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Italian Pages 193 [203] Year 2011
i Robinson / Letture
Stefano Caselli Davide Valentini
Anni spietati Torino racconta violenza e terrorismo
Editori Laterza
© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council La cartina è stata realizzata da Luca De Luise
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9641-2
a C. e F.
Indice
Prologo. Segni sulla pietra
5
Per un’indecifrata perfezione del caso
8
Questo luogo del cielo chiamato Torino
25
Torino a cinque punte
38
Il sindaco della Falchera
50
L’ultimo degli scudetti
64
Nella primavera del 1977
71
«In una giornata vittoriosa di lotta»
87
«Il direttore si preoccupa troppo»
100
Il processo deve ricominciare
114
Torino che non è New York
130
Anni spietati
143
Ultima corsa
165
Epilogo 184 Ringraziamenti 187 Indice dei nomi
189 VII
Anni spietati Torino racconta violenza e terrorismo
2
3
Prologo
Segni sulla pietra
Io, a quella storia, non ci avevo mai creduto. Voglio dire, quel la dei chewing gum, o meglio, dei «cicles», come si dice a To rino. Avete mai notato i marciapiedi? Sono pieni di macchie scure e piccole protuberanze quasi piatte e circolari. Ovun que ci sia cemento, ci sono quei segni. Per anni, da bambino, ho cercato una spiegazione plausibile. A chiunque chiedessi, sempre la stessa risposta: «Cicles. Sono i cicles che la gente sputa per terra». Non è possibile, pensavo io. Sono troppi, decine e decine; e poi la gente mica sputa in continuazione. Non mi hanno mai convinto. Fino a quando, un giorno, mi è capitato tra le mani un arti colo di Primo Levi, «I segni sulla pietra». E allora, non ci po tevo credere: parlava proprio di quelle macchie che mi cruc ciavano da bambino. E con mia grande sorpresa, ho scoperto che sì, sono proprio cicles: «Dappertutto, ma più numerose nei tratti più frequentati, si notano sulle lastre delle macchie rotonde, del diametro di pochi centimetri, biancastre, grigie o nere. Sono gomme da masticare, incivilmente sputate a ter ra, e testimoniano delle eccellenti proprietà meccaniche del materiale di cui sono costituite. [...] La richiesta di una gom ma che resista, deformandosi ma senza distruggersi, al tor mento della masticazione, fatto di pressione, umidità, calore ed enzimi, ha condotto ad un materiale che resiste fin troppo bene al calpestio, alla pioggia, al gelo ed al sole d’estate». È il materiale archeologico che si conserva più a lungo sui nostri marciapiedi. Da scienziato della materia, Levi sa che si tratta di chiazze praticamente indistruttibili, con il tempo diventa 5
no scure e non scompaiono mai. Nel futuro descriveranno i luoghi dove sono esistiti bar e locali. Lì le gomme sono state sputate sul selciato o sull’asfalto. E oggi uno straniero, che non conosce la città, può benissimo trovare questi locali spo standosi nel senso delle gomme più fitte, allo stesso modo con cui gli squali trovano le loro prede ferite seguendo le tracce del sangue nell’acqua. Levi racconta anche dell’incisione esagonale di fronte al 9bis di corso Re Umberto a Torino, tra le macchie dei chewing gum. Sembra un buco qualsiasi, di quelli che si riempiono d’acqua con due gocce di pioggia. Invece è storia: è il segno lasciato da una bomba inesplosa da 180 libbre, sganciata da un aereo alleato la notte tra il 12 e il 13 luglio 1943, durante il bombardamento più terribile mai subito da Torino (815 morti e 914 feriti in poche ore): «Questi ordigni erano prismi d’acciaio che venivano lanciati alla cieca dagli aerei, ed erano disegnati in modo da cadere verticalmente, con tale impeto da perforare tetti, solai e soffitti; alcuni di essi, caduti sui marciapiedi, hanno forato nettamente la pietra spessa dieci centimetri, come punzoni di trancia». Ecco, in quei pochi centimetri quadrati di città si mescolano la storia minuscola dei cicles calpestati e quella maiuscola delle bombe e del de stino. Tutto in una sola pietra. È così. Ci sono storie, piccole e grandi, che solo le città sanno raccontare. Come se i marciapiedi, i tombini, le fine stre, i muri delle case, tutto, insomma, fosse un reticolo con fuso di corde vocali immaginarie. Memorie durature, parole scolpite nella pietra che di noi – che alla città apparteniamo e che, in un modo o nell’altro, la città possediamo – sanno ogni cosa. I muri hanno occhi e ricordi concreti: osservano, palcoscenici non inermi, il procedere vitale di protagonisti intercambiabili. Dei quali molto si perde, e poco rimane. A questo pensavo qualche anno fa, camminando per Borgo San Paolo, storico quartiere operaio di Torino, in via Francesco Millio. È uno dei tanti – più brutti che insignifi canti – isolati di edilizia anni Cinquanta-Sessanta, testimoni 6
dell’urgenza di dare un tetto alle migliaia di nuovi torinesi precipitati allora in città. Ma via Millio non è un posto qua lunque, quel nome mi diceva qualcosa. Passo accanto a una panetteria e guardo una vecchia serranda chiusa chissà da quanto: nitido, a non più di un metro e mezzo da terra, c’è un piccolo segno, un solco perfettamente circolare al centro del verde della saracinesca. Liscio al tatto, nel ruvido del metallo circostante. Un foro di proiettile.
Per un’indecifrata perfezione del caso
Torino, venerdì 9 marzo 1979, ore 13.30 circa. Un uomo chia ma il 113 da un bar bottiglieria di Borgo San Paolo: – Sì, Pronto? – Buongiorno. – Buongiorno. – Senta, io qui ho preso un ragazzino di 17 anni che stava prendendomi l’autoradio... – Sì. – Eh, ce l’ho qui nel bar... – Dove? – Eh, in via Millio... – Via? – Francesco Millio. – Millio? – Sì, al 64/A. – 64/A... va bene lo tenga e lo mandiamo subito a prendere. – Sì, qui alla bottiglieria eh? – Sì. – Grazie. – Prego...
L’ingiustizia più grande è non poter invecchiare. Se poi muori giovane, l’affronto è intollerabile. Non ci pensa, e per ché dovrebbe, Emanuele, la mattina del 9 marzo 1979. Ha 18 anni, frequenta il quinto anno dell’Istituto tecnico aeronau tico Carlo Grassi in via Paolo Veronese 305, a due passi da piazza Stampalia, periferia nord, brutta, ma brutta davvero – se non ci vivi e ci sei affezionato – di Torino. 8
La campanella suona alla fine delle lezioni. Forse gli stu denti del Grassi non ne parlano più, ma di sicuro lo avranno fatto, a lungo. Pochi giorni prima, proprio nel bar di fronte alla scuola – quello dei cornetti, caffè e cappuccini prima, do po e magari anche durante le lezioni – c’è stata una sparatoria, alle 11 del mattino, il 28 febbraio 1979, appena dieci giorni prima. Tra i banchi si sarà sentito nitidamente, le lezioni si saranno interrotte per il boato di spari e sirene. Chissà, forse Emanuele si sarà perfino sporto dalla finestra e all’uscita da scuola si sarà fermato dall’altra parte della strada per guarda re le saracinesche abbassate del bar dell’Angelo, con tutta la polizia di fronte impegnata ad allontanare i curiosi con quelle parole, un po’ insensate, di circostanza: «Circolare, non c’è niente da vedere». Ma quella del bar trattoria dell’Angelo è una storia che arriverà. Tra un po’. Adesso interessa la matti na del 9 marzo, dieci giorni dopo. Prima di tornare a casa, Emanuele si ferma a chiacchiera re per qualche minuto con il preside dell’Istituto, il profes sor Antonio Maurella; poi, intorno alle 13.45 esce da scuola. Abita dall’altra parte della città, in Borgo San Paolo, e per arrivare a casa da piazza Stampalia deve prendere almeno due pullman. Non può sapere che, pochi minuti prima, è arrivata una telefonata al 113: – Sì, Pronto? – Buongiorno. – Buongiorno. – Senta, io qui ho preso un ragazzino di 17 anni che stava prendendomi l’autoradio...
Fa piuttosto freddo – la temperatura massima non supera i 10 gradi – e, dietro la condensa dei finestrini dell’autobus arancione, Emanuele può vedere la città scorrere sotto i suoi occhi durante quella mezz’ora che gli ci vuole per tornare a ca sa. È un giovane mite, taciturno, con quell’ironia meditabonda tipica di chi appartiene alle Langhe – i nonni materni abitano 9
a Neive, vicino ad Alba – anche se ha sempre vissuto in città; proprio per questo ha scelto Beppe Fenoglio, uomo di Langa, come autore da portare all’esame di maturità. Pochi mesi e potrà festeggiare il diploma con il viaggio in Francia e in Belgio di cui da tempo parla con gli amici, e che forse occupa i suoi pensieri anche durante il tragitto in pullman; o forse, mentre l’autobus imbocca l’ultimo tratto di strada, pensa semplice mente al pasto che lo aspetta in tavola di lì a poco. Intorno alle 14.10, scende alla fermata di via Braccini. Pochi passi lungo via Lurisia e poi la svolta, a sinistra, per via Millio. È un attimo. Un inferno di colpi. Qualcuno gli urla: «Buttati a terra». Emanuele cerca riparo tra una Fulvia Coupé e una Fiat 850 parcheggiate all’angolo, ma un proiettile di kalashnikov gli ha già trapassato il torace. Dal palazzo di fronte, un operatore amatoriale prende la ci nepresa e filma gli ultimi secondi della sparatoria: un uomo – giubbotto di pelle e pistola alla mano – corre lungo via Mil lio. Poi il cineoperatore scende in strada e volge l’obiettivo ai primi soccorsi: Emanuele è riverso a terra tra il marciapiede e la strada, il volto schiacciato sull’asfalto. È ancora vivo quando i medici della Croce Verde lo caricano sull’ambulanza, ma non farà in tempo ad arrivare all’ospedale Molinette. Muore tra le braccia della madre Elvira, che dal balcone di via Millio 64/A, proprio sopra la bottiglieria, ha visto e sentito tutto. Sull’asfal to di via Millio rimane anche un agente di polizia gravemente ferito, l’appuntato Gaetano D’Angiullo, 31 anni. E poi vetri infranti e almeno settanta bossoli. Non è stata una rapina fi nita male, né una sparatoria improvvisa. È stata una vendetta fallita. Sul pavimento del bar bottiglieria di via Millio rimane un plico di volantini autoadesivi: «Che mille mani impugnino le armi dei compagni Carla e Charlie, caduti combattendo per il comunismo», due volti ciclostilati su sfondo bianco e una scritta, nera e maiuscola: PRIMA LINEA. Il suono lancinante delle sirene squarcia la quiete della pausa pranzo del borgo. A pochi isolati di distanza da via 10
Millio abita Diego Novelli, dal 1975 sindaco di Torino: «È successo proprio qui – ricorda Novelli, seduto nello stesso salotto di allora – a poche centinaia di metri da casa mia, in Borgo San Paolo. Il ragazzo che tornava da scuola, tra l’altro, era compagno di mio figlio. Stavo mangiando con mia moglie e mio figlio e ho sentito un mare di sirene; ho telefonato su bito alla centrale dei vigili urbani e mi hanno detto: ‘C’è stato uno scontro a fuoco tra la polizia e un gruppo di terroristi’. ‘Dove?’. ‘In via Millio.’ Accidenti, ma è dietro a casa mia. Mi sono precipitato e avevano già portato via questo ragazzo che si era trovato in mezzo al fuoco tra la polizia e quelli di Prima Linea. Avevano organizzato un agguato, attirando gli agenti nel locale con un inganno. Come arriva la polizia a vele spiegate loro, dall’interno del bar, incominciano a sparare, la polizia risponde, questo ragazzo arrivava da scuola, svolta l’angolo, viene preso, colpito... Si chiamava Emanuele Iurilli e aveva 18 anni. Vado subito all’ospedale Molinette e lì, un ri cordo terribile, drammatico: la mamma di questo ragazzo mi viene incontro e mi dice: ‘Adesso lei, signor sindaco, mi deve dare una ragione perché io possa continuare a vivere’». Il professor Maurella – forse l’ultimo ad avere parlato con Emanuele – riceve una telefonata nel suo ufficio di presi denza. È la moglie, anche lei insegnante all’Istituto Grassi, a dargli la notizia: «Ha chiamato la madre di Iurilli: dice che il figlio è morto». «Impossibile, è stato con me fino a mezz’ora fa, abbiamo parlato a lungo...» Per il preside Maurella, il 9 marzo del 1979 è ancora un dolore intimo e profondissimo: «Quel giorno Emanuele è arrivato a casa con mezz’ora di ri tardo rispetto al solito, e la colpa di quel ritardo è mia, in un certo senso. Questa è una cosa che mi ha creato dei problemi psicologici enormi, mi sono sentito quasi colpevole nei suoi confronti, perché dopo essere uscito dalla classe Emanuele era venuto in presidenza. La mia stanza era famosa per essere sempre aperta agli studenti. Lui era in quinta e all’epoca si faceva una tesina per la maturità; e così quel giorno viene da me e mi dice: ‘Io vorrei fare una tesi su Fenoglio perché mia 11
madre è di Alba, è una maestra e ha anche conosciuto la fami glia di Fenoglio e quindi mi piacerebbe molto. Però in biblio teca non ho trovato nulla, in particolare vorrei Il partigiano Johnny’. E io gli dico, va bene, te lo procuro, non ci sono pro blemi, anzi dato che io sono amico di Elisabetta Soletti, che è la più grande studiosa di Fenoglio, te la faccio conoscere e così magari ti può aiutare. E così abbiamo chiacchierato un po’ di questa passione comune per la letteratura. Lui tecnico e io pure, a parlare di Fenoglio per quasi mezz’ora». Una mezz’ora di ritardo che sarà fatale a Emanuele. Che cosa è successo quella mattina in via Millio? Per capirlo bisogna fare un passo all’indietro di dieci giorni, al 28 febbraio 1979, in via Paolo Veronese, Madonna di Campagna, proprio di fronte all’Itis Carlo Grassi frequentato da Emanuele Iurilli. In Italia l’emergenza terrorismo è all’apice. Alcuni mesi prima a Roma è stato assassinato Aldo Moro; a Torino è ancora forte l’emozione per la morte dello studente Roberto Crescenzio, arso vivo nell’assalto a colpi di molotov in un bar di via Po 46. Nell’ex caserma Lamarmora di fronte alle Carceri Nuove – dove ancora è provvisoria la lapide che ricorda l’omicidio di Salvatore Lanza e Salvatore Porceddu, militari di leva assas sinati dalle Br sotto la torretta del penitenziario – è da poco terminato il processo ai capi storici delle Brigate rosse. Torino è una città militarizzata, scossa da violenze inedite e diffuse che nei primi mesi del 1979, tra il 6 gennaio e il fatidico 28 febbraio della sparatoria al bar trattoria dell’Angelo, rag giungono un’intensità senza precedenti: 36 attentati in meno di sessanta giorni. A scorrere l’elenco si trova di tutto: assalti alle agenzie immobiliari, alle scuole, ai circoli di partito, irru zioni armate nelle sedi dei giornali, incendi, rapine e pestaggi politici, bombe contro le caserme dei carabinieri di Piossa sco, di Orbassano e di via Balme a Torino. La mattina del 19 gennaio, non ha ancora fatto giorno, Prima Linea uccide la guardia carceraria Giuseppe Lorusso, nel piccolo slargo dove via Biella incrocia via Brindisi. Il giorno dopo, una pattuglia intercetta un gruppo di terroristi intenti a bruciare pile di do 12
cumenti in un prato e nel conflitto a fuoco che segue restano feriti due agenti. Sempre in quei primi mesi di un 1979 fuori controllo non mancano gli azzoppamenti, che colpiscono il medico Grazio Romano, ferito dalle «Squadre armate prole tarie di combattimento» e la vigilatrice delle Carceri Nuove Raffaella Napolitano, una delle due donne «gambizzate» a Torino. Per tutti è l’orrore e l’attesa d’accendere la radio al mattino, per conoscere a chi mai sia toccato stavolta. Il Pci, partito che governa la città, tenta di correre ai ripari. Su idea del presidente del Consiglio regionale del Piemonte, Dino Sanlorenzo, in accordo con il responsabile fabbriche del partito Giuliano Ferrara, si pensa di distribuire un «que stionario antiterrorismo» nel quale i cittadini sono chiamati a rispondere, in forma anonima, a 6 domande: 1. Quali sono a vostro giudizio le cause del terrorismo? 2. Quali sono gli ostacoli da rimuovere e le cose da fare per ottenere non solo l’isolamento morale, ma la scomparsa del terrorismo? 3. Cosa dovrebbero fare le istituzioni (governo centrale, Comuni, Province, Regioni)? 4. Potete segnalare fatti accaduti a voi personalmente o ad altri nel quartiere che rientrino nella criminalità politica (aggressioni, minacce, intimidazioni, attentati, incendi di au to e di sedi)? 5. Avete da segnalare fatti concreti che possono aiutare gli organi della magistratura e le forze dell’ordine a individuare coloro che commettono attentati, furti, aggressioni? 6. Avete delle concrete proposte da fare per migliorare la situazione del vostro quartiere? In città il dibattito infuoca. A dividere è soprattutto il que sito numero 5: «Avete da segnalare fatti concreti che possono aiutare gli organi della magistratura e le forze dell’ordine a individuare coloro che commettono attentati, furti, aggres sioni?». È legittimo – ci si interroga – spingere la gente a se gnalare persone o situazioni sospette? Non si rischia in que 13
sto modo di dare un’impressione di impotenza istituzionale di fronte agli attacchi? E poi, a che cosa potrà mai condurre una denuncia anonima, se non alla segnalazione di qualche vicino sgradito, magari una rivalsa condominiale mascherata di senso civico? Per molti il quesito numero 5 è un puro in vito alla delazione. I favorevoli parlano invece di precedenti importanti, come la «bocca del leone» nella quale i veneziani della Serenissima inserivano, con garanzia d’anonimato, i no mi dei responsabili di delitti e congiure. Ricorda Dino Sanlorenzo: «Non ci fu nessuna caccia alle streghe. Anzi, le risposte furono molte, oltre 12.000 e qual cuna finì anche in mano ai magistrati. Ma l’obiettivo non era quello di scovare terroristi. Per quello le vie erano altre. L’obiettivo era isolarli, i terroristi. Che infatti da allora in poi non troveranno più un covo». «Nei quartieri dove i terroristi avrebbero dovuto trovare il brodo dove sguazzare – ricorda Diego Novelli – hanno invece trovato l’isolamento. Grazie a quel questionario, credo, furono scoperti anche dei covi, delle basi. L’ho saputo dopo, quando negli anni Ottanta ho fatto un seminario con un gruppo di ex terroristi alle Carceri Nuove. Volevo capire le ragioni che avevano spinto dei gio vani nella mia città, dove io ero sindaco, a fare questa scelta. E loro, tra le altre cose, mi dissero, con molta sincerità, che quel questionario e quella reazione che c’era stata, quell’azio ne politica, culturale e civile portata avanti dalle istituzioni, li aveva profondamente isolati. Anche quando avevano biso gno di un pernottamento improvviso, trovavano sempre le porte sbarrate». I questionari vengono distribuiti alla popolazione dai co mitati di quartiere. Particolarmente attivi quelli di Borgo San Paolo e Madonna di Campagna, il cui presidente è Michele Zaffino, 27 anni, iscritto al Pci. In quei giorni di febbraio Zaffino s’accorge che qualcuno lo sta seguendo: «Dopo la pubblicazione del questionario – ricorda Zaffino – per circa quindici giorni notai che sotto casa mia, ogni mattina, c’era una persona che passeggiava sul marciapiede di fronte. Una 14
mattina, mi pare fosse il 25 febbraio, una 850 con a bordo quattro ragazzi, si ferma di fronte a me mentre aspetto il pullman per andare in circoscrizione e riparte non appena salgo. Alla fermata successiva, poi, sale una ragazza. Si siede accanto a me finché non scendiamo insieme alla fermata di piazza Stampalia. Quindi vado in circoscrizione e lì rimango a lavorare fino alle 19.30». Il giovane presidente di circoscri zione pensa forse che la vicenda sia chiusa lì, ma purtroppo il peggio deve ancora arrivare. È la mattina del 28 febbraio, tre ragazzi entrano in una ta baccheria. Chiedono di provare delle maschere di carnevale. Torino ha i nervi a fior di pelle, il tabaccaio si insospettisce: pensa che vogliano rapinare l’agenzia del Banco di Roma di piazza Stampalia e avverte la polizia. Intanto i tre ragazzi si spostano nel vicino bar trattoria dell’Angelo. Non hanno tempo di bere un cappuccino che una pattuglia di polizia irrompe nel locale; l’appuntato Angelo Nocito chiede i docu menti, ma i ragazzi non rispondono, sparano. Sparano tutti. Nocito, colpito alla coscia, cade a terra per primo e i colle ghi intervengono in suo soccorso. Tutto dura pochi istanti di esplosioni e grida. Alla fine, stesi tra il flipper e il bancone del bar, rimangono i corpi di due giovani. Lei ha addosso un paio di jeans verdi e un loden beige, sotto il quale si cela il gonfiore di un giubbotto antiproiettili che non è bastato a salvarla; lui – maglione, jeans blu e giubbotto – è morto impugnando la calibro 38 a tamburo con cui ha sparato gli ultimi 4 colpi. Il terzo componente del gruppo è riuscito invece a fuggire, for se da una porta sul retro. In tasca ai due giovani senza vita la polizia trova una fotografia di Michele Zaffino e un foglietto con un numero di targa: TOL54679, una Fiat 128 color gra nata, intestata alla signora Laura Romeo, insegnante, moglie del giudice istruttore Gian Carlo Caselli. «Il mattino del 28 febbraio passo in Federazione del Pci a prendere la posta – ancora Zaffino – e incontro Giuliano Ferrara che mi dice di correre in quartiere perché ci sono due morti. Così scopro che il giorno dopo essere stato se 15
guito, l’auto si era poi fermata davanti al tabaccaio di piazza Stampalia; dei ragazzi erano andati a comperare delle ma schere di carnevale e il tabaccaio si era insospettito perché eravamo ormai in Quaresima e aveva avvisato la polizia, forse temeva che le maschere servissero per una rapina in banca. Gli stessi ragazzi erano tornati il mattino successivo e lui aveva di nuovo avvisato la polizia; stessa scena il ter zo giorno. A questo punto la polizia, chiamata per la terza volta, decide di fare irruzione in tutti i bar della piazza, e in particolare nel bar dell’Angelo. Quei ragazzi cercavano me, per via del questionario antiterrorismo che distribuivo nel quartiere. Avevano in tasca delle foto mie e avevano seguito anche un altro Zaffino Michele, mio omonimo, che abitava non lontano». Per alcune ore la polizia si interroga sull’identità dei due giovani morti nel bar. La loro reazione e l’armamentario che portavano con sé – pistole e fucili, documenti falsi, parruc che, maschere, bombolette spray per scarabocchiare slogan sui muri una volta compiuta l’azione – dice con certezza che si tratta di terroristi. D’altra parte, il rituale della lotta armata procede secondo i suoi tempi e i suoi modi: quando sono i militanti clandestini a perdere la vita, è l’organizzazione stes sa nella quale essi, appunto, militavano ad assumersi l’onere di rivelarne identità e appartenenza. E infatti il giorno dopo la sparatoria, in una cabina telefonica all’angolo tra corso Vit torio Emanuele II e via Bellini, viene ritrovato il comunica to: «Ieri 28 febbraio sono caduti per mano degli sbirri della Digos la compagna Barbara Azzaroni ‘Carla’ e il compagno Matteo Caggegi ‘Charlie’, combattenti di Prima Linea. Com pagni il vostro fucile non è caduto invano». Carla e Charlie, nomi di battaglia. Come quelli dei parti giani di Fenoglio. «Quella del bar dell’Angelo – ricorda oggi Ettore Boffa no, allora cronista della Gazzetta del Popolo – io la definirei la storia più maledetta, se così possiamo dire, del terrorismo a Torino. Perché quei due ragazzi uccisi, Carla e Charlie, si 16
porteranno dietro, direttamente o per delle casualità, tutta un’altra serie di morti, di scie di sangue». Chissà quali lezioni saranno state interrotte. Perché anche gli studenti dell’Istituto Grassi, per forza, devono aver sentito ogni cosa. Professori e bidelli avranno faticato non poco a te nere nelle classi i ragazzi, a evitare che qualcuno attraversasse la strada, anche solo per curiosità. Dal suo ufficio, il preside Maurella ricorda di avere assistito all’intera scena: «Le mac chine della polizia arrivarono a sirene accese e io dalla presi denza, che dava proprio sulla strada, sentii dei colpi, tipo mi tragliate, e vidi della gente che si avvicinava al bar di fronte. E allora la mia preoccupazione immediata è stata: ‘molti dei ragazzi che tagliano, vanno lì a giocare a biliardo o a calcetto’. Allora lasciai tutto com’era e corsi in strada a vedere che non fosse successo niente a qualcuno dei miei». Tra i tanti volti dei ragazzi affacciati quel giorno alle finestre del Grassi, forse c’è anche quello di Emanuele Iurilli. Di certo il suo viso, attraver sato da cento emozioni in contrasto per quanto è accaduto in strada, somiglia solo in parte a quello in posa della foto della patente, unica immagine rimasta di Emanuele da vivo. Per ol tre vent’anni quella foto ha accolto studenti e professori dalla scrivania del preside Maurella: Emanuele ha i capelli lunghi, ma non troppo, le sopracciglia folte e una camicia stretta sul collo. L’espressione è seria, un volto sì giovane, ma che oggi faticheremmo a credere che abbia soltanto diciotto anni. Le poche notizie che si hanno di lui – i genitori, era figlio unico, sono mancati pochi anni fa – raccontano di un ragazzo inna morato degli aerei, indeciso tra l’Accademia e il Politecnico, tra la carriera di pilota dell’aeronautica militare e quella di ingegnere. Sarà rimasto scosso da quella sparatoria, dalle im magini dei cadaveri trasmesse a sera dalla Rai; avrà letto con avidità – come tutti i suoi compagni – gli articoli della Stampa e della Gazzetta del Popolo che per giorni hanno parlato dei fatti del bar dell’Angelo. Avrà conosciuto la storia di Charlie e Carla, Matteo Caggegi, 20 anni di Orbassano, iscritto al quarto anno di liceo scientifico, operaio alle carrozzerie della 17
Fiat Rivalta, e Barbara Azzaroni, Carla, 29 anni di Bologna, insegnante elementare. Avrà saputo che quei due erano lì per ferire – o ammazzare, non si saprà mai – il presidente della circoscrizione che tutte le mattine va a lavorare nella casupola in mezzo al giardino di piazza Stampalia, quella con la lapide dei partigiani del borgo caduti durante la guerra di Libera zione e che dalle finestre del Grassi si vede benissimo. Avrà pensato un sacco di cose. Non che per quella sparatoria sarebbe morto anche lui. «L’area dei compagni era emotivizzata e richiedeva una risposta». Questa la dichiarazione che rilascerà mesi dopo al giudice istruttore Fabrizio Giai, piellino della Valsusa, uno dei membri del commando di via Millio. «Emotivizzata», una parola fredda come l’azoto liquido che altro non significa che dolore. E fredda come l’azoto liquido è la «risposta», che con i crismi tipici di un’epoca impazzita, altro non farà che aggiungere nuovo dolore. Lo schema è chiaro: loro hanno uc ciso i nostri, noi uccidiamo loro. Loro ci hanno colpiti in un bar, noi faremo altrettanto. Ma a fermarsi, senza che niente e nessuno possa dare una spiegazione, è il cuore di Emanuele Iurilli, la mattina del 9 marzo 1979. Un agguato per vendetta, sotto casa sua, per un fatto avvenuto incredibilmente davanti alle finestre della sua scuola. In mezzo ci sono quasi 7 chilo metri: 7 chilometri, tanto dista la vita dall’assurdo, a Torino, nel 1979. Ha 28 anni Maurice Bignami, ma i suoi compagni lo chia mano «Davide». È il più «emotivizzato» di tutti: insieme a Carla e Charlie, la mattina del 28 febbraio, è il terzo del com mando che deve colpire Zaffino e nessuno ha ancora capito come sia riuscito a scappare dal bar dell’Angelo senza farsi notare. Per lui, poi, Barbara Azzaroni era qualcosa di più che una compagna di militanza. Sarà per questo che si incarica di trovare un luogo adatto alla vendetta. La scelta cade su una bottiglieria di via Millio, a Borgo San Paolo, un locale a metà tra la tipica «piola» di borgata e il bar, di quelli con un grande specchio dietro il bancone con su scritto «Campari». 18
La topografia aiuta: la via è chiusa da un lato, ideale per l’imboscata e la fuga. Ci provano già l’8 marzo, ma arrivano tardi, la bottiglieria è chiusa. Così tornano il giorno seguen te, venerdì, poco dopo le 13, a bordo di una Fiat 131 rubata. Nessuno nota quei cinque ragazzi (Maurice Bignami, Fabrizio Giai, Bruno La Ronga, Giancarlo Scotoni e Silveria Russo, det ta «Laura») avvicinarsi al bar con in mano vassoi di pasticcini: sotto la carta della pasticceria, però, ci sono armi. Tante armi. Il tempo di immobilizzare i proprietari e chiuderli nel re trobottega e Davide è già dietro al bancone. Afferra il telefo no. – Sì, Pronto? – Buongiorno. – Buongiorno. – Senta, io qui ho preso un ragazzino...
Quaranta interminabili minuti, dalle 13.30 alle 14.10. Poi, in via Millio, arriva la volante numero 11. «È da qui che avete telefonato per un...?», l’appuntato Gaetano D’Angiullo non ha il tempo di terminare la domanda che cinque pallottole, esplose da Giai, La Ronga e Bignami, gli perforano il ventre e le gambe. Nonostante tutto riesce a rispondere al fuoco, così come i due colleghi rimasti sul marciapiede, che però si trovano accerchiati perché alle loro spalle fanno fuoco anche Scotoni e Silveria Russo. Nell’impeto della sparatoria la Rus so colpisce per errore anche Bruno La Ronga. Un inferno. Pochi minuti e tutto tace. L’appuntato D’Angiullo è riuscito a trascinarsi fino all’an golo con via Malta dove è stato soccorso da alcuni passanti. I due colleghi poliziotti si sono rifugiati dietro la «pantera», crivellata di colpi. Il commando di Prima Linea, con La Ron ga gravemente ferito, è scappato a bordo di una Simca tro vata con le chiavi nel cruscotto (allora accadeva spesso). La abbandoneranno poco dopo in piazza Sabotino. 19
Solo allora qualcuno si accorge di un corpo disteso tra due auto parcheggiate proprio all’incrocio tra via Lurisia e via Millio. Respira ancora. Mamma Elvira, che ha visto tutto dal balcone, fa ancora in tempo a vedere il suo unico figlio caricato semicosciente in ambulanza. Papà Alfredo capirà quando, tornando dal lavoro, troverà tutta quella gente di fronte al portone di casa. Via Millio è uguale ad allora. La bottiglieria, nel corso degli anni, ha cambiato molte volte destinazione d’uso e oggi è un’ex sezione di Rifondazione comunista. Borgo San Paolo, almeno lì, è ancora lo stesso grosso quartiere operaio di un tempo. Di nuovo, ci sono alcuni nomi sui citofoni: al 64/A, al posto di Iurilli-Aimasso si legge Al-Saadi. Nuovi torinesi che non cono scono la storia di Emanuele. Non possono conoscerla, perché nulla, in via Millio, ricorda la sua morte. Eppure, un segno c’è: il foro di pallottola che una vecchia saracinesca, chiusa da chissà quanto, conserva gelosamente, perché qualcuno possa ancora vederla. E magari, per un attimo, pensare a Emanuele, morto a 18 anni. Senza sapere perché. I vecchi del quartiere ricordano bene quei giorni. Ricor dano il frastuono della sparatoria, i vetri infranti della bot tiglieria, le sirene, i bossoli per terra, il sindaco Novelli e il sangue sull’asfalto. Ricordano quella folla enorme al funerale di Emanuele, tutti in piedi di fronte alla chiesa di San Bernar dino, al centro di un borgo da sempre «rosso». Quella stessa chiesa fu assaltata nell’agosto 1917 dalla popolazione affama ta in rivolta contro la Prima guerra mondiale; a poche decine di metri, in via San Bernardino, c’è la casa (e la lapide comme morativa) di Dante Di Nanni, il gappista diciannovenne che il 18 maggio 1944 combatté da solo per ore contro decine di SS naziste e miliziani fascisti, prima di lasciarsi cadere nel vuo to dal balcone del secondo piano per non consegnarsi vivo. Dante Di Nanni, una medaglia d’oro al valore appuntata sul cuore di Torino. Dante Di Nanni, uomo del mitico Giovanni Pesce, quello che scrisse Senza tregua. E «Senza tregua» sarà proprio uno dei nomi provvisori che precederanno il defini 20
tivo «Prima Linea». Dante Di Nanni, eroe autentico di una guerra vera. Trentatré anni dopo è diventato il pallido mito di chi una guerra se l’è inventata. Il 1979 è anche l’anno in cui Fruttero & Lucentini spo stano il noir sabaudo di La donna della domenica dai palazzi borghesi del centro e Porta Palazzo, alle periferie nate e cre sciute intorno alla Fiat: «La vecchia Volkswagen color crema del venditore di matite era parcheggiata a metà di via dei Rododendri». È l’incipit di A che punto è la notte. Per un torinese via dei Rododendri (che non esiste) potrebbe esse re alle Vallette, dove tutte le strade hanno nomi di fiori; ma anche alla Falchera, dove alle vie si danno nomi di piante. Due quartieri nati in fretta e furia un paio di decenni prima, simboli di un’esplosione urbanistica che in appena dieci anni – dal 1951 al 1961 – ha raddoppiato la popolazione di Torino. Là, alla Falchera, tra le casette in mattoni rossi e le torri di dieci piani a ridosso della tangenziale, quattro anni prima è morto Tonino Micciché, ragazzo di Lotta continua, ucciso a pistolettate, durante l’occupazione delle case del 1975, dal proprietario di un garage. Lì, in via degli Ulivi 15, di fronte ai campi da calcio della «Falchera nuova», abita Carmine Ci vitate, 49 anni, con la giovane moglie Francesca e i due figli, Roberto e Gian Luca, di quattro e cinque anni. Immigrato dal Sud, come tantissimi a Torino, Carmine è partito negli anni Sessanta da Pallagorio, in provincia di Catanzaro, per guidare le bisarche che dal ventre di Mirafiori e Rivalta cari cano le auto per portarle ai concessionari in giro per l’Italia. Carmine frequenta talvolta un locale; si chiama bar trattoria dell’Angelo, in via Paolo Veronese 340, di fronte all’Itis Carlo Grassi e a un distributore di benzina. Non è vicinissimo a via degli Ulivi, ma è sulla via di casa, poi la strada è larga e forse sarà stato facile parcheggiare il camion quando ha deciso di fermarsi lì per la prima volta. Si trova bene al bar dell’Angelo, tanto che, per arrotondare, chiede al proprietario, tale Villari, di poterlo aiutare. L’attività lo attrae a tal punto da chiedere al titolare di cedergli il locale. L’accordo si perfeziona nei primi 21
giorni del 1979, ma sarà formalizzato ufficialmente soltanto nell’aprile dello stesso anno. Intanto Carmine continua a dare una mano. Anche la mattina del 28 febbraio 1979. Non vede la scena, sente solo gli spari, che lo svegliano all’improvvi so; perché quando Matteo Caggegi e Barbara Azzaroni sono sorpresi dalla polizia, Carmine è nel retro: dorme, forse avrà servito la colazione la mattina presto. C’è una foto – tra le tante scattate quel giorno – che ritrae Carmine Civitate. È sul sedile posteriore di un’automobile; il fotografo forse non sa nemmeno chi sia, ma scatta ugual mente: l’immagine è un volto quasi in lacrime, scosso, sa che ciò che ha visto quel giorno non potrà dimenticarlo tanto facilmente. Nulla autorizza a credere che in quegli occhi, così spaventati, ci sia una specie di premonizione. Eppure è diffi cile non pensarlo. Il 9 marzo Prima Linea vuole vendicare Carla e Charlie in via Millio e uccide Emanuele Iurilli. Alla notizia Carmine avrà certamente avuto un brivido allo stomaco, nei suoi occhi saranno ancora ben impressi i volti di quei due ragazzi finiti a morire in quello che, tra poco, sarà il suo bar. Accade a giu gno. Il proprietario del bar trattoria dell’Angelo è finalmente Carmine Civitate, ex camionista, abitante della Falchera con una bella famiglia. Un’attività in proprio, un sogno che si realizza. I tempi della burocrazia, forse, ma all’ingresso c’è ancora la vecchia licenza a nome Villari. È quella l’intestazione che leggono alcune persone che non smettono di frequentare il bar dell’Angelo, di tanto in tanto. Dunque il proprietario si chiama Villari; dunque è lui «l’infame» che ha chiamato la polizia; dunque è lui l’assassino di Carla e Charlie. E poi c’è il racconto di quella bambina. Sì, proprio una bambina, una ragazzina delle medie figlia di un ufficiale dei carabinie ri, amico di Civitate. A lui il barista avrebbe confessato di essere stato l’autore della «delazione»; la bambina avrebbe raccontato il fatto alla sua compagna di banco che a sua volta lo avrebbe riferito ai genitori, ai fratelli che a loro volta lo 22
avrebbero poi raccontato a un compagno delle «Ronde pro letarie»... Una specie di telefono senza fili del Movimento. All’orecchio di qualcuno (come testimonierà Fabrizio Giai di fronte alla Corte d’Assise di Torino) arriva addirittura la notizia che la «fonte» sia la figlia stessa del barista Civitate, che però – dettaglio che non deve essere sembrato degno di verifica – ha due figli maschi in età prescolare. Passano le set timane e Civitate riceve strane visite, in particolare quella di due ragazzi che domandano bruscamente l’elenco telefonico. Forse capisce, forse no. Di sicuro l’azione di via Millio è fallita e la vendetta di Prima Linea deve ancora essere consumata. Quella di Davide (Maurice Bignami) in particolare. Sono le 14.15 del 18 luglio 1979, giornata calda di sole. Una Renault 4 con targa francese si apposta di fronte al di stributore di benzina di via Paolo Veronese. Escono quattro persone, in salopette da lavoro per nascondere i giubbotti antiproiettile (cautela consigliata, forse, dai fatti di via Mil lio). Carmine Civitate è dietro il bancone, ma sulla via c’è movimento di forze dell’ordine; l’azione è rinviata e il barista guadagna quattro ore di vita. Alle 18 si ripete la scena della Renault 4. A bordo rimane l’autista Roberto Sandalo, detto «Roby il pazzo»; da lontano può scorgere i due compagni ad detti alla copertura e i due incaricati direttamente dell’azione, Maurice Bignami e Marco Donat-Cattin («Alberto»). Entra no nel bar dell’Angelo, ordinano due amari ma tornano su bito fuori: hanno chiesto del titolare, ma è uscito per portare dei caffè ai bidelli dell’Istituto Grassi. In quel momento San dalo nota un uomo attraversare la strada con un vassoio in mano. Anche Davide e Alberto lo vedono: capiscono che è il loro uomo. Rientrano un secondo prima di Civitate; poi, senza nemmeno lasciare alla vittima il tempo di appoggiare il vassoio sul bancone, Davide spara tre volte mirando alla testa e al torace. Carmine Civitate, sotto gli occhi della moglie Francesca, cade in un lago di sangue nello stesso punto dove cinque mesi prima erano caduti Carla e Charlie. Sul bancone, intatti, rimangono due bicchieri di amaro. 23
L’omicidio viene immediatamente rivendicato con una te lefonata all’Ansa e una alla Stampa: «Alle ore 18 il gruppo di fuoco dell’Organizzazione comunista Prima Linea ha giusti ziato il boia Villari di piazza Stampalia. Onore al compagno Matteo Caggegi e alla compagna Barbara Azzaroni». Il telefo nista fa notare che il nome della vittima non corrisponde: «Ah – risponde il rivendicatore – comunque si tratta del barista». Il dubbio di un tragico e assurdo errore raggiunge qualcuno già nelle ore immediatamente successive, dal momento che nei giorni seguenti ci saranno altre rivendicazioni, tra cui una che disconosce con sdegno la paternità di Prima Linea. «Ci sarà poi una drammatica scena al processo a Prima Linea nel 1983 – ricorda Ettore Boffano – quando verrà fatto venire il tabaccaio a deporre. Racconterà che è stato lui ad avvertire la polizia, insospettito da quei ragazzi in cerca di maschere di carnevale. E allora nelle gabbie dove erano rinchiusi gli imputati di Pl scende un silenzio terribile, perché c’è la prova finalmente. Non ci avevano creduto fino a quel giorno lì, fino al processo». I torinesi non passeggiano – nessuno lo farebbe – dalle parti di via Paolo Veronese, ancora oggi ai margini della città: ci devi andare apposta, a vederla, e lo spettacolo non è poi granché. Al 340, la casupola a due piani che ospitava il bar dell’Angelo è in tutto e per tutto identica nella geometria elementare di mattoni oscurati dallo smog. Di fronte, anche dalle finestre dell’Istituto Carlo Grassi, puoi vedere che solo le insegne sono cambiate: adesso il bar trattoria dell’Angelo si chiama pizzeria Ye Qihai, cucina cinese, specialità pesce. Niente aiuta a ricordare quel che è successo. A ricordare che, in questo luogo del cielo chiamato Torino, lontano dai lunghi viali alberati ma vicino agli splendidi monti di neve, è morto Carmine Civitate, per qualcosa che non era (il proprietario del bar dell’Angelo) e che nemmeno aveva fatto (la telefonata in Questura).
