementi chiave che l’occhio dell’artista deve investigare sono in primis la natura e quindi l’arte antica, che è da considerarsi una seconda natura (specificamente la possente monumentalità romana). naturalismo, potenza e ritmo sono componenti essenziali dell’arte di antonio del Pollaiolo, le cui opere possono essere considerate la filiazione diretta dei principi albertiani, applicati in architettura, in scultura e in pittura. come vedremo più approfonditamente in seguito, nei riquadri del Parato di san Giovanni (un complesso di paramenti sacri istoriati con la vita del battista, derivati dai disegni di antonio del Pollaiolo) compaiono delle architetture che ricalcano fedelmente i dettami del classicismo albertiano.

L’influenza dell’arte f iamminga La contemporanea presenza di elementi fiamminghi nelle opere di scultura e di pittura di antonio del Pollaiolo consente di poter ragionevolmente ipotizzare che l’esperienza sull’arte nord-europea del periodo di passaggio xiV-xV secolo sia stata vis20

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suta in loco, a digione e nelle Fiandre, all’epoca contea sotto la giurisdizione del ducato di borgogna. L’arte del Pollaiolo si rapporta decisamente a claus sluter e a Jan Van eyck. Le sculture di sluter hanno per modelli personaggi presi dalla strada, ma il suo naturalismo verista è esaltato e nobilitato da una grandiosa monumentalità. Van eyck e gli altri pittori fiamminghi, al contrario degli artisti italiani, non avevano sviluppato, nell’opera d’arte, la costruzione geometrico-matematica dello spazio; supplivano alla carenza tramite la rappresentazione telescopico-microscopica della natura e l’esaltazione del particolare. in Van eyck perle e pietre preziose brillano di una luce particolare per la presenza di trasparenti velature di colore disposte nei punti culminanti. antonio del Pollaiolo recepisce alla perfezione il modus fiammingo di dipingere e lo inserisce nei canoni dell’arte rinascimentale italiana, sui quali si era sviluppato il suo talento artistico, realizzando una ineguagliata sintesi di classicismo e naturalismo. i paesaggi di Van eyck trovano una movimentata rivisitazione nelle opere dei fratelli Pollaiolo; al riguardo è interessante definire il loro reciproco ruolo nella realizzazione dei dipinti, molti dei quali sono da tempo oggetto di approfondite dispute sulla specifica paternità. si tratta, in una certa parte dei casi, di un falso problema perché tra i due artisti-fratelli vi era una simbiosi; nelle opere che realizzarono insieme, come ad esempio il San Sebastiano della national Gallery di Londra, antonio eseguiva il disegno preparatorio e realizzava i paesaggi, e Piero si occupava prevalentemente dei personaggi.

Lo studio dell’anatomia e dell’anatomia funzionale nel xV secolo, l’artista non si era ancora impegnato in studi scientifici di anatomia, limitandosi ad una riproduzione visiva dei corpi. antonio del Pollaiolo fu il primo ad investigare la sostanza, generatrice della forma; frce l’indagine anatomica del corpo umano, tramite la dissezione dei cadaveri, per poterne poi approfondire lo studio dell’anatomia funzionale e della meccanica del movimento, a differenza di Leonardo che predilesse gli studi puramente anatomici. L’arte di antonio intende riprodurre due elementi essenziali dell’anatomia funzionale del corpo umano, potenza e ritmo, non soltanto nel movimento ma anche nella statica; a tale scopo, nei soggetti in stazione eretta, decentra il baricentro, spostando la linea di carico su di un solo arto. Per la riduzione dell’area della base di appoggio si crea un equilibrio statico instabile che costringe il soggetto ad un impegno muscolare continuato; con questo espediente, l’artista toglie ai soggetti fermi in piedi l’immagine di staticità fisica e psichica. Per incrementare la tensione dei corpi, antonio si avvale di particolari accorgimenti: nell’arto superiore, in secondo piano, delle Virtù nel monumento funebre di sisto iV si osservano determinate disposizioni articolari del gomito che incrementano la tensione e le componenti torsionali di tutto il corpo. con straordinaria modernità, nei soggetti in lotta viene rappresentata la contrazione muscolare eccentrica. nell’uomo la contrazione muscolare può essere di tre tipi: 1) isometrica, senza movimento articolare: i culturisti che mostrano le loro forme prorompenti; 2) isotonica o concentrica, con accorciamento delle fibre muscolari: la contrazione fisiologica che genera il movimento; antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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3) eccentrica, con allungamento delle fibre muscolari: il muscolo in azione, contrariamente alle condizioni fisiologiche, si allunga per l’intervento di una forza esterna opposta e superiore. nelle fasi avanzate della riabilitazione vengono usati esercizi ad elevato effetto potenziante, imperniati sulla contrazione eccentrica; si tratta di programmi da utilizzare con cautela perché altamente stressanti per le strutture muscolari e articolari. L’esercizio eccentrico riesce a creare una tensione muscolare circa una volta e mezzo maggiore di quella generata dalla contrazione fisiologica. il Pollaiolo dimostra di aver perfettamente inquadrato il gioco delle tensioni muscolari. in Ercole e Anteo i muscoli addominali di ercole (responsabili della stabilizzazione del tronco sul bacino) sono contratti, ma la colonna vertebrale è atteggiata in iperestensione perché la mano di anteo esercita sulla fronte di ercole una forza superiore. nelle sue opere antonio del Pollaiolo trasferisce le nozioni recepite sulla fisiologia delle fasi muscolari. Gli studi aggiornati di biomeccanica hanno dimostrato l’importanza, agli effetti della performance muscolare, della fase distensiva che precede la contrazione. ampliando la fase preparatoria del movimento, si aumenta l’energia potenziale elastica del muscolo, la quale si trasforma, nella fase di contrazione, in un incremento dell’energia cinetica. Per il secondo principio della dinamica F=ma (la forza è uguale al prodotto della massa per l’accelerazione), aumentando la velocità di contrazione, aumenta immediatamente la forza muscolare. ciò comporta nel tempo un ulteriore incremento di forza per l’aumento della massa muscolare. nella battaglia dei nudi, in Ercole e Idra, Pollaiolo dimostra di aver perfettamente centrato l’importanza della fase distensiva muscolare per poter ottenere la contrazione massimale successiva. il grande studio di anatomia funzionale operato da antonio del Pollaiolo per l’arco della vita, non deve trarre in inganno nell’inquadramento dell’artista; antonio, artista eclettico, predilesse rappresentare i corpi in movimento ma non disdegnò affatto di rappresentarli in quiete come nei ritratti di Dama dei fratelli Pollaiolo in cui sono riscontrabili specifici elementi che, come vedremo, consentono di identificare rispettivamente chi dei due fosse il benci autore.

Il messaggio simbolico i geroglifici, nel Quattrocento, erano ritenuti elementi di un linguaggio simbolico; in seguito, con il ritrovamento della stele di Rosetta, fu dimostrato, per la contemporanea presenza su di essa del testo greco, che si trattava di fonemi. La rivalutazione, operata dal neoplatonismo, della civiltà egizia e delle comunicazioni della casta sacerdotale, ritenute simboliche, spinse i potenti e gli uomini di cultura a ricercare la trasmissione dei loro moti dell’animo tramite immagini. L’araldica simbolica ebbe un grandissimo sviluppo nella seconda metà del Quattrocento proprio perché ritenuta in stretto contatto ideale con i geroglifici (Horapollo) e con l’ermetismo (Corpus Hermeticum). L’impresa divenne un emblema araldico molto utilizzato, configurandosi come celebrazione per azioni militari dei capitani di ventura e al tempo stesso come veicolo per determinate espressioni dell’animo. La famiglia gentilizia che più largamente utilizzò le imprese favorendone la diffusione fu quella degli sforza; il cortile del castello sforzesco è addobbato di imprese disposte sullo scudo. antonio del Pollaiolo, per il 22

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suo stretto collegamento con il neoplatonismo, fu pienamente coinvolto nello studio della espressività simbolica e dell’identificazione araldica. il suo legame con il fico, quale faconda espressione dell’ingegno artistico, lo spinse a fare di questo frutto l’elemento fondamentale dello stemma dei fratelli benci, da lui stesso progettato. troveremo nella trattazione numerosi riferimenti ai fichi; vogliamo qui evidenziare la particolare tipologia di fico scelta da antonio: nella descrizione della coperta di benedetto salutati, realizzata dalla bottega di antonio per la coperta del cavallo nella Giostra di Lorenzo de’ medici del 1469, sono descritti un numero considerevole di fichi badaloni: un tipo di fico floscio dal lungo picciolo. Vedremo quale significato identificativo l’artista ha voluto dare al fico badalone, caricandolo sullo scudo del suo stemma in una città dove il soggetto predominante negli emblemi dei casati nobiliari era il leone. nelle opere che saranno analizzate, ubiquitario è il riscontro del messaggio simbolico, tanto importante per antonio da poter giustificare talvolta il sacrificio dei dettami anatomici e architettonici per rispettare la missione fondamentale dell’arte.

I campi di applicazione dell’arte di Antonio ci stiamo occupando di un artista completo che molto spesso aiutò altri a risolvere le rispettive mancanze; antonio del Pollaiolo fu disegnatore-progettista, orafo, pittore, scultore di bronzo e di pietra, architetto, miniatore. egli è stato il grande disegnatore della storia, nessuno, neanche l’allievo Leonardo, ha mai raggiunto la qualità artistica dei disegni di antonio del Pollaiolo, ovviamente di quelli sicuramente suoi. La mano del maestro si riconosce facilmente in un disegno quando vi si possono evidenziare il tratto netto, senza soluzione di continuità, il ritmo, la potenza e la tridimensionalità della rappresentazione. Per quanto abbiamo sostenuto nella parte generale, la maestria nel disegno ha fatto sì che per antonio si aprissero tutte le porte delle realizzazioni artistiche, ma per lui il disegno non fu soltanto il mezzo per realizzare l’opera d’arte, quanto piuttosto un’arte primaria. come abbiamo detto, secondo i principi albertiani il valore massimale dell’attività artistica consisteva nel progetto: l’artista-progettista era il personaggio fondamentale del Rinascimento, la pratica realizzazione dell’opera poteva anche essere affidata ad altri. ciò spiega perché da scritti di contemporanei antonio del Pollaiolo fu considerato un grande disegnatore fino a travisarne l’immagine, come fece il cellini. come vedremo, antonio fu architetto più di quanto la critica lo ricordi in questa l’attività, cui l’artista si dedicò, come conferma Vasari, più da progettista che da direttore dei lavori. al magliabechiano della biblioteca nazionale di Firenze è conservato un codice (636) del secolo xV in cui sono raccolte le vite di artisti. La vita di antonio del Pollaiolo è mancante perché il codice è mutilo, ma nell’indice l’artista viene inserito tra gli architetti. nel 1490, per volere di Lorenzo de’ medici, fu bandito un concorso per la sistemazione della facciata del duomo di Firenze. il 5 gennaio 1491 in una riunione diretta dal magnifico, cui partecipavano 17 iscritti all’arte della Lana e numerosi artisti, furono valutati i progetti presentati da 9 artisti e dal canonico della cattedrale; l’elenco dei partecipanti ammessi al concorso, riportato fedelmente da Vasari, comprendeva antonio del Pollaiolo. nell’archivio dell’umiltà della biblioteca comunale di Pistoia è conservato un libro-giornale in cui sono registrate spese per viaggi a Firenze dell’architetto Ventura Viantonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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toni; nell’agosto del 1495 si recava da antonio del Pollaiolo per ragguagli e disegni progettuali concernenti la cupola della basilica dell’umiltà. nelle registrazioni è scritto che Ventura Vitoni incontrerà «messer» antonio del Pollaiolo e antonio da sangallo. L’architetto pistoiese si rivolgeva con l’epiteto di “messere” ad antonio del Pollaiolo riconoscendone in tal modo un livello più elevato. antonio del Pollaiolo era in quel periodo a Firenze e si occupò anche del progetto per la cupola della chiesa di santo spirito, che malauguratamente crollò; la disavventura non consente di negare all’artista un’attività svolta con tanta passione, considerando anche il fatto che Giuliano da sangallo, l’architetto operante a santo spirito, abbandonò improvvisamente l’incarico per trasferirsi a Roma, e pertanto il progetto del Pollaiolo, relativo unicamente alla cupola, era una commissione estemporanea su strutture fatte realizzare da altri. da prime risultanze emerge che studi approfonditi potranno evidenziare in futuro un’intensa attività di architetto dell’artista fiorentino operata a Roma e in terra marchigiana. antonio del Pollaiolo è stato il grande orafo della storia dell’arte; tutti i grandi artisti del Rinascimento hanno iniziato, a Firenze, la loro attività come orafi (brunelleschi, Luca della Robbia, donatello, Verrocchio etc.), ma antonio del Pollaiolo è rimasto l’orafo per eccellenza; la sua bottega ha continuato a lavorare anche dopo il definitivo trasferimento dell’artista a Roma, e la motivazione principale sta nel fatto che l’attività di orafo non era stata per antonio soltanto un indispensabile primo passo per accedere alle arti, ma un’arte essa stessa, in stretto contatto con la filosofia e l’alchimia. nelle Disputationes Camaldulenses Landino scrive che l’orafo, togliendo all’oro le impurità, si comporta come il filosofo che depura la vera sapienza dai sofismi. il legame con l’arte orafa non deve creare anche in questo caso un’immagine distorta del grande artista; antonio del Pollaiolo realizzava i disegni per la sua bottega e soltanto in casi particolari interveniva in prima persona. La riprova sta nel fatto che, dopo il trasferimento a Roma, la sua bottega fiorentina continuò a lavorare anche senza la sua presenza, e l’artista già nel 1477 vi aveva inserito Paolo sogliani come socio operativo. come vedremo, bramante nel disegno da cui è tratta l’incisione Prevedari si premura, secondo la nostra interpretazione, di raffigurare antonio come il titolare di una bottega orafa. Pollaiolo pittore è la problematica del momento; le recenti pubblicazioni sull’argomento hanno voluto esaltare le qualità pittoriche di Piero del Pollaiolo giungendo ad affermare che antonio avrebbe addirittura abbandonato la pittura già negli anni ’60. debbo esprimere il mio totale dissenso: antonio del Pollaiolo è stato un genio della pittura del Quattrocento! chiariremo perché, ma al momento facciamo delle considerazioni preliminari. ci soffermeremo a lungo su dipinti di grande importanza che sono da assegnare ad antonio del Pollaiolo; qui voglio indicarne due, che, attualmente ascritti all’artista, per quanto mi riguarda non gli appartengono. il primo è una crocifissione la cui attribuzione al Pollaiolo non ha riscontri né documentali né stilistici né qualitativi; il secondo è la Maddalena di Staggia: il raffonto che è stato fatto di un angelo del dipinto rispetto a un danzante di Villa della Gallina dimostra, al contrario, quanto lontane siano la mente e la mano esecutrice dell’affresco di arcetri da quelle che realizzarono un’opera da assegnare totalmente a Piero del Pollaiolo. 24

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sull’attività di scultore in bronzo di antonio del Pollaiolo si può solo rimarcare un eccesso di attribuzioni, soprattutto di bronzetti per gran parte dei quali il maestro ha forse fornito soltanto il disegno. Più problematico è l’argomento Pollaiolo-scultore di pietra. L’assioma che i fratelli Pollaiolo disdegnassero la scultura lapidea deriva dalla lettura dello scritto disposto da antonio sul monumento funebre di sisto iV, in cui l’artista si definisce orafo, pittore e scultore di bronzo; per contro la presenza della locuzione «clarus», che precede il riferimento alle tre attività artistiche, rende plausibili altri interventi nelle arti figurative, abbandonati nel tardivo soggiorno romano. nella lettera menzionata di marsilio Ficino a Pietro molin del 1482 si legge che antonio «insculpsit affectus» e non finxit; il filosofo calibra sempre le sue parole, non è il poeta che si avventura in licenze. ciò che vanifica le asserzioni sul Pollaiolo non scultore lapideo è quanto accadde nell’assegnazione della commissione per il monumento funebre del cardinale Forteguerri da sistemarsi nel duomo di Pistoia; nel primo capitolo ci soffermeremo sull’argomento. un’ulteriore testimonianza dell’attività di scultore lapideo di antonio del Pollaiolo la dà Landino in un intrigante passo delle Disputationes Camaldulenses. L’antefatto. tra il 1443 e il 1459 Landino scrive Xandra, una raccolta di elegie; in una di queste, De Roma Fere Diruta, Landino, parlando delle rovine di Roma, usa la locuzione «arte fidiaca» come appellativo per la scultura lapidea. nel 1474, scrivendo le Disputationes Camaldulenses, Landino, che sta facendo sostenere a Lorenzo l’importanza della vita attiva come complemento essenziale della vita di un uomo, si pone questa domanda retorica: «Quem usum ex sua arte nobis afferat Phidias, nisi eam in ebore aurove exprimat?». di seguito, dopo aver elogiato la vita attiva in vari personaggi del passato (numa Pompilio, bruto, scipione) sostiene che la grandezza di Federico duca di urbino, noto amante di tutte le arti, sta inseparabilmente nelle sue gesta di condottiero. Ritornando ad esempi del passato, Landino ricorda che ercole è famoso per le sue imprese e non per i suoi studi con atlante. il passo oscuro delle Disputationes che letteralmente suona «a che ci servirà mai con la sua arte Fidia, se non la esprimerà né in avorio né in oro?» suggerisce che la vera grandezza di Fidia, sommo artista, passa attraverso la sua attività di orafo (le statue criso-elefantine). La frase in esame ha un senso in quanto Landino sta pensando al Pollaiolo, l’orafo insigne, stimatissimo da Lorenzo, al quale per l’appunto aveva fatto commissionare, come dono a Federico per l’impresa di Volterra, un elmo d’argento con la raffigurazione a smalto di ercole che soggioga il Grifone Volterrano (Federico ed ercole non sono stati citati in sequenza casualmente). Landino non può essere più esplicito: le Disputationes, anche se terminate nel 1474, sono immaginate nel 1469 e quindi prima dell’impresa di Volterra. nominare le statue crisoelefantine in cui il marmo veniva rivestito d’oro e d’avorio, è un evidente riferimento ad antonio del Pollaiolo, che proprio in quegli anni aveva iniziato l’attività di scultore di pietra seguendo, come in pittura, principi artistici derivati dalla lunga esperienza acquisita come orafo. antonio del Pollaiolo, al pari di Van eyck, fu miniatore oltre che pittore; la familiarità di antonio del Pollaiolo con la decorazione libraria è attestata dalla sua paternità, unanimemente condivisa, sulla coperta del codice mediceo conservato nella biblioteca nazionale di Francia, ms. 548, che presenta smalti effigiati con apollo e antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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le muse; nel manoscritto sono raccolti i Trionfi e il Canzoniere del Petrarca. il codice si trova a Parigi perché nel 1498 fu donato dalla Repubblica Fiorentina a carlo Viii nella sua discesa in italia. illustreremo in trattazione gli interventi di antonio sui codici urbinati latini 491 e 508, conservati presso la biblioteca apostolica Vaticana, che sono da considerarsi al tempo stesso miniature e dipinti. Iconografia Pagine 178-179, figure 1-6

i ritratti di dama dei pollaiolo

tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 del Quattrocento, la Repubblica Fiorentina commissionò ad antonio del Pollaiolo un San Giovanni Battista, patrono di Firenze, da realizzarsi in affresco alla Porta della catena, nel Palazzo della signoria; l’adito era di grande importanza perché dava accesso alla cappella, luogo del primo ufficio mattutino dei Priori. sul pianerottolo antistante fu collocato il David del Verrocchio; è evidente che in quel periodo antonio era considerato il pittore e andrea lo scultore. negli anni immediatamente seguenti, il Pollaiolo iniziò l’attività di scultore; le considerazioni collimano perfettamente con quanto scrive Vasari, le cui asserzioni non possono essere giudicate attendibili o meno a seconda delle proprie esigenze: per screditare quanto sostenuto dal pittore-architetto si deve essere in possesso di precise prove documentali. il San Giovanni Battista fu fatto rimuovere, in quanto simbolo della Repubblica Fiorentina, da Vasari stesso su disposizione del Granduca cosimo i. un disegno di salvestro del Pollaiolo riproduce il Battista nello stile pollaiolesco ma senza avere la perfezione di linea delle opere del fratello maggiore; non essendo nota l’attività artistica di salvestro, il disegno è verosimilmente da considerarsi una copia dell’affresco del Palazzo della signoria, anche per la presenza di un paesaggio alle spalle del santo che lo colloca unicamente in derivazione da un dipinto. negli ultimi anni si è sostenuto che fu Piero il pittore dei fratelli Pollaiolo, mentre antonio si sarebbe dedicato eminentemente all’oreficeria, al disegno e alla scultura. tali proposte sono state avanzate senza nessun obiettivo appiglio documentale, ma anzi negando, senza prove tangibili, tutto ciò che ha scritto Vasari al riguardo. ugolino Verino, nella Carliade, ha descritto il “Pullus thyrrenus” intento a dipingere le gesta di alessandro magno insieme a botticelli (per l’appunto allievo in pittura di antonio), ma il riferimento sarebbe a Piero (sic!), mentre è stato giudicato puro esercizio retorico il fatto che Ficino, scrivendo nel 1482 a Pietro molin, abbia definito antonio «pittore e scultore insigne»; la corretta lettura della relativa lettera lascia intendere esattamente il contrario1. Vasari scrive che antonio del Pollaiolo in un certo momento della sua vita artistica decise di lasciare l’oreficeria per attività di maggiore prestigio: viene negata la veridicità dell’asserzione che, al contrario, trova il sostegno documentale nel contratto del 1477 stipulato tra antonio e Paolo sogliani, in cui in pratica quest’ultimo diveniva il gestore della bottega di via Vacchereccia in Firenze.

1 mi domando come possa essere giudicata pura retorica la frase «ita tuos nostris vultibus pinxit vultus», dopo aver aperto la lettera con la frase «antonius noster pictor et sculptor insignis».

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Vasari scrive che antonio del Pollaiolo fece nel 1475 un San Cristoforo in affresco alto cinque metri sulla facciata della chiesa di san miniato fra le torri in via de’ cavalieri a Firenze; quest’opera fu studiata a lungo, per la sua innovativa impostazione spaziale, da michelangelo per ispirarsi nella realizzazione del David. al solito, senza prove, si è proposto di assegnare l’opera a Piero, evidentemente ignari del fatto che antonio del Pollaiolo era il referente artistico del circolo neoplatonico e con tale dipinto voleva osannare i suoi due mentori: cristoforo Landino, che lavorava nel Palagio di Parte Guelfa proprio di fronte alla chiesa di san miniato fra le torri, e marsilio Ficino, che dal 1473 aveva il rettorato della chiesa di san cristoforo a novoli. da ultimo, non si comprende come antonio del Pollaiolo possa aver scritto di essere illustre pittore sui monumenti funebri di sisto iV e innocenzo Viii, opere del periodo finale della sua vita artistica e biologica (4 febbraio 1498), se aveva abbandonato la pittura nel 1464, quasi prima di cominciare. Fatta la dovuta premessa, citiamo alcuni punti che destituiscono di fondamento le asserzioni fatte ultimamente sui ritratti di Dama dei fratelli Pollaiolo. Prendendo in considerazione quattro Dame dei fratelli Pollaiolo, due domande sorgono immediate: quale dei due fratelli è l’autore delle Dame? sono tutti reali ritratti di donna? nell’attribuzione della paternità dei quattro dipinti, ultimamente si è fatto “di tutta l’erba un fascio” e l’autore è stato identificato unicamente in Piero. Le quattro Dame in realtà procedono in coppia: la Dama del museo di berlino e quella del Poldi Pezzoli sono entrambe costruite sul disegno e pertanto ascrivibili ad antonio; la Dama di Firenze e quella del metropolitan di new york non sono costruite sul disegno e sono di Piero. La riprova dell’affermazione è data dal fatto che le Dame da ascriversi ad antonio sono in correlazione diretta con due sue sculture. La Dama di berlino richiama la Battista Sforza del bargello di cui costituì, verosimilmente, uno studio ideativo; l’avvicinamento delle due opere rappresenta un elemento forte a sostegno della paternità di antonio sia del dipinto sia della scultura. L’attribuzione attuale del busto di Battista a Francesco Laurana non ha riscontri né storici né documentali e, a mio parere, neanche stilistici; già Parronchi, in un articolo inspiegabilmente non considerato, lo aveva assegnato ad antonio del Pollaiolo2. L’opera è una celebrazione post mortem della contessa perché chiaramente tratta dalla maschera funeraria. nel 1472 si verificarono contemporaneamente tre episodi: moriva battista sforza, erano deliberati i doni al conte Federico per la vittoriosa impresa di Volterra, in gran parte realizzati da antonio del Pollaiolo3, e Luciano Laurana, fratello di Francesco, veniva congedato da urbino, per essere prestato al Re di napoli, con il più classico dei “promoveatur ut amoveatur”; appare inverosimile che il conte ingaggiasse nello stesso tempo il fratello scultore del Laurana,

2 a. Parronchi, Prima traccia dell’attività del Pollaiolo per Urbino, “studi urbinati di storia, Filosofia e Letteratura”, anno xLV, 1971, pp. 1176-1194. 3 i doni per il conte realizzati da antonio del Pollaiolo furono un elmo in argento e smalti in cui era raffigurato ercole che spennava il Grifone Volterrano, un bacile e alcune coppe d’argento della cappella del Palazzo della signoria, realizzati anni prima da antonio e dalla sua bottega, che vennero immediatamente rimpiazzati con un nuovo ordine all’artista. La cifra molto elevata di circa 1000 fiorini d’oro stanziata dalla provvisione della Repubblica Fiorentina per il Pollaiolo è ovviamente passata dal preventivo placet del beneficiario dei doni. asF, Provvisioni Registri 163 (1472), cc. 83r-86v.

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che non ebbe mai alcun rapporto documentato con urbino. Pertanto, il busto marmoreo di battista sforza fu la prima commissione di Federico al Pollaiolo per una collaborazione che durò fino alla morte del duca e proseguì con i suoi consanguinei. Priva di fondamento è poi l’asserzione che i Pollaiolo disdegnassero la scultura lapidea; ne è prova quanto accadde nell’assegnazione della commissione per il monumento funebre del cardinale Forteguerri da sistemarsi nel duomo di Pistoia. dopo la morte del porporato la comunità di Pistoia decise di onorarlo con una prestigiosa sepoltura monumentale; fu bandito un concorso per l’assegnazione dell’opera, cui partecipò anche il Verrocchio, che ovviamente risultò vincitore. Quando nel ’76 si passò alla valutazione dei costi, di fronte alla richiesta dello scultore fiorentino di 350 ducati, gli operai della fabbrica del duomo si rivolsero a Piero del Pollaiolo, in quel periodo dimorante a Pistoia perché incaricato della realizzazione del tabernacolo del Corpus Domini in duomo, e gli chiesero di elaborare un modello alternativo per il monumento. una lettera scritta in proposito a marsilio Ficino da antonio ivani, cancelliere del comune di Pistoia dal 1477 al 1482, forse in risposta a una richiesta in merito del filosofo, esalta l’attività di Piero del Pollaiolo come scultore di pietra4. il modello presentato dal più giovane dei benci fu molto apprezzato dalla comunità di Pistoia, ma ciò nonostante i commissari riaffidarono la commessa al Verrocchio. Gli operai scrissero allora una lettera a Lorenzo de’ medici facendo presente che giudicavano il modello del Pollaiolo superiore a quello del Verrocchio, e dello stesso parere erano Piero, il fratello del cardinale, e tutti i suoi familiari nonché tutta la comunità di Pistoia; Lorenzo affidò ugualmente la commissione al Verrocchio. Qualunque sia stata la motivazione della scelta del medici, il fatto che gli operai dell’opera del duomo avessero interpellato Piero del Pollaiolo, il “pittore” dei due fratelli, prova che i Pollaiolo erano all’epoca praticanti la scultura lapidea con una rinomanza tale da poter competere con il grande scultore lapideo del tempo. il dato ci consente di fare ovvie considerazioni; se la comunità di Pistoia richiedeva a Piero del Pollaiolo un modello da contrapporre a quello di andrea del Verrocchio è perché era ben cosciente dell’alto livello dell’attività di scultori di pietra dei fratelli Pollaiolo e al tempo stesso riteneva implicito, se Lorenzo avesse rispettato le loro volontà, che nella realizzazione del monumento sarebbe intervenuto il fratello maggiore, lo “scultore” dei due; lo attesta il fatto che nel 1485 Piero del Pollaiolo reclamava dalla comunità di Pistoia il pagamento per i dipinti fatti in duomo, ma la successiva ricevuta di 60 fiorini larghi fu firmata congiuntamente da Piero e antonio del Pollaiolo. Quanto all’aspetto stilistico, la Dama di berlino non ha tridimensionalità e per questo è stata giudicata inferiore alle altre o il frutto di troppo energiche pulizie del dipinto. Riteniamo non corretti i due giudizi: il dipinto non è stato portato alla tridimensionalità di prammatica da antonio del Pollaiolo proprio perché era uno studio ideativo e non un ritratto vero e proprio. se poniamo a raffronto la Dama di berlino e Battista, notiamo strettissime somiglianze nell’acconciatura dei capelli e nel profilo della

4 «antho. hy. marsilio Ficino platonico fiorentino. Petrus Pollariuolus alter Prasiteles apud nos fuit opificio suo intentus. egi secum amice causa virtutis et eo quidam ardentius, quo illum tibi veementissime affectum cognomi. tu ad nos mitte, si quid novi mandasti eleganter litteris, ut absens a te quandoque tecum sim. Vale.» (cod. Vindobonensis lat. 3477, f. 28).

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fronte e della testa. se anche il dipinto non fosse uno studio per fare il busto scultoreo, è del tutto verosimile che la stessa mano abbia eseguito le due opere; il dipinto è pertanto una prova che antonio praticava la scultura lapidea. analizzando il dipinto del Poldi Pezzoli, già a prima vista l’immagine eterea della donna dai lineamenti perfetti ce la fa apparire molto lontana dalla realtà; siamo di fronte non a un reale ritratto femminile, ma a una idealizzazione della donna. Per poter dare un’interpretazione corretta dell’opera dobbiamo ripercorrere il momento storico-letterario della sua realizzazione: dante fu la pietra miliare della cultura medievale e rinascimentale, con momenti di maggiore e minore enfasi celebrativa. all’inizio degli anni ’80 del Quattrocento l’umanista cristoforo Landino scrisse il Commento a dante (pubblicato nel 1481) dando una lettura neoplatonica del Paradiso; antonio del Pollaiolo considerava Landino il suo principale mentore, insieme a marsilio Ficino e a Leon battista alberti. il dipinto del Poldi Pezzoli è da considerarsi il binario artistico parallelo a quello letterario del commento a dante; conseguentemente la datazione dell’opera pittorica deve essere spostata agli inizi degli anni ’80. il significato del dipinto è a mio avviso una idealizzazione della donna secondo la visione dantesca della Commedia: non l’angelo evanescente, intermediario tra l’uomo e dio, della Vita Nuova, ma l’essere superiore che è pur sempre terreno e in grado di sprigionare un amore terreno e divino come delineato nella Commedia. tanto traspare dal dipinto cui Piero del Pollaiolo, secondo questa lettura, è da ritenersi del tutto estraneo. d’altra parte il disegno dell’opera ci rapporta direttamente ad antonio, confortati dal confronto con il profilo del ritratto fiorentino, sicuramente di Piero, che mostra insanabili disuguaglianze; né si può presentare antonio come l’artista della erculea violenza: lo era quando trattava Ercole o le Battaglie dei Nudi, ma poteva cambiare totalmente il suo stile pittorico quando i soggetti lo richiedevano, e lo faceva con la precisione e il gusto del particolare appresi dalla scuola fiamminga. un importante raffronto avvalora la tesi della paternità di antonio sulla Dama del Poldi Pezzoli. Vasari scrive che il maggiore dei fratelli Pollaiolo fece nel Palazzo dei Giudici e dei notai in via del Proconsolo a Firenze i ritratti di Giannozzo manetti e di Poggio bracciolini. nonostante fosse molto legato alla famiglia medici, antonio del Pollaiolo, al pari di Ficino, aveva rapporti molto stretti con la fazione non medicea. il figlio di Poggio bracciolini, Jacopo, la cui vita approfondiremo nel prossimo capitolo, è stato ritratto da antonio del Pollaiolo con la terracotta del Guerriero del bargello, che celebrava la partecipazione del bracciolini alla Giostra di Lorenzo. Vaccari ha sostenuto correttamente che il guerriero del bargello fosse Jacopo bracciolini con un’idra squartata sulla testa e con l’immagine, disposta sul busto, di ercole in lotta con l’idra5. L’imperatore romano presente sul busto del Guerriero non è che un riconoscimento simbolico dell’autorità di Lorenzo su Firenze celebrata dalla Giostra; nulla a che vedere con diotisalvi neroni, come proposto ultimamente.

