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Italian Pages 103 Year 2007
Edgar Morin
L’ANNO I DELL’ERA ECOLOGICA La Terra dipende dall’uomo che dipende dalla Terra Seguito da un dialogo con
Nicolas Hulot
ARMANDO EDITORE
MORIN, Edgar L’anno I dell’era ecologica ; Pref. di B. Spadolini Roma : Armando, © 2007 128 p. ; 22 cm. (Temi del nostro tempo) ISBN: 978-88-6081-289-6 1. E. Morin/Raccolta di articoli e saggi 2. Il pensiero ecologizzato 3. Sviluppo/Globalizzazione/Energia/Ecologia/Sociologia CDD 301
Traduzione e cura di B. Spadolini © 2007 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 32-00-082 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]
SOMMARIO Prefazione all’edizione italiana (di Bianca Spadolini)
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Introduzione
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L’anno I dell’era ecologica (supplemento al “Nouvel Observateur”, 1972)
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Il pensiero ecologizzato («Le Monde diplomatique», 1989)
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Il pianeta in pericolo (“Le Nouvel Observateur”, ottobre 1990)
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Energia, ecologia, sociologia Dalla politica dell’energia alla politica della civiltà (dibattito nazionale “Énergie 2003”)
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Oltre lo sviluppo e la globalizzazione (Firenze, Palazzo Vecchio, 18 novembre 2002)
79
L’imperativo ecologico Dialogo tra Edgar Morin e Nicolas Hulot (a cura di Nicolas Truong)
97
I tre principi di speranza nella disperazione (gennaio 2007)
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PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
La raccolta che presento riunisce una serie di articoli e di saggi brevi di Edgar Morin che coprono un arco di anni relativamente lungo – dal 1972 sino a tutt’oggi –, accomunati da uno stesso intento, quello di definire e fortificare la coscienza ecologica. L’estensione nel tempo conferma l’impegno non dell’ultima ora dello scienziato e del filosofo francese, una sensibilità al problema ecologico di lunga durata, connaturata alle ricerche che il biologo, prima che il filosofo e il militante, andava svolgendo. Parallela a questa presa in carico del problema ambientale, matura la prospettiva sistemica di Morin che cerca di ridefinire la metodologica scientifica di fronte ad un mondo profondamente mutato e che non può più essere compreso e affrontato con la stessa ottica che tradizionalmente e trionfalmente aveva accompagnato la conquista scientifica nel mondo occidentale. Non sorprende, dunque, che la comprensione del problema ecologico nasca non solamente dalla constatazione e dalla tematizzazione dei cambiamenti ambientali e dalla conseguente reazione ai danni, prevedibili e catastrofici, che l’uomo ha causato all’ambiente, ma da un cambio di rotta nella prospettiva con cui l’uomo, in generale, e la scienza, in particolare, si rapporta con la natura. In tal senso, l’a-metodologia di Morin abbandona la gnoseologia classica, che isola l’oggetto dal contesto ambienta7
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le per porlo su un piano astratto e sperimentale, per riportalo nel contesto in cui è stato osservato. Ma una volta che l’oggetto perde la sua oggettività, il soggetto, inaugurato dalla filosofia cartesiana, perde la certezza e la chiarezza autoreferenziale della sua visione per essere gettato in una paradossalità da cui deve cercare di uscire mediante una diversa strategia cognitiva. Come narra il matematico George Spencer-Brown, se l’universo volesse prendere coscienza di se stesso, dovrebbe allentare da sé un peduncolo in modo da potersi osservare; ma una volta che tale tentacolo occhiuto si fosse allontanato dal contesto in cui era nato, non ne avrebbe più fatto parte e l’osservazione ne sarebbe risultata estranea e falsata dalla lontananza. Come sappiamo, SpencerBrown, al pari di Morin, non trova una via d’uscita a tale situazione paradossale; non può far altro che osservare che l’osservazione, nella sua distinzione dal contesto da cui scaturisce, deve prendere atto dell’impasse che genera e rientrare in se stessa per continuare ad osservare su due livelli, uno interno ed uno esterno all’osservazione stessa. Proprio questo rientro della distinzione in se stessa pone l’osservazione come auto-osservazione e come etero-osservazione. La strategia di Morin si inserisce a questo punto: se abbandoniamo il concetto di oggetto e lo sostituiamo con quello di sistema aperto, colui che osserva perderà la sua autonomia rispetto all’ambiente da cui si distingue per ritornare a farne parte, ma con la consapevolezza che scaturisce dall’esserne suo osservatore privilegiato. La teoria dei sistemi di Morin, pertanto, potrebbe richiamare alla mente il romanticismo, soprattutto nella versione schellingiana; ma la contrapposizione spirito/interiorità vs. natura/esteriorità non sembra essere l’obiettivo ultimo dell’a-metodologia di Morin: la naturalità dell’osservatore – 8
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pur nella drammatica separazione dell’occhio che non può vedere se stesso se non nel mentre che osserva, come direbbe Wittgenstein – è indiscutibile. Il problema risiede semmai nella capacità che l’uomo, con la violenza che comporta il suo intervento modificatore rispetto alla natura, sia in grado di regolare se stesso così come la natura sa fare nei suoi rapporti di associazione e di complementarità. Il mutamento di paradigma prospettato da Morin sta appunto nella coscienza rispetto all’osservazione delle conseguenze letali generate dall’operare umano secondo la logica della hybris industriale, tecnica, scientifica; nella necessità di prendere atto definitivamente che gli strumenti del progresso e dello sviluppo, se non vengono piegati alle regole negantropiche ambientali, conducono l’uomo, in quanto parte integrante dell’ambiente da cui pretende di distaccarsi, a perire con esso. La posizione dell’osservatore, ovvero di colui che conosce, si fa così improvvisamente scomoda e matura il destino drammatico della sua pretesa a farsi padrone della terra che lo ospita: se i suoi interessi prevaricano l’organizzazione auto-regolantesi della natura, e non si integrano con le regole che la governano, la natura che lo ha generato come governatore lo ingoierà. Riecheggia forse la filosofia stoica più di quella romantica, che vede l’uomo come unico animale in grado di possedere quel qualcosa in più, la ragione, che distaccandolo dalla natura lo condanna anche all’errore, non essendo la ragione completa, ovvero del tutto naturale. La coscienza ecologica nasce appunto dalla comprensione che qualsiasi sistema aperto non può essere completamente indipendente da ciò da cui si è reso indipendente; e che anche l’indipendenza ha un suo peso ambientale. Antro9
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pizzare la natura, forzare l’equilibrio auto-ambientale significa creare un altro ambiente influenzato dall’intervento dell’uomo. Se questo intervento è caotico e non tiene conto dell’ordine che viene modificato, il disordine causato si ritorcerà su chi lo ha generato poiché il modificatore fa parte del modificato. Poiché l’auto-organizzazione ambientale è complessa, ogni intervento che modifica i suoi equilibri rende la comprensione dell’ambiente ancor più complesso; la conoscenza settorializzata, piegata alla logica della specializzazione, diviene di conseguenza gravemente insufficiente. Complessità aggiunta a complessità richiede una organizzazione della conoscenza globale, suffragata da una complementarità di strategie conoscitive finalizzate ad integrare e configurare l’azione umana nell’auto-organizzazione naturale. Il discorso qui si fa ancor più difficoltoso e decisivo per le sorti dell’umanità. Se la natura viene rappresentata settorialmente, si perde di vista la totalità dell’oggetto preso in considerazione. La conoscenza sistemica invece considera la totalità maggiore della somma delle parti. Ma ogni parte ha una precipuità senza la quale non può essere intesa la totalità. Il principio ologrammatico sintetizza in un’immagine la dialettica tra parti e tutto. La totalità, tuttavia, non può essere sintetizzata né immaginata. Per questo la conoscenza parziale, settoriale, specializzata dimostra ancora la sua validità. E per questo motivo la conoscenza della totalità è un fine, il “da costruire”, e, al contempo, una nostalgia di qualcosa che l’umanità ha perduto. In modo coerente, Morin prospetta una conoscenza – e una coscienza – “integrata” e “integrale” (antropologica, ecologica, tellurica, cosmologica), a disposizione dell’uomo 10
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per far cooperare “le attitudini organizzative e regolatrici incoscienti della natura con le attitudini organizzatrici e coscienti dell’uomo”. Alla integrazione delle conoscenze in una teoria globale, Morin accosta la necessità di una regolazione a carattere politico ed universale, con toni spesso utopistici, che in realtà nascondono un realismo di stampo illuministico. La teoria dei sistemi (aperti) e dell’auto-organizzazione, infatti, sembra piegarsi qui ad un volontarismo e ad un centralismo tipicamente vetero-europeo. Mentre gli esseri viventi e il mondo economico – compresa l’interazione a carattere sociale – si autoregolano secondo leggi spontanee, il sapere e il comportamento vanno regolati mediante organismi sopranazionali che li pilotino verso la compatibilità ambientale. Se il sapere deve essere unificato sotto il segno della metateoria sistemica – dietro cui si nasconde un nuovo paradigma scientifico e una nuova visione del mondo –, il comportamento umano deve essere modellato secondo una nuova forma politica – dietro cui si manifesta una nuova coscienza, umanistica ed ecologica. Il co-pilotaggio uomo-natura prevede il rispetto dell’auto-regolazione naturale, e la regolazione del comportamento umano, in modo possibilmente capillare, “ologrammatico”, così che iper-regolate siano le interazioni uomo-ambiente e uomo-uomo. Poiché non è possibile sospettare della democraticità di Morin, è possibile intravedere un doppio canale di intervento politico. Il primo, al livello sovra-nazionale, impone l’urgenza di un intervento mirato al risparmio energetico, allo sviluppo sostenibile, alla temperanza dei consumi, secondo il modello di accordo internazionale tra Stati sovrani firmato Kyoto. Il secondo, ad un livello più capillare, prevede la diffusione 11