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Questo luogo del cielo chiamato Torino
Tutto il mondo sembrava girare lì intorno. Almeno così ti raccontano. E non è difficile immaginarlo. È enorme, sbu ca fuori all’improvviso, quando pensi di essere da tutt’altra parte; o meglio, ti ci vogliono anni per mettere insieme le informazioni, capire che quel muro laggiù non è che l’altro lato di quell’altro muro, che tu pensavi fosse dall’altra parte della città. Oggi puoi vedere quanto è grande direttamente su Google maps; ma girarci intorno è tutta un’altra cosa. Anche perché solo così ti rendi conto che, ormai, dentro è quasi vuo ta. Ma trenta, quarant’anni fa era diverso: era una città dentro la città e, per molti, una specie di centro del mondo. Era il fordismo preso sul serio, disceso come una pioggia di forme elementari – il triangolo ripetuto sul tetto dei capannoni, il ci lindro conficcato nel suolo – alla periferia della più assennata delle città. Oggi Mirafiori è un ghiacciaio in ritirata, occupa lo spazio ma dimentica i detriti lungo la strada. Il clima è così cambiato che il capocordata può permettersi di vestire sol tanto un maglione blu. E non vede l’ora di andarsene. Per usare un banale ossimoro, si può dire che una volta il ghiaccio fosse bollente. Più che una figura retorica, è una contraddizione. E di contraddizioni ti parlano tutti quelli che quei tempi là li hanno vissuti. Mirafiori era la contraddizione per eccellenza, la più grande delle fabbriche del Paese, con dentro la massa più numerosa di classe operaia italiana: «La fabbrica – ricorda Rocco Larizza, ex delegato della Fiom – pesava anche sull’immagine della città, sui tempi della città. Era difficile trovare gente in giro di sera, perché anche quelli 25
che non facevano i turni si muovevano sul ritmo dei turni della Fiat, della Grande Fabbrica». All’alba del ’68, Torino è ancora la città di L’avventura di due sposi di Italo Calvino, un racconto breve pubblicato dieci anni prima, nel 1958. Parla della vita di una giovane coppia di operai, Arturo e Elide Massolari: lui fa il terzo turno, lei il primo. Lui a volte rincasa in tempo per svegliarla con la colazione, lei subito deve scappare a prendere il tram. A sera la scena si ripete, a parti invertite. Si rincorrono in casa per pochi momenti, ogni giorno costretti a una danza rituale di sfioramenti e abbracci e tenerezze sbiadite. Torino è una città di scaldavivande e di acciaio, popolata di cancelli ben visibi li, ben sprangati; il culto della separatezza, d’altra parte, è la regola che fino a quel punto ha permesso alla città di vivere e prosperare. Non ci sono soltanto i cancelli della fabbrica a marcare la chiusura di spazi non comunicanti: ci sono i cancel li delle università, i portoni e le imposte nei quartieri borghe si, il cortile dell’Arcidiocesi del cardinale Michele Pellegrino, l’ingresso solenne al Tribunale di via Corte d’Appello – infer riate alle finestre sovrastate da teste di leone. Ci sono barriere invisibili a delimitare i rioni operai; c’è la sede centrale del Pci torinese in via Chiesa della Salute, nel cuore di Borgo Vittoria. C’è la vetrata della palazzina di via Marenco dove proprio nel ’68 si trasferisce La Stampa, il porticato di Palazzo Civico in piazza delle Erbe, il portoncino di via Umberto Biancamano 2, che dà accesso all’impresa culturale degli allievi di Augusto Monti, la casa editrice Einaudi. Quando arriva, il ’68 porta con sé il gesto dello sconfinamento, dell’uscire per strada: spazi e gesti privati che si scoprono pubblici. Le barriere non crollano del tutto, ma il sentimento avvertito è quello di un rimescolamento di attori sociali a lungo tenuti lontani, che hanno un sacco di cose da dirsi. E, forse non per caso, spesso si incontreranno per parlarsi davanti all’entrata dei cancelli, al grido di «Mirafiori è la nostra università». Torino, operaia e antifascista. Lo è sempre stata. Leggenda vuole che Mussolini, inaugurando lo stabilimento Fiat Mira 26
fiori il 15 maggio 1939, sia sceso dal palco d’onore sibilando, accanto al senatore Agnelli in divisa militare, un irato «città di merda!». Troppo poco l’entusiasmo dei 50.000 operai mo bilitati per celebrare il fondatore dell’impero. Torino parti giana, forse come nessun’altra, paga il suo tributo di sangue alla guerra scatenata da quell’uomo in orbace che quel giorno a Mirafiori si dimena su un parapetto a forma di incudine. Prima i 2.000 morti (2.000 nomi, 2.000 storie scomparse nel nulla) sotto i bombardamenti alleati tra l’11 giugno 1940 e il 19 aprile 1945; e poi, i 100 chilometri tra la casa in collina del professor Cesare e la Langa del partigiano Johnny; in mezzo, diciotto mesi di furore, che in città finiscono cinque giorni dopo il 25 aprile. Ancora una volta, sono i muri a raccontarci le storie: decine e decine di lapidi di marmo, alcune dimenti cate, altre ancora lucidate e fiorite fissano nella memoria gli ultimi istanti dei «Martiri dell’eterna libertà». Quelli passati alla storia, dal generale Perotti fucilato al Martinetto, al sap pista e operaio della Fiat grandi motori Gaspare Arduino, fucilato all’altezza di corso Belgio 46 l’11 marzo 1945, poco prima che le due figlie, Libera e Vera, fossero trucidate alla Pellerina; ma anche quelli che la storia ha poi dimenticato, come Adriano Ferrero, studente diciottenne dell’Avogadro, ucciso il 3 marzo 1945 in via Rossini per non aver salutato romanamente un funerale della Xmas, o Pierluigi Silvano, lo scolaretto di otto anni abbattuto da un cecchino in via Ma dama Cristina angolo corso Vittorio Emanuele II, il 27 aprile 1945. Il cuore azionista di Torino s’incaricherà di elaborare la giusta memoria di ogni sacrificio. Mirafiori, intanto, ricomincia da dove era rimasta prima della guerra. La Fiat di Vittorio Valletta – la «Feroce» – parla piemontese. Anni di silenzio e schedature, anni di boom e motorizzazione di massa. Torino, calamita d’Italia, raddoppia la popolazione in dieci anni appena; il suo milionesimo nasce una notte del 1961, mentre Porta Nuova continua ad affollar si di valigie di cartone. Campani, calabresi, siciliani, sardi, lu cani, pugliesi: molti, prima che la città cresca disordinata per 27
accoglierli, arrivano in piazza Carlo Felice e non si spostano di molto. Per decenni abiteranno soprattutto il Quadrilatero romano – oggi epicentro del loisir post-industriale – abban donato in fretta dalla buona borghesia, il popolare quartiere di San Salvario, che ora è il più multietnico della città e gli abbaini abbandonati del centro. Ogni domenica, in una piaz za della Repubblica liberata dai banchi del mercato di Porta Palazzo, centinaia di immigrati danno vita a una forma di welfare ordinato per piccoli gruppi regionali; nella Torino dei mille dialetti, è un’occasione per ritrovare un pezzo di casa, per raccontare a conterranei comprensivi un pezzo della nuo va vita in fabbrica. La notte è per pochi. In quegli anni, le vie e le piazze del centro, che oggi scatenano comitati di cittadini contro le notturne molestie sonore, assomigliano ai cortili di una caserma: deserte al coprifuoco, affollate all’adunata. Il primo squillo di tromba è alle 5 del mattino, l’ora del primo turno: una buona parte di città, cinque giorni la settimana, s’incanala lungo le porte di corso Giovanni Agnelli, corso Tazzoli, corso Settembrini e corso Orbassano. Per molti Torino è ancora un lontano luogo del cielo a nord del sole. Ricorda Bonaventura Alfano, che dalla Gran de Fabbrica approderà alla sala rossa del Consiglio comu nale al tempo delle «giunte rosse» di Diego Novelli: «Mi rafiori era una grande ammaliatrice, è stata la mia maestra; penso a quel 7 maggio 1965 quando entrai per la prima volta alle meccaniche di Mirafiori, direttamente dalla Basi licata. I primi giorni furono tremendi: enormi convogliatori sopra la mia testa, camion, macchine e operai dappertutto; pensavo – con il mio diploma da aggiustatore meccanico in tasca – che non ce l’avrei fatta, che avrei potuto fare soltanto il lavavetri. Poi arrivò il caporeparto, con la sua bella coc cardina verde sul bavero e mi disse: ‘Qui siamo una gran de famiglia, non dare ascolto a chi parla male dell’azienda, soprattutto i sindacalisti’. Era ancora la Fiat di Valletta. Mi portò al montaggio differenziale della 500 e imparai il mio lavoro: avvitare otto dadi sulle ghiere laterali della vettura. 28
Mi sentivo proprio come Charlie Chaplin in Tempi moderni e alla sera, passeggiando per il centro di Torino, mi sor prendevo a mulinare le mani per aria come ad avvitare dadi immaginari. Di notte, nella mia casa di via Verdi (perché allora in centro ci abitavano i meridionali), avevo gli incubi, sognavo le linee». A migliaia come Bonaventura. Giovani e meridionali, dif fidenti e rumorosi, destinati in breve tempo a cambiare per sempre il volto di una città che fu di re e di «piole» alla bar bera forte. Sarà per questo, per uno schiaffo epocale e per quella misteriosa alchimia per cui Torino arriva spesso un attimo prima degli altri, salvo poi dimenticarselo, che sotto la Mole il ’68 comincia nel 1967: accade a Palazzo Cam pana, l’ex casa Littoria intitolata al comandante partigiano Felice Cordero di Pamparato detto «Campana», impiccato dai nazifascisti a Giaveno il 17 agosto 1944, che l’omonima brigata partigiana occupò il 28 aprile 1945. Qui, il 27 no vembre 1967 – sei mesi prima del maggio francese – i figli della Torino azionista, tra i primi in Italia, occupano la sede delle facoltà umanistiche. Tra loro Giovanni De Luna, stu dente dell’ultimo anno di Giurisprudenza, futuro dirigente di Lotta continua: «Cominciò con un pretesto molto prag matico: si era diffusa la voce che volessero spostare le facoltà umanistiche nella tenuta della Mandria. Pertanto la prima mobilitazione avvenne su un obiettivo certamente non rivo luzionario. Facemmo irruzione nel senato accademico e nel consiglio d’amministrazione, rompendo così la sacralità del potere accademico. Che cos’era questa sacralità? Il profes sor Giovanni Getto, che insegnava Letteratura italiana, per esempio, era solito fare gli esami in uno stanzino di Palazzo Campana. In questa stanza c’era un parquet di legno e spes so Getto accendeva una stufetta. Quando si doveva andare da lui per un esame, all’ingresso della stanzetta bisognava prendere dei pattini di stoffa e camminarci sopra per via, ap punto, del parquet. Però, procedendo, poteva capitare che, per superare il filo della stufa, uno lasciasse i pattini. Bene: 29
a quel punto, Getto era capace di bocciarti se perdevi quei benedetti pattini. Poi venne il resto»1. Cosa c’entrano i Bonaventura Alfano con Palazzo Cam pana? Ancora De Luna: «Il ’68 colpisce a Torino una sorta di frammentazione, un sistema di compartimenti stagni che immobilizzava la città. Era ancora molto marcata la separazio ne tra i quartieri, la collina quartiere aristocratico, la Crocetta quello borghese e le barriere (San Paolo, Barriera di Milano, Aurora-Vanchiglia, Vallette, Mirafiori e tutti gli altri) borghi operai. La città era topograficamente divisa per strati che non erano in comunicazione tra di loro; uno che viveva alle Vallette non sapeva niente, nemmeno dove fosse la Crocetta e vice versa, erano in tutto e per tutto città nella città. Il ’68 rimescola ogni cosa, l’alto e il basso, il centro e la periferia, nord e sud, meridionali e piemontesi. Per Torino è un momento magico. Si rompono, si frantumano tutte le croste ottocentesche». Ricorda Diego Novelli, allora consigliere comunale: «La sera dell’occupazione di Palazzo Campana il sindaco Giu seppe Grosso, ricevuta la notizia, pregò due consiglieri di andare a vedere cosa succedeva a Palazzo Campana. Fummo incaricati io e il capogruppo del Psi Pier Luigi Passoni, già prefetto dopo la Liberazione. Andammo lì a trattare con il Magnifico Rettore, il professor Mario Allara, che aveva ac cettato la nostra mediazione per consentire agli studenti di rimanere all’interno dell’università durante la notte, a condi zione però che fossero separati – testuali parole – i maschietti dalle femminucce. Evidentemente il professor Allara non si era reso esattamente conto di cosa stesse accadendo». La politica è aggregazione, passione, compulsione, tene rezza e ingenuità. La politica è tutto. Le file della sinistra extraparlamentare, in una città dove la presenza dei neofa scisti è nettamente minoritaria, si ingrossano. A Torino va forte – e lo sarà per lungo tempo – Lotta continua. «La situa 1 Cit. in Massimo Novelli, «Torino 1967, Università occupata», la Repubblica, 27 novembre 2002.
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zione – racconta Stefano («Steve») Della Casa, ex militante dell’organizzazione – era completamente diversa rispetto a quella di tutte le altre città italiane. Credo che Lotta continua rappresentasse da sola l’80% della sinistra extraparlamentare in città. Eravamo il gruppo più forte, con 21 sezioni distribui‑ te su tutti i quartieri e la prima cintura. Il reclutamento dei militanti avveniva fuori dalle scuole e dalle fabbriche. Era vamo un marchio molto forte, soprattutto tra i giovani, e da un certo momento in avanti diventò anche un po’ di moda essere di Lc. C’era il giornale Lotta Continua, che da quin dicinale era diventato quotidiano nell’aprile ’72. E poi c’era una vita comunitaria che era fatta anche di luoghi di ritrovo: la sede era in corso San Maurizio 27, e il bar all’angolo con via Rossini era il bar di Lc. A Mirafiori il punto di ritrovo era davanti alla porta 2 di corso Tazzoli dove c’era una bocciofila, che esiste ancora. Dice Nanni Balestrini che Lotta continua nasce lì, con le prime riunioni dell’autunno 1969». «L’anima di Lotta continua a Torino – ricorda Giovanni De Luna – erano i figli dei protagonisti del Partito d’Azione, dei partigiani di Giustizia e Libertà, comunque non del Pci: Casalegno, Salvatorelli, Galante Garrone, e tantissimi altri. Per questo Lotta continua è operaista e giellista, è gobettiana e trozkista; insomma un grande mix. Certo quegli anni furo no esaltanti dal punto di vista emotivo e intellettuale, ma la verità è che non furono affatto divertenti: ogni sabato avevo addosso una tensione pazzesca prima del corteo, e il sabato dopo era di nuovo ora. Poi tutto quel perbenismo, quel dove rismo, quell’etica cattolica non avevano niente di ludico. Per fare un esempio: c’era una ragazza che mi piaceva moltissimo al mio paese dal quale ero venuto via nel ’61. Torno al paese che sarà stato il ’72 o il ’73, la incontro, e ci confessiamo il nostro reciproco amore da ragazzini. Una cosa bellissima, una serata pazzesca; finisco a casa sua e inizio a parlare di Lotta continua, della Fiat, della classe operaia. Lei mi è stata a sentire per mezz’ora e poi mi fa: ‘mi sembri un prete’, e la nostra storia è finita così». 31
Ma se lontano da Torino le storie di fabbrica raccolgono scarsi consensi, in città la questione è diversa. Racconta An drea Casalegno, ex militante di Lotta continua: «In quegli anni per la prima volta l’operaio generico incontra una for ma di attività politica completamente nuova: ogni volta che entra e ogni volta che esce dalla fabbrica è atteso da giovani, alcuni coi capelli lunghi, vestiti a volte con l’eskimo, che di stribuiscono volantini. Nasce così, a Mirafiori ma non solo, una nuova forma di attività politica, l’incontro tra studenti e operai, che avviene nel 1968, tra le cosiddette avanguardie dei gruppi extraparlamentari, a sinistra del Pci, e le avanguar die di fabbrica spontanee, per lo più operai senza un’attività sindacale, né un’attività all’interno dei partiti della sinistra alle spalle, che però guideranno in quegli anni, a partire dal cosiddetto ‘autunno caldo’ del 1969, le lotte operaie più du re. Vedono così la luce le prime forme di lotta che vanno oltre lo sciopero, i cortei interni che ‘spazzano’ le officine in mezzo a coloro che hanno scelto di continuare a lavorare, oppure il cosiddetto sciopero ‘a gatto selvaggio’, cioè forme improv vise che mirano a interrompere bruscamente la produzione in un dato reparto. Oppure forme cosiddette ‘a singhiozzo’. Tutte forme di lotta nuove, più dure e sostanzialmente non approvate dal sindacato, al limite della legalità. Le macchine di quelli che entrano – anche, se non soprattutto, i capire parto – sono bollate a calci e chi va a piedi viene spintonato. Forme di lotta che non dispiacciono alla maggior parte degli operai, che viene da almeno dieci anni di duro sfruttamento. C’è stato sì il miracolo economico tra i Cinquanta e i Sessanta, ma gli effetti del boom cominciano appena a sentirsi al livello degli stipendi degli operai, quasi sempre immigrati, soli a la vorare in famiglie spesso numerose, in situazioni ambientali e abitative meno favorevoli rispetto ai torinesi autoctoni. È un clima di conflittualità che caratterizza gran parte della vi ta cittadina che oggi è francamente difficile da immaginare, se non lo hai vissuto in prima persona. Nasce così l’autun no caldo del 1969, diventato famoso per lotte contrattuali 32
eccezionalmente dure, ma la conflittualità in fabbrica conti nua ben oltre, sostenuta da rivendicazioni a volte addirittura strampalate: ricordo, per esempio, uno sciopero per avere le tute rosse invece che blu. In definitiva la classe operaia, o per lo meno una parte consistente di essa, mette in discussione l’elemento fondamentale del lavoro in fabbrica, l’autorità di comando dei capireparto, fino all’obiettivo finale di bloccare la produzione, non solo per avere legittimi aumenti salariali, comunque una spinta importantissima al miglioramento del la propria condizione, ma anche qualcosa di più: contestare all’interno della fabbrica il potere di comando del padrone, che, per un principio di prossimità, si identifica con la figura del caporeparto. Anche alla catena di montaggio si pretende una velocità minore, che il lavoro sia meno gravoso. Tutto questo, alla fine, danneggia profondamente la produzione della Fiat». Se il Magnifico Rettore Allara non capisce ciò che sta capitando in università, quello che succede in fabbrica – e nel Paese – la Fiat lo capisce benissimo. Il 5 agosto 1971, il giovane pretore di Torino Raffaele Guariniello – oggi pro curatore aggiunto, pubblico ministero in importanti proces si come quelli per la strage della ThyssenKrupp e per le vit time dell’Eternit di Casale Monferrato – perquisisce la sede centrale dell’azienda, in corso Marconi 20. Al nono piano del palazzo, sopra scaffali che arrivano al soffitto, Guari niello scopre una serie di contenitori metallici che racchiu dono centinaia di migliaia di dossier realizzati fin dal 1949 su dipendenti o aspiranti tali, militanti politici, uomini delle istituzioni e giornalisti, compilati illecitamente, su incarico dell’azienda, da uomini dei Servizi segreti, della Questura e dell’Arma dei carabinieri. È concepito come lo schedario di una biblioteca inquisitoria e in veloce espansione: 354.077 moduli, stampati o ciclostilati, organizzati in ordine alfabe tico, con su annotati dati anagrafici, caratteristiche e giudizi complessivi sulla persona inquisita. Una schedatura di mas sa, basata su un sistema informativo in grado di puntare il 33
proprio occhio sulla famiglia allargata dell’indagato, sulle frequentazioni extralavorative: C. G. operaio Fiat Mirafiori dal 1951, a comprova della sua tendenza verso il partito comunista, tutti gli anni quando passa il Sacerdote per la benedizione delle case, gli viene vietata l’entrata. E. H. dedito al lavoro e alla famiglia e di normale condotta, è elemento scaltro e infido. Si è dimostrato di sentimenti comunisti. Legge L’Unità e frequenta il circolo del Pci. Anche la moglie viene notata frequentare il circolo. B. A. giovane seria, riservata, volenterosa, di facile comando e amante dell’ordine. F. C. è definito socialcomunista – segue la stessa corrente dei famigliari e della massa operaia. Apparentemente moderato. Re putazione: mediocre anche moralmente essendo di temperamento strambo e volubile. Incostante sul lavoro ha più voglia di fare il pe landrone che di lavorare. Scorrazza in motocicletta e recentemente ha investito un pedone. La madre, col tacito consenso del marito, è sempre stata di facili costumi e continua tutt’ora a prostituirsi. Il padre è militante comunista. Lavoratore assiduo, dedito alla fami glia, reputazione buona, simpatizzante Psi.
Un occhio capace di infiltrarsi nelle sedi dei partiti e dei sindacati, di curiosare tra le mura domestiche: C. C. comunista moderata. Detiene la bandiera del Pci in casa ed in tutte le cerimonie, manifestazioni sia di partito che per il lutto di qualche compagno, essa ha l’incarico di portarla. Pare che l’amante della C. stessa attualmente si trovi in carcere. Nella casa non di rado era notato e per di più di sera. F. A. i genitori sono moralmente mediocri essendo risaputo che a suo tempo si separarono oltre che per incompatibilità di carattere anche per reciproche leggerezze. La madre però, anche per l’età avanzata, in questi ultimi tempi ha messo giudizio e si comporta bene. 34
R. I. è simpatizzante del Pci. Reputazione: cattiva, è ritenuto dall’opinione pubblica un omosessuale2.
Dal 1967 il capo dell’Ufficio servizi generali della Fiat, responsabile della raccolta delle notizie e della gestione del lo schedario, è l’ex colonnello Mario Cellerino. La sentenza di primo grado del Tribunale di Napoli commenterà: «L’as sunzione di Mario Cellerino, per ben diciotto anni capo del Nucleo Sios Aeronautica dipendente dal Sid [Servizio infor mazioni difesa, il servizio segreto militare], realizzava, obiet tivamente, una più perfetta integrazione del sistema pubbli co di controllo della sicurezza industriale con quello privato dell’azienda, pur rimanendo divergenti le rispettive finalità e facoltà operative». Lo scandalo delle «schedature Fiat» è un esempio lam pante (destinato a riprodursi fino ai giorni nostri) di utilizzo privatistico e illecito di strutture e apparati dello Stato; all’in terno della Fiat, l’organizzazione della raccolta informazioni doveva essere tanto nascosta da risultare sorprendente anche per i vertici dell’azienda. Chiamati a rispondere sull’attività dell’Ufficio servizi generali, Gianni e Umberto Agnelli – che pure lavorano nello stesso edificio – dichiarano di aver preso atto «con stupore e sincero rincrescimento» dell’«attività del tutto negativa del Cellerino». Il processo – scippato a Torino per «legittima suspicione» – si concluderà con un nulla di fatto, tutto prescritto, nel luglio 1979, in un clima profonda mente trasformato. Ma nel 1971, l’impressione risvegliata dall’inchiesta di Guariniello è fortissima. Dopo oltre un mese di assoluto si lenzio, intorno alla metà di settembre alcuni giornali (il manifesto, Lotta Continua e l’Unità) cominciano a occuparsi del procedimento contro la Fiat. Sono i mesi, quelli, delle grandi controinchieste: nel Paese si diffonde – ingenua e dirompen
Bianca Guidetti Serra, Le schedature Fiat, Torino 1984, pp. 41 sgg.