5 L’identificazione del Guerriero del bargello con Jacopo bracciolini è già stata proposta da Vaccari in: Pollaiolo e Verrocchio? Due ritratti fiorentini del Quattrocento, museo nazionale del bargello, Firenze 2001, pp. 46-47.

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chiarita l’identità del Guerriero del bargello è opportuno fare considerazioni che hanno valenza indipendentemente dalla individuazione del personaggio effigiato nella scultura. È stato messo in evidenza, da chi ha voluto riconoscere come pittore esclusivamente Piero, un condivisibile legame di impostazione del disegno di giovane della national Gallery di dublino con la Dama del Poldi Pezzoli; il profilo del giovane di dublino mostra altresì una corrispondenza diretta con quello eseguito da antonio, anni dopo, nella terracotta del Guerriero del bargello, tanto che risulta difficile negare che si tratti della stessa persona in età diverse; ciò costituisce una prova del legame di lunga data dell’artista con la famiglia bracciolini e nello stesso tempo conferma la paternità di antonio della Dama del Poldi Pezzoli. ancora: sono stati correttamente trovati legami della Dama del Poldi Pezzoli con il volto della Prudenza delle Virtù del tribunale della mercanzia degli uffizi in cui, per l’appunto, i volti della Prudenza e della carità (antonio) non hanno nulla da spartire con i volti delle altre Virtù dei Pollaiolo (Piero). dei quattro dipinti soltanto il ritratto degli uffizi è un reale ritratto; la donna di Firenze ha l’aspetto veritiero per essere un reale ritratto. L’aspetto stilistico della figura femminile rapporta decisamente alla mano di Piero, ma il gioiello sembra molto più legato al fare di antonio, per la meticolosità, la precisione e lo splendore dei dettagli; forse l’intervento del fratello maggiore fu una specifica richiesta della committente, o di chi per lei, al fine di valorizzare opportunamente il ritratto. il dipinto americano, da attribuirsi totalmente a Piero, sembra avere le caratteristiche di uno studio per un altro dipinto, forse proprio la donna di Firenze. La qualità dell’opera è manifestamente inferiore a quella di tutte le altre. Iconografia Pagine 180-181, figure 7-9

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antonio del pollaiolo: i rapporti con la famiglia bracciolini, i manoscritti e le vedute a volo d’uccello

Vasari scrive che antonio del Pollaiolo fece nel Palazzo dell’arte dei Giudici e dei notai, in via del Proconsolo a Firenze, il ritratto di Poggio bracciolini, il grande ricercatore, scopritore di testi classici, cultore di storia e di linguistica che, per le sue opere, utilizzò unicamente la lingua latina6. suo figlio Jacopo, «paternae artis haeres», come lo definì Ficino, impegnò la sua vita a tradurre, riordinare, pubblicare le opere del padre; nel 1466, dopo la congiura contro i medici ordita da Luca Pitti, figurò, come risulta dalle ricerche di Fubini, tra i condannati a vent’anni di esilio e al pagamento di un’ammenda di 1000 fiorini. con l’avvento di Lorenzo de’ medici sulla scena politica, Jacopo ebbe il perdono e il reinserimento sociale a Firenze, tanto che nel 1469 gli fu concesso di partecipare alla Giostra di Lorenzo. antonio del Pollaiolo ebbe parte artistica attiva nel torneo: fece la sontuosa coperta del cavallo di benedetto salutati, riccamente ornata di perle e decorazioni in argento (mascheroni, donzelle, leoni, molte varietà di frutti, tra cui circa 200 fichi flosci dal lungo picciolo denominati “badaloni”). nei paramenti di Jacopo bracciolini sono descritte numerose idre da Luigi Pulci nel suo poema in ottave La Giostra di Lorenzo, e da Pietro Fanfani, che trascrive quanto è riportato da Vincenzo borghini7. il soggetto dell’idra, realizzato sullo scudo e sulla coperta del cavallo, non era una scelta casuale; ercole che uccide l’idra simboleggia la vittoria della filosofia sui sofismi, del vero sul falso (cristoforo Landino ne riprenderà la tematica nelle Disputationes Camaldulenses8). Jacopo scelse un evento pubblico come la Giostra per esternare la sua rivincita, il trionfo della verità e la sconfitta dei suoi denigratori che ne avevano causato la condanna; contro di loro aveva scritto l’invettiva Contra Detractores. un tema di lotta

6 G. Vasari, Vite de’ più eccellenti Pittori, Scultori e Architettori, tomo secondo, olschki ed., Firenze mdccLxxi, p. 435. 7 L. Pulci, La Giostra di Lorenzo, a cura di cesare carocci, olschki ed., bologna 1899. (LV - LVi). P. Fanfani, Ricordo di una Giostra Fatta in Firenze, trascrizione da Vincenzo borghini, casa ed. P.F., Firenze 1864, p. 13. 8 c. Landino, Disputationes Camaldulenses, a cura di Peter Lohe, olschki ed., Firenze 1980, p. 32. il dilemma della datazione delle Disputationes Camaldulenses è stato risolto da Fubini assegnando la ultimazione del manoscritto alla fine di maggio del ’74 («declinante vere»). La prova viene fornita da Landino stesso, che si scusa con Ferdinando d’aragona, perché intento a portare a termine le Disputationes, di non aver potuto procedere secondo i tempi stabiliti al volgarizzamento della Naturalis Historia di Plinio, a lui commissionato dal Re di napoli come dono per il duca di borgogna. R. Fubini, Cristoforo Landino, le “Disputationes Camaldulenses” e il volgarizzamento di Plinio: questioni di cronologia e di interpretazione, in Studi in onore di Arnaldo d’Addario, vol. ii, pp. 544-546, conte ed., Lecce 1995.

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tanto caro al Pollaiolo rende plausibile un suo intervento anche per i paramenti di Jacopo; il Guerriero del bargello, realizzato da antonio in quel periodo, ha sulla testa un’idra squartata in segno di vittoria esattamente come ercole che si copre con la testa e la pelle del leone nemeo, per combattere contro l’idra. Ercole e l’Idra sono raffigurati sul lato sinistro dell’armatura “da parata” del guerriero; la scultura sembra pertanto strettamente collegata con la Giostra e con il significato che il bracciolini ha voluto dare alla propria partecipazione. il Guerriero del bargello si presenta oggi mutilato degli arti superiori; il fatto, da interpretarsi come una damnatio memoriae seguente all’impiccagione, conferma la tesi che si tratti del bracciolini. Gli strozzi ebbero legami con Jacopo bracciolini; le Historiae Florentini Populi di Poggio furono pubblicate a Venezia nel ’76 con il finanziamento di Girolamo strozzi, imprenditore dedito anche al commercio di manoscritti e di edizioni a stampa che in seguito chiese, ed ottenne da Jacopo, il volgarizzamento dell’orazione di caio mario al popolo romano. i rapporti del giovane bracciolini con Lorenzo de’ medici non furono mai così stretti come è stato sostenuto; prove documentali hanno escluso che Jacopo sia stato il suo segretario nel periodo 1469-71. il figlio di Poggio fu sempre legato agli ideali repubblicani, che ribadì nel proemio, dedicato al magnifico, del commento al Trionfo della Fama, uscito a stampa nel periodo 1475-78, in conformità con quelli che erano stati, senza soluzione di continuità, i suoi orientamenti politici. Jacopo negli anni ’70 entrò, come precettore, al servizio del sedicenne cardinale Raffaele Riario assumendo un ruolo che gli consentì di stringere legami sempre più forti con l’arcivescovo salviati e con i Pazzi: la naturale conseguenza fu l’adesione alla congiura del ’78 con il tragico epilogo della sua impiccagione il 26 aprile dello stesso anno. Jacopo condusse una vita dispendiosa, sempre intento a porsi in luce di fronte ai potenti, offrendo loro doni di grande valore. donò a Federico di montefeltro il manoscritto, volgarizzato, delle Historiae Florentini Populi di Poggio, apportandovi significative modifiche: sostituì il proemio con la dedica celebrativa al duca di urbino e fece realizzare sul foglio di guardia del manoscritto (cod. urb. Lat. 491) un dipinto che raffigura un personaggio a cavallo e, alle sue spalle, la città di Volterra. a prima vista, nel cavaliere viene identificato Federico, per il tema del proemio e per i due emblemi federiciani presenti sulla coperta del cavallo: l’onorificenza dell’ermellino e la bomba esplodente alla rovescia. un esame più accurato mette in evidenza che il personaggio non ha le fattezze di Federico, ma quelle del giovane Lorenzo. si tratta quindi di Lorenzo sul cavallo di Federico: difficile non riconoscervi l’intento di distinguere, nella impresa di Volterra, le responsabilità politiche del medici da quelle militari del montefeltro. L’alloro in testa al cavaliere conferma l’identificazione di Lorenzo per il riferimento al suo stesso nome: «Laurentius»; per contro, il volto giovanile del cavaliere, profondamente diverso da quello di Federico, è motivato, a parere di alcuni, dall’intento di realizzare un’idealizzazione del duca, ma la proposta cade considerando che un dipinto di plateale ispirazione fiammingo-verista non poteva contemplare idealizzazioni. adolfo cinquini, all’inizio del secolo scorso, segnalava opportunamente delle stringenti analogie stilistiche che univano i dipinti del foglio di guardia delle Historiæ (cod. urb. Lat. 491) con la coperta delle Disputationes Camaldulenses (cod. urb. Lat. 508); non riconoscendovi il Pollaiolo, attribuì l’esecuzione delle due opere a Fra carnevale. L’individuazione della stessa paternità dei due dipinti fu lasciata frettolosamente cadere, 34

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quando, al contrario, avrebbe dovuto essere oggetto di studi approfonditi; oggi avrebbe una grande importanza, alla luce dell’identificazione di antonio del Pollaiolo nel dipinto delle Disputationes. il manoscritto, sotto le vesti di una disputa sul sommo bene, celebra la vita contemplativa e la vita attiva di Federico; l’opera è divisa in quattro libri, tutti preceduti da una dedica al duca di urbino. sontuosamente miniato, il manoscritto fu offerto in dono dal letterato al montefeltro; nella descrizione dell’inventario vecchio redatto subito dopo la morte di Federico da agapito, sulla falsariga di quello precedente di Lorenzo astenio, il codice viene descritto con coperta di colore verde, ornatissimo, «serraturis argenteis»; nell’inventario del 1632 viene descritto con coperta in corame verde; mentre nell’inventario redatto tra il 1662 e il 1683 figura la coperta attuale di colore rosso-bruno. sul piatto anteriore sono dipinti, a tempera su tavola, nello stile degli anni ’70 del secolo xV, due personaggi posti uno di fronte all’altro, mentre la finestra e il balcone con il tappeto, che fungono da cornice, sono miniati su pergamena giustapposta al piatto. il personaggio di sinistra è senza dubbio Federico, mentre quello di destra ha avuto riconoscimenti contrastanti. il duca di urbino è ritratto dal lato destro del volto, non volutamente, perché l’occhio, deturpato nella Giostra degli anni ’50, viene rappresentato indenne; la disposizione obbligata riconosce due motivazioni: per il suo rango, Federico non poteva che essere disposto a sinistra e il dipinto doveva essere inserito in un manoscritto, per cui il volto del duca doveva essere rivolto verso lo scritto come nell’incipit della Geografia di berlinghieri e in quello dei Commentari alla vita di Federico, scritti da Vespasiano da bisticci. se il dipinto doveva essere inserito in un manoscritto, la sua collocazione erano proprio le Disputationes, perché la coperta del libro che ha in mano Federico corrisponde alla descrizione redatta nell’inventario vecchio per l’opera di Landino. il duca non vi è ritratto nella compostezza richiesta dalla sua dignità, ma come immedesimatosi nella lettura del testo di cui viene fatto partecipe il deferente interlocutore, che pende dalle labbra del suo mecenate. colui che ha dipinto la tavoletta intendeva evidentemente dare un preciso significato all’inconsueta rappresentazione. Ficino, nella lettera a Pellegrino degli agli prima e nel De Amore poi, illustra, con adeguati approfondimenti, la teoria platonica, espressa nel Fedro, del divino Furore, secondo la quale quattro sono gli habitus che consentono all’anima di risollevarsi al cielo dopo esser caduta nel corpo: il furore poetico che si rapporta alle muse, il furore sacerdotale congiunto a dioniso, il furore divinatorio dedito ad apollo e il furore dell’eros dominato da Venere. il furore poetico rappresenta il primo stadio di riunificazione dell’anima, che, stimolata dalle muse, ritrova l’armonia, ponendosi in sintonia con i suoni celesti. una volta ritrovata l’armonia, l’anima si purifica tramite il furore sacerdotale, si unifica tramite il furore divinatorio e infine si congiunge con dio tramite il furore dell’eros. nel proemio dedicato al duca di urbino del secondo libro delle Disputationes si legge che le muse greche, latine e “fiorentine” innalzeranno al cielo per secoli il nome di Federico, la cui biblioteca è colma di testi che le celebrano9. nella dedica del terzo libro si tratta della poesia e del furore poetico come primum movens per la riconquista dell’armonia da parte dell’anima dopo la caduta nel corpo; la lettura neoplatonica si discosta in questo

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c. Landino, op. cit., p. 53.

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caso dal pensiero platonico ortodosso, assegnando un ruolo paritario al furore poetico rispetto alle altre componenti del divino Furore10. nella raffigurazione presente sulla coperta delle Disputationes, Federico appare in preda al turbamento del furore poetico; l’esame radiografico eseguito sulla coperta del manoscritto mostra una prima stesura pittorica in cui il duca è raffigurato in una disposizione più consona al suo rango. Le modifiche introdotte nella stesura definitiva del dipinto hanno la funzione di far esternare al personaggio il suo stato d’animo infervorato dalla lettura del manoscritto. Per ottenere un risultato di questo genere Pollaiolo modifica l’angolazione dei volti dei due personaggi, l’impostazione del cappello e dei lineamenti del duca, ampliandone la massa dei capelli alla nuca. Le modifiche riguardano in modo consistente anche il personaggio che è di fronte a Federico, la cui identificazione ha creato molte difficoltà alla critica; per primo si è pensato a Landino, un riconoscimento che è giunto fino ai giorni nostri pur avendo avuto dure smentite da oltre un secolo; il confronto con il ritratto “fotografico” di Landino fatto dal Ghirlandaio in santa maria novella consente di escludere che si tratti della stessa persona dipinta nel codice 508. Venturi nel 1925 dopo aver attribuito, negli anni precedenti, il dipinto a Fra carnevale, si rese conto che il personaggio raffigurato di fronte al duca era in realtà da considerarsi un autoritratto e, mancando degli abiti da frate, ritenne di potervi identificare Francesco di Giorgio martini. il confronto con la maschera funeraria di antonio del Pollaiolo, presente nella sua tomba in san Pietro in Vincoli a Roma, rende ragione all’osservazione di Venturi sulla tipologia del dipinto con autoritratto, per il personaggio di fronte al duca, e al tempo stesso consente, alla luce delle nostre ricerche, di riconoscervi l’artista fiorentino. La conferma viene dai dati seguenti: a) L’esame stilistico della tavoletta mette in evidenza precipui caratteri pollaioleschi: la primaria importanza data al disegno, il verismo rappresentativo di chiara ispirazione fiamminga, la scultorea tridimensionalità dei personaggi. b) i rapporti tra Federico di montefeltro e antonio del Pollaiolo negli anni ’70, di cui abbiamo già scritto, fino ad ora inesplorati, furono al contrario molto intensi. cadono di conseguenza le precedenti attribuzioni di paternità dell’opera a Fra carnevale (serafini e Venturi), a botticelli (berenson e bellosi), a Francesco di Giorgio martini (Venturi), a Francesco di antonio del chierico (Garzelli), a botticini (Venturini). il manoscritto delle Disputationes è senz’altro un unicum sia per la presenza stessa del dipinto sia per il fatto che il Principe si è fatto ritrarre insieme all’artista. L’iniziativa di Federico, che ha quasi dell’insostenibile, rappresenta una grande prova della sua lungimiranza e ne congiunge il pensiero alle tesi cinquecentesche di Leonardo esposte nei fogli che compongono il Trattato della Pittura, secondo le quali anche la poesia deve inchinarsi di fronte alla pittura, posta addirittura sullo stesso piano della filosofia. Federico intendeva valorizzare l’arte figurativa e i suoi protagonisti seguendo i suggerimenti di Ficino, ma anche i comportamenti del duca di borgogna Filippo il buono, che all’inizio del secolo aveva fatto di Van eyck, non solo l’artista di corte, ma anche una sorta di suo uomo di fiducia per importanti missioni.

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Ibidem, pp. 111-113. antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

soltanto Federico avrebbe potuto decidere di far inserire nel volume delle Disputationes il suo ritratto insieme ad un pittore ed è pertanto improponibile che altri possano aver fatto l’inserimento dopo la sua morte o addirittura nel secolo xVii. Gli elementi citati ci consentono nel loro insieme di avanzare la nostra ricostruzione dell’iter del volume. cristoforo Landino regala a Federico le Disputationes con la coperta in cuoio verde e le ornamentazioni in argento realizzate dalla bottega del Pollaiolo, che è egli stesso latore del manoscritto a urbino. Federico nella sua lettera di ringraziamento, facendo cenno alla missiva di accompagnamento al dono scritta dall’umanista, esclude che sia stato lo stesso Landino a recapitarlo direttamente11. Qualche tempo dopo, a riprova del legame che si era instaurato tra il duca e Pollaiolo ed in seguito ad eventi ben precisi di cui tratteremo appresso, Federico dà disposizione all’artista di modificare la coperta inserendovi la tavola dipinta con il loro ritratto. L’inventario vecchio non nomina i due personaggi dipinti sul piatto anteriore perché ricalca fedelmente quello di astenio redatto al momento di ingresso del manoscritto in biblioteca12. Quando il Valentino, all’inizio del secolo xV, si impadronisce di urbino, saccheggia le parti argentee di molti codici, comprese quelle disposte sulla coperta delle Disputationes, che nell’inventario del 1632 viene descritta in «corame verde», quindi senza le originarie ornamentazioni. nel periodo del trasferimento a Roma il manoscritto, che presentava ormai la coperta danneggiata, viene restaurato da mano esperta; utilizzando la 11 «domino cristophano Landino. spectabilis. delectaverunt me mirum in modum camaldulenses disputationes tuae ac suavissima epistola quam una misisti amantissimis verbis ornatam…». Disputationes Camaldulenses, introduzione p. ix, cit. 12 Federico Veterano, per molti anni amanuense nella biblioteca dei duchi di urbino, vi concluse la sua carriera divenendo bibliotecario nel 1520, in sostituzione di agapito. nel 1482, mentre era intento a copiare i Trionfi e il Canzoniere del Petrarca, Veterano fu raggiunto dalla notizia della morte del duca Federico; preso dalla commozione, scrisse un epigramma sul manoscritto del Petrarca:

Federico Veterano fui, che scripse. Questo e molti altri, cum justa mercede, Usando diligentia, amore et fede, Al Duca Federigo in sin ch’el vixe: Le cui memorie sempre al mondo fixe. Sonno e seranno; e ben certo si crede, Mentre sta el mondo e la natura in pede, Ch’ogni virtù dal cielo in lui venisse. Quello mi piango, e mai ho ’l viso asciutto; Quel chiamo, quel mi sogno e quel mi stringo. Ai labri, sculpto in cara tauletta; La qual, così machiata del mio lucto, Adoro, honoro in verso e vivo el fingo, Per lenimento di mia vita abiecta. il noto filologo adolfo cinquini, all’inizio del secolo scorso, analizzando l’epigramma si chiedeva se «sculpta tavoletta» riguardasse il ritratto del duca scolpito su una tavola di legno o altrimenti dipinto su tavola con caratteri scultorei. La seconda lettura, che a noi sembra molto più convincente, indirizza direttamente al codice 508, essendo nota ai contemporanei la peculiarità, nella pittura di antonio del Pollaiolo, dell’inconfondibile effetto tridimensionale. a. cinquini, Spigolature, classici e neolatini, aosta, tipografia G. allasia 1905, pp. 114 e 119. antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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coperta di colore rosso-bruno, forse appartenente ad altro codice del secolo xV, il restauratore la adatta sul piatto ligneo dipinto, contornato dalla pergamena miniata. seguendo l’intuizione di cinquini riprendiamo in esame il foglio di guardia del cod. urb. Lat. 491, rilevando in secondo piano la Veduta di Volterra, realizzata con vista a volo di uccello. il foglio del codice è un crocevia per l’assegnazione di altre opere al medesimo artista: la Veduta di Volterra e il modus albertiano di rappresentare la città sono del tutto analoghi alla Pianta della Catena di Firenze, alla tavola Strozzi del museo san martino di napoli, alla Veduta di Roma oggi al museo civico di mantova. i legami tra le ultime tre opere sono stati evidenziati da de seta, che scrive: «Le vedute di Firenze, Roma e napoli hanno in comune le procedure attraverso le quali si perviene alla costruzione del ‘ritratto’ delle città: con una identica attitudine propriamente topografica e prospettica e con una inclinazione miniaturistica che definisce in ogni dettaglio le fabbriche di maggior spicco…»13. L’inserimento nel gruppo della Veduta di Volterra rafforza l’attribuzione ad un maestro fiorentino, da noi individuato in antonio del Pollaiolo tra le opere del quale si trova riscontro di una veduta a volo d’uccello nell’Arcangelo e Tobiolo della Galleria sabauda, un dipinto negli ultimi tempi riferito alla mano del fratello Piero, ma che discende comunque dalla medesima scuola; è da riconoscervi l’intervento di antonio nella realizzazione del disegno preparatorio e del paesaggio. La veduta di Firenze, particolarmente vicina a quella Volterra, del cod. urb. Lat. 491, fu realizzata dal disegno originario in incisione su rame e, successivamente, derivata in xilografia; quest’ultima, oggi locata al Graphische sammlung di berlino, è denominata Pianta della Catena, per la presenza appunto di una catena che circoscrive la veduta. si tratta di una riproduzione, con significative aggiunte personali, dell’incisione di cui permane un frammento cartaceo all’accademia toscana di scienze e Lettere La colombaria di Firenze. La catena, che fa da cornice alla veduta di Firenze realizzata in xilografia, è assente nel foglio dell’accademia colombaria, dove con tutta probabilità non figurava l’artista all’opera sulla collina di bellosguardo. La xilografia di berlino è verosimilmente una delle tirature di cui si conservavano due copie nella bottega di Rosselli, come si evince dall’inventario di alessandro di Francesco Rosselli, registrato dagli eredi nel 1527, in cui è descritta una veduta di Firenze in sei fogli. La città viene riprodotta con tutte le sue costruzioni antiche e moderne, sulle quali campeggiano storpiature dialettali venete nella denominazione dei luoghi e monumenti («san benedetto» dell’incisione diviene «san beneide» nella xilografia, «san michele» trasmuta in «san micele»); la qualità della xilografia è sicuramente inferiore rispetto all’opera originaria. G. boffito e a. mori, nel loro lavoro Piante e Vedute di Firenze, ricordavano, a proposito della Pianta della Catena, i giudizi di due eminenti critici: heinrich brockaus e corrado Ricci. il primo aveva messo in risalto i legami della xilografia con i principi albertiani, a riguardo dell’impostazione architettonica e prospettica. il secondo aveva segnalato l’impronta inconfondibilmente pollaiolesca dei personaggi raffigurati sulla pescaia di santa Rosa14. La Veduta della Catena è stata realizzata con tutta probabilità da Jacopo de’ barbari nella seconda metà degli anni

13 c. de seta, L’immagine di Napoli dalla tavola Strozzi a E. G. Papworth, in all’Ombra del Vesuvio, electa, napoli 1990, p. 28. 14 G. boffito, a. mori, Piante e Vedute di Firenze, Libreria internazionale, Firenze 1926, p. 145.

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’80. depongono a favore della paternità dell’artista le scritte in dialetto veneto e i legami con la veduta di Venezia assegnata al de’ barbari. nel ritratto di Luca Pacioli, oggi a capodimonte, l’esecutore scrive nel cartiglio che il dipinto è stato eseguito nel 1495 da Jacopo de’ barbari, allora ventenne (iaco. bar. Vigennis p. 1495 - Jacopo de’ barbari lo dipinse ventenne. 1495). ne consegue che la Veduta di Firenze deve essere stata eseguita in un arco di tempo oscillante tra il 1482-83 e il 1495 per l’appunto. La datazione della Veduta alla seconda metà degli anni ’80 non viene inficiata dalla mancanza di monumenti che in quel periodo erano già stati realizzati; se l’originario esecutore di una veduta era artista di primaria importanza, copie anche a distanza di tempo venivano eseguite rispettando accuratamente l’opera originaria. nella Veduta di Roma del museo civico di mantova, databile intorno al 1538, che risulta derivata da un disegno o da una incisione antecedenti al 1495, è ancora presente la meta Romuli fatta demolire da alessandro Vi nel 1499. nella xilografia la catena serrata a lucchetto, che circoscrive la pianta, è in prima ipotesi da mettere in collegamento con lo stemma della famiglia alberti, originaria di catenaia, rappresentato da uno scudo caricato di quattro catene legate, al centro, ad un anello. il giovane artista, di origine veneta, identificato a ragione da boffito in Jacopo de’ barbari15, riproponendo in xilografia la veduta del Pollaiolo, si ritrae all’opera nel punto di osservazione per esaltare l’insegnamento albertiano cui fa riferimento, nell’impostazione architettonica della città di Firenze, tramite la diagonale che si forma fra il lucchetto della catena e l’artista stesso; mediatore del collegamento ideale con l’umanista fiorentino è il Pollaiolo: le sembianze dei personaggi sulla pescaia di santa Rosa ne sono testimonianza. L’interpretazione dell’inserimento del lucchetto e della catena nella xilografia, seppure avvincente, non esime dal formulare ipotesi alternative, che cambiano il tragitto ideativo ma lasciano invariato l’approdo finale. una diversa ipotesi, decisamente più probabile, poggia sulla volontà dell’artista di rimanere strettamente legato all’opera originaria non considerando le modificazioni architettoniche intervenute nel frattempo. L’assegnazione del foglio di guardia del cod. urb. Lat. 491 al Pollaiolo ne attesta la paternità sull’incisione in rame della colombaria, che viene ascritta al Pollaiolo, unitamente alla tavola Strozzi e alla Veduta di Roma nella sua versione originaria, in accordo alle tesi di de seta. La tavola Strozzi è la splendida veduta di napoli realizzata nel periodo 1472-73; vi viene raffigurato il momento finale della parata trionfale nel porto della flotta aragonese (12 luglio 1465), dopo la vittoria contro l’armata provenzale, nella battaglia di ischia (7 luglio 1465). del treppo ha messo in risalto che l’autore non ha ritratto la fase cruciale della parata, quando le navi fecero il giro trionfale di fronte a castelnuovo, sotto lo sguardo del Re e della sua corte, ma il momento dell’attracco delle imbarcazioni al molo16. argutamente lo studioso ne ha tratto la conclusione che il pit-

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Ididem. m. del treppo, Le avventure storiografiche della tavola Strozzi, in Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, Reti medievali, bologna 1994, pp. 490-491. 16

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tore ha voluto privilegiare l’aspetto vedutistico sul contenuto storico, come a voler titolare il soggetto rappresentato nel dipinto Napoli e il trionfo della flotta aragonese. da un punto di vista stilistico si tratta di un’opera carica di albertiana fiorentinità, che ne esclude l’attribuzione a pittori napoletani; in questo senso si erano già espressi salmi e Pane. se si eccettuano le personali tesi di bologna, che si è pronunciato per Pagano, in epoca recente la critica, con de seta, del treppo e sricchia santoro, ha sostenuto e riconfermato l’attribuzione dell’opera al fiorentino Francesco Rosselli17. il dipinto presenta altresì elementi diversificativi dalle comuni espressioni dell’arte nella Firenze del Quattrocento. La rappresentazione telescopico-microscopica del particolare e la finezza della materia pittorica rapportano decisamente alla pittura fiamminga un’opera da anni al centro di accesi dibattiti, tendenti a focalizzarne il complicato iter che l’ha condotta a Firenze in Palazzo strozzi, dove all’inizio del novecento fu rinvenuta. La comparazione delle vedute di napoli e di Firenze mette in evidenza, oltre allo stretto legame esistente tra le due opere nell’impianto geometrico e prospettico, un’unica identità nella rappresentazione strutturale delle case e sorprendentemente dei tetti. nella veduta napoletana, le coperture a terrazza delle case, come si presentano in natura, sono trasformate in tetti rossi tipicamente fiorentini. ne conseguono due significative deduzioni: l’autore della tavola è, come per la Pianta della Catena, un fiorentino, e l’opera non era destinata al castelnuovo di napoli, dove non sarebbe stata favorevolmente accolta, in quanto non rispondente alla realtà, ma era un dipinto eseguito per l’abitazione di Firenze degli strozzi, dove è stato poi ritrovato. La trasformazione delle coperture a terrazza delle case napoletane in tetti rossi alla toscana fu effettuata nella stesura definitiva del dipinto, come dimostra l’indagine radiologica condotta da d. catalano, che a proposito della prima stesura, evidenziabile radiologicamente, si esprime nel modo seguente: «Rispetto alla stesura definitiva sono evidenti modifiche relative all’immagine radiologica nella impostazione dei caseggiati ed in particolare della morfologia dei tetti, che appare radicalmente trasformata»18. si è trattato dunque di una scelta dell’artista, che porta alle seguenti deduzioni: 1) è praticamente non percorribile la tesi della destinazione napoletana dell’opera; 2) si evidenzia uno specifico modus agendi dell’autore, analogo all’introduzione di monti inesistenti in natura nell’incisione della colombaria e alla mancata realizzazione di palazzi e ruderi che turbavano l’impostazione prospettica nella veduta di Roma; 3) si consolida la tesi di de seta sulla unicità della mano realizzatrice delle tre opere.

17 m. salmi, Introduzione a G. Pampaloni, Il Palazzo Strozzi, ina, Roma 1963, p. 13. R. Pane, La tavola Strozzi tra Firenze e Napoli, in “napoli nobilissima”, xViii, napoli 1979, pp. 3-10. F. bologna, Napoli e le rotte mediterranee della pittura. Da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, società napoletana storia Patria, napoli 1977, p. 196. c. de seta, L’immagine di Napoli nella tavola Strozzi e Jan Bruegel, in aa.VV., Scritti di Storia dell’Arte in onore di Raffaello Costa, electa, napoli 1988, p. 113. m. del treppo, op. cit., p. 494. F. sricchia santoro, Tra Napoli e Firenze: Diomede Carafa, gli Strozzi e un celebre lettuccio, in “Prospettiva. Rivista di storia dell’arte antica e moderna”, 100, Firenze 2000, pp. 48-49. 18 d. catalano, Indagine radiologica della tavola Strozzi, in “napoli nobilissima”, xViii, fascicolo 1, napoli 1979, p. 11.