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dell’educazione all’auto-regolazione, da attuare mediante un diffuso civismo. La sostenibilità – che va surrogata in termini legislativi internazionali ed in termini educativi – richiede che lo sviluppo economico, motore primo dell’industrializzazione e della globalizzazione, non controllato e anti-etico, sia civilizzato. Non più secondo l’etica della separazione, frutto a sua volta del principio conoscitivo occidentale fondato sulla specializzazione, sulla settorializzazione rappresentativa dei campi del sapere, ma secondo una nuova ottica ed una nuova etica che conduca a forme rinnovate di solidarietà mondiale. Come studiosa dei problemi dell’educazione, l’attenzione posta da Morin alla formazione della coscienza ecologica secondo una nuova visione dell’umano può risultare particolarmente interessante. Ma più in generale, al di fuori dell’interesse specialistico che qui sembra essere decisamente fuori luogo, sembra evidente che non è possibile un controllo capillare dell’interazione soltanto mediante un apparato legislativo che parta da una prospettiva globale. L’auspicato superamento della separazione dell’uomo e della natura nel momento della formazione appare allora decisivo. In ballo ne va del destino stesso dell’uomo nel momento delle scelte secondo i principi e i modi di vita democratici. Lo sviluppo della coscienza ecologica per la prospettiva planetaria di Morin non può perciò che guardare all’educazione per aprire la sensibilità e le abilità cognitive individuali. Del resto è proprio nella scuola e nelle università che si pongono le basi per la separazione dell’umano dal naturale. L’istruzione forma la mentalità dell’iper-specializzazione e decide quando ad essa bisogna per sempre dedicarsi, quando è il caso di mutarne l’aspetto, ri-specializzandosi, come e 12
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quando è il momento di aggiornarsi o di apprendere il nuovo. In tal modo le strategie cognitive vengono incanalate secondo la logica della parcellizzazione dei campi del sapere e la conoscenza perde la passionalità e la riflessività piegandosi all’esperienza di seconda mano e alla raccolta cumulativa dei dati. Certo, non è l’aspetto critico che è mancato in ambito pedagogico. Il vecchio umanesimo, con vari accenti, ha messo in rilievo la schematicità semplificatrice dei vari progetti meccanicisti e dei riduzionismi. Quello che invece è mancato è la comprensione delle possibilità di strutturare la retroazione riflessiva in programmi educativi e didattici adeguati alla nuova situazione che la globalizzazione andava delineando. Morin suggerisce l’apertura alla complessità che dovrebbe significare per la ricerca scientifica e umanistica la non chiusura dei confini del proprio territorio, l’incamminarsi verso la collaborazione poli-competente e pluridisciplinare. Ma L’a-metodologia di Morin prevede che tale apertura accolga l’alea, l’imprevedibile e l’improbabile come elemento determinante e non predeterminato intorno cui strutturare e ri-strutturare la conoscenza. Così l’apprendimento diviene uno stile di organizzazione che riflette in un qualche modo la velocità di adattamento organizzativo naturale. Proprio questa capacità è ciò che manca sostanzialmente al pensiero specialistico e riduzionista, che trova nella trasmissione del sapere la sua versione “scolasticizzata”. Nonostante la velocità con la quale il sapere specialistico risponde alle sollecitazioni del mondo complesso, non è mai sufficientemente veloce per aspirare alla comprensione totale della complessità. Questa insufficienza si ripercuote ancor più negativamente sulla struttura dell’istruzione, che per sue 13
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caratteristiche non riesce a far altro che duplicare, semplificandole, le esperienze che vengono fatte in altri contesti. Sono la policontestualità e la pluridisciplinarità, piuttosto, i tentativi che l’istruzione e la ricerca devono fare, così come ci insegna la conoscenza più avanzata, quella che combatte la specializzazione semplificatrice. Sembra anche evidente, per quanto si è accennato, che l’educazione ad un nuovo sapere deve procedere accanto all’educazione di un nuovo cittadino, non più appartenente ad uno Stato ma ad una società-mondo, ad una nuova società cosmopolita e planetaria. I tre principi di speranza cui Morin rimanda sintetizzano in modo eccellente quanto il filosofo e lo scienziato francese pensa guardando ad un “nuovo” futuro. Essi sono: l’improbabile, che si affaccia sulle possibilità impreviste e sconosciute che negano l’ineluttabile – principio d’apertura a ciò che non è ancora conosciuto –; le potenzialità umane, non ancora attualizzate, ma presenti nella creatività umana – principio d’apertura a nuove esperienze; la metamorfosi, come possibilità di cambiamento e di rigenerazione dell’umanità – principio di nuova identità, e vera, sua ultima speranza. BIANCA SPADOLINI
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B. Spadolini è Professore ordinario di Pedagogia generale e sociale presso l’Università degli Studi Roma Tre.
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INTRODUZIONE
Questa raccolta si apre con un testo dal titolo “L’anno I dell’era ecologica”. Prematuro nel 1972, questo titolo è oggi appropriato ed è diventato il titolo dell’intero libro. Per l’autore, il testo non ha subito gli insulti del tempo; o meglio: quasi oscuro all’epoca, è oggi pienamente intelligibile. L’insieme dei testi pubblicati qui, che coprono tre decenni, sta a indicare che il problema vitale dal punto di vista umano e planetario dell’ecologia ha bisogno di un pensiero che analizzi attentamente tutti gli aspetti della vita nella società e al tempo stesso il senso dell’avventura umana. Ringrazio Tessa Destais che mi ha spronato a riunire questi testi e senza la quale questo libro non sarebbe mai stato pubblicato. Ringrazio Nicolas Hulot che mi ha consentito di inserire il nostro dialogo in questo libro. Ringrazio Fabrice Gerschel, direttore di «Philosophie Magazine», che ha autorizzato la pubblicazione di questo dialogo che egli stesso aveva stimolato. Ringrazio infine Nicolas Truong che ha organizzato e introdotto il dialogo. La sua comprensione è stata e resta per me preziosa. E.M. 15
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La parola “ecologia” rimanda a quanto già contenuto nelle parole luogo, ambiente circostante, natura: ma essa aggiunge complessità alla prima, precisione alla seconda e sottrae alla terza la mistica, anzi l’euforia. Il concetto di luogo, povero in sé, rimanda solo a caratteristiche fisiche e a forze meccaniche; il concetto di ambiente circostante, pur restando vago, è migliore, nel senso che implica un avviluppamento placentare; il concetto di natura ci rimanda a una matrice, una fonte di vita, anch’essa vivente; questa idea è poeticamente profonda, ma ancora scientificamente debole. Questi tre concetti trascurano il carattere più interessante del luogo, dell’ambiente circostante e della natura: il loro carattere auto-organizzato e organizzativo. È per questo che occorre sostituire un termine più ricco e più esatto, quello di ecosistema. Che cosa è un ecosistema? L’ecologia, in quanto scienza naturale, è giunta a questo concetto che include l’ambiente fisico (biotopo) e l’insieme delle specie viventi (biocenosi) in uno spazio o una determinata “nicchia”. Ma l’ecologia attuale non ha potuto ancora trarre da questo concetto tutte le sue possibilità perché, per comprenderlo davvero, sarebbe 19
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necessario concepire una teoria dei sistemi e insieme una teoria dell’auto-organizzazione1. Diciamo in modo schematico che l’insieme degli esseri viventi in una “nicchia” costituisce un sistema che si organizza da solo. Esiste una combinazione di rapporti tra le diverse specie: rapporti di associazione (simbiosi, parassitismi) e di complementarietà (tra colui che mangia e colui che viene mangiato, tra il predatore e la preda), gerarchie che si costituiscono e regolamenti che si stabiliscono. Si crea un sistema di combinazione, con i suoi determinismi, i suoi cicli, le sue probabilità, i suoi rischi. È questo l’ecosistema, che lo si consideri a livello di una piccola nicchia o dell’intero pianeta. Detto in altri termini, esiste un fenomeno di integrazione naturale tra vegetali, animali, ivi compreso l’uomo, da cui deriva una sorta di essere vivente che è l’ecosistema. Questo “essere vivente” è estremamente robusto e, al tempo stesso, estremamente fragile. Estremamente robusto, poiché si riorganizza quando, per esempio, appare una nuova specie o scompare una specie che aveva un suo posto nella catena delle complementarietà; così si sono evoluti gli ecosistemi, senza perire, fino a questo secolo, a dispetto dei massacri che compiva l’uomo cacciatore, a dispetto delle strutturazioni che effettuava l’uomo agricoltore, a dispetto delle prime forme di inquinamento che provocava l’uomo urbano. Il carattere auto-riorganizzatore spontaneo è la forza dell’ecosistema. Ma, al pari di un essere vivente, esso può essere ucciso se gli si inietta un veleno chimico a dosi che provocano 1 Nota
del 2007: che ho sviluppato in La Méthode, t. I: La Nature de la nature, t. II: La Vie de la vie, Paris, Seuil, 1981-1985. Coll. “Points”. Trad. italiana: Il Metodo: ordine disordine organizzazione, Milano, Feltrinelli, 1985; La natura della natura, Milano, R. Cortina, 2001; La vita della vita, Milano, Feltrinelli, 1987.