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te – la convinzione che il fondo fangoso della democrazia possa essere smosso, che un singolare movimento di giorna listi, intellettuali, magistrati, studenti e operai assetati di verità può smascherare le collusioni, smontare le ricostruzioni, scagionare innocenti scelti come colpevoli. Il pomeriggio del 13 novembre 1971, al teatro Alfieri di piazza Solferino, si parla pubblicamente delle schedature Fiat. È la manifestazione «La città deve sapere», evento de stinato a imprimersi nella memoria dei torinesi per la vastità e l’eterogeneità delle adesioni: Pci, Psi, Psiup, Associazione giuristi democratici, Circolo della Resistenza, Acli, Mpl, Fgci, Lotta continua, Collettivo Lenin, Soccorso rosso, e moltis simi altri. Mentre nel resto d’Italia le tensioni tra le forze di sinistra sono violente e continue (a Roma e Milano non si contano, ad esempio, gli scontri tra i servizi d’ordine del Pci e di Lc) si realizza a Torino, forse proprio da quel giorno, un’inedita comunione d’intenti. L’anno successivo si arriverà alla formazione di un Comitato unitario antifascista, guidato dall’ex partigiano Guido Quazza, che, finché esisterà, avrà un ruolo determinante nell’impedire la diffusione in città del consenso per la lotta armata: per oltre tre anni a Torino non vi sarà manifestazione non organizzata dal Comitato unitario antifascista. Dall’ingresso principale della Grande Fabbrica – per de cenni dominato dai quattro parallelogrammi blu (F.I.A.T.) oggi sostituiti dagli scudi dei tre marchi del gruppo – parte, in direzione collina, il lungo corso Traiano, bastione divisorio tra i quartieri Mirafiori Nord e Mirafiori Sud, i primi avam posti della città borghese e i ghetti dormitorio cresciuti come funghi negli anni Sessanta. Oggi, di diverso rispetto a quel 3 luglio 1969 passato alla storia come la «rivolta di corso Traia no», ci sono soltanto i distributori di dvd porno accanto alle edicole. Per il resto le botteghe, i cancelli dei cortili, i balconi con le tende verdi, hanno la stessa allure imprigionata nelle foto degli scontri tra operai e polizia di quel giorno. Anche l’aria che respiri sembra ancora la stessa. L’autunno caldo 36
comincia a Torino (e dove altrimenti?) in un’afosa giornata di luglio. «La grande mobilitazione del ’68 – ancora Giovanni De Luna – era destinata a rifluire, afflosciandosi un po’ su se stessa. Ma poi interviene il ’69 operaio che rilancia tutto ed è ancora più significativo perché i protagonisti di quel ’69 sono gli operai meridionali, una cosa del tutto inedita, che scardina ogni vecchia appartenenza. L’iperpoliticizzazione della città ha indubbiamente degli spunti di grande creatività e consen te un allargamento dello spazio pubblico della cittadinanza: decine di migliaia di operai venuti dal Sud senza alcuna espe rienza di lotta politica, diventano sindacato, partito, entrano nella sfera pubblica. Ed è una sfera pubblica enormemente rigonfiata, che si affolla di nuovi soggetti che s’incontrano un po’ dappertutto, dal Partito comunista al sindacato, dai con sigli di quartiere ai consigli di zona, dai consigli di fabbrica alle nuove forme di rappresentanza politica, compresi i grup pi extraparlamentari, che sono il modo con cui il movimento studentesco partecipa a questa seconda fase di allargamento della sfera pubblica e della società di massa». Torino, che ci accompagna in questo viaggio della memo ria, non ci spiega la storia delle lotte operaie, delle conquiste e delle tensioni sociali; per quello ci sono decine di libri. Torino ci consegna delle impressioni e ci racconta quell’odore sulfu reo che un giorno si sprigiona a 150 chilometri di distanza. È il tardo pomeriggio del 12 dicembre 1969, alla Banca Nazio nale dell’Agricoltura a Milano, in piazza Fontana esplode una bomba. Sul pavimento rimane un cratere immortalato da una famosa fotografia. I primi a essere inghiottiti da quel cratere sono 18 innocenti; poi – a poche ore di distanza – l’anarchi co Giuseppe Pinelli e, tre anni dopo, il commissario Luigi Calabresi. A poco a poco, la marea plumbea che sgorga da quel cratere raggiunge l’Italia intera. Torino compresa, che proprio da Milano importa gli uomini che la terranno sotto scacco per anni, imprimendo al decennio Settanta (e oltre) l’incompleto – forse ingiusto, ma purtroppo prevalente – epi teto di «anni di piombo». 37
Torino a cinque punte
12 febbraio 1973, ore 15.30, il centralino della Questura riceve una telefonata: «C’è un uomo legato e imbavagliato di fronte al cancello 1 di Mirafiori, in corso Tazzoli». Scrive La Stampa il giorno dopo: «Quando è arrivata la polizia, la gente era fer ma da un quarto d’ora attorno a lui e commentava l’episodio, senza intervenire». L’uomo si chiama Bruno Labate e ha 30 anni. La mattina del 12 febbraio, come ogni mattina, esce di casa alle 7.30 dal portone di via Biamonti 15, zona precollina, di fronte alla storica «piola» degli Imbianchini; pochi passi e due uomini gli sono addosso, lo immobilizzano e lo caricano a forza su un furgone. Ricompare otto ore dopo incatenato a un palo, imbavagliato e con la testa rasata. Intorno a lui – tra la gente indifferente – sono sparsi alcuni volantini: «Questo è Bruno Labate – si legge nel ciclostilato – segretario provin ciale dei metalmeccanici Cisnal, pseudosindacato fascista che i padroni mantengono nelle nostre fabbriche per dividere la classe operaia, per organizzare il crumiraggio, per mettere a segno aggressioni e provocazioni. Lo abbiamo sequestra to alcune ore per fargli alcune domande in merito alle sue responsabilità nella tratta dei meridionali assunti tramite la Cisnal». La firma in calce è la stessa che si può leggere sul cartello che i sequestratori hanno appeso al collo del prigio niero: «Brigate rosse». Labate – si scoprirà mesi dopo – è stato tenuto in ostaggio in un garage di corso Appio Claudio 39. Ed è qui, in questo box dove oggi faticherebbe a entrare un’utilitaria, che ha ini zio un pezzo della storia che un giorno ucciderà Emanuele 38
Iurilli. Il garage è a poche decine di metri da un luogo assai simbolico, che a uno sguardo distratto potrebbe sembrare un giardino pubblico, o un vecchio rudere recintato. È l’antico poligono di tiro del Martinetto in corso Svizzera, un tem po ultimo lembo di città vicino al parco della Pellerina, oggi soffocato dall’esuberanza edilizia di un isolato anni Sessanta di condomini a nove piani. Palazzoni irrispettosi, perché su quel prato recintato, all’alba del 5 aprile 1944, morirono fu cilati dai nazifascisti – dopo un processo farsa durato appena due giorni – Giuseppe Perotti, Enrico Giachino, Massimo Montano, Giulio Biglieri, Franco Balbis, Eusebio Giambo ne, Paolo Braccini e Quinto Bevilacqua, otto componenti del primo Comitato militare regionale piemontese del Cln. A ciascuno di loro – chi una via, una piazza, un corso o un ponte sul Po – è dedicato un pezzo di città. Combattenti di una guerra giusta, la cui storia è stata narrata nel 1969 dal bellissimo Fiori rossi al Martinetto dell’avvocato Valdo Fusi. È possibile credere che chi affitta quel garage di corso Appio Claudio 39 abbia letto il libro. E non è detto che non si senta affascinato da quella vicinanza – forse casuale, forse no – a un luogo simbolo della lotta torinese al nazifascismo. In quel garage, invece, nasce una storia tutta diversa, anche se gli affittuari sognano di giocare alla guerra e si sentono novelli partigiani. Il loro campo di battaglia è la città e scrivono co se come queste: «Ogni alternativa proletaria al potere è, fin dall’inizio, politico-militare. La lotta armata è la via principa le della lotta di classe. La città è il cuore del sistema, il centro organizzativo dello sfruttamento economico-politico. Deve diventare per l’avversario un terreno infido: ogni gesto può essere controllato, ogni arbitrio denunciato. La lunga marcia rivoluzionaria nella metropoli deve cominciare qui e oggi». Stralci dal «libretto giallo» intitolato Lotta sociale e organizzazione nelle metropoli che nel novembre 1969 (prima ancora della bomba di piazza Fontana a Milano) un gruppetto di persone appartenente al Collettivo politico metropolitano (Cpm), giovani e meno giovani da Trento, Milano, Torino, 39
Reggio Emilia e Genova, redige nella pensione Stella maris di Chiavari, di proprietà della Curia locale. Il convegno di Chia vari, secondo gli storici, è l’alba della stella a cinque punte. Quel simbolo compare per la prima volta a Milano, nella primavera del 1970, in zona Lorenteggio. Nessuno dà trop po peso a quella stella asimmetrica, a quei messaggi violenti diffusi via ciclostile nello stabilimento Sit-Siemens di piaz za Zavattari. Poche righe sul giornale anche il 17 settembre 1970, quando in via Moretto da Brescia, zona Città Studi, due bidoni di benzina esplodono contro il box di Giuseppe Leoni, direttore centrale del personale della Sit-Siemens. È la prima azione rivendicata dalle Brigate rosse. Fanno più rumo re le otto bombe incendiarie piazzate sotto altrettanti tir nello stabilimento Pirelli a Lainate il 25 gennaio 1971. I giornali parlano di «grave attentato» e di «bombe molotov». Il nome «Brigate rosse», però, viene distrattamente citato in cronaca. Perché la celebrità, già in quegli anni, è immagine. E l’imma gine è una polaroid: lo sguardo più stupito che terrorizzato di un signore di mezza età con una canna di pistola schiacciata sulla guancia destra. Si chiama Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens, sequestrato per circa mezz’ora il 3 marzo 1972, fotografato con al collo un cartello con scritto: «Mordi e fuggi, niente resterà impunito, colpirne uno per educarne cento», firmato Brigate rosse. La Stampa di Torino, il giorno seguente, dedica alla notizia un breve articolo a pagina 18, accanto ai necrologi: «Milano, sequestrano e picchiano un di rigente e gli intimano di non tornare al lavoro». Ma il 9 marzo la polaroid di Macchiarini, inviata il giorno prima all’agenzia Ansa, già guadagna l’apertura di pagina 2: «Gesto sprezzante degli estremisti di sinistra, inviate foto del dirigente Siemens rapito». Ai novelli partigiani però – anche perché l’organiz zazione sembra neutralizzata dalla prima ondata di arresti provocati dall’inchiesta del giudice milanese Guido Viola – Milano comincia a stare stretta. Meglio Torino, austera e militare, città ad angolo retto dove sembra più facile distin guere il bianco dal nero, il bene dal male, la vita dalla morte. 40
Milano è una palude concentrica, fatta di strade che girano su stesse e tornano sempre al punto di partenza. Concentriche come le onde che il 12 dicembre 1969 si generano dal cratere di piazza Fontana e sommergono la città in un collasso di passioni contrapposte. A Milano si muore, per una spranga o una bomba, per una finestra aperta o un colpo di pistola alla schiena, per una lama o una chiave inglese. Meglio Torino, il centro del mondo a «sette gradi longitudine est», coordinate spaziali della città della Grande Fabbrica. Qui pulsa il cuore della classe operaia. È la tarda primavera del 1972: Mara Cagol e Renato Cur cio, due ex studenti di sociologia dell’Università di Trento, si trasferiscono sotto la Mole. Torino non è mai stata così grande, all’anagrafe gli abitanti sono quasi 1.200.000, la domenica si va a piedi causa austerità. Il sindaco è il democristiano Giovan ni Porcellana e in Consiglio comunale siedono i compagni di partito Antonio Cocozzello, Dante Notaristefano e Giovanni Picco, i cui destini negli anni a venire – ma allora non lo posso no nemmeno immaginare – avranno molto a che fare con le vi cende di Curcio e compagni. Tra i banchi dell’opposizione c’è già Diego Novelli, capogruppo del Pci, partito che alle ultime elezioni amministrative nel 1970 ha preso una manciata di voti in più della Democrazia cristiana (28,90% a 27,79%); il terzo partito è il Pli (10,9%), quarto, di poco, il Partito socialista (10,5%); il Msi è sotto il 5%. L’arcivescovo si chiama Michele Pellegrino, saggio uomo di Chiesa, che nel 1971 scrive la lettera pastorale Camminare insieme, ancora oggi, per molti, un capo lavoro di dottrina sociale della Chiesa. La città si appassiona alla politica e al calcio. Lo scudetto del 1972 finisce sulle maglie della Juventus, ma alle spalle – a un solo punto di distacco, dopo un appassionante testa a testa – si piazza il Torino, alle nato da Gustavo Giagnoni, sardo sanguigno e un po’ comu nista, che in panchina si agita con un colbacco in testa e uno sciarpone granata al collo. Un derby appassionante che durerà per tutto il decennio; ai bianconeri andranno molti scudetti, ai granata un tricolore e la maggior parte delle stracittadine. 41
È in questa città che, nell’estate del 1972, si forma il primo «esecutivo» delle Brigate rosse, composto da Renato Curcio (che abita con la moglie Margherita, «Mara», Cagol in un appartamento di corso Francia 166, vicino al parco della Te soriera), Alberto Franceschini (l’uomo che punta la pistola contro la guancia di Macchiarini nella polaroid), Mauro Mo retti e Piero Morlacchi: «Non è un caso che le Brigate rosse scelgano Torino come primo campo di battaglia – ricorda Novelli –, una città particolare, perché qui c’era la concen trazione della più grande forza finanziaria economica e indu striale e la più grande forza organizzata del movimento dei lavoratori. Mettere in crisi una città come Torino voleva dire mettere in crisi il sistema nazionale, mettere in crisi lo Stato. E soprattutto cercavano di insinuarsi nel malcontento, nel disagio reale che c’era nella città». Tutto tace, fino alle 15.30 del 12 febbraio 1973: «C’è un uomo legato e imbavagliato di fronte al cancello 1 di Mira fiori, in corso Tazzoli». C’è chi li chiama «provocatori», «fantomatiche Br», «fa scisti rossi». Non il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che il 1° ottobre del 1973 prende possesso con i suoi uomini del primo piano della caserma dei carabinieri di via Valfrè, nel complesso della storica caserma Cernaia. Negli anni a venire ci passeranno molto tempo. Per ora il lavoro si concentra su un’impronta digitale impressa all’interno del furgoncino abbandonato dai rapitori dopo il sequestro di Bruno Labate. Appartiene a un latitante, irreperibile dal 12 maggio 1972, già coinvolto nell’inchiesta milanese sui Gap di Giangiacomo Feltrinelli. È il 10 dicembre del 1973, sono passati dieci mesi dal se questro-lampo di Bruno Labate, la Juventus ha vinto un altro scudetto e il sindaco, ora, è il democristiano Giovanni Picco. Piove e fa freddo. Ettore Amerio ha 56 anni, è il direttore del personale del gruppo Fiat Auto; esce di casa alle 7.40 dal portone di corso Tassoni 56. Non fa in tempo a raggiungere la propria automobile che tre persone, travestite da tecnici 42
della Sip, lo aggrediscono caricandolo a forza su un furgo ne della società telefonica. Alle 10.50 una telefonata all’An sa rivendica il sequestro: Brigate rosse. Poche ore dopo, in una cabina telefonica di piazza Statuto, viene fatto ritrovare il primo comunicato: «Il ragionier Amerio è detenuto in un carcere del popolo. La durata della prigionia dipende da tre fattori: il proseguimento delle manovre antioperaie di stru mentalizzazione della crisi creata e gonfiata ad arte dalla Fiat; l’andamento degli interrogatori ai quali verrà sottoposto sul la questione dei licenziamenti e dello spionaggio all’interno dell’azienda; la completezza dell’informazione che verrà data di quest’azione. Qualunque indagine poliziesca può mettere a repentaglio la vita del prigioniero». rigioniero per È un salto di qualità: Ettore Amerio rimarrà p oltre una settimana. Non più un sequestro «mordi e fuggi», ma la prova generale dell’attacco al cuore dello Stato che sarà riproposto con i rapimenti di Mario Sossi e Aldo Moro: «Per la prima volta – racconta Gian Carlo Caselli, allora trentaquat trenne giudice istruttore a Torino – le Br si propongono come soggetto di dimensione nazionale e come interlocutore hanno direttamente la Fiat, che in quel periodo non è soltanto potere economico, ma anche, se non soprattutto, politico. Chiedono la cessazione della cassa integrazione e fanno queste richieste, una tecnica che si ripeterà anche successivamente, non tanto per ottenere dei risultati, quanto per creare spaccature nel fronte contrapposto». Amerio – scopriranno le indagini – viene trasbordato dal furgone Sip (che, per evitare di lasciare tracce come per il rapimento Labate, viene immediatamente dato alle fiamme) a una 124 gialla nel garage di corso Appio Claudio (poco distante dall’abitazione del dirigente Fiat) e condotto in un seminterrato di via Castelgomberto, a Mirafiori Nord. Il gior no dopo, di fronte ai cancelli di alcune fabbriche a Torino e Milano, altoparlanti piazzati sui cofani di auto rubate dif fondono agli operai la rivendicazione del sequestro. «Penso spesso all’insorgenza del terrorismo – racconta Enzo Di Ca 43
logero, ex militante di Lotta continua e operaio a Mirafiori – che nacque in parte tra le nostre catene di montaggio alla Fiat più che tra le file della nostra organizzazione. Tutta la battaglia del ’72-’73 per il contratto dei metalmeccanici fu terribilmente aspra, i padroni non volevano cedere, gli operai erano esasperati e disposti a tutto. Vedevo la loro insofferen za crescere, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, e durò sette mesi quella lotta. Vedevo la loro capacità di atti impensabili. Era un periodo terribile, con la polizia che per strada ammazzava gli studenti. In fabbrica, poi, c’era una violenza esercitata a livelli sconosciuti, ricordo di un caposquadra calvo che dovetti proteggere da un mas sacro. Io credo che quelle giornate e quei sette mesi di lotte siano stati grandemente fraintesi dai clandestini dei gruppi armati che già avevamo alla Fiat e che già operavano in Italia. Avevano visto anche la mezza complicità degli operai nelle prime azioni, con qualche caposquadra rapito o incatenato e hanno fatto le somme. Hanno immaginato che quegli stessi operai che avevano lottato per il contratto con tanta determi nazione e anche con tanta violenza, e poi avevano sogghigna to passando davanti agli incatenati, fossero disposti a seguirli in una lotta armata»1. Due giorni dopo la rivendicazione del sequestro Amerio, i carabinieri scoprono il box di corso Appio Claudio e perqui siscono mezza città. Nel mirino finiscono anche le abitazioni dei docenti universitari Nicola Tranfaglia e Massimo L. Salva dori, che reagiscono sdegnati; il 13 dicembre è il giorno della polaroid dalla prigione del popolo (triste rituale destinato a ripetersi). Quindi le Brigate rosse, soddisfatte della «colla borazione del detenuto» rilasciano incolume Amerio la mat tina del 18 dicembre, convinti di aver ottenuto un successo politico e la ribalta mediatica. Ma sono sfortunati: i giornali di martedì 19 dicembre relegano la liberazione del capo del 1 Cit. in Corrado Sannucci, Lotta continua. Gli uomini dopo, Arezzo 1999, p. 125.
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personale Fiat nelle pagine interne. La prima è occupata dalla strage dell’aeroporto di Fiumicino per mano di un comman do di terroristi palestinesi. Ma la notorietà definitiva non tarda ad arrivare. Il 18 apri le 1974, a Genova, le Brigate rosse rapiscono il magistrato Mario Sossi, noto conservatore, pubblico ministero nel pro cesso alla banda «XXII ottobre», sgangherata accozzaglia di aspiranti guerriglieri, anche noti come i «tupamaros della Val Bisagno». Sono i responsabili dell’omicidio del portavalori Alessandro Floris, ucciso durante una rapina all’Istituto auto nomo case popolari di Genova il 26 marzo 1971. Sossi, tenuto prigioniero in un cascinale a Sarenzano, nei pressi di Tortona, verrà liberato incolume il 23 maggio 1974, dopo trentacinque giorni di prigionia che tengono l’Italia con il fiato sospeso: «È il primo vero attacco al cuore dello Stato – racconta Gian Carlo Caselli – perché è allo Stato che questa volta si rivolgo no direttamente, chiedendo in cambio di Sossi la liberazione di quelli della ‘XXII ottobre’». Il sequestro Sossi è la miccia degli anni di piombo, per l’Italia e soprattutto per Torino: «Oggi come allora – continua Caselli – quando un magistrato è vittima di un reato, il processo non lo possono fare i colle ghi della sede in cui quel magistrato lavora, dunque non può occuparsene Genova. Il processo deve spostarsi e la Corte di Cassazione (allora la scelta era discrezionale, oggi sarebbe automatico) decide che il sequestro Sossi deve essere istruito a Torino». Cinque giorni dopo la liberazione di Sossi, il 28 maggio 1974 la polizia arresta a Firenze Paolo Maurizio Ferrari, 28 anni. La notizia («Preso un colonnello delle Brigate») non è che un trafiletto sulla prima pagina della Stampa del 29 mag gio, quasi interamente occupata dalla terribile notizia della strage fascista di piazza della Loggia a Brescia. Nessuno lo può ancora immaginare, ma l’arresto di Paolo Maurizio Fer rari è una svolta: è sua infatti l’impronta lasciata sul furgone del sequestro Labate, su cui indaga (come per il rapimento Amerio) il giudice istruttore Caselli: «L’arresto di Ferrari – 45
ricorda ancora Caselli, futuro procuratore capo di Palermo – consente di localizzare un «covo» Br a Torino, in via Fea 5bis, zona Madonna di Campagna. Una base operativa, piena zeppa di materiale preziosissimo per le indagini. Ma soprat tutto, in tasca, Ferrari ha il comunicato numero otto, redatto durante il sequestro Sossi. Il volantino è originale. Dunque il collegamento di Ferrari, già accusato del sequestro Labate, con Sossi è di tutta evidenza e si determina così quella che in gergo tecnico si chiama connessione soggettiva e probatoria. La Procura generale quindi (parliamo del vecchio rito del Co dice Rocco) unifica i fascicoli Sossi e Labate». È l’alba del pro cesso contro la «banda armata denominata Brigate rosse» che si celebrerà a Torino: «Comincia – racconta Caselli – il lavoro con il pubblico ministero Bruno Caccia [futuro procuratore capo di Torino, ucciso dalla ’ndrangheta nel giugno 1983], che si protrae per anni a tempo pieno. Caccia e io lavoriamo su un unico obiettivo: le Brigate rosse, la loro organizzazione e l’individuazione delle responsabilità per i fatti di reato com messi fino a tutto il 1975 dai cosiddetti capi storici». E i «capi storici» cominciano a essere catturati. Ancora Caselli: «Nell’estate del 1974 i carabinieri del generale Dalla Chiesa riescono a infiltrare nelle Br uno strano personaggio, Silvano Girotto, passato alla storia come ‘frate mitra’: rapina tore, poi frate, quindi emigrato in Sudamerica con esperien ze varie di guerriglia. Rientrato in Italia viene contattato dai carabinieri che lo convincono a tentare l’infiltrazione nelle Brigate rosse. Girotto ci riesce, conosce vari brigatisti e fian cheggiatori (tra cui l’avvocato Giovan Battista Lazagna, eroe della Resistenza) e l’8 settembre 1974 fissa un appuntamen to, a Pinerolo, con Renato Curcio e Alberto Franceschini». All’appuntamento ci sono anche i carabinieri del generale Dalla Chiesa. «Arrestato Curcio delle Brigate rosse per il rapimento di Ettore Amerio» è il titolo in prima pagina di Stampa Sera di lunedì 9 settembre. L’organizzazione, dopo il rapimento Sossi, è sempre più nota, anche se il fronte di chi ancora considera le Br «sedicenti» è assai esteso, nonostante 46
il 17 giugno 1974 abbiano fatto le loro prime vittime, Giu seppe Mazzola e Graziano Giralucci, militanti del Msi uccisi a Padova durante l’irruzione di un commando brigatista nella sede di via Zabarella 24. Morti «non programmate», si difen deranno gli assassini, ma per la storia fa poca differenza. Le fotografie di quell’8 settembre nei dintorni di Pinerolo ritraggono un Curcio sorpreso, costernato, al volante di una Renault 5, mentre Franceschini (che secondo la stampa è solo «l’aiutante» di Curcio) è fuori dall’abitacolo, immobilizzato dai militari in borghese. Tra questi c’è il maresciallo Felice Maritano, 55 anni, ex partigiano. Poco più di un mese dopo, il 15 ottobre del 1974, viene individuato un altro covo Br a Robbiano di Mediglia, in provincia di Milano. Il maresciallo Maritano coordina l’irruzione. Nell’appartamento vengono sorpresi Pietro Bassi e Pietro Bertolazzi, altri due «capi stori ci». Maritano e i suoi uomini aspettano altri brigatisti nascosti nell’appartamento. Alle 3.30 del mattino, arriva a Robbiano Roberto Ognibene, 20 anni. Si accorge della trappola e, prima di essere bloccato, spara e uccide il maresciallo Maritano. Il 18 febbraio 1975, a Torino, si prepara l’istruttoria con tro «la banda armata denominata Brigate rosse». Nel pome riggio, nel suo ufficio di via Tasso 1, dove ha sede la Procura della Repubblica, il giudice istruttore Caselli riceve una tele fonata: Renato Curcio è fuggito dal carcere di Casale Mon ferrato. Lo ha liberato la moglie Margherita («Mara») Cagol, che è riuscita a entrare nel penitenziario armata di mitra. Il numero uno delle Brigate rosse, a pochi mesi dall’arresto, è di nuovo latitante. Torino e il Piemonte, come tutto il Nord Italia, vivono l’in cubo dei sequestri di persona. Quello del «re del vino» Vittorio Vallarino Gancia, 48 anni, rapito a Canelli il 4 giugno 1975, non è che l’ultimo di una serie. La notizia del sequestro è l’apertura della prima pagina della Stampa del giorno seguente. Il taglio basso è occupato dagli sviluppi delle indagini sul rapimento e l’omicidio dell’industriale Ceretto, ucciso a colpi di pietra 47
da un uomo di nome Santo Caggegi2. Non sono pochi i rapiti che non tornano, e anche il cinema di genere, l’Italian gangster movie dei primi anni Settanta, racconta di cittadini impotenti di fronte alla violenza di sequestratori sempre più feroci. È ciò che teme la famiglia Gancia, ma la prigionia di Vittorio durerà soltanto venti ore. È la tarda mattinata del 5 giugno: una pattuglia di quattro carabinieri perlustra le colline della frazione Arzello nel comune di Melazzo (Alessandria), alla ri cerca dell’ostaggio. Giunti alla cascina Spiotta i militari notano due macchine, una 127 e un 128 parcheggiate sotto il portico. Dunque nel casolare c’è qualcuno. Il tenente Umberto Rocca e il maresciallo Rosario Cattafi si avvicinano alla porta d’in gresso. Bussano, nessuno risponde, eppure si sente il vociare di una radio. Rocca scorge una donna affacciata a una finestra, che subito si dilegua. I militari decidono allora di sfondare la porta a calci. Li affronta un uomo che, dopo un breve battibec co, estrae una bomba a mano e la scaglia contro i carabinieri. Rocca è a terra (perderà il braccio e l’occhio sinistro), al suo fianco, anch’egli ferito, Cattafi. Due persone, un uomo e una donna, escono immediatamente dopo dalla cascina, sparano a raffica e colpiscono in pieno l’appuntato Giovanni D’Alfonso, che morirà dopo una lunga agonia, sei giorni più tardi. I due riescono a raggiungere le auto parcheggiate sotto il portico ma vengono bloccati da una macchina dei carabinieri, fingono la resa e subito dopo ricominciano a sparare. L’appuntato Pietro Barberis risponde al fuoco, l’uomo si dilegua nella boscaglia. A terra, quando tutto tace, su un prato scosceso, rimane il corpo della donna. In una stanza della cascina, i carabinieri giunti sul luogo dopo la sparatoria liberano Vittorio Vallarino Gancia. L’identità della donna uccisa rimane ignota per molte ore. Poi i familiari riconoscono Margherita Cagol: l’uomo che riesce a fuggire nella boscaglia è forse (perché incredibilmente, dopo tanti anni, ancora non si sa con certezza) Renato Curcio.
Santo Caggegi è il padre di Matteo Caggegi (Charlie).
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Curcio viene nuovamente arrestato a Milano in via Mader no, insieme alla nuova compagna Nadia Mantovani. È il 18 gennaio 1976 e da poche settimane Bruno Caccia e Gian Car lo Caselli hanno terminato l’istruttoria sulla «banda armata denominata Brigate rosse». Il «processone» ai capi storici delle Br, dunque, è pronto a partire. Si aprirà ufficialmente il 17 maggio 1976 con 23 imputati, 11 dei quali detenuti: Pietro Bassi, Pietro Bertolazzi, Alfredo Buonavita, Renato Curcio, Valerio De Ponti, Paolo Maurizio Ferrari, Alberto France schini, Prospero Gallinari, Arialdo Lintrami, Roberto Ogni bene e Tonino Paroli. Torino si riveste di grigio e racconta di quando le parve di essere, di nuovo, una città in guerra.
Il sindaco della Falchera
Non sono in molti ad accorgersene. Solo in pochi, a dire il vero, davanti alle prime imprese delle Brigate rosse, sono in grado di distinguerle da tutto il resto. Nessuno, forse, riesce a intuire quanti lutti si nascondano dietro un orizzonte che sembra di gesti apparentemente isolati. «Quando all’inizio di questa vicenda terribile – ricorda Ezio Mauro, all’epoca giova ne cronista della Gazzetta del Popolo di Torino – è stato rapito dalle Brigate rosse il sindacalista della Cisnal, Bruno Labate, mi vergogno a dire di non avere avuto un moto di ripulsa e di condanna. È una cosa che evidenzia il nostro ritardo cultura le: eppure bastava aver letto Fenoglio, e l’aggravante è che io l’avevo anche letto. La violenza non è divisibile, non è pesabile, in quel gesto c’era già in nuce tutta la violenza del terrorismo delle Brigate rosse e si poteva già capire a che cosa avrebbe portato. Ma noi lo avremmo compreso soltanto più avanti». Per i gruppi della sinistra extraparlamentare, le Br dei primi anni Settanta non sono che una delle cento sigle nate intorno a quell’ossessione chiamata «centralismo operaio». La stella a cinque punte è un concorrente in più a diffondere volantini e idee davanti ai cancelli della fabbrica, cuore della vita cittadina. Intorno alle porte della Fiat – difficile figu rarselo oggi – un immenso bazar della politica (e non solo) attende ogni giorno l’uscita degli operai. «Il ritrovo al cambio turno – racconta Steve Della Casa – era un po’ lo struscio del la sinistra extraparlamentare, in particolare quello delle 14. È incredibile quello che succedeva fuori da quelle porte: si tro vava di tutto e si vendeva di tutto. C’era addirittura chi ven 50
deva tartufi, ma buonissimi, portati direttamente dai ‘barotti’ di Alba; poi mele, ombrelli, maglie, piccoli elettrodomestici. Davvero di tutto. C’era un mercato abusivo enorme, e in più tutti i gruppi della sinistra extraparlamentare si trovavano lì a vendere il proprio giornale. Non potete averne idea, era come stare in via Roma». Il suono di voci che passano attraverso un megafono, di scussioni, capannelli, fretta di tornare a casa, i titoli assertivi di Programma Comunista: «Concentrazione del capitale nella fase imperialistica» oppure «La crisi: palude del mercato o vulcano della produzione?», chi entra ha il cartellino in bocca e le mani occupate, chi esce sta per addormentarsi sul tram, i sorveglianti, detti «guardioni», sorvegliano; sono gli unici immobili su quella soglia. Corso Tazzoli – infinito, alberato, intasato – racconta l’incontro quotidiano di studenti e operai. Un incontro distintivo, epocale, che nel 1973 Ettore Scola non manca di fissare sulla pellicola, nel suo Trevico-Torino. È uno strano film, mezzo finzione mezzo documentario, scrit to insieme a Diego Novelli capogruppo del Pci in Consiglio comunale e giornalista dell’Unità. Il protagonista è un im migrato irpino – Trevico, provincia di Avellino, è anche il paese d’origine di Scola – che arriva a Torino per lavorare in fabbrica. Di nome fa Fortunato Santospirito. «È qui che assumono per la Fiat», le sue prime parole. Una valigia verde e bianca lo accompagna nella sequenza iniziale mentre, dopo essere sceso a Porta Nuova, si aggira per il centro storico in cerca di un posto dove stare, il suo vagare interrotto da os servazioni ingenue come «anche a Trevico c’è la neve, ma da noi è più bianca». Qualcuno gli propone di sistemarsi in un «letto caldo», geniale invenzione di qualche mente pragma tica, che consiste nell’affittare la stessa stanza, lo stesso letto, a tre operai distribuiti su turni diversi. Comodo e razionale. La sera di quel primo giorno a Torino, Fortunato non ha an cora trovato una casa e allora decide di andarla a vedere, la famosa Fiat. L’insegna rossa scintilla nei suoi occhi sognanti, mentre, appeso alle inferriate della palazzina centrale di cor 51
so Giovanni Agnelli, Fortunato si esercita nella parodia triste dell’affamato davanti alla vetrina della pasticceria. Conoscerà i dormitori pubblici, la catena di montaggio e i suoi ritmi, imparerà la politica da una studentessa con la spilla di Lenin appuntata al cappello, fuori dalla porta 2 di Mirafiori. In città ne arrivano anche duecento al giorno come Fortu nato Santospirito; hanno tutti più o meno lo stesso cappotto, la stessa faccia impaurita. Tra di loro, un mattino del 1966, il «Treno del Sole» lascia sul marciapiede di Porta Nuova un ragazzo di 16 anni della provincia di Enna, destinato suo mal grado a diventare un simbolo nella Torino della prima metà del decennio Settanta, emblema dell’apprendistato politico e delle lotte di quella nuova massa di torinesi. Il suo nome è Antonio Micciché, ma per tutti diventa subito Tonino. «Toni no – dice Giovanni De Luna – sembrava fatto apposta per in carnare la rottura dei compartimenti stagni. Per qualche anno lavora alla Fiat e si fa stimare dall’operaio massa e dall’operaio di mestiere, quello del Pci, per intenderci. Poi viene licenziato dopo una rissa con quelli del Msi e una volta licenziato si pro pone come leader dell’occupazione delle case alla Falchera. Quindi intercetta la fabbrica e il quartiere, la centralità della fabbrica e la periferia del ghetto urbano. Ha una storia con una compagna studentessa, cosa per nulla frequente allora. Tonino, insomma, è la sintesi di tutto quel periodo. E poi ci metteva una serenità interiore, una capacità di sdrammatizza re, di vivere, di cantare. A me non va giù l’idea di fare santini, però se dovessi indicare l’eroe eponimo di quegli anni e di questa città, non avrei dubbi, è lui». Ricorda Steve Della Casa: «Era l’esempio di quella classe operaia, non so nemmeno se avesse la quinta elementare, forse solo la seconda, ma era un uomo di un’intelligenza assoluta, con una sete di sapere incre dibile. Era il vero immigrato di Ettore Scola, arrivato a Torino a 16 anni con la valigia di cartone, che si arrangiava a dormire in una cantina o in una soffitta. La cosa straordinaria di quegli anni è che uno come me – figlio di professori universitari – non lo avrebbe mai nemmeno incontrato senza il ’68». 52
Tra quanti hanno conosciuto Tonino Micciché, Enzo Di Calogero, di tre anni più vecchio, è un testimone indispen sabile per raccontarne i primi tempi alla Fiat: «Era appena dopo la vertenza del ’70, gli esterni della porta 18 delle Mec caniche mi parlavano con entusiasmo di un certo Tonino, un ragazzo molto attivo del turno opposto al mio. Un nuovo mi litante operaio per Lotta continua era certamente un evento importante, ma per me aveva un significato particolare: avevo saputo che questo mio compagno era del mio stesso paese, Pietraperzia, in Sicilia, provincia di Enna. Mi chiedevo chi potesse essere questo compaesano; a Pietraperzia i giovani, a qualsiasi ceto sociale o compagnia appartenessero, si cono scevano tutti, almeno di vista, perché si incontravano a pas seggiare con il proprio gruppo, in piazza con il vestito buono o davanti alla chiesa la domenica, per guardare le ragazze che uscivano dalla messa. Non sapevo in quale gruppo collocarlo: e poi quel nome, Tonino, un diminutivo insolito per il mio paese. Temevo che fosse un figlio di emigrati, casomai nato già a Torino, sarebbe stata una mezza delusione. Ero ansioso di incontrarlo. Un giorno, mentre giocavo a calcetto al bar di corso San Maurizio, sentii alle mie spalle la voce di un sicilia no allegro e sfottente che diceva: ‘Salutammu la cumpagnia’. Era lui. Lo conoscevo da sempre e da sempre si conoscevano e rispettavano le nostre famiglie. Da piccolo avevo giocato con lui perché abitava nel quartiere di mia nonna e di mio zio e allora lo chiamavo Nino. L’amicizia nacque in un istante. Ci fece diventare fratelli di una fratellanza inimmaginabile, come quella tra internati di un campo di concentramento. Non ho mai conosciuto un militante più stupito e divertito di lui per le trasformazioni che la lotta collettiva operava sui singoli individui in fabbrica e fuori. Era una persona felice di essere un ribelle, un ribelle irriducibile, ma consapevole che le giuste ragioni della rivolta non dovessero mai indietreg giare di fronte agli ostacoli, di qualunque natura fossero. Mi impressionava ogni volta la sua audacia. Davanti alla porta 18 lo vidi apostrofare una pattuglia della polizia che sostava 53
lì davanti: ‘Che ci fate voi qui, questo non è il vostro posto. Non lo sapete che qui lottiamo anche per voi?’»1. Gennaio 1973, due settimane prima del sequestro di Bru no Labate. Tonino Micciché sta per essere arrestato. In Italia la tensione è salita, negli ultimi tempi sono sempre più fre quenti gli scontri, anche mortali, tra giovani militanti di de stra e sinistra. Le trame nere di chi si augura – e si impegna a mettere a segno – un colpo di Stato non sono ancora del tutto tramontate. Tra i militanti della sinistra extraparlamentare c’è chi si esercita per le prove antigolpe e chi dorme fuori casa per paura degli arresti notturni. La ritorsione è un principio condiviso che non risparmia nessuno: «Se toccate uno dei nostri, domani è il vostro turno». La vendetta si esercita per le strade di città, sempre più divise tra zone rosse e zone nere. Lo sconfinamento si paga anche con la vita. Giorgio Almi rante, leader del Msi, sprona i suoi dal palco di Firenze nel giugno 1972: «I nostri giovani devono prepararsi allo scontro frontale con i comunisti e siccome una volta sono stato frain teso, e ora desidero evitarlo, voglio sottolineare che quando dico scontro frontale, intendo anche scontro fisico. Se il go verno continuerà a venir meno alla sua funzione di Stato, noi siamo pronti a surrogare lo Stato. Queste non sono parole e invito i nostri avversari a non considerarle tali»2. A Torino, dove pure la presenza dell’estrema destra è ridotta rispetto alle realtà di Roma e Milano, gli episodi di violenza politica si moltiplicano nei primi giorni del 1973: aggressioni contro militanti della sinistra extraparlamentare in piazza Adriano, al Liceo Cavour e alla porta 17 di Mira fiori. Anche in Valsusa, come in molte altre parti d’Italia, gli inquirenti scoprono un campo paramilitare dove i neofascisti di Ordine nuovo si esercitano in vista della loro rivoluzione. La sera del 19 gennaio un gruppo di estremisti di destra ag 1 Cit. in Corrado Sannucci, Lotta continua. Gli uomini dopo, Arezzo 1999, p. 125. 2 Cit. in Stampa Sera, 5 giugno 1972, p. 13.