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A latere dell’iter storico del dipinto vi è un evento che è ad esso collegato. Filippo strozzi, ricco mercante operante a napoli, decise nel periodo 1472-73 di fare un importante dono a Ferdinando d’aragona. La scelta cadde su un letto in legno intarsiato con una spalliera su cui era rappresentata una veduta della città di napoli; incaricato dell’opera fu benedetto da maiano, il più noto intarsiatore fiorentino. il letto, terminato nell’aprile del ’73, fu portato a napoli il 15 dello stesso mese. dai libri di conti di Filippo strozzi è stata estrapolata, da del treppo, la registrazione del pagamento del letto: 110 fiorini pagati a benedetto da maiano per il letto completo della veduta di napoli19. il letto fu effettivamente donato a Ferdinando, come risulta dalla lettera scritta da Filippo strozzi in Firenze a suo fratello Lorenzo in napoli, ricevuta il 9 maggio 1474. Filippo strozzi impreziosiva il letto, regalato al Re un anno prima, con un nuovo dono: uno stemma con corona. esiste dunque il documento attestante l’ingresso del letto in castelnuovo20. benedetto da maiano, una volta terminato il letto, si lamentò che il lavoro di intarsio era stato troppo gravoso e che non avrebbe più potuto eseguire un’opera simile; riferiva marco Parenti: «Ànno fatto proposito l’uno e l’altro di loro [benedetto e Giuliano da maiano] di non volere più attendere a prospettiva»21. una tale lagnanza non poteva che riguardare il letto completo della spalliera intarsiata con la veduta di napoli, considerando che, se non volevano «più attendere», avevano già atteso «a prospettiva». in una missiva inviata a Filippo strozzi il 13 maggio 1473 marco Parenti confermava che il letto era giunto a napoli; vi era poi una spalliera, probabile completamento di un altro letto, alla quale artisti diversi da benedetto da maiano stavano lavorando a Firenze22. La reggia napoletana, nel secolo xV, era fortemente influenzata dall’arte fiamminga. alfonso il magnanimo, padre naturale di Ferdinando, aveva ripetutamente

19 «J lettuccio di nocie di braccia 6 cho. l cassone e spalliera e chonicie molto bello ritratovi dentro di prospettiva Napoli el castello e loro circhustanzie, chostò di po chosto f. 110 larghi, e tra gabelle e portatura sino a Napoli ché andò per terra, venne là. f. 180». m. del treppo, op. cit., p. 511. asF; c. s. serie V, reg. 22, cc. 95-96. 20 «Ieri raviai la corona e monte di diamanti cho’ panni: i’ lettucio fu bello, e questo adornamento lo farà viepiù bello. Fara ’la chonfichare bene, cioè la corona, sopra l’arme, e la più bella pietra sia il dinanzi. Non iscrivo altrimenti al Re; fa’ le parole tu e aspetta al darlla il tenpo, chè non c’inporta 15 dì più o meno. Verrà tutto più di 40 fiorini larghi». m. del treppo, op. cit., p. 489. asF, strozziane, iii, 133, c. 26 v. 21 «Non piacie a Benedetto da Maiano il modo avete preso a richiedere Giuliano o lui del venire costì, perché e’ sono d’achordo e ànno fatto proposito l’uno e l’altro di loro di non volere più attendere a prospettiva, e se fussi stato intaglio di rilievo vi si sarebbe achordato. Hora Giuliano non ci è e oggi debb’essere, fareno di richiederlo per altra cagione, crediano acconsenta senza mostrarli la lettera e parte si li porta ragione di chotesto choro e si vi vorrà attendere alla buonora, se non, se ne dirà chon qualchun altro, e saprete di sequito…». J. Russel sale, 1979, s, 524, doc. 38. asF, carte strozziane, ser. iii, vol. 178, c. 31-v. 22 «… El lettuccio, ò da Filippo B. che gli scrivi è giunto a salvamento, e che Benedetto da Maiano è costì, che molto mi piace, sì per più rispetti, ma per questo maxime, che se ti duoli del pregioo di mancamento alcuno del lavorìo, ài costì il maestro da poterti sfogare co’. lui, e lui ti risponderà. Aviserai come piace agl’altri. La spalliera non si può ancora riavere; dicono bene, epure non torna; sollecitasi». m. marrese, Marco Parenti Lettere, olschki ed., Firenze 1996, pp. 242-244. asF, c. s., iii, cxLV, 60.

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cercato di reperire, sul mercato dell’arte, opere di Van eyck. nel 1444 aveva acquistato il trittico del pittore fiammingo realizzato per Giovan battista Lomellino. il dipinto presentava al centro una annunciazione mentre gli sportelli laterali raffiguravano rispettivamente un san Girolamo nello studio e un san Giovanni battista. sempre nel 1444 alfonso fece acquistare a bruges un San Giorgio a cavallo di Van eyck; secondo le fonti il Re di napoli possedeva ancora, del pittore fiammingo, una Adorazione dei Magi e se non l’originale, quantomeno una copia, del mappamondo che apparteneva a Filippo il buono. alfonso aveva fatto arrivare dalle Fiandre un gran numero di arazzi, gli ultimi dei quali eseguiti su disegno di Van der Weyden. Quando salì al trono, Ferdinando continuò il rapporto sia politico sia artistico con l’erede di Filippo il buono, carlo il temerario, ma aprì il mondo culturale napoletano all’arte e all’umanesimo fiorentini. Filippo strozzi sapeva che il dono al Re sarebbe stato molto apprezzato se nella sua progettazione fosse intervenuto un autore le cui opere rappresentavano la sintesi dei due movimenti artistici: la scelta cadeva automaticamente su antonio del Pollaiolo. secondo la ricostruzione degli eventi, su invito di Filippo strozzi l’artista fiorentino si recò a napoli e, seguendo i principi albertiani e l’interpretazione fiamminga, fece il disegno e un modello assolutamente fedele della città, mostrandoli al committente per la definitiva approvazione. L’autore della tavola Strozzi è un fiorentino, seguace dei principi albertiani, che si è dovuto dunque recare a napoli per poter realizzare con grandissima precisione geometrie e colori di edifici e luoghi non altrimenti riproducibili; se l’autore della tavola Strozzi è il Pollaiolo, si può ragionevolmente ipotizzare che l’artista si sia recato a napoli23. in conclusione: Filippo strozzi commissionò a benedetto da maiano, per il letto destinato a Ferdinando d’aragona, una tarsia lignea, con la veduta di napoli assolutamente fedele all’immagine naturale della città, da realizzarsi su progetto di antonio del Pollaiolo. dallo stesso originario disegno da cui fu derivata la tarsia, lo strozzi fece realizzare dal Pollaiolo stesso, con importanti modifiche nella stesura definitiva, un dipinto, la cosiddetta tavola Strozzi, concepita come spalliera di letto per la sua abitazione di Firenze, dimora dalla quale la veduta non si è mai mossa fino al 1901, data del suo ritrovamento. a sostegno della tesi che negli anni ’70 del Quattrocento vi furono rapporti artistici tra antonio del Pollaiolo e gli strozzi merita ricordare che l’artista fiorentino realizzò nel 1475 il San Cristoforo alto 10 braccia sulla facciata di san miniato tra le torri: la chiesa, a pochi passi dall’attuale piazza strozzi, era sotto il patronato di quella famiglia e il priore all’epoca era marco di matteo strozzi. La ricostruzione dell’iter storico-artistico della tavola Strozzi nulla toglie al valore dello studio di del treppo, determinante per poter affrontare correttamente l’argomento, del quale consente di focalizzare gli aspetti più rilevanti: la già citata interpretazione artistica, la corretta data-

23 Le tavolette di Ercole e Anteo ed Ercole e Idra della Galleria degli uffizi sono da ritenersi due dei tre modelli eseguiti da antonio del Pollaiolo nel 1460 per le grandi tele della sala Grande del Palazzo medici di via Larga; non trova sostegno la datazione proposta per le due opere agli anni ’70.

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zione al periodo 1472-73 conseguente alla commissione di Filippo strozzi del lettuccio per il Re di napoli e, se non l’identità, il legame di gemellaggio fra la tavola Strozzi e la spalliera effettivamente donata a Ferdinando, entrambe figlie dello stesso disegno originale. salmi, parlando dell’autore della tavola Strozzi, lo definì un artista fiorentino più miniatore che pittore; l’intuizione è felice soltanto a metà. il dipinto rappresenta in modo ineguagliato l’applicazione dei dettami albertiani sulla realizzazione dell’opera d’arte, intesa come sintesi di classicismo e naturalismo; antonio del Pollaiolo fonde mirabilmente l’insegnamento classico italiano, su cui si è formato il suo talento artistico, con la cura del particolare derivata dallo studio della tecnica di Van eyck; l’autore della tavola Strozzi è dunque pittore e miniatore insieme, esattamente come l’artista fiammingo. La Veduta di Roma, oggi al museo civico di mantova, ha impostazione geometrica e prospettica del tutto simile alle vedute di Volterra, Firenze e napoli. si tratta di un dipinto su tela; il terminus post quem di realizzazione ha un primo riferimento al 1534, anno in cui le statue di san Pietro e Paolo, che figurano in pittura, furono poste ai lati del ponte di castel sant’angelo, in sostituzione delle due edicole demolite nel 1527. La presenza nel dipinto di una scritta che ricorda il trasporto in campidoglio della statua di marco aurelio, avvenuto nel 1538, sposta il terminus post quem di realizzazione a quello stesso anno. La tela ha impostazione comune con una incisione del medico umanista hartmann schedel, pubblicata nel 1495, che è una vista parziale di Roma rispetto al dipinto mantovano; vi fu dunque una comune fonte ispirativa rappresentata da un’incisione o una tavola eseguite prima del 1495, delle quali si può ragionevolmente ipotizzare la paternità del Pollaiolo per le stringenti analogie delle loro derivazioni con le opere precedentemente descritte24. La tela di mantova presenta delle minime variazioni rispetto alla Roma del xv secolo che l’originale rappresentava: mancano le grandi trasformazioni di Giulio ii e gli stessi interventi di alessandro Vi (la meta Romuli demolita nel 1499 è ancora presente); il pittore ha voluto evidentemente rimanere il più possibile fedele all’importante opera originaria. La Veduta di Roma è concepita e realizzata seguendo alla lettera i principi albertiani: le vedute precedenti alla codificazione dell’alberti ritraevano soltanto i monumenti antichi; con i nuovi orientamenti, la città viene riprodotta con tutte le sue costruzioni, antiche e moderne (pingere quantacumque in superficie). Gli edifici sono ridotti prospetticamente alle dimensioni desiderate; vengono annotate le superfici dei colli e le distanze delle porte tra loro, adoperando come unità di misura rispettivamente gli stadii e i passi. se la tela di mantova fosse totalmente leggibile (esame riflettografico?), vi si ritroverebbe la trasposizione fedele della Descriptio Urbis Romae di Leon battista alberti. G. b. Rossi nel 1897 sosteneva che vi fosse una stretta correlazione tra le iscrizioni della Veduta di Roma e le terzine delle Antiquarie Prospectiche Romane, il poemetto

24 hartmann schedel è anche autore di una Veduta di Firenze, che fu pubblicata nella sua Cronaca del Mondo del 1493, chiaramente ispirata alla incisione del Pollaiolo. e. Rucker, Die Schedelsche Weltchronik, Prestel, münchen 1973, p. 92.

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scritto da bramante a Leonardo alla fine del 1499 per esortarlo a recarsi a Roma, di cui si discuterà appresso25. una conferma alla tesi di G. b. Rossi viene dall’Opus de Antiquitatibus di hartmann schedel, un quaderno manoscritto del 1504, dove, insieme alla copia manuale delle Antiquarie, è presente non casualmente la stampa della Veduta di Roma, descritta precedentemente. Iconografia Pagine 181-185, figure 10-20c

25 G. b. Rossi, Piante iconografiche e prospettiche di Roma, tip. salviucci, Roma 1879, pp. 104-111. e. Rocchi, Le piante iconografiche e prospettiche di Roma del sec. XVI, Roux e Viarengo, torino-Roma 1902, pp. 29-31.

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antonio del pollaiolo e federico di montefeltro. il possesso di rusciano e la pala montefeltro in brera

il possesso di rusciano L’ameno possesso di Rusciano è un complesso costituto da una villa storica, immobili di pertinenza e terreni, situato a Firenze nella zona sottostante a santa margherita a montici. La Villa è una delle “case da signore” che nel Quattrocento furono costruite o ristrutturate fuori della porta a san niccolò; la proprietà comprendeva anche alcune “case da lavoratore” e un grande appezzamento di terreno. si tratta di un possesso di importanza storica che ha avuto nei secoli titolati proprietari, tra cui ricordiamo in ordine cronologico: bardi, Pitti, montefeltro, Frescobaldi, usimbardi, capponi, torrigiani, Fenzi, Von stumm. i numerosi passaggi di proprietà hanno comportato una serie di cambiamenti e ristrutturazioni che rendono oggi alquanto problematico lo studio architettonico della Villa. creò grande scompiglio la ristrutturazione operata da Von stumm tra la fine del secolo xix e l’inizio del secolo xx; il nobiluomo teutonico spostò le ornamentazioni antiche ricomponendole altrove in comunione con pezzi di nuova produzione. Per quello che di antico c’è ancora nella Villa si può comunque evidenziare che la parte ornamentale non segue lo stereotipo classico fiorentino ma si avvicina molto allo stile del Palazzo ducale di urbino. La famosa finestra del secondo cortile, definita a torto da stegmann e Geymuller opera di brunelleschi, trova precisi riscontri nell’architettura urbinate, come anche le corniciature dei portali. si tratta di realizzazioni appartenenti al periodo post-federiciano che hanno come riferimento un archetipo direttamente commissionato dal duca di urbino. Federico ebbe in dono la Villa di Rusciano dalla Repubblica Fiorentina per la vittoriosa impresa di Volterra: qui di seguito gli eventi storici che portarono a quella donazione. il casato mediceo, nella seconda metà del secolo xV, aveva attività bancarie che per varie motivazioni, ma soprattutto per l’errore di cosimo di aver voluto finanziare il ducato di milano, non versavano nelle migliori condizioni. in alcune miniere napoletane i medici erano coinvolti nell’estrazione dell’allume, una sostanza indispensabile nella fabbricazione dei tessuti perché usata come mordente nella tintura delle stoffe. in quel periodo fu scoperta al sasso nei pressi di Volterra un’importante miniera di allume; Paolo inghirami riuscì ad aggiudicarsene lo sfruttamento con una cordata societaria cui parteciparono il concittadino benedetto Riccobaldi, i senesi benuccio, andrea, conte e salimbene capacci, i fiorentini Gino capponi e antonio Giugni. il canone pattuito per la concessione, giudicato troppo basso dal comune di Volterra, scatenò una forte reaantonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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zione della comunità locale. il consiglio Generale nominò arbitro Lorenzo de’ medici, la cui conferma del contratto di locazione scatenò una vera e propria rivolta popolare. Paolo inghirami, in forza del giudizio arbitrale a suo favore, il 21 febbraio 1472 rientrò a Volterra da Firenze con una schiera di armati; il gesto fu interpretato come un vero e proprio atto di sfida che l’uomo pagò con la vita. a quel punto le possibilità di un accordo erano del tutto compromesse, anzi era lo stesso Lorenzo a spingere per una soluzione militare per risollevare la sua immagine di leader politico. La Lega (milano, Firenze, napoli) fu cooptata per la spedizione militare contro Volterra; anche il Pontefice fece partecipare le sue truppe, non perché intendesse proteggere gli interessi fiorentini ma perché voleva impedire che il Regno di napoli si espandesse in toscana tramite l’assunzione del potere a Volterra da parte del figlio di Ferrante, alfonso duca di calabria. Lorenzo affidò il comando dell’esercito per la repressione della rivolta a Federico di montefeltro; il 18 giugno 1472 le truppe della Lega, dopo pochi giorni di assedio, entrarono in Volterra e la saccheggiarono. Per la vittoria riportata il conte di urbino, su decreto dei consigli, fu largamente ricompensato. anzitutto gli venne concessa la cittadinanza fiorentina, e perché ciò non fosse una mera finzione giuridica gli venne donata una dimora, che, essendo Federico uno “straniero” potenzialmente pericoloso, doveva esser locata rigorosamente fuori dalle mura della città. La scelta cadde sulla Villa di Rusciano, che la Repubblica Fiorentina acquistò appositamente da Luca Pitti. il decreto dei consigli Fiorentini elencava come ulteriori doni per il conte un elmo d’argento (la cui esecuzione venne affidata al Pollaiolo), due bacili di argento che facevano parte degli argenti della cappella della signoria ed erano stati realizzati alcuni anni prima dalla bottega del Pollaiolo, con alcuni boccali, un pennone che inalberava una bandiera con il giglio di Firenze, una veste da cavaliere e una bardatura per il cavallo preziosamente intessuta di seta ed oro. Le argenterie della cappella della signoria furono immediatamente rimpiazzate con una nuova commissione al Pollaiolo. i doni ammontavano complessivamente a 7500 fiorini larghi, di cui circa 1000 rappresentavano l’ingente compenso per antonio del Pollaiolo; un impegno così elevato presupponeva che il conte di urbino fosse quantomeno consenziente sul nome dell’artista, se non il suo promotore unitamente a Lorenzo de’ medici. in effetti il conte di urbino il 20 giugno da Volterra si recò a Firenze dove rimase una settimana nella Villa di Rusciano, sua futura donazione; verosimilmente in questo frangente furono concordati nei dettagli il complesso della ricompensa e i relativi esecutori. il 5 settembre 1472 fu stipulata la ratifica notarile della vendita della Villa di Rusciano da Luca Pitti a Lorenzo, che acquistava per conto della Repubblica Fiorentina. il successivo 19 settembre seguì la donazione della villa al conte di urbino, che non fu presente e in sua vece inviò il suo segretario Pietro Felici, latore di una lettera di ringraziamento. il 1° aprile 1473 fu consegnato l’elmo d’argento a Federico, direttamente in urbino; latore dell’opera fu con tutta verosimiglianza lo stesso Pollaiolo26. 26 il 2 aprile 1473 Prendilacqua, ambasciatore in urbino, scrive al duca di mantova: «Li san Fiorentini hanno mandato a san conte un elmeto d’arzento sopra dorato, con molti smalti, de valuta, secondo si dice, de ducati 500. Lo cimiero e hercule con maza in mano, e sotto lui a lo grifone, arma dei Volterrani, ligato in signi de la victoria avuta».

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Questi poi si fermò a urbino per gettare le basi, con gli indirizzi e sotto la supervisione del montefeltro, di un progetto del conte medesimo27. È possibile fare questa ipotesi sulla base di una lettera, scritta da Federico a Lorenzo il 23 maggio 1473, che testualmente recita: «magnifice frater carissime, Piero mio cancelliero parlarà a la magnificentia Vostra sopra una certa facenda de antonio del Pollaiolo, prego la magnificentia Vostra quanto più mi sia possibile, che voglia et per rispetto de la vertù de antonio, el quale merita omne bene, et per mio amore, adiutare et favorire el fatto et bisogno suo, che lo receverò per cosa gratissima da la magnificentia Vostra, a la quale io non poria dire quanto amo el ditto antonio, et quanto volenthiera io faria cosa che li piacesse. sicché iterum prego di ciò la magnificentia Vostra caramente. Federicus comes urbini etc…, serenissime Lige capitaneus generalis»28.

ad una lettura sbrigativa sembra trattarsi di una semplice lettera commendatizia, secondo le comuni usanze dell’epoca. Lo scritto è noto da tempo agli studiosi, tanto che è stato a più riprese pubblicato, tuttavia tutti vi avevano visto soltanto una banale raccomandazione. ettlinger è stato il primo che, interpretando opportunamente l’espressione «sopra una certa facenda», vi ha dedotto che essa in realtà cela una vera e propria commissione di un’opera di grande importanza, rimasta finora ignota29; sulla scorta di questa interpretazione la missiva merita un adeguato approfondimento. ci sono importanti motivazioni che rendono problematico interpretare questa lettera come una semplice raccomandazione di Federico a Lorenzo per una pubblica commessa al Pollaiolo. La lettera appare generica e nello stesso tempo specifica e dettagliata, tanto da tradire l’intenzione di voler sottintendere la sua reale finalità senza dichiararla esplicitamente. il montefeltro chiede genericamente al magnifico di «adiutare et favorire el fatto et bisogno suo» sia per rispetto della virtù di antonio, sia per suo amore, ma già dalla prima riga preannuncia: «Piero mio cancelliero parlarà a la magnificentia Vostra sopra una certa facenda de antonio del Pollaiolo»; se la lettera avesse il semplice significato di una raccomandazione per il Pollaiolo, per quale motivo ci sarebbe stata la necessità di annunciare l’arrivo del cancelliere del conte, che avrebbe illustrato personalmente al magnifico il reale oggetto della missiva nei dettagli? se si fosse unicamente trattato di un problema personale di antonio del Pollaiolo, chi meglio di lui medesimo avrebbe potuto

27 una conferma alla tesi che l’opera in esame è stata disegnata ad urbino viene dalle somiglianze esistenti tra l’uccello del rilievo e lo struzzo effigiato sul sarcofago del conte antonio. 28 il passo della lettera «et per mio amore» viene in alcune pubblicazioni riportato come «et per mio ancora». L’attento esame dell’originale consente tuttavia di confermare la prima versione. 29 ettlinger: «23 may, Federigo da montefeltro, writing from urbino to Lorenzo de’ medici, expresses his admiration for (an unspecified work of) antonio. his secretary has mentioned to Lorenzo a certain matter and hopes Lorenzo will help antonio over it». benvenuto cellini, La vita di benvenuto di maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta per lui medesimo in Firenze (1558), Libro Primo, capitolo c, fa uso di analoga espressione: «avevo di molti lavoranti e molte gran faccende d’oro e di argento». La lettera al magnifico costituisce anche la prova indiretta del precedente soggiorno del Pollaiolo ad urbino, giacché Federico non potrebbe informare Lorenzo della commissione all’artista senza una preventiva concertazione con l’interessato e la definitiva accettazione dell’incarico da parte di questi.

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esporre la problematica al medici, essendo da anni uno dei principali artisti di famiglia? il coinvolgimento del cancelliere, che dalla lettura della missiva sembrerebbe recarsi da solo a colloquiare con il medici con una lettera ufficiale di accompagnamento del duca, consente di sostenere che nella «certa facenda de antonio del Pollaiolo» ci sia l’interesse diretto di Federico; il passo della lettera «et quanto volenthiera io faria cosa che li piacesse» non sembra affatto retorica con finalità di persuasione, quanto piuttosto il criptato riferimento alla reale finalità della missiva. se viene richiesto l’intervento di Lorenzo per agevolare un artista che a Firenze deve lavorare per Federico, l’attività del Pollaiolo non può che riguardare la Villa di Rusciano, donata da pochi mesi al conte, auspice appunto il magnifico. il cancelliere ne illustrerà finalità e progetto, a voce, con il dettaglio non consentito dal ristretto ambito di una missiva. L’opera rappresenta, oltre che un importante abbellimento e il suggello alla presa di possesso della Villa di Rusciano, anche il punto di riferimento per ulteriori adeguamenti agli intenti30 di Federico; il progetto viene partecipato a chi di quella donazione è stato il principale artefice, soprattutto perché vi è un problema al riguardo che solo Lorenzo può risolvere. il problema per il quale veniva chiesta intercessione al primo cittadino di Firenze non era verosimilmente relativo a comuni opere murarie o abbellimenti, ma a un intervento soggetto ad autorizzazioni speciali come una cappella che necessitava del nulla osta delle autorità politiche ed ecclesiastiche, anche per la costruzione fuori dalle mura. L’analisi dei passaggi di proprietà della Villa avvenuti tra il secolo xV e il xVi sembra confermare la suddetta ipotesi. Guidobaldo di montefeltro vendette la villa di Rusciano a Pierozza bardi Frescobaldi con atto del 30/4/1500 e costei lasciò l’immobile al figlio carlo, non vedente e senza figli; alla morte di questi, gli eredi, con atto del 1559, divisero il bene in sei parti. nella divisione dei campi viene citata, come punto di riferimento per gli appezzamenti di terreno, la porta della cappella, unità della quale non si ha traccia nella divisione degli immobili, perché evidentemente alla metà del cinquecento non esisteva più come tale. Lo smantellamento della cappella seguì verosimilmente all’assedio di Firenze del 1529 operato dalle truppe di carlo V che, per ottenere la pacificazione con clemente Vii dopo il sacco di Roma, si era impegnato con il Pontefice a riportare i medici a Firenze. durante l’assedio della città le truppe si disposero nella zona di santa margherita a montici; secondo quanto scrive torrigiani, che riecheggia benedetto Varchi, il capitano Giovanni savallo prese alloggio con le sue truppe nella Villa di Rusciano. L’immobile si trovò al centro delle operazioni militari, durante le quali furono danneggiate e distrutte numerose cappelle fuori dalle mura della città.

30 È molto difficile pronunciarsi sulle reali intenzioni del conte di urbino quando commissionò il rilievo nel 1473; vi sono comunque importanti elementi da considerare. nei primi anni ’70 Lorenzo de’ medici era in grave difficoltà con il mondo intellettuale fiorentino. molti personaggi, lamentando un inarrestabile decadimento culturale e politico di Firenze rispetto ai decenni precedenti, si erano rivolti a Federico da montefeltro come al Principe-mecenate di loro riferimento. Questi recepì immediatamente il messaggio prevedendo, con grande lungimiranza, che prima o poi sarebbe stato pienamente coinvolto nei fatti di Firenze (congiura dei Pazzi). in questa ottica può esser inquadrata la commissione del rilievo: Federico intendeva farsi realizzare dal primo artista di Firenze un emblema prestigioso che illustrasse i suoi connotati essenziali di uomo di cultura e di armi.

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Quando i Frescobaldi tornarono in possesso della Villa dovettero mettere mano ai danneggiamenti subiti e fu in quella occasione che con tutta probabilità decisero di inglobare la cappella nell’ampliamento dell’unità abitativa. La ricerca sulla storia secolare della Villa di Rusciano si imbatte in un riscontro ottocentesco relativo alla presenza di una cappella del xV secolo. La famiglia Fenzi fu proprietaria dell’immobile tra il 1863 e il 1892, quando, per dissesti finanziari conseguenti ad un ingente furto subito e ad un disastro ferroviario sulla linea di collegamento tra Firenze e Fiesole, fu costretta a vendere Rusciano al barone Von stumm. il nobiluomo tedesco iniziò una serie di studi sulla villa, cui seguì una grande opera di restauro; fu nel periodo di passaggio Fenzi-Von stumm che due studiosi tedeschi, stegmann e Geymuller, sulla base di documenti quattrocenteschi, individuarono quella che a parer loro poteva essere la ubicazione dell’antica cappella della Villa e ne realizzarono la planimetria. L’analisi dei dati storici e documentali, unitamente ai controlli in loco, ci consentono di trarre le seguenti conclusioni. nella Villa di Rusciano vi fu una cappella, anche se non ultimata, tra l’ultimo quarto del secolo xV e il primo quarto del secolo xVi. il portale della cappella veniva ricordato come punto di riferimento di un atto di divisione del possesso di Rusciano quando ormai da tempo la cappella come tale non esisteva più. La ricognizione in loco ha consentito di evidenziare ornamentazioni di stile federiciano dalle quali si evince che i duchi di urbino fecero effettuare lavori di ristrutturazione dell’immobile, direttamente o tramite referenti fiorentini (Giuliano Gondi) Le indagini in situ hanno consentito di evidenziare una struttura absidale plausibilmente quattrocentesca, visibile per la parte relativa al catino e interrata per la parte sottostante, che appartiene ad una cappella locata diversamente rispetto all’ipotesi di stegmann e Geymuller.

il fregio con l’impresa dello struzzo dei montefeltro L’opera qui descritta, elemento frontale appartenente ad una struttura architettonica complessa del secolo xV, da identificarsi nella cappella della Villa di Rusciano, è del genere pietra forte ed ha dimensioni di cm 276/44/07; il manufatto per circa 130 anni è stato conservato a Firenze in un Palazzo della seconda metà dell’ottocento, all’epoca di proprietà di Ferdinando Rindi che, insieme a sua moglie Jane Puffet Rindi, tra il 1860 e il 1890 gestì l’hotel corona d’italia, all’epoca locato nella zona di Firenze capitale; in questo arco di tempo fu costruito il muro di cinta del giardino con la realizzazione di una nicchia atta ad accogliere il rilievo, proprio di fronte alla sala da pranzo dell’albergo, per compiacere la vista dei commensali. La presenza di una frattura longitudinale a tutto spessore nell’area scolpita ha reso necessario ed opportuno un intervento di ricomposizione e restauro. sullo scudo, sorretto da due putti alati, è raffigurato un uccello con sembianze di struzzo, ma con taluni aspetti che ricordano l’airone e l’ibis. al primo impatto si ha il convincimento che la figura principale del rilievo, in quanto caricata sullo scudo, debba riferirsi ad un’arme gentilizia, ma né lo struzzo né l’airone né l’ibis sono riconducibili ad un casato fiorentino, come ha evidenziato un controllo sulla totalità antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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degli stemmi della nobiltà e del patriziato della città. La natura del materiale costituente, la pietra forte, fa necessariamente riferire il rilievo ad un Palazzo fiorentino, che doveva appartenere, per quanto sopra, ad un personaggio non fiorentino; l’indagine a livello nazionale ha evidenziato che l’emblema corrisponde allo struzzo, una delle imprese araldiche più antiche ed importanti dei montefeltro, conti di urbino. essa è riprodotta in incisione sul sarcofago del conte antonio, in un’interpretazione alquanto libera rispetto alla reale conformazione dello struzzo ma molto simile alla raffigurazione del rilievo. L’impresa dello struzzo fu la prediletta dal conte Federico iii, poi divenuto duca di urbino, che quasi si identificava in quell’emblema31. individuato il soggetto caricato sullo scudo come appartenente a Federico di montefeltro, un dato simbolico consente di focalizzare la datazione del rilievo: la ghirlanda che circonda l’emblema è costituita da mazzi di frutta e foglie che in basso sono di alloro, mentre in alto trasmutano in palme, fino all’apice dove è raffigurata una rosa. siamo nell’estate del ’74, quando Federico da conte (alloro) diviene duca (palme) e riceve la “rosa d’oro” da sisto iV. nel manoscritto 508 cod. urb. Lat., di cui abbiamo dissertato ampiamente nel precedente capitolo, troviamo una conferma dell’appartenenza dell’emblema al casato dei montefeltro e della paternità del Pollaiolo sul rilievo; abbiamo sostenuto che il personaggio di fronte al duca di urbino nella tavoletta che fa da piatto anteriore del manoscritto delle Disputationes Camaldulenses (cod. urb. Lat. 508) è antonio del Pollaiolo. se passiamo ad analizzare l’antistante frontespizio, nell’angolo di destra in basso notiamo che la raffigurazione dello struzzo federiciano ha le stesse singolari caratteristiche del rilievo, mentre nel capolettera sono rappresentati i volti di due putti. L’artista ha dato evidentemente il disegno del fregio al miniatore perché questi lo immortalasse nel dono a Federico, che a sua volta sottoscrive l’attestato di paternità del Pollaiolo, facendo inserire il dipinto con il doppio ritratto nel codice. un’interessante notazione di Leonardo da Vinci fa riferimento al rilievo in esame, ormai da tempo posto a dimora. nel 1494, a milano, dove allora vive, l’artista scrive il Bestiario e a proposito dello struzzo così si esprime: «questo converte il ferro in suo nutrimento… cova l’ova colla vista»; con scrittura risalente a periodo successivo, proprio a cavallo dei due secoli, pone la chiosa seguente: «per l’arme-nutrimento dei capitani». nella locuzione “per l’arme” il “per” è da intendersi “sta per”, come in derivazione dal latino pro. L’annotazione non può che avere il seguente significato: lo struzzo come impresa sta al posto dello stemma e come impresa ha costituito la fonte di guadagno dei due capitani Generali della Lega, Federico e suo figlio Guidobaldo: la chiosa gioca sui due possibili significati dell’impresa, quello araldico e quello militare. appare assai difficile negare

31 alle caratteristiche di solidità e concretezza proprie dello struzzo il volatile del rilievo assomma l’attitudine al volare alto tipica dell’airone, dote questa che nell’ambito umano la filosofia neoplatonica imperante nel primo Rinascimento riconosce agli spiriti giusti e agli eletti. È sicuramente una effigie idonea a rappresentare più compiutamente la personalità di Federico da montefeltro, uomo d’armi vincente e al tempo stesso appassionato cultore di lettere e arti.

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un’allusione allo struzzo dei montefeltro e, non essendo conosciuta alcuna altra raffigurazione di struzzo su scudo, neppure nei luoghi di giurisdizione dei montefeltro, è da ritenere che la notazione leonardiana riguardi proprio l’emblema della fronte di cui si sta trattando. La chiosa inserita a distanza di anni è certamente ispirata da un riscontro nel frattempo operato; per progetti riguardanti la sistemazione idraulica dell’arno in taluni tratti del corso particolarmente pericolosi, Leonardo compie studi idrogeologici nell’area di Rusciano e Ricorboli32. il manoscritto L dell’institut de France, foglio 31, contiene un riferimento specifico, databile 1501/2, contemporaneo quindi alla chiosa, che testimonia la presenza di Leonardo nella zona della Villa di Rusciano, dove quindi ha l’occasione di osservare lo struzzo effigiato sul rilievo. merita di essere sottolineato che gli anni dal 1500 al 1505 sono quelli in cui Leonardo si interessa particolarmente alla produzione artistica del Pollaiolo e risente della sua influenza (vedi i cartoni utilizzati per affrescare la Battaglia di Anghiari, il disegno di Ercole e il leone Nemeo). L’analisi stilistica del rilievo prende spunto, come già detto, dall’evidenza che il materiale usato è del genere pietra forte: si tratta pertanto della fattura fiorentina di un’opera destinata al Palazzo di Federico in Firenze. nell’opera si nota, al primo impatto, un apparente contrasto tra le capigliature dei putti alati, realizzate alla maniera fiamminga del primo Quattrocento, e i loro corpi, che promanano un’energia tutta rinascimentale italiana. La compostezza delle chiome, voluta ma non ieratica, trova precisi riscontri nelle capigliature del Polittico dell’Agnello Mistico di Gand e parimenti nei danzatori di Villa la Gallina; d’altra parte appare impossibile negare l’interconnessione stilistica fra le masse muscolari come rese nel rilievo e quelle di note incisioni e disegni del maestro fiorentino, l’affinità con i quali risulta assai evidente tanto nella strutturazione complessiva quanto in numerosi dettagli significativi. Le cosce di entrambi i putti presentano linee in alcune zone esasperate, che trovano puntuale riscontro oltre che negli affreschi di Villa la Gallina, nel disegno Eva che fila, tanto nella figura di eva quanto in quella dei due adolescenti. il disegno e il fregio, riferibili allo stesso periodo, mostrano nei soggetti rappresentati una marcata somiglianza sia nella morfologia delle singole regioni del collo, della spalla e del braccio, sia nella loro impostazione globale, tanto che è possibile ipotizzare che si tratti del disegno ideativo per l’opera scultorea. Premettendo che il fregio è di vent’anni antecedente al monumento funebre di sisto iV e per di più fortemente ancorato all’arte fiamminga di inizio secolo, secondo i voleri di Federico, si possono comunque riconoscervi delle analogie con le capigliature delle Virtù: l’impostazione generale, capelli schiacciati sulla parte superiore della testa e rigonfi sui lati, compare in molte delle figure allegoriche rappresentate nelle formelle del monumento funebre di sisto iV, più specificamente nella Dialettica. osser-

32 scrive lo stesso Leonardo: «Per riparare alla percussione d’arno in Rucano e voltarlo con dolce piega a Ricorboli e fare si larga argine che la caduta del suo balzo sia sopra di lei». Viene datata 1503 una sua rappresentazione cartografica dei luoghi, con l’ubicazione dei toponimi Ricorboli e bisarno che facevano parte dei terreni annessi alla Villa di Rusciano.