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la morte a catena di specie legate le une alle altre e se si alterano le condizioni elementari della vita – come la riproduzione del plancton marino, per esempio. Già si vedono laghi morti, campi privi di vita animale. Qui, occorre comprendere una cosa: il problema più grave non è tanto che l’uomo utilizzi e dilapidi l’energia naturale: di energia ne troverà da vendere nell’irradiazione solare e nell’atomo. Non lo è neanche il fatto che egli scarichi nell’ambiente i suoi rifiuti: ogni essere vivente è escrementizio e “inquina” l’ambiente in cui vive. Ma gli escrementi entrano in un ciclo naturale: biodegradabili, essi sono anche bionutritivi. Il rischio è nel veleno che degrada senza poter essere a sua volta degradato, riversato in quantità tali da degradare l’organizzazione complessa degli ecosistemi. Ora, degradare l’ecosistema significa degradare l’uomo, poiché l’uomo, come ogni animale, si nutre non soltanto di energia ma anche, come ha detto Schrödinger, di neghentropia, vale a dire di ordine e di complessità. Qui interviene un dato fondamentale che è stato ignorato dal pensiero occidentale. Cioè che l’essere vivente, e a fortiori l’uomo, è un sistema aperto. Un sistema chiuso, per esempio un minerale, non effettua alcuno scambio con l’ambiente esterno; un sistema aperto vive soltanto in virtù del fatto che è alimentato dall’esterno, vale a dire, nel caso dell’essere vivente, dall’ecosistema. Ogni sistema aperto vivente (auto-organizzatore) è, evidentemente, relativamente indipendente nell’ecosistema: sviluppa il suo determinismo per rispondere ai rischi esterni e le sue “libertà” per rispondere al determinismo esterno. Esso ha una sua originalità. Ma questa indipendenza è dipendente dall’ecosistema, vale a dire che essa si costruisce moltiplicando i legami con l’ecosistema. Così, per esempio, un individuo autonomo del XX 21
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secolo costruisce la sua autonomia partendo dal consumo di una grande quantità di prodotti, di una enorme quantità di energia (tutti estratti dall’ecosistema) e da un lunghissimo apprendimento scolastico (che altro non è se non la conoscenza del mondo esterno). Così, più diventiamo indipendenti, più diventiamo dipendenti dal mondo esterno: è il problema della società moderna che crede, invece, di emanciparsi dal mondo esterno dominandolo. Aggiungiamo: più un sistema è evoluto, vale a dire complesso e ricco, più è aperto. L’uomo è il sistema più aperto di tutti, il più dipendente nell’indipendenza. Mai la civiltà era dipesa da un numero così vasto di fattori ecosistematici e qui, per ecosistema, non intendo soltanto la natura, ma l’ecosistema tecno-sociale, che si sovrappone al primo e lo rende ancora più complesso. Potrei dimostrare che l’ecosistema non è soltanto nutritivo in materia ed energia: garantisce anche l’organizzazione e l’ordine, nutre l’uomo in neghentropia, è per ogni essere vivente, ivi compreso l’uomo, coautore, cooperatore, coprogrammatore del proprio sviluppo. È quindi tutta l’ideologia occidentale a partire da Descartes che poneva l’uomo soggetto in un mondo di oggetti, che occorre ribaltare. È l’ideologia dell’uomo unità insulare, monade chiusa nell’universo, contro la quale il romanticismo ha potuto reagire solo poeticamente, contro la quale lo scientismo ha potuto reagire solo meccanicamente facendo anche dell’uomo una cosa. Il capitalismo e il marxismo hanno continuato a esaltare “la vittoria dell’uomo sulla natura” come se distruggere la natura fosse l’impresa più straordinaria che si potesse compiere. Questa ideologia dei Cortés e dei Pizarro dell’ecosistema ha portato nei fatti al suicidio; la natura vinta è l’autodistruzione dell’uomo. 22
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La coscienza ecologica è: 1° la coscienza che l’ambiente è un ecosistema, vale a dire una totalità vivente auto-organizzatasi (spontanea); 2° la coscienza della dipendenza della nostra indipendenza, vale a dire il rapporto fondamentale con l’ecosistema, che ci porta a rifiutare la nostra visione del mondo oggetto e dell’uomo insulare. Del resto, è il solo modo di comprendere le verità delle filosofie non occidentali – asiatiche e africane –, di riconciliarci con esse e di giungere a una visione universale del mondo. L’uomo deve considerarsi come il pastore delle nucleoproteine – gli esseri viventi – e non come il Gengis Khan del sistema solare. Infine, su un piano pratico immediato, l’uomo deve riconsiderare tutto il problema dello sviluppo industriale. In un breve lasso di tempo, alcuni spiriti sono passati dall’idolatria della crescita, panacea e parametro assoluto, al suo totale rifiuto come flagello apocalittico. A mio avviso, la vera presa di coscienza ecologica è che: la crescita industriale non è ambito chiuso all’interno del quale devono collocarsi tutti i nostri dibattiti e i nostri problemi politici e sociali; bisogna considerare questa crescita come un feed-back positivo (vale a dire l’aumento di una deviazione riguardo l’ecosistema), come un enorme aumento di entropia (vale a dire di disordine nell’ambiente, di forze di disintegrazione nell’ecosistema) e come una tendenza esponenziale che tende verso l’infinito (vale a dire verso zero, verso la distruzione), come farebbe una spinta demografica non controllata. In realtà, la crescita industriale è ancora meno controllata dell’espansione demografica. Anche in quel caso, si tratta di ribaltare la visione. La risposta non starebbe dunque in una nuova soluzione miracolo, la crescita zero, la condizione stazionaria, ma nella crescita controllata. Ora, tutto ciò pone un problema 23
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enorme, che è quello della politica su scala planetaria, poiché è evidente che il controllo della crescita deve venire dai bisogni planetari e non soltanto da quelli delle nazioni industrializzate. Si pongono allora inevitabilmente degli interrogativi: Quale controllo? Chi controllerà? E se si pone la questione dello sviluppo economico in questi termini, occorre anche porre la questione dello sviluppo dell’uomo, vale a dire di una mutazione dell’intera organizzazione sociale. Il capitalismo è incapace di risolvere il problema del controllo della crescita e, più in generale, il problema ecologico? Questo dipende dal livello al quale si pone il problema ecologico. Se si considera esclusivamente il suo aspetto tecnologico ed economico, allora è possibile – io dico soltanto ma chiaramente possibile – che il capitalismo sia in grado, grazie a uno sforzo tecnologico, di risolvere i problemi di inquinamento: costruire motori d’auto puliti, eventualmente senza benzina, ridurre i numerosi inquinamenti chimici in questo o quel settore dell’industria o dell’agricoltura, ecc. Ciò gli imporrà dei limiti, ma esso può superarli attraverso un aumento di concentrazione e di organizzazioni, soggetto e al tempo stesso stimolato dai controlli dello Stato. In questo senso, l’ecologia può dargli una nuova sferzata, come hanno fatto spesso le crisi economiche, letali nel loro principio, ma talvolta stimolanti nei loro effetti. D’altra parte, potrà svilupparsi un capitalismo ecologico che fabbrichi e venda il non-inquinante, il sano, il rigenerante. Che cosa dico? Tutto questo è già cominciato, e non soltanto in modo mitologico (come la pubblicità dei dentifrici, delle bevande gasate e persino di veleni come il tabacco che ci promettono l’alito fresco), esiste già un capitalismo alimentare, turistico, vacanziero e immobiliare, che vende la natura, il sole, l’acqua pura, la salute, ecc. 24
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A livello fondamentale o radicale, tuttavia, il problema ecologico ci obbliga a prendere in considerazione la ristrutturazione della vita e della società umana. In questo senso, all’ecologismo di “destra”, che è prima di tutto tecnologico, si oppone un ecologismo di “sinistra”. Le idee di socialismo sono state i miti annunciatori di questa aspirazione; la parola rivoluzione ha espresso la profondità della ristrutturazione necessaria; ma le formule cosiddette socialiste o rivoluzionarie attuali sono a mio avviso le caricature, le deviazioni e gli schemi rudimentali della straordinaria mutazione necessaria. La mia convinzione è che la società non esista ancora. Da mille anni, essa cerca a tentoni una formula, senza però averla mai trovata. Per esprimere il mio sentimento, mi servirò dell’analisi prebiotica. Prima e perché nascesse la prima cellula vivente, questa meraviglia di organizzazione che è la base di tutti gli organismi che si sono sviluppati a partire da allora, c’è voluto un miliardo di anni di reazioni chimiche, di assemblaggi di macromolecole, fino alla comparsa, per caso o per necessità se ne discute ancora, del primo sistema metabolico autoriproduttore possibile. A mio avviso, la storia umana, attraverso il rumore e il furore, i tentativi e gli errori, è una storia pre-societaria. Per arrivare a un’altra storia, sono necessarie sia la manifestazione di movimenti profondi, quasi inconsci, sia la presa di coscienza elementare di verità prime e di pericoli mortali. Esiste una critica dell’economia politica da parte dell’ecomovimento. Ora, non si tratta di sostituire, ma di integrare e di superare – ivi compreso l’ecologismo che, isolato e oggetto di ipostasi, diventerebbe una parola feticcio e un mito dello stesso stampo di quelli che l’hanno preceduto. Occorre, a mio avviso, costruire una metateoria e una nuova 25
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pratica. Ma, per questo, manca ancora l’essenziale: una scienza dell’uomo che sappia integrare l’uomo nella realtà biologica, determinando i suoi caratteri originari. Senza lo sviluppo di questa scienza, saremmo impotenti come la borghesia sarebbe stata impotente senza lo sviluppo delle tecnologie, come il socialismo in quanto movimento ascendente sarebbe stato impotente senza le teorie sociologiche di Saint-Simon, di Fourier, Proudhon, Bakunin e Marx. Abbiamo bisogno di una teoria dei sistemi auto-organizzatori e degli ecosistemi, vale a dire che occorrre sviluppare una bioantropologia2, una sociologia fondamentale3 e una ecologia generalizzata4. Per questo, non c’è bisogno di affidarsi allo sviluppo delle scienze; quest’ultimo si verifica in modo quantitativo, con mezzi enormi, ma con un enorme disordine, dovuto alla burocratizzazione, alla tecnocratizzazione, alla iperspecializzazione della ricerca scientifica. Le grandi scoperte, le teorie d’avanguardia nascono nelle brecce del sistema, come la scoperta del codice genetico da parte di Watson e Crick, e persino, per citare un esempio preso nell’ambito delle discipline classiche, la decifrazione della “lineare B” di cui parla in modo così esaustivo Vidal-Naquet nella prefazione al libro di John Chadwick5. La scienza progredisce oggi in modo statistico, per il numero delle ricer2
Nota del 2007: cfr. il mio Paradigma perdu, la nature humaine, Paris, Seuil, 1979, coll. “Points”. Trad. italiana: Il paradigma perduto: che cos’è la natura umana?, Milano, V. Bompiani, 1974. 3 Nota del 2007: cfr. Sociologie, Paris, Seuil, 1994, coll. “Points”. Trad. italiana: Sociologia del presente, Roma, Edizioni Lavoro, 1987. 4 Nota del 2007: cfr. La Méthode, t. II: La Vie de la vie, Paris, Seuil, 1981-1985. Coll. “Points”. Trad. italiana: La vita della vita, Milano, Feltrinelli, 1987. 5 Le Déchiffrement du linéaire B, Paris, 1972. Trad. italiana: Lineare B: l’enigma della scrittura micenea, Torini, Einaudi, 1959.
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che, e non in modo logico. Jacob Bronowski osserva a buon diritto che il concetto di scienza sul quale viviamo attualmente non è assoluto né eterno. È il concetto di scienza che deve passare a un livello di complessità, di ricchezza, di lucidità più elevato6. A mio avviso, la nuova ecologia generalizzata, scienza delle interdipendenze, delle interazioni, delle interferenze tra sistemi eterogenei, scienza al di là delle discipline isolate, scienza realmente transdisciplinare, deve contribuire a questo superamento.
6 Nota del 2007: cfr. il mio Science avec conscience, Paris, Seuil, 1990 (1982), coll. “Points”. Trad. Italiana: Scienza con coscienza, Milano, F. Angeli, 1987.