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gredisce con spranghe e catene il docente universitario Carlo Marletti appena fuori da Palazzo Nuovo. «Io in quel momen to – ricorda Marletti – non militavo in nessuno dei gruppi extraparlamentari, ma li seguivo molto da vicino. Quella sera c’era stata all’università una grande assemblea sul Vietnam. Non avevo partecipato all’assemblea, ma tenevo un picco lo seminario con un gruppo di studenti lavoratori. Allora si insegnava anche fino a tardi. Verso le otto di sera uscii con gli studenti, era venuta a prendermi mia moglie perché dove vamo uscire insieme, e fummo aggrediti da una squadraccia di destra. Venni colpito più volte, fortunatamente non con conseguenze gravi, ma questo dimostra quello che allora si viveva. Non credo di aver avuto particolari meriti, e non me ne vantai, penso di essere stato democratico come tanti citta dini. Norberto Bobbio mi disse: ‘Hai avuto l’onore di essere aggredito’, ma io sinceramente me lo sarei volentieri rispar miato. Questi episodi davano luogo a continue ritorsioni e l’atmosfera si faceva ogni giorno più pesante». È in questo clima che, nel pomeriggio di sabato 27 gen naio 1973, il giorno degli storici accordi di pace a Parigi che sanciscono la fine della guerra del Vietnam, 8.000 studenti attraversano in corteo le strade del centro di Torino. A Milano lo studente Roberto Franceschi, 21 anni, è ancora in lotta tra la vita e la morte. Quattro giorni prima, il 23 gennaio, un pro iettile sparato ad altezza d’uomo dalle forze dell’ordine lo ha colpito in piena schiena in via Sarfatti, davanti all’Università Bocconi che lui frequentava. Morirà il 30 gennaio. I motivi per essere tesi, insomma, non mancano. Il corteo che sfila in ranghi composti cela in alcuni la voglia di rivalsa. Dalle parti di piazza della Repubblica, poi, un gruppo di giovani missini tenta di disturbare la manifestazione. Ne nasce una rissa, nella quale ha la peggio un operaio che rimedia una bastonata in te sta. Sembra tutto finito quando, intorno alle 18.30, termina il comizio che chiude la manifestazione. E invece non è così. Al le 19.55, un gruppo di militanti della sinistra extraparlamenta re raggiunge la sede del Msi di corso Francia 19. Dalle giacche 55
spuntano fionde, bulloni e molotov, con le quali si consuma l’assalto al «covo fascista» e alle due volanti di polizia che sta zionano a protezione dell’edificio. Gli agenti, usciti giusto in tempo dalle auto in fiamme, non esitano a sparare contro gli assalitori che, a quel punto, si danno alla fuga. Luigi Manconi, giornalista di 25 anni (futuro senatore) e Eleonora Aromando, studentessa diciottenne, vengono raggiunti da un proiettile al le natiche mentre tentano di allontanarsi. Insieme a loro la po lizia arresta immediatamente Carlo Costanzio e Andrea Go betti, nipote di Piero. I quattro fermati appartengono a Lotta continua, così come i venticinque arrestati nei giorni seguenti: Tonino Micciché, che non ha ancora compiuto 23 anni, viene bloccato lunedì 29 gennaio mentre sta per entrare in fabbrica. Per gli inquirenti, il giovane operaio siciliano è il basista di una sorta di divisione interna a Lotta continua, messa in piedi da Guido Viale – già leader torinese del ’68, anch’egli fermato per i fatti del 27 gennaio – per alzare il livello dello scontro. Il 9 maggio, Tonino viene scarcerato per «mancanza di indizi», ma intanto, dopo i tre mesi trascorsi nella prigione di Pescara, la Fiat lo ha licenziato e a Torino il licenziamento è un marchio che si sconta non trovando un lavoro neanche nell’indotto industriale. Per qualche tempo si arrangia nei cantieri edili, refugium per i ripudiati dalla Fiat: il «racket delle braccia» dei muratori abusivi produce in quegli anni la media di un morto ogni venti giorni nella sola Torino. Sono quelli i mesi in cui Tonino Micciché intensifica la sua attività politica, e riesce in breve tempo a imporsi come uno dei lea der cittadini di Lotta continua. Nel 1974 è il responsabile del «settore casa» e guida le occupazioni nel quartiere al quale accosterà indissolubilmente il suo nome: la Falchera. Gli immigrati che arrivano a Torino vorranno pure stare vicino al benessere, ma non è detto che la cosa sia reciproca. È per questo – e per risolvere urgenti problemi pratici – che all’inizio degli anni Cinquanta, ben oltre le estremità del cen tro abitato, prendono forma i rioni operai Mirafiori, Vallette e Falchera. Quest’ultima ancora oggi è una specie di appendi 56
ce mai assorbita dalla città, stretta tra il primo tratto dell’au tostrada Torino-Milano e l’ultimo della Tangenziale Nord. L’architetto Giovanni Astengo l’ha pensata così nel dicembre 1950, ispirandosi ai modelli urbanistici dei villaggi industriali britannici: un quartiere che, in quanto isolato, deve essere au tonomo in fatto di servizi e attrezzature necessarie agli abitan ti. Scrivono i giornali dell’epoca: «Dopo Mirafiori è la volta della Falchera. Poi toccherà a Lucento. Nuove zone residen ziali, verdi, ridenti, spaziate». Al primo insediamento degli anni Cinquanta, detto senza troppa fantasia «Falchera vec chia», se ne aggiunge uno nuovo all’inizio degli anni Settanta. Lungo via degli Ulivi – qui la toponomastica accetta soltanto i nomi d’albero – il complesso d’edifici più stupefacente: una sequenza, maestosa a suo modo, di sedici torri squadrate e identiche, descrive il degrado che a volte l’architettura impo ne alle abitazioni. Il centro è distante 10 chilometri e i ragazzi che decidono di andarci dicono «andiamo a Torino», come se abitassero in un’altra città. Quando nel 1974 Tonino Micciché arriva alla Falchera, l’e mergenza casa a Torino è ai massimi storici. Sui giornali, quasi ogni giorno, si legge di occupazioni abusive e sfratti, intervalla ti da piani di edilizia popolare in perenne, affannato ritardo. Il 6 settembre si sorteggiano i beneficiari di 2.240 appartamenti, le domande presentate sono più di 20.000 e tra gli esclusi, due giorni più tardi, non saranno certo in molti, davanti al rischio concreto di passare un altro inverno stipati in una soffitta, a notare la notizia dell’arresto di Curcio e Franceschini a Pine rolo. Spesso nei nuovi quartieri mancano servizi, luce, gas e riscaldamento: dicembre si porta via il piccolo Salvatore Pic cione, 4 mesi, morto di freddo in una delle case occupate in strada delle Cacce, a Mirafiori. Ma l’occupazione più massiccia è quella della Falchera dove, nel settembre 1974, lo Iacp (Isti tuto autonomo case popolari) non ha ancora assegnato 1.320 alloggi in grado di ospitare circa 6.000 persone. I primi abusivi arrivano a poco a poco dalle case cadenti del centro storico o dalle cascine di strada Cuorgnè, ma ben presto la notizia delle 57
occupazioni si diffonde e la gente arriva da tutta la città. Lo Iacp, a quel punto, tenta di correre ai ripari occupando a sua volta un appartamento e iniziando la distribuzione delle chiavi ai legittimi assegnatari, forse con l’intento di spingerli contro gli abusivi. È in questo contesto che, senza cariche ufficiali, Tonino Micciché si distingue come leader del comitato di lotta della Falchera. Si batte per la linea unitaria tra occupanti e assegnatari legittimi e organizza un censimento delle famiglie del quartiere. Lo chiamano un po’ scherzosamente «il sindaco della Falchera», perché riesce a mettere in piedi una rete di servizi autogestiti, da lui stesso raccontata in un’intervista a Lotta Continua il 15 novembre 1974: «È importante che questa lotta non si fermi. Questa forma di organizzazione che abbia mo creato deve estendersi. Se andiamo a guardare bene, non è un’organizzazione nuova, è un’organizzazione sperimentata già nelle fabbriche, anche perché i compagni che occupano so no i compagni di fabbrica. Ci riallacciamo direttamente all’or ganizzazione dei delegati di squadra. Il delegato di fabbrica rappresenta gli interessi della squadra, il delegato di scala è l’espressione dei suoi compagni di scala. Qui mancava il gas, l’acqua, la luce, i compagni hanno risposto facendo tutto: ab biamo elettricisti, idraulici, il comitato di lotta li ha organizzati. Abbiamo messo in piedi anche un asilo». Un’immagine dei primi mesi del 1975 ritrae Tonino Micci ché circondato di persone infreddolite che lo ascoltano. I tetti del quartiere sono coperti da un rigido strato di neve mentre lui, baffi sottili e microfono in mano, parla da una specie di palco improvvisato di fronte alle case occupate. Ha 25 anni il sindaco della Falchera. Il 9 aprile guida i suoi fin dentro Palazzo Civico, perché il prossimo sindaco – è in corso la campagna elettorale – accetti finalmente le loro richieste. Poi arriva la sera del 17 aprile e Tonino Micciché muore, sulla strada, all’altezza del numero 20 di via degli Ulivi. «Non ci vedo più», pare siano state le ultime parole. Inutile oggi an dare a interrogare quell’asfalto, impossibile cercare i segni: la pallottola che uccide Tonino è una sola, sparata da pochi cen 58
timetri. «Venni chiamato poco dopo le 22 – racconta Livio Pepino, pubblico ministero di turno quella notte – al com missariato di Madonna di Campagna. L’omicida era andato a costituirsi e l’interrogatorio con lui andò avanti fino alle 2.30 di notte: si chiamava Paolo Fiocco ed era una guardia giurata. Certo, quelli erano tempi di grandissima tensione politica e per molti della sinistra, non soltanto extraparlamentare, an che quell’omicidio non faceva eccezione. Ma non emersero mai delle prove in tale direzione; la motivazione dell’assassi no era stata, in un certo senso, molto più banale». La politica è un manto spesso e visibile che in quei giorni avvolge ogni cosa, che coinvolge ogni gesto e ogni rapporto. A volte diventa un lenzuolo a cui si chiede di coprire i corpi di ragazzi uccisi a vent’anni. Quello del 1975 è un aprile partico larmente crudele, soprattutto a Milano. Il diciottenne Sergio Ramelli, militante missino del Fronte della gioventù, viene ag gredito a colpi di chiave inglese da un gruppo di Avanguardia operaia e consuma la sua lenta agonia in un letto dell’Ospedale Maggiore. Mercoledì 16 aprile, in piazza Cavour, il giovane neo‑ fascista Antonio Braggion, iscritto ad Avanguardia nazionale, spara e uccide Claudio Varalli, diciassettenne del Movimento studentesco, al termine di una manifestazione per il diritto alla casa. Passano solo ventiquattr’ore e giovedì 17, il giorno della morte di Tonino Micciché, centinaia di giovani del Movimen to, nel nome di Varalli, assaltano la sede del Msi di via Mancini. Un «gippone» delle forze dell’ordine, lanciato a forte velocità contro i manifestanti radunati lungo viale XXII marzo, lascia a terra il corpo senza vita di Giannino Zibecchi, 28 anni. È quindi per dare spazio a quel brutale alternarsi di san gue a Milano che Stampa Sera, il 18 aprile, relega la cronaca dell’omicidio della Falchera in quinta pagina3: «Il magistrato dott. Pepino ha arrestato per omicidio volontario aggravato 3 «Gli è andato vicino senza dire una parola, ha preso la pistola e gli ha sparato in viso», di Emio Dosaggio e Alessandro Rigaldo (Stampa Sera, 18 aprile 1975).
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Paolo Fiocco, 41 anni, guardia dei ‘Cittadini dell’Ordine’, che ieri sera alla Falchera ha freddato con un colpo di pistola a bruciapelo Antonio Micciché, 25 anni, militante di Lotta continua, dirigente del comitato unitario di lotta per la casa. [...] Lo sparatore non era un abusivo. Paolo Fiocco ha con la moglie Antonia Guidobaldo, 33 anni, un alloggio regolare e un box per l’auto che però si trova in un’altra casa, abbastan za lontana dalla sua. Possiede inoltre due auto, così decide di occupare abusivamente un altro box più vicino, in via degli Ulivi A/12. Gli cambia anche la sigla, non ascolta ragioni. Dice Grazia Principe, 42 anni, abitante sopra il box occupa to: ‘Il garage era della portineria, glielo dissi tante volte e lui rispondeva di non scocciarlo’. Tonino andò a parlargli: ‘Ci serve per una sede del comitato di lotta, oppure per qualcu no che non ne abbia’. Ma Fiocco gli rispondeva sempre: ‘Gli abusivi siete voi e usate la violenza per fare politica’ e non cambiò mai atteggiamento». Il delitto nasce da questa dispu ta. Il comitato di lotta della Falchera, poco dopo le 20 del 17 aprile, sgombera il box di cui Paolo Fiocco ha cambiato anche la sigla. C’è Tonino Micciché con alcuni giovani e un gruppo di donne. Tirano fuori la 125 di Fiocco e cambia no la serratura del garage. Scende subito in strada Antonia Guidobaldo Fiocco. È furibonda. Dice Caterina Grande, 38 anni: «Abbiamo cambiato la serratura e tirato fuori l’auto. Quella donna è arrivata dicendo: ‘Chi è quel cornuto che ha toccato l’auto di mio marito?’ e quando Carmela Selvaggio si è fatta avanti, l’ha aggredita. Io l’ho presa per un braccio e l’ho scostata di qualche metro: ‘Non faccia succedere grane – le ho detto – non vogliamo provocazioni’». A questo punto, il delitto. Continua Caterina Grande: «L’avevo già calmata, quando si è fatto avanti un signore distinto, con un cappotto grigio. Tonino Micciché l’ha visto ed è andato verso di lui. L’altro ha sbottonato il cappotto, la giacca, ha preso la pistola che aveva infilata nella cintura, l’ha sollevata e gli ha sparato in faccia da una decina di centimetri». I primi a giungere sul posto, sono gli uomini della Mobile, al comando del dott. 60
Fersini insieme al dott. Vinci. C’era una grande folla, molta eccitazione e non si riusciva a stabilire che cosa era accaduto. Molti si opponevano alla rimozione del cadavere che era stato avvolto in una bandiera rossa». A Pietraperzia il corpo di Tonino Micciché ritorna un matti no di pioggia violenta. La sua vita si dispiega tra due viaggi at traverso l’Italia lontani nove anni, distanti quanto lo sono attesa e dolore. Piazza Vittorio Emanuele, centro del paesino, ospita un funerale che Giuseppe Micciché, otto anni più giovane del fratello, conserva ancora negli occhi: «Migliaia e migliaia di compagni nel paese. Ricordo Pietraperzia letteralmente invasa di persone da tutta la Sicilia, da tutta l’Italia. Da Torino c’erano le famiglie della Falchera e moltissimi compagni tra i quali En zo Di Calogero, che disse l’orazione funebre. Lo avevamo visto partire solo qualche anno prima con la speranza di un lavoro e se ne tornava scortato da migliaia di persone, come una spe cie di eroe. Tutti quegli striscioni rossi, quelle bandiere e quei foulard sventolati. Fu davvero impressionante: un corteo con i canti, le grida, i cori e tutte quelle persone, nel paese nessuno l’aveva mai visto né immaginato. Fu una specie di sorpresa, anche perché lui non ci parlava mai di politica. Sapeva che i miei genitori non erano d’accordo ed evitava l’argomento. La morte di Tonino ha del tutto sconvolto la mia vita: avevo 17 anni e stavo per raggiungerlo a Torino. Si può dire che avessi già le valigie pronte. Dopo l’omicidio, invece, i miei genitori mi obbligarono ad andarmene, a lasciare l’Italia. Mi mandarono in Inghilterra dove avevamo dei parenti emigrati, e per anni non seppi più nulla. Oggi vorrei davvero che a Pietraperzia si facesse qualcosa per ricordarlo, ma dopo tutto questo tempo so che è pressoché impossibile». La Falchera – labirintica e separata da tutto, come sem pre – non racconta più nulla di Tonino Micciché. Non dice ad esempio che Paolo Fiocco, condannato a diciannove anni in primo grado, ridotti a tredici in appello, è stato definitiva mente scarcerato nel 1982. Non dice che nei giorni successivi all’omicidio di Tonino, gli abitanti del quartiere gli dedicano 61
un piccolo monumento in una piazza cui danno il suo nome. Pochi anni dopo, un gruppo di incaricati del Comune ha ri mosso il monumento, la lapide e la targa che gli intitolava la piazza. Eppure, il corteo rabbioso e ordinato che martedì 21 apri le 1975 attraversa le strade di Torino, se lo ricordano in tanti. Prima della partenza per Pietraperzia, quasi 10.000 persone accompagnano la bara di Tonino Micciché, sfilando lungo il quartiere Aurora verso il centro, da piazza Crispi fino al Duomo in piazza San Giovanni. Quella manifestazione è la traduzione fisica di che cosa sia la sinistra a Torino in quel momento: ci sono le famiglie della Falchera che gridano la lo ro rabbia contro il sindaco Picco non appena il corteo scorre di fronte a Palazzo Civico, lungo via Milano. Ci sono i compa gni di Lotta continua, gli operai di Mirafiori, e tutti i consigli di fabbrica. Ci sono il Pci, il Psi e molti cittadini commossi. «C’era molta tensione a quel funerale – ricorda Giovanni De Luna4 –. La sete di vendetta si era placata il giorno prima con l’assalto alla sede del Msi, in corso Francia. Ora si respi rava una rabbia trattenuta, consapevole. Al dolore cocente per la morte di un compagno si accompagnava una grande sensazione di forza, come se quel corteo fosse un punto di non ritorno; quell’unità, quella compattezza, sembrava do vesse inevitabilmente avere uno sbocco politico vincente. Pochi mesi dopo, alle elezioni amministrative del 15 giugno 1975, il successo dei partiti di sinistra e il varo della ‘giunta rossa’ a Torino sembrarono confermare quella sensazione an che sul piano elettorale. Militanti ed elettori della vecchia e nuova sinistra si ritrovarono a festeggiare insieme la vittoria in piazza San Carlo». Alle amministrative il Partito comunista ottiene quasi il 38% delle preferenze, la Democrazia cristiana si ferma al 24. I circa 40.000 voti portati al Pci da Lotta continua e l’appog Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio, Milano 2009, p. 18.
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gio del Psi (al 12%) sono determinanti per la formazione del la nuova maggioranza in Consiglio comunale. Diego Novelli, il giornalista dell’Unità che due anni prima aveva firmato la sceneggiatura di Trevico-Torino, è il nuovo sindaco. Presto di venterà il volto di una città alla prova con i suoi anni più duri. A Torino, infatti, la notizia del primo ferimento a opera delle Brigate rosse arriva nemmeno quarantott’ore dopo la chiusu ra delle urne. Intanto la sera della proclamazione, mentre il nuovo sindaco a cena festeggia con Gian Carlo Pajetta e altri amici, una volante della polizia passa a cercarlo. In comune c’è già una delegazione di sfrattati che vuole incontrarlo.
L’ultimo degli scudetti
«Cit Turin», ossia «piccola Torino». È il quartiere più picco lo della città e forse a questo deve il suo nome. Ma per altri quel «cit» sta a indicare quel piccolo borgo che i viaggiatori provenienti dalla Francia attraversavano prima di entrare a Torino alla fine del XVIII secolo. Quale che sia l’etimologia, il quadrilatero tra corso Inghilterra, corso Francia, corso Vit torio Emanuele II e corso Ferrucci è una zona residenziale di pregio, con molti palazzi liberty fortunatamente risparmiati dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Uno di questi è il numero 19 di corso Francia, quasi in piazza Statu to. Oggi è un immobile signorile, dalla facciata pulita color pastello. Fino ai primi anni Novanta era un grigio monolite con bandiere annerite alle finestre e celtiche dipinte sui muri: la sede torinese del Movimento sociale italiano, meta pre ferita dei cortei del sabato della sinistra extraparlamentare. Negli anni Settanta il 19 di corso Francia – e i vicini Giardini Martini, che a Torino tutti chiamano piazza Benefica per via dell’istituto di carità per gli orfani attivo fino all’immediato dopoguerra – è uno dei pochi avamposti neri della città. Ma anche a «Cit Turin», come in tutti gli altri quartieri, il rosso è il colore prevalente. Una delle tre squadre di calcio del borgo (da tempo unite sotto un unico stemma) è intitolata a Dome nico Luciano, partigiano bambino di appena 11 anni, falciato dal piombo nazifascista il 23 maggio 1945 a Givoletto, nelle Valli di Lanzo. L’antifascismo torinese è vivo e organizzato: dall’ottobre 1972 esiste un attivissimo Comitato unitario antifascista di 64
cui fanno parte, oltre a Pci, Psi, Psiup, Anpi, Acli, Cgil, Cisl e Uil, tutte le organizzazioni extraparlamentari di sinistra. Il Comitato, una realtà che non ha eguali in nessun’altra città italiana1, organizza e gestisce tutte le manifestazioni di piaz za, almeno fino a quando, nel 1976, le relazioni tra partiti e Movimento si deteriorano definitivamente. Torino è talmente rossa che lo sono perfino le curve dello stadio comunale, perfino quella della Juventus (la stessa che il 25 aprile 2009 ha esposto lo striscione: «25 aprile festa degli infami»). Lo si vede bene nel prezioso documentario di Danie le Segre Ragazzi di stadio del 1979: chiavi inglesi di polistiro lo, simbolo dei vecchi Fighters, e uno striscione, «Autonomia bianconera», con i tifosi che con una mano lo sorreggono e con l’altra fanno il gesto della P38. La curva del Toro non è da meno: «Una volta – ricorda Steve Della Casa – portammo allo stadio uno striscione con scritto ‘Tupamaros Granata’. Poi avevamo adattato l’inno di Lotta continua di Pino Masi che era diventato così: ‘Lotta / lotta di lunga durata / lotta degli Ultras granata / uniti sì / ma contro Tbc’. ‘Tbc’ era il perfido soprannome di Roberto Bettega, colpito qualche anno prima da un’infezione di tubercolosi». Per il calcio torinese gli anni Settanta sono il decennio d’oro. Non ci sono solo i bianco neri di Agnelli (che vincono 5 scudetti), ma anche il Toro del commendator Pianelli, che di scudetti ne vince uno solo, ma si piazza sempre tra i primi. È stagione di derby epici, spesso (10 vittorie, 8 pareggi e 6 sconfitte) granata. Stracittadine che si tingono di retorica, perché tutto è politica: i padroni (la Juve) contro la classe operaia (il Toro), parallelo autentico sul campo, meno sugli spalti: «Sono venuto a Torino – racconta Giovanni De Luna – per fare il Politecnico perché mio padre voleva facessi l’ingegnere. Ma io ho rotto con la famiglia e quando ho deciso di fare un altro percorso universitario mi so no fidanzato con Marina Levi figlia del professor Franco Levi Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio, Milano 2009, p. 88.
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che insegnava scienza delle costruzioni al Politecnico. Marina era amica di Luigi Bobbio, figlio di Norberto, e quindi sono entrato in questo giro del Liceo D’Azeglio. Erano tutti tifosi del Toro e lo rivendicavano come un’appartenenza di sinistra. Io, invece, ero tifoso della Juve e mi sentivo imbarazzatissimo, un traditore, ma da bambino avevo sempre fatto il tifo per la Juventus che al di fuori di Torino era il tifo antagonista al potere per eccellenza. Tifavo per la Juve contro il Napoli, che era la squadra di mio padre, dei miei zii e dei miei compagni di scuola; tifavi per la Juve in Brianza per essere contro Mila no, in Romagna contro il Bologna, in Garfagnana e Lucche sia contro Firenze. Era il tifo delle minoranze attive contro la maggioranza. Quando sono arrivato a Torino, invece, ho scoperto che la Juventus era la squadra del potere, la squadra degli Agnelli, ma io ormai ero juventino. Poi sono arrivati gli operai massa dal Sud e per me è stata una liberazione, perché erano tutti juventini. In quel momento è intervenuto un cam biamento radicale della geografia del tifo cittadino, per cui i tifosi del Toro sono rimasti questa piccola e media borghesia torinese che parla dialetto torinese, e la Juve è diventata la squadra del proletariato». Calcio e politica intrecciano i loro riti e le loro date. Il pro cesso per banda armata a carico dei capi delle Brigate rosse si apre il 17 maggio 1976 tra le austere mura del vecchio Tri bunale di via Corte d’Appello. Le gabbie per gli imputati non esistono ancora; entreranno nell’arredo dei palazzi di giustizia italiani proprio dopo quelle prime udienze. Alla sbarra c’è una piccola folla tumultuosa che inveisce contro tutto e tutti e intona cori a pugno chiuso. A un certo punto – la prontezza di un fotografo riesce a immortalare l’attimo – uno degli im putati lancia addirittura una scarpa all’indirizzo della Corte d’Assise. Fuori, una folla nemmeno troppo esigua solidarizza con gli imputati. Tra le pieghe delle foto di quel 17 maggio si possono scorgere sia un poliziotto di guardia che legge un giornale, sia la mazzetta di quotidiani di un avvocato in aula. Il titolo è lo stesso: «Campioni». Già, perché quel giorno viene 66
dopo un’insolita nottata di festa; una festa rara. Il 16 maggio 1976 è domenica; poco dopo mezzogiorno il vecchio stadio comunale è già straripante di pubblico, quasi 70.000 persone e chissà quante bandiere, tutte di un solo colore, granata (una celebre istantanea di quel pomeriggio alla curva Maratona, cuore del tifo, è ancora oggi un’icona per ogni tifoso del To ro). Ventisette anni dopo lo schianto di Superga, che inghiottì per sempre il Grande Torino dei cinque scudetti consecutivi, il tricolore può tornare su quelle stesse maglie. I settantamila attendono ore e ore prima dell’inizio di Torino-Cesena, tren tesima e ultima giornata del campionato 1975-76. Al 27’ del secondo tempo Francesco «Ciccio» Graziani raccoglie un lancio di Renato Zaccarelli e butta la palla in mezzo: è un cross quasi rasoterra, ma a pelo d’erba – come solo lui sa fare – Paolino Pulici colpisce di testa e segna. Il comunale esplo de, «puliciclone» serra i pugni sotto la Maratona, qualcuno piange di gioia. Se si vince (la Juventus è seconda a un solo punto) lo scudetto è sicuro. In fondo i ragazzi di Radice hanno vinto tutte e 14 le partite giocate di fronte al loro pubblico, 15 sarebbe addirittura un record. Ma un comico autogol di Roberto Mozzini (colpo di testa da fuori area) tiene i 70.000 con il fiato sospeso fino alla fine. Poi la radio comunica che a Perugia la Juve ha addirittura perso. E allora piangono quasi tutti. Il popolo granata festeggia tutta la notte e quella suc cessiva in migliaia saliranno con le fiaccole fino a Superga. Qualcuno – esagerando ma nemmeno troppo – scriverà che lo scudetto del Torino è stata la più grande festa popolare mai vista in città dai tempi della Liberazione: «Splendido, splen dido Toro» titola a tutta pagina Stampa Sera del 17 maggio; pochi noteranno un colonnino in basso a destra: «Rinviato il processo alle Brigate rosse». È il primo di tanti. L’accusa più grave a carico degli imputati è il sequestro del pubblico ministero Mario Sossi, tenuto prigioniero dal 18 aprile al 23 maggio 1974. I sequestratori, in cambio della liberazione del magistrato, chiedono la liberazione di alcuni «prigionieri», tra cui Mario Rossi e quelli della «XXII ottobre» (i «tupamaros 67
della Val Bisagno»). La Corte d’Appello di Genova dispone la liberazione dei detenuti, ma il provvedimento viene impugnato e bloccato dal procuratore generale Francesco Coco. Pagherà con la vita, due anni più tardi, ventuno giorni dopo l’apertura del processo ai sequestratori di Sossi. Genova, martedì 8 giugno 1976. La Fiat 132 su cui viaggia Francesco Coco, come ogni giorno, si ferma all’angolo di via Balbi e salita Santa Brigida, una delle tante vie che nei secoli la Superba ha strappato alla terra di fronte al mare: stretta, protettiva, bellissima. Sono da poco passate le 13, tra la vita e la morte non ci sono che sedici scalini; appena superato l’arco in pietra, pochi metri prima del portone di casa, Co co e l’agente Giovanni Saponara cadono a terra crivellati di colpi. L’autista della vettura di scorta Antioco Deiana (in ser vizio per sostituire un collega) viene attaccato da un secondo gruppo armato poco distante da salita Santa Brigida. Muore reclinando il capo, seduto al posto di guida. Il pomeriggio seguente, nell’aula della Corte d’Assise di Torino, Prospero Gallinari chiede di leggere un comunicato e con voce stento rea attacca: «Ieri, 8 giugno 1976, nuclei armati delle Brigate rosse hanno giustiziato il boia di Stato Francesco Coco...». Si scatena l’ennesimo parapiglia. Un carabiniere strappa dalle mani il comunicato, che così continua: «e i due mercenari che dovevano proteggerlo. Giustiziarli è stato assolutamente giusto: non erano due figli del popolo ma sgherri al servizio della controrivoluzione». La strage di Genova colpisce come un ciclone anche Torino: «La Corte di Cassazione – ricorda Gian Carlo Caselli – assegna a Torino l’inchiesta per l’omici dio Coco, Saponara e Deiana, che approda all’Ufficio istru zione del Tribunale di cui facevo parte. Fino a quel momento ero stato io, come giudice istruttore monocratico, ad essermi occupato delle Brigate rosse, insieme al pubblico ministe ro Bruno Caccia. Questa volta però Mario Carassi, il capo dell’Ufficio istruzione, mi convoca nel suo ufficio e mi dice: ‘Caselli, la Cassazione ci ha assegnato quest’inchiesta, ma non sarai più da solo’. Chiedo il perché e lui risponde: ‘Primo 68
perché il nostro mestiere è fare i processi, quindi abbiamo un obiettivo che la nostra professionalità ci impone, concludere il processo. E poi perché le Br adesso uccidono, colpiscono i magistrati e se invece di uno soltanto ce ne sono tre, allora uccidendone uno, gli altri due possono andare avanti’. È così che nasce il pool antiterrorismo di Torino. All’inizio siamo io, Mario Griffey, Marcello Maddalena, Franco Griffey e Franco Giordana». L’istruttoria per l’omicidio di Coco, Saponara e Deiana entrerà in un altro processo, ora Torino deve pensare all’«ap partenenza a banda armata» per cui sono alla sbarra i 23 che in Corte d’Assise lanciano scarpe e cantano l’Internazionale. Da subito gli imputati rifiutano di essere difesi. Il concetto è semplice, accettare la difesa significa legittimare lo Stato che ti processa, ma le Brigate rosse non riconoscono lo Stato. La rivoluzione – dicono – non si processa: «Consideriamo gli av vocati che accetteranno il mandato d’ufficio collaborazionisti e complici del Tribunale di regime. Essi si assumeranno tutte le responsabilità che ciò comporta di fronte al movimento rivoluzionario». È il testo del proclama che Paolo Maurizio Ferrari legge di fronte alla Corte d’Assise presieduta da Gui do Barbaro il 17 maggio. Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino è un an ziano signore con i baffi quasi a manubrio. Si chiama Fulvio Croce e ha 75 anni; sa che un processo senza difesa è una farsa. Croce in un primo momento incarica dieci avvocati di assumere la difesa dei brigatisti, scegliendoli tra un gruppo di legali dalle idee «il meno lontano possibile da quelle degli imputati». Una decisione controversa, che scatena la prevedi bile irritazione dei prescelti. Allora Croce decide di nominare difensori d’ufficio se stesso e gli altri membri del consiglio dell’Ordine (tra cui spiccano i nomi di Bianca Guidetti Serra e Franzo Grande Stevens). Il processo può continuare, ma tra il 17 maggio e il 9 giugno si celebrano soltanto nove udienze. Ufficialmente il dibattimento viene rinviato due volte, l’ul tima proprio il 9 giugno, all’indomani dell’assassinio Coco: 69
«La motivazione ufficiale – ricorda Gian Carlo Caselli – è la riunione dei fascicoli con quelli dei colleghi di Milano che avevano indagato sulle prime azioni delle Brigate rosse, per cui gli imputati passano da 26 a 53. La motivazione vera, però, è che con l’omicidio di Coco, Saponara e Deiana, le Br per la prima volta uccidono deliberatamente2. Il processo, dunque, si blocca, esattamente come volevano loro». Il 20 giugno 1976 l’Italia vota. Il tanto temuto sorpasso dei comunisti è scongiurato, ma il partito guidato da Enrico Ber linguer conquista il 34,4% dei voti (40% a Torino), il 4% in meno della Democrazia cristiana (38,7%, 29% a Torino). Un record. A sinistra del Pci si presenta per la prima volta Demo crazia proletaria, la voce del Movimento e di Lotta continua in primis. Adriano Sofri, leader di Lc, pochi giorni prima del voto prevedeva milioni di consensi. Ma saranno poco più di 500.000, un misero 1,52% (15.000 voti e 1,92% a Torino).
2 In precedenza, il 17 giugno 1974, le Brigate rosse avevano ucciso Giu seppe Mazzola (60 anni) e Graziano Giralucci (29 anni), durante l’assalto alla sede del Msi di via Zabarella a Padova.
Nella primavera del 1977
Michelina Carbonato ha 61 anni. Sono passati trentaquattro anni dal giorno che non potrà mai dimenticare; Michelina ha voluto conservare gelosamente il cognome dell’uomo che ave va sposato pochi anni prima, Giuseppe, il padre di sua figlia. Vive ancora a poche centinaia di metri da quelle due stanze al quarto piano di via Gorizia 70, in piena Santa Rita, dove abi tava nel 1977. Non è centro, non è più periferia. Santa Rita, la «reginetta di Torino», è storia recente. Sarà perché il quartie re ha inglobato lo stadio comunale, che nell’immaginario dei torinesi non potrà mai essere «Olimpico», ma soltanto quel vecchio catino di cemento e calcestruzzo dove ogni domenica degli anni Settanta potevi vedere Pulici e Graziani, Bettega e Anastasi, Ferrini e Claudio Sala, Furino e Causio; sarà per quegli slogan sbiaditi che fino a qualche anno fa si leggevano ancora su un muro al fondo di via Barletta, oppure perché in corso Orbassano, vicino al parco Rignon, c’era il circolo Cangaceiros, punto di ritrovo per molti ventenni dell’epoca. Non sai perché, ma a Santa Rita, a volte, gli anni Settanta ti sembra di respirarli. E forse non è un caso che la maggior parte dei suoi 60.000 abitanti sia nata tra il 1971 e il 1980. Un pezzo di quel decennio è inchiodato al muro di via Gorizia 67, di fronte al quarto piano del civico 70 dove Michelina abi tava; una lapide in marmo, ingrigita dal tempo, molto simile a quella che Torino ha riservato ai «Martiri dell’eterna libertà», dedicata a Giuseppe Ciotta. È il 1977, anche a Torino. Il ’68 sembra preistoria. Nelle scuole, nelle università, nelle strade si fa strada una nuova ge 71
nerazione irrequieta, che non ha conosciuto il boom economi co ed è cresciuta tra crisi e austerity. Il ’77 svolta nel punto in cui l’ebbrezza della partecipazione precede il disincanto del riflusso. Un curva pericolosa, a gomito, che colpisce Torino e la segna nel profondo. Palazzo Nuovo è la sede delle facoltà uma nistiche, costruito alla fine degli anni Sessanta proprio sotto la Mole Antonelliana. Non c’è nulla, nessun restyling che possa donare a questo brutto edificio un aspetto rilassante. E infatti, nonostante la zona pedonale cresciuta attorno e i murales che ornano le agghiaccianti pareti laterali di alluminio grigio, Pa lazzo Nuovo appare immobile nel tempo. La scalinata d’acces so in particolare, e quel cancello metallico a scorrimento dove – a ogni occupazione – è facile mettere i lucchetti, oggi come allora. Il ’77 italiano incomincia a Roma, il 2 febbraio, giorno della cacciata di Luciano Lama, segretario della Cgil, dall’Uni versità La Sapienza. Torino risponde un mese dopo, il 3 marzo, sulle scalinate di Palazzo Nuovo occupato. E come a Roma, anche a Torino lo scontro è tutto interno alla sinistra: per ore, a colpi di pietre e molotov, si affrontano i giovani della Fgci e i ragazzi della sinistra extraparlamentare. Tra gli uomini del Pci che cercano di entrare all’università «per isolare i violenti» ci sono nomi che la città – e l’Italia – impareranno a conoscere: il giovane consigliere comunale Piero Fassino, l’assessore pro vinciale Giorgio Ardito e un corpulento funzionario di nome Giuliano Ferrara, che riesce a oltrepassare i cancelli. Lì incon tra Stefano (Steve) Della Casa, ventiquattrenne leader di Lotta continua: «La tensione era alta – ricorda Steve – al mattino c’era stata una manifestazione con lancio di uova contro la sede della Fgci in via Po e il Pci, nel pomeriggio, aveva spedito tutto il suo servizio d’ordine a Palazzo Nuovo. Io alla manifestazione non c’ero, perché quel giorno dovevo dare il mio ultimo esame. Arrivato a Palazzo Nuovo, subito mi si fa incontro Giuliano Ferrara: ‘Tu sai dove sono i violenti’, mi dice. Cominciamo a litigare, perché anche loro sono armati di bastoni. Quindi ri corro al vecchio trucco dell’oratorio, nel senso che faccio finta di dargli ragione, mi volto da una parte e poi gli sferro un calcio 72
al basso ventre. Ma non ottengo granché, perché allora Ferrara era già grassottello...». Gli scontri durano sei ore, dalle 17 fino alle 23. Inutili i ten tativi di mediazione del presidente della Regione Aldo Viglio ne e di Dino Sanlorenzo, presidente del Consiglio regionale. Pietre, molotov, chiavi inglesi, sbarre di ferro, calci e pugni. Alla fine i feriti sono decine, ma pochi si faranno curare negli ospedali. La polizia interviene e gli studenti di Palazzo Nuovo si spostano al vicino Istituto tecnico Avogadro di corso San Maurizio, proprio di fronte alla sede di Lotta continua. E an che qui interviene la polizia. A notte già alta, tra l’ululare delle sirene e il fumo acre dei lacrimogeni, dalle finestre dell’Avoga dro – riportano le cronache – si odono distintamente 4 colpi di pistola. «Violenza squadrista» titola La Stampa, accusando i giovani autonomi, ma Stampa Sera, il giorno prima, addossa la colpa dei disordini al servizio d’ordine del Pci. È questa la Torino dove vive e lavora Giuseppe Ciotta, 30 anni, poliziotto. È nato ad Ascoli Satriano, in provincia di Foggia, dove ha lasciato tutta la famiglia, e lavora a Torino dal 1972. Qui ha sposato Michelina, compaesana e amica fin dall’infanzia. Nel 1975, poi, è nata Nunzia. Giuseppe lavora all’Ufficio politico della Questura, diretto da Filippo Fiorel lo. Da qualche tempo è addetto alla sorveglianza esterna del Liceo Galileo Ferraris, dell’Istituto tecnico Sommelier e del Politecnico, racchiusi in pochi isolati tra corso Duca degli Abruzzi e corso Montevecchio, alla Crocetta. Gli studenti lo conoscono bene e con lui hanno un buon rapporto. Lo ricor da bene Silvio Viale, allora studente del «Galfer» e militante di Lotta continua: «Ciotta lo conoscevamo, era uno di quelli dell’Ufficio politico che frequentavano le scuole, con il buon senso tipico di chi interveniva con la giusta misura quando c’era una scazzottata o qualcosa del genere. Il suo era un lavo ro di prevenzione, perché il Movimento lo conosceva molto bene». Lavoro di prevenzione, scazzottate «o qualcosa del genere». Capita, in quegli anni. Il Galileo Ferraris è uno dei licei più politicizzati della città. In biblioteca lavora un ragaz 73
zo silenzioso, di qualche anno più anziano degli studenti, che piace molto alle fanciulle. Si chiama Marco Donat-Cattin e ha un padre importante, forse ingombrante. In quinta, invece, c’è un ragazzo che un padre vero non l’ha mai avuto ma anche lui piace molto alla ragazze. Si chiama Alberto Bonvicini, 18 anni appena e una storia già adulta alle spalle. Alberto Bon vicini è di Lotta continua, che al «Galfer» è la maggioranza e trova tra i banchi molti componenti del suo celebre servizio d’ordine. Tra questi c’è un brunetto irrequieto con gli occhia li che si chiama Roberto Sandalo. A quel tempo qualcuno già lo chiama «Roby il pazzo». Di sicuro lo saprà anche Giuseppe Ciotta; Roby, infatti, è una testa calda, tenerlo sott’occhio è il suo mestiere. Qualche volta Ciotta, a bordo della sua 500 rossa, accompagna perfino Sandalo a casa. Sabato 12 marzo del 1977 è una giornata grigia. Il cielo su Torino promette pioggia, la terra risponde con un brontolio di tuono. Non è un sabato qualunque, non è la solita manife stazione del sabato. Il giorno prima, a Bologna, è morto Fran cesco Lorusso, 26 anni, militante di Lotta continua, ucciso da un proiettile alla schiena sparato ad altezza uomo dalla polizia. In piazza ci saranno tutti, si teme che la guerriglia urbana di Bologna si scateni in tutta Italia. Ciotta, che conosce così be ne il Movimento, non può mancare. Ma quella mattina, alla manifestazione, Giuseppe non arriverà mai. Esce di casa alle 8 e attraversa via Gorizia per raggiungere la 500 rossa, parcheg giata dall’altra parte della strada. Michelina, come sempre, si affaccia alla finestra. Non fa in tempo a salutarlo che, da una 128 verde parcheggiata sotto casa, un uomo a volto scoperto si dirige verso la 500. È un attimo: l’uomo, Enrico Galmozzi, uno dei fondatori di Prima Linea a Torino, estrae una pistola, fran tuma il finestrino con il calcio dell’arma prima di esplodere tre colpi in rapida successione. Tutto sotto gli occhi di Michelina. Giuseppe ha un proiettile nel torace, non arriverà vivo alle Molinette. Tra i primi a giungere sul posto, come purtroppo spesso accadrà negli anni successivi, il sindaco Diego Novelli: «Nemmeno mezz’ora dopo ero lì sul posto. C’era ancora il 74
cadavere coperto, salii in casa della signora Ciotta, e ricordo la bambina, Nunzia, sul letto che piangeva». Giuseppe Ciotta è la prima vittima di un attentato in stile brigatista a Torino1. Sono vittime coloro che soccombono a una violenza, sono vit time coloro che assistono o che di quella violenza patiscono le conseguenze. La violenza cieca è un confronto impari, un gesto di sopraffazione estrema, che sgomenta. E lo sgomento non invecchia, come il dolore. Non è invecchiato Giuseppe, non è invecchiato il dolore di Michelina. Sono passati più di trent’anni, ma non le va di parlare di quel giorno lontano che non è mai finito. E che forse mai finirà. La notizia raggiunge il corteo: «Molti erano andati a Ro ma per la manifestazione nazionale – ricorda Silvio Viale – e ci trovammo in 3-4.000, per lo più giovanissimi di 14-15 anni. Non appena si diffonde la notizia dell’omicidio arriva il commissario a dirmi ‘Viale mi raccomando che oggi non controlliamo i nostri’... Gli rispondo di stare tranquillo, che ce ne saremmo andati in fretta, tempo di un breve comizio di fronte alla Prefettura in piazza Castello e via. Quel giorno ca pimmo di essere di fronte a uno spartiacque. Nessuno di noi condivise quell’omicidio, ma fu l’inizio di una drammatica di varicazione». Giuseppe Ciotta muore a caso. O meglio, viene scelto proprio perché conosciuto da qualcuno. Lo racconterà anni dopo il primo grande pentito di Prima Linea Roberto Sandalo, Roby il pazzo, che con Ciotta tornava addirittura a casa. E lo racconterà anche Marco Donat-Cattin, il bibliote cario del «Galfer», figlio del vicesegretario della Democrazia cristiana, che di Pl, a Torino, sarà il leader. Nel primo pomeriggio un uomo dallo spiccato accento piemontese telefona alla redazione torinese dell’Ansa per ri vendicare l’omicidio. Una conversazione surreale, agghiac ciante, disarmante. 1 La prima vittima del terrorismo in Piemonte è il vice questore France sco Cusano, ucciso a Biella in uno scontro a fuoco il 2 settembre 1976.