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vando comparativamente, nei putti e nei soggetti del sepolcro vaticano, il modo in cui è stato realizzato l’impianto delle teste sul collo, si coglie la stessa particolare impostazione che conferisce ai volti fattezze quasi di maschere. L’opera viene concepita con un’impostazione particolare, basata su una sorta di “simmetricità fittizia” dei putti: se osservati attentamente, essi mostrano differenze angolari nella disposizione della testa, del collo, del tronco, degli arti e delle ali. a questa differente torsione si aggiunge, sul piano trasverso, una diversa rotazione angolare dei due putti, che in tal modo appaiono come immortalati in un momento del loro giro di Giostra. un ulteriore elemento identificativo della disposizione dei corpi è l’angolazione del gomito nell’arto superiore in secondo piano nel putto alla destra di chi guarda, realizzata per enfatizzare l’atteggiamento in tensione di tutto il corpo; soluzioni analoghe si ritrovano nelle Virtù della tomba di sisto iV. osservando frontalmente il rilievo si mette in evidenza il taglio netto del profilo dei corpi, mentre lateralmente si apprezza la linea che derivando dal disegno ha guidato la costruzione scultorea; si tratta di due capisaldi delle realizzazioni artistiche di antonio del Pollaiolo. i volti dei putti mostrano nei confronti delle opere dell’artista fiorentino inequivocabili somiglianze stilistiche e di dettagli morfologici: taglio degli occhi a mandorla, palpebra superiore destra abbassata, fronte ampia e tondeggiante, regione zigomatica allargata, mento leggermente prominente e appuntito. il naso è regolare, con narici ben aperte e quasi percorse da un fremito. Le labbra, nettamente segnate, piegano blandamente al sorriso, specificamente nell’emi-labbro destro (sinistro per chi osserva). importanti risultanze emergono dall’analisi delle ali dei putti; l’ala del putto di destra mostra, con chiarezza nelle penne lunghe (remiganti primarie), delle vibrazioni ondulatorie; tale particolarità è apprezzabile anche nell’ala di un putto della tomba di sisto iV. Le due ali fanno parte integrante di un alto messaggio filosofico: sono diverse l’una dall’altra perché rappresentano due riferimenti alla personalità di Federico di montefeltro, religio e iustitia; è per loro tramite che l’anima può raggiungere dio. «Giustizia e religione sono quasi ali ad andar verso l’alto, finché non senza supremo godimento intuiscono lo splendore divino»: così scrive Landino nel i libro delle Disputationes Camaldulenses, nella traduzione di eugenio Garin, un’opera di fatto celebrativa di Federico di montefeltro. La scritta che corre lungo il cortile d’onore del Palazzo ducale di urbino coferma l’interpretazione: «federicus urbini dux montisferetri ac durantis comes sanctae ro ecclesiae confalonerius atque italicae confederationis imperator hanc domum fundamentis erectam gloriae et posteritati suae ex aedificavit qui bello pluries depugnavit sexies signa contulit octies hostem profligavit omniumque praeliorum victor ditionem auxit eiusdem iustitia clementia liberalitas et religio pace victorias aequarunt ornaruntque».

L’analisi del rilievo permette infine di riconoscervi le due “firme” che antonio del Pollaiolo apponeva alle sue opere: le deviazioni oculari e i fichi, ma di tali riferimenti tratteremo approfonditamente più avanti. Lo scudo a forma di testa di cavallo, che emerge con tanta simbolica possanza dal piano sottostante, poggia su due foglie – appartenenti a ceste virtuali – dalle quali si di52

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partono, su entrambi i lati, le sequenze di ceste realmente scolpite della festonatura, che convergono infine sulla rosa posta alla sommità della composizione. alla sua base, invece, fra le due foglie descritte, compaiono dei fichi che, per le ridotte dimensioni e per la loro posizione, quasi di deferenza verso la nobiltà dell’emblema, hanno un significato diverso da quello simbolico degli altri frutti nelle ceste. Per quanto abbiamo scritto nell’introduzione la presenza e la posizione dei frutti di fico nel serto decorativo sono interpretabili come una “firma” di antonio del Pollaiolo, in quanto presenti in forma di ghirlanda sullo stemma scolpito sulla sua tomba in san Pietro in Vincoli. marcatamente nel putto alla sinistra di chi guarda, si rileva la deviazione in alto ed in fuori dell’occhio destro (exotropia ed ipertropia), elemento molto significativo per provare l’intervento diretto della mano di antonio su una realizzazione artistica. tale disposizione oculare, una seconda “firma” carica di simbolismo, si riscontra in numerose realizzazioni di antonio del Pollaiolo: David di berlino, Prudenza e Carità delle Virtù del tribunale della mercanzia, Dialettica del monumento funebre di Papa della Rovere, eva nel disegno Eva che fila, etc. Iconografia Pagine 186-187, figure 21-24

la pala montefeltro in brera «caratteri simili al Presepe, ma un intorbidamento maggiore di luce, si notano nell’ancona di brera, prototipo delle pale veneziane per la grandiosa architettura. i santi s’adunano nel centro della crociera di un tempio, e hanno per sfondo una cappella absidata, ai lati gli archivolti di due altre cappelle; dal catino dell’abside, enorme conchiglia, un uovo di struzzo, sospeso sul capo della vergine, segna l’asse della composizione, ordinata e solenne, dove le figure raccolte in ampio semicerchio intorno al gruppo sacro, si coordinano con le grandi linee dell’architettura. ma la luce, che trasformava in sostanze trasparenti e preziose i marmi di Piero, qui pallidamente sfiora le superfici dei marmi, a variegature cartacee, l’abbacinante bianchezza pierfrancescana s’illanguidisce e muore nel grigio; il sole non ferma più le sue scintille su palpebre e dita, non riga le scanalature dei pilastri, tracciate ora da fili scuri nel bianco. al colore opaco si accompagna il carattere sempre più naturalistico delle figure, gli angeli villerecci si agghindano di pesanti collari di gemme, di cinture trapunte, di parrucche bionde arricciate col ferro; i santi sbirciano di sott’occhio il fanciullo, o guardano maliziosamente i fedeli; la tunica dello sdentato bernardino è a sbrendoli; la grandezza del tipo pierfrancescano appena traspare dalla madonna che mantiene, traverso l’impoverimento della forma, l’antica maestà silenziosa, l’antica impassibilità del gesto, lo spirito regale». (a. Venturi, Piero della Francesca, alinari, Firenze 1921-22, pp. 64-65).

con il suggestivo scritto, adolfo Venturi negava motivatamente la paternità di Piero della Francesca della Pala Montefeltro e ne reclamava, senza saperlo, la paternità di antonio del Pollaiolo. antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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la storia delle attribuzioni della pala montefeltro e le problematiche sulla paternità di piero della francesca La Pala Montefeltro conservata alla Pinacoteca di brera è oggi unanimemente assegnata a Piero della Francesca, ma non esistono riscontri storico-documentali che possano confermarne la paternità artistica del borghigiano, anzi la lettura dell’iter storico-attributivo del dipinto deporrebbe in senso contrario33. Possiamo dividere la storia attributiva della Pala Montefeltro in quattro periodi. I periodo. tale arco di tempo decorre dalla realizzazione della Pala (terzo quarto del secolo xV) sino alla fine del secolo xVii. Per più di due secoli non si hanno, inspiegabilmente per un dipinto di tale importanza, riferimenti identificativi, precise descrizioni e attribuzioni. se si eccettuano due tavole direttamente ispirate alla Pala Montefeltro, la Pala di san cassiano di antonello da messina34 e la Pala oliva di Giovanni santi, disponiamo soltanto di un’incisione e di un disegno che riproducono la Pala Montefeltro. L’incisione, sulla quale ci dilungheremo più avanti, è chiamata “Prevedari” perché eseguita dall’orafo bernardo Prevedari nel 1481, su commissione del pittore matteo Fedeli, in derivazione da un ermetico disegno di donato bramante nel quale era rappresentata anche l’abside della Pala Montefeltro. il disegno, è stato realizzato nella metà del secolo xVi; attribuito a Federico barocci, mostra la Pala in san bernardino, pur mancando di qualsiasi riferimento alla datazione della sua collocazione nel mausoleo. La scarsità di citazioni della Pala Montefeltro può trovare spiegazione nella lettura dello scritto di adolfo Venturi che abbiamo riportato in apertura di capitolo: il reale livello artistico del dipinto fu recepito dai contemporanei, ma dopo pochi anni venne male interpretato. È da escludere che la Pala fosse stata originariamente concepita per san bernardino perché la sua realizzazione è da ascriversi agli anni ’70 e san bernardino fu ultimato soltanto alla fine degli anni ’80; un dipinto di tale importanza molto difficilmente poteva essere commissionato da un esperto come Federico di montefeltro prima che fosse disponibile e ben valutabile, nella sede e nelle misure, lo spazio destinato ad accoglierlo. 33 Lo studio della Pala Montefeltro è stato affrontato compiutamente dal punto di vista storico, scientifico e bibliografico nello scritto dei “Quaderni di brera” La Pala di San Bernardino di Piero della Francesca: nuovi studi oltre il restauro, edito dalla soprintendenza per i beni artistici e storici di milano, affidato alle cure di emanuela daffra e Filippo trevisani. il testo costituisce un riferimento obbligato per chiunque voglia intraprendere un approfondimento sul dipinto. Riteniamo solide le basi della nostra ricerca perché fondate sulle nozioni generali e particolari del prezioso volumetto. La Pala di San Bernardino di Piero della Francesca: nuovi studi oltre il restauro, a cura di emanuela daffra, Filippo trevisani, contributi di Pinin brambilla barcilon… [et al. ], centro di, Firenze 1997. 34 in una lettera del 16/03/1476, inviata da Pietro bon a Galeazzo maria sforza, è scritto che antonello da messina stava dipingendo, dall’agosto del ’75, la Pala per la chiesa di san cassiano a Venezia (L. beltrami, Il Castello Sforzesco, huilo hoepli, milano 1894, p. 56). La Pala rimase nella chiesa di san cassiano almeno fino al 1581, quando vi veniva citata dal sansovino. all’inizio del secolo xVii, forse in concomitanza con lavori di restauro della chiesa, la Pala fu rimossa e smembrata in cinque tavole distinte che furono portate prima in inghilterra, poi a bruxelles e infine a Vienna. dei cinque frammenti, due andarono perduti, mentre i tre centrali furono ricomposti soltanto nel 1928. Wilde, nel 1929, basandosi sulle incisioni di teniers del secolo xVii nonché sui raffronti con le pale venete e con la Pala Montefeltro, ha proposto una ricostruzione in disegno della originaria impostazione della Pala.

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II periodo. inizia nel 1703 e si protrae fino al 1864: la Pala è unanimemente attribuita a Fra carnevale. Gianfrancesco albani, salito al soglio pontificio con il nome di clemente xi, in occasione della laurea del nipote annibale creò nel 1703 una piccola commissione composta dall’archiatra pontificio Giovanni maria Lancisi e da monsignor curzio origo con lo scopo di redigere un dettagliato resoconto della situazione in cui si trovava urbino, sua città natale. il Pontefice stilò una vera e propria guida con una descrizione minuziosa di monumenti e di opere d’arte da visionare e su cui relazionare. La finalità era quella di poter disporre di una situazione aggiornata che gli consentisse di programmare interventi di salvataggio e sostegno della sua città. nella relazione riguardante la chiesa di san bernardino, la Pala Montefeltro viene descritta dai due messi con la citazione di Fra carnevale come suo autore35. dello stesso periodo è un manoscritto-inventario presente in san bernardino, relativo alle opere ivi conservate, che viene ricordato da Padre Pungileoni nel suo Elogio storico di Giovanni Santi del 1822; nella memoria veniva riportata la tradizione orale del convento, secondo la quale la Pala era stata eseguita da Fra carnevale intorno al 147236; nei cataloghi urbinati del secolo xViii la Pala è unanimemente attribuita al domenicano37. nella dettagliata descrizione delle chiese di urbino fatta da michelangiolo dolci si ha la conferma dell’attribuzione della Pala a Fra carnevale, con una singolare notazione sulla quale torneremo in seguito: «…questa è quella tavola detta santa maria della bella»38. Lazzari nel 1801 confermava che nella chiesa “bramantesca” di san bernardino la tavola dell’altar maggiore era opera di Fra carnevale39. nel 1811 la Pala Montefeltro, asportata da san bernardino, entrava nella Pinacoteca di brera venendo catalogata come opera di Fra carnevale40. il primo che sembra aver colto il reale livello artistico del dipinto è Padre Vincenzo marchese, un domenicano che, in aperta critica alle opere di Piero della Francesca, nel 1845 scriveva: «… laddove in Fra carnevale parmi vedere un fare alquanto più grandioso, e quasi ritrarre in sé Sandro Botticelli, Andrea del Castagno, il Rosselli ecc. e gli altri fiorentini di questo tempo». nel prosieguo della trattazione il Padre marchese indicava l’opera del domenicano che tanto lo aveva colpito: la Pala Montefeltro41.

35 Una guida settecentesca di Urbino, a cura di Fert sangiorgi, edizioni accademia Raffaello, urbino 1992, p. 66. 36 L. Pungileoni, Elogio storico di Giovanni Santi, a cura di Ranieri Varese, Roma 1994, pp. 52-54. 37 Francesco Vittorio Lombardi riporta quanto scritto in quattro cataloghi urbinati del secolo xViii; tutti assegnano la Pala Montefeltro a Fra carnevale. a) nota delli quadri de pittori illustri, che sono nelle chiese della città d’urbino (b. u. u. F. comune, vol. 55, cc. 189r-192v, copia di a. corradini), 1705-08. b) catalogo dell’opere d’eccellenti pittori, le quali si conservano nelle chiese d’urbino (b. o. P., ms. 384, cc. 151-156, 1725). c) catalogo delle pitture che si conservano nella città metropoli d’urbino con la notizia degli autori delle medesime, mdccxLiV (b. u. u. F: comune, vol. 93, cc. 219r-225v). d) catalogo delle migliori pitture che si conservano nelle chiese della città d’urbino 1794, b. o. P., m. a. m., Vii, 456, 1974. F. V. Lombardi, Cataloghi settecenteschi inediti sulle pitture delle chiese d’Urbino, in “studia Picena”, Lx, 1995, p. 305. 38 m. dolci, Notizie delle Pitture che si trovano nelle chiese e nei palazzi di Urbino, bologna 1770, edizione integrale a cura di Luigi serra, in “Rassegna marchigiana”, anno xi, 1933, p. 311. 39 a. Lazzari, Delle Chiese di Urbino e delle pitture in esse esistenti, oxford university, urbino 1801, pp. 73-74. 40 L’inventario napoleonico del 1811 al numero 516 recita: «La madonna vari santi con molti ritratti della Famiglia del duca d’urbino». in un cartellino associato alla tavola si legge «516 autore carneva(le)». 41 V. marchese, Memorie dei più insigni pittori, scultori, architetti domenicani, a. Parenti, Firenze 1845, pp. 350-358.

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Passavant nel 1860 confermava ancora l’attribuzione a Fra carnevale42. III periodo. il terzo periodo attributivo della Pala inizia nel 1864 e si protrae fino al 1927. L’assegnazione della Pala è fortemente contrastata tra i sostenitori di Fra carnevale e quelli di Piero della Francesca. È cavalcaselle che nel 1864 apre le ostilità proponendo di assegnare l’esecuzione della Pala ad un allievo di Piero della Francesca43. nel 1886 schmarsow, scrivendo su melozzo da Forlì, riprendeva la proposta di cavalcaselle sostenendo con forza la paternità diretta di Piero sul dipinto44. nel 1893 adolfo Venturi accolse positivamente la tesi di schmarsow, ma dopo circa vent’anni rigettò l’attribuzione a Piero, tornando decisamente a Fra carnevale45. L’abate brousolle, fine studioso della pittura umbra, scrivendo della giovinezza del Perugino, faceva un’interessante considerazione sulla estemporanea attribuzione della Pala Montefeltro a Piero della Francesca. «nel corso degli ultimi anni, si è cercato di allargare la produzione di Piero della Francesca in modo forse indiscriminato. È così che oggi gli si attribuisce la Pala di brera che tutti consideravano fino a ieri la sola opera pressoché certa di Fra carnevale, il pittore urbinate di cui abbiamo parlato in un precedente capitolo. È certo che per il suo evidente realismo questo quadro si avvicina molto allo stile di Piero della Francesca. Forse sarebbe sufficiente concludere che il suo autore si sia ispirato, dipingendolo, agli insegnamenti di questo grande maestro, ma non si hanno prove valide per toglierne la paternità a Fra carnevale»46.

berenson si dichiarò favorevole alla nuova attribuzione, affermando in seguito che, l’impalcatura architettonica della Pala non era alla portata di Piero, beneficiato in merito dall’aiuto di bramante47. altri personaggi, come adolfo cinquini ed alberto serafini, esperto della miniatura umbro-marchigiana del secolo xV, si pronunciarono ancora per Fra carnevale, mentre il giovane Longhi nel 1914 scriveva che all’epoca non si conservavano madonne con bambino di Piero della Francesca48. IV periodo. inizia con la monografia di Longhi del ’27 che ribaltaltando le precedenti convinzioni, assegnava a Piero sia la Pala Montefeltro sia la Madonna di Senigallia, e la paternità dell’artista non venne più messa in discussione, con l’unanime convincimento che le mani di Federico non erano opera del borghigiano49. Le diversità di opinione sulla Pala hanno riguardato sino ai giorni nostri la finalità del dipinto, la sua collocazione e la sua

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d. Passavant, Raphael d’Urbin et son père Giovanni Santi, Renouard, Paris 1860, p. 397. s. a. crowe, G. b. cavalcaselle, A New History of painting in Italy, vol. ii, s. murray, London 1864, pp. 554-555. 44 a. schmarsow, Melozzo da Forlì, W. spemman, berlin 1886, p. 361. 45 a. Venturi, Nelle pinacoteche minori d’Italia, in “archivio storico dell’arte”, 1893, p. 416; La Pittura del Quattrocento, vol. Vii, t. 1, milano 1911, pp. 478-482. 46 a.brousolle, La giovinezza del Perugino, Fabrizio Fabbri editore, Perugia 2004. traduzione e ristampa della prima edizione francese originale, Paris 1901, p. 238. 47 b. berenson, The Central Italian Painters of The Renessaince, G. P. Putnam’s sons, London 1908, p. 168. 48 a. cinquini, Il Codice Vaticano-Urbinate 1193, aosta 1905, p. 16; a. serafini, Ricerche sulla Miniatura Umbra, Secoli XIV-XVI, in “L’arte”, xV, 1912, p. 418. 49 R. Longhi, Piero della Francesca, sansoni, Firenze 1927, pp. 101-104. 43

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datazione. È interessante riportare i convincimenti di tre critici del nostro tempo che si discostano dalle comuni opinioni. battisti, riprendendo le argomentazioni di berenson sul soccorso bramantesco, sostiene che l’intervento di un architetto nella costruzione dell’opera era ineludibile e non imputabile alla mano di Piero della Francesca50. bruschi, concordando con la tesi di battisti, asserisce che, essendo berruguete l’autore delle mani di Federico, si deve ritenere l’opera come il frutto della collaborazione operata in un cantiere artistico del quale Piero era il direttore51. christine smith, con un’analisi molto accurata dei dati storici riguardanti Piero, trae delle conclusioni da tenere in considerazione nell’analisi della Pala. L’influenza di Leon battista alberti sul borghigiano è quantomeno problematica: se è possibile, ma non documentato, che Piero e Leon battista abbiano avuto contatti, a Firenze nel ’39, è molto difficile capire perché l’incontro abbia spinto Piero a seguire i principi albertiani soltanto tre lustri più tardi. alcune architetture dipinte di Piero (a nostro parere le murali, sicuramente sue) sembrano più legate alla tradizione pittorica che a codificati principi teorici e pratici. alcune architetture dipinte di Piero mostrano, inaspettatamente, stretti legami con le tecniche scultoree. nella Madonna di Senigallia risulta singolare per l’architettura dipinta, il colore grigio-azzurrino, tipico della pietra serena fiorentina. abbiamo letto un’analoga considerazione, riguardo ai cromatismi della Pala Montefeltro, nello scritto di Venturi52.

l’interpretazione della pala montefeltro Lightbown ha proposto che la scena si svolga in una basilica-tribunale celeste53, una struttura che può sembrare una chiesa ma non lo è, dal momento che si può chiamare tale solo un luogo dove si celebra la messa di cristo e dove quindi deve esservi presente un altare. La madonna con il bambino sulle ginocchia non è seduta in trono ma su una sella curulis, un seggio pieghevole a forma di “x”, ornato d’avorio, simbolo del potere giudiziario; veniva riservato inizialmente ai Re di Roma e in seguito ai magistrati che solevano portarla con sé insieme agli altri simboli del loro potere rappresentati da verghe, fasci e scuri54. nel dipinto i pomelli della sedia della madonna sono per l’appunto d’a-

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e. battisti, Bramante Piero e Pacioli a Urbino, in Studi Bramanteschi…, Roma 1974, pp. 276-282. a. bruschi, Bramante Architetto, bari 1969, pp. 71-72; Urbino. Architettura, pittura e il problema di Piero architetto, in Città e Corte, Venezia 1996, pp. 265-300. 52 c. smith, Piero della Francesca and his legacy, Washington national Gallery of art, university Press of new england 1995, pp. 224 e 248. 53 R. Lightbown, La Pala Montefeltro in Brera, milano 1992, p. 14. 54 sono state formulate diverse proposte etimologiche per il termine curulis ma due sembrano le più convincenti: a) da currus, il carro su cui i magistrati ponevano la sedia per poter esercitare la loro funzione di giudici itineranti. b) da curvus, in rapporto alla conformazione ricurva della sedia. La sella curulis ha una derivazione etrusca: nella tomba della montagnola, a sesto Fiorentino, sono presenti i resti di una sella curulis con decorazioni in avorio. La sella curulis fu la sedia dei Re di Roma; con l’avvento della Repubblica fu utilizzata da consoli, pretori, curuli edili e censori (Liv. ii. 54, Vii. 8, ix. 46, x. 7, xL. 45; aul. Gell. Vii. 9); nelle provincie veniva utilizzata dai magistrati comuni che esercitavano la loro funzione con il supporto di fasci littori e verghe. come nelle originali realizzazioni etrusche, la sella curulis presentava delle decorazioni in avorio (hor. Ep. i. 6. 53; ovid. ex Pont. iV. 9. 27). 51

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vorio; ai piedi della Vergine si trova il bastone del comando sul quale sono appoggiati i guanti di Federico55. il grande condottiero arriva dal campo di battaglia per chiedere clemenza; le sue mani sono state modificate, a mio parere, in senso marcatamente verista, a voler illusionisticamente esplicitare che Federico sale vivente alla basilica celeste, per chiedere l’intercessione al perdono e tornare quindi tra i mortali. anche se appaiono molto forti le motivazioni di Lucco a sostegno della tesi secondo la quale berruguete non è mai stato a urbino56, riportiamo, per confermare la nostra interpretazione, l’importante lettura operata da Longhi sul simbolismo delle mani di Federico: «Piero cedette il posto a berruguete quando, nella Pala di san bernardino, si trattò di dipingere le mani che il duca probabilmente desiderava fossero illusivamente riconoscibili come sue proprie». di quale colpa Federico chiede la remissione? se è in armatura non può che chiederla per un fatto di guerra. L’elmo, poggiato in terra, è affossato sul lato sinistro da un colpo ricevuto in battaglia; quale battaglia ha causato all’invitto condottiero un grave colpo alla testa? non certo la Giostra degli anni ’50, in uno scontro della quale Federico fu colpito alla parte destra del volto. né Federico chiede il perdono per l’uccisione di oddantonio, perché non ne ammise mai la propria responsabilità, trovandosi ufficialmente a Pesaro il giorno in cui i congiurati assassinarono il duca57; anche in caso di un improvviso pentimento non vi sarebbe stata ragione di presentarsi al cospetto della divinità, della madonna e dei santi indossando l’armatura. La biografia di Federico ci porta alla conclusione che il colpo sull’elmo, posto in primo piano nel dipinto, non è reale ma simbolico: l’immagine del condottiero è stata gravemente danneggiata da un episodio infamante verificatosi nel corso di un’impresa militare e il riferimento al sacco di Volterra diviene automatico. Federico non si riteneva il responsabile del misfatto, ma chiedeva ugualmente clemenza per sé e soprattutto per la sua progenie, rappresentata, nel catino absidale, dall’uovo pendente che assume il ruolo principale nel dipinto in quanto simbolico beneficiario del perdono. i guanti di Federico appoggiati sul bastone del comando ai piedi della madonna rappresentano la giustizia esercitata dal conte, tramite la condanna all’impiccagione dei due istigatori al saccheggio, Giovanni Longo detto il Veneziano e agnolo connestabile di siena. Federico chiede ugualmente l’intercessione al perdono alla madonna, seduta sulla sedia da magistrato, con il Giudice supremo sulle ginocchia, raffigurato dormiente a voler esplicitare la totale fiducia da Lui accordata alla madre. L’uovo pendente nell’abside, in questo contesto, non può essere interpretato né in senso teologico né in senso esoterico. L’uovo rappre55 sorge immediata una domanda: sono ancora oggi percepibili l’antica maestà silenziosa e lo spirito regale che Venturi leggeva in quel volto straordinario? 56 Lucco, con un’approfondita disamina, contesta le documentazioni prodotte a sostegno di un soggiorno urbinate di Pedro berruguete. Lo studioso evidenzia ancora la incongruenza, nella tecnica pittorica, tra i dipinti “spagnoli” dell’artista e le opere, realizzate a urbino, che gli vengono attribuite. m. Lucco, Pedro Berruguete. Una questione storiografica, in G. Poldi, G. c. F. Villa, Dalla Conservazione alla Storia dell’Arte. Riflettografia e analisi non invasive per lo studio dei dipinti, scuola normale superiore di Pisa, Pisa 2006, pp. 413-478. 57 G. scatena, Oddantonio da Montefeltro I Duca di Urbino, scuola normale superiore di Pisa, Roma 1989, pp. 93-99.

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senta primariamente il figlio maschio, futuro erede della Villa di Rusciano, che deve essere mondata perfino dell’ombra di responsabilità sul sacco; la richiesta dell’intercessione al perdono si collega anche alla dura battaglia intrapresa da Federico perché sua figlia Giovanna andasse sposa a Giovanni della Rovere, nipote di Papa sisto iV. L’ostilità del sacro collegio fu superata con l’intervento contro Vitelli, signore di città di castello, ma un ripensamento di Federico sulla passata alleanza con Firenze veniva giudicato comunque con favore dal Pontefice. L’uovo è appeso ad una catena dorata, che nella discesa dal catino absidale in un determinato punto piega a destra, infischiandosene della legge di gravità. battisti ha interpretato il paradosso fisico come un errore di Piero, ma un grande artista, che ha realizzato una costruzione architettonica di una tale precisione quale quella della pala, può aver commesso un errore così banale? non può averlo fatto. tirando la verticale sul centro della testa della madonna si rileva che l’uovo non cade nel centro ma a destra di chi guarda: è evidente l’intento dell’artista di spezzare qualsiasi collegamento simbolico tra l’uovo e la madonna; oltretutto l’uovo è in un piano posteriore rispetto alla Vergine. La catena vira a destra perché da quel lato è inginocchiato Federico; l’elemento portante della costruzione concettuale della Pala è pertanto la corrispondenza tra il duca e l’uovo. La presenza di un numero elevato di santi in uno spazio ristretto ha fatto addirittura supporre che san Pietro martire e san bernardino siano stati aggiunti in un periodo successivo alla realizzazione del dipinto, quando, al contrario, sono parte integrante dell’opera con un simbolismo ben preciso: tutti i santi si accalcano intorno alla madonna per vedere ed assistere il grande personaggio che chiede l’intercessione al perdono. alla destra della Vergine, nel posto che spetterebbe alla moglie del duca, si trova, in primo piano rispetto agli altri santi, il battista. il collegamento con battista sforza sembrerebbe esaustivo; in realtà, a ben riflettere sul significato politico della Pala si può rilevare un doppio riferimento. san Giovanni battista vuol dire Firenze (ne è il patrono ed era il simbolo della Repubblica Fiorentina); la sua presenza in primo piano vuol significare, oltre al possibile richiamo alla consorte defunta, l’intervento diretto del santo in protezione della sua città, che è quantomeno parimenti coinvolta con il duca nel sacco di Volterra. L’interpretazione dell’impianto agiografico della Pala è la seguente: Federico, con il sostegno del battista, per i fatti di Volterra (san bernardino è una sorta di co-patrono della città), fa penitenza (san Girolamo) chiede il perdono misericordioso (san Francesco) per le morti causate dal sacco (san Pietro martire) e giura eterna fedeltà, per sé e per la sua progenie, al Vangelo (san Giovanni evangelista).

le problematiche dell’attribuzione a piero della francesca La trattazione storico-attributiva della Pala Montefeltro conferma che non vi sono documenti probanti per l’assegnazione del dipinto a Piero della Francesca né a Fra carnevale; oggi la paternità di Piero è indiscussa, pertanto saranno enunciate le importanti problematiche ad essa collegate. antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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L’autore della Pala Montefeltro non ha agito in piena libertà espressiva, ma è stato indirizzato, consigliato e controllato dal duca Federico, che in questo si differenziava non poco dagli altri signori d’italia; il montefeltro si intendeva assai di architettura, di pittura e di scultura, tanto che nelle commissioni voleva sempre dire la sua. Gli orientamenti che diede all’artista prescelto per la realizzazione della Pala d’altare furono quelli di ispirarsi all’arte fiamminga di inizio secolo, combinandola con la concezione architettonica albertiana. L’aggettivo “fiamminga” è in realtà un po’ generico; l’autore della Pala Montefeltro si è ispirato direttamente a Van eyck sia per la costruzione illusionistica dello spazio nel quale è inserita l’impalcatura architettonica albertiana della basilica celeste, sia per l’abbondanza di gioielli di cui sono adornati gli angeli e originariamente anche la madonna, con la stessa tecnica di Van eyck ma con maestria forse anche superiore. d’altra parte i santi della Pala Montefeltro hanno il volto di personaggi della strada e sono vestiti a «sbrendoli», come scrive Venturi; il richiamo al naturalismo delle sculture di sluter, artista praticamente sconosciuto in italia, completa l’ispirazione fiamminga. L’autore della Pala ha avuto verosimilmente un’esperienza artistica nelle Fiandre e nel ducato di borgogna, che si è protratta a lungo, tanto da condizionarne in modo irreversibile il suo stile pittorico e scultoreo; come poteva Piero calarsi in questi panni? bruschi nota che l’autore della Pala di brera conosceva a fondo il De Architettura di alberti e nello stesso tempo sostiene che una tale conoscenza non era alla portata di Piero; è al contrario evidente che l’autore del dipinto ha avuto, come con le opere di Van eyck, un contatto, prolungato nel tempo, con gli scritti, le opere e verosimilmente la personalità di Leon battista alberti. si tornerebbe all’ipotesi di berenson, secondo cui il borghigiano si fece aiutare da bramante, ma un dipinto di tale complessità non poteva che essere concepito in modo unitario da un grande artista, pittore, scultore e architetto, dotato di esperienze totalmente diverse da quelle di Piero della Francesca e di Fra carnevale. È opinione generale che Piero non sia l’autore delle mani fiammingo-veriste di Federico, ma nel dipinto si respira ovunque l’aria delle Fiandre e della borgogna: la sistemazione della madonna nella basilica, le capigliature degli angeli, come dice Venturi, arricciate con il ferro, i riflessi di luce sull’armatura di Federico, la celata dell’elmo, il naturalismo dei santi, gli angeli «agghindati» di gioielli, tutto è fiammingo, tranne l’esecutore. ci troviamo di fronte ad un grande artista che si è ispirato ai fiamminghi di inizio secolo per una sua importante composizione: perché un artista che richiamava così da vicino l’arte delle Fiandre non era egli stesso l’autore delle mani di Federico? La critica risponderebbe che le mani di Federico hanno avuto una prima esecuzione, evidenziabile con gli esami riflettografici e radiografici, nella quale erano sovrapponibili alle mani degli altri personaggi. La modifica forzatamente verista sarebbe stata eseguita successivamente, perché il dipinto fu abbandonato. nel volumetto di daffra e trevisani leggiamo: «La particolarità tecnica della preparazione scoperta lungo i margini delle figure si ritrova anche in un’altra zona critica della Pala di san bernardino, quella delle mani del duca… va sottolineato come, osservando le stesure pittoriche delle zone che fanno da 60

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sfondo alle mani di Federico di montefeltro, si noti che sono state dipinte successivamente a queste, con pennellate che “evitano” e seguono, nel loro andamento, la campitura delle mani, tecnica di esecuzione che risulta particolarmente evidente in riflettografia, vanificando quindi l’ipotesi di incompiutezza. inoltre le analisi chimiche degli strati pittorici, effettuate su prelievi presi nella zona delle mani, indicano in modo inequivocabile la presenza di due strati di stesura di colore, legato con diversi tipi di olio»58.