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Non è più tempo di lamentarsi per le catastrofi ecologiche. Né di immaginare che l’evoluzione delle tecnologie, da sola, potrebbe porvi rimedio. Il sussulto salvifico potrebbe venire soltanto da un enorme stravolgimento dei nostri rapporti con l’uomo, gli altri esseri viventi, la natura. Il problema ecologico ci riguarda non soltanto nelle nostre relazioni con la natura, ma anche nelle nostre relazioni con noi stessi. L’ecologia, in quanto disciplina scientifica, è nata alla fine del XIX secolo con il biologo tedesco Ernst H. Haeckel; e, nel 1935, con Tansley, è apparso “l’ecosistema”, concetto centrale che ha distinto il tipo di oggetto di questa scienza dalla maggior parte degli altri ambiti della ricerca. Nel 1969, in California, si è verificata una congiunzione tra l’ecologia scientifica e la presa di coscienza del degrado dell’ambiente naturale, non soltanto a livello locale (laghi, fiumi, città), ma ormai globale (oceano, pianeta), con effetti sui cibi, le risorse, la salute e lo psichismo degli esseri umani stessi. C’è stato quindi un passaggio dalla scienza ecologica alla coscienza ecologica. Inoltre, c’è stata una congiunzione tra la coscienza ecologica e una versione moderna del sentimento romantico della 31
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natura che si era sviluppato, principalmente tra i giovani, nel corso degli Anni Sessanta. Questo sentimento ha trovato nel messaggio ecologico una giustificazione razionale. Fino ad allora, qualsiasi ritorno alla natura era stato percepito, nella storia occidentale moderna, come irrazionale, utopico, in contraddizione con le evoluzioni “progressiste”. In realtà, l’aspirazione alla natura non esprime soltanto il mito di un passato naturale perduto, esprime anche i bisogni hic et nunc degli esseri che si sentono vessati, oppressi, schiacciati, in un mondo artificiale e astratto. La rivendicazione della natura è una delle rivendicazioni più personali e profonde, che nasce e si sviluppa nei luoghi urbani sempre più tecnicizzati, burocratizzati, cronometrati, industrializzati. Ci sono volute la scienza e la coscienza ecologiche perché se ne scoprisse la razionalità. Negli anni 1969-1972, la coscienza ecologica formula una profezia dai toni apocalittici. Annuncia che la crescita industriale conduce a un disastro irreversibile, non soltanto per l’insieme dell’ambiente naturale, ma per tutta l’umanità. Occorre considerare storico l’anno 1972, quello del rapporto Meadows, commissionato dal Club di Roma, e che colloca il problema nella sua dimensione planetaria1. Certo, i suoi metodi di calcolo erano semplicistici, ma esso rappresentava un primo tentativo per concepire insieme il futuro umano e biologico su scala planetaria. Analogamente, le prime carte geografiche stilate nel Medio Evo dai navigatori arabi contenevano enormi errori nella collocazione e nelle dimensioni dei continenti, ma costituivano il primo sforzo per concepire il mondo. 1 D.
Meadows e al., Halte à la croissance, Paris, Fayard, 1972.
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La profezia ecologista degli anni Settanta si è in parte auto-distrutta: la diffusione abbastanza rapida della coscienza dell’inquinamento e del degrado a livello locale o provinciale ha stimolato la realizzazione di dispositivi giuridici e tecnici che in qualche modo hanno corretto o ritardato il suo carattere disastroso. Ma una buona profezia è esattamente quella che stimola le reazioni e le lotte, in grado di evitare la catastrofe che essa ha predetto. Tuttavia, la profezia catastrofica è stata solo ritardata: quindici anni dopo, diversi incidenti spettacolari, tra cui Seveso e Cernobyl, l’hanno dimostrata e la grande allerta sulla biosfera è di fatto scattata.
Il secondario e l’essenziale Ormai, con il necessario distacco, si può vedere meglio che cosa c’era di secondario e di essenziale nella presa di coscienza ecologica. Ciò che era secondario, e che alcuni hanno considerato principale, era l’allerta energetica. Numerosi spiriti della prima ondata ecologica hanno creduto che si sarebbero dilapidate molto rapidamente le risorse energetiche del globo. In realtà, le potenzialità illimitate del nucleare e del solare indicano che la minaccia fondamentale non è là. Il secondo errore era il mito di una natura che rappresentava una sorta di equilibrio ideale, statica, che bisognava rispettare o ristabilire. Si ignorava che gli ecosistemi e la biosfera hanno una storia fatta di rotture, di equilibri e di riequilibri, di disorganizzazioni e di riorganizzazioni. Ma, allora, che cosa c’era di importante nella coscienza ecologica? 33
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Era, lo vedremo:
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1. la reintegrazione del nostro ambiente nella nostra coscienza antropologica e sociale; 2. la resurrezione ecosistemica dell’idea di natura; 3. l’apporto decisivo della biosfera alla nostra coscienza planetaria. Torniamo al concetto di ecosistema. In un dato luogo, le istanze geologiche, geografiche, fisiche, climatologiche (biotopo) e gli esseri viventi di ogni tipo, unicellulari, batteri, vegetali, animali (biocenosi) inter-retroagiscono per generare e rigenerare in continuazione un sistema organizzatore – o ecosistema – prodotto da queste stesse inter-retroazioni. In altri termini, le interazioni tra gli esseri viventi non sono unicamente di divoramento, di conflitto, di competizione, di concorrenza, di deterioramento e di depredazione, ma anche di interdipendenze, di solidarietà e di complementarietà. L’ecosistema si auto-riproduce, si auto-regola e si auto-organizza in modo tanto più sorprendente se si tiene conto del fatto che non dispone di alcun centro di controllo, di alcuna mente regolatrice, di alcun programma genetico. Il suo processo di auto-regolazione integra la morte nella vita, la vita nella morte. È il ciclo trofico nel quale, effettivamente, la morte – e la decomposizione – dei grandi predatori nutre non soltanto gli animali che si nutrono di carogne, non soltanto una moltitudine di insetti necrofagi, ma anche i batteri. Questi batteri, a loro volta, finiranno per fertilizzare il terreno; i sali minerali derivati dalle decomposizioni andranno a nutrire le piante attraverso le radici; le piante, a loro volta, nutriranno gli animali vegetariani, i quali nutriranno gli animali carnivori, ecc. 34
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Così, la vita e la morte si sostengono a vicenda, secondo la formula di Eraclito: «Vivere dalla morte, morire dalla vita». Bisogna restare strabiliati davanti a questa stupefacente organizzazione spontanea, ma non per questo idealizzarla poiché è la morte che regola tutti gli eccessi di nascite e tutte le carenze di cibo. Madre natura è, al tempo stesso, matrigna. Ci si può chiedere se gli ecosistemi non siano una sorta di computer selvaggi, creati spontaneamente a partire dalle intercomputazioni tra i viventi, che batteri, piante, animali sono tutti esseri le cui organizzazione e attività sono inscindibili da una organizzazione computante e da un’attività cognitiva. Anche le piante hanno delle strategie, alcune di lottare le une contro le altre per lo spazio o il sole. Così i rafani secernono sostanze nocive per eliminare altri vegetali dal loro spazio circostante; gli alberi si accalcano nelle foreste alla ricerca di un raggio di sole; i fiori usano la seduzione per attirare gli insetti bottinatori. Si osservano fenomeni incessanti di intercomputazioni e di intercomunicazioni che, a mio avviso, costituiscono una entità computante globale. Come il mercato economico è una sorta di elaboratore numerico spontaneo, nato da miriadi di calcoli e computazioni individuali, che regola di rimando questi calcoli e computazioni, così le intercomputazioni tra gli esseri viventi creano una sorta di supercomputazione (non numerica) che regola le interazioni stesse. È il solo modo di comprendere perché siano così numerosi i fiori – a cominciare dalle orchidee – che utilizzano strategie di attrazione, di seduzione per gli insetti, in modo che questi ultimi vadano a bottinare il loro polline; e di comprendere anche perché gli insetti stessi vadano verso queste piante. In altri termini, molte complementarietà diventano intelligibili se si concepisce l’ecosistema come una sorta di essere naturale spontaneo, 35
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con miliardi di teste e di arti. Altrettanto dicasi per il concetto di biosfera, ecosistema supremo che contiene e ingloba gli ecosistemi del nostro pianeta. Così i concetti di ecosistema e di biosfera introducono le loro ricchezze e le loro complessità nell’idea romantica di Natura. Fino a un’epoca recente, tutte le scienze ritagliavano arbitrariamente il loro oggetto nel complesso tessuto dei fenomeni. L’ecologia è la prima che tratta del sistema globale, con i suoi costituenti fisici, botanici, sociologici, microbici, dei quali ognuno rientra in una disciplina specializzata. La conoscenza ecologica necessita di una pluricompetenza in questi differenti campi e, soprattutto, di una comprensione delle interazioni e della loro natura sistemica.