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– Sì? – Buongiorno. Senta, l’esecuzione del carabiniere di questa mattina è stata fatta dalle Brigate combattenti. – Sì... – La preghiamo di non fare confusione con Brigate rosse o analoghi... – Sì, ma non è un carabiniere... – Sì, quell’agente dell’Sds... – Non è dell’Sds, è semplicemente dell’Ufficio politico, non aveva compiti di servizio di sicurezza. – A noi risultava diversamente, comunque è sempre nemico della classe. Seguirà un comunicato, segni bene Brigate combattenti... – Brigate combattenti. – Buongiorno...
Il «comunicato», ritrovato poche ore dopo in un cestino di fronte ai padiglioni di Torino Esposizioni in corso Massi mo D’Azeglio, non è da meno: «Questa mattina il brigadiere delle squadre speciali dell’antiterrorismo Giuseppe Ciotta non è sceso in piazza a prestare come al solito la propria opera di killer di Stato. È stato fermato prima. Compagni, è in opera da parte dei corpi separati dello Stato, della polizia e di C.C., delle bande armate di Kossiga un vero e proprio progetto di annientamento delle avanguardie e degli strati di massa che si pongono in maniera militante e combattente contro la tregua e il governo dell’astensione. Se a Bologna hanno sparato i C.C., in piazza Indipendenza sono state le squadre speciali; l’elenco dei nostri morti si fa troppo lun go... è ora che i nemici comincino a pagare davvero. Com pagni, non è più tempo di azioni esemplari e di propaganda: la dichiarazione di guerra dello Stato va raccolta. Sul terreno della guerra di classe dispiegata si devono verificare oggi, su bito, le formazioni combattenti: chi sottrae a questa pratica la propria organizzazione non ha diritto di parola nell’area combattente... contro i C.C. di Dalla Chiesa, contro le bande armate di Kossiga. Organizzare e praticare la guerra di classe dispiegata». 76
Gli uomini delle Brigate rosse alla sbarra a Torino, e le nuove leve giunte a sostituirli, ora hanno dei concorrenti. Non militanti clandestini e militaristi, ma giovani, a volte gio vanissimi, spesso conosciuti nel Movimento, spregiudicati e ottusamente criminali. Nei loro covi conservano pochi libri, come il Grande Atlante delle armi leggere e Tecnologia delle armi da fuoco portatili, oltre naturalmente all’amatissimo Senza tregua di Giovanni Pesce, del quale cercano di scimmiotta re le gesta. «Brigate combattenti» è l’alba di Prima Linea: «È un mondo molto giovanile – racconta Ettore Boffano, che da cronista seguirà i processi all’inizio degli anni Ottanta – figlio dei gruppi extraparlamentari, in particolare di Lotta conti nua. Quando Lc si scioglie, e si scioglie anche il suo servizio d’ordine, una parte di quel servizio d’ordine approda lenta mente alla formazione di Prima Linea, attraverso le Ronde proletarie prima e un gruppo che non a caso si chiama ‘Senza tregua’ poi. Rispetto alle Brigate rosse c’è un salto genera zionale. Parliamo di giovani di 18, 20 anni che hanno milita to nella sinistra extraparlamentare e che hanno una cultura molto movimentista, non militarista: grande dibattito, grande discussione, ma anche rozzezze, semplificazioni. Le Br hanno una presunta grande elaborazione politico-culturale. In Pri ma Linea hanno voglia di fare la rivoluzione in maniera così, un po’ velleitaria. Qualcuno scriverà anche che forse il loro vero modello è Tex Willer: spara spara». «Ricordiamo i tanti anni di mestiere – scrive Luciano Curi no sulla Stampa del 13 marzo 1977 – e non troviamo un’altra giornata fosca come questa. Fino a ieri la città non era stata toc cata dalla peggiore forma di violenza: l’assassinio premeditato da criminali fanatici ed eseguito a sangue freddo da un carnefi ce». Risparmiata dalle bombe fasciste, evitato il sangue tribale della piazza politica, anche a Torino l’età si fa di piombo. Tutti i testimoni di quegli anni, più o meno coinvolti, han no il medesimo ricordo: il notiziario del mattino, dove la radio – con una frequenza e una familiarità che oggi non si riesce a concepire – dava notizia del morto o del ferito del giorno. A 77
Torino questo triste rito diventa consuetudine a partire dalla primavera del 1977. Ricorda Andrea Casalegno, figlio dell’al lora vicedirettore della Stampa Carlo: «C’erano due forme di attentato; l’omicidio è certamente più grave ma, se vogliamo, il ferimento alle gambe, cioè l’azzoppamento o, come loro lo chiamavano, l’invalidamento, cioè lasciare una persona inva lida tutta la vita, è un attentato di una crudeltà e di un’infamia che a me pare moralmente ancora più ignobile». Nessuna cit tà come Torino paga un prezzo tanto alto al triste rito della «gambizzazione». Tra il giugno 1975 e il febbraio 1980 ven gono colpite 53 persone (51 uomini e 2 donne), praticamente uno al mese, ma nel solo 1979 la media è uno ogni tredici giorni. Uomini che ancora oggi portano i segni di un’offesa indelebile. La storia di quegli anni è scritta nelle loro carni. Il primo a essere colpito, il 19 giugno 1975, si chiama Paolo Fossat, 44 anni, vicecapofficina del reparto Verniciatura della Fiat di Rivalta. Alle 7.45 del mattino Fossat viene affrontato da due uomini a volto scoperto sul piazzale antistante la fab brica. Uno dei giovani gli spara alle gambe 6 colpi di cui due vanno a vuoto. «Guerra di classe per il comunismo» è la sigla che rivendica l’attentato. È un salto di qualità, fino ad allora le avanguardie rivoluzionarie si erano limitate a incendiare automobili. Sei mesi dopo è di nuovo un uomo della Fiat nel mirino. A cedere ferito sotto i colpi di un commando delle Brigate rosse è il medico del reparto Presse di Mirafiori Luigi Solera, 42 anni, colpito a sera mentre torna a casa in corso Massimo D’Azeglio 102. Un solo agguato nel 1976, quello contro il caporeparto della Fiat Mirafiori Giuseppe Borello, raggiunto il 13 aprile da cinque colpi alle gambe alle 6 del mattino, di fronte alla sua abitazione di Nichelino. Capi e sottocapi della Grande Fabbrica sono i bersagli preferiti. Nel 1977 molti cominciano a girare armati. Nel gi ro di 24 ore, tra il 17 e il 18 febbraio 1977, le Brigate rosse scaricano un caricatore nelle gambe di Mario Scoffone, 37 anni, capo del personale dello stabilimento di Rivalta, men tre le «Squadre operaie armate» (sigla fino a quel momento 78
sconosciuta) colpiscono Bruno Diotti, 41 anni, caporeparto a Mirafiori. Il 20 aprile, poco più di un mese dopo l’assassinio di Giuseppe Ciotta, le Brigate rosse alzano il tiro: otto colpi di pistola vengono esplosi in lungo Dora Voghera contro l’ex segretario provinciale della Democrazia cristiana e dirigente capo della Procura generale della Repubblica Dante Notari stefano. Notaristefano è fortunato, perché – forse per l’ine sperienza di chi spara – nessuno dei colpi va a segno: alcuni finiscono sul marciapiede, altri si conficcano nella cartellina zeppa di documenti che il consigliere comunale porta con sé. Meno fortunato è Antonio Munari, 46 anni, capofficina Fiat. Abita al Centro Europa, elegante complesso residenziale a cavallo tra Torino e Grugliasco, grossi condomini in mezzo al verde, di quelli dove, a quei tempi, era solita acquistare casa la buona borghesia torinese in fuga dal centro. Munari, la macchina in garage, esce di casa alle 14.30. Lo aspettano di fronte al box. Munari intravede una canna di pistola con silenziatore che si inceppa, non fa in tempo a fuggire che l’uo mo con la pistola estrae una seconda arma e spara otto colpi, tutti a segno. Munari ha le ossa delle gambe completamente spappolate e rimarrà in ospedale per mesi. Il suo ferimento è il battesimo del fuoco di un uomo che Torino imparerà a co noscere bene. Viene da San Benedetto del Tronto e si chiama Patrizio Peci, ma per i suoi compagni è «Mauro». Peci abita in via Natale Palli, anonima strada in Borgo Vittoria, un rifugio clandestino, separato dal mondo in mezzo alle centomila fortezze dove di notte, come scrive Luciano Curino sulla Stampa, Torino chiude i suoi abitanti. È una cit tà che della «piccola Parigi», come i torinesi anziani ama no chiamarla, non conserva che il ricordo. Non è Milano, metropoli europea, non è Bologna, culla del Movimento e della vita giovanile. Assomiglia a una vecchia signora offesa e disincantata, accasciata tra velluti polverosi e palazzi scro stati di un improbabile color giallino. Le piazze ariose del centro sono ostaggio di chilometri di lamiera color pastello su quattro ruote. Sorprende, oggi, che un tempo Torino pos 79
sa essere stata così respingente, così grigia come il colore a cui chi non la frequenta da troppo tempo seguita ancora ad accostarla: «Torino era diversissima in quegli anni – ricorda Marina Cassi, allora cronista della redazione locale dell’Uni tà –, oggettivamente era molto più brutta, nel senso che t utte le cose belle di Torino c’erano già, ma era come se ce le fossi mo dimenticate. Uno dei posti più brutti era quello che oggi è tra i più di moda, il Quadrilatero romano, che non si chia mava ‘quadrilatero’ ma soltanto ‘centro storico’. Ed era po verissimo». Anche le periferie, dormitori a cielo aperto privi di servizi e punti d’incontro cresciuti a dismisura, incubano germi di malessere sociale. Per le strade compare l’eroina. Da qualche anno si parla di un giovane sacerdote che si prende cura di giovani e giovanissimi che incappano nelle prime di pendenze. Si chiama Luigi Ciotti e viene da Pieve di Cadore, dove è nato nel 1944. Nel 1975, insieme ad alcuni amici, ha fondato il Gruppo Abele, che ha sede in pieno centro, in via Santa Teresa 37. Due anni dopo, insieme al cardinale Michele Pellegrino, che gli assegnò la «parrocchia della strada», ha concelebrato i funerali di Giuseppe Ciotta. Primavera 1977. Il campionato di calcio è ancora più en tusiasmante di quello dell’anno prima. Lo scudetto è sempre partita a due tra Torino e Juventus, ma quest’anno le squadre esagerano: vincono sempre o quasi e alle loro spalle è il vuoto. Il Torino mette insieme l’incredibile cifra di 50 punti su 60 a disposizione, ma – ancora più incredibilmente – la Juve ne fa 51 e vince il tricolore. La Fiorentina, terza, è lontana anni luce a 35 punti. Ai granata non è bastato, come spesso accade, vincere il derby. Come l’anno precedente i giorni della fine del campionato sono gli stessi dell’inizio del processo alle Br. L’attesa – però – è diversa, come lo è l’atmosfera intorno agli imputati che, non più alla sbarra ma accolti in una gabbia appositamente costruita, si mostrano più spavaldi che mai. Anche perché, in quelle gabbie, ci rimarranno assai poco. Questa volta la città non è distratta. Il 21 aprile 1977 Dante Notaristefano è regolarmente al lavoro a Palazzo di Giustizia. 80
Lo spavento è stato grande, ancora non si sa chi abbia sparato (le Brigate rosse rivendicheranno l’attentato solo dopo aver gravemente ferito anche Antonio Munari), si sa solo che nes suna delle pallottole sparate ha colpito la vittima designata. Tra i primi a salutare Notaristefano nel suo ufficio c’è il presidente dell’Ordine degli avvocati Fulvio Croce: «A che punto siamo arrivati se colpiscono uno come lei!». Da qualche tempo, an che l’avvocato Croce sospetta di essere nel mirino delle Br; forse si accorge di qualcosa, strani pedinamenti e sconosciuti appostati sotto lo studio, in via Perrone 5. La persona che lo segue in quei giorni – ma questo l’avvocato non può davvero saperlo – è la stessa che ha sparato contro Notaristefano. Si chiama Nadia Ponti, è torinese e ha 28 anni. Per i brigatisti è ancora valido il proclama del 1976: «Con sideriamo gli avvocati che accetteranno il mandato d’ufficio collaborazionisti e complici del Tribunale di regime. Essi si assumeranno tutte le responsabilità che ciò comporta di fron te al movimento rivoluzionario». Chi non riconosce lo Stato non può accettare di essere processato. O meglio, non può accettare di essere processato con tutte le garanzie ricono sciute dalla Costituzione chi ritiene che lo Stato, per oppor si alla lotta armata, non possa far altro che disvelare il suo volto intrinsecamente fascista. Fulvio Croce non è un eroe. Ha quasi 76 anni, avvocato civilista, è presidente dell’Ordine degli avvocati dal 1968; abituale abbigliamento verde-maron tipico di un appassionato cacciatore, sigaro in bocca semina scosto da un paio di folti baffi spioventi da ufficiale sabaudo. In gioventù è stato volontario delle milizie dannunziane che nel 1919 occupano Fiume, nel 1940 è tra gli alpini del 4° Reg gimento che attaccano la Francia sul fronte occidentale, ma dopo l’8 settembre partecipa alla Resistenza. È originario di Castelnuovo Nigra, nel Canavese, paese di cui è stato anche sindaco, dove si rifugia appena può insieme alla moglie Se verina Morrone, sposata nel 1964. Fulvio Croce un eroe non vuole nemmeno diventarlo, ma è un avvocato, il presidente dell’Ordine per di più, e perché il processo alle Br non sia 81
una farsa si è fatto carico, insieme ai colleghi del Consiglio dell’Ordine, della difesa d’ufficio degli imputati. Manterrà l’impegno anche alla ripresa del dibattimento, fissata per il 3 maggio 1977. La data viene ufficializzata il 26 aprile, Croce confida a un suo giovane collega di studio: «Qui finisce male. Da qualche giorno una 500 mi segue. In ogni caso non ne pos so più di questa storia. Quando le acque si saranno calmate mi dimetterò dal Consiglio dell’Ordine. Se rimango vivo...». Giovedì 28 aprile 1977, ore 15. Il portone di via Perrone 5 – oggi un pesante cancello elettrico – è spalancato, come al solito. L’avvocato Croce, che al primo piano di quel palazzo ha il suo studio, entra nel cortile a bordo di una 128 amaranto. Scende dall’auto con paltò e ombrello appoggiati sull’avam braccio; ha quasi raggiunto le scale quando nell’atrio baroc co risuona una voce: «Avvocato!». Ma il signore con i baffi spioventi non risponde. L’uomo nell’atrio alza la voce e ripete un’altra volta: «Avvocato!». A quel punto Croce si volta: sei colpi, rapidi, tre al petto e due in pieno volto. L’avvocato si accascia, travolge un vaso di fiori e scivola fino all’acciottolato del cortile. Le due segretarie, uditi gli spari, si precipitano al piano terra, ma vengono affrontate da una donna armata che intima loro di non avvicinarsi. Si chiama Angela Vai, nome di battaglia «Augusta», di professione maestra elementare. A sparare contro Fulvio Croce è Rocco Micaletto, 31 anni, operaio e sindacalista della Cisl alla Fiat di Rivalta. Su via Per rone, a bordo di un’auto rubata, li attende Lorenzo Betassa, operaio torinese di 25 anni. A fare da «palo» sul marciapiede, infine, c’è Raffaele Fiore, detto «Nasone», ventitreenne capo della colonna torinese delle Brigate rosse. Una coperta di lana spessa viene adagiata sul corpo dell’av vocato, riverso a terra in un lago di sangue. Roberto Cagno, l’uomo che pochi giorni prima aveva raccolto le preoccupa zioni di Croce, avvisa la moglie, che si precipita in via Perrone in taxi. Non le hanno ancora detto che il marito è morto, ma non ci vorrà molto per capirlo. Il giorno dopo le fotografie della signora Croce che abbraccia il cadavere insanguinato del 82
marito sono su tutti i giornali: «Vogliono scardinare lo Stato: ancora sangue e terrorismo» titola La Stampa del 29 aprile. Il 30 aprile le Brigate rosse rivendicano l’assassinio: «Giovedì 28 aprile alle ore 15 un nucleo armato delle BRIGATE ROSSE ha giustiziato il servo di stato FULVIO CROCE, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino. Questo losco individuo per 50 anni è stato un servitore fedele dello Stato Borghese, prima al servizio dello Stato Fascista di Mussolini, e poi al servizio del Regime Democristiano». Seguono altre minacce agli «avvocati di regime, parte integrante dei tribunali speciali di regime». Mancano tre giorni alla ripresa del processo, ma nessu no aveva pensato di proteggere l’anziano avvocato. I periti incaricati dei rilievi balistici e medico legali concludono che l’arma usata per l’omicidio Croce è una Nagant calibro 7,62, pistola in dotazione all’esercito cecoslovacco. Non è la prima volta, non sarà l’ultima. La Nagant è un ferrovecchio, pratica mente introvabile. Gli inquirenti sono scettici, ma i tecnici ne sono certi. Il procuratore generale di Torino intende chiedere il trasferimento del processo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa suggerisce di celebrarlo direttamente in carcere, ma a entrambe le richieste si oppongono il sindaco Diego Novelli e buona parte delle istituzioni cittadine e piemontesi: «Sarebbe una sconfitta per la città». Torino, ormai, è a tutti gli effetti il principale campo di battaglia della lotta armata di estrema sinistra. La città è sotto shock e nell’avvocatura torinese cre scono rabbia e paura. Il 2 maggio, alla vigilia del processo, l’Ordine si rifiuta di assumere la difesa degli uomini che han no ordinato l’esecuzione di Fulvio Croce, ma la base non è d’accordo, in molti capiscono che fare retromarcia significa gettare la spugna. Alla fine il presidente della Corte d’Assi se Guido Barbaro riceve un elenco di legali dal quale potrà sorteggiare i difensori d’ufficio. Ma l’ostacolo principale al processo è un altro; per poter giudicare una Corte d’Assise deve essere integrata da sei giudici popolari sorteggiati tra i cittadini iscritti in un apposito registro. Nei giorni successivi 83
all’omicidio Croce, la scrivania di Guido Barbaro si riempie di certificati medici di cittadini che, sorteggiati, rinunciano all’incarico. In molti certificati si legge «sindrome depressi va». «La traduzione in termini clinici della paura», ricorda Gian Carlo Caselli. Martedì 3 maggio riprende il processo: i giudici popolari, messi insieme a fatica, rifiutano all’istante, non appena – raccontano le cronache – scorgono gli sguar di minacciosi dei brigatisti dietro le sbarre. Barbaro non ha scelta: «La composizione del collegio risulta impossibile per assenze e impedimenti dei giudici popolari e non si può pro cedere a ulteriori estrazioni. La Corte rinvia tutte le cause della sessione a tempo indeterminato». Tutto ciò che si riesce a ottenere è un disegno di legge del Consiglio dei ministri che sospende i termini di carcerazione preventiva quando «circo stanze di forza maggiore impediscano la formazione dei col legi o l’esercizio della difesa». Oggi in via Corte d’Appello si celebrano i matrimoni: quel giorno, però, la città in ginocchio celebra un divorzio da se stessa. Le Br sembrano aver vinto. Il processo questa volta nemmeno comincia. «Niente processo», titola a nove colonne Stampa Sera del 3 maggio: «Lo storico processo alle Br – recita il catenaccio – si è concluso con una farsa all’italiana: certificati medici, pianti, scene di paura». Il giorno seguente il vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno così commenta: «La legge e i princìpi stessi della convivenza civile hanno subìto nella giornata di ieri altre due gravi sconfitte. S’infittiscono i segni di sgretolamento dello Stato. A Torino, il maggior processo indetto finora contro i brigatisti rossi è finito ancor prima di cominciare: dopo la fuga in massa dei giurati, la Corte ha constatato l’impossibilità di costituire il collegio giudicante e ha rinviato il dibattito processuale a nuovo ruolo. Se tutto va bene, e i detenuti non fuggiranno, si ricomincerà da capo in autunno, ma non con la certezza di arrivare alla sentenza. Poche ore prima di questa beffa giudiziaria, cinque crimina li della banda Vallanzasca e un omicida indipendente erano fuggiti, armi in pugno, dal carcere di Milano. [...] Le minacce 84
dei brigatisti non sono parole vane. Curcio avrebbe letto in udienza un proclama per rivendicare ‘l’esecuzione’ dell’av vocato Croce. [...] Ben poco era stato previsto, a Torino, per ridurre gli ostacoli al processo: neppure un allargamento del la lista dei giurati, in cui trovare una decina di coraggiosi». Ma non manca chi comprende le scelte dei giurati. Passa alla storia un’intervista di Eugenio Montale al Corriere della Sera pubblicata il 5 maggio. «Se fosse stato estratto il suo nome – chiede Giulio Nascimbeni al poeta premio nobel – avrebbe accettato di fare il giudice popolare? ‘Credo di no’, risponde Montale. ‘Sono un uomo come gli altri ed avrei avuto paura come gli altri. Una paura giustificata dallo stato attuale delle cose, ma non metafisica né esistenziale’». Chi non avrebbe avuto nulla da temere, almeno a leggere i resoconti della cronaca, è il geometra Franco Visca, 39 anni, dirigente del servizio assistenza e manutenzione del reparto Presse della Fiat Mirafiori. Forse, al giornale radio della mat tina, avrà saputo di Luciano Marraccani, collega della Iveco di Milano, ferito la mattina di quel giovedì 30 giugno 1977. Alle 14.10, rientra a casa per pranzo in via Prinotti 9, Borgo San Paolo, una via piccola, chiusa al fondo, ideale per un agguato. Il commando lo attende subito oltre la porta d’in gresso del condominio. Tre proiettili alle gambe, il quarto gli spappola un rene. È il settimo uomo Fiat a cadere ferito a Torino. Intorno alle 15 un anonimo rivendica l’«azzoppa mento» a nome delle Brigate rosse. Il giornalista dell’Ansa risponde che Visca non è stato colpito solo alle gambe ed è ricoverato in gravi condizioni: «Dopo il terzo colpo è scivola to – risponde l’anonimo –, capita a tutti di scivolare». È ormai estate, su Torino si abbatte un luglio insolitamen te piovoso e mite. Il 13 luglio è uno dei giorni più caldi del mese. Maurizio Puddu2, 45 anni, è un esponente noto della 2 Nel 1985 Maurizio Puddu ha fondato a Torino l’Associazione italiana vittime del terrorismo, che ha presieduto fino al giorno della sua scomparsa, il 21 maggio 2007.
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Democrazia cristiana in città. Fa parte della direzione regio nale ed è consigliere in provincia, dov’è stato anche assessore. Abita in corso Unione Sovietica 115, di fronte alle caserme dove ogni torinese maschio deve compiere il rito della visi ta militare. Il copione è sempre lo stesso: la vittima scende dall’auto, due uomini lo avvicinano, caricano il silenziatore ed esplodono quattordici colpi. I proiettili della Nagant, mar chio rituale delle Brigate rosse, gli frantumano entrambi i fe mori, altre due pallottole lo raggiungono al bacino. Maurizio Puddu attende i soccorsi accasciato su una macchina in sosta. La lamiera è così calda che arriverà in ospedale con la guan cia ustionata. Prima di entrare in sala operatoria ha tempo di riprendere conoscenza e sentire un medico commentare: «Questo è spacciato, ha l’arteria femorale squarciata».
«In una giornata vittoriosa di lotta»
I ricordi, anche quelli di una città, somigliano in tutto a fo tografie. Emergono lentamente. Sono ombre, contorni che si fissano sempre più netti sulla carta impressionata nella luce rossastra di qualche camera oscura, tra gli odori incompren sibili degli acidi di contrasto. Prendono vita, appesi a un filo che va di parete in parete, di muro in muro. È un’operazione che sorprende, che nasconde ogni volta un impreciso miste ro. Torino è un deposito di fotografie in attesa di essere viste. Ce n’è una, scattata dal fotoreporter della Gazzetta del Popolo Tonino Di Marco, che racconta di un giorno di tragiche svolte individuali e di massa: una folla di volti sgomenti in bianco e nero intorno a tre persone curve su una sedia da bar. I gesti sono attenti, densi della pietà che spesso appartiene a chi sfiora un oggetto delicato. Sullo sfondo, i portici di via Po digradano ordinati verso il fiume. La sedia, che domina il centro della strada e della scena, è occupata da un uomo che fissa il vuoto davanti a sé. Sarebbe completamente nudo, non fosse per i brandelli delle maniche sopravvissuti sugli avam bracci e per un fazzoletto bianco (o forse è un tovagliolo) che gli copre il pube. Il viso è annerito, quel che rimane dei capelli sono ciocche rade, come attorcigliate, sparse qua e là sulla testa; sul corpo il sangue scivola dalle numerose ferite che gli attraversano gambe e torace. Negli scatti successivi l’uomo, che in realtà è un ragazzo, è sollevato dai soccorritori e poi adagiato sul lettino di un’ambulanza comparsa nel frattempo. È il 1° ottobre 1977. Il ragazzo si chiama Roberto Crescenzio, ha 22 anni. 87
Roberto è uno studente-lavoratore, figlio unico di una coppia di immigrati dal Veneto, Giovanni ed Elvira, imbian chino lui, casalinga lei. La mattina lavora come assistente di laboratorio all’Istituto tecnico industriale Spagnesi, dove tre anni prima ha preso il diploma di perito. La sera è impegnato con i corsi della facoltà di chimica e tecnologia farmaceuti ca, nella storica sede di via Pietro Giuria già frequentata – e raccontata in Il sistema periodico – da Primo Levi. È al ter zo anno, ma forse dovrà interrompere gli studi per qualche tempo; pochi giorni prima ha ricevuto la cartolina precetto che gli impone di presentarsi al distretto militare la settimana successiva, e Roberto non è sicuro di riuscire a ottenere il rinvio del servizio di leva per motivi di studio. Forse, in quello che potrebbe essere l’ultimo weekend pri ma della naia, programma di divertirsi insieme agli amici e a Mary, la fidanzata. Sabato 1° ottobre Roberto si sveglia presto: deve passare dallo Spagnesi per dare una mano in biblioteca prima di raggiungere in centro Diego, un amico, anche lui di viso tra gli impegni di studio al Politecnico e il lavoro alla Fiat Avio. L’appuntamento è alle 11 del mattino in un bar di via Po, al numero 46. Ancora oggi quelle due vetrine sono occupate da un locale molto simile, il Xò cafè: ci vanno gli studenti a festeggiare le lauree, a ballare la notte. Di fronte all’ingres so, protetto dai portici, le code si formano specialmente al martedì per la «Erasmus night», specializzata in cocktail per stranieri che scelgono di studiare a Torino. Nessuno di loro può sapere che prima quel bar si chiamava Angelo Azzurro, come il film dove Marlene Dietrich, diva cocotte da varietà, manda in rovina uomini innamorati della sua voce graffiata dal fumo. All’Angelo Azzurro, nel 1977, vanno i calciatori la sera, a bere qualcosa, celebrano compleanni giovani militanti di destra, prendono l’aperitivo ragazzi della zona, come Diego Menardi e Roberto Crescenzio. Il bar è all’angolo tra via Po e via Sant’Ottavio, la strada dell’università dove spesso si sciolgono i cortei del sabato. Per alcuni della sinistra extraparlamentare quel bar discote 88
ca è un locale dove si spaccia, per altri è semplicemente un ritrovo per militanti di destra, un «covo di fasci». Si tratta di una fama diffusa anche se priva di fondamento, come ri corda Roberto Roggero, all’epoca segretario del Fronte della Gioventù e consigliere comunale del Msi: «Via Po era per noi zona off-limits. In centro si arrivava al massimo in piazza Castello, al Motta o da Baratti. Poi, varcato il Po, ci si trovava al Gran Bar, soprattutto per il seguito che avevamo al Liceo Segrè che raccoglieva studenti in prevalenza abitanti nella precollina. Tra i locali frequentavamo la pasticceria Dezzuto a Cit Turin e Platti in corso Vittorio. E il Pick-up di Borgo San Paolo per ballare»1. Ma non l’Angelo Azzurro. Forse a rovinare la reputazione del locale è solo la posizione, giusto sul finire del più classico percorso dei cortei: è un bersaglio comodo, che non richiede grandi deviazioni per essere colpi to. Provano a dargli fuoco una prima volta il 22 aprile 1977, durante una manifestazione di protesta contro la riforma Malfatti – cognome sfortunato per un ministro della Pubbli ca istruzione – e contro l’introduzione del latino fra le materie della maturità scientifica. A poco serve che il proprietario del bar Luigi De Maria mostri agli assalitori la tessera del Pci, estremo tentativo per spiegare che lui è un compagno, iscrit to al partito da anni, che ha preso il locale a rate, che così lo avrebbero mandato in rovina. Sorde alla compassione, due molotov esplodono contro l’esterno del locale, mandando in fiamme i tavolini e le sedie del dehors. Andrà peggio cinque mesi più tardi, il 1° ottobre. È sabato e si manifesta, come accade ininterrottamente da anni. Quel giorno, però, le vie di molte città sono invase da cortei più rabbiosi del solito: i giornali del mattino raccontano la storia di un ventenne di Lotta continua, Walter Rossi, ucciso la sera prima a colpi di pistola in viale Medaglie d’Oro a Roma, quar tiere Balduina. Poco dopo, la polizia ha fatto irruzione nella
Cit. in Bruno Babando, Non sei tu l’Angelo Azzurro, Torino 2008, p. 71.
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sede del Msi della Balduina arrestando tutti i presenti (tra i quali anche Flavia Perina, futura parlamentare e direttore del Secolo d’Italia). Verranno prosciolti da ogni accusa tre anni più tardi e, ancora oggi, nessun tribunale ha mai condannato gli assassini di Walter Rossi. Ma il giorno dopo la sua morte gli animi in piazza sono caldi: bisogna fare qualcosa, attac care, farsi sentire, un altro compagno è stato ammazzato dai fascisti. A Torino l’appuntamento è in piazza Solferino per le 9.30. Subito si presentano in pochi; di minuto in minuto, tuttavia, la folla aumenta, cresce di studenti che arrivano dalle s cuole d’intorno, Gioberti, D’Azeglio, Juvarra e Galileo Ferraris. «Era un corteo straordinariamente giovane – racconta Silvio Viale – formato da ragazzini dei primi anni delle superiori, in larga parte allievi dei tecnici e dei professionali. Noi, i cosid detti vecchi, eravamo tutti universitari con sempre meno rap porti con gli istituti. E poi non va dimenticato che si trattava del primo corteo dell’anno scolastico e che la macchina orga nizzativa era piena di falle: molti capi dei servizi d’ordine non erano più studenti medi e così alcuni dei tradizionali punti di riferimento erano saltati. E anche sul piano della cultura poli tica si era creato un abisso tra noi e loro»2. Alle 10.15, quando si decide di partire in ranghi compatti, dietro lo striscione Lotta continua, sono più di 3.000. Formalmente Lotta conti nua non esiste più. L’organizzazione, divenuta partito per le elezioni del 20 giugno 1976, si è sciolta a Rimini all’indomani della sconfitta elettorale, stretta tra contraddizioni non cu rabili, quando ormai la posizione mediana tra Stato e lotta armata è divenuta insostenibile: morte volontaria, eutanasia, decisione presa per coraggio o per paura, dramma collettivo. Ma a Torino la sede di corso San Maurizio 27 – dove oggi ap paiono cartelli maliziosi come «Si affittano loft signorili, varie metrature» – resta attiva e affollata anche dopo la scissione. Ivi, p. 56.