La rigorosa indagine scientifica concede una sola lettura: lo stesso artista che ha realizzato la prima stesura del dipinto lo ha portato a compimento, operando variazioni per volontà del duca, del quale ha reso le mani marcatamente veriste, tramite l’utilizzazione di una diversa tecnica pittorica. dall’esame radiografico della Pala si rileva che l’autore ha effettuato delle correzioni: ha tolto il gioiello che splendeva sulla fronte della Vergine ed ha ampliato le capigliature degli angeli, in modo particolare dell’ultimo alla destra; analizzando le correzioni, risultano evidentemente eseguite dallo stesso autore della Pala, prima di operare la stesura definitiva del dipinto; un dato che rafforza ulteriormente la tesi qui sostenuta. Vi è poi un elemento, a mio parere, inconciliabile con la paternità di Piero della Pala Montefeltro, un elemento spesso, viceversa, portato a riprova della sua paternità: il volto di maria. Quel volto, per errore o per il maldestro tentativo di farlo diventare a qualsiasi costo pierfrancescano, è stato gravemente alterato dal restauro degli anni ’50. abbiamo a disposizione la foto del volto eseguita all’inizio del novecento, quando le pellicole fotografiche riuscivano a dare delle riproduzioni di altissima qualità. orbene il volto allargato agli zigomi e sfilato sul mento, così lontano dagli ovoidi di Piero della Francesca, la profondità delle orbite, la maestà silenziosa e lo spirito regale che coinvolgevano adolfo Venturi, tutto scompare nella foto seguente al restauro, per far posto a un’immagine priva di regalità e di espressività. né si può sostenere che i chiaroscuri del volto di maria fossero sovra-ammissioni ottocentesche; lo dimostra il fatto che la profondità delle orbite si osserva anche negli occhi del bambino, dove addirittura non dovrebbe essere anatomicamente presente. L’assonanza, percepibile nelle foto di inizio secolo, tra lo sguardo della madre e quello del bambino, sembra scomparsa. adolfo cinquini, all’inizio del novecento, negava la paternità di Piero della Pala asserendo che i chiaroscuri del volto della madonna e del duca erano troppo forti per essere del borghigiano; per schivare l’inconfutabile giudizio è stata fatta la correzione deturpante sul volto della Vergine. tra le importanti problematiche che riguardano l’attribuzione della Pala Montefeltro a Piero della Francesca dobbiamo ricordare ancora quelle relative al dipinto su tavola San Girolamo e un Devoto conservato alle Gallerie dell’accademia di Venezia: un’opera che costituisce un precedente stilistico molto significativo per l’attribuzione della Pala al borghigiano. L’esame comparato del San Girolamo e un Devoto con il San Girolamo penitente di berlino consente di trarne delle importanti deduzioni. in en-

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e. daffra, F. trevisani, op. cit., p. 178.

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trambi i dipinti sono presenti scritte, riguardanti il nome di Piero quale autore, da non considerarsi, perché, in special modo per il dipinto conservato a Venezia, sicuramente non attendibili. chi è convinto che l’opera del San Girolamo e un Devoto sia realmente di Piero della Francesca deve essere in possesso di solide argomentazioni per controbattere quanto segue. il San Girolamo e un Devoto è considerato coevo del San Girolamo di berlino, ma l’esame stilistico dei due dipinti consente di rilevarvi un’impostazione antitetica; naturalista, di chiara influenza fiamminga il primo, idealizzato il secondo, in sintonia con le pitture murali di Piero appartenenti allo stesso periodo. una tale dissonanza tra due dipinti che sarebbero stati realizzati nello stesso arco temporale rende problematico il loro riferimento al medesimo autore. oltre a ciò, nel dipinto di Venezia, la città alle spalle dei due personaggi ha una chiara tipologia veneta, marcatamente evidente nei comignoli delle case, sono quindi da escludere riferimenti a borgo san sepolcro; l’abito rosso del devoto è quello di un giureconsulto veneto; il dipinto ha una storia veneta che lascia intendere un iter storico esclusivamente legato a quella regione. come può essere Piero della Francesca l’autore del dipinto, se non ha mai lavorato in Veneto né ha mai avuto contatti con ambienti artistici veneti?

le ragioni che consentono di sostenere la paternità di antonio del pollaiolo della pala montefeltro i rapporti che si stabilirono tra Federico di montefeltro e antonio del Pollaiolo nel decennio 1472-82 sono l’indispensabile premessa per affrontare le argomentazioni a sostegno della paternità dell’artista fiorentino della Pala Montefeltro. nel capitolo precedente sono stati riportati gli eventi storici del 1472: la vittoriosa impresa di Volterra e i doni che la Repubblica Fiorentina decretò per il conte di urbino, in gran parte opera di antonio del Pollaiolo. La morte di battista sforza, il 6 luglio dello stesso anno, generò un grande sconforto in Federico di montefeltro, che fece realizzare il busto marmoreo della sua consorte da antonio del Pollaiolo come dimostra chiaramente il raffronto con il dipinto di Dama oggi giacente a berlino, di cui abbiamo già discusso. Federico di montefeltro, nel conferire l’incarico di capo-fabbrica del Palazzo ducale a Luciano Laurana, nel 1468 scrisse che dopo aver inutilmente cercato un architetto che avesse dimestichezza con i dettami albertiani, ripiegava sul dalmata. immediatamente dopo la venuta di Federico a Firenze da Volterra, nel giugno del ’72, Luciano Laurana fu allontanato da urbino, ufficialmente “prestato” al Re di napoli. antonio del Pollaiolo diveniva il referente artistico di Federico di montefeltro sia in pittura, sia in scultura, sia in architettura; ottaviano ubaldini della carda, l’alter ego di Federico, ne sponsorizzava la decisione essendo un grande amante dell’opera59 di Van eyck, cui antonio del Pollaiolo si era sempre ispirato. antonio del Pollaiolo fece in prima persona alcune 59 a. Venturi, Storia dell’arte italiana, Vii. La pittura del Quattrocento, parte ii, hoepli, milano 1999, pp. 103-104; a. serafini, op. cit., p. 418.

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opere per il conte-duca, ma in massima parte elaborò progetti cui dettero esecuzione Fra carnevale in pittura, ambrogio barocci in scultura e i fratelli Giuliano e benedetto da maiano per le tarsie lignee; Parronchi per primo nel 1971 mise in evidenza il plateale stile pollaiolesco dello studiolo. È del 23 maggio 1473 la missiva scritta da Federico di montefeltro a Lorenzo de’ medici, ampiamente argomentata nel capitolo precedente. negli anni che seguirono, l’attività dell’artista fiorentino a urbino fu intensa. il portale della Jole riproduce le Virtù del tribunale della mercanzia dei fratelli Pollaiolo e la lotta di Ercole e il leone Nemeo, riconducibile alla corrispondente tela del Palazzo medici di via Larga, secondo la descrizione fattane da Vasari. La presenza nel Portale della Jole di tarsie derivate dai disegni realizzati da antonio del Pollaiolo e suo fratello per le Virtù del tribunale della mercanzia e per la tela di Ercole e il leone Nemeo, rende certo l’intervento di antonio del Pollaiolo sulle strutture architettoniche del Palazzo ducale di urbino. L’evidenza induce a ritenere che l’intervento di antonio del Pollaiolo come architetto a urbino sia stato di ampio respiro; ne consegue che trova pieno supporto il contributo di Parronchi in cui viene assegnato al Pollaiolo il progetto della cappella del Perdono e del tempietto delle muse. È ormai unanimemente accettato un intervento diretto di ambrogio barocci per la decorazione lapidea della cappella: si rafforza pertanto la tesi di un lavoro congiunto dei due artisti al Palazzo ducale, antonio prevalentemente progettista, ambrogio esecutore. Giorgio Vasari trovò due disegni di antonio del Pollaiolo che erano da interpretarsi come altrettanti progetti per monumenti equestri. uno di essi, oggi conservato al Graphische sammlung di monaco, mostra un cavaliere, con il volto dalle inconfondibili fattezze di Francesco sforza, che sovrasta un soccombente nemico. il secondo disegno, oggi conservato alla Robert Lehmann collection del metropolitan museum of art di new york, mostra un cavaliere, in groppa al suo destriero, mentre schiaccia al suolo una donna. Vasari interpretò i due disegni come varianti del medesimo progetto per il monumento equestre che Ludovico il moro voleva far erigere in onore di Francesco sforza. conoscendo l’inclinazione al simbolismo del Pollaiolo, Vasari riconobbe nel disegno di new york la vittoria di Francesco sforza su Verona; Wright ha messo in rilievo che il volto del cavaliere non presenta, in questa soluzione, le fattezze di Francesco sforza ma quelle di Federico di montefeltro60. La sommaria ispezione del disegno consente di confermare la notazione; la donna giacente a terra nel disegno rappresenta dunque, con tutta probabilità, Volterra. Wright sottolinea inoltre la presenza di affinità tra il volto del cavaliere e quello di Federico dipinto sulla coperta delle Disputationes Camaldulenses (cod. urb. Lat. 508). La finizione dei due disegni attesta che si tratta di due reali progetti e non di semplici studi; la sovrapponibile impostazione delle due soluzioni, scartata l’ipotesi che fossero indirizzate al monumento sforza, per la presenza in una di esse del volto di Federico, indica che doveva trattarsi di un progetto per una complementare raffigurazione dei due condottieri. al museo del bargello sono conservati due bassorilievi con le teste di Francesco sforza e Federico di montefeltro, provenienti dall’eredità di Vittoria della Rovere;

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a. Wright, The Pollaiolo Brothers, yale university Press, new haven & London 2004, pp. 137-143.

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sono attribuiti a scultore lombardo per il quale potrebbe essere proposto, al primo impatto, l’ambito di ambrogio barocci. un più accurato esame dei due bassorilievi consente di sostenere che non sono da attribuire entrambi alla stessa mano: Francesco sforza è stato realizzato da uno scultore lombardo riconducibile al barocci, mentre in Federico di montefeltro si riconosce la paternità di uno scultore fiorentino; la diversa paternità è ipotizzabile come il frutto di una stretta collaborazione tra i due artisti. La combinazione dei due bassorilievi con i disegni di Pollaiolo consente di fare una serie di considerazioni: i disegni per i monumenti equestri di Federico di montefeltro e di Francesco sforza dovrebbero essere antedatati al periodo in cui Federico era ancora in vita o, forse più probabilmente, a quello seguente alla sua morte; i disegni furono verosimilmente progettati per due grandiosi monumenti equestri da realizzarsi in urbino, e antonio del Pollaiolo, progettista di entrambi, avrebbe realizzato Federico di montefeltro, a cavallo, mentre il milanese barocci si sarebbe cimentato con il monumento di Francesco sforza; i due bassorilievi del bargello erano pertanto il primo passo della grande impresa comune. non si trattò di una competizione tra Pollaiolo e il suo allievo Leonardo per il monumento sforza, ma di un progetto di Federico di montefeltro o meglio dei suoi eredi, per una commissione artistica che presentasse il duca come il Principe-condottiero, paragonabile in grandezza a Francesco sforza. in questa ottica il bassorilievo del bargello raffigurante Federico di montefeltro è da attribuire direttamente alla mano di antonio del Pollaiolo, e la qualità dell’opera giustifica pienamente l’attribuzione. L’immagine che Vasari ha creato di Lorenzo il magnifico per ingraziarsi cosimo de’ medici, deve essere conseguentemente rivista; Lorenzo non fu, per gli artisti fiorentini, l’arbiter delle loro fortune, ma li favorì presso i signori d’italia con lettere di raccomandazione e di delucidazioni sulle loro specifiche capacità. La commissione al Pollaiolo della tomba di sisto iV non fu una decisione di Lorenzo, ma nacque da una iniziativa di Giuliano della Rovere sollecitato dal fratello Giovanni della Rovere e da sua moglie Giovanna Feltria; l’iter della commissione fu dunque urbino-Roma, considerando anche il fatto che fu sicuramente Federico a presentare antonio del Pollaiolo al cardinale di san Pietro in Vincoli. Le prove documentali riportate nell’introduzione attestano che antonio del Pollaiolo fu architetto molto più di quanto comunemente venga ricordato; a ciò si aggiungano le considerazioni di smith secondo cui le architetture dipinte della Pala Montefeltro mostrano stretti legami con le tecniche scultoree. antonio fu pittore di costante ispirazione fiamminga, per cui ritroviamo in lui tutte le preliminari prerogative perché possa essere identificato come l’autore della tavola di brera. adolfo Venturi, adolfo cinquini e alberto serafini analizzarono accuratamente il dipinto che funge da piatto anteriore nella coperta nel codice urbinate Latino 508 (Disputationes Camaldulenses)61, di cui abbiamo discusso in precedenza. il comune riscontro fu il colorito plumbeo del volto di Federico, singolare per la pittura italiana del tempo, ma sovrapponibile a quello di Federico nella Pala Montefeltro. La conclu-

61 a. Venturi, Storia dell’Arte Italiana, Vol. Vii, La Pittura del Quattrocento, ulrico hoepli editore, milano 1913, pp. 103-4; a. serafini, op. cit., p. 418; a. cinquini, op. cit., p. 121.

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sione unanime fu che la tavoletta del codice era da attribuire a Fra carnevale, l’autore della Pala a loro giudizio. La tavoletta, che per il suo verismo non poteva in alcun modo essere attribuita a Piero della Francesca, era un importante riferimento per contrastare o rigettare, come nel caso di Venturi, l’attribuzione, che si stava diffondendo in quel tempo, della Pala Montefeltro al borghigiano. se la tavoletta del codice 508 è stata dipinta dalla stessa persona che ha dipinto la Pala Montefeltro e nella stessa tavoletta vi è l’autoritratto di antonio del Pollaiolo, ciò che ne consegue non ha bisogno di commenti. Per celebrare la lunga collaborazione istauratasi, il duca decise di farsi ritrarre, non molto tempo prima della sua dipartita, insieme all’artista nella tavoletta del codice; antonio del Pollaiolo non era più soltanto l’artista di riferimento del ducato, ma un cortigiano a tutti gli effetti. Quanto riportato ci rende ragione del fatto che dopo il 1472 per un artista primo attore come Piero della Francesca non v’era posto al Palazzo ducale e diviene automaticamente inammissibile la paternità del borghigiano dalla Pala Montefeltro, un’opera da inquadrarsi rigorosamente negli anni ’70 del Quattrocento. La Pala Montefeltro, di contro al classicismo dell’architettura, presenta il marcato naturalismo dell’uovo e dei personaggi; la sintesi di elementi tra loro contrastanti è un cardine dell’opera di antonio del Pollaiolo e al tempo stesso totalmente estranea all’arte di Piero della Francesca. un eloquente elemento di connessione tra la Pala Montefeltro e le opere di documentata paternità di antonio del Pollaiolo si riscontra tra l’architettura del dipinto e quelle del Parato di san Giovanni: il complesso dei paramenti sacri istoriati con la vita del battista, realizzati su disegno di antonio del Pollaiolo, nei quali le strutture architettoniche complesse tipicamente albertiane provano quanto fossero vicini l’umanista e l’artista. il legame di antonio del Pollaiolo con alberti non deve essere inteso come una pedissequa osservanza di indirizzi; come da tutte le altre fonti d’ispirazione, l’artista recepisce ed elabora a suo modo. alberti integra la visione vitruviana con la musica cosicché la costruzione architettonica assume la ciclicità e la costruzione matematica dei suoni musicali, ma di fronte all’opera d’arte albertiana lo spettatore fruisce passivamente. antonio del Pollaiolo assimila i concetti albertiani, esprimendo con le proprie opere potenza e ritmo, quindi li integra con l’illusionismo di Van eyck cosicché lo spettatore diviene parte attiva, dialogando direttamente con l’opera d’arte. nella Pala Montefeltro si nota una corrispondenza tra i personaggi e i pannelli dell’abside, con una cadenza tipicamente musicale; nello stesso tempo l’illusionismo della falsa profondità della volta absidale stimola la partecipazione dello spettatore allo spettacolo. Richiamando i principi espressivi di Van eyck, antonio dava l’interpretazione dell’arte come creazione di illusione, sviluppata da Ficino, dal quale l’artista fiorentino apprende, tra l’altro, il procedimento di caricare le soluzioni artistiche di un doppio significato, così come si comportava il filosofo con i propri scritti. La complessa formazione ha consentito al Pollaiolo di esprimersi con caratteristiche eclettiche che hanno creato non poche difficoltà alla critica nel riconoscimento di sue opere. una tale eterogeneità della matrice artistica, riconoscibile nell’autore della Pala Montefeltro, non apparteneva al bagaglio culturale e territoriale di Piero della Francesca né a quello di Fra carnevale. bruschi proponeva a buon titolo, per la costruzione artistica, antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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l’intervento di un cantiere che, secondo quanto argomentato, deve ritenersi concentrato nella mente e nel braccio di un unico, grande personaggio, dalle esperienze composite. Venturi afferma che nel dipinto di brera i santi sbirciano gli spettatori, riferendosi ovviamente a Girolamo. non si tratta di questo né delle asimmetrie oculari che si ritrovano talvolta nei dipinti (ipotesi improponibile per antonio del Pollaiolo). È una precisa disposizione di un occhio che guarda in alto ed in fuori (exotropia ed ipertropia); si riscontra peculiarmente in molte opere di antonio (David di berlino, Prudenza e Carità del tribunale della mercanzia, putto del portale della cappella di Rusciano, Dialettica del monumento funebre di sisto iV, etc.) come soluzione tecnica escogitata per raffigurare l’elevazione del pensiero alle cose superiori. si tratta di una delle due “firme” apposte dal Pollaiolo alle sue opere; della seconda “firma” presente nella Pala Montefeltro disserteremo adeguatamente scrivendo della Madonna di Senigallia. È infine da sottolineare, nella tavola di brera, la mano sinistra “pollaiolesca” di Francesco con la tipica disposizione del mignolo. L’indagine scientifica menzionata in precedenza ha messo in rilievo che la mano di Federico è stata modificata in stile verista dallo stesso autore che ha fatto le correzioni alla Vergine e agli angeli; la modifica della mano era nel bagaglio stilistico di antonio del Pollaiolo, ma fuori da quello di Piero della Francesca. il dover proporre che il dipinto sia stato abbandonato, per poter sostenere la paternità di Piero della Francesca, e che quindi sia stato terminato da altri anni dopo, oltre che inverosimile, essendo Federico di montefeltro il committente, è anche un inaccettabile danneggiamento critico dell’opera. La vicinanza stilistica tra il San Giovanni Evangelista della Pala Montefeltro e il San Giovanni Evangelista del Polittico degli Agostiniani, di Piero della Francesca, non è da considerare un elemento forte a sostegno di una comune paternità, ma l’ineludibile tributo che Federico da montefeltro e antonio del Pollaiolo davano al grande pittore locale, ormai allontanato da urbino.

l’incisione prevedari e la sua interpretazione attestante la paternità di antonio del pollaiolo della pala montefeltro si tratta di un’incisione a bulino di dimensioni inconsuete mm 705×513, la cui realizzazione spetta all’orafo bernardo Prevedari, membro di una famiglia originaria della provincia di bergamo. L’opera fu eseguita nel 1481 su commissione del pittore matteo Fedeli in derivazione da un ermetico disegno di donato bramante, per lungo tempo ritenuto l’autore dell’incisione. il ritrovamento del contratto stipulato tra Prevedari e Fedeli ha indotto a riconsiderare il ruolo di bramante, il cui disegno in mano al Prevedari veniva venduto al Fedeli per 3 lire imperiali62. 62 Riportiamo il contratto stipulato tra matteo Fedeli e bernardo Prevedari per la realizzazione della stampa in derivazione dal disegno di bramante: «septimus quaternus imbreviaturarum mei benini de cayrate filii quondam domini ambrosii publici imperiali auctoritate notarii civitatis mediolani porte nove parochie sancti bertolomei intus mediolani ac missi regis seu loco missi regis et indiciis ordinarii imperiali auctoritate constituti. in nomine domini anno a nativitate eiusdem millesimo quadrigentesimo octuagesimo primo. indictione quintadecima die mercurii xxiiii mensis octobris. magister matheus

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Restano due stampe dell’opera a bulino, conservate rispettivamente alla civica Raccolta di stampe achille bertarelli del castello sforzesco di milano e al dipartimento dei disegni del british museum di Londra. L’interpretazione del disegno di bramante ha creato non pochi problemi alla critica; nonostante siano state molte le ipotesi interpretative, la soluzione al “rebus” non è stata ancora trovata. sono arrivato all’Incisione Prevedari tramite una pista totalmente diversa da quelle abituali e questo mi consente di sostenere una tesi alternativa, decisamente attendibile. come si argomenterà in seguito, trattandosi di un poemetto di fine Quattrocento dal titolo Antiquarie Prospectiche Romane, vi furono dei legami artistici tra bramante discepolo e Pollaiolo maestro, sviluppatisi a urbino, città frequentata in modo ricorrente dal maestro fiorentino tra il ’72 e il ’78; l’incisione Prevedari è strettamente legata ai rapporti precedentemente istauratisi tra i due artisti. L’analisi dell’opera mostra scene diverse raccolte in una costruzione in rovina che non è una chiesa né un tempio pur essendo ad essi assimilabile, caratterizzata da due forme architettoniche parallele, riconducibili a navate, di cui una maggiore ed una minore. sembra evidente che bramante non abbia voluto realizzare una struttura ben definita ma un che di simbolico; le mura che crollano con dei fili di erba tra di esse nella cupola di destra vogliono ricordare un episodio di distruzioni che si è ormai svolto nel passato. i due ambienti presentano delle scene diverse, riunite insieme da un filo conduttore comune; procedendo nell’interpretazione, notiamo nella struttura di sinistra, al di sotto della cupola, un fregio che mostra una scena alquanto movimentata: sulla parte destra si rileva un verosimile episodio di violenze su donne, mentre a sinistra carri tirati da cavalli e buoi portano delle casse evidentemente colme di oggetti di valore. L’insieme della scena fa pensare che si tratti di un saccheggio; al di

de Fidelibus filius quondam magistri antonii porte horientalis parochie san martini in compedo mediolani parte una et magister bernardus de Prevedaris f. q. Johannis porte romane parochie sancte marie beltradis mediolani parte altera. Voluntarie etc. et omnibus modo etc. Fecerunt et faciunt infrascripta pacta et conventiones per et inter dictas partes inviolabiter attendenda et observanda bona fide sine fraude. Videlicet quod dictus magister bernardus teneatur et obligatus sit hinc ad festa nativitatis domini nostri Jhesu christi proxime futurum fabricare ipsi magistro matheo stampam unam cum hedifitiis et figuris lotoni secundum designum in papiro factum per magistrum bramantem de urbino et illam stampam bene intaliare secundum dictum designum ita et taliter quod dicta stampa stampeat bonum laborem et bonas figuras et quod dictus magister bernardus teneatur et obligatus sit laborare in domo dicti magistri mathei ad faciendum dictam stampam et in ea stampa laborare ad diem et de nocte secundum consuetudinem ab hodie in antea usque quo dicta stampa finita sit. et quod dictus matheus teneatur et obligatus sit dare ipsi magistro bernardo pro dicta stampa bene facta et ordinata secundum dictum designum libras quadraginta octo imperiales videlicet de presenti libras xxVii solidas V imperiales et residuum hinc ad diem vigessimum mensis novembris proxime futurum et hec omnia pro mercede dicte stampe. et ex nunc suprascriptus magister bernardus est contentus et confessus recepisse et habuisse a suprascripto magistro matheo suprascriptas libras vigenti septem et solidos quinque imperiales pro parte solutionis suprascriptae stampe etc. Pacto etc. Quod dictus magister bernardus teneatur dare magistri matheo patronum seu disegnum factum per suprascriptum magistrum bramantem finita et facta dicta stampa pro libris tribus imperialis quas libras tres imperiales ipse magister matheus teneatur dare ipsi magistro bernardo infra quindicim dies proxime futurus». c. alberici, Atti della tavola Rotonda tenutasi nella Sala della Balla del Castello Sforzesco per illustrare l’incisione di Bernardo Prevedari da disegno di Donato Bramante del 1481, 11 dicembre 1978, pp. 52-54. antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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sotto del fregio, un oculo nell’interno del quale è raffigurato il busto di un uomo insolitamente voltato di spalle, e sotto a questi un’abside che riprende fedelmente quella raffigurata nella Pala Montefeltro. ai lati dell’oculo sono presenti due centauri, mentre la rappresentazione è inserita in una struttura architettonica che richiama l’arte romana classica con medaglioni di imperatori. nel sottostante catino absidale si trovano, sui lati, due altri medaglioni di cui quello a sinistra mostra ancora un imperatore, mentre a destra è ben riconoscibile Federico di montefeltro che indossa l’elmo: l’invitto condottiero del secolo xV insieme ai grandi del passato. bramante poteva inserire Federico tra gli imperatori Romani giocando sull’originario significato di Imperator che era appunto “generale”63. La lettura della composizione è verosimilmente la seguente: in alto il sacco, in basso la Pala Montefeltro che ha accanto l’effigie di Federico. Le mura in rovina simboleggiano le distruzioni, operate nove anni prima, dalle bombarde durante l’assedio di Volterra; Federico ha commissionato la Pala in riparazione del sacco che è seguito alla resa64. nella navata di destra, sullo stesso piano del medaglione dove è raffigurato Federico, due uomini, di cui uno è a terra ferito: le morti e i ferimenti rappresentano la motivazione che ha spinto Federico a commissionare la Pala. al piano terreno sottostante, uomini in armi, vestiti in modi diversi, con i loro cavalli: sono i mercenari responsabili del sacco. al limite tra le due strutture architettoniche, due paggi, dei quali uno tiene in alto una lancia: è l’ordine, dato da Federico, di fermare il sacco. nell’oculo disposto tra la Pala, in cui è raffigurata l’abside, e il fregio raffigurante il sacco, l’uomo voltato di spalle: è l’autore della Pala, che si ispira alla romanità e alla mitologia, ma non vuole che si sappia il suo nome; la presenza dei due centauri vuol esplicitare il modus agendi dell’artista, che dava comunemente alle sue rappresentazioni due possibilità di lettura. a terra, di fronte all’abside, alcune persone parlano indicando in alto l’abside mentre un’altra la guarda ammirata: è il successo che riscosse la Pala Montefeltro. in primo piano a sinistra un cardinale con il suo assistente: è verosimilmente Giuliano della Rovere, ispiratore dell’impianto agiografico della Pala. in primo piano sulla destra un frate domenicano in ginocchio. La presenza di strutture che ricordano le tavole barberini indica in Fra carnevale il domenicano genuflesso65. Perché il frate è in ginocchio, visto che la struttura non è una chiesa e non ci sono immagini sacre? il frate non sta pregando perché la testa è rivolta verso l’alto, in ammirazione dell’uomo nell’oculo. in secondo piano, a destra tra i colonnati, un uomo consulta un 63 così come scritto nel cortile d’onore del Palazzo ducale di urbino, Federico assumeva l’appellativo di Imperator secondo il suo significato originario di “comandante supremo”, titolo con cui i soldati chiamavano il loro generale dopo una vittoria sul campo. augusto ottenne dal senato di potersi fregiare del titolo di imperatore a vita e di poter trasmettere il privilegio alla sua discendenza. da quel momento Imperator si identificò con il termine di Princeps. 64 È opportuno precisare che nel Quattrocento il diritto al saccheggio era una spettanza delle truppe che avevano posto in assedio e conquistato una città. 65 i frati domenicani, essendo canonici (domenico era canonico di osma), hanno un abito candido con un lungo cappuccio terminante a punta che si sovrappone allo scapolare. L’abito può essere stretto alla vita da una cintura dalla quale pende il rosario; non fa parte dell’abito il cordone, che è invece elemento distintivo dei frati francescani. i domenicani indossano la cappa nera sopra l’abito bianco, quando vanno in coro, nel periodo intercorrente tra la festa di ognissanti e la veglia pasquale.

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libro: l’autore della Pala ha studiato approfonditamente il De Re Aedificatoria di Leon battista alberti. nel secondo ambiente raffigurato nell’incisione viene fatto, in forma criptica, il nome dell’autore della Pala. sulla stessa linea dell’uomo di spalle nell’oculo della navata di sinistra, si trovano, nella navata di destra, tre scene con un piccolo medaglione che divide la prima dalle altre due. da sinistra: la rappresentazione di uno scultore che sta realizzando in bassorilievo il ritratto di un uomo, il medaglione con il volto di un personaggio, una bottega di orafo, con il battiloro al lavoro e da ultimo un pittore che sta realizzando un ritratto. L’uomo del medaglione è l’immagine simbolica dell’artista, che era scultore, aveva una bottega di orafo, ed era pittore. L’uomo guarda in alto dove si trova un occhio a ruota di carro simbolo della prospettiva: si tratta di un artista che in tutte le sue attività ha sempre applicato i principi della prospettiva66. se ora torniamo nella struttura maggiore, notiamo che Federico indossa l’elmo; l’artista che ha realizzato la Pala è quindi scultore, orafo, pittore ed ha realizzato l’elmo per Federico: il rebus è risolto. di nuovo, infine, nella navata maggiore: sul davanti dell’abside una colonna che ha la stessa forma di quelle dell’occhio a ruota di carro: bramante si identifica e si “firma” nella colonna in quanto grande studioso di prospettiva.

interpretazione generale del disegno di bramante bramante afferma: «io sono il grande artista prospettivo perché ho avuto come maestri antonio del Pollaiolo (la colonna si prolunga in alto fin sotto l’oculo, dove è l’uomo di spalle) e Fra carnevale (l’ombra del frate inginocchiato termina a punta proprio alla base della colonna)»67. Pollaiolo è l’autore della Pala Montefeltro, realizzata in riparazione del sacco di Volterra, mentre Fra carnevale, suo collaboratore, ha realizzato le tavole barberini (la struttura architettonica dell’Incisione Prevedari le ricorda molto da vicino negli archivolti e nei colonnati). bramante, che non può infrangere la volontà del Pollaiolo di rimanere autore criptico della Pala Montefeltro, lascia ai posteri l’ermetico messaggio, per contrastarne l’attribuzione, che si stava diffondendo in quei tempi, a Fra carnevale. il frate addirittura si inginocchia di fronte al suo grande maestro fiorentino, in forma di rispettosa ammirazione, ma il sussulto bramantesco non ha comunque impedito che quella spuria paternità continuasse ad espandersi tanto da arrivare fino all’inizio del novecento.

66 F. camerota, La Prospettiva nel Rinascimento, arte architettura e scienza, mondadori electa milano, Verona 2006, pp. 246-249. 67 il titolo per esteso del poemetto indirizzato da bramante a Leonardo è Antiquarie Prospectiche Romane Composte per Prospectivo melanese Depictore. L’artista marchigiano, milanese di adozione, confermava con lo scritto nel 1499 quanto aveva simbolicamente espresso nel 1481 con l’Incisione Prevedari. unificando i messaggi bramanteschi dell’Incisione Prevedari e delle Antiquarie in una interpretazione generale, possiamo riconoscere in antonio del Pollaiolo il comune maestro di Leonardo e di bramante, colui che ha trasmesso loro i principi albertiani.