Una scienza di tipo nuovo I successi della scienza ecologica ci mostrano che, contrariamente al dogma dell’iperspecializzazione, esiste una conoscenza organizzativa globale, la sola capace di articolare le competenze specializzate per comprendere le realtà complesse. Inoltre, la diagnosi di un male ecologico richiede non un’azione distruttiva su un bersaglio, ma un’azione regolatrice su una interazione; così si interviene ecologicamente contro un patogeno, non attraverso l’impiego massiccio di pesticidi che, per distruggere la specie reputata nefasta, distruggeranno la maggior parte delle altre specie, ma attraverso l’introduzione nell’ambiente di una specie antagonista della specie pericolosa, cosa che permetterà di regolare l’ecosistema minacciato. Siamo dunque in presenza di una scienza di tipo nuovo, che poggia su un sistema complesso, che fa appello sia alle 36
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interazioni particolari sia all’insieme globale, che fa riprendere il dialogo e il confronto tra gli uomini e la natura, e che permette interventi reciprocamente vantaggiosi. Analizziamo ora l’aspetto paradigmatico del pensiero ecologizzato. Io attribuisco al termine “paradigma” il significato seguente: “La relazione logica tra i concetti principali che dominano tutte le teorie e tutti i discorsi che ne dipendono”. Così, il grande paradigma della cultura occidentale dal XVII al XX secolo scinde il soggetto e l’oggetto, il primo affidato alla filosofia, il secondo alla scienza: tutto ciò che è spirito e libertà rientra nel campo della filosofia; tutto ciò che è materiale e determinista rientra nel campo della scienza. Questo stesso paradigma comporta la scissione tra il concetto di autonomia e quello di dipendenza: l’autonomia non ha alcuna validità nell’ambito del determinismo scientifico e, nell’ambito filosofico, allontana l’idea di dipendenza. Ora, il pensiero ecologizzato deve necessariamente spezzare questa catena di costrizione e riferirsi a un paradigma complesso in cui l’autonomia del vivente, concepito come essere auto-ecoorganizzatore, è inseparabile dalla sua dipendenza. L’organismo di un essere vivente (auto-eco-organizzatore) lavora senza sosta e dunque, per auto-sostentarsi, consuma la propria energia. Esso ha bisogno di rinnovarla attingendo al suo ambiente circostante e, quindi, dipende da questo ultimo. Così noi abbiamo bisogno della dipendenza ecologica per poterci assicurare la nostra indipendenza. In altri termini, la relazione ecologica ci porta in breve a una idea apparentemente paradossale: per essere indipendenti bisogna essere dipendenti. E più si vuole raggiungere la propria indipendenza, più occorre pagare il prezzo della dipendenza. Anche la nostra autonomia materiale e spirituale di esseri umani dipende dal nutrimento culturale, da un linguaggio, 37
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da un sapere, da mille cose tecniche e sociali. Più la nostra cultura ci permetterà la conoscenza di culture straniere e di culture passate, più il nostro spirito avrà la possibilità di sviluppare la sua autonomia. L’auto-eco-organizzazione significa anche, più profondamente, che l’organizzazione del mondo esteriore è inscritta all’interno della nostra organizzazione vivente. Così il ritmo cosmico della rotazione della Terra su se stessa, che fa alternare il giorno e la notte, si ritrova anche in noi sotto forma di orologio biologico interno; quest’ultimo determina il nostro ritmo nictemerale autonomo, che manifesta la sua periodicità, senza alcuno stimolo esterno, in un soggetto umano che vive senza orologio all’interno di una caverna. Analogamente, il ritmo delle stagioni è inscritto all’interno degli organismi vegetali e animali. Talune piante cominciano a secernere la loro linfa a partire dall’allungarsi delle ore diurne, altre a partire dall’intensificarsi della luce solare. Per la maggior parte degli animali, la primavera è la stagione degli amori, degli accoppiamenti, della riproduzione. In altri termini, il ritmo cosmico esterno si ritrova all’interno degli esseri viventi, proprio come noi abbiamo preso dal cosmo, per integrarla nelle nostre società, l’organizzazione del tempo che è poi quella del nostro calendario e delle nostre feste. Così il mondo è in noi, come noi siamo nel mondo.
Noi siamo dei superprimati È qui che dobbiamo completamente abbandonare la concezione insulare dell’uomo. Noi non siamo degli extra-viventi, degli extra-animali, degli extra-mammiferi, degli extra-primati. Noi non siamo separati dai primati, siamo di38
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ventati dei superprimati sviluppando qualità che erano sporadiche, o abbozzate, nelle scimmie, come il bipedismo, la caccia, oppure l’uso degli utensili. Noi non siamo separati dai mammiferi, siamo dei super-mammiferi contraddistinti per sempre dalla nostra relazione intima, calda, intensa di essere, incompiuta non soltanto al momento della nascita, ma fino alla morte, con nostra madre, come pure dalla relazione tra fratelli e sorelle di una figliata, fonte dell’amore, dell’affetto, della tenerezza e della fraternità umana. Noi siamo dei supermammiferi, dei supervertebrati, dei superanimali, dei superviventi. Questa idea basilare significa, all’improvviso, che non soltanto l’organizzazione biologica, animale, mammifera ecc, si trova nella natura, all’esterno di noi, ma anche nella nostra natura, all’interno di noi.
Il pensiero ecologizzato Al pari di tutti gli esseri viventi, noi siamo anche esseri fisici. Siamo costituiti da macrocellule complesse che risalgono a una epoca pre-biotica della Terra: gli atomi di carbonio di queste molecole, indispensabili alla vita, si sono formati nel crogiuolo di soli che hanno preceduto il nostro, dall’incontro di nuclei di elio. In definitiva, tutte le particelle che si sono legate nell’elio risalgono ai primi secondi dell’universo. Così, mentre noi siamo in un mondo fisico, questo mondo fisico, nella sua organizzazione fisico-chimica, è costitutivamente in noi. Ecco dunque un principio fondamentale del pensiero ecologizzato: non soltanto non si può scindere un essere autonomo (Autos) dal suo habitat cosmofisico e biologico (Oikos), ma bisogna anche pensare che l’Oikos è nell’Autos senza però che l’Autos smetta di essere 39
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autonomo e, per quanto riguarda l’uomo, relativamente estraneo al mondo che tuttavia è il suo. In realtà, noi siamo integralmente i figli del cosmo. Ma, attraverso l’evoluzione, attraverso lo sviluppo particolare del nostro cervello, attraverso il linguaggio, la cultura, la società, noi gli siamo diventati estranei, ce ne siamo distanziati, emarginati. Per comprendere la nostra condizione, riprenderò la parabola del matematico G. Spencer-Brown. Egli diceva pressappoco così: «Supponiamo che l’universo voglia prendere coscienza di se stesso. Che cosa farebbe? Ebbene, l’universo sarebbe costretto a far spuntare da se stesso una sorta di peduncolo, una sorta di tentacolo da polpo che dovrebbe allontanare da sé in modo da potersi osservare. Ma, nel momento in cui questo tentacolo si allontana, in cui l’estremità di questo tentacolo si volta verso l’universo per guardarlo, cessa di farne veramente parte e gli diventa estraneo. Così l’universo fallisce proprio là dove ha avuto successo: nel momento in cui è riuscito a conoscere se stesso, è troppo tardi, chi l’ha conosciuto, in un certo senso, se n’è reso autonomo»2. Alcuni hanno pensato di definire l’uomo attraverso la scissione e l’opposizione con la natura; altri attraverso l’integrazione con la natura. Ora, noi dobbiamo definirci sia attraverso l’inserimento reciproco sia attraverso la nostra distinzione in rapporto alla natura. Viviamo questa situazione paradossale. Oggi siamo arrivati al momento storico in cui il problema ecologico ci impone di prendere contemporaneamente coscienza del nostro rapporto fondamentale con il cosmo e della nostra estraneità. Tutta la storia dell’umanità è storia di in2 G.
Spencer-Brown, Laws of Form, New York, Bantam Books, 1972.
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terazione tra la biosfera e l’uomo. Il processo si è intensificato con lo sviluppo dell’agricoltura che ha profondamente modificato l’ambiente ecologico. Si è creata sempre di più una sorta di dialogo (relazione complementare e al tempo stesso antagonista) tra la sfera antropo-sociale e la natura. L’uomo deve smettere di agire come un Gengis Khan del sistema solare e considerarsi non come il pastore della vita ma come il copilota della natura. Un doppio pilotaggio è ormai imposto dalla coscienza ecologica: uno profondo, che deriva da tutte le fonti inconsce della vita e dell’uomo, e l’altro, quello della nostra intelligenza cosciente.
La necessità di un riaccorpamento disciplinare La coscienza ecologica può essere estremamente facile quando si tratta di mali, di nocività: ecco un Cerbobyl, una Severo, una catastrofe. Ma il pensiero ecologizzato è estremamente difficile poiché contraddice principi radicati in noi sin dalla scuola elementare, quando ci insegnano a fare separazioni e scissioni nel tessuto complesso del reale, a isolare dei campi del sapere senza poterli associare. Poi ci convincono che siamo condannati alla chiusura delle discipline, che il loro isolamento è indispensabile, mentre oggi le scienze della Terra e l’ecologia ci dimostrano che è possibile un riaccorpamento disciplinare. Siamo in qualche modo comandati da un paradigma che ci costringe a una visione segmentata delle cose; siamo abituati a pensare l’individuo separato dal suo ambiente e dal suo habitat, a chiudere le cose in se stesse. Il metodo sperimentale ha contribuito a disecologizzare le cose. Esso estrapola un corpo dal suo ambiente naturale, 41
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lo colloca in un ambiente artificiale controllato dallo sperimentatore, sottopone questo corpo a test che determinano le sue reazioni in diverse condizioni. Si è giunti a credere che la sola realtà fosse quella che emergeva dagli ambienti artificiali (sperimentali), mentre ciò che accadeva negli ambienti naturali non fosse interessante, non potendo isolare le variabili e i fattori.
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Le cose non sono cose Il metodo sperimentale si è rivelato sterile o perverso quando si è voluto conoscere un animale attraverso il suo comportamento in laboratorio e non nel suo ambiente naturale insieme ai suoi congeneri. È stato incapace di arrivare alle constatazioni capitali effettuate attraverso l’osservazione, nel loro ecosistema, degli scimpanzè. Là, si è scoperto che questi animali erano onnivori, inventivi, capaci di costruire utensili, di praticare la caccia; ci si è resi conto che si trattava di esseri complessi, molto diversi per carattere e intelligenza, che non praticavano l’incesto tra madre e figli, quando invece si credeva che il divieto dell’incesto fosse proprio dell’uomo. In altri termini, l’osservazione degli esseri nel loro ambiente naturale ha permesso di scoprire la loro vera natura, mentre il metodo di isolamento distruggeva l’intelligibilità della loro vita. Tutto ciò che isola un oggetto distrugge la sua realtà. Non basta dire «gli esseri umani, gli esseri viventi non sono cose»; occorre aggiungere che le cose stesse non sono cose, vale a dire oggetti chiusi. Bisogna smettere di vedere l’uomo come un essere soprannaturale e abbandonare il progetto formulato da Cartesio, e poi da Marx, di conquista e di possesso della natura. 42
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Questo progetto è diventato ridicolo a partire dal momento in cui ci si è resi conto che il cosmo immenso, nel suo infinito, resta fuori dalla nostra portata. È diventato delirante a partire dal momento in cui ci si è resi conto che è il divenire prometeico che conduce alla rovina della biosfera e, con ciò, al suicidio dell’umanità. La divinizzazione dell’uomo nel mondo deve cessare. Certo, dobbiamo valorizzare l’uomo ma noi oggi sappiamo che possiamo farlo soltanto valorizzando anche la vita: il rispetto profondo dell’uomo passa attraverso il rispetto profondo della vita3. La religione dell’uomo insulare è una religione disumana. La pressione della complessità degli eventi, l’urgenza e l’ampiezza del problema ecologico ci inducono a cambiare i nostri pensieri, ma abbiamo ugualmente bisogno di una spinta interiore volta a modificare i principi stessi del nostro pensiero. L’aspetto meta-nazionale e planetario del problema ecologico è apparso sin dagli anni 1969-1972. La minaccia ecologica ignora i confini. L’inquinamento chimico del Reno riguarda la Svizzera, la Francia, la Germania, i Paesi Bassi, i paesi rivieraschi del Mare del Nord. Abbiamo visto l’estrema insolenza della nube di Cernobyl: non soltanto essa non ha rispettato gli Stati nazionali, la divisione tra Europa dell’est ed Europa dell’ovest, ma ha persino valicato i confini del nostro continente! Il problema Cernobyl va ad aggiungersi a quelli dell’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera e del buco nell’ozono sull’Antartico. I problemi fondamentali sono planetari, come lo è il rischio che aleggia ormai sull’umanità. È in questi termini che dobbiamo pen3 Vedere Edgar Morin, La Méthode, t. II, La Vie de la vie, Paris, Seuil, 1980. Trad. italiana: Il Metodo II, La Vita della vita, Milano, Feltrinelli, 1987.