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Di Lotta continua sopravvive principalmente il servizio d’or dine. «Da un certo punto in avanti – afferma un anonimo dirigente di Lc in un’intervista di Corrado Stajano – il ser vizio d’ordine diventa una struttura essenziale, non più uno strumento transitorio per far fronte all’emergenza. Anche i nuovi iscritti hanno una mentalità nuova e per loro la politica è solo l’organizzazione rigida, il buon funzionamento della cellula della scuola, la centuria di ferro del servizio d’ordine. Il reclutamento avviene quasi esclusivamente attraverso il servizio d’ordine. I giovani approdano a Lotta continua per ché ha il servizio d’ordine più forte e più temuto. Essere di Lc significa: sfilare il sabato, frequentare le palestre, possedere i bastoni e i picconi, saper usare le spranghe. I militanti non so no né gli studenti idealisti del 1968, né i militanti pragmatici del 1971-72: sono studenti tra i 18 e i 22 anni, nati e cresciuti in città, frequentano soprattutto i licei scientifici e gli istitu ti tecnici. [...] Manca in loro un progetto politico o, ancora peggio, c’è una sostanziale sottovalutazione, un disprezzo palpabile per un possibile progetto politico. Conta l’esalta zione per la competizione più aspra che presto si trasforma in pura violenza, conta il rispetto per la gerarchia, l’accettazio ne della diseguaglianza»3. È il movimento di fratelli minori e impazienti: il ’68 per loro è stato soprattutto un suono, il ru more di cortei che scorrono sotto le finestre della scuola, con i bidelli che s’affrettano a chiudere le imposte. Nel 1977 danno vita ai circoli del proletariato giovanile, spazi di aggregazione personale e politica, luoghi di rifugio nati dall’occupazione di locali abbandonati, a metà tra il centro sociale, il bar e il lettino dello psicoanalista. Luoghi dove trovarsi, discute re, pianificare scorrerie e fare l’amore. Scrive della stagione dei circoli Luca Rastello, nel suo straordinario Piove all’insù: «Per la rivoluzione c’è tempo: sì, è là che andiamo, per ca rità, ma intanto ci andiamo tutti interi e il corpo reclama un Corrado Stajano, L’Italia nichilista, Milano 1982, pp. 34-35.
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antipasto, in forma di festa, ore strappate a un ordine feriale, orari, ruoli, gerarchia. Corpi che si attorcigliano per ballare e accoppiarsi, o allucinarsi e stupirsi. Continuiamo a declinare il vocabolario dei fratelli grandi, ‘Lotta’ e anche ‘Classe’, ma uno su due pensa a organizzare una festa o a imbucarsi a una festa, o a una ragazza, che se l’acchiappi a una festa. I più tristi fra i nostri fratelli grandi sognano acciaio e palingenesi, i mi gliori festa e palingenesi, noi invece ci siamo abbastanza tolti dai coglioni la palingenesi. I soldati della rivoluzione alzano lo sguardo verso il cielo, invece noi puntiamo verso il basso. Il mistero realizzato del mondo intero è qui: ma la sua forza è completa se è convertita in terra»4. Nel giro di pochi mesi la mappa di Torino si popola di decine di locali occupati: in centro, dietro piazza Vittorio pri ma e in via Garibaldi poi, c’è il Barabba, di cui fanno parte Peter Freeman, Alberto Bonvicini e Francesco D’Ursi, che tutti chiamano «Frankie». A Santa Rita, in una villa abban donata di corso Orbassano 172, c’è il Cangaçeiros guidato da Angelo Luparia. Poi ci sono il Montoneros, a San Salvario, il Fantasma in strada Castello di Mirafiori vicino al mausoleo della Bela Rosin, il Pavone a Borgo Vittoria, il Malembe e lo Zapata a Borgata Parella. Alla manifestazione del 1° ottobre 1977 ci sono anche lo ro, i ragazzi dei circoli del proletariato. Manca poco più di un’ora al momento che cambierà la vita di tutti i partecipanti a quel corteo, alla guida del quale, come responsabile di piaz za, c’è Steve Della Casa: «Nel 1977 – racconta oggi – c’è stata una grande finzione, perché andavano in piazza tantissime persone che non avevano più niente in comune: femministe, indiani metropolitani, circoli giovanili, omosessuali, rocchet tari fumati. Non avevano nessun interesse comune. L’unico denominatore era la piazza, dove poi ognuno si faceva i fat ti suoi. Anche gli incontri del Movimento, come quello che Luca Rastello, Piove all’insù, Torino 2006, p. 42.
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c’era stato a Bologna una settimana prima, finivano sempre a botte. Erano un modo per fare stare insieme persone che non ne avevano alcuna intenzione». Il primo obiettivo del corteo, tradizione consolidata, è la sede del Msi di corso Francia. I cori non prevedono dubbi: «Brucerà, brucerà, porca puttana se brucerà» (sulle note di Jesus Christ Superstar), «I compagni partigiani ce l’hanno in segnato, uccidere un fascista non è reato», «Le sedi fasciste si chiudono col fuoco, con i fascisti dentro, sennò è troppo po co», «Camerata basco nero il tuo posto è al cimitero». L’ultimo rumore è delle saracinesche che s’abbassano in corso Francia. Poi il silenzio s’impossessa improvviso e convulso della strada: da una via laterale spunta un cordone di uomini delle forze dell’ordine che si piazza in mezzo al corso, a sbarrare l’avanzata dei manifestanti. Sui volti calano i passamontagna. L’attacco è un istante furioso. Da una parte bulloni, cubi di porfido e mo lotov, dall’altra decine e decine di lacrimogeni. Pochi secondi e sul quartiere scende una nuvola bianca d’aria irrespirabile: auto e alberi in fiamme accompagnano la ritirata dei manife stanti verso piazza Statuto. L’assalto è stato respinto e il corteo, ridotto a un migliaio di unità, marcia ora verso il centro, verso l’università. Sono da poco passate le 11 e in quel momento, a 2 chilometri di distanza, Roberto Crescenzio entra finalmente all’Angelo Azzurro. Oltre a Diego, che lo sta aspettando da qualche minuto, nel locale ci sono Bruno Cattin, Luigi e Maria Benedetta De Maria, rispettivamente barista, titolare e moglie del titolare: osservano il solito viavai di rari avventori che entra no, consumano, se ne vanno. Il campionato è cominciato da poche giornate e nel bar si parla anche di quello: la Juve, di cui Roberto è tifoso, è attesa da una difficile trasferta a Roma con tro la Lazio di Bruno Giordano e Vincenzo D’Amico, mentre il Toro ospita in casa l’Inter allenata dal «sergente di ferro» Eugenio Bersellini. Con l’andamento gioiosamente pigro di chi ha tempo davanti a sé, i due amici discutono che fare, davanti al bancone: si soffermano con attenzione sui titoli dei film del pomeriggio, pensano a una birreria per la sera. Non c’è fretta. 93
Il corteo invece non ha indecisioni. Lasciata alle spalle piazza Statuto, scorre per poche centinaia di metri lungo via Garibaldi, poi svolta a destra su corso Siccardi e infine a sini stra in via Cernaia. Inizia la guerriglia urbana di commando che seguono un rituale affinato nel tempo: «In prossimità dell’obiettivo individuato, la squadra incaricata dell’esecu zione (gruppo assalto) si forma all’interno del corteo che, a un preciso segnale, si apre per favorirne l’uscita; vengono formati dei cordoni di protezione (gruppo appoggio), e una volta eseguita l’azione il commando si disperde nella massa dei manifestanti, impedendo o cercando di rendere meno agevole il riconoscimento degli autori dell’offensiva da parte delle forze dell’ordine»5. Gli obiettivi prescelti lungo il cammino che conduce a Pa lazzo Nuovo sono nell’ordine: una farmacia della quale vengo no mandate in frantumi le vetrine; un negozio di jeans espro priato di pantaloni e giacche assortite; la sede della Cisnal di via Mercantini 6, colpita da un lancio di molotov contro il por tone chiuso e le finestre sprangate; la sede di Comunione e li berazione in via Po 16, anch’essa oggetto del lancio di qualche bottiglia incendiaria; l’auto di Francesco Carlino, consigliere provinciale del Msi, che da un lato ha la sventura di trovarsi in via Po al passaggio dei manifestanti, dall’altro ha la fortuna di non essere riconosciuto. Certo non è un grande bottino, per chi è partito con l’idea di chiudere le sedi fasciste in città. Sono le 11.40 e il corteo ha raggiunto l’incrocio tra via Sant’Ottavio e via Po. A sinistra c’è Palazzo Nuovo, l’universi tà, dove è prevista un’assemblea a chiusura della mattinata di lotta. A destra, invece, c’è quel bar discoteca in odor di «fasci». La tentazione è lì, a portata di mano e nei tascapane sono avan zate delle «bocce» (così si chiamano in confidenza le molotov). «Dai facciamolo», pensa qualcuno. Ma questa volta l’assalto non è ordinato, né lucidamente pensato: in tanti si scagliano Babando, Non sei tu l’Angelo Azzurro cit., p. 53.
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contro l’Angelo Azzurro con spranghe e bastoni, uno di loro forse ha anche la pistola. Luigi, il titolare, in quel momento si trova di fronte all’ingresso; poco prima è uscito a vedere che cosa fosse quel casino ed è stato allontanato dal commando. Diego viene malmenato e buttato fuori dal bar, mentre Bruno e Maria Benedetta riescono a fuggire dalla porta del retrobottega che dà su via delle Rosine. Il locale ora è deserto e può partire il lancio di molotov. Le fiamme attaccano la moquette, ed è subito una serie di esplosioni, di bottiglie che si frantumano, di boati incontrollati: finalmente c’è un covo fascista che brucia, proprio lì, davanti agli occhi esultanti degli autori dell’assalto, che ancora gettano dentro tavolini, sedie e fioriere per alimen tare il fuoco. Solo i più attenti tra loro, in un primo momento, riescono a notare la figura indefinita che attraversa di corsa il locale in fiamme, che inciampa, cade, si rialza, esce urlando avvolta nel fuoco. È Roberto. Il commando fugge, nel panico, mentre altri si lanciano in suo soccorso: spengono le fiamme che gli divampano dal corpo, gli tagliano scarpe e vestiti che si sono incollati alla pelle, lo adagiano su una sedia risparmiata dal rogo. Roberto è nudo in mezzo alla strada, circondato da centinaia di persone che non sanno cosa fare. I soccorsi tardano ad arrivare anche perché in quel momento, mentre Tonino Di Marco scatta l’orribile sequenza d’immagini, altri dimostranti tentano di impedire ai mezzi dei vigili del fuoco di avvicinarsi a via Po. L’intero edificio dell’Angelo Azzurro è invaso da una spessa coltre di fumo e per poco non perde la vita il piccolo Carlo Cicala, 3 anni, che abita insieme alla famiglia al quarto piano del palazzo. Lo trovano svenuto insieme alla nonna e alla babysitter, e deve essere ricoverato d’urgenza all’ospedale infantile Regina Margherita per un edema polmonare. Un’ultima foto racconta i resti della giornata: la sedia di Roberto ora è vuota, circondata dei suoi abiti ammonticchiati tutti intorno, con il segno scuro di dove s’è appoggiato. Nes suno per ore ha il coraggio di toccarla, né la forza di spostarla dalla vista. Rimane lì, accanto ai portici di via Po, per chissà quanto tempo. 95
Quando arriva al reparto dei grandi ustionati del Cto, Roberto è vivo. Ha il 90% del corpo ricoperto di ustioni, e nessuna possibilità di farcela. Eppure è lucido. Ricorda tutto, precisamente, e rilascia una dichiarazione agli agenti di poli zia dell’ospedale: «Alle ore 11.35 circa mi sono recato nel bar Angelo Azzurro di via Po n. 46 per incontrarmi con l’amico Menardi Diego e prendere l’aperitivo insieme, come siamo soliti fare tutte le volte che abbiamo la possibilità di incon trarci in detto bar. Io provenivo dal vicino Istituto Spagnesi dove faccio l’assistente di laboratorio chimico, mentre il Me nardi, pure diplomato e occupato alla Fiat Avio, proveniva da una palestra ginnica. Mentre stavamo prendendo l’aperitivo faceva irruzione nel locale un gruppo di giovani sui 20 anni, uno dei quali forse impugnava una pistola, che diceva agli altri, forse, ‘entrate, entrate’; tutti i giovani avevano dei faz zoletti da tasca sul viso, erano in numero di 10-15, appena en trati cominciavano a fracassare tutto. Riparavo nella toilette e sentivo che il fracasso continuava: schiudevo appena la porta della ritirata e notavo delle fiamme nel locale, per cui ritenevo più utile richiudermi all’interno; dopo qualche secondo, pen sando che potessi essere ugualmente raggiunto dalle fiamme, pensavo di scappare attraversandole; così facevo ma proprio nel centro della sala, all’incirca, inciampavo e cadevo per ter ra, sicché rimanevo avvolto dalle fiamme stesse. Non ricordo bene altro: comunque non rivedevo più né il Menardi, né il barista. Sia io che il mio amico non ci occupiamo di politica né abbiamo amici o conoscenti che se ne occupino. Ci si tro vava talvolta in detto esercizio perché siamo della zona e ci veniva comodo»6. Racconta Diego Novelli: «Io quel mattino mi trovavo a Viareggio; rientrato a Torino, alla sera decisi di andare a far visita a questo ragazzo che era ricoverato nel reparto delle grandi ustioni. Andai al Cto, i medici mi pregarono di entrare 6 Verbale di dichiarazione rilasciata da Roberto Crescenzio, Questura di Torino-Squadra mobile, 1° ottobre 1977.
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nella sala, indossai tutte le cose necessarie per evitare infezioni e entrai dentro. Mi avvicinai a quel lettino e c’era una specie di – non saprei come descriverlo altrimenti – pezzo di carbo ne, completamente nero, che si muoveva ancora. L’unica cosa che si riusciva a distinguere erano gli occhi aperti e brillanti di quella povera creatura. Il medico gli disse: ‘Roberto, Roberto, mi senti? È venuto il sindaco a trovarti, lo sai? Fai un cenno, se mi senti e se hai capito’. E lui diede un piccolo segno di vita muovendo un braccio. Quando uscii il padre si avvicinò e mi disse: ‘Sindaco, mio figlio, com’è? Ce la farà? Si salverà?’. Non ebbi il coraggio, il medico mi aveva già detto che non c’era più niente da fare, e mi limitai a dire ‘È ancora vivo’. Poi tornai a casa e capii in quel momento cosa poteva provocare il terrorismo e cioè la perdita della ragione. Pensai a Edoar do, mio figlio, che aveva la stessa età di Roberto e mi chiesi che cosa avrei fatto se fosse capitato a me, che tipo di rea‑ zione avrei avuto. Ho un ricordo indelebile di quei momenti: mentre tornavo a casa dal Cto su Torino era scesa la nebbia, e quella notte d’ottobre è impressa nella mia mente come uno dei momenti più brutti dell’esperienza da sindaco». Il cuore di Roberto smette di battere intorno alle 20 di lunedì 3 ottobre 1977. Due giorni più tardi, 20.000 persone accompagnano la bara nella chiesa di San Giulio D’Orta in corso Cadore, quartiere Vanchiglietta, non lontano da dove oggi si trova Parco Crescenzio, intitolato alla sua memoria nel 1981. Ci vogliono invece quasi sette anni e le rivelazioni di tre pentiti di Prima Linea per ricostruire la verità giudiziaria, che molti giurano essere come minimo incompleta, su quanto ac caduto la mattina del 1° ottobre: per il rogo dell’Angelo Az zurro saranno condannati in via definitiva a tre anni e sei mesi di reclusione Francesco D’Ursi, Angelo De Stefano, Alberto Bonvicini (forse è lui il ragazzo armato di pistola di cui ha parlato Roberto) e Angelo Luparia. Steve Della Casa, respon sabile del corteo, prenderà tre anni e tre mesi di carcere. La sinistra extraparlamentare torinese non sopravvive al dramma dell’Angelo Azzurro. «La morte di Roberto Cre 97
scenzio è pesante come una montagna», scrive Pietro Marce naro sul giornale Lotta Continua. Altri affidano ai muri della città il proprio disagio: nella notte tra il 2 e il 3 ottobre, in corso Valdocco, compare una scritta a vernice rossa che dice soltanto: «è un momentaccio». Mentre Roberto è ancora in vita, domenica 2 ottobre, Lotta continua diffonde un ciclosti lato intitolato «Dopo la tragedia ci fa schifo chi specula sulla vita umana» dove si legge: «La rabbia e la determinazione con cui il movimento è sceso in piazza sabato era maggiore perché i compagni giovani sentivano la vita che era stata tolta bestialmente. La volontà di difendere il diritto alla vita di un compagno di 20 anni è stata la ragione che ha portato il cor teo a chiudere i covi fascisti del Msi e della Cisnal. La tragedia dell’Angelo Azzurro è quella che più ci deve far discutere perché incide profondamente su una giornata vittoriosa di lotta. Questo locale è stato scelto dal movimento come un obiettivo da colpire perché da tempo era stato individuato come centro di sistematica perpetuazione di distruzione della vita tramite l’organizzazione dei fascisti e tramite lo spaccio dell’eroina (solo la settimana scorsa noti squadristi torinesi vi si erano ufficialmente ritrovati). Roberto Crescenzio, un altro giovane come Walter, è ancora grave per le ustioni riportate nell’incendio del bar. Non possiamo che sentire questa vita che si sta spegnendo vicina a quella di Walter. Noi di Lotta continua non intendiamo mascherare questo come un «erro re imprevedibile», si tratta di un grosso problema politico, che coinvolge non solo chi aveva esercitato la forza contro la violenza del sistema, ma tutto ciò che per un rivoluzionario riguarda il rapporto con la vita umana. Ma ci fa schifo chi sta strumentalizzando ancora una volta la vita di un giovane cercando capri espiatori o vuole identificare in pochi la re sponsabilità dell’accaduto. Le responsabilità politiche delle conseguenze dell’accaduto sono del movimento che non in tende scaricarli su fantasmi o streghe. Il movimento le vive nelle proprie contraddizioni, nella parziale incapacità rivelata in quel corteo di isolare chi costantemente cerca di prevari 98
care le indicazioni». Per settimane, per mesi non si fa altro che discutere di quelle contraddizioni: c’è chi fa autocritica, chi giustifica senza ammettere, chi sostiene che «se anche Crescenzio era un proletario, allora perché non era con noi in piazza?», chi si allontana, chi sta zitto, chi pensa di avere capito da che parte stare. L’unica verità è che da quel giorno non si può più stare nel mezzo: per molti dei ragazzi presenti al corteo del 1° ottobre, quella giornata segna l’uscita dal la militanza politica attiva. Per altri, invece, si spalancano le porte della lotta armata.
«Il direttore si preoccupa troppo»
Nel piccolo cimitero di Sassi ora riposa Roberto Crescenzio. Giovanni, il padre, va a trovarlo ogni giorno. Per Giovanni nulla, nemmeno il tempo ha più senso. Spesso i custodi lo trovano alla mattina, addormentato accanto al loculo del fi glio. L’11 ottobre 1977, alle 8 di mattina, Giovanni forse è già a Sassi. Dall’altra parte della città, poco lontano da Mirafiori, Licia Camaioni aspetta il marito Rinaldo, 31 anni. Abitano po co lontano da Mirafiori, in via Pio VII 158 e per raggiungere la porta 2 delle Carrozzerie Fiat in corso Tazzoli, dove Rinaldo è responsabile dei rapporti sindacali, bastano cinque minuti. Camaioni non ha il tempo di aprire lo sportello della 127, gli si affianca una 128 rossa, da cui esce un uomo che scarica nelle sue gambe un intero caricatore. Il responsabile delle relazioni sindacali delle Carrozzerie cade a terra con sei proiettili in cor po, uno dei quali gli ha spezzato il femore destro. Poco dopo, la consueta rivendicazione all’Ansa: Brigate rosse. È il nono «capo» Fiat a essere ferito a Torino in poco più di due anni. Passano tredici giorni, è lunedì 24 ottobre 1977. Antonio Cocozzello, consigliere comunale della Democrazia cristiana ex assessore allo stato civile, ha 47 anni e abita in via Cravero 150. Un complesso di case popolari che più popolari non si può, tipiche di Barriera di Milano e degli altri quartieri torinesi cresciuti intorno all’industrializzazione del primo Novecento. Gli isolati di via Cravero sono un tipico falan sterio operaio dell’epoca, con i balconi del piano terra che si affacciano direttamente sulla corte interna. Poco prima delle 8 del 24 ottobre Cocozzello, che non ha la macchina, è di 100
fronte a casa, all’altezza di una fermata dell’autobus. Aspetta un amico con cui andrà al lavoro al Consorzio provinciale dei patronati scolastici di via Assarotti. Prima dell’amico, però, gli si fa incontro un uomo che gli spara tre proiettili alle gam be. Il quarto gli sfiora l’addome. Tra i primi ad arrivare sul posto, un giovane cronista della Gazzetta del Popolo, Ezio Mauro che ricorda: «Cocozzello era un maestro elementare, un ‘cafone’ di Matera analfabeta, che grazie al sindacato, grazie alla Cisl, alla battaglia per l’oc cupazione delle terre aveva potuto studiare e si era avvicinato al sindacato, poi alla Dc, fino a diventare consigliere comu nale. Gli hanno sparato mentre era alla palina del tram, si è sorretto con le mani attaccandosi alla palina perché le gam be gli erano esplose. Io sono arrivato, ho visto gli infermieri del 118 tagliargli i pantaloni mentre era ancora per terra. Ho visto la biancheria intima che portava, era una persona del popolo. E ho visto la cartellina di plastica che gli era caduta a terra: ‘mettila al riparo – mi disse – perché ci sono le pratiche del patronato’. Aiutava le persone più deboli di lui a fare le pratiche per le pensioni. Dopo sono tornato al giornale e ho letto la rivendicazione in cui le Brigate rosse annunciavano di aver colpito il ‘servo del potere democristiano’. Intendiamoci, il potere democristiano certamente esisteva, ma Cocozzello non ne aveva visto una briciola. In ogni caso, tutta la somma del potere democristiano non avrebbe giustificato nemmeno la mimesi di un gesto simile». Due giorni dopo, come ogni mercoledì, il vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno firma la sua consueta rubrica «Il nostro Stato», titolandola «Rossi o neri, chiudere i covi». Egli scrive: «Non si poteva prevenire l’aggressione proditoria contro il consigliere Dc di Torino [Cocozzello] ultimo anello d’una lunga catena di attentati; e sarà molto difficile indivi duarne gli aggressori, trovare solide prove, ottenere una con danna. I terroristi organizzati colpiscono a sorpresa, uscendo dalla clandestinità e scomparendo in rifugi predisposti e pro tetti dai complici: solo incidenti o errori in azioni li rendono 101
vulnerabili. La polizia, per quanti sforzi faccia, riesce a proteg gere soltanto un numero limitato di personaggi e di obbiettivi. Può difendere l’ambasciatore tedesco, condannato a morte per rappresaglia; non ciascuno dei ventimila o cinquantamila cittadini che possono essere, in qualunque momento, colpiti dai nuovi terroristi: politici pressoché sconosciuti o capi of ficina, giornalisti o avvocati. [...] È dunque inutile farsi delle illusioni in una sollecita sconfitta del terrorismo: continue ranno gli attentati, cadranno altre vittime. Ma allo Stato non mancano i mezzi – legittimi, costituzionalmente corretti – per ridurre lo spazio e l’impunità dei terroristi, per tagliare le re ti dei favoreggiatori e dei complici, per rendere più difficili gli arruolamenti dei killers; e soprattutto per isolare i nuclei ristretti di professionisti del terrorismo dai gruppi ben più vasti che predicano e praticano la violenza politica, e offrono al terrorismo coperture, aiuti, nuove reclute, azioni di fian cheggiamento. L’aspetto più preoccupante della crisi dell’or dine pubblico in Italia consiste, infatti, nella molteplicità e nell’estensione dei gruppi che formano il ‘partito armato’: ab biamo i Nap e le Br, simili alla Raf tedesca; ma abbiamo anche una quantità, ineguagliata in Occidente, di formazioni squa dristiche rosse o nere, in grado di scatenare violenze, frequenti e coordinate, in gran parte dei maggiori centri urbani. Questi gruppi non vivono, come i brigatisti rossi e nappisti, in clan destinità: li conosce la polizia, li conoscono i cittadini; spesso hanno sedi ufficiali, tengono assemblee, pubblicano giornali. Fino a quando svolgono un’attività politica, per quanto di un esasperato estremismo, esercitano un diritto garantito dalla legge democratica, che non ammette censura sulle opinioni. Ma quando organizzano o favoriscono azioni violente, provo cano o compiono azioni delittuose, quei gruppi escono dalla legalità, e non possono chiedere allo Stato né tolleranza, né impunità. Le sedi politiche, in questo caso, diventano ‘covi’, e vanno chiuse; e i militanti politici, trasformati in squadri sti, debbono essere perseguiti come autori di reati. Finora governo, magistratura, polizia hanno risposto con il rigore 102
consentito, anzi voluto dalla legge? Il problema è delicato: meglio esagerare negli scrupoli, quando si difendono i diritti di libertà. Ma occorre pur chiedersi se l’Autonomia rimanga nei limiti del lecito, se non si trasformi in associazione per delinquere, quando programma, impone, organizza scontri armati e introduce i suoi guerriglieri nei cortei per trascinarli alla violenza. [...] Si è chiesta giustamente la chiusura di se zioni missine, che sono centrali squadristiche; ma conviene sollecitare dalla magistratura, con imparziale rigore, anche la perquisizione di certe sedi dell’estrema sinistra, dove i mili tanti sembrano regolarmente rifornirsi di armi improprie. E bisogna domandarsi se sia stato saggio lasciare incontrastate o impunite, per timore d’incidenti più gravi, centinaia di azioni criminali, forse lievi in sé ma pericolose nel loro metodico ripetersi, dai picchettaggi duri nelle scuole ai cortei vandalici, dalle incursioni degli autoriduttori alla paralisi di servizi pub blici. [...] Per stroncare la violenza non bastano gli interventi a caldo dei carabinieri. Sono necessarie le indagini preventi ve della polizia, l’attività assidua e operante della magistra tura, la volontà politica. Occorre prosciugare le sorgenti, di mobilitazione e di propaganda, che alimentano la guerriglia; colpire con estrema durezza i traffici di armi ed esplosivi; e fare il vuoto attorno al terrorismo, con un’attenta vigilanza anche sulle complicità indirette, magari coperte dall’impegno professionale o dalle irresponsabili trasmissioni di certe radio ‘libere’. Anche l’opinione pubblica ha un compito importante in quest’opera di risanamento: quello di isolare provocatori o demagoghi. Molti in Italia giocano con il fuoco». Chi gioca col fuoco, a volte, usa anche le forbici. In quel 1977 qualcuno ritaglia e cataloga con cura ogni articolo di Car lo Casalegno. La sua rubrica settimanale è un appuntamento fisso fin dal 1969. Ex partigiano delle formazioni di Giustizia e Libertà, 61 anni, Casalegno incarna alla perfezione il modello liberal-progressista dell’intellighenzia torinese. Ha un figlio di 33 anni, Andrea, con un passato da militante di Lotta conti nua e qualche disavventura giudiziaria alle spalle: tre mesi di 103
carcere per un incauto volantino sul delitto Calabresi distribu ito ai cancelli di Mirafiori e un periodo di latitanza, dopo un assalto alla sede del Msi di corso Francia. Oggi – conversando con Andrea – ci si stupisce che possa essere accaduto. Eppure, in quegli anni succede, anche – se non soprattutto – tra i figli della borghesia intellettuale. Tra padre e figlio esiste un pro fondo rispetto, ma non mancano le discussioni, anche accese. La rubrica si occupa un po’ di tutto, il tema del terrorismo, tuttavia, ultimamente è diventato, per forza di cose, prepon derante. La linea di Casalegno è inequivocabile: «Ferma con trapposizione ad ogni forma di illegalità – spiega Andrea – non soltanto a quella gravissima degli attentati, ma anche a quella dei danneggiamenti e simili. La fermezza non deve guardare né a destra né a sinistra, tutti devono essere trattati nello stesso modo. E si può dire, senza nessuna possibilità di smentita, che mio padre fosse di gran lunga il giornalista che interveniva più spesso, in tono più fermo, sostenendo la tesi particolarmente invisa ai gruppi terroristici, che fosse necessario intervenire con fermezza, ma senza leggi speciali e senza violare mai le leggi dello Stato. Uno degli obiettivi dell’estremismo era di mostrare che lo Stato, per difendersi, non avrebbe potuto che violare le regole della democrazia. Il fatto che queste posizioni provenissero da un giornalista democratico, poi, non era cer to una ragione di favore, ma di sfavore estremo da parte dei gruppi armati». Carlo Casalegno lo sa bene, ma non ha paura: «Per l’au torevolezza e la frequenza con cui interveniva – per l’autore volezza anche del giornale La Stampa, un giornalista è auto revole nella misura in cui lo è il suo quotidiano – mio padre era il giornalista più esposto a un attentato. Era già partita la cosiddetta ‘campagna di primavera’ contro i giornalisti, e per i terroristi ‘campagna’ significa sparare. Il più noto a essere colpito nel 1977 è Indro Montanelli1, ma non sarà l’unico. In Ferito a Milano il 2 giugno 1977.