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bramante vuole inoltre puntualizzare che antonio del Pollaiolo e Fra carnevale collaborarono a urbino nella realizzazione di alcune opere fornendo, rispettivamente, il disegno e la parte pittorica. La decodificazione dell’Incisione Prevedari consente di enunciare i convincimenti sulla paternità della Città Ideale; considero insostenibile l’attribuzione del dipinto a Luciano Laurana e, al contrario, rilevo che gli inventari ducali ne assegnavano la paternità a Fra carnevale68. Lo studio radiografico e riflettografico eseguito da seracini sulla tavola di urbino ha messo in evidenza un elaborato disegno preparatorio69, realizzato nel totale rispetto delle teorie di Leon battista alberti, tramite una quadrettatura geometrica di tale livello scientifico che, essendo chiaramente visibile una dicotomia tra l’impronta iniziale e il completamento pittorico, è stato motivatamente ipotizzato da morolli un diretto intervento albertiano nell’opera. il messaggio dell’Incisione Prevedari, la riconosciuta supremazia di antonio del Pollaiolo nel disegno e la sua fedeltà nell’applicazione dei principi di alberti in architettura e nelle arti figurative, i legami di cui abbiamo discusso con Federico di montefeltro, rendono sostenibile l’attribuzione del disegno iniziale della prospettiva urbinate al maestro fiorentino. Le Vedute di baltimora e Washington, se di mano del frate sono interamente sue perché mancano della coinvolgente armonia musicale riscontrabile nell’opera conservata ad urbino, si presentano come un ammasso di edifici. Quanto al problema relativo alla destinazione delle tre prospettive, è da rilevare che in quel periodo era molto in voga presso i grandi casati d’italia farsi realizzare letti con tavole dipinte o tarsie come spalliere. ne sono prova tangibile la tavola strozzi e la corrispondente tarsia lignea donata da Filippo strozzi al Re di napoli nel 1473, di cui abbiamo trattato in precedenza. Le misure della tavola strozzi, che Filippo strozzi si fece realizzare per un letto della sua casa di Firenze, sono praticamente analoghe alla prospettiva urbinate. ci troviamo di fronte a due dipinti concepiti secondo principi albertiani, applicati rigidamente nell’idealizzata prospettiva urbinate, combinati con una visione realistica, di derivazione fiamminga, nella Veduta di napoli. il tempio rotondo della Città Ideale, seppur inserito in un contesto idealizzato, è da riferire ad un progetto del duca di urbino che non ebbe seguito; ne sono prova lo scritto di Giovanni santi nella sua Cronica Rimata e la presenza, nella prima stesura del doppio ritratto di Federico e di Guidobaldo, del tempio circolare, successivamente coperto nella stesura definitiva, ma ancora visibile pure ad occhio nudo.

la datazione della pala montefeltro e la ricostruzione del suo iter storico i periodi in cui viene fatta cadere la realizzazione della Pala hanno diviso la critica così come le attribuzioni; si possono annoverare sostenitori per tutte le datazioni tra gli anni ’60 e gli anni ’80, ma la maggior parte della critica, anche sulla base di quanto ri68 nell’inventario del Palazzo ducale di urbino del 1599 si legge: «item un quadro longo d’una prospettiva antica ma bella di mano di Fra carnevale». una descrizione che non lascia adito a dubbi sul suo riferimento alla Città Ideale. F. sangiorgi, Documenti Urbinati. Inventari del Palazzo Ducale, collana “studi e testi”, accademia Raffaello, urbino 1976, p. 63. 69 L’Uomo del Rinascimento, a cura di c. acidini e G. morolli, mandragora, Firenze 2006, pp. 445-447.

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portato nel manoscritto del convento di san bernardino, ne ha attribuito la realizzazione al periodo ’72-74. Viene considerato comunemente terminus ante quem il ’74 perché Federico è raffigurato senza le onorificenze ottenute in quell’anno, che invece pretendeva comparissero sempre dopo averle ricevute. La valutazione della presenza o meno delle onorificenze ha un valore oggettivo soltanto come terminus post quem quando sono raffigurate, ma la loro assenza non autorizza a farne derivare un terminus ante quem. molte possono essere le ragioni per cui gli emblemi non vengono raffigurati in un ritratto, ma nella Pala Montefeltro, ammesso che il significato del dipinto sia la richiesta del perdono per un evento che ha causato morti violente, la motivazione per la quale Federico si sia fatto ritrarre senza onorificenze appare evidente e supportata dalla raffigurazione dell’elmo, simbolicamente affossato, che impone umiliazione. non esistono documenti che attestino la destinazione progettuale della Pala Montefeltro, formuliamo pertanto l’ipotesi che poggia sulla lettura del dipinto e sull’interpretazione dell’Incisione Prevedari, secondo la quale il 1472 è il terminus post quem, mentre il terminus ante quem è da riferirsi all’agosto del 1475, quando antonello da messina è documentato a dipingere la Pala di san cassiano, direttamente ispirata alla Pala Montefeltro. nel mese di aprile del 1473, antonio del Pollaiolo è a urbino; dopo aver consegnato al conte l’elmo d’argento istoriato, dà inizio alla progettazione di una cappella da costruirsi a Firenze nella Villa di Rusciano. Per poter edificare una cappella privata nei dintorni di Firenze sono necessarie le autorizzazioni delle autorità ecclesiastiche e della Repubblica Fiorentina. Federico scrive, il 23 maggio, a Lorenzo il magnifico la lettera che abbiamo riportato, chiedendogli un intervento in suo favore, ma presenta la richiesta come qualcosa che possa far felice il Pollaiolo, uno degli artisti preferiti del medici, grazie all’interessamento del quale l’autorizzazione viene concessa. nell’estate del ’74 le mura e il portale sono edificati ma gli eventi storici del periodo ’74-75 influenzano negativamente il completamento della cappella. dopo aver ricondotto a più miti consigli Vitelli, signore di città di castello, Federico, con l’appoggio di Giuliano della Rovere, riesce a ottenere il ducato e l’assenso del sacro collegio al matrimonio di sua figlia Giovanna con Giovanni della Rovere, fratello di Giuliano. È in questo momento che si materializza l’impostazione iconografica della Pala d’altare da porre a Rusciano. L’analisi dei dati storici spinge il terminus post quem al secondo semestre del ’74, quando Federico sposò definitivamente la causa del Papa e del Re di napoli, e abbandonò Firenze. La concatenazione degli eventi ci consente di dedurre che il periodo intercorrente tra il secondo semestre del ’74 e il primo semestre del ’75 è quello in cui far cadere la realizzazione della Pala. La rottura delle relazioni tra il duca e la città toscana, con la risoluzione del contratto e la sospensione dei pagamenti per la condotta di capitano Generale, fa sì che l’opera rimanga in una sala del Palazzo ducale, dove viene ammirata, emulata ed è fonte di ispirazione per grandi artisti. Gli eventi della congiura dei Pazzi e della guerra conseguente allontanano definitivamente il completamento della cappella a Rusciano. morto Federico, si procede con la costruzione del mausoleo di san bernardino che viene ultimato soltanto alla fine degli anni ’80; Guidobaldo i, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, non vi trasferisce la Pala. L’erede di Federico sa benissimo che il dipinto era stato realizantonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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zato per mondare Rusciano dalle colpe del sacco, non vi era quindi nessuna ragione di porlo a san bernardino. L’opera rimase al Palazzo ducale fino al 1502, quando Guidobaldo, nel timore che il Valentino si impadronisse del prezioso dipinto e lo danneggiasse, lo fece trasferire, per “mimetizzarlo”, nell’umile chiesa d’ospedale di santa maria della bella, unitamente alle tavole barberini; diede ordine, pertanto, di togliere dall’altar maggiore la tavola che Fra carnevale aveva dipinto per quella chiesa negli anni ’6070. Vasari si recò a fare un’ispezione artistica ad urbino negli anni ’30 del cinquecento. in santa maria della bella vide la Pala, chiese informazioni e scrisse più tardi, nella vita di bramante, che suo maestro era stato Fra carnevale, l’autore della tavola di santa maria della bella. Vasari non può aver visto sull’altar maggiore una delle due tavole barberini, ivi descritta nei documenti del secolo xVii, perché le due opere sono chiaramente dei pendants (forse sportelli) ed è quindi ovvio che la presenza di una di esse sull’altar maggiore non poteva che essere considerata come soluzione di fortuna; Vasari lo avrebbe recepito al primo impatto e non avrebbe mai parlato di una delle due opere come della tavola di santa maria della bella. alla metà del cinquecento, Guidobaldo ii fece trasferire la Pala a san bernardino: è di quel periodo il disegno attribuito a Federico barocci che testimonia la nuova collocazione. in santa maria della bella venne posta, sull’altar maggiore, una delle tavole barberini, poi asportate nel secolo xVii dal cardinale appartenente alla famiglia che ha dato il nome alle due opere. La Pala Montefeltro fu quindi tenuta in santa maria della bella per un certo tempo; la ricostruzione storica trova riscontro nella notizia, riportata in apertura, proveniente dal catalogo settecentesco di michelangiolo dolci, secondo la quale la Pala Montefeltro era ancora chiamata nel secolo xViii: “tavola di santa maria della bella”. La Pala poté essere ammirata in san bernardino fino all’inizio dell’ottocento, quando fu trasferita dai napoleonici nella Pinacoteca di brera. in conclusione: Federico di montefeltro commissionò nel periodo 1473-74 la costruzione di una cappella a Rusciano che avrebbe dovuto essere il preminente punto di riferimento a Firenze degli indirizzi politici e culturali di urbino. La cappella per una serie di eventi storici non fu portata a compimento e il dipinto che doveva fungere da Pala d’altare non prese mai la via di Firenze. La costruzione avrebbe potuto esprimere il massimo del suo livello artistico se le singole componenti, architettoniche, scultoree e pittoriche, fossero state poste in funzione solidale tra loro; purtroppo ciò non si verificò. se avviciniamo alla Pala il fregio di cui abbiamo discusso in precedenza, possiamo recepire l’originario progetto del Pollaiolo mai portato a compimento71. il legame ideale che si crea fra lo struzzo scolpito sul portale di ingresso e l’uovo dipinto sulla Pala, rappresenta un’esasperazione naturalistica, ancor più identificativa del suo autore, che eleva notevolmente il tenore dell’ideazione artistica, correggendo il giudizio negativo di Venturi. Federico di montefeltro si identificava con l’emblema dello struzzo, ecco defini70 Per la commissione a Fra carnevale della Pala di santa maria della bella: urbino arch. not., n. 201, div. ultima cas. 25 anno 1467, Q. s. croce c. 5r, anno 1467, dicembre 31. 71 a Rusciano riteniamo di aver identificato il catino absidale nei sotterranei della Villa; la cappella fu inglobata negli ampliamenti costruttivi in epoca cinquecentesca e attualmente un terrapieno ricopre la rimanente parte dell’abside. La struttura esterna della cappella, con il tetto a capanna, così come compare nella Veduta della Catena, ricorda la chiesa di san martino a Gangalandi, di cui era priore Leon battista alberti.

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tivamente spiegata l’assenza della scritta e del chiodo nell’impresa disposta sullo scudo: l’interazione naturale e spirituale dello struzzo con l’uovo dell’abside non consentiva una rappresentazione totalmente rispondente dal punto di vista araldico.

due riscontri significativi 1) studiando il periodo romano di antonio del Pollaiolo si è ritenuto opportuno fare una visita al castello di bracciano perché una lettera dell’artista a Virginio orsini faceva trasparire rapporti tra i due personaggi che avrebbero potuto trovare riscontri in quella residenza72. La biografia di Gentile Virginio orsini confortava l’indagine: cognato di Lorenzo de’ medici, il duca di bracciano era divenuto capitano generale delle truppe aragonesi nel 1489, un incarico in cui lo aveva preceduto Federico di montefeltro, il criptico mecenate di antonio del Pollaiolo negli anni ’70. al castello di bracciano, nella zona dove fu costruita una cappella tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 del Quattrocento, è presente un portale il cui fregio richiama molto da vicino il corrispondente di Rusciano. La rimozione della cappella nei secoli successivi e gli spostamenti di strutture architettoniche rendono l’indagine complessa ed inoltre soggetta all’obiezione che putti alati reggi-stemma ce ne sono in abbondanza sui portali di ingresso dei palazzi quattrocenteschi, ma la ghirlanda a mazzi di foglie e frutta, in combinazione con la stessa impostazione dei putti alati adottata a Rusciano, è tutt’affatto particolare; a ciò si aggiunga che le dimensioni in lunghezza dei due fregi sono uguali, essi destinati pertanto a portali di similare progettazione. così come aveva fatto Fede-

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«adì xiii di luglio 1494. inlustrissimo e generoso s. mio. io piglierò licenza e sichurtà (sichurtà, ms.) nella umanità vostra, perché a bocha non è (a, st.) dato sorta. È mi fu fatta una inbasciata nello (sic) orecchie e sendo a ostia, da parte di maestro agniolo medicho. dissimi per parte della s. vostra che vostra s. arebe aùto charo che io facessi la testa di vostra s. di bronzo quanto al naturale. io gli risposi subito che io l’arei di grazia, e chosì rafermò (rafermo, st.) che io mi verrò a star dua dì a braciano a ritrarvi in disegnio, poi me l’arecherò a Roma e faremola di bronzo. ma più charo arei farvi tuto intero in su un (insunn, ms.) chaval grosso (rosso, st.), che vi farei etterno. Posiamo per la prima fare la testa, poi penseremo al tutto. magnifico s. mio, io mi parto lunedì, che sarèno adì xiii di luglio, e vòmene in toscana; pòrtomene due figure di bronzo, e vòremene andare alle mie possissione, che sono xV miglia discoste a Firenze, cioè quindici miglia, e per la moria ànno fatto che chi viene da Roma non si possa achostare a Firenze a venti miglia. Vorei dalla s. vostra che per amor mio (scriva) a Piero de’ medici, che fusse contento che io avessi licenza a potere andare alle mie possissione, che sono tra ’l Poggio a chaiano e lla città di Pistoia, e credo che ve ne chonpiacerà volentieri, perché sa che io sono stato sempre di quella chasa; e pensate che gli è 34 anni che io feci quelle fatiche d’erchole, che sono nella sala del palazo suo, che le facemo tra u’mio (tra mmio, st.) fratello ed io: so che le dovere aver vedute. io voglio questo grado della s. vostra, aciò che io abi qualche cagione di ricordarmi della s. vostra. e più m’ochorre (accorre, ms., st.) che uno mio nipote che io ò qui prestò a meser manfredi; gli prestò a chamino dua ducati d’oro e tre carlini; promisegli di recargliele insino a Roma; non l’à mai fatto. se fussi posibile, quando gli à la pagha, rimetergli a Romam a Piero Panciatichi, che fa cholla s. vostra, poi gle (gre, ms.) renderebe a questo mio nipote. meser manfredi credo sia vicentino. Preghovi, s. mio, che mi perdoniate s’io (ò) preso sicurtà cholla s. vostra, ch’è l’afezione grande, e sentendo che l’opera mia vi piacque del sepo(l)ch(r)o de Papa sisto. Vostro servidore antonio del Pollaiolo in Roma». antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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rico di montefeltro con Francesco sforza, Virginio orsini voleva presentarsi come il nuovo Principe-condottiero che nelle ristrutturazioni del suo castello traeva spunto dai disegni realizzati da antonio del Pollaiolo per il duca di urbino, un personaggio che, seppur a capo di un piccolo territorio, era stato il grande capitano del suolo italiano ed aveva avuto stretti legami con Giuliano della Rovere. cavallaro ha messo in evidenza che due sale del castello di bracciano sono state affrescate nello stile del Pollaiolo: la sala erroneamente chiamata in passato “del Pisanello”, dove sono presenti figure mitologiche, e la sala di ercole, dove sono rappresentate le imprese dell’uomo-dio. Riteniamo di poter individuare un ulteriore riscontro dell’interesse di Virginio orsini per le commissioni federiciane in un particolare del fregio della sala di isabella al castello di bracciano; il putto assiso su un fiore ha caratteri comuni con il corrispondente miniato nella bibbia di Federico. 2) nel 1984 fu trafugata una Pala d’altare dalla chiesa di santa maria della salute a buggiano castello; l’opera è stata recuperata dai carabinieri del nucleo addetto alla tutela del patrimonio artistico nel maggio 2013. La Pala raffigura la madonna in trono, con il bambino sulle ginocchia, contornata dai santi, olio su tavola di dimensioni 158/14; nella scheda della soprintendenza è classificata come appartenente alla scuola fiorentina del secolo xV. L’opera mostra sicuri riferimenti alla Pala Montefeltro, tra cui i più significativi sono la disposizione rovesciata della conchiglia dell’abside e il volto del santo in secondo piano alla destra della Vergine, che appare derivato dallo stesso disegno di un angelo della tavola di brera. se analizziamo il santo in primo piano sempre alla destra di maria vi riconosciamo lo stesso stile delle figure del Parato di san Giovanni, opera intessuta sotto la guida dei disegni di antonio del Pollaiolo. La Pala di buggiano è datata 1498, l’anno di morte di antonio del Pollaiolo; vediamo quale possa essere il trait d’union tra il maestro fiorentino e il dipinto. antonio del Pollaiolo, dopo il trasferimento a Roma, nei suoi rientri a Firenze si recava presso i propri possedimenti di Poggio a caiano, un paese distante una ventina di chilometri da buggiano. È verosimile che per concepire la Pala d’altare per la chiesa di buggiano l’artista, di non eccelso calibro, si sia rivolto ad antonio del Pollaiolo chiedendogli di poter accedere a suoi disegni nella consapevolezza che il maestro antonio era l’autore della prestigiosa Pala Montefeltro. ancora nel 1495 il Pollaiolo è documentato a Firenze, per cui ci sono tutte le prerogative perché proprio dalla consultazione dei suoi disegni sia stata concepita l’opera di buggiano. Iconografia Pagine 188-194, figure 25-41

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ragioni storiche e ragioni stilistiche per l’attribuzione ad antonio del pollaiolo dell’annunciazione degli uffizi attribuita a leonardo da vinci

la storia delle attribuzioni il dipinto è in mostra agli uffizi dal 1867, trasferitovi dalla chiesa di san bartolomeo a monte oliveto a Firenze, quando, con l’unità d’italia, i beni ecclesiastici furono incamerati dallo stato italiano. non esistono citazioni del dipinto fino al 1793, anno in cui moreni lo descrive nel refettorio del convento di san bartolomeo a monte oliveto in Firenze come opera del Ghirlandaio73; una guida della città del 1841 ne riconfermava l’attribuzione all’artista fiorentino e la sua collocazione nel refettorio del monastero74. una volta agli uffizi, iniziò la controversia attributiva tra sostenitori e avversari della paternità di Leonardo; fu Liphart per primo che spinse perché la Galleria assegnasse il dipinto al Vinci, trovando il consenso di bode75 e muller-Walde76, mentre morelli77e cavalcaselle proposero addirittura Ridolfo Ghirlandaio, figlio di domenico, nato nel 148378; l’attribuzione, di per sé insostenibile, è interessante perché sposta comunque in avanti la datazione del dipinto rispetto a quanto oggi è unanimemente accettato (1472-75). Frizzoni riconobbe Leonardo nell’arcangelo e Lorenzo di credi in maria79. berenson si pronunciò per il Verrocchio ma poi, pentito, accettò l’attribuzione al Vinci80, che accolse il favore anche di Venturi, autore di una poetica e significativa lettura dell’opera: «L’annunciata, gentildonna fiorentina, ascolta in un giardino il messaggio d’amore d’un soave gionivetto che, piegato un ginocchio innanzi a lei, parla tra il silenzio dei cipressi e degli abeti, mirandola con occhi pieni di dolcezza. né si ritrae intimorita, né abbassa ella

73 d. moreni, Notizie istoriche dei contorni di Firenze. Parte IV. Dalla Porta a San Frediano fino al Ponte a Greve, Gaetano Gambiagi stampatore, Firenze 1793, p. 161 n. 1. 74 anonimo, Notizie e Guida di Firenze e de’ suoi contorni, tip. G. Piatti, Firenze 1841, p. 449. 75 W. bode, Die Italienischen Shulpturen der Renaissance in der Koniglichen Museen, in Jahrbuch der loniglich Preussischen Kunstsammlungen, iii, berlin 1882, pp. 255-257. 76 P. muller-Walde, Leonardo da Vinci. Lebenkizze und Forschungen uber sein verhcaltniss zur Florentiner Kunst und zu Rafael, hirth, münchen 1889, pp. 38-40. 77 morelli esprimeva meraviglia che il bode attribuisse entrambe le Annunciazioni del Louvre e degli uffizi a Leonardo, considerando quest’ultima nettamente inferiore. G. morelli, Le opere dei maestri italiani nelle Gallerie di Monaco, Dresda e Berlino, zanichelli, bologna 1886, pp. 353-356, n. 3. 78 J. a. crowe, G. b. cavalcaselle, A New History of paintings in Italy. iii, edward hutton, London 1866, p. 522. 79 G. Frizzoni, I nostri Grandi Maestri in relazione al quinto capitolo dei disegni di Oxford, in “L’arte”, x. 2. 1907, pp. 83-84. 80 b. berenson, The Florentin Painters of the Renaissance, G. P. Putnam’s sons, new york and London, p. 60. id, Verrocchio e Leonardo, Leonardo e Credi, in “bollettino d’arte”, xxVii. 5. 1933, pp. 193-205.

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il puro sguardo di madonna, e solo per meraviglia leva un poco la mano sinistra»81. Lo scritto ha i connotati di un presagio: Venturi non poteva spingersi oltre, ma aveva intuito che il dipinto sottintendeva qualcosa di molto più terreno dell’annunciazione del Verbo incarnato. colvin, all’inizio del novecento, trovò in un disegno di Leonardo una corrispondenza diretta con il braccio dell’arcangelo dell’Annunciazione, deducendone di aver in mano la prova definitiva della sua paternità82. calvi, fine studioso di Leonardo, dapprima ne accettò l’attribuzione, ma molti anni dopo tornò decisamente al Ghirlandaio con un lungo e qualificato articolo; il suo fu un comportamento analogo a quanto fece Venturi con la Pala Montefeltro, che condivise dapprima l’assegnazione a Piero del Francesca, per tornare decisamente, dopo circa vent’anni, alla storica paternità di Fra carnevale. calvi scrive che lo studio quasi ossessivo del particolare operato nel dipinto degli uffizi non appartiene alle esternazioni artistiche del Vinci; il critico si sofferma in particolare sul disegno leonardesco del braccio dell’arcangelo per sostenere che si trattava non di un lavoro preparatorio al dipinto ma di una sua derivazione, come si evince dalle seguenti considerazioni: viene disegnata una parte di braccio senza mano né testa mentre sul torace cade la definizione, come a voler puntualizzare un preciso elemento di grande valore artistico presente in un dipinto già realizzato; ancora, lo svolazzo dei laccioli al braccio viene modificato nel disegno rispetto al dipinto, come a volerne dare una interpretazione personale più corretta83. Portato come prova della paternità di Leonardo, il riferimento diviene la testimonianza di un suo studio approfondito sul dipinto come farebbe un allievo emancipato che prende dettagliatamente in esame un’opera del suo maestro. in quest’ottica, debbono essere inquadrati il disegno del manto della Vergine locato al Louvre (sempre che sia opera di Leonardo) ed il disegno evidenziato da Pedretti, di un volto di giovane, che è decisamente corrispondente al volto di maria dell’Annunciazione nel suo primo impianto come appare all’esame radiografico; la trasformazione di un volto femminile in uno maschile è nuovamente prova dello studio operato su un dipinto già impostato, e ci fornisce al tempo stesso un ulteriore, importante elemento investigativo: Leonardo, avendo ripreso il primitivo impianto del volto della Vergine, ebbe accesso al disegno preparatorio seguendo, quasi passo passo la realizzazione dell’opera, e con tutta probabilità, vi mise mano proprio come farebbe l’allievo ormai emancipato con il suo stimato maestro, che nella fattispecie non era il Ghirlandaio. heydenreich, altro grande studioso di Leonardo, espresse il suo dissenso sull’attribuzione dell’Annunciazione a Leonardo ribadendolo nel 1943 e nel 195484. Le solide argomentazioni dei due studiosi non hanno fatto cadere l’attribuzione al Vinci da parte della critica, ma con un certo numero di voci dissenzienti; clark ha accettato l’attribuzione a Leonardo ma, contraddicendo se stesso, ha dato dei giudizi che vale la pena di riportare a dimostrazione di quanto inadeguata sia stata sinora la lettura interpretativa del dipinto:

81 a. Venturi, Storia dell’Arte Italiana. VII. La Pittura del Quattrocento, Parte i, hoepli, milano 1911, pp. 820-823. 82 s. colvin, Drawings of the Old Masters in the Universety Galleries and in the Libraries of Christ Church, charendon Press, oxford 1907, tav. 14. 83 G. calvi, Vecchie e nuove riserve nell’Annunciazione di Monte Oliveto, in Raccolta Vinciana, xiV, 1930-1934, pp. 201-239. 84 L. h. heydenreich, Leonardo, Remrandt, berlin 1943; id, Leonardo da Vinci, Remrandt, basel 1954, pp. 33-34.

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l’Annunciazione «manca dell’unità che è propria di un lavoro portato a termine in un unico slancio creativo» e addirittura: «La composizione è così goffa (sic!) che taluni studiosi non hanno esitato ad accusare il pittore di errori prospettici» e ancora: «Leonardo ha infatti commesso un errore nei rapporti spaziali facendo sì che la vergine ponga la mano più distante sul lato sinistro del leggio, il quale – lo deduciamo dalla base – è più vicino allo spettatore di quanto lo sia a Lei»85. in effetti ciò che appare incomprensibile nei giudizi della critica contemporanea è la determinazione con cui si sostiene la paternità del maestro di pittura di Vinci associata ad una indomita pervicacia nel voler trovare manchevolezze ed imperizie in un dipinto che, al contrario, è uno dei capisaldi della storia dell’arte, oltretutto realizzato nello stesso periodo in cui Leonardo ritrasse Ginevra benci, forse il suo capolavoro. Pedretti e natali hanno cercato di giustificare Leonardo per l’errore prospettico: il dipinto sarebbe stato fatto per essere osservato da destra; al contrario, come vedremo, l’osservatore, per poter usufruire appieno del dipinto, deve posizionarsi davanti all’opera, esattamente sulla linea centrale. di quanto scrive clark sulla Annunciazione riportiamo un passo finalmente condivisibile che riprenderemo in seguito: «Va osservato in proposito come l’ala dell’angelo sia stata allungata e portata così a dimensioni canoniche in virtù di una grossolana ridipintura che, simile a una chiazza giallo-scura, appare sospesa sull’incantevole paesaggio di sinistra». Passavant ha proposto una sintesi della lunga diatriba stilistica: Ghirlandaio ha fatto il disegno preparatorio e determinate parti pittoriche, mentre Leonardo avrebbe eseguito interventi estemporanei sull’opera. un tale compromesso deriva evidentemente dalle risultanze dell’esame radiografico che mettono in evidenza consistenti modifiche tra la stesura iniziale e quella finale; come vedremo, si tratta di deduzioni non corrette86. nel volume che fa da compendio della storia critica dell’opera, natali accetta risolutamente l’attribuzione a Leonardo, ma con molta onestà dichiara dubbi e incertezze su particolarità che esulano chiaramente dal modo di esprimersi del Vinci87. Quanto all’aspetto iconografico sono assolutamente superficiali le considerazioni di brown e cardile che giudicano tradizionale l’iconografia del dipinto88.

lo sfondo storico e la collocazione temporale del dipinto Ponendosi di fronte al dipinto si ha l’immediata sensazione che il centro motore dell’opera, dove per l’appunto convergono le linee prospettiche, sia la città marina sullo sfondo, i connotati della quale sono inequivocabilmente turcheschi, come si evince dalla presenza delle robuste bastie con le coperture all’orientale. sulle colline sovrastanti svetta una cattedrale cristiana, mentre a nord della cittadina è presente un

85 K. clark, Leonardo da Vinci. Storia della sua evoluzione artistica, mondadori editore, milano 1983, pp. 28-31. 86 G. Passavant, Verrocchio sculptures, paintings, and drawings, complete edition, London 1969, pp. 207-208. 87 a. natali, Dubbi, difficoltà e disguidi nell’Annunciazione di Leonardo, in, La Annunciazione di Leonardo, silvana editoriale, cinisello balsamo 2000, pp. 37-60. 88 P. J. cardile. Observations on the iconography of Leonardo da Vinci’s Uffizi Annunciation, in “studies of iconography”, Vii-Viii, 1981-82, pp. 189-208.

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lago che sfocia nel mare. come non riconoscere otranto nella cittadina marinara? oltre all’aspetto turchesco, rispondente ai dati storici, sulla collina prospiciente la città è raffigurata la cattedrale arcivescovile nella stessa posizione che ha oggi. sul lato sinistro del dipinto il lago che finisce in mare riproduce le condizioni geografiche della città salentina, per la presenza, a nord di una serie di laghi denominati alimini, che si affacciano sulla baia dei turchi, luogo dello sbarco del 1480. sul mare sono presenti imbarcazioni dotate di basso pescaggio, le uniche in grado di affrontare i bassi fondali, la principale difesa di otranto dagli attacchi navali. Gli elementi sono fin troppo identificativi e non consentono ipotesi alternative: si tratta di otranto attaccata ed occupata dalle armate di achmet Pascià, generale di maometto ii, nel periodo luglio-settembre del 1480. una volta espugnata la città, i turchi fecero strage degli abitanti, operarono saccheggi in tutte le zone limitrofe, modificarono le numerose torri e le costruzioni fortificate esistenti dando loro aspetto turchesco, ne innalzarono di nuove secondo il loro stile. La città del dipinto appare con tali sembianze ed è posta alla convergenza delle linee prospettiche proprio perché rappresenta la finalità dell’opera, realizzata nel 1481 con il preciso intento di evocare un’azione armata comune di tutti i governi italiani per liberare il suolo italico dal pericolo di un’espansione ottomana. sorge immediatamente una domanda: un pittore fiorentino come può aver realizzato così fedelmente le condizioni geografiche di quei luoghi? in una lettera di istruzioni per il senato Veneto del dicembre 1480 Federico di montefeltro scriveva di avere davanti a sé la pianta particolareggiata di otranto realizzata, per disposizione papale, direttamente in loco sotto la direzione di Giordano orsini, proprio in funzione di un attacco liberatore: «la santità del nostro signor mandò lo magnifico iordano orsino ad otranto perché vedesse le condition de quella terra et de lo campo de la maestà del Re, considerasse lo sito e referisse la facilità et la difficultà che li paresse in la expugnatione et recuperatione de otranto», aggiungendo che «lo qual magnifico Jordano […] è venuto a mi et hami referito, cum lo desegno de la città de otranto inanzi, la opinion sua, a la qual cum grande raxone io me conformo, che quella cità, quando se fessene le debite provisione, che se poriano fare et che non sono fate fin qui, molto facilmente se recuperarìa […] et, ben che io me vergogni a dirlo, ziaschaduno, et in specie la dicta maestà mostra desiderar la mia andata, sopratuto cum speranza che se ne dovesse havere presto honore»89. Federico di montefeltro, che all’epoca era in ambasce per il dover scegliere tra la Lega napoli-Firenze-milano e quella che si delineava tra Roma e Venezia, nella stessa lettera dichiarava di essere oggetto di forti pressioni, in primis da parte dei reali napoletani, affinché prendesse il comando delle operazioni per la campagna di otranto. La fazione filo-napoletana di Firenze ispirata dai Gondi e dagli strozzi, recentemente rimpatriati, premeva perché la Repubblica Fiorentina si impegnasse almeno economicamente nell’impresa, che avrebbe dovuto salvare il Regno di napoli e l’italia intera. in questo contesto si collocavano la commissione e la realizzazione della Annunciazione: il 25 marzo era l’inizio dell’anno a Firenze e l’annuncio del Verbo incarnato che nel dipinto assumeva i caratteri del proclama, garante Giuliano Gondi, di un accordo tra i 89 V. zacchino, La guerra di Otranto del 1480-1481, in Otranto 1480, atti del convegno, ii, congedo, Galatina 1986, pp. 278-279, nota 58.