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sare in relazione ai mali che ci minaccino, ma anche in relazione ai tesori ecologici, biologici e culturali da salvaguardare: la foresta amazzonica è un tesoro biologico dell’umanità da preservare, come, su un altro piano, sono da preservare le diversità animali e vegetali, insieme alle diversità culturali – frutto di esperienze ultramillenarie – che, oggi lo sappiamo, sono inseparabili dalle diversità ecologiche. Più rapidamente e più intensamente di tutte le altre prese di coscienza contemporanee, le prese di coscienza ecologiche ci portano a non astrarre nulla dall’orizzonte globale, a pensare tutto nella prospettiva planetaria.
Una concezione barbara dello sviluppo Nello stesso tempo, siamo portati a porre nuovamente la questione dello sviluppo rifiutando il concetto – tanto rozzo e barbaro e che ha regnato a lungo – secondo il quale il tasso di crescita industriale significava lo sviluppo economico e lo sviluppo economico significava lo sviluppo umano, morale, mentale, culturale, ecc. Quando invece nelle nostre civiltà, quelle cosiddette sviluppate, esiste un atroce sottosviluppo culturale, mentale e umano. Si è voluto dare questo modello ai paesi del terzo mondo. La parola sviluppo deve essere completamente ripensata e resa più complessa. Eccoci al momento in cui il problema ecologico si ricongiunge al problema dello sviluppo delle società e dell’umanità tutta. L’umanità è nella biosfera, di cui fa parte; la biosfera è attorno al pianeta Terra, di cui fa parte. In anni recenti, James Lovelock ha proposto l’ipotesi Gaia: la Terra e la biosfera costituiscono un insieme regolatore che lotta e resiste da so44
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lo contro gli eccessi che rischiano di degradarlo4. Questa idea può passare per la versione euforica dell’ecologismo in rapporto alla versione pessimistica del Club di Roma. Così, per esempio, Lovelock pensa che Gaia disponga di regolazioni naturali contro l’aumento dell’ossido di carbonio nell’atmosfera e trovi da sola i mezzi per lottare contro i buchi nell’ozono comparsi ai poli. Tuttavia, nessun sistema, neanche quello meglio regolato, è immortale e un organismo, persino auto-riparatore e auto-rigeneratore, muore se un veleno lo tocca nel suo punto debole. È il problema del tallone di Achille. Anche la biosfera, essere vivente, benché non fragile come si sarebbe potuto credere, può essere colpita a morte dall’azione umana. L’idea di Gaia personifica la Terra, in un momento in cui, da venti anni, è tutto il pianeta Terra, nelle sue profondità e nella sua esistenza fisica, che è entrato nell’era delle scienze sistemiche: le scienze della Terra si sono ricongiunte negli anni Sessanta. Queste scienze multiple (climatologia, meteorologia, sismologia, geologia, ecc.) non comunicavano le une con le altre. Ora, le esplorazioni della tettonica delle placche sottomarine hanno fatto riemergere l’idea della deriva dei continenti, lanciata da Wegener all’inizio del secolo, e hanno rivelato che l’insieme della Terra costituiva un sistema complesso, animato da movimenti e trasformazioni multiple; da allora, si può concepire la Terra come un essere vivente non solo in senso biologico, con un DNA, un RNA5, ecc., ma nel senso auto-organizzatore e auto-regolatore di un 4 James Lovelock, La Terre est un être vivant. L’hypothèse Gaïa, Paris, Le Rocher, 1986. 5 Gli RNA o acidi ribonucleici sono copie quasi conformi delle sequenze genetiche portate nei cromosomi dalle molecole di DNA (acido desossiribonucleico).
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essere che ha una sua storia, vale a dire che si forma e si trasforma pur mantenendo la propria identità.
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L’età del ferro planetaria Così esiste un sistema organizzato chiamato Terra, esiste una biosfera con la sua auto-regolazione e la sua auto-organizzazione. Possiamo associare la Terra fisica e la Terra biologica e considerare, nella sua stessa complessità, l’unità del nostro pianeta. Ora, questa unità si era ricostituita a livello umano dalla scoperta dell’America: Cristoforo Colombo aveva fatto entrare l’umanità nell’era planetaria. Da quella epoca, l’umanità, dispersasi nel corso di sessantamila anni di evoluzione, si è trovata in intercomunicazione sempre più stretta. Ma, insieme a nuove solidarietà, si sono moltiplicati anche antagonismi e asservimenti. In questo senso, siamo ancora nell’età del ferro planetaria. Nel bene e nel male, tutto ciò che avviene in una parte del globo ha una portata planetaria. Sempre di più, ogni divenire locale è in inter-retroazione nel e con il contesto globale. Infine, in quegli anni Sessanta che hanno assistito alla nascita della scienza e della coscienza ecologica e a quella delle scienze della Terra, alla perdita dell’Assoluto e a quella della salvezza terrestre, alla coscienza infine dell’errare umano, le scoperte astrofisiche ci svelano un cosmo incredibile, in cui la Via Lattea non è altro che una piccola galassia periferica, in cui la Terra stessa non è altro che un micron sperduto. La storia umana, sul pianeta Terra, non è più teleguidata da Dio, dalla scienza, dalla ragione, dalle leggi della storia. Essa ci fa recuperare il significato greco della parola “pianeta”: astro errante. 46
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La nostra Terra-patria Sappiamo ormai che il piccolo pianeta sperduto è più di un habitat: è la nostra casa, maison, home, Heimat, è la nostra matrice e, ancora meglio, è la nostra Terra-patria. Abbiamo saputo che diventeremmo fumo nei soli e ghiaccio negli spazi. Certo, potremo partire, viaggiare, colonizzare altri mondi. Ma è qui, in casa nostra, che ci sono le nostre piante, i nostri animali, i nostri morti, le nostre vite. Dobbiamo preservare, dobbiamo salvare la nostra Terra-patria. È in queste condizioni che può verificarsi in noi la convergenza di verità venute dagli orizzonti più diversi, alcuni dalle scienze, altri dagli studi umanistici, altri dalla fede, altri dall’etica, altri dalla nostra consapevolezza di vivere l’età del ferro planetaria. È ormai su questa Terra sperduta nel cosmo astrofisico, questa Terra “sistema vivente” delle scienze della Terra, questa biosfera Gaia, che può concretizzarsi l’idea umanista dell’epoca dei Lumi, che riconosce la stessa qualità a tutti gli uomini. Questa idea può allearsi al sentimento della natura dell’era romantica, che ritrovava il rapporto ombelicale e nutritivo con la Terra-madre. Allo stesso tempo, possiamo far convergere la commiserazione buddista per tutti i viventi, la fraternità cristiana e la fratellanza internazionalista – erede laica e socialista del cristianesimo – nella nuova coscienza planetaria di solidarietà che deve legare gli umani tra loro e con la natura terrestre.