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autunno, in un covo Br, viene ritrovata una lunga dichiara zione politica in cui si legge ‘alzeremo il tiro contro i giorna listi’, ribattezzati ‘agenti della controguerriglia psicologica’. In pratica, nella logica aberrante dei terroristi, i giornalisti sono dei combattenti che, in quanto tali, è legittimo colpire. Questo comunicato compare sulle pagine dell’Espresso ed è del tutto evidente che ‘alzare il tiro’ significa uccidere e non più soltanto ferire, ed è altrettanto evidente che uno dei più esposti, se non il più esposto è Carlo Casalegno». In quei giorni di novembre, a Torino, sono ancora ricove rati molti feriti «gambizzati» dalle Br. In una stanza del Cto si ritrovano insieme Rinaldo Camaioni e Piero Osella, 40 anni, capo settore analisi del lavoro alla divisione Presse dello sta bilimento Fiat Mirafiori, colpito in via Ventimiglia 36, a due passi dal Lingotto, il 10 novembre 1977. Alle Molinette, inve ce, è ancora ricoverato Nino Ferrero, 51 anni, critico cinema tografico dell’Unità, ferito in un agguato rivendicato da un misterioso gruppetto di nome «Azione rivoluzionaria». Gli hanno sparato cinque pallottole alle gambe due mesi prima, la sera del 18 settembre 1977, di fronte alla sua abitazione di via San Secondo 64: «Durante l’estate erano morti due ragaz zi di questa Azione rivoluzionaria – racconta Marina Cassi, allora giovane cronista della redazione torinese dell’Unità –, avevamo scritto quattro o cinque pezzi in tutto, due io e tre Nino. Il 18 settembre lo avevo salutato prima di uscire dalla redazione in via Chiesa della Salute, nello stesso palazzo della federazione del Pci. Lui andò a cena con le figlie e tornando a casa venne ferito gravemente, molto gravemente. Rimase in ospedale per lunghi mesi e questa cosa ovviamente ci colpì molto. Colpì tutti noi compagni e colleghi, ci fece capire come il terrorismo fosse una realtà vicina a tutti, che non riguardava soltanto le persone che erano più esposte per ragioni ogget tive, professionali. Poteva toccare a tutti, potevi scrivere una cosa che non piaceva e questi ti sparavano». Carlo Casalegno lo sa bene, ma non ha paura. Mercoledì 16 novembre 1977, «Il nostro Stato» è regolarmente in pagina. S’intitola «Scan 105
dali e bombe», un dialogo a distanza con il collega Giovanni Zucconi sulla crisi della Democrazia cristiana. Gli italiani at tendono con ansia la partita Inghilterra-Italia in programma a Wembley, che la Rai trasmetterà a colori sul primo canale alle 20.30 con telecronaca di Nando Martellini. In palio c’è la qualificazione ai mondiali di Argentina ’78. Si preannuncia una sera più silenziosa del solito. Dopo una certa ora, non tarda per la verità, corso Re Um berto è già silenzioso di suo. Un viale dritto, alberato e arioso, di quelli che ai non torinesi sembrano tutti uguali. Invece è uno dei più belli, regale nei palazzi ancor prima che nel nome. Carlo e Dedi Casalegno abitano al civico 54, a metà strada tra piazza Solferino e piazza d’Armi, poco lontano da quel male detto centro carreggiata dove, dieci anni prima, ha chiuso le ali la farfalla granata Gigi Meroni. Carlo, di solito, raggiunge la redazione di via Marenco da solo, in macchina. Negli ul timi tempi, però, il direttore Arrigo Levi preferisce accom pagnarlo. «Il direttore si preoccupa troppo», ripete spesso in redazione Casalegno: «Mio padre – ricorda Andrea – non aveva e non ha mai avuto né voluto una scorta, ma ce l’aveva il direttore Arrigo Levi, che si comportava così: la macchina del direttore, che credo fosse blindata, era scortata da un’alfetta o della polizia o dei carabinieri, sempre. Il direttore, con la sua macchina, passava a casa a prendere tutti i vicedirettori, per non fare ingiustizie, quindi anche Carlo Casalegno. Una prassi frequente, con rare eccezioni». Come il 16 novembre 1977: «Quel giorno mio padre comunica al direttore che dopo la riunione della mattina sarebbe andato dal dentista con la sua macchina. E così è successo, il dentista è l’ultimo amico ad aver visto vivo mio padre». Verso le 13 Casalegno rientra in corso Re Umberto per il pranzo. Lascia la macchina in garage, attraversa la strada e si dirige verso il portone di casa: «Arriva fino in fondo all’androne lungo e stretto, fino a che un uomo lo avvicina e gli spara quattro colpi in faccia». L’uomo è Raffaele Fiore, capocolonna torinese delle Briga te rosse, che impugna la famigerata Nagant. Alle sue spalle, 106
in copertura, c’è l’uomo che prenderà il suo posto, Patrizio Peci. «Mio padre – ricorda Andrea – viene immediatamente soccorso dalla portinaia che avverte immediatamente la mo glie di mio padre, Adele Andreis, che si precipita dalle scale. Mio padre è ancora vivo e viene immediatamente portato alle Molinette. Nel frattempo Elisabetta Andreis, suocera di mio padre, mi telefona in ufficio all’Einaudi, in via Biancamano. Mi precipito in bicicletta alle Molinette e arrivo che mio pa dre era già in camera di rianimazione». Sembra incredibile, ma Casalegno è ancora vivo nonostan te quattro proiettili al capo. Alle 14, nelle edicole di Torino, è già presente l’edizione straordinaria di Stampa Sera: «Vicedi rettore della Stampa colpito alla testa dalle Br». I torinesi im parano a conoscere anche Andrea: «Quel giorno incomincia un lungo periodo in cui sono praticamente sempre rimasto in ospedale. Avevo una sedia sdraio e dormivo in una stanzet tina vicino al reparto di rianimazione. Un gesto di vicinanza certo, ma anche di filtro, perché c’era un flusso continuo di visitatori ed era importante riceverli, dare notizie dello stato di salute di mio padre, che era gravissimo, ma non c’era la certezza che sarebbe morto. Più volte al giorno veniva emesso un bollettino medico da diffondere agli amici e alle persone che si informavano». Casalegno in fin di vita. Torino, il centro del mondo, ora si scopre epicentro della violenza politica: «In quegli anni – ricorda lo scrittore Luca Rastello – Torino era ‘orgoglio samente’, si fa per dire, la città più criminale d’Europa», set di film come The Italian Job, Torino nera di Carlo Lizzani e il campione d’incassi Torino violenta di Carlo Ausino. Le pagine della ‘nera’ cittadina raccontano, quasi ogni giorno, omicidi, sequestri di persona, rapine finite male, delitti passionali. Pa tologie fisiologiche di una città centrifuga sociale. La violenza politica no, quella stupisce, coglie impreparati, interroga. «Perché la violenza a Torino?», si chiede Stampa Sera il 23 novembre. «Perché in questa città – risponde il sindaco comu nista Diego Novelli, uno dei tanti che non ha mai sottovaluta 107
to la violenza di estrema sinistra – ancora una volta si stanno portando avanti, sia pure con difficoltà e incertezza, esperien ze nuove che avranno un peso nella vita nazionale. Esperienze di maturità che il movimento operaio torinese ha raggiunto e vissuto in questi anni con una maturità democratica che ha avuto la sua clamorosa conferma in questi giorni, come dimo stra l’adesione dei lavoratori alla protesta contro l’attentato a Carlo Casalegno». Novelli è forse troppo ottimista. Molti, og gi, ricordano una piazza San Carlo semivuota: «La piazza – ri corda Andrea – per la manifestazione organizzata subito dopo l’attentato, era in gran parte vuota. Non mi ha affatto sorpreso perché per anni avevo fatto attività politica alle porte della fabbrica e conoscevo bene l’odio operaio contro la fabbrica e il padrone. Carlo Casalegno era un giornalista della Stampa, il giornale del padrone, ed era un borghese, un moderato. Que sto non significa affatto che gli operai fossero d’accordo con le Brigate rosse, ci mancherebbe. Ma non essere d’accordo – i fatti hanno dimostrato quanto la presenza dei brigatisti o dei loro simpatizzanti in fabbrica fosse insignificante – non signi fica pretendere che perdessero un’ora di stipendio per aderire a uno sciopero che non sentivano». Passa alla storia un repor tage di Giampaolo Pansa dai cancelli di Mirafiori, pubblicato su Repubblica il 18 novembre, che scrive: «Le mie domande saranno quasi sempre le stesse. Ha letto dell’attentato al vice direttore della Stampa? Farà lo sciopero di un’ora proclamato dai sindacati? Che cosa pensa di quello che è accaduto? Non chiedo nomi, qualcuno mi guarda con sospetto. ‘Tu chi sei?’. Ma il taccuino non ferma le risposte. Ed ecco, per quello che valgono, i miei appunti: ‘Lo sciopero? Perché non abbiamo fatto anche lo sciopero contro l’aumento di stipendio dei de putati?’. [...] ‘Casalegno? I suoi articoli li ho letti, molte volte non ero d’accordo, ma lo sciopero lo farò, deve servire perché episodi di questo tipo non si ripetano’. ‘Rossi o neri, io lo sciopero non lo faccio. Ammazzano i borghesi e dobbiamo scioperare, mentre se ammazzano i compagni no! no, non lo faccio, scrivi che sono un crumiro’. ‘È giusto che lo sciopero 108
si faccia. Ma quando succede qualcosa a un operaio, quella gente lì, dei giornali, non fa neanche un minuto di sciopero’. Uno mi chiede: ‘Ehi, giornalista, se ammazzano me, tu lo fai lo sciopero?’. [...] ‘Scrivi: uno, cento, mille Casalegno. A me mi vanno bene!’». Luigi Firpo, docente di storia delle dottrine politiche, è realista: «La violenza politica di oggi non si può soffocare soltanto criminalizzandola – osserva su Stampa Sera il 23 no vembre –; chi si sente eroico soldato nella guerra di classe nutre un supremo disprezzo per il nemico che pretende di ridurlo a delinquente comune. Gli appelli alla solidarietà non riducono quello spazio di abulica indifferenza o di conni venza passiva dei troppi malcontenti nei quali i rivoluzionari armati si muovono come pesci nel mare. Dobbiamo ristabi lire un contatto, un filo non tranciato, un residuo di umanità che ci consenta di ricominciare, senza pistole, a parlare». Al dibattito partecipa anche Italo Calvino: «Gli attentati di To rino, nella loro feroce stoltezza, rispondono a un piano che vuole colpire una città che è sempre stata alla testa di ogni movimento rinnovatore della società italiana, con l’obiettivo di colpire gli uomini che hanno fiducia in uno Stato democra tico della nostra struttura sociale. È essenziale che chi non ha mai cessato di pensare e di operare per un’Italia migliore di questa, adesso non perda la fiducia e la forza di resistere a una situazione che ci darebbe in mani agli arbìtri degli scherani, all’autoritarismo e all’oppressione. Ed è essenziale capire che il terrorismo di sette misteriose non ha mai sconfitto nessuno strapotere e nessun abuso». I cronisti di Stampa Sera, il giorno dopo, si avventurano fin dentro Palazzo Nuovo, per capire cosa pensano gli studenti della violenza e del terrorismo: «Questa è la più grande città dell’Occidente con un sindaco comunista – risponde un ven tenne – e c’è la più grande concentrazione di classe operaia. Ecco perché vogliono dividerci e metterci paura». «Questa è la città più disumana che io conosca – è l’opinione di una ragazza –, nemmeno a Milano si vive in modo così schifoso. 109
E ti stupisci che qui, proprio qui, c’è qualcuno che va in giro a sparare? Non so se questa è la capitale del terrorismo, ma è sicuramente la capitale del terrore. Prova a uscire alla sera dopo le 10 e se non te ne accorgi vuol dire che sei cieco». Un altro, Toni, è il più spavaldo: «I terroristi sono operai, studen ti, gente che si è rotta il cazzo di farsi fregare dai padroni, dai sindacati, dal Pci, dai falsi rivoluzionari. È gente che ha capito che c’è un solo modo per cambiare le cose. Non lo sapevi? Sei spaventato?». L’attentato a Casalegno va oltre la stampa «borghese»: «Io non rilasciavo interviste – ricorda Andrea – ho fatto eccezio ne soltanto per un giovane, anzi giovanissimo cronista della Gazzetta del Popolo, che mi era piaciuto soltanto per la sua faccia: Ezio Mauro, che oggi è il direttore di Repubblica. E poi per due amici, Gad Lerner e Andrea Marcenaro, che mi hanno intervistato per Lotta Continua». «A colloquio con il compagno Casalegno dopo l’attentato a suo padre» esce il 19 novembre 1977 ed entra nella storia. «Il messaggio che mi premeva comunicare – spiega oggi Andrea – era naturalmente un messaggio contro la lotta ar mata. Mi premeva dire che anche quando si è in disaccordo con l’avversario, questa non è una buona ragione per assas sinarlo. Io stesso ero in disaccordo, in profondo disaccordo, politicamente con mio padre, ma questo non ci ha mai impe dito né la frequentazione né tanto meno il rispetto recipro co. Mi premeva dire che la lotta armata era totalmente sba gliata, che non c’era nessuna possibilità di farla rientrare in una qualche forma di realtà rivoluzionaria, e non avevo certo aspettato questo doloroso fatto personale per capirlo. Fin da gli inizi della mia attività politica avevo sempre considerato l’attentato individuale non solo politicamente sbagliato ma anche dannoso per il movimento operaio e rivoluzionario. Non era il caso di farne una questione morale, di questo al let tore medio di Lotta Continua importava molto meno. C’era una diffusa ideologia per cui la morale valeva soltanto per i propri militanti e amici, ma non per gli avversari. Un mes 110
saggio che è stato fedelmente riportato, seguito da una serie di considerazioni su mio padre, che erano addirittura ovvie ma che evidentemente suonavano stranissime a un pubblico così distorto dalla propria ideologia secondo cui l’avversario è necessariamente anche cattivo. A un simile infantilismo, evidentemente, io non ho mai lasciato spazio, perché sono una persona sensata, non si può essere così stupidi. Per me era talmente ovvio che non sarebbe stato neanche necessario dirlo. Purtroppo, invece, lo era». Per giorni e giorni, il celebre spazio delle lettere a Lotta Continua è spesso occupato da interventi sull’intervista di Ler ner e Marcenaro: «Molti – è ancora Andrea parlare – hanno pubblicamente bruciato la copia del giornale, a volte davanti alle fabbriche, sostenendo che sì, le cose dette da questo ex militante si potevano anche perdonare date le condizioni. Ma mai e poi mai due militanti come i giornalisti avrebbero do vuto stampare quelle cose sul giornale. Non mi ha sorpreso». Ma cos’ha detto di tanto indigesto il «compagno Casalegno»? Cose così, racconta Andrea a Lerner e Marcenaro: «Quel che è successo è solo la conferma di cose su cui già da tempo ri flettevo. Se mi chiedete il mio parere sul perché dei compagni del 1968 possano finire a fare i brigatisti in quella assoluta disumanizzazione io non ho una risposta pronta. Certo che non è un problema di oggi, perché hanno colpito mio padre; già da tempo ci sono in giro degli atteggiamenti che in qual che modo portano su questa china [...], ricordate la strage di Lod, in Israele, quando furono uccisi a mitragliate decine di passeggeri dai militanti del Fplp? Io in quel periodo ero in galera, con altri compagni, e pensavo che azioni del genere erano pazzesche, non si poteva condividere niente, come ri voluzionari. E poi avevamo saputo che ‘fuori’ qualche com pagno aveva pensato che quella strage era comprensibile, se non giustificabile, per via del dramma del popolo palestinese. [...] Il secondo esempio che ricordo è quello del sequestro di Macchiarini, quel dirigente della Sit-Siemens, una delle loro prime azioni; a noi di Lc quel rapimento non era dispiaciuto, 111
perché, dicevamo – e forse era vero –, un sacco di operai ne erano contenti. Però quello era il primo passo nella logica che li ha portati a sparare in faccia a mio padre, senza neppure conoscerlo. C’è dietro un’idea dell’umanità e una concezione della lotta di classe che mi avevano spaventato fin dall’allora [...] devo ripetervi che con lui io non sono d’accordo proprio su niente [...] ma chi crede veramente che queste cose lui le scrivesse perché qualcuno, cinque minuti prima, gli telefona va da Roma, ha davvero un’idea stereotipata di Carlo Casale gno e della gente come lui. [...] Perché dovremmo ridurre gli uomini a dei simboli comodi, semplificando e stravolgendo la realtà, senza capire che dietro di loro vi è una storia e deter minate concezioni intellettuali – come quella liberale – anco ra esistenti?». Carlo Casalegno lotta tra la vita e la morte nel reparto rianimazione delle Molinette. Nei primi giorni il suo giornale segue con apprensione il suo stato di salute: «Alle 15 e 10 ha ripreso conoscenza» (17 novembre). «Casalegno resiste. Condizioni migliorate nonostante il volto sfigurato» (18 novembre). «Casalegno è sempre grave ma migliora. Co mincia a scrivere brevi messaggi su pezzettini di carta» (19 novembre). Poi, via via, le notizie si fanno più rade, fino a scomparire. Torino e la sua vita proseguono rutilanti. Stampa Sera del 20 novembre dà notizia del primo cine-sex in Italia: «Non più all’estero i pendolari del porno» e qualcuno arriva a proporre un buono sconto per i pensionati. «Torino emar ginata dal turismo» lamenta La Stampa del giorno successivo. Il 24 novembre fa discutere lo strip televisivo della casalinga Graziella Bongioanni, in onda a notte alta su TeleTorino In ternational. Il 26 la notizia è che la torinese Miki Biglia è la prima portiera d’albergo donna in Italia, mentre il 27 i gior nali si soffermano a lungo sulla tragedia di Giorgio Appella, 13 anni, ucciso «mentre andava a comprare l’aranciata per papà» in via Lancia 87, durante un assurdo e maldestro ten tativo di rapina in un supermercato. Le pubblicità delle radio Fm a transistor annunciano la possibilità di sintonizzarsi sulle radio libere, «una per una». 112
Il pomeriggio del 29 novembre Stampa Sera esce di nuovo in edizione straordinaria. Casalegno è morto: «L’agonia – ri corda Andrea – è durata tredici giorni e si è conclusa intorno all’una, mi pare, del 29 novembre 1977, che è anche, ma que sto non mi sembra particolarmente significativo, il giorno del mio compleanno. Ho compiuto 33 anni esattamente il giorno in cui mio padre è morto. Il funerale si è svolto il 1° dicembre. Prima una camera ardente alla Stampa, poi una messa molto affollata alla chiesa della Crocetta. Quindi abbiamo sepolto mio padre nella tomba di famiglia al cimitero monumenta le. Il 1° dicembre, una giornata molto triste, molto grigia, di pioggia. In quei tredici giorni c’era stata spesso la neve». Andrea ritorna in quell’androne di corso re Umberto 54, lungo e stretto come tanti palazzi signorili di Torino. Colpisce che sulla strada nulla ricordi l’omicidio di Carlo Casalegno. La città ha considerato sufficiente la lapide che il suo gior nale ha posto nell’atrio di via Marenco 54, nascosta dietro una parete di vetri a specchio: «Forse perché eravamo sol tanto affittuari», sorride Andrea. Ma il palazzo si è incaricato di tenere stretta una memoria tutta sua: la gabbia di ferro dell’ascensore conserva un piccolo foro circolare sulla sini stra della porta. Il segno di una pallottola di Nagant. «È lì da quel giorno», confida la giovane portiera. Lei non c’era, ma i custodi che si sono succeduti hanno tramandato quel picco lo, grande simbolo di ciò che lì, di fronte al loro gabbiotto, un giorno accadde e uscì nel mondo. Andrea lo vede per la prima volta trentatré anni dopo la morte del padre.
Il processo deve ricominciare
Albertino qualche volta scappa. Corre per i prati intorno alla Casa del Sacro Cuore di Montaldo Cerrina e grida a tutti di non preoccuparsi: «Vado a casa mia». Dopo pochi minuti torna stanco e avvilito. Una casa non c’è, i genitori lo hanno abbandonato fin dalla nascita. Ora, a 9 anni, vive e studia al Sacro Cuore e a scuola va anche parecchio bene. Il 3 agosto 1967 Albertino ingoia una biglia di vetro dopo un litigio con un compagno. All’ospedale di Casale Monferrato riceve le cure del caso, ma poi si ammala. Costretto a letto, Albertino è ansioso e irrequieto. I medici si spaventano, lo trasferisco no in neurologia, lui tenta la fuga e spacca tutto quello che trova a portata di mano. Il 25 agosto, tre settimane dopo, un’ambulanza porta Albertino a Villa Azzurra, centro psicomedico-pedagogico di Collegno. Dopo alcuni mesi di rico vero, nell’aprile 1968, un’assistente sociale ascolta i racconti di Albertino e invia un rapporto al presidente del Tribunale dei minori di Torino: bambini e ragazzi legati al letto per giorni e giorni, incontri di lotta appositamente organizzati per risolvere le liti incorse tra i giovani pazienti e, soprattut to, «l’elettromassaggio pubico» per punire e controllare ogni manifestazione di irrequietezza. Il direttore di Villa Azzurra è uno psichiatra di 44 anni. Si chiama Giorgio Coda, ma per molti è soltanto «l’elettricista». Il 26 luglio 1970, due anni dopo l’informativa dell’assi stente sociale al Tribunale dei minori di Torino, L’Espresso pubblica la foto di una bambina nuda, legata mani e piedi alle sbarre del letto, grandi occhi neri, sguardo profondo e 114
rassegnato. Scoppia lo scandalo. Il 4 luglio 1974, di fronte al Tribunale di Torino, inizia il processo al professor Giorgio Coda1. Per la prima volta in Italia i pazienti di un ospedale psichiatrico sono chiamati a testimoniare come tutti gli altri cittadini. A fine dibattimento, il pubblico ministero chiede l’assoluzione dell’imputato, ma l’11 luglio 1974 il Tribunale condanna Coda a cinque anni di carcere: «Colpevole – scri vono i giudici – perché ha fatto un cattivo uso delle terapie mediche: i trattamenti ai quali egli sottopose i suoi pazien ti, elettromassaggi ed elettroshock in regione transcranica e lombopubica. Già allora la scienza offriva farmaci capaci di attutire la spaventosa sofferenza, perché tale era nel ricordo dei malati, provocata dagli elettromassaggi: ma egli non ne ha fatto uso. Le testimonianze portate al processo devono essere ritenute degne di fede. Sono spaccati di vita troppo personali per essere inventati e trovano oltre tutto riscontro obbiettivo con testimonianze di altri testi la cui attendibilità non può essere messa in discussione». Coda lascia la direzione di Villa Azzurra e si dedica all’at tività ambulatoriale a Torino. Riceve i pazienti al primo piano di via Goffredo Casalis 39, quartiere Cit Turin. Alle 18.40 del 2 dicembre 1977, quattro uomini a volto scoperto suonano alla porta: «Aprite, polizia!». La segretaria apre e viene imme diatamente rinchiusa in bagno. Il commando irrompe nella stanza di Coda, allontana il paziente e affronta il professore. Coda tenta di afferrare la pistola con cui viene minacciato, ma viene sopraffatto a calci e pugni. È già a terra sanguinante quando sente dire: «Ecco cosa capita a chi legava i bambini al termosifone perché non urlassero». «L’elettricista» ha i polsi legati al calorifero e un cartello al collo: «Il proletariato non perdona i propri torturatori». Due colpi lo raggiungono alle spalle, il terzo gli spappola un ginocchio. Poi la pistola, una 7,65, s’inceppa. Dopo pochi minuti la segretaria riesce a dare 1 L’intera vicenda è narrata in Portami su quello che canta di Alberto Papuzzi, Torino 1977.
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l’allarme. Coda viene trasportato al vicino ospedale Maria Vit toria. La redazione della Gazzetta del Popolo non è lontana; quando arriva il ferito Ezio Mauro è già sul posto: «Arriviamo al Maria Vittoria insieme con l’ambulanza. Ricordo di essere entrato insieme a lui, alla testa del letto dov’era steso. E quan do gli aprono i vestiti, quando vedono i colpi alle ginocchia, alle spalle, il medico dice: ‘Cristo, lo hanno crocifisso! Ma lei chi è, perché l’hanno ridotta così?’. Lui non parlava, rifiutava di dire il suo nome. Poi è arrivato il primario, ha guardato in che condizioni lo avevano scarnificato e anche lui ha detto: ‘Ma che cosa ha fatto perché la riducessero così?’. E poi, so lo dopo molte insistenze, ha detto: ‘Mi chiamo Coda’. Nella stanza è sceso il gelo. Ricordo di essere tornato al giornale e di aver chiesto al direttore di poter fare, oltre alla cronaca, anche un commento in prima pagina. Perché i terroristi, in quel caso, tentavano di travestirsi da Robin Hood, di eser citare giustizia a modo loro, colpendo un personaggio con lo stigma della riprovazione del corpo sociale e, in nome di questa riprovazione, colpirlo, in modo – pensavano loro – più deciso e immediato che la giustizia di un tribunale. Ricordo che, con la sapienza dei trent’anni, anzi meno, avevo scritto che la giustizia in una democrazia la può applicare soltanto un tribunale secondo le leggi, e nessuno può esercitare la giu stizia in nome del popolo. Dirlo adesso è pacifico, ma allora le cose si vivevano momento per momento». La «crocifissione» di Giorgio Coda viene rivendicata dalla «Squadre di azione proletaria», una sigla fino a quel momento sconosciuta. Ma sono in tanti, a Torino, a pensare una cosa sola: «Lo hanno fatto per lui», Albertino, il bambino seviziato a Villa Azzurra. Nel Movimento, infatti, lo conoscono molto bene. È Alberto Bonvicini, il ragazzo del Galileo Ferraris, del circolo Barabba e dell’assalto all’Angelo Azzurro. Coda, da carnefice, è diventato vittima. Tornano in mente le parole pronunciate poche settimane prima da Italo Calvino: «Il terrorismo di sette misteriose non ha mai sconfitto nessuno strapotere e nessun abuso». E le «sette misteriose» si molti 116
plicano. Il ’77 si disgrega in mille rivoli di violenze marginali e autoreferenziali. Il rivoluzionario non è più soltanto un volon tario dell’emarginazione, un clandestino che rifiuta di vivere nel mondo che pretende di cambiare. La violenza del rivo luzionario, dall’Angelo Azzurro in poi, è nichilismo diffuso, un corollario quotidiano facile da respirare come fosse aria. La violenza è moda: «Si percepiva chiaramente il fascino che l’estremismo di confine con i gruppi armati esercitava su certi giovani – racconta il sociologo Carlo Marletti –. Io lo percepii chiaramente all’università, dove già allora insegnavo. Del re sto la violenza era quotidiana. Tenere i giovani lontani dalle armi divenne per noi un compito assolutamente primario. Ricordo sempre con piacere un seminario su media e terrori smo a cui parteciparono molte ragazze, i cui fidanzati erano decisamente borderline. Ho l’impressione che qualcuno lo abbiamo salvato». «Sicuramente nei percorsi individuali di molti ragazzi c’è stata anche molta sfortuna – ricorda Marina Cassi, oggi gior nalista della Stampa – nel senso che dipendeva dall’amico che avevi, dalla scuola, e soprattutto dalla famiglia. Se avevi una famiglia che ti dava una mano a capire che stavi facendo una bestialità assoluta, potevi scampare il rischio. Sono convinta che molti siano finiti in storie drammatiche anche perché non hanno avuto intorno degli insegnanti, dei compagni, dei geni tori, degli amici che li hanno aiutati a non finire così». Torino, 1978. La città ha 1.120.000 abitanti, 80.000 in meno rispetto al picco del 1973; 60.000 persone lavorano alla Fiat di Mirafiori, altre decine di migliaia allo stabilimento di Rivalta e, calcolando l’indotto, è difficile trovare una famiglia che non abbia in qualche modo un rapporto più o meno prossimo con l’azienda di corso Marconi. La Juventus continua a vincere gli scudetti e il Toro resta grande, anche se il primato del 1976 è già un ricordo. La città è popolata di decine, forse centinaia, di ragazzi coscientemente disposti a sparare e dare la morte per una causa superiore. Per la rivoluzione, di solito, escono la mattina presto, oppure, quando gli orari lo consigliano, nel 117
tardo pomeriggio. Poi scompaiono da dove sono venuti e per anni sembrano invisibili ai più. Il battesimo del 1978 è il 10 gennaio alle 19.40 in via don Grazioli 10, non lontano dalla Grande Fabbrica. Gustavo Ghirotto, 46 anni, caposala del reparto Esperienza veicoli dello stabilimento di Mirafiori, ha appena parcheggiato la macchina nel box in cortile quando tre uomini gli si fanno incontro. Ghirotto non ha nemici, ma capisce subito. Istintivamente si ripara con il braccio sinistro a coprire il volto. Poi, nove colpi di Nagant e di 7,65 spara ti a pochi centimetri di distanza: cinque vanno a segno, sul polso, sulla gamba e sul ginocchio sinistro. Poco dopo, come di consueto, la rivendicazione all’Ansa: «Qui Brigate rosse. Abbiamo colpito Gian Carlo Ghirotto, dirigente delle Presse Fiat di Rivalta». Il giornalista risponde: «Gian Carlo, Rivalta? Veramente, il ferito si chiama Gustavo e lavora a Mirafiori». Il mistero è presto svelato: Gustavo ha un gemello di nome Gian Carlo che abita a pochi isolati di distanza. Il commando (di cui fanno parte Patrizio Peci e Cristoforo Piancone) voleva fe rirne uno e colpisce l’altro. Ma la certezza rivoluzionaria non conosce autocritica. Tutti e due lavorano in Fiat, dunque uno vale l’altro. L’11 gennaio un volantino firmato a cinque punte spiega: «Il nucleo armato delle Brigate rosse aveva il compito di colpire il capo fabbricazione del settore Presse della Fiat di Rivalta Ghirotto Gian Carlo. L’errore di persona non ha però fatto fallire l’obiettivo, pur colpendo il fratello Gustavo. Non creda il Ghirotto Gian Carlo, servo della multinazionale Fiat, che sia finita così e di poter impunemente continuare la sua opera di attacco contro gli operai: la prossima volta non ci saranno gemelli a salvarlo». Gli uomini sono simboli, non persone in carne e ossa: «Non è giusto vivere così. Ci ammaz zano anche psicologicamente», commenta Lidia Buri, moglie di Gian Carlo Ghirotto. «Chi non ha vissuto a Torino in quegli anni – ricorda Ezio Mauro – non può capire cosa significhi la cappa del terrori smo che soffoca una città». La cappa del 1978 è una fuliggine spessa, visibile a tutti. I giardini intorno all’ex caserma La 118
marmora, di fronte alle Carceri Nuove e all’antico mattatoio, si popolano di militari in assetto da guerra; casematte e for tilizi intorno agli ingressi di via Nino Bixio, uomini in armi appostati addirittura in cima agli scivoli per bambini, sacchi di sabbia e filo spinato alle finestre dei palazzi circostanti. Gli automobilisti che viaggiano per corso Vittorio Emanuele rallentano e qualche volta non credono ai loro occhi. I più an ziani sussurrano: «Sembra il 1945...». Dopo i rinvii del 1976 e del 1977, il «processone» ai capi storici delle Brigate rosse deve ricominciare. La Corte si è spostata dal vecchio Palazzo di Giustizia ai più comodi e spaziosi locali della Lamarmora. L’imputazione è sempre la stessa: «banda armata», il delitto più grave è il rapimento Sossi. La ferita del maggio 1977, l’esecuzione dell’avvocato Cro ce e il conseguente fuggi-fuggi dei giurati popolari, è ancora viva. Le premesse non sono delle migliori: dal 17 febbraio al 1° marzo si susseguono tre estrazioni e soltanto quattro cittadini accettano senza esitazione. Uno di loro, un giovane operaio Fiat, è però costretto a rinunciare quasi subito. Un giornale ha fatto il suo nome e ha subìto pesanti minacce. Di fronte al presidente della Corte d’Assise Guido Barbaro sfi lano centinaia di torinesi. La maggior parte declina l’incarico accampando improbabili scuse. I cronisti, non senza sarca smo, ne riportano alcune tra le più inverosimili, annotando meticolosamente l’insofferenza di Barbaro, «un uomo solo nella grande città – scrive Sergio Rocchetti sulla Stampa – che vive, tra torpore e impalpabile paura, le ore in attesa del pro cesso-mostro». La svolta è il 6 marzo. Dal bussolotto esce il nome del segretario nazionale del Partito radicale, la torinese Adelaide Aglietta, che accetta e comunica la decisione al Pae se in una conferenza stampa. Un gesto che spinge altri tre cit tadini ad accettare l’incarico subito dopo. La giuria («i merli di Santa Rita», dal titolo del diario di un giurato distribuito in ciclostile negli anni successivi) è completa. Alle 11 di mer coledì 8 marzo 1978, mentre le Brigate rosse irrompono nella sede romana di Radio radicale, il processo, dopo quasi due 119
anni, può finalmente cominciare. Ad accogliere gli imputati, ora, c’è una gabbia. Come nel 1976 prende la parola Paolo Maurizio Ferrari: «A due anni dall’inizio di questa battaglia – legge il «colonnello» tra una cascata di flash – una cosa sola è molto chiara, la vostra crisi è esplosa incontenibile in tutti gli interstizi della società e la ristrutturazione imperialistica dello Stato in cui vi siete prodigati...». Il presidente Barbaro lascia fare. A fine udienza, alle 13.30, i cronisti avvicinano Gianni no Guiso, difensore di Renato Curcio (e futuro avvocato di Bettino Craxi), uno dei pochi legali a cui non è stato revocato il mandato. Guiso riporta le parole di Curcio che minaccia: «Il processo non si farà soltanto nei locali dell’ex caserma. È uno scontro politico-militare che riguarda l’intero movimen to rivoluzionario. Si tradurrà in uno scontro fisico in tutto il territorio nazionale». Il messaggio è fin troppo chiaro. Rosario Berardi ha 53 anni. È a Torino dal 1970, quando partì dalla Puglia insieme alla moglie Filomena e ai cinque figli Rosa, Giovanni, Bruno, Salvatore e Agata. «Un’auto vecchia corre / da Scilla a Torino / dentro ci sono dieci occhi / e uno stesso destino», canta Lucio Dalla nel 1973 in Un’auto targata «TO». Rosario e la sua famiglia non partono da Scilla ma da Bari e il destino del capofamiglia è diverso dai «terroni», con dannati «mattoni su mattoni, a costruire per gli altri apparta menti da cinquanta milioni». Rosario è in polizia fin dal 1946, prima ha combattuto i nazisti a fianco degli alleati ed è stato insignito con una medaglia d’argento al valor militare dopo la battaglia di Cassino. Nel 1974 Rosario Berardi, già comandan te della squadra di polizia giudiziaria, entra a far parte del nu cleo antiterrorismo della polizia di Stato coordinato da Emilio Santillo (alter ego in divisa blu del generale dell’Arma Carlo Alberto Dalla Chiesa) fino al 1976 quando, con una decisione ancora oggi misteriosa, i nuclei speciali vengono sciolti. Dal 31 luglio 1976, quindi, è comandante dei servizi di sicurez za. C’è una foto che i giornali pubblicano il 28 maggio 1974: dietro a Paolo Maurizio Ferrari, appena arrestato, si scorge il volto inconfondibile del maresciallo Berardi. Un’altra foto, 120
del maggio 1977, lo ritrae durante la perquisizione dell’ap partamento in cui sono stati bloccati i militanti di Prima Li nea Giulia Borrelli, Marco Scavino e Enrico Galmozzi, allora sospettati dell’omicidio del brigadiere Ciotta. In città Berardi è un volto noto, anche per quella pipa sempre stretta tra i denti. È il braccio destro del capo dell’antiterrorismo torinese dottor Criscuolo e partecipa a tutte le azioni. Un lavoro a forte rischio, in una città bersagliata dalla violenza politica. Pensa di essere fuori dalla tempesta quando, nel gennaio 1978, vie ne trasferito al comando del posto fisso di Porta Palazzo, da sempre zona «calda». «Porta Pila» è tante cose: fascino, popo lo, tradizione, immigrazione, piccola e grande criminalità. La politica, però, c’entra poco. Il grande mercato di piazza della Repubblica entra nelle cronache del terrorismo soltanto per la figura di Cesarina Carletti, meglio nota come «Nonna Mao», la «pasionaria» del processo alle Br. Non perde un’udienza fin dal maggio 1976: capelli raccolti, grandi occhiali scuri, «Cesi», ex partigiana, deportata dai nazisti a Ravensbrück, è sempre pronta a scattare con il pugno chiuso. Poi, nel processo, fini sce anche lei, come imputata a piede libero perché scoperta a custodire volantini di propaganda tra la merce del suo banco di casalinghi a Porta Palazzo. Sarà assolta. A Porta Palazzo, forse, Rosario Berardi si sente più tran quillo. I figli, fatta eccezione per Agata, la più giovane, hanno tutti un lavoro: «Ancora la piccola da sistemare – confida agli amici – poi me ne vado con la mia vecchietta». Quella del processo che è appena ripreso alla Lamarmora è una storia che lo tocca da cittadino più che da poliziotto. Il 10 marzo 1978 Berardi esce di casa poco dopo le 7.30: «Mi raccomando guagliò!» sono le ultime parole che il figlio Giovanni ricorda di aver sentito da suo padre. Pochi passi fino a largo Belgio, all’angolo con corso Regina Margherita, per raggiungere la fermata del tram numero 7. Da una 128 blu, parcheggiata nel controviale, quattro persone (Nadia Ponti, Cristoforo Pian cone, Vincenzo Acella e Patrizio Peci) riconoscono Berardi e in un attimo gli sono addosso: tre pallottole alla schiena, poi 121
quattro al capo e al torace. Un’esecuzione spietata, a colpi di Nagant e 7,65, in mezzo a decine di persone. Eccolo, lo «scon tro fisico» evocato da Renato Curcio: un feroce agguato alle spalle di un uomo disarmato. Pochi minuti dopo la consueta telefonata all’Ansa: «Qui Brigate rosse, abbiamo colpito noi Berardi Rosario. Seguirà comunicato». Il volantino, rinvenuto in una cabina telefonica di largo Cibrario, rivendica l’elimi nazione «del capo torinese del Sisde, braccio destro dell’ex capo regionale del Sid con cui aveva fondato i famigerati Nat [nuclei antiterrorismo]». L’omicidio viene inquadrato in un più ampio attacco «alla struttura militare del nemico», poi una chiara allusione al processo ripreso il 9 marzo: «Il potere si illude di poter fare il processo alla rivoluzione proletaria nelle aule di tribunale». Anni dopo, al processo del 1983, si scoprirà che Berardi era stato scelto come obiettivo perché il brigatista Andrea Coi aveva scoperto «per caso» dove abitasse. L’11 marzo la città celebra i funerali del maresciallo Berar di. Tanta gente così non si era mai vista: 10 forse 20.000 per sone sfilano alla camera ardente e dietro al feretro. Vittorio Zucconi, sulla Stampa del 12 marzo, annota il suo dialogo con un sindacalista: «Ho l’impressione che sia successo qualcosa di nuovo a Torino, anche se ancora non lo percepiamo in pie no. È finalmente iniziato il processo alle Br e hanno sparato a Berardi e con lui hanno ucciso le ultime illusioni di trovare spazio e complici nelle fabbriche. Il maresciallo era uno come noi, uno che va a piedi, il padre di cinque figli, un poliziotto democratico». Oggi largo Belgio si chiama largo Rosario Berardi. C’è an cora la fermata del tram, ma Vanchiglia, il «borg del fum», non è più lo stesso. Supermercati al posto delle ciminiere e una nuova sede dell’università dove un tempo c’era l’enorme gasometro di corso Regina Margherita. Gli studenti, ormai, sono tutti nati dopo il 1978. Il processo alla Lamarmora riprende regolarmente. I bri gatisti nelle gabbie inneggiano alla morte di Berardi, lo «scon tro fisico» non è che all’inizio: il 16 marzo 1978 a Roma, do 122
po aver ucciso cinque uomini di scorta, un commando delle Brigate rosse rapisce Aldo Moro. Il 21 marzo il presidente Guido Barbaro impedisce la lettura in aula di un comunica to, in cui gli imputati si assumono la responsabilità politica della strage di via Fani e del sequestro del presidente della Democrazia cristiana: «Abbiamo sempre detto che il regime non può processare la rivoluzione – si legge – ora è la rivo luzione che processa il regime». L’Italia è militarizzata: «A Torino la mala è disoccupata, troppi posti di blocco», titola La Stampa. La mala sì, non le Brigate rosse, che il 24 marzo, con un rituale ormai collaudato, feriscono gravemente l’ar chitetto Giovanni Picco, ex sindaco democristiano dal 1973 al 1975, aggredito in via Giacosa 31, quartiere San Salvario, nel tardo pomeriggio. Picco, raggiunto da numerosi proiettili alla spalla e alle gambe, è vivo per miracolo. Chi esplode colpi di Nagant è ancora un fantasma. Tut tavia sigle, attentati, episodi di violenza si susseguono senza tregua. Un’escalation che, unita a un livello di guardia natu ralmente oltremisura, riempie le patrie galere. Quello delle carceri è un nuovo fronte di guerra, una battaglia disperata che, con il pretesto del dramma della detenzione, si scatena sul difficile ruolo dell’agente di custodia. Lorenzo Cutugno vive in lungo Dora Napoli 60, sulle rive del fiume operaio di Torino. Proprio in quel punto le acque riemergono dopo un paio di chilometri in cui la città del XX secolo le ha costrette al buio, sotto tonnellate di tubi e cemen to: Teksid, Officine ferroviarie Savigliano, Michelin, un intero quartiere di ciminiere e altiforni in lenta marcia verso l’estin zione. Oggi le cattedrali della manifattura sono scomparse, al posto di cavalcavia e traversine ci sono prati, tetti ecologici e gli immancabili centri commerciali. Sopravvive (ancora per poco) un piccolo velo di cemento che per cent’anni ha nascosto ai torinesi un lembo di quel fiume che sa di montagna. La Dora, oggi, continua a riemergere di fronte al «Fortino» dove Cesare Pavese amava trascorrere le notti della sua «bella estate». Esat tamente come il giorno in cui Lorenzo Cutugno morì. 123
Lorenzo ha 31 anni, una moglie e una bimba di 4 anni. È agente di custodia presso le Carceri Nuove di Torino dal 1971. Inizialmente lavora al casellario, dove i detenuti lascia no in custodia i loro beni, poi – dopo qualche tempo – viene trasferito all’ufficio colloqui. Non è un bel posto: mediando tra detenuti e mondo esterno, si rischia di scontentare qual cuno. E alle Nuove, da quando sono arrivati i «politici», l’aria è particolarmente pesante. Lorenzo non fa che pen sare al trasferimento, da quando anche il giornale ha par lato di lui. È una breve notizia sulla Stampa del 18 gennaio 1978: «Attentato all’auto di una guardia carceraria di fronte all’istituto di pena di corso Vittorio Emanuele 127. Ignoti verso le 16 di ieri hanno posto sotto la vettura, una 128, una borsa di plastica, nella quale c’era un contenitore con della nafta. C’è stato un incendio, subito domato, che ha dan neggiato la vettura. L’agente, Lorenzo Cutugno, 31 anni, era in servizio all’interno del carcere. Polizia e carabinieri stanno svolgendo indagini». Lorenzo ripensa a quel giorno del novembre 1977, quando era sembrato che qualcuno lo volesse investire. Cutugno ottiene il trasferimento nel marzo 1978. Il 6 apri le dovrebbe già essere in servizio presso il manicomio giudi ziario di Barcellona Pozzo di Gotto, provincia di Messina. È pronto per il trasloco, ma il direttore delle Nuove chiede an cora qualche giorno di servizio. A metà mattina dell’11 aprile 1978, giorno in cui i giornali del mattino riportano la notizia del grave ferimento del ginecologo Ruggero Grio, colpito dalle «Squadre proletarie di combattimento» nel suo studio di corso Massimo D’Azeglio 60, un fonogramma urgente da Barcellona Pozzo di Gotto sollecita l’arrivo dell’agente Cutu gno. Ma a quell’ora Lorenzo è già morto: saluta la moglie po co dopo le 7.30, s’infila in ascensore, quando arriva al piano terra, non appena le porte si aprono, sul pianerottolo lo atten de un uomo che gli scarica un intero caricatore nelle gambe. Lorenzo è un uomo robusto, riesce a sollevarsi e a rincorrere gli aggressori. Raggiunge chi gli ha sparato e lo colpisce più 124
volte. Ha quasi esaurito il caricatore, quando viene fulminato da due colpi alla nuca, esplosi a bruciapelo. Poco dopo, al pronto soccorso dell’Astanteria Martini, una 124 blu scarica un uomo gravemente ferito. Si chiama Cristoforo Piancone, ha 28 anni. Prima di entrare in sala ope ratoria annuncia agli infermieri: «Sono stato colpito durante un’azione di guerra. Mi considero un prigioniero di guerra». Piancone è il primo brigatista di seconda generazione a esse re catturato. Le Brigate rosse rivendicano l’assassinio della guardia carceraria Lorenzo Cutugno: «Abbiamo colpito un noto picchiatore della squadra dei sardi». Lorenzo veniva da Milazzo, in provincia di Messina. Il giorno dopo tutto il quartiere passa per lungo Dora Napoli. Molti appoggiano sul bordo fiume un mazzo di fiori. Il 13 aprile la foto del corpo senza vita di Lorenzo Cutugno compare sulla prima pagina del quotidiano parigino France Soir, sotto il titolo «Dans le rues de Turin-La-Terreur» («Il terrore per le strade di Torino»). L’Italia si abitua alla scansione periodica dei comunicati delle Brigate rosse sul sequestro Moro. Tutti discutono se sia giusta la linea della fermezza o se abbia ragione il Psi, soste nitore dell’opportunità di una trattativa. La prigionia del pre sidente della Democrazia cristiana si prolunga per un tempo indefinito fino a diventare familiare, quasi come le grida dei feriti a Torino. Il 27 aprile 1978 tocca all’undicesimo capo Fiat in meno di tre anni. È Sergio Palmieri, 39 anni, capouf ficio analisi del lavoro presso la direzione Relazioni sindacali della carrozzeria Mirafiori, colpito alle 7.30 di mattina in via Guala 115, mentre aspetta l’autobus numero 63 per andare al lavoro. L’ennesima, estenuante ripetizione di un rito collau dato: due uomini, una donna, la Nagant 7,62, una 128 rubata e la rivendicazione delle Brigate rosse. Sull’asfalto rimangono sette bossoli, Palmieri finisce al Cto con i femori spezzati. Tra i primi a fargli visita il collega Rinaldo Camaioni, ferito sei mesi prima, all’ospedale per una visita di controllo: «Non ne lasciano guarire uno che già ne feriscono un altro». 125
Il 7 maggio 1978 termina il campionato di seria A. Le due torinesi si piazzano ancora ai primi due posti, ma quest’anno non c’è stata storia: il Torino non ha quasi mai insidiato il pri mato della Juventus. Il 9 maggio 1978 a Roma, nel bagagliaio di una Renault 5 rossa parcheggiata in via Caetani, viene ri trovato il corpo di Aldo Moro. Il giorno seguente gli imputati sotto processo a Torino rivendicano l’assassinio: «L’atto di giustizia eseguito nei confronti di Aldo Moro – comunicano – è il più alto atto di umanità possibile in questa società divisa in classi». Una settimana dopo, il 17 maggio, un altro ferimento a Torino, ma questa volta il rituale cambia: Roberto Demarti ni, 26 anni, agente della Digos, abita in via Salerno 29, poco lontano dal lungo Dora dove un mese prima è stato ucci so Lorenzo Cutugno. Alle 8 del mattino, quando è già alla guida della sua 126, viene affiancato da una Vespa con due persone a bordo. Uno dei due esplode quattro colpi contro Demartini, che riesce a uscire dalla macchina e a dare l’al larme. Poco dopo la rivendicazione telefonica: «Qui Prima Linea, formazione combattenti comuniste. Abbiamo giusti ziato lo sbirro di via Salerno. Non sbagliate la firma. Prima Linea». Ci tengono a far sapere di non essere le Brigate rosse. La reputazione è tutto, la confusione nuoce alla rivoluzio ne. Torino, suo malgrado, imparerà a conoscere bene anche questa nuova sigla. Per fortuna della vittima, però, la tec nica militare è meno collaudata di quella delle più note Br. Roberto Demartini, nonostante un proiettile conficcato nel collo, se la caverà. L’agente aveva fatto parte della squadra antiterrorismo di Rosario Berardi. Il nome di Demartini era sull’agenda sottratta al maresciallo Berardi dai suoi assassi ni. Quasi tutti gli uomini presenti in quell’agenda erano già lontani da Torino; Demartini, invece, era ancora in attesa di trasferimento. Nonostante la dittatura militare al potere dal 1976 (re sponsabile della morte di 30.000 desaparecidos) nessun Pae se ha ritenuto opportuno boicottare i mondiali di calcio in 126
Argentina, inaugurati il 1° giugno 1978. L’Italia è attaccata al televisore e alle telecronache di Nando Martellini. Gli Az zurri di Bearzot sono per la quasi totalità o giocatori della Juventus (nove) o del Torino (sei), anche se il «vecio» punta soltanto sul «blocco Juve». La sera dell’8 giugno è l’anti vigilia del match clou Italia-Argentina. Forse, finalmente, giocheranno insieme anche in azzurro Pulici e Graziani, che negli ultimi quattro anni con la maglia del Torino hanno re alizzato 126 reti. Lo stesso giorno, all’ospedale Maria Vitto ria, è stato praticato a Torino il primo aborto a norma della nuova legge: «Siamo in otto e viviamo in due camere. Non potevamo avere un altro bambino», dichiara la donna. L’of fensiva cattolica contro la legge sull’aborto mette i medici nell’occhio del ciclone. Anche Giacomo Ferrero, 50 anni, è un medico, ma le interruzioni di gravidanza non sono il suo campo. Però nel suo studio di via Ferrante Aporti 7, elegan te precollina, tiene un busto del duce e un quadro con una filastrocca inneggiante a Mussolini. E nel 1977 è stato anche condannato a otto mesi di carcere per una storia di usu ra. Ce n’è abbastanza perché un commando delle Squadre proletarie di combattimento irrompa a sera nel suo studio e lo ferisca con quattro colpi di pistola alle gambe e al basso ventre: «Qui Squadre proletarie di combattimento, abbia mo ferito il nazista Ferrero», dichiara un anonimo all’Ansa quando già è notte. Pulici e Graziani non giocheranno mai insieme in Argen tina, la Nazionale disputa comunque un ottimo mondiale. Il 21 giugno 1978 gli Azzurri perdono 2 a 1 contro l’Olanda di Cruijff e vedono sfumare la finale. Lo stesso giorno le Brigate rosse, a Genova, uccidono il commissario Antonio Esposito, che per anni aveva lavorato all’antiterrorismo a Torino. È una tragica riedizione dell’omicidio del maresciallo Berardi, assassinato all’inizio del «processone». La Corte d’Assise, infatti, è ritirata in camera di consiglio dalle 11.40 del 19 giugno. Ne uscirà cinque giorni dopo con 29 condanne per duecentodieci anni complessivi di reclusione (dai quindici 127
anni a Renato Curcio e i quattordici ad Alberto Franceschi ni fino ai due anni e tre mesi per gli imputati minori) e 16 assoluzioni. Un fiume di sangue ha tentato di impedire questo pro cesso. Ma Torino ce l’ha fatta, ricorda il giudice Caselli: «Il loro assunto, in estrema sintesi, era questo: la lotta armata non si processa e se proprio la si vuol processare, lo Stato sarà costretto a disvelare la sua autentica natura, che non è quella di uno Stato democratico di diritto ma quella di uno Stato reazionario, fascista, repressore, nemico dei di ritti, delle garanzie, delle libertà, del progresso delle classi sociali. Anche impedendo la celebrazione del processo pen savano di poter costringere lo Stato a mostrare il suo vero volto e convincere – anche con il sangue – la gente che una volta che avrà capito come stanno davvero le cose, si ribelle rà, e ribellandosi si aggregherà pressoché automaticamente intorno a noi, Brigate rosse che siamo l’avanguardia orga nizzata di ciò che man mano andrà sviluppandosi e sfocerà nella rivoluzione. Invece il processo si conclude, per unani me riconoscimento, nell’assoluto rispetto delle regole pro cessuali e non solo, anche nel rispetto della identità politica dei brigatisti. Ai quali il presidente Barbaro consentì, e fu molto criticato allora – soltanto dopo si capì che era la cosa giusta da fare –, di controinterrogare perfino il magistrato Mario Sossi che loro stessi avevano sequestrato. Un proces so nel rispetto più totale delle regole, dei diritti, addirittura di identità politica degli imputati. Più di così non si poteva veramente fare. E allora, nel momento in cui il processo si conclude e arrivano le condanne, è il crollo, lo sfascio di quell’assunto sul quale le Br tanto avevano puntato e tanto avevano conseguentemente ucciso: che la lotta armata non si processa o se si processa lo Stato deve rinunziare alla sua maschera di Stato di diritto. No, il processo si conclude nel rispetto delle regole, della identità politica degli imputati, con condanne che vengono giudicate da tutti equilibrate, eque, pur nel loro rigore, nella loro pesantezza». 128
È la prima, grande sconfitta per le Brigate rosse dai tempi della loro comparsa, otto anni prima. Dopo tentennamenti, errori, sottovalutazioni, lo Stato ha saputo organizzarsi, ha saputo agire secondo le regole, senza ricorrere a leggi spe ciali. Ma è proprio ora che il terrorismo, ferito e sorpreso da una risposta inattesa, sta per mostrare il suo volto più crudo. Torino racconta che non è ancora finita.
Torino che non è New York
Enzo Maolucci è nato a Torino nel 1946, si è laureato con Massimo Mila nel 1971 con una tesi sui Beatles, insegna letteratura alle scuole medie e – quando ne ha tempo e vo glia – scrive canzoni. Nel 1978 pubblica Barbari e bar, testi e musica in diretta dagli anni Settanta: «I Barbari sono gli impiegati del ’68 – scrive Carlo Cerrato – morti alla vita dal ’69, sopravvissuti ai giorni nostri a partire dal ’70, con un eskimo per ricordo, ed un pugno chiuso in tasca per il Primo Maggio. I Barbari sono quelli che parlano di Rivoluzione in albe grige e parlano di politica nelle ultime superstiti osterie e bevono bianco secco o Pernod e giocano a scopa o scopa no le compagne femministe e finiscono in galera o scappano in Oriente o alla Olivetti e si ficcano al collo una cravatta o una dolce moglie e procreano con propositi anti-autoritari o concepiscono per caso dopo il corteo per l’aborto. E sono quelli che vogliono baci sotto i lampioni, un disco di Elvis al Bar Jolly e detestano Stockhausen (che dio l’abbia in gloria). Loro i Barbari. Pieni di ricordi, di politica, di Rock, di cattivo Whisky nelle balere di periferia». Apre il disco Torino che non è New York: «Si ammazzano a Torino / Torino che non è New York». Non è una instant song sull’escalation di violenza che assedia la città, tuttavia, a risentirla oggi, è difficile non immaginare di ascoltarla proprio a Torino, proprio nel 1978. E di guardarsi intorno. I capi Fiat non sono più i soli a uscire di casa con ap prensione. La concorrenza tra i giustizieri, talvolta, sfiora il parossismo. Il 6 luglio 1978, in via Bossi 6, il solito comman 130
do delle Br formato da tre uomini e una donna ferisce alle gambe Aldo Ravaioli, 36 anni, imprenditore e presidente del Comitato piccola industria dell’Unione industriale di Tori no. Meno di due settimane dopo, il 19 luglio, Prima Linea azzoppa a Grugliasco l’assicuratore Salvatore Russo, 43 anni, segretario della locale Associazione dei commercianti. La sua colpa? Essere un commerciante, nell’anniversario della mor te di Valerio Tognini, militante di Pl ucciso a Milano esatta mente un anno prima dal titolare di un’armeria, durante una rapina finita male. Poi, come un impiegato qualunque, anche il rivoluzionario tira il fiato per le vacanze. D’estate si spara poco e si balla tanto: quella del ’78 è l’estate di Saturday night fever e di Toni Manero, degli evergreen Night fever, Stayin’ alive, If I can’t have you, More than a woman e Disco Inferno che sbancano l’hit parade, staccando Celentano, Venditti e Tozzi. L’Italia è già proiettata verso un altro decennio. Qualcuno nota che anche a Torino le sale cinematogra fiche tornano a popolarsi per lo spettacolo delle 22.30, ma la città è ancora sommersa da uno strato di polvere spessa, che impedisce alla vista la sua bellezza. I palazzi vestono un giallo caffelatte, slavato e triste che non a caso tutti chiamano «giallo Torino». La Torino comunista, poco amata dalle sue generazioni più giovani, si riaffaccia al mondo come centro della cristianità. Da secoli la cappella del Guarini custodisce la Sacra Sindone, preziosa eredità di casa Savoia. Dal 26 ago sto all’8 ottobre, per la prima volta dal 1933, ha luogo una solenne ostensione. Oltre 3 milioni di pellegrini si accodano pazienti sulle scalinate del Duomo di San Giovanni per un minuto di raccoglimento di fronte al lino che secondo la tra dizione ha avvolto il corpo di Cristo. A poche decine di metri di distanza, in via Tasso 1, alle spalle di un isolato che ancora porta i segni delle bombe dell’ultima guerra, c’è il Palazzo dell’Ufficio istruzione della Procura della Repubblica. Il pool antiterrorismo lavora senza sosta tra vetri antiproiettile an neriti dal fumo di troppe sigarette e il tintinnare incessante delle macchine per scrivere. Delle organizzazioni clandestine 131
o paraclandestine che seminano terrore in città si sa molto. Eppure chi spara continua ad apparire e scomparire nel nul la, come un fantasma. Via Servais assomiglia a un villaggio turistico di montagna trapiantato a ridosso della Tangenziale nord: casette basse e giardini attorniati da alberi sempreverdi, un’altra di quelle piccole oasi rifugio della media borghesia che ha abbando nato il centro. Piero Coggiola, 46 anni, ha tutto tranne che la faccia del nemico. Abita al civico 200 insieme alla moglie, due figlie (la maggiore disabile) e un cane che tutte le mattine por ta a spasso, prima che l’autobus aziendale lo porti alla Lancia di Chivasso, dove dirige il reparto Verniciatura. Accade anche la mattina del 28 settembre 1978. Myrna, la moglie, accom pagna in vestaglia il marito alla fermata, dove lo lascia poco dopo le 7.20. Piero Coggiola rimane solo in strada nell’aria frizzante del primo autunno, allunga lo sguardo per vedere se l’autobus è in arrivo quando si sente chiamare: «Coggiola della Lancia?». Ha appena il tempo di voltarsi prima che una Beretta calibro 90 gli scarichi addosso dodici colpi: cinque lo raggiungono alle gambe, uno gli recide di netto l’arteria femorale. Quando Myrna, che ha sentito gli spari, è tornata alla fermata del bus, Piero Coggiola è già semincosciente in una pozza di sangue. Muore poco dopo, dissanguato, alle Molinette. Una voce giovanissima chiama il centralino della Stampa: «Qui Brigate rosse, abbiamo azzoppato noi Coggio la Piero...». No, Coggiola Piero è morto, dissanguato. Più o meno alla stessa ora, a Roma, le suore addette alla persona del pontefice scoprono Albino Luciani cadavere nel suo letto. Papa Giovanni Paolo I ha regnato soltanto trentatré giorni. La notizia della morte del papa giunge come una saetta tra i pellegrini in coda per la Sindone. E come una saetta piomba sulla città la notizia della morte di Piero Coggiola: «Qualche settimana di pausa nello stillicidio del terrorismo di routine – scrive La Stampa in prima pagina – ha dato l’illusione di essere tornati a vivere nella normalità. Era soltanto un’illusio ne. ‘Ricominciano’, dice la gente. Ci accorgiamo di colpo che 132
abbiamo sempre saputo che questo giorno sarebbe arrivato, che prima o poi avremmo ricominciato». È un triste presagio: «L’uccisione di Piero Coggiola è l’anticipo di mesi durissi mi?» si chiede lo stesso quotidiano il giorno dopo. A Roma migliaia di fedeli rendono omaggio alla salma di Giovanni Paolo I; a Torino il pontefice sabaudo Gianni Agnelli rende omaggio alla salma di Piero Coggiola, capoufficio Vernicia tura della Lancia di Chivasso, esposta nella storica sede della casa automobilistica in piazza Robilant, Borgo San Paolo, a due passi dal palazzo di quindici piani che i torinesi chiamano pomposamente «grattacielo Lancia». Tre settimane dopo, il 16 ottobre, la fumata bianca di San Pietro annuncia al mondo la salita al soglio papale del polac co Karol Wojtyla, che in onore del suo predecessore prende il nome di Giovanni Paolo II. Un mese dopo, il 17 novembre, un altro ferimento a Torino. Stavolta tocca all’architetto Ma rio Deorsola, «colpevole» di aver progettato il restauro della caserma Lamarmora, perché potesse ospitare il processo ai capi storici delle Brigate rosse. Deorsola è raggiunto da due colpi alle spalle e due alle ginocchia, esplosi in via Cosseria 1, zona Crimea, da un commando delle Squadre proletarie di combattimento, sigla dell’arcipelago Prima Linea. Dalle parti della caserma Lamarmora, ora che il processo è finito, sono scomparsi i blindati e i sacchi di sabbia. La vigilanza, un furgoncino Fiat 850, si è trasferita sotto le Car ceri Nuove, sotto la torretta di controllo all’angolo tra corso Vittorio Emanuele e via Pier Carlo Boggio. La notte tra il 14 e il 15 dicembre 1978 fa molto freddo. È stata una di quelle giornate dove il termometro non è mai andato sopra lo ze ro. Tra poco è Natale, sembra che nevicherà. A bordo del furgoncino siedono Salvatore Lanza e Salvatore Porceddu. Hanno entrambi 21 anni e sono in polizia da poco più di due. Lanza è di Catania e a Torino non sta bene; la città gli sembra pericolosa e, per di più, non c’è il mare. Porceddu, invece, sembra contento: Torino, se paragonato a Sini in provincia di Oristano, è una città grande e divertente. Forse, durante 133
le interminabili sette ore del servizio notturno, parlano anche della loro città d’adozione, tra un settimanale e una rivista di enigmistica. Il traffico è quasi inesistente, soprattutto intorno a quella zona, stretta tra il carcere, due caserme, l’ex mattato io, un giardino e i capannoni di via Boggio. La maggior parte delle poche macchine che passano sono colleghi in pattuglia. L’ultima è una volante, si ferma intorno alle 5.30 e dà appun tamento ai due per un caffè in via Grattoni, dove ha sede la Questura. La macchina successiva arriva da via Boggio alle 5.45 ed è una 124 rossa. Salvatore Lanza, che siede al posto di guida dalla parte della strada, vede la macchina dallo spec chietto retrovisore e non ha motivo di preoccuparsi. Forse non si accorge che la 124 rossa non ha il lunotto posteriore; quando da lì arrivano i primi spari, Lanza mette mano alla pistola ma non ha nemmeno il tempo di estrarla dalla fondi na. Salvatore Porceddu, più protetto del compagno, riesce a imbracciare il mitra, ma non sparerà nemmeno un colpo. L’unico a rispondere al fuoco è il militare di guardia sulla torretta delle carceri, ma a quel punto la 124 rossa è già oltre corso Vittorio, verso via Principi d’Acaja. Dopo trenta secon di, il silenzio: Salvatore Lanza è accovacciato sul volante con l’espressione di chi non ha avuto il tempo di capire quello che stava accadendo. Salvatore Porceddu ha la testa reclinata all’indietro sul sedile del passeggero e gli occhi spalancati. Sono morti sul colpo sotto una tempesta di fuoco. Gli inve stigatori troveranno 65 bossoli calibro 9, pallini di acciaio e frammenti di cartucce da caccia e 76 proiettili calibro 9. A sparare è stato lo stesso mitra che ha ucciso in via Fani a Roma. Le Br rivendicano poco dopo il duplice omicidio con una telefonata alla Gazzetta del Popolo: «Qui Brigate rosse. Abbiamo appena compiuto un attentato contro la scorta del le Nuove con una logica di annientamento». Tre giorni dopo il volantino: Lanza e Porceddu sono identificati come agenti inseriti «in strutture speciali con compiti antiguerriglia e di controllo militare delle città», e si rivendica la necessità di un «rapporto di annientamento con gli uomini dell’apparato mi 134
litare, dal più alto ufficiale all’ultimo milite». Il giorno dopo migliaia di torinesi rendono omaggio alle salme di due ragazzi di 21 anni, emigrati dal Sud per guadagnare 400.000 lire al mese. Il padre di Lanza, cardiopatico, rimane a Catania. I due fratelli più grandi di Porceddu, emigrati in Germania, non fanno in tempo a rientrare in Italia: «Per la città fu un grande shock – ricorda Ettore Boffano – erano due ragazzi giovanissimi, due immigrati. Un grande inviato del Corriere della Sera, Arnaldo Giuliani, cominciò il suo articolo su que sto duplice omicidio scrivendo ‘Sono morti due Salvatore, erano entrambi figli del Sud, erano due poliziotti’. Torino si sente colpita perché sembra un attacco ai nuovi torinesi, i figli degli immigrati». Ai funerali partecipano migliaia di persone: «I poliziotti inscenano una clamorosa protesta – ancora Bof fano – e per la prima volta alzano al voce: ‘Ci mandano a mo rire come conigli al macello’ gridano dietro alla bara dei loro colleghi. Una grande contestazione, forse la prima di quegli anni, durante il funerale, per sollecitare lo Stato ad aiutarli, a reagire in qualche modo, a difenderli da questi attacchi che in quel momento sembravano quasi incontrastabili». Oggi le Carceri Nuove sono vuote. Via Boggio si chia ma via Paolo Borsellino, che oltre l’incrocio di corso Vitto rio Emanuele, di fronte al Palazzo di Giustizia Bruno Cac cia costruito dove un tempo c’era il mattatoio, diventa via Giovanni Falcone. La caserma Lamarmora è sede di uffici comunali. Intorno il paesaggio è cambiato molto: un centro sportivo griffato Torino 2006, una residenza universitaria e palazzi eleganti di nuova costruzione dove un tempo sorge vano capannoni industriali. La trincea ferroviaria di corso Mediterraneo non c’è più, è diventato passante ferroviario ed è coperto dalla «Spina 2», un grande boulevard che pas serà accanto alla nuova stazione di Porta Susa e al contestato grattacielo (questo sì, un vero skycraper) Intesa-Sanpaolo. È un’altra città rispetto ad allora. Soltanto quella torretta non è cambiata. La memoria del martirio – perché di questo si trat ta – dei «due Salvatore» è, tra tutte le vittime del terrorismo 135
di Torino, quella con l’impatto visivo più evidente. Dal 1979 sulla torretta delle Nuove, a parecchi metri di altezza, una lapide che conserva il loro volto di ventenni ricorda ai tori nesi che in quel punto due ragazzi, un giorno, hanno smesso di vivere. Per un’assurdità del destino, per una convulsione della storia. A dicembre, non mancano mai i fiori. «Nel 1979 vorrei che i brigatisti non uccidessero più, che non si sequestras sero bambini innocenti, che i vietnamiti trovassero un paese dove stabilirsi e che la mia nonna stesse bene e lavorasse me no», firmato Valentina Astolfi, anni 8. Dal 1955 «Specchio dei Tempi» è una rubrica fissa – sette giorni su sette – sulle pagine locali della Stampa: un misto tra il tradizionale spazio delle lettere al direttore e una community virtuale ante litte ram. Talvolta ospita pezzi di esilarante comicità involontaria, più spesso è un’arena di sfogo per istinti piccolo-borghesi un po’ bigotti, ma non mancano esempi in cui la rubrica rende onore al suo titolo: è il caso della lettera della piccola Valen tina (spontanea o indotta che sia), pubblicata il 5 gennaio 1979. Il desiderio di una bambina è che nella sua città non si uccida più, perché da quando ha l’età della ragione, è una cosa normale. Succede ancora. Quattordici giorni dopo, a Valdocco, nel cuore della Torino più anticamente popolare, a sud della Do ra Riparia, vicino al mercato del Balòn, tra il Cottolengo e la basilica di Maria Ausiliatrice, il tempio eretto da don Gio vanni Bosco a fine Ottocento. Le case del borgo sembrano uscite da un romanzo di De Amicis: vie strette, case basse, nomi scritti a mano sul citofono, saracinesche arrugginite, piccole botteghe. Oggi come trent’anni fa: Giuseppe Lorus so, 30 anni compiuti da poco, abita qui, in via Brindisi 5, in un appartamento di due stanze, bagno e cucina che divide con la moglie e due figli piccoli. Il panorama di Valdocco è così diverso da quello di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, il paese dove è nato: lì si vedono subito le montagne, in via Brindisi, invece, c’è la ferrovia per Milano e, subito ol 136
tre, quella città di tubi, capannoni e ciminiere costruita sulla schiena della Dora. Giuseppe Lorusso è una guardia carce raria. Lavora alle Nuove, come Lorenzo Cutugno, il collega ucciso dalle Brigate rosse a poche centinaia di metri dalla sua abitazione; Lorusso, dopo aver lavorato fin dal 1972 nelle cucine del carcere, è da poche settimane addetto allo smista mento pacchi e alla corrispondenza dei detenuti, un compito molto simile a quello del collega Cutugno. Una posizione de licata, pericolosa; forse medita di chiedere il trasferimento. Giuseppe esce di casa il 19 gennaio 1979 che è ancora buio. Sono le 7.15, di solito esce un po’ più tardi, ma quel giorno un collega gli ha chiesto un cambio turno e lui ha accettato. Ai bordi delle strade c’è ancora un po’ della neve caduta qualche giorno prima, Lorusso cammina verso l’incrocio di via Biella dove ha parcheggiato l’automobile. L’ultimo gesto della sua vita è estrarre dalle tasche le chiavi della 128. Poi cade fulmi nato sull’asfalto, gli occhi serrati al cielo e le braccia legger mente divaricate. Muore immediatamente, colpito da dieci pallottole P38 sparate a bruciapelo, alla schiena e alla nuca. Lo aspettavano a bordo di una 131 color argento. Sapevano che quel giorno sarebbe uscito di casa prima. I colpi detona no in tutto il quartiere. Li sente anche Rosa, la giovanissima moglie. Tentano di fermarla sulle scale, ma è impossibile. Il corpo rimane inspiegabilmente sull’asfalto per oltre tre ore, offrendo ai fotografi ogni angolazione possibile: l’istantanea del cappellano delle Carceri Nuove don Ruggero che benedi ce la salma dell’agente Lorusso diventa una spietata cartolina da Torino. «Oggi un gruppo di fuoco dell’organizzazione comunista combattente Prima Linea – annuncia un anonimo telefonista alla Gazzetta del Popolo – ha giustiziato la guardia Lorusso, membro della squadretta picchiatori delle Carceri Nuove». Segue volantino di minacce: «Per il torturatore, per il per sonale che si presta ad essere ristrutturato, per il dirigente riformista, la risposta non può che essere la pena di morte. Per gli ausiliari, per chi non si fa strumento di repressione, il 137
terreno della loro sopravvivenza si misura giorno per giorno sulla collaborazione con il proletariato detenuto». Torino segue un nuovo funerale. Ancora una giovane don na – Rosa Lorusso, che commuove la città con la sua mimica disperata – che urla il suo dolore in un dialetto lontano. Il giorno dopo il corteo funebre parte dalle Carceri Nuove, pas sando di fronte alla torretta di via Boggio, dove sono ancora ben visibili i cerchi di gesso attorno ai fori di proiettile, dise gnati un mese prima, in seguito all’agguato mortale ai «due Salvatore». Il tempo ha cancellato quei cerchi, ma intatte e profonde oggi restano tracce delle pallottole che hanno sca vato i mattoni rosso scuro della torretta. Anche i detenuti sono scomparsi, progressivamente trasferiti nel più recente carcere delle Vallette. L’intero complesso delle Nuove ha l’aria di un forte medievale in abbandono, l’erba che cresce nei fossati lungo il muro di cinta. Un silenzio inquieto ha preso il posto di orari scanditi da urla e sirene. Passeggiarci da soli richiede una certa audacia, una certa ignoranza dei film dell’orrore, una certa propensione al labirintico. Vista dall’interno la torretta di Lanza e Porceddu è solo un ba stione in miniatura, una sporgenza che cela una stanzetta circolare, illuminata dalla luce di feritoie a misura di mitra. Per camminamenti e piccole piazze s’arriva alla sala centrale del carcere, la rotonda panottica, dalla quale si dipartono i bracci, a raggiera: nelle celle, brande a castello, scritte graf fite, poster di modelle anni Ottanta svestite. Poi, i corridoi scrostati ti portano in un braccio diverso dagli altri, dove il colore prevalente è il giallo delle grate che arrivano al soffitto. Forse era il braccio delle donne, viene da pensare guardando la nicchia che ospita una statua di Maria con le mani giunte in preghiera. Al livello del suolo, le celle sono fredde e deserte. Tutte tranne una: dentro hanno allestito – chissà chi, chissà quando – un piccolo museo per le guardie uccise intorno o a causa del carcere. Un libro sottile, lasciato ad ammuffire su un tavolo, raccoglie le foto dei funerali di Lanza e Porceddu, di Lorusso e Cutugno. Dalla parte opposta della stanza, una 138
teca esibisce i loro effetti personali, una divisa, un paio di manette, un quadernetto, un cappello d’ordinanza. Se esiste una traduzione fisica del termine «abbandono», è rinchiusa tra le mura di quella cella. «Il terrorismo – scrive il 20 gennaio Mauro Benedetti su Stampa Sera – ha scelto un’altra strada, abbandonando i ver tici per colpire la base, gli umili, la gente qualunque. Le pa role sempre uguali, standardizzate, ormai semplici ‘verbali dell’indignazione’ nei quali, di volta in volta, cambia solo il nome della vittima, non rendono la realtà di un ambiente ora davvero abbandonato, spaventato. [...] È questa la cosa più sconvolgente, sapere che in città, intorno a noi, c’è gente che ha ucciso e che ucciderà ancora. Che al supermercato, al bar, al cinema, abbiamo un assassino accanto». Invisibili, ma ancora per poco. Dopo l’assassinio di Aldo Moro vengono ricostituiti i nuclei antiterrorismo del generale Dalla Chiesa, il cui centro operativo è la caserma dei carabi nieri di via Valfrè a Torino. Dopo anni di indagini difficolto se, quasi sempre infruttuose, il cerchio comincia a stringersi e ai fantasmi si sostituiscono prima i nomi, poi i volti. Per prima li espelle la città: «Ad un certo punto – ricorda Gian Carlo Caselli – si riesce a stabilire che in un determinato arco di tempo (un biennio, sostanzialmente) le Br e gli altri gruppi terroristici si procurano le basi comprando alloggi con tanto di regolare rogito notarile. Il brigatista che compra l’alloggio va dal notaio ed esibisce un documento, che non è falso ma ottenuto utilizzando un modulo autentico, rubato. Su questo modulo vengono scritte generalità false, totalmente di fanta sia, inventate. Nel senso che nome, cognome, luogo e data di nascita, non corrispondono a nessuna persona nata in quel luogo, in quel giorno, in quell’anno. Quando si capisce que sto, si fa strada l’idea dell’indagine catastale. Carabinieri e polizia vanno nel catasto in tutte le principali città in cui le Br erano attive, acquisiscono tutti i rogiti di un determinato pe riodo di tempo, selezionano gli alloggi che hanno determina te caratteristiche (in periferia, piano terra, al massimo primo 139
piano, con vie di fuga facili) e poi verificano se l’acquirente esiste all’anagrafe del luogo di nascita. Se esiste, finisce il di scorso, è un acquisto regolare. Se non c’è, si va praticamente a colpo sicuro: quella è una base delle Brigate rosse. Grazie all’indagine catastale se ne scoprono moltissime, soltanto che a un certo punto anche le Br capiscono quello che abbiamo capito noi. Un giorno arriviamo in un paesino dell’hinterland torinese, in un covo che avevano fatto in tempo a svuota re completamente. Per sfottere avevano lasciato un cartello: ‘Benvenuti dottor Caselli e dottor Criscuolo’. Volevano farci capire che avevano capito». Forse è quello che hanno capito anche due uomini che la sera del 20 gennaio 1979, poche ore dopo il funerale di Giu seppe Lorusso, si apprestano a bruciare un cumulo di carte in una zona erbosa di via Paolo Veronese. Fiamme sospette, in una città abituata a diffidare di tutto. La volante 9, in pattu glia per Madonna di Campagna, accosta a fianco del falò. Ne scendono il caposquadra Francesco Sanna, 42 anni, e l’agente Angelo Calì, 22. In macchina rimane l’autista, Modesto Monia di 24 anni. Calì chiede i documenti; i due li porgono, ma non appena l’agente fa un passo verso di loro, sparano. Sanna è colpito all’addome e si accascia a terra, Calì è ferito alla coscia destra. Monia interviene, spara, ma i due sono ormai lontani. Minacciano una coppia di fidanzati e rubano loro la macchi na. Spariti. Ma per poco. Il mistero di una simile reazione è nascosto tra la cenere: i due stavano bruciando volantini fir mati Brigate rosse. E poi un errore fatale: nella foga della spa ratoria, i due uomini hanno abbandonato i documenti; uno è autentico, intestato all’incensurato Vincenzo Acella, torinese di 28 anni. Il giorno dopo i carabinieri risalgono all’apparta mento di via Venarla 72/6, un altro covo. L’uomo che scappa insieme ad Acella (che si scoprirà essere uomo di punta della colonna torinese delle Br, autore materiale, tra l’altro, degli omicidi Berardi e Cutugno) è Domenico Panciarelli. Acella ha i giorni contati. Sarà arrestato