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Lorenzo e il Re di napoli che avrebbe facilitato il consenso papale nel sollecitare Federico a che prendesse il comando delle operazioni militari contro i turchi invasori. sisto, nel timore che un capitano così potente potesse sposare definitivamente la causa del Re di napoli e della Lega, cambiò immediatamente strategia e, dopo aver più volte cercato di dissuadere Federico dal cimentarsi in quell’impresa, con una breve lo fermò, quando questi aveva già preso la via di otranto e si trovava nei pressi di Recanati, ricordandogli che era il vicario papale nelle marche e pertanto doveva rimanere a difendere il suo territorio da un eventuale attacco turco proveniente da Valona. il duca, di fronte all’ordine papale, rientrò ad urbino inviando ad otranto il suo architetto militare scirro scirri per programmare l’assedio della città. Gli eventi riportati inducono a consequenziali deduzioni: se Federico di montefeltro aveva in mano il disegno da cui sarebbe stata derivata con tale rispondenza geografica l’Annunciazione, è evidente il suo coinvolgimento con l’opera ed è altrettanto evidente che la Villa dalla tipologia fiorentina ivi raffigurata rappresentava, per gli intendimenti stessi del dipinto, il suo possesso di Rusciano in Firenze, di cui divenne proprietario, come abbiamo veduto, per volontà di Lorenzo de’ medici dopo la vittoriosa impresa di Volterra. nella primavera del 1481 parve prospettarsi il momento unitario dei potentati italiani verificatosi nel ’72 il cui riferimento ci è di grande aiuto per l’interpretazione del dipinto; la Villa fiorentina porta direttamente alla cittadina turchesca sul mare perché per Federico, sia direttamente sia indirettamente tramite le disposizioni date ai suoi architetti militari, era la strada maestra per la liberazione di otranto: le bugne enormi che opprimono maria, non sono che cartelli indicatori in direzione della città salentina. il posizionamento di otranto al centro del dipinto non era tuttavia sufficiente, agli occhi dell’artista, ad enfatizzare nel modo dovuto l’importanza della spedizione militare. seguendo il principio ficiniano secondo cui l’arte, per offrire compiutamente il proprio messaggio, può servirsi anche dell’illusione, antonio pone un palcoscenico al centro del dipinto dove il muro della Villa sul retro piega inverosimilmente per unirsi con un cipresso a formare una quinta, mentre la fila degli alberi costituisce il sipario e il muro di cinta oltremodo largo fa da proscenio90. sul palco salgono per l’appunto otranto e le montagne; la scena teatrale, così concepita, cancella le critiche relative all’erronea altezza dei cipressi e all’eccessiva larghezza del muro, che ha anche la funzione di separare fisicamente Firenze dalla costa salentina. La diffusione del teatro si sviluppò particolarmente, per l’appunto, nel secondo Quattrocento; l’anno precedente alla realizzazione del dipinto, agnolo Poliziano si era allontanato da Firenze e si era recato a mantova; quivi il cardinale Francesco Gonzaga commissionò all’umanista la favola pastorale Orfeo un dramma poetico in volgare atto alla recitazione teatrale in cui figuravano interludi musicali, oggi perduti, che celebravano la magia del canto di orfeo; il poema ha una grande importanza nella storia del teatro perché da un lato fa rivivere nel modo più consono il dramma greco e dall’altro è l’antesignano dell’opera lirica italiana sviluppatasi all’inizio

90 uno scritto di Pedretti è poeticamente illuminante in proposito: «… la veduta d’una città portuale disposta in una scenografia fiancheggiata dagli ultimi due cipressi alla quale concorre anche lo scorcio prospettico della parete dell’edificio e quello dell’ampio parapetto». c. Pedretti, Leonardo, capitol, bologna 1979, pp. 21-22.

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del seicento con l’Euridice di Peri (1600 ca.) e la stessa Favola di Orfeo di monteverdi (1607). Poliziano, in una lettera a carlo canale, scrive di aver dovuto comporre in due giorni la favola pastorale, utilizzando il volgare perché potesse essere compreso dagli spettatori; dalla lettera si evince quindi che il dramma fu rappresentato a mantova91. il momento era estremamente propizio per il connubio delle arti figurative con gli spettacoli teatrali accompagnati dalla musica: il neoplatonismo rinascimentale era il cerimoniere di un’unione che trovava mirabile esaltazione nelle tarsie degli studioli di urbino e di Gubbio dove troneggiavano i liuti. L’inserimento nell’Annunciazione di una scena teatrale era pertanto strettamente collegato al trend umanistico del tempo. dietro la cittadina svettano montagne rocciose e scoscese; la prima di esse mostra delle scanalature che la rapportano decisamente ad una struttura vulcanica. il secondo elemento disposto sul palcoscenico è per l’appunto la catena montuosa sullo sfondo del dipinto, le cui caratteristiche sono, o meglio erano, tutt’affatto particolari prima del restauro dell’anno 2000. in primo piano si osserva un monte, come abbiamo detto, dalle caratteristiche vulcaniche; al di dietro e al di sopra di esso un altro monte, dalle caratteristiche inequivocabilmente antropomorfe: l’aspetto è quello di una donna con un velo in testa che, seguendo i contorni montuosi, diviene un lungo manto; sul lato sinistro della figura antropomorfa (alla destra di chi guarda) una nuova estroflessione della roccia vuol rappresentare con sufficiente chiarezza un libro tenuto sotto il braccio. il riconoscimento del personaggio e il messaggio di cui questi è latore nel dipinto, necessitano di un approfondimento letterario. tra il 1472 e il 1474 cristoforo Landino scrive le Disputationes Camaldulenses di cui abbiamo trattato ma che qui riassumiamo nuovamente: si tratta di un’opera in quattro libri che trae ispirazione dalle Tusculanae Disputationes di cicerone per poi divenire un’esaltazione di Federico di montefeltro, dedicatario dei quattro libri; il capitano di ventura rinascimentale che realizzava la suprema sintesi dell’ozio letterario e l’impegno civile. il primo libro tratta della disputa immaginata a camaldoli nel 1469 tra Lorenzo de’ medici e Leon battista alberti sul primato tra vita attiva e vita contemplativa; nel secondo libro Ficino, trattando del sommo bene, assegna il primato alla vita contemplativa. il terzo e il quarto libro delle Disputationes trattano delle Allegorie di Virgilio, ma anche in questi libri viene ripreso il concetto del sommo equilibrio tra l’azione e il pensiero trasponendo il concetto nel mito di enea con il suo soggiorno a cartagine e l’ascesa ai campi elisi; il legame spirituale dell’eroe virgiliano con il condottiero dei tempi moderni è di estrema importanza nella lettura della Annunciazione. nel quarto libro delle Disputationes viene riportata la profezia della sibilla, fatta ad enea; la sua vittoria su turno, Re dei Rutuli, gli sponsali con Lavinia figlia del Re Latino, e la fondazione dell’impero. nella realizzazione del dipinto antonio del Pollaiolo riprese la profezia della sibilla, fedelmente riportata nelle Disputationes, trasponendola dall’eroe mitologico vincitore su turno all’eroe rinascimentale vincitore sul turco. nel dipinto la sibilla sovrasta il vulcano perché profetizza la vittoria delle armate capitanate da Federico sul turco invasore che impediranno appunto la fuoriuscita dall’ade di Plutone (maometto) e dei suoi demoni (l’esercito turco).

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asm, affari di Firenze exxViii, 3, busta 1101, c. 58. antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

si può obiettare che la sibilla stazionava nei campi Flegrei, dove non sono riscontrabili le caratteristiche montuose del dipinto. nelle Disputationes si legge che enea sale su un monte contornato a sua volta da una catena montuosa: colà si trova la sibilla. antonio considerava le Disputationes una sorta di suo breviario artistico per cui nella descrizione dei luoghi dove stazionava la sibilla non si attiene alla reale situazione geografica, che forse non conosceva, ma a quanto scritto nell’opera di Landino92. La conferma all’interpretazione è nel dipinto: vi si osserva, davanti alla montagna vulcanica, in basso, un’apertura nella roccia di enormi dimensioni: è l’antro menzionato nelle Disputationes, che rappresenta la porta dell’ade nel mito. in sintesi, nel dipinto vengono rappresentate in progressione tre identità geografiche: in primo piano Firenze con la Villa di Rusciano, quindi otranto con l’ambiente marino che la circonda e sullo sfondo i campi Flegrei non nella loro realtà geografica ma come descritti nelle Disputationes Camaldulenses. L’esame dei due soggetti, che a prima vista rappresentano gli elementi fondamentali del dipinto, evidenzia problematiche disarmanti; maria, ingabbiata tra le enormi bugne del Palazzo, è raffigurata con la testa troppo piccola rispetto al corpo e le gambe troppo corte rispetto al tronco; disposta non frontalmente all’angelo, ma di tre quarti, non tradisce né stupore né dimessa accettazione, ma un atteggiamento del volto che, nelle foto precedenti al restauro del 2000, piega blandamente al sorriso: la mano destra indica risolutamente il testo profetico; la mano sinistra, arretrata e sollevata, più che il volersi schermire sembra voler salutare. il leggio non è complanare al corpo di maria, ma avanzato verso lo spettatore, sì che l’arto superiore destro è obbligato ad allungarsi enormemente per raggiungere il manoscritto, quasi ad infrangere i dettami anatomici. L’arcangelo Gabriele, come scrive Venturi, ha le sembianze di un giovinetto portatore di un messaggio d’amore; il suo volo è stato per certo avventuroso perché sospinto da una sola ala, per di più allungata, come asserisce correttamente clark, in epoca molto posteriore: l’abbozzo della seconda ala è anch’essa un’aggiunta successiva; l’esame radiografico eseguito a raggi molli mostra ancora la presenza dell’ala che a raggi duri scompare, permettendo di evidenziare la pittura sottostante, direttamente collegata alle strutture limitrofe. i due soggetti principali di tutte le Salutazioni Angeliche nella tavola degli uffizi debbono essere intesi come componenti di un annuncio (La pace tra Firenze e il Re di napoli) e non come soggetti dell’Annunciazione del Verbo incarnato. Passando ad analizzare il tavolo che sorregge il leggio, notiamo che si tratta di un’ara pagana di pregiata e particolareggiata fattura; lascia perplessi la posizione di un tale nobile arredo non sul pavimento del loggiato, ma su un prato inverosimilmente ricolmo di una gran varietà di splendidi fiori, realizzati con grande dovizia di particolari ma privi di riscontri botanici in natura. L’ara, non importa se pagana, è pur sempre un riferimento a Roma e quindi, per traslazione simbolica, al papato. Le critiche rivolte al dipinto, relativamente ad errate impostazioni prospettiche, cadono pertanto di fronte ad un’adeguata let-

92 «… cuius exemplum secutus civis noster danthes, cum ab ignoratione rerum ad veri cognitionem progressum ponit, se ex nocte silvaque egressum montem, cuius iuga sole illustrata sint, ascendere testatur. addit praeterea antrum ibi esse sibyllae: Quem quidem locum ut dilucidius exprimamus, pauca pius de sibylla percorra, mox ad rem, de qua agitur, redibo…». Disputationes Camaldulenses, op cit.

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tura simbolica: l’intento dell’artista è quello di porre l’ara in primo piano rispetto a maria, in una vista tridimensionale di carattere “cinematografico”, perché sisto iV assuma la massima evidenza. È lo stesso effetto 3d che si riscontra nella Madonna di Senigallia e nell’affresco di Democrito ed Eraclito, della Pinacoteca di brera, ottenuto, nel caso dell’ara disponendo in piani diversi il leggio e l’emi-lato superiore destro del corpo di maria. il braccio destro si allunga al limite e forse oltre le sue caratteristiche anatomiche e funzionali per “lanciare” – ancora un’accezione che trascende quella puramente fisica – la poderosa ara verso lo spettatore; le gambe troppo corte di maria hanno tale conformazione proprio per “scomparire” dietro l’ara. il tutto può apparire quasi blasfemo, ma trova giustificazione nel trend filosofico-religioso del secondo Quattrocento. Ficino e il suo circolo neoplatonico avevano un concetto tutto personale della religione, spesso asservita al messaggio filosofico e in commistione con il recupero mitologico, le influenze astrali, l’esaltazione del primato dell’uomo; tutto ciò poneva ciclicamente il neoplatonico sotto la scure della scomunica e della condanna per eresia. scendendo più in dettaglio, nell’analisi dell’ara si rileva che nelle immagini precedenti al restauro del 2000, e più evidentemente all’esame riflettografico, le foglie d’acanto del tavolo assumono nella terminazione verso l’alto, sul lato sinistro di chi guarda, l’aspetto della testa di un rapace: è l’aquila, rappresentazione araldica del vassallo dell’imperatore, Federico di montefeltro, Gonfaloniere di santa Romana chiesa, colui che secondo i desiderata espressi nel dipinto avrebbe dovuto guidare la spedizione di otranto; disposto sotto il piano del tavolo, il rapace non può rappresentare né l’aquila di Roma né l’aquila imperiale, ma l’elemento principale caricato sullo stemma di Federico di montefeltro, il capitano di Ventura che può salvare la chiesa e l’italia. Federico viene rappresentato non soltanto dalla parte di Roma ma anche dalla parte di Firenze perché l’arcangelo vola con un’ala, simbolicamente, come vedremo, sempre riferibile a Federico; sono gli intendimenti dei Gondi, degli strozzi e del duca di urbino: unire un riluttante Lorenzo a sisto nella lotta contro i turchi e, più in generale, nel destino d’italia, chiudendo definitivamente lo scontro aperto con la congiura dei Pazzi. Per quanto riguarda il giglio in mano a Gabriele, al riferimento simbolico della purezza di maria se ne deve aggiungere uno araldico: è Firenze, di cui l’arcangelo messaggero annuncia la partecipazione quantomeno finanziaria alla crociata. maria e Gabriele sono in funzione del dipinto e non viceversa; l’annunciazione del Verbo incarnato è solo apparente, mentre nella realtà si tratta di un annuncio e di una salutazione non soltanto angelica ma anche mariana; Gabriele annuncia l’ingresso di Firenze nella crociata capitanata da Federico; maria risponde, con lo sguardo che piega blandamente al sorriso, salutando la partenza con la mano sinistra che è appunto ruotata rispetto all’avambraccio, come nel gesto del salutare, mentre la mano destra indica la profezia della futura vittoria del contingente cristiano sull’impero ottomano, trasmutando la profezia di isaia dell’incarnazione. dobbiamo ovviamente dare risposta al perché maria sia stata posta in subordine rispetto all’ara; il personaggio che ella impersona svolge in realtà un doppio ruolo: la Vergine e l’italia. Lo sfondo storico in cui abbiamo inserito il dipinto ci suggerisce proprio questo. L’intervento militare dei potentati italiani contro il turco invasore avrebbe dovuto essere autonomo, evitando l’intromissione di Francia e impero, che aspiravano a condizionare il Papato, e con esso gli stati d’italia. come non rivolgere il pensiero al Lamento d’Italia per la presa di otranto di Vespasiano da bisticci e fors’anche al Canzoniere di Petrarca («italia mia benché il parlar sia in82

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darno…»), cui antonio del Pollaiolo potrebbe aver rivolto un pensiero, avendo miniato per Lorenzo il magnifico la coperta di un manoscritto con le rime petrarchesche, oggi giacente alla biblioteca nazionale di Francia? Resta da interrogarsi sul significato recondito dell’immagine del prato ricolmo di fiori realizzati con grande dovizia di particolari ma inesistenti in natura, tanto meravigliosi quanto non vitali. L’eccessivo, innaturale numero di fiori, la loro irrealtà, l’ara non sul pavimento del loggiato, ma in mezzo ad essi, tutto deve avere un significato; nell’opera di antonio del Pollaiolo nulla è lasciato a caso. si tratta di una simbologia, alla lettera, sovrannaturale. il pensiero corre, al primo impatto, ai caduti di otranto, rappresentati alla stregua di martiri, uccisi per non aver rinnegato la fede, secondo le ricostruzioni storiche posteriori. La mancanza di documenti che attestino la diffusione già nel marzo del 1481 delle notizie sul martirio rende problematica l’identificazione dei morti con la distesa di fiori nell’Annunciazione. L’ara (sisto iV) in mezzo ai fiori lascia ipotizzare, in seconda istanza, che si tratti della santa benedizione del Papa ai crociati che avrebbero combattuto e perso la vita per salvare la fede cristiana dall’attacco ottomano.

il fare e il messaggio di antonio del pollaiolo La tavola degli uffizi rappresentò la mirabile fonte d’ispirazione per il monumento funebre di sisto iV, di cui antonio del Pollaiolo ebbe la commissione nel 1484, propugnatore Giuliano della Rovere, il cardinale di san Pietro in Vincoli, nipote di sisto iV e fratello di Giovanni della Rovere, lo sposo di Giovanna Feltria. nel sepolcro papale viene enfatizzata una delle grandi imprese di sisto: l’aver perseguito ed ottenuto la cacciata dei turchi dall’italia senza sconvolgimenti dei poteri costituiti. il risvolto storico ci dà le ragioni per cui nel sepolcro papale ritroviamo gli elementi cardine dell’Annunciazione: l’ara del dipinto si ritrova, con le sue volute, praticamente in tutte le formelle del monumento funebre; ciò rappresenta una conferma di quanto abbiamo testé sostenuto a proposito dell’identificazione di un altare della Roma pagana con la figura di sisto iV. L’arcangelo Gabriele tiene il giglio nella mano sinistra con la stessa disposizione con cui la Dialettica nel sepolcro papale tiene il ramo di quercia; abbiamo sostenuto che il giglio non è nella fattispecie soltanto un riferimento simbolico alla immacolata concezione di maria, ma un riferimento araldico a Firenze; la conferma anche in questo caso ce la offre proprio la Dialettica, in cui il ramo di quercia fa un paritetico riferimento araldico al casato di Papa della Rovere. analizzando in particolare la formella della Dialettica, possiamo riconoscervi un eclatante elemento di connessione con il dipinto degli uffizi. La disposizione del braccio e della mano destri nella scultura è praticamente sovrapponibile a quella di maria nel dipinto e vale quanto una firma indelebile sull’Annunciazione; d’altronde la soluzione artistica è primariamente pollaiolesca, come si evidenzia nella Giustizia delle Virtù del tribunale della mercanzia dei fratelli Pollaiolo di fine anni ’60; disposizioni degli arti analoghe a quelle dell’Annunciazione le riscontriamo ancora nel sepolcro papale nelle formelle di Giustizia, Retorica e Prospettiva; in quest’ultima arte è presente sopra al tavolo un supporto che richiama quello su cui poggia il leggio di maria nell’Annunciazione. La testa della Vergine, giudicata troppo piccola rispetto al corpo, è in linea con il gusto artistico del tempo ed è direttamente rapportabile alle Virtù del tribunale della mercanzia dei antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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fratelli Pollaiolo; l’usanza un po’ maschilista del tempo induceva a realizzare gli uomini con la testa sovradimensionata, perché ad essi spettava il pensiero, mentre nelle donne era privilegiata la raffinatezza dell’aspetto esteriore. calvi ha correttamente sostenuto che il volto dell’arcangelo Gabriele è applicato come una maschera sul collo, e l’analisi dell’esame riflettografico conferma tale impostazione nel disegno originario; è il modo tipico di antonio del Pollaiolo di realizzare i volti, come si può facilmente evidenziare nelle Virtù e le Arti del sepolcro di sisto iV dove è riconoscibile l’intervento diretto di antonio. nell’ara dell’Annunciazione, come abbiamo veduto, il rapace realizzato con il gioco dei fogliami sotto il tavolo fa riferimento all’aquila federiciana, realizzata con le ali aperte con un formidabile espediente: la foglia che rappresenta l’ala sinistra dell’aquila mostra la luce riversarsi sulla sua metà inferiore, cosicché la metà superiore scompare e si crea l’immagine visiva del rapace con le ali aperte; sulla parte destra, la foglia corrispondente è messa nella stessa posizione di quella di sinistra, ma la luce investe la metà superiore. orbene, nel sepolcro papale, al di sotto del tavolo nella formella della Filosofia, si ritrova parimenti l’aquila federiciana posata su un festone sorretto da due putti. La disposizione dell’aquila nel dipinto e nel monumento funebre ha un preciso significato; si vogliono mettere in evidenza i due aspetti tanto celebrati della personalità di Federico di montefeltro: la religio nell’ara (sisto iV) e la filosofia nella relativa formella del monumento funebre. se la cura quasi ossessiva del particolare, rilevabile nel dipinto, risulta inconciliabile con il modus stilistico di esprimersi di Leonardo da Vinci, la deviazione oculare del volto di maria (exotropia e ipertropia dell’occhio destro) costituisce una delle due “firme” di riconoscimento di antonio del Pollaiolo, i cui procedimenti pittorici hanno ulteriori conferme nell’indagine radiografica: l’arcangelo Gabriele mostra all’esame Rx una prima stesura a tempera del volto, cui è seguita una modifica ad olio che ha comportato un arretramento dei lineamenti; una correzione che non è da intendere come i comuni cambiamenti operati nelle stesure finali da molti pittori. nel volto di Gabriele lo spostamento avviene secondo una peculiare tecnica scalare; tale procedimento, quasi personale, si riscontra nell’arretramento dei volti del duca di urbino e del suo deferente interlocutore sulla tavoletta che fa da piatto anteriore delle Disputationes Camaldulenses: l’interlocutore di Federico, come dimostra il raffronto con la sua maschera funeraria, è antonio del Pollaiolo, che si è autoritratto insieme al “suo” duca per disposizione di questi. il piatto anteriore del cod.urb. Lat. 508 ci fornisce ulteriori elementi di indagine; i due personaggi, ritratti su tavola, sono contornati da una pergamena su cui è dipinta una finestra, dal balcone della quale, penzola un tappeto orientale. il codice, quando fu donato da Landino al duca nel ’74, non conteneva i due ritratti, che furono evidentemente inseriti per volontà di Federico dopo che questi si recò nel 1481 a Firenze e visionò l’Annunciazione a lui illustrata nelle connessioni con le Disputationes. Federico, disponendo che il doppio ritratto fosse inserito nel codice, elevava il rango di antonio del Pollaiolo a dignitario di corte; la risposta di antonio del Pollaiolo al grande onore ricevuto fu di inserire il tappeto appeso alla finestra a prefigurare la vittoria delle armate cristiane, capitanate dal duca, sul nemico ottomano simboleggiato dal tappeto orientale. Quanto ad altri riferimenti con opere di sicura mano pollaiolesca segnaliamo i legami tra il volto dell’arcangelo Gabriele e quello di apollo nella tavoletta di Apollo e Dafne della national Gallery: l’avvicinamento del piccolo dipinto all’Annunciazione contribuisce, se mai ve ne fosse bisogno, a dissipare ogni dubbio sulla paternità di antonio del Pollaiolo e non del fratello Piero, sulla tavoletta di Londra, il cui punto di osservazione per la realizza84

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zione del paesaggio è proprio dalla zona di Rusciano. se il volto di apollo, dell’Apollo e Dafne, e il volto dell’arcangelo Gabriele, dell’Annunciazione sono sovrapponibili, le due rispettive opere risultano incardinate alla mano di antonio. Gabriele ha il volto di apollo, dell’Apollo e Dafne, non soltanto per l’unitaria matrice stilistica ma per un preciso intendimento: dietro Gabriele doveva celarsi apollo, il dio ispiratore della sibilla, ricordato insieme ad essa nelle Disputationes. apollo era la divinità mitologica prediletta da Lorenzo il magnifico, che quasi vi si riconobbe: scrisse Apollo e Pan, si procurò l’incisione su corniola di Apollo e Marsia e fece dipingere al Perugino l’Apollo e Dafni oggi al Louvre. dando a Gabriele il volto di apollo, il Pollaiolo inseriva in realtà nel dipinto Lorenzo il magnifico, che con il giglio di Firenze in mano si presentava all’appuntamento di pace con l’ara (sisto iV) per concorrere alla crociata che avrebbe dovuto salvare la cristianità, sotto la guida di Federico di montefeltro. il riconoscimento di Lorenzo de’ medici nella figura dell’arcangelo Gabriele ci consente di spiegare perché questi è stato dipinto con un’unica ala: a differenza di altri grandi artisti del Rinascimento, il non finito mancava nel vocabolario di antonio del Pollaiolo, le cui prerogative erano rapidità, completezza, perfezione; dobbiamo pertanto focalizzare le cause della presenza di una sola ala. La seconda ala è stata chiaramente inserita ad arte, con tutta probabilità agli inizi del cinquecento, da mano molto esperta, per farla apparire come parte incompiuta del dipinto. L’Annunciazione era un dipinto destinato alla Villa di Rusciano dove veniva contemporaneamente costruita una grandiosa cappella di cui, come abbiamo scritto, rimane il fregio del portale con due putti alati reggenti una ghirlanda al centro della quale è posta l’impresa dello struzzo di Federico di montrefeltro. il fregio celebrava, secondo le indicazioni delle Disputationes Camaldulenses, la mirabile sintesi delle due componenti fondamentali della personalità del duca di urbino: la contemplazione, rappresentata dal putto posto alla sinistra dell’osservatore (legami con la Dialettica del monumento funebre di sisto iV), e l’azione, rappresentata dal putto alla destra dell’osservatore (legami con il Guerriero del bargello); l’ala di Gabriele, depurata delle sovra-ammissioni, è del tutto simile a quella del putto del fregio che impersona la vita contemplativa. troviamo un importante riscontro a quanto sopra nel manoscritto della Historia Florentini Populi di Poggio bracciolini donata dal figlio Jacopo a Federico di montefeltro; si tratta del cod. urb. Lat. 491 della biblioteca apostolica Vaticana, in cui il foglio di guardia presenta un dipintominiatura da attribuirsi ad antonio del Pollaiolo, che mostra in primo piano Lorenzo sul cavallo di Federico e alle spalle la città di Volterra dopo l’impresa del ’72. orbene, sulla coperta del cavallo di Federico è dipinta un’ala che non appartiene all’iconografia federiciana, ma si ricollega anch’essa alla vita contemplativa. due imprese militari, una realizzata e una in fieri, presentavano Lorenzo con una sola ala per così dire “contemplativa”; sembra evidente il messaggio che le operazioni militari gestite politicamente da Lorenzo e militarmente da Federico non impedivano ai due di dedicarsi con continuità alle attività dello spirito. tornando alle comparazioni dell’Annunciazione con opere riferibili ad antonio del Pollaiolo, vogliamo ricordare l’incisione giacente al Gabinetto disegni e stampe degli uffizi, di cui abbiamo trattato diffusamente; è stato dato all’incisione il titolo Orgia e Pentimento a voler significare un amplesso multiplo consumato dalla vegliarda con i sette danzatori, in uno slancio animalesco che poi ha ingenerato in lei un senso di profondo pentimento, come traspare dall’aspetto del suo volto. nell’opera sono presenti due tavoli di pregiata fattura che si configurano come are pagane dalle caratteristiche sovrapponibili a quella dell’Annunciazione, disposte in uno spazio esterno contornato da un prato. antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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al museo ermitage di san Pietroburgo è conservata una madonna in trono con bambino che sembra rispondere perfettamente al dipinto ascritto da Vasari ad antonio del Pollaiolo, con la dicitura seguente: «et ai capitani di Parte dipinse in un mezzo tondo una nostra donna con figliuolo in collo et un fregio di serafini intorno, pur lavorato ad olio»93. il dipinto dell’ermitage è stato tagliato tutto intorno per cui serafini descritti da Vasari non compaiono ma è presente la lunetta sopra la madonna, come in tutte le Virtù del tribunale della mercanzia dei Pollaiolo, e il paesaggio specificamente a destra è di evidente ispirazione fiamminga ma con vista a volo di uccello come nello stile del Pollaiolo, che ne ideò la combinazione proprio per non ricreare la staticità senza prospettiva dei dipinti di oltralpe. il segretario del Palagio di Parte Guelfa era cristoforo Landino il che avvalora considerevolmente l’attribuzione del dipinto ad antonio, dato l’intimo legame esistente tra l’umanista e l’artista. L’opera di san Pietroburgo è stata correttamente attribuita da zeri al Pollaiolo, ma sono poi intervenute incertezze che hanno fatto avanzare il nome di Verrocchio; la ragione sta nel fatto che buona parte della critica ritiene l’Annunciazione opera di Leonardo e bottega del Verrocchio; in effetti le capigliature della Vergine nei dipinti degli uffizi e di san Pietroburgo sono del tutto similari. alla luce delle nostre argomentazioni cade il legame con il Verrocchio, uno scultore cui troppo frequentemente si ricorre per l’attribuzione di dipinti del secondo Quattrocento che hanno qualità ma difettano di una sicura paternità; l’impostazione del volto di maria e la deviazione in fuori ed in alto dell’occhio destro (exotropia ed ipertropia) confermano i legami tra le Vergini degli uffizi e dell’ermitage. Vi sono ancora dei quesiti: vi furono opere di Leonardo direttamente influenzate dall’Annunciazione del Pollaiolo? È possibile riconoscere interventi di Leonardo nell’Annunciazione degli uffizi? La predella della madonna di piazza del duomo di Pistoia, oggi giacente al Louvre, è opera attribuita da alcuni a Leonardo e da altri a Lorenzo di credi; il dipinto mostra affinità considerevoli con l’Annunciazione degli uffizi. La scena che si svolge all’aperto, i grandi spazi sullo sfondo, il leggio, in questo caso ligneo interposto tra i due personaggi, sono tutti riferimenti incontestabili alla tavola maggiore. come nel disegno di Windsor della manica dell’arcangelo, si avverte l’intendimento di fornire una versione più corretta e canonica dell’evento reinserendolo nel significato originario dell’annuncio del Verbo incarnato. La disposizione delle braccia e delle mani, la testa reclinata in avanti, vogliono raffigurare maria nell’atto di accettazione della volontà divina; l’arcangelo ovviamente è dotato di entrambe le ali. al Gabinetto dei disegni e stampe della Galleria degli uffizi è presente un disegno di Leonardo che raffigura una testa di donna con sembianze sovrapponibili a quelle del volto di maria nella predella del Louvre. tutto sembrerebbe ricondurre a Leonardo, tranne la qualità del dipinto. La soluzione del problema è da ricercare nel leggio interposto tra i due personaggi, dove, a ben guardare, non v’è disposto un testo sacro ma un rotolo con dei lunghi nastri. il messaggio che l’autore del dipinto intende dare sembra chiaro: il dipinto è stato realizzato su disegno di Leonardo da Vinci. ecco allora la possibile soluzione a un problema di lunga data: Lorenzo di credi ha eseguito l’Annunciazione della predella su un di93

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G. Vasari, Le Vite, volume 3, edizione Giuntina, p. 503. antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

segno di Leonardo. Quanto al quesito se sia possible individuare interventi di Leonardo sull’Annunciazione degli uffizi propongo due particolari che hanno caratteri leonardeschi. Gli esami riflettografico e radiografico dell’arcangelo Gabriele mettono in evidenza una prima stesura pittorica in cui la capigliatura mostra un’ispirazione diretta alle impostazioni di Van eyck, mentre la stesura finale assume caratteri leonardeschi, acquisiti anche nell’aspetto finale del volto. La catena montuosa che accompagna il vulcano e il contiguo monte con figura antropomorfa suggeriscono anch’essi il possibile intervento di Leonardo.

la collocazione e il verosimile iter storico dell’annunciazione Prima della descrizione del moreni del 1793 non ci sono riscontri dell’Annunciazione, ma un dato ci consente di affermare che il dipinto non fu realizzato per monte oliveto; Vasari nel redigere le vite di alcuni artisti ricorse all’aiuto di don miniato Pitti, abate di monte oliveto, esperto d’arte, consigliere di Vasari e visitatore di tutti i monasteri degli olivetani; se l’Annunciazione non compare nelle descrizioni dell’aretino è evidente che fino alla seconda metà del cinquecento un dipinto di tale importanza non era di pertinenza dell’ordine benedettino e la sua ubicazione non era in un luogo pubblico, ma in una abitazione privata, perché altrimenti Vasari l’avrebbe descritto. L’opera, come abbiamo veduto, è una esortazione a che Federico guidi l’impresa di otranto: l’interpretazione ci fornisce elementi molto significativi per la collocazione e per la committenza. una tavola che soltanto apparentemente evocava un mirabile evento religioso non poteva essere posizionata in un luogo sacro, né poteva essere destinata alla visione pubblica. Le connotazioni del dipinto lo avvicinano, per le finalità strettamente private, al Dittico dei duchi di urbino; come il doppio ritratto, per i suoi contenuti neoplatonici, incompatibili con l’ortodossia cristiana, doveva esser locato negli appartamenti privati dei duchi ad urbino, così l’Annunciazione aveva una collocazione di grande importanza ma privata nella Villa di Rusciano. Le dimensioni del dipinto (cm 98/217) sono molto particolari e indirizzano verso una sistemazione di arredo come capoletto della camera del duca a Rusciano; l’indicazione ce la dà lo stesso Pollaiolo, che mostra, alle spalle di maria, una porta aperta al di là della quale si intravede un letto con una coperta rosso-ducale; cade l’inopportuna critica formulata sulla “terza gamba” di maria: si tratta ovviamente dello schienale del seggio lapideo su cui ella siede, ricoperto dall’ampio manto che arriva davanti alla porta della camera per simboleggiare la protezione che la Vergine accorda al duca nell’impresa contro i turchi. Quanto alla committenza dell’opera, ciò che abbiamo sostenuto riguardo all’interpretazione e alla paternità del dipinto ci consente di formulare la seguente tesi sul tragitto che ha portato l’Annunciazione a monte oliveto. trattandosi di un dipinto esortativo-celebrativo a che Federico guidasse la campagna otrantina, il committente può essere stato Federico medesimo o forse lo stesso Giuliano Gondi, plenipotenziario a Firenze del duca di urbino, mediatore dei rapporti tra filo-napoletani e filo-medicei, nonché gestore e utilizzatore di fatto della Villa di Rusciano fino al 1498. La commissione fu verosimilmente fatta, o sicuramente gestita, dal Gondi, su incitamento dei Reali napoletani, come dono al duca e suggello dell’alleanza ristabilita tra Lorenzo e il Re di napoli, di cui il Gondi si faceva garante; l’ispezione in loco consente di evidenziare, all’ingresso di un’ala del Palazzo, uno stemma con lo scudo caricato in basso delle due mazze incrociate dei Gondi, ma sormontate da un’aquila, che, posizionata a casa di Feantonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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derico, doveva essere necessariamente riferita a lui. Lo stemma così concepito conferma che Giuliano Gondi gestiva Rusciano per conto del duca di urbino. nel prosieguo degli eventi storici, come vengono di seguito esposti, Guidobaldo di montefeltro, erede di Rusciano, affittò il possedimento a Pierozza Frescobaldi e il 30/04/1500 lo alienò in suo favore per gravi difficoltà economiche intercorse. Ricordando che nel 1495 il duca soggiornò a Palazzo Gondi in san Firenze, in occasione della sua inaugurazione, e che quindi gli stretti rapporti tra Federico di montefeltro e Giuliano Gondi continuarono anche con Guidobaldo, si può verosimilmente sostenere il coinvolgimento del Gondi nelle trattative della vendita di Rusciano ai Frescobaldi, dato che Guidobaldo in quegli anni risiedeva, per difficoltà economiche, stabilmente a Venezia. Fu in questo momento che secondo la nostra ricostruzione Giuliano Gondi entrò in possesso del dipinto; ciò spiega il silenzio di Vasari sull’opera, che aveva locazione privata nel Palazzo Gondi di piazza san Firenze. L’iter storico dell’Annunciazione dalla famiglia Gondi al convento di monte oliveto può essere verosimilmente ricostruito come segue. il dipinto, dopo che Giuliano ne venne in possesso, restò al Palazzo di san Firenze fino al 1692, anno in cui i Gondi, dopo aver acquistato alla fine del cinquecento Palazzo Ranieri in piazza duomo, procedettero ad un’ampia ristrutturazione di tale proprietà inglobandovi un immobile confinante, acquisito dal canonico della chiesa di campo corbolini. La famiglia Gondi aveva un canonicato in duomo, per cui dopo la ristrutturazione spostarono l’Annunciazione dal Palazzo di san Firenze a quello di piazza san Giovanni; il dipinto vi rimase fino al primo quarto del settecento, quando uno dei due fratelli Gondi, Raimondo maria o Giovanni, entrambi in seguito abati a monte oliveto, lo portò presumibilmente colà come dono della famiglia94. a ricordo della presenza dell’Annunciazione degli uffizi, nel 1728 fu posta una lapide, ancora oggi esistente, sulla facciata di Palazzo Ranieri, con l’immagine di una salutazione angelica.

considerazione finale L’Annunciazione degli uffizi è un dipinto a tempera e olio il cui artista principale è antonio del Pollaiolo, che ha avuto il supporto nel suo lavoro dell’ex allievo Leonardo da Vinci; il dipinto, del 1481, non è un’opera giovanile di Leonardo ricolma di errori, ma l’opera della piena maturità di antonio del Pollaiolo, totalmente disattesa quanto all’interpretazione, perfetta e ineguagliabile da ogni punto di vista, cui mise mano anche l’allievo Leonardo. Iconografia Pagine 195-205, figure 42-69

94 Raimondo Gondi entrò nel monastero di san bartolomeo a monte oliveto nel 1711 e vi fu abate dal 1751 al 1760. Giovanni Gondi entrò nel monastero di san bartolomeo a monte oliveto nel 1720 e vi fu abate dal 1761 al 1769. Familiarum Tabulae, viii (1701-1742); ix (1743-1855), abbazia monte oliveto maggiore, siena.

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antonio del pollaiolo e la casa montefeltro: il dittico del duca e della contessa. la madonna di senigallia

il dittico il Dittico del Duca e della Contessa di Urbino è universalmente attribuito a Piero della Francesca dall’inizio dell’ottocento, contrariamente a quanto accadde per la Pala Montefeltro che, secondo quanto abbiamo approfonditamente riportato, fino alla monografia su Piero di Roberto Longhi del 1927 è stata oggetto di serrata disputa tra i sostenitori della storica paternità di Fra carnevale e coloro che al contrario videro nella Sacra Conversazione la mano inimitabile di Piero della Francesca. il Dittico, la Pala Montefeltro e la Madonna di Senigallia, lo abbiamo già detto, riconoscono la stessa mano esecutrice sulla base di inconfutabili esami scientifici confortati dalle più accurate indagini stilistiche; pertanto non vi sono che due possibilità: tutte e tre le opere sono di Piero o altrimenti non lo è nessuna di esse. La prima menzione del Dittico compare soltanto nell’inventario ducale del 1599 con una descrizione molto particolareggiata ed inequivocabile: «item un quadretto doppio in tavola della felice memoria del duca Federico et della felice memoria della duchessa battista sua consorte, con pitture dal roverso». il 23 aprile del 1631 moriva, senza eredi maschi, Francesco maria ii della Rovere; secondo gli accordi precedentemente stipulati con la camera apostolica, il 1° maggio 1631, andrea borgia, vicario generale del cardinale barberini, entrava nel ducato di urbino prendendone possesso in nome della santa sede. Le opere d’arte e gli altri beni allodiali, divenuti per disposizione testamentaria proprietà di Vittoria della Rovere, lasciarono il ducato di urbino in varie spedizioni; nel novero delle casse che venivano spedite a Firenze nel 1631, al numero 141 veniva registrato il doppio ritratto dei duchi: «nota d’argenterie et ori incassati per mandarli a Fiorenza d’ordine di quell’altezza serenissima: Ritratto del duca Federico e sua moglie». una volta a Firenze i riferimenti ai duchi erano perduti, data anche la giovane età di Vittoria; negli inventari del Poggio imperiale del 1655 e più chiaramente in quelli del 1692 i due personaggi raffigurati nel Dittico venivano identificati come Francesco Petrarca e Laura: «due quadretti in tavola gangherati insieme dipintovi in uno il Petrarca fino a mezzo busto e nell’altro la sua Laura con adornamento di noce, alto 2/3» (1655). «due quadri in tavola aggangherati insieme alti 3/4, larghi soldi 11, dipintovi fino a mezzo busto in profilo in uno il ritratto del Petrarca, vestito di rosso con beretta simile e nell’altro madonna Laura sua moglie, vestita di nero con maniche di drappo d’oro a opera, con collana di perle e veduta di paese: et per di dietro dipintovi in ciascuno un carro con più figure e iscrizione sotto; con adornamento scorniciato in parte e tutto dorato alto soldi 18 largo br. 2/3» (1692). antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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il doppio ritratto entrò agli uffizi nel 1773 con il riconoscimento iconografico di Petrarca e Laura, ma già nel 1784 una nota riferiva i personaggi effigiati a Pandolfo malatesta e sua moglie, e così rimase l’attribuzione iconografica fino al 1825, quando il sotto-direttore della Galleria, Ramirez montalvo, riconobbe nel personaggio maschile il duca di urbino e nella scheda accanto ai nomi dei personaggi comparve quello di Piero della Francesca quale autore dell’opera: «L’autore dei due ritratti qui di contro descritti sotto i numeri 76-77 è Pier della Francesca. i soggetti effigiati sono Federigo da montefeltro e battista sforza sua moglie». nel periodo seguente, la cornice a libro fu sostituita con quella attuale; nell’aggiunta alla scheda si legge: «La di contro cornice è stata cangiata in un’altra intagliata e dorata, divisa in due partimenti nei quali si son collocati il quadro qui descritto sotto il n. 76 e l’altro sotto il n. 77, e si possono girare». Le citazioni storiche ci danno delle precise indicazioni sull’originaria configurazione dell’opera: nella struttura a cerniera si riconosce l’ispirazione ai polittici fiamminghi (Gand), che mostravano il soggetto principale all’interno, mentre sulla parte esterna degli sportelli erano dipinti motivi di supporto. L’opera, come vedremo, assume nella versione definitiva i caratteri di un libro che rievoca la fase finale della vita di Federico di montefeltro e il successivo ricongiungimento con sua moglie battista sforza, deceduta dieci anni prima. a questo proposito la prima problematica che sorge riguarda la contemporaneità di esecuzione dei due ritratti e della scena del retro. nel periodico “L’arte” di adolfo Venturi, ix anno 1906, adolfo cinquini ufficializzava la prova, a prima vista inoppugnabile, della paternità di Piero della Francesca sul dipinto degli uffizi. il documento era per l’appunto estrapolato dal codice urbinate Latino 1193 in cui è raccolta, da Federico Veterani, una serie di scritti e componimenti poetici dedicati a Federico di montefeltro, molti dei quali inviati in occasione della morte di battista sforza. cinquini trascriveva un epigramma latino, scritto in urbino intorno al 1465 dal frate carmelitano Ferabò, nel quale era diramata in versi l’importante notizia che Piero della Francesca aveva fatto il ritratto di Federico di montefeltro95. Le vicende biografiche di Ferabò, che nel ’67 lasciò urbino, contribuivano a datare il dipinto alla metà degli anni ’60. il documento viene ancora oggi portato come prova della paternità di Piero per il ritratto di Federico del Dittico, anche ipotizzando un successivo rientro ad urbino del frate. L’ipotesi non è sostenibile, perché Ferabò lasciò, per la sua perversione, un pessimo ricordo di sé ovunque si fosse recato, né è ipotizzabile una diversità temporale nella realizzazione dei due dipinti. come osserva giustamente bertelli, è improponibile che un ritratto del Quattrocento fosse eseguito, come nel caso di Federico, ponendo la fonte di luce alle sue spalle, se non vi fosse stato un altro soggetto antistante che ne avrebbe usufruito. L’analisi del dipinto porta a ben altre conclusioni: l’opera degli uffizi, come sostiene

95 al foglio 114 del codice urbinate Latino 1193 è riportato l’epigramma di Ferabò con la seguente introduzione: «imago eiusdem Principis a Petro burgensi picta alloquitur ipsum principem». cinquini nello scritto del 1906 riportava i versi con i quali Paolo mansi ammoniva la gioventù perugina a non frequentare l’insano frate carmelitano. a. cinquini, Piero della Francesca a Urbino e i ritratti degli Uffizi, in “L’arte”, miscellanea, anno ix, 1906, p. 56.

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bertelli, è unitaria in tutte le sue parti sia per l’ideazione, sia per la mano realizzatrice, sia per la cronologia di esecuzione. Per l’indagine cronologica è opportuno analizzare le iscrizioni della scena tergale, erroneamente interpretata come trionfi degli antistanti ritratti; su una lapidaria romana si leggono due epigrafi in monocromi marmorizzati che recitano, per Federico: «clarus insigni vehitur triumpho quem parem summis ducibus perhennis fama virtutum celebrat decenter sceptra tenentem» “È portato in insigne trionfo quell’illustre che la fama perenne delle sue virtù celebra degnamente come reggitor di scettro pari ai sommi condottieri”

e per battista: «que modum rebus tenuit secundis coniugis magni decorata rerum laude gestarum volitat per ora cuncta virorum» “colei che mantenne la moderazione nelle circostanze favorevoli vola su tutte le bocche degli uomini adorna della lode per le gesta del grande marito”.

È da rimarcare immantinente la diversità temporale del «vehitur» nella scritta per Federico e del «tenuit» nella scritta per battista. La contessa morì a Gubbio di polmonite il 6 luglio del 1472; l’utilizzazione del perfetto «tenuit» vuol significare che la realizzazione del dipinto è stata fatta molto tempo dopo quella data, sicuramente dopo l’agosto del 1474 perché Federico, in armatura nel cosiddetto trionfo, indossa la mantellina ducale rossa. una tale datazione crea già dei seri interrogativi sulla paternità di Piero della Francesca, ma analizzando la scena tergale in dettaglio emergono ulteriori elementi molto significati per l’inquadramento temporale dell’opera. sulla natura stessa dei trionfi si debbono fare delle precisazioni: un trionfo è comunemente rappresentato con il soggetto trionfante che procede ricevendo il tributo del popolo spettatore; nei due dipinti sono unicamente raffigurati personaggi allegorici sui carri, ma non vi è alcuno che ne saluti il passaggio. «insigni vehitur triumpho», la scena è unica e quindi di un’unica celebrazione si tratta, non tra mortali, come nella comune accezione rinascimentale, ma nel significato di un trionfo atemporale di Federico, vivificato perennemente dalla Fama che sorregge la corona d’alloro sulla testa del duca. dei trionfi del Petrarca, ripetutamente richiamati nella letteratura del Dittico, è unicamente raffigurato il Trionfo della Fama che consente a Federico di sconfiggere la morte. battista sul carro sta leggendo un libro che è stato identificato come un libro d’ore, ma è da escludere perché i morti non pregano. il riferimento del sottostante epitaffio alle Tusculanae Disputationes di cicerone, nel passo del i libro che tratta dell’immortalità dell’anima e della fama dei giusti, ci induce automaticamente a sostenere che la contessa stia leggendo, per il suo sposo, il testo ciceroniano nel quale tra l’altro si legge l’epitaffio del poeta ennio: Aspicite, o cives, senis Enni imaginis formam Hic vestrum panxit maxima facta patrum? Mercedem gloriae flagitat ab iis quorum patres antonio del pollaiolo, il maestro dei maestri

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Adfecerat Gloria; idemque: Nemo me lacrimis… cur? Volito vivos per ora virum. “Guardate, o cittadini, il ritratto del vecchio ennio, è lui che ha cantato le grandi imprese dei vostri padri. La gloria egli vuole come ricompensa, da quelli a cui ha reso gloriosi gli antenati; e ancora: niente lacrime per me. a che servirebbe? Vivo in volo sul labbro degli uomini”. i legami dell’epitaffio di ennio con l’iscrizione per battista defunta sono molto di più di un semplice riferimento96. cristoforo Landino tenne lezioni nello studio Fiorentino sulle Tusculanae Disputationes; ispirandosi all’opera ciceroniana l’umanista fiorentino scrisse nel periodo 1473-74 le Disputationes Camaldulenses, di cui abbiamo ampiamente dissertato. Landino fece dono del manoscritto sontuosamente miniato a Federico di montefeltro, che rispose con una lettera di sentito ringraziamento. È forse più di un’ipotesi che alla morte di Federico sia stato proprio Landino a scrivere le due epigrafi latine per il Dittico; se così fu, quegli scritti venivano da un mondo culturale fiorentino precluso a Piero della Francesca. castelli ha messo in rilievo due importanti elementi nella lettura iconografica del Dittico. i trionfi non hanno nulla di religioso, ma sono l’aspetto più chiaramente percepibile della complessa impostazione neoplatonica dell’opera. Le epigrafi hanno una cadenza metrica che consente di ricondurle a strofe saffiche; il dato conferma, se mai ve ne fosse bisogno, l’alto livello culturale che si cela dietro il dipinto, ma nel contempo non si comprende come si possano coniugare tali inconfutabili rilievi a cristiani con la paternità di Piero sul Dittico97. L’analisi dei cosiddetti trionfi ci fornisce decisive indicazioni sulla collocazione temporale dell’opera. i due trionfi tergali sono divisi ma appartengono ad un unico scenario: le colline, il lago, il terreno passano da un dipinto all’altro senza soluzione di continuità. se ne deve dedurre che non si tratta di scene trionfali rispettivamente legate al ritratto corrispondente, ma di una rappresentazione unitaria con un proprio significato. carandente ha evidenziato la sobrietà delle due scene trionfali in netto contrasto con la festosità dei trionfi rinascimentali, rimarcando anche il fatto che i carri presentano una semplicità costruttiva che li fa rassomigliare a dei mezzi di trasporto agresti98. battisti, con un’analisi più dettagliata, sostiene che la semplicità dei carri è solo apparente; la rappresentazione costruttiva risulta, al contrario, molto particolareggiata nell’esecuzione di balestre per la parte posteriore e di catene per il pianale anteriore99.

96 battista aveva partecipato alle Jucundissimae Disputationes, all’inizio degli anni ’60, insieme a martino Filetico e al fratello costanzo, ed ella stessa nell’ambito della disputa rende noto di tenere sempre un testo di cicerone su un mobiletto vicino al suo letto. m. bonvini mazzanti, Battista Sforza Montefeltro: una “principessa” nel Rinascimento italiano, Quattro Venti, urbino 1993, p. 117. 97 P. castelli, Ricerche e studi sui “Signori del Montefeltro” di Piero della Francesca e sulla Città Ideale, Quattro Venti, urbino 2001, pp. 45 e 47. 98 G. carandente, I trionfi nel primo Rinascimento, Giovanni Carandente, edizioni Rai Radiotelevisione italiana, torino 1963, pp. 74-76.

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come abbiamo detto, non si tratta di due dipinti separati con simbologie e significati diversi, ma della rappresentazione di un ricongiungimento di due sposi. Federico si fa incontro alla donna su un carro nobilitato dalle Virtù cardinali e dalla Fama, mentre battista arriva su un carro dove sono disposte le Virtù teologali; sorge spontanea la domanda: quando uno sposo si ricongiunge con la consorte morta da tempo? soltanto quando anche lui lascia la vita terrena, né è sostenibile che il vivente possa aver fatto inserire per sé un’epigrafe celebrativa della sua fama perenne, accanto all’epitaffio della sposa deceduta. i due signori di urbino si uniscono nuovamente, dopo la morte, per affrontare insieme l’eterno viaggio nei cieli. La scritta dello studiolo di urbino, «Virtutibus itur ad astra», “con le virtù si ascende fino al cielo”, sembra essere la fonte di ispirazione del Dittico ed obbliga ad operare una riflessione sulla paternità del mirabile rifugio di Federico, realizzato dai fratelli da maiano nel periodo ’76-78. il progetto è stato attribuito ad autori diversi: botticelli, Pontelli, il Pollaiolo (Parronchi 1971). La presenza nel Portale della Jole di tarsie derivate dai disegni realizzati da antonio del Pollaiolo per le Virtù del tribunale della mercanzia e per il pannello di Ercole e il leone Nemeo del Palazzo medici, accredita il maestro fiorentino come progettista degli studioli di urbino e di Gubbio, nei quali le tarsie, per lo stile e l’insito neoplatonismo, di cui Pollaiolo era il primo messaggero artistico del tempo, confermano l’attribuzione del progetto100. La scritta al presente, posta sotto l’immagine di Federico nel Dittico, indica che il duca è morto poco tempo prima della realizzazione del dipinto, ma, per la sua fama, figura e figurerà per secoli come vivente nella mente degli uomini; il verbo al passato, per la dicitura di battista, indica invece che il suo abbandono della vita terrena datava ormai da più di due lustri. Le fratture geologiche presenti nel terreno enfatizzano la separazione dei due personaggi dal mondo dei mortali. La luce irreale della rappresentazione, definita lunare, assume, in base alle considerazioni precedenti, una connotazione ben precisa: è la luce dell’aldilà. La disposizione dei personaggi nel doppio ritratto conferma quanto sostenuto: nella parte interna del “libro” Federico, ancora vivente, è a destra perché deve cedere il posto d’onore alla consorte deceduta; nella scena tergale Federico è ormai spirato e quindi al suo carro spetta la posizione a sinistra. se il Dittico è stato realizzato dopo la morte di Federico (10 settembre 1482), la paternità di Piero della Francesca non è più soltanto problematica, ma improponibile. il borghigiano ha continuato a dipingere nel suo stile idealizzato sino alla fine degli anni ’70; non è neanche ipotizzabile che negli anni ’80, nell’imminente cecità, stravolgesse la sua educazione artistica e il suo operato. È da considerare inoltre che, morto Federico, il tutore di Guidobaldo e verosimile committente del Dittico era ottaviano ubaldini della carda, l’eminenza grigia del ducato, uomo dedito all’esoterismo e

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e. battisti, Piero della Francesca, electa, milano 1992, p. 289. bulst ha effettuato una convincente ricostruzione della sala Grande del Palazzo medici, riportando la tarsia urbinate di Ercole e il leone Nemeo come derivata dallo stesso disegno del pannello per il Palazzo di via Larga. W. a. bulst, Die Sala grande des Palazzo Medici in Florenz, Rekonstruktion und Bedeutung; id., Piero de’ Medici “il Gottoso” (1416-1469), akademie Verlag, berlin 1993, pp. 89-127. 100

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all’alchimia, che non aveva certo a cuore la pittura cristiana di Piero della Francesca. L’opera degli uffizi in effetti si staglia a perfezione sulla personalità dell’ubaldini; vi si legge un neoplatonismo di lettura complessa, inconciliabile con l’ortodossia cristiana, di matrice strettamente fiorentina, impensabile in Piero della Francesca. Passando ad analizzare i due ritratti, si rileva che la raffigurazione dei due personaggi riflette la tradizione numismatica imperiale, in una rivisitazione rinascimentale elaborata anche da alberti (autoritratto?), Pisanello, bertoldo, matteo de’ Pasti ed altri. La novità del Dittico consiste nel fatto che alle spalle dei personaggi ci sono dei paesaggi, elaborati con una minuziosità di inconfondibile ispirazione fiamminga, l’identificazione dei quali ha stimolato gli studi di numerosi ricercatori, e ultimamente si è ritenuto di riconoscervi i luoghi di giurisdizione dei signori di urbino (la Valle del metauro, la rupe di maiolo, etc.). L’ipotesi è parzialmente condivisibile per i due ritratti; al contrario, il paesaggio dei trionfi è da considerarsi frutto di una elaborazione più simbolica che realistica. L’intento simbolico pervade tutta la composizione; bertelli sostiene giustamente che la cittadella alle spalle di battista è Volterra, inserita simbolicamente, secondo gli ultimi studi, nei territori del montefeltro101: gli edifici ricordano molto da vicino la città della famosa impresa di Federico compiuta nel 1472, lo stesso anno in cui battista cessò di vivere per un acuto episodio febbrile intercorso dopo un bagno in fiume nei pressi di Gubbio. i due personaggi ritratti nel Dittico sono stati descritti come compenetrati nei paesaggi minuziosamente rappresentati alle loro spalle, ma al tempo stesso si è sostenuto che lo sguardo di Federico tradisce l’indagine metafisica. La metafisica è l’indagine razionale operata sull’essere in sé, avulsa dall’esperienza sensibile; la presenza sullo sfondo del paesaggio di ispirazione fiamminga esclude il trascendente. Federico e il paesaggio alle sue spalle sono effettivamente compenetrati tra loro, ma la lettura del connubio è da articolarsi diversamente. il binomio classicismo-naturalismo presente nel dipinto può essere interpretato come la trasposizione artistica dell’unione della vita attiva del condottiero (l’Imperator del cortile d’onore del Palazzo ducale), con la vita contemplativa rappresentata dal paesaggio idilliaco. Lo sguardo di Federico, nel momento del trapasso, esprime, oltre il ricordo della vita felice passata con battista, la rivisitazione dello sforzo, operato per tutta la vita, nella continua ricerca della sintesi di contemplazione ed azione, di cui l’impresa di Volterra, riproposta davanti ai suoi occhi, ha rappresentato il momento più fulgido e al tempo stesso più angosciante nella sfera affettiva. una considerazione stilistica può appagare chi si affida nel giudizio unicamente alla sensazione visiva: la mascella di Federico, per la sua fattura e tridimensionalità, fa preciso riferimento ad una mano che praticava la scultura. il volto della contessa è stato definito inespressivo, ma si tratta piuttosto della raffigurazione di uno stato melanconico rappresentato su un volto tratto dalla maschera funeraria; il pallore raffigura la luce di cui fu inondata dalla grandezza spirituale del coniuge, mentre il colorito cereo indica che battista è ormai morta da tempo. nella 101

c. bertelli, Piero della Francesca: la forza divina della pittura, silvana, cinisello balsamo 1991,

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scena tergale i liocorni tirano il carro della donna simboleggiandone la purezza, che trova ulteriore riscontro nella collana di perle dell’antistante ritratto, splendenti di una trasparenza adamantina. La minuziosa realizzazione dell’acconciatura della contessa fa pendant con la precisione riproduttiva del paesaggio, in una visione microscopico-telescopica che evidenzia un perenne coinvolgimento dell’autore con l’arte fiamminga. abbiamo sostenuto che l’autore della Dama di berlino è lo stesso della Battista Sforza del bargello, un busto marmoreo tratto dalla maschera funeraria. dalla stessa maschera funeraria è stato tratto il volto della battista sforza del Dittico, a sostanziale conferma della ricostruzione storica operata nei precedenti capitoli che esclude rapporti di Federico di montefeltro con Piero della Francesca dopo il ’72. si può obiettare giustamente che la battista del Dittico è meno attraente della Battista del bargello. ma vi è una ragione ben precisa. colui che ha realizzato il doppio ritratto si è premurato di non creare un eccessivo contrasto tra il particolare profilo di Federico e quello di battista, abbassando il tono di avvenenza di quest’ultima. un tale comportamento dell’artista è chiaramente commemorativo di entrambi i signori di urbino, perché un Federico vivente non lo avrebbe mai consentito. come hanno correttamente rilevato i grandi critici del novecento, l’autore del Federico del codice urbinate Latino 508 è lo stesso che ha eseguito il volto del duca nella Pala Montefeltro e, come abbiamo veduto, la tavoletta del codice è opera di antonio del Pollaiolo, che vi si è autoritratto. d’altra parte è ormai definitivamente accertato che l’autore della Pala Montefeltro è anche l’autore del Dittico degli uffizi: il volto di Federico nei due dipinti deriva dallo stesso disegno, anche se in scalature diverse. ad un primo esame dei due disegni derivati dai ritratti, operato da battisti102, è seguita una indagine più accurata di bellucci e Frosinini: con uno studio riflettografico comparativo computerizzato, hanno dimostrato che il volto di Federico nei due dipinti proviene dallo stesso disegno ma non dallo stesso cartone, per la diversità delle scalature. se si effettua la controprova portando le due immagini riflettografiche alla stessa scalatura, si rileva che i disegni sono sovrapponibili103; pertanto, se Pollaiolo è l’autore della tavoletta del codice urbinate e della Pala Montefeltro, lo è anche del Dittico degli uffizi e viceversa104. È vero che in arte la proprietà transitiva non segue sempre le regole matematiche, ma in questo caso non sembrano poter esserci interpretazioni diverse. nella Pala Montefeltro e nel Dittico riscontriamo una suggestiva identità di impostazione: si tratta della comune fusione del classicismo di ispirazione albertiana e del naturalismo di derivazione fiamminga. nella Pala l’architettura si ispira alla romanità, mentre il verismo dei personaggi guarda oltralpe. nel Dittico il personaggio di profilo raffigura l’Imperator, mentre i pae-

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e. battisti, op. cit., p. 279. R. bellucci, c. Frosinini, La Pala di San Bernardino di Piero della Francesca. Nuovi studi oltre il restauro, a cura di emanuela daffra e Filippo trevisani, centro d, Firenze 1997, pp. 167-171. 104 La maggior parte della critica, non la totalità, ritiene che l’aspetto del volto di Federico nel Dittico sia più giovanile del suo corrispettivo nella Pala. se così è, appare ovvio che per un dipinto celebrativo post mortem il volto del duca fu reso più giovanile. 103

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saggi minuziosamente rappresentati sono in stretto legame con il naturalismo fiammingo. L’autore dei due dipinti era colui che sapeva coniugare due concezioni opposte: operava una sintesi dei contrari, seguendo i principi del pitagorico Filolao, mediati da Ficino, per dotare dell’armonia le sue realizzazioni artistiche. Venturi vedeva uno stridente contrasto tra l’architettura rinascimentale e il naturalismo dell’uovo, ma la sua valutazione era troppo superficiale. come abbiamo veduto nel capitolo riguardante la Pala Montefeltro, la valutazione artistica della soluzione uovo-abside può essere fatta compiutamente solo valutando il dipinto non preso a sé ma inserito nel complesso architettonico cui era destinato. nella combinazione innaturale si può in ogni caso riconoscere un messaggio dell’artista, quasi una presentazione di se stesso. Pollaiolo afferma di essere colui che ha impiantato la sua arte nella continua ricerca della sintesi degli insegnamenti classici e dell’istinto naturalista. L’unione, di per sé contraddittoria, si è resa possibile per la pratica di orafo con cui ha iniziato la sua avventura artistica: la catena che unisce l’uovo all’abside è per l’appunto dorata. nel Dittico i paesaggi sono inseriti, non come innovazione artistica fine a se stessa, ma con la precisa finalità di operare, anche in questo caso, una sintesi di contrari in combinazione con il classicismo della rappresentazione numismatica dei personaggi; l’armonia che ne deriva, si coniuga con un particolare stato dell’animo, che traspare dai due volti: la malinconia. cinquini, descrivendo la battista del Dittico, evidenziava il suo volto sfiorito e l’aspetto melanconico105. se osserviamo i ritratti dallo sfondo in progressione verso i due signori di urbino, la sensazione è in effetti quella di una “celeste melanconica armonia”. il tema della melanconia come condizione dell’anima di coloro che sono dediti alla speculazione e alla ideazione artistica, anche se estesamente sviluppato da Ficino nel De Vita alla fine degli anni ’80, compare già nella Theologia Platonica, elaborata tra il 1469 e il 1474 ma pubblicata nel novembre del 1482, il periodo in cui noi facciamo cadere la realizzazione del dipinto106. La melanconia, giudicata fino al secolo xV, profondamente negativa per l’essere umano, diviene con il neoplatonismo un fattore positivo in quanto dona all’anima cognizione della propria grandezza e l’avvicina agli dèi. Ficino, figlio di saturno, sosteneva che l’habitus melanconico è il sentire idoneo per le attività intellettuali più alte. L’arte seguì, nel Rinascimento, l’indirizzo del pensiero; i grandi maestri, antesignano antonio del Pollaiolo, furono spinti verso l’astrologia, la mitologia, l’ermetismo e il simbolismo, per la consapevolezza che l’ideazione artistica si avvicinava sempre di più alla filosofia107. nel Dittico il razionalismo ficiniano si coniuga con il classicismo di alberti, che, pur non essendo annoverabile tra i neoplatonici, era a quel

105 a. cinquini, Piero della Francesca a Urbino e i ritratti degli Uffizi, “L’arte”, miscellanea, anno ix, 1906, p. 56. 106 m. Ficino, Teologia Platonica, zanichelli, bologna 1965, iV, vol. 7.2, p. 233. 107 nel Trattato sulla Pittura Leonardo, ponendo mente al suo grande maestro, scrive: «adunque la pittura è filosofia, perché la filosofia tratta del moto aumentativo e diminutivo, il quale si trova nella sopradetta proposizione; della quale faremo il converso, e diremo: la cosa veduta dall’occhio acquista tanto di grandezza e notizia e colore, quanto ella diminuisce lo spazio interposto infra essa e l’occhio che la vede». Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, centro nazionale di studi sul Rinascimento. unione cooperativa editrice, Roma 1890, p. 6.

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movimento legato, tanto da esser posto da Landino, nelle Disputationes Camaldulenses, a sostenere, contro Lorenzo de’ medici, il primato della speculazione sull’azione. alberti è “neoplatonico” quando, nell’elaborazione dei concetti di Vitruvio, inserisce la musica nella costruzione architettonica, che assume di conseguenza i caratteri di divina armonia. Ficino a sua volta opera una piccola ma importante digressione dal pensiero platonico quando inserisce l’harmonia in luogo della temperantia tra le idee che l’anima contempla nel suo periplo; l’accademia di careggi getta un ponte verso il movimento filosofico generatore del platonismo: il pitagorismo, che assegnava ai numeri l’organizzazione della intera realtà, riconoscendo in essi un rapporto costante e armonico. avvicinandosi ai pitagorici, Ficino incontra di nuovo alberti in un connubio tra architettura, arti figurative e musica sotto il faro della possente monumentalità romana. in sintesi l’ideazione artistica del Dittico si basa su tre componenti essenziali: la filosofia neoplatonica, il classicismo albertiano, il naturalismo di ispirazione fiamminga. È a grande distanza la pittura cristiana di Piero della Francesca, che si ispirò per tutto l’arco della sua attività alla Legenda Aurea, rifiutò commistioni con il neoplatonismo, non ebbe familiarità con i principi albertiani e infine dimostrò nelle opere murarie, sicuramente sue, un’impostazione di pittura idealizzata, perseguita fino alla fine degli anni ’70, antitetica alla pittura di ispirazione fiammingo-verista del Dittico. Passando ad analizzare i paesaggi del Dittico, si nota al primo impatto un’impostazione degli sfondi con linea di orizzonte molto alta che stride con la pittura pierfrancescana. Quanto scrive battisti sembra presagire le argomentazioni qui sostenute: «il paesaggio, a sua volta, è sviluppato con una tale ampiezza, da assumere un significato cosmologico. sul retro, troviamo ripetuto il motivo del lago, il che dà una efficace continuità a quest’immenso panorama, visto dall’alto, secondo un sistema che ci sembra pollaiolesco (e, fra parentesi, ricordo che certe durezze grafiche dei ritratti e certo freddo loro colorismo possono essere pervenuti al Dittico