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L’era planetaria comincia alla fine del XV secolo con la scoperta, da parte degli europei, di un continente popolato da culture e divinità sconosciute. L’unità microbica del mondo si realizza immediatamente. Il treponema pallido attraversa l’Atlantico, si diffonde in Europa e, in sette anni, raggiunge la Cina attraverso la via delle carovane, mentre il nostro bacillo di Koch aggredisce le popolazioni indiane d’America. Il tabagismo si diffonde in Europa e l’alcolismo colpisce l’America. Le patate, i pomodori, il mais si diffondono nell’Antico Mondo, il cavallo, il grano e il caffé nel Nuovo. Una rete sempre più fitta di scambi e di comunicazioni si intesse sul pianeta. La mondializzazione si amplifica nel XIX secolo, con l’irruzione dell’Europa colonialista sull’insieme del globo. Essa si scatena nel XX secolo durante e tramite due guerre mondiali. L’economia è mondializzata. Il mercato è mondiale. Il capitalismo è internazionale. L’ecologia è diventata un problema planetario. La Terra nella sua globalità è stata filmata e l’immagine dell’“arancia blu” viene proiettata in continuazione sugli schermi televisivi davanti agli occhi di tutti gli umani. Oggi, ognuno di noi è come un singolo punto di un ologramma e contiene, in una certa misura, il tutto planetario che lo contiene. Così, ogni mattina, io prendo il tè che viene 51
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dallo Yunnan o il caffé che viene dall’Etiopia, ascolto la mia radio di fabbricazione giapponese che mi informa sugli avvenimenti del mondo intero, mi infilo gli slip e la camicia di cotone egiziano o indiano confezionati a Taiwan o in Corea, prendo il giornale, le cui pagine sono fatte con gli alberi della Norvegia o del Brasile, ascolto un disco dove una cantante nera interpreta la Butterfly giapponese dell’italiano Puccini. A pranzo e a cena, i pompelmi della California o di Israele, gli ananas e i manghi dell’Africa, le banane della Martinica, i fagiolini del Kenya, il riso del Pakistan si ritrovano alla mia tavola. L’africano nella sua boscaglia o nella sua bidonville non è più isolato: l’Occidente è in lui; egli subisce gli effetti della monocultura, dell’urbanizzazione, del sistema economico occidentale, ed è sempre meno in grado di sottrarsi ai modelli di habitat, di consumismo del mondo bianco. Tuttavia, l’unità planetaria è lacerata, convulsa. Le solidarietà sono conflittuali e i conflitti sono solidali gli uni con gli altri. Il conflitto del Golfo rivela la dipendenza del mondo dai giacimenti di petrolio del Kuwait. Ci rivela anche che le interazioni tra religioni, etnie, razze, nazioni sono più che mai foriere di morte. In queste condizioni, le guerre dell’era planetaria sono guerre intestine. Come in una malattia auto-immune, in cui le cellule di uno stesso organismo non riescono a riconoscersi come sorelle e si fanno la guerra come nemiche, i componenti dell’organismo planetario continuano a volersi distruggere tra loro. Siamo nel pieno dell’età del ferro planetaria. Una coscienza planetaria è certamente non sufficiente, ma necessaria per uscire da questa età del ferro. La coscienza planetaria non deve essere solamente la coscienza dell’era planetaria. Deve portare con sé la convergenza di numerose prese di coscienza: la coscienza antropo52
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logica, la coscienza ecologica, la coscienza tellurica, la coscienza cosmica. La coscienza antropologica si è rinnovata da quando la preistoria ha riconosciuto l’unità originaria di Homo sapiens, da cui si sono differenziate razze ed etnie, e da quando la biologia ha rivelato l’unità fondamentale, genetica, cerebrale, psichica, del genere umano. Sono diverse decine di milioni di anni che è cominciata la diaspora planetaria dell’umanità, dove ogni frammento si chiude nel suo linguaggio, nei suoi miti, nei suoi riti e monopolizza per se stesso la qualità di uomo. Dobbiamo dunque abbandonare l’idea che le razze e le culture separino originariamente gli uomini e occorre riconoscere il cordone ombelicale comune. Occorre sapere che l’era planetaria pone fine alla diaspora umana e che essa ci permette di ritrovare e di raggiungere l’unità umana, proprio attraverso la diversità delle culture. La coscienza ecologica ci fa abbandonare l’idea che il nostro ambiente sia fatto di elementi, di cose, di specie vegetali e animali che il genio umano può impunemente manipolare e asservire. Essa ci rivela che l’insieme delle interazioni tra gli esseri viventi all’interno di un sito geofisico costituisce una organizzazione spontanea che ha sue regolazioni proprie, l’ecosistema, e che gli ecosistemi sono inglobati in una entità di insieme, auto-organizzata e auto-regolata, che forma la biosfera. Essa ci indica che la crescita industriale, tecnica e urbana incontrollata tende non soltanto a distruggere ogni vita negli ecosistemi locali, ma anche e soprattutto a degradare la biosfera e a minacciare alla fine la vita stessa, ivi compresa quella umana, che fa parte della biosfera. Essa ci insegna al tempo stesso che la minaccia letale è di natura planetaria e, in questo senso, la coscienza ecologica è una componente della nuova coscienza planetaria. 53
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La coscienza tellurica completa la coscienza ecologica. Da quando, negli anni Sessanta, le scienze della Terra hanno potuto comunicare tra loro, siamo in grado di sapere che la Terra non è una palla da biliardo cosmica, è un sistema complesso auto-organizzatore e auto-regolatore dotato di una vita propria, di una sua storia singolare, di un divenire evolutivo. Così, l’umanità è nella biosfera, di cui fa parte. La biosfera avvolge la Terra di cui fa parte. Il pianeta Terra con la sua biosfera e la sua umanità costituisce un insieme complesso. Noi non siamo esseri soprannaturali, siamo figli della vita. Ce ne siamo differenziati fino a credere di esserne estranei, ma non possiamo né dobbiamo separarcene se vogliamo continuare l’avventura umana. Infine, la coscienza cosmologica ci permette di collocare il nostro pianeta nel cosmo. Non siamo più nell’universo di Copernico né di Laplace. Il mondo non è più quella macchina determinista perfetta animata da un movimento perpetuo. Una rivoluzione di gran lunga più incisiva della rivoluzione copernicana si è verificata circa venti anni fa. Dopo Copernico, la Terra, retrocessa al terzo posto cosmico, restava tuttavia vicina al centro dell’universo, il suo Sole. Oggi, il Sole è un piccolo astro periferico, ai confini di una galassia periferica, in un cosmo privo di centro e dove le galassie si allontanano le une dalle altre a velocità vertiginose. La nostra Terra non è altro che un minuscolo pianeta sperduto in un cosmo gigantesco, dove brulicano a miliardi stelle e galassie. È un piccolo pianeta tiepido in spazi infiniti dove regna un freddo glaciale, a eccezione della fornace delle stelle dove regna un fuoco disintegrante. Questo cosmo, a quanto pare, è formato da una deflagrazione iniziale a partire da cui ha cominciato a disintegrarsi e al tempo stesso a organizzarsi. Va verso la dispersione? Verso una nuova contrazione? Da 54
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dove veniamo? Dove andiamo? Esiste una qualche finalità nell’universo? La nostra venuta al mondo ha un senso? Siamo soli nell’immensità di miliardi di anni luce? Perché siamo diventati così estranei in questo cosmo del quale siamo i figli? Oggi, siamo immersi in queste incertezze e condannati a vivere con questi enigmi. Ma in queste incertezze, sappiamo ormai che la Terra è la nostra home, la nostra casa comune, la nostra patria. È il solo habitat gradevole, conviviale, con i suoi fiumi, i suoi boschi, le sue montagne, i suoi fiori, i suoi animali, la diversità delle sue specie, la diversità delle nostre culture, la diversità degli umani. Noi siamo a casa nostra. Tutte queste prese di coscienza si basano su conoscenze recenti: è a partire dagli anni Sessanta che lo sviluppo delle scienze biologiche, delle scienze della preistoria, della scienza ecologica, delle scienze della Terra e infine dell’astrofisica e della cosmologia ci ha permesso di percepire, ricollocare e concepire noi stessi in modo rivoluzionario nella sfera della vita, sulla Terra, nel mondo. È in modo sincrono che la Terra è stata oggettivata sugli schermi televisivi. La maggior parte degli umani sente ancora solo superficialmente e sporadicamente la propria cittadinanza terrestre; la maggior parte degli scienziati, chiusa nelle loro specializzazioni settoriali, ne è ugualmente inconsapevole; la maggior parte dei filosofi resta meravigliosamente ignorante di quello che le scienze dicono del mondo. Non abbiamo ancora adattato la nostra visione del mondo al mondo. La nostra idea dell’uomo non ha ancora trovato il suo posto singolare e complesso, oscilla tra la visione filosofica che ne fa l’unico soggetto in un mondo di oggetti e la visione scientista che ignora lo spirito umano. Dobbiamo compiere uno straordinario sforzo di adeguamento. Occorre ab55
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bandonare per sempre la pseudo-missione di gestire la conquista della natura che Descartes come Marx avevano assegnato all’umanità, come se fossimo totalmente estranei a questa natura. Non si tratta più di dominazione del pianeta, ma di amministrare un condominio in cui cooperano le forze organizzative e regolatrici incoscienti della natura e le attitudini organizzatrici coscienti dell’uomo. Abbiamo bisogno di un doppio pilotaggio uomo-natura. Dobbiamo abbandonare anche l’idea, diffusa da venticinque anni, che avevamo finalmente trovato la formula della buona società e del vero sviluppo, che le nostre scienze dell’uomo e della natura erano quasi complete e che avevamo raggiunto la vera coscienza. Anzi, le pseudo-soluzioni cosiddette sovietiche ci hanno fatto regredire, comprenderemo presto che il sistema trionfante dell’Occidente metterà a nudo le sue carenze, che queste soluzioni porranno problemi più gravi di quelli che hanno risolto, che noi arriveremo a una crisi o a una situazione di stallo della civiltà. Comprenderemo sempre di più che non solo le ricette dello sviluppo del terzo mondo, ma anche il nostro sviluppo materiale, tecnico, economico producono un sotto-sviluppo mentale, psicologico, morale. Comprenderemo, insomma, che era la nostra concezione dello sviluppo a essere sotto-sviluppata. Vediamo anche che non soltanto le nostre scienze umane restano sub-scientifiche e sub-filosofiche, ma che le scienze della natura sono in una vera e propria ripresa. Allora dobbiamo considerare che siamo ancora nella preistoria dello spirito umano e sempre nell’età di ferro planetaria. Siamo in un’era agonizzante, di morte e di nascite. Come mai prima, le minacce convergono sul nostro pianeta, sulla sua biosfera, i suoi esseri umani, le sue culture, la nostra civiltà. 56
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Il fattore tragico, o comico, è che tutte queste nuove minacce (disastri ecologici, annientamento nucleare, manipolazioni tecno-scientifiche, ecc.) vengono dalle evoluzioni stesse della nostra civiltà. Il problema di dominare il pianeta non ha alcun senso. La Terra non ci appartiene, siamo noi che le apparteniamo. Siamo apparentemente diventati i suoi sovrani. In realtà siamo reciprocamente sovrano l’uno dell’altro. Oggi si tratta di controllare lo sviluppo incontrollato della nostra era planetaria. La Terra-patria è in pericolo. Noi siamo in pericolo e il nemico, oggi, finalmente, siamo in grado di comprenderlo, non è altri che noi stessi.
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ENERGIA
Il contesto planetario Il pianeta nel suo complesso conosce un aumento della domanda di energia, soprattutto nei paesi che registrano una crescita tecno-industriale. Esso dispone ancora di risorse fossili importanti (carbone, gas, petrolio) ma che sono limitate e per di più – per quanto riguarda carbone, petrolio e gas – inquinanti. Dispone ancora di riserve di alberi, che sono però minacciate dalla deforestazione. Dispone variamente di risorse idrauliche. Lo sviluppo delle energie rinnovabili (eoliche, solari, maremotrici) è soltanto agli inizi. Lo sviluppo dell’energia nucleare è diseguale e pone problemi di sicurezza. Proprio per via dello sviluppo tecno-industriale, dei nuovi bisogni di civiltà e della crescita demografica, il pianeta subisce il peso sempre crescente delle minacce sulla biosfera, che sono conseguentemente minacce sull’umanità stessa. Da qui, le conferenze di Rio, di Kyoto, di Johannesburg, che confermano le diagnosi allarmanti senza tuttavia imporre processi riformatori. 61
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A dispetto di vaste zone di sotto-consumo e di miseria che provoca lo sviluppo stesso, noi siamo travolti dal vortice di una civiltà della produzione/consumo senza freni. Più approfonditamente, è tutto il dinamismo di una civiltà, nata dall’Occidente, che comporta gli sviluppi non stop della scienza, della tecnica, dell’industria, della produzione, del consumo, a trovarsi a corto di regolamenti. Questo dinamismo può essere assimilato a un feed-back positivo, una violenza dal carattere disintegrante, se non trova controlli e regole. È proprio questo processo che ha provocato e provoca lo “sviluppo” e che tenta di regolare il concetto di sviluppo sostenibile. Inoltre, deve apparirci sempre più chiaramente il carattere aleatorio del contesto planetario. La canicola dell’estate 2003 ci fa presagire il complesso di perturbazioni energetiche, umane, sanitarie, economiche, sociali che determinerebbe un riscaldamento climatico della nostra zona temperata. A questo contesto ecologico sregolato si aggiungono un contesto economico problematico e un contesto geopolitico pericoloso e incerto, in cui si esasperano gli antagonismi. È necessaria ormai una cooperazione mondiale su tutti i problemi fondamentali, tra i quali, ovviamente, i problemi energetici. Così, possiamo già constatare che l’elaborazione di una centrale sperimentale per realizzare la fusione nucleare impone la collaborazione dell’Europa, degli Stati Uniti, della Russia e della Cina. Dobbiamo sempre tenere in considerazione il contesto planetario al momento di concepire una politica energetica.
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Il contesto europeo La situazione energetica nazionale deve essere collocata in seno al contesto europeo. Quest’ultimo subisce gli stessi rischi planetari e comporta una interdipendenza europea specifica. Comporta le direttive dell’Unione europea (come per esempio di arrivare al 21% di produzione di energie rinnovabili); comprende molteplici e ricche esperienze dei nostri partner europei, in particolare il Belgio, la Danimarca, la Germania, il Lussemburgo, la Spagna, nel campo della riumanizzazione delle città, in quello delle energie rinnovabili, e nella diversità delle politiche nucleari, tra cui quelle di uscita dal nucleare intraprese dal Belgio e dalla Germania. È necessario prendere in considerazione un confronto e uno scambio di esperienze, sviluppare una politica europea comune in cui l’interdipendenza assicuri l’indipendenza comune.
Condizioni del problema francese La Francia registra una dipendenza energetica di oltre il 40% riguardo le fonti lontane e a rischio. Gli inquinamenti e le malattie generati dalle molteplici utilizzazioni del petrolio minacciano il nostro ambiente e la qualità della nostra vita. Le energie rinnovabili (geotermiche, eoliche, solari, maremotrici) sono sotto-sviluppate, inibite probabilmente dal grande sviluppo nucleare. La Francia deve affrontare la prevedibile scomparsa delle energie fossili insieme ai rischi e alle incertezze di tutti i generi per il futuro. 63
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Infine, i diversi problemi apparsi in occasione della canicola e della siccità dell’estate 2003 hanno evidenziato i punti deboli dei nostri dispositivi: la lentezza della reazione all’evento (come era già accaduto per il sangue contaminato) mostra gravi inerzie amministrative e politiche; l’alimentazione delle centrali idrauliche ha subito gli effetti della siccità e il funzionamento delle centrali nucleari ha subito gli effetti del caldo. Di qui, secondo il duplice imperativo dell’autonomia energetica nazionale e della riduzione delle nocività e degli inquinamenti, è importante ridurre le energie importate (petrolio, carbone). Si possono indicare qui di seguito le prime misure economiche auspicabili nelle attuali condizioni: limitazioni della climatizzazione, soppressione progressiva del riscaldamento elettrico, limitazione delle temperature delle abitazioni e degli uffici, regolazione dei periodi di riscaldamento in funzione della temperatura esterna e non dei programmi stagionali, sviluppo della cogenerazione. Da notare anche che alcune economie necessiterebbero di un importante cambiamento di comportamento degli utenti (in particolare per quanto riguarda l’impiego delle automobili) e che altre necessiterebbero di grandi lavori importanti, segnatamente creare le vie per il trasporto misto stradale-ferroviario nord-sud, transalpino e trans-Pirenei (5,5 milioni di camion consumano il 95% di petrolio ed emettono il 35% di anidride carbonica) o, ancora, creare cinture di parcheggi intorno alle città. Infine, c’è la necessità di sviluppare le energie rinnovabili. Queste devono essere considerate non soltanto ognuna nella sua specificità propria, ma anche come un insieme in cui associare e combinare per quanto possibile l’eolico, il solare, il foto-voltaico, il geotermico, il maremotore. 64
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Osserviamo già il grande sviluppo di queste energie in Spagna (dove l’energia eolica deve raggiungere il 46% del potenziale totale nel 2011) e in Germania. In questo senso, occorrerebbe prendere in esame le possibilità di sviluppare le fonti diverse di biocarburanti, come pure le utilizzazioni della biomassa, che un programma di riforestazione sarebbe in grado di procurare.
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La prospettiva temporale Infine, è necessario introdurre una prospettiva temporale a lungo termine. Bisogna distinguere per i decenni a venire il prevedibile, il probabile e l’incerto, tenendo conto che spesso accade l’inatteso. Così possiamo prevedere la sparizione a termine delle energie fossili, ma non possiamo prevedere quando potremo servirci della fusione nucleare, catturare l’ossido di carbonio, sostituire l’auto a benzina. Del resto, la durata degli effetti nefasti delle scorie nucleari si protrarrebbe per migliaia, o meglio, milioni di anni, mentre non si possono fare previsioni che vadano oltre un secolo. Tuttavia, non si può escludere che si possano trovare i mezzi per sopprimere la nocività delle scorie radioattive, per esempio creando centrali alimentate dalle scorie stesse. Ci troviamo davanti a un futuro ecologico minacciato e, insieme, a un futuro climatico inquietante. Ci troviamo davanti a un futuro storicamente incerto, sul quale aleggiano minacce mortali, ma che porta con sé speranze finora sconosciute. 65
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Anche la prospettiva energetica per gli anni a venire deve essere accompagnata da una prospettiva a più lunga scadenza, in cui siano presi in esame i grandi progressi possibili insieme agli eventuali rischi. Tutto questo ci porta a combinare il principio di prudenza (nella sicurezza) a quello dell’audacia (negli investimenti e nella ricerca delle soluzioni future). Così dunque, per collocarci nel tempo: – la fusione nucleare risolverebbe molti problemi, ma il primo reattore di ricerca (ITER) sarebbe pronto solo tra una ventina di anni; – le autovetture ibride sono solo al loro stadio preliminare, ma potrebbero conoscere un grande sviluppo nei prossimi decenni; – lo sfruttamento utile e senza pericolo dell’idrogeno a fini energetici è una possibilità che non si può ancora datare; – la formula per catturare l’ossido di carbonio non è ancora stata trovata. Con queste incertezze, sarebbe importante sviluppare al massimo le energie rinnovabili e le centrali di cogenerazione e investire massicciamente sulle nuove fonti di energia. Il problema grande e difficile è di assicurare una continuità energetica fino a quando non ci sarà un impiego soddisfacente delle energie rinnovabili, non sia possibile lo sfruttamento economico dell’idrogeno, non si realizzi la fusione nucleare. Anche la risposta ai principali problemi energetici passa attraverso un investimento massiccio sulla ricerca e lo sviluppo, in particolare nei settori in cui questi sono sotto-sviluppati o trascurati: la ricerca sulle energie rinnovabili dispone di mezzi cinquanta volte più deboli del nucleare (ci si 66
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può chiedere se l’investimento sull’EPR – da 2 a 3 miliardi di euro – avvenga a scapito di investimenti sul rinnovabile). La ricerca deve mirare a migliorare le prestazioni e il rendimento delle eoliche, della geotermia, del solare; deve prendere in esame lo sviluppo delle eoliche off-shore, e lo sfruttamento dell’energia delle onde e delle maree. Deve mirare a trovare le migliori tecniche per trasformare in gas il carbone. Deve aspirare a trovare le tecniche per la cattura dell’ossido di carbonio (e nell’attesa si può prendere in considerazione la riforestazione dei terreni incolti). Deve ugualmente investire sulla fattibilità delle vetture di tipo ibrido (elettricità, benzina) predisponendo un nuovo tipo di vettura che non sia alimentata a benzina.
La problematizzazione del nucleare Il nucleare, per la prima volta, è ufficialmente considerato problematico. Questa problematizzazione si pone in una prospettiva di futuro che comporta le incertezze già indicate sopra. Il nucleare presenta vantaggi (nessun inquinamento nell’atmosfera), inconvenienti (necessità di un’assoluta sicurezza) e rischi (incidenti gravi, improbabili ma possibili, obiettivi ideali di attentati, radiazioni radioattive delle scorie). Esistono protezioni affidabili soltanto a breve e medio termine per le scorie radioattive con radiazioni a lunghissima durata. Tuttavia, abbiamo detto, una centrale potrebbe essere alimentata dalle scorie radioattive, eliminandone così la nocività. Per contro, le nuove minacce di attentati potrebbero minacciare le centrali (la caduta di un aereo sulla Hague pro67
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vocherebbe un Cernobyl moltiplicato per 6); un riscaldamento climatico turberebbe il funzionamento delle centrali nei periodi di canicola. Esiste anche la dipendenza dal nucleare proveniente dall’estero: l’uranio nigeriano e canadese (lo sfruttamento della miniera di uranio canadese è stato sospeso in seguito a forti inondazioni). Il nucleare è così soggetto a rischi specifici e ormai a minacce esterne. Così, dato che le attuali centrali diventeranno obsolete solo nel 2020, sembra inutile decidere una nuova centrale EPR prima del 2010. L’attuale incertezza non permette di essere rassicurati sul fatto che l’EPR concepito negli Anni Ottanta sarà il filone del futuro. Mi sembra necessario un periodo di riflessione di otto anni.
SOCIETÀ
Il complesso sociale L’energia ci pone non soltanto direttamente problemi tecnici ed economici, ma anche indirettamente i problemi di trasporto, di habitat, di produzione, del consumo, della città, del modo di vita. Ci porta a considerare i problemi chiave della società. La società è un complesso nel senso in cui la parola “complexus” significa “ciò che è stato tessuto insieme” e, se seguiamo i fili energetici, arriviamo al complesso d’insieme. Questo complesso comprende i comportamenti e le finalità individualisti che contraddistinguono le nostre abitudini di vita, il nostro genere di vita, il nostro stile di vita, vale a dire la nostra vita quotidiana e personale. 68
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Occorre dunque collocarci nel complesso: economia → ecologia → società → civiltà → politica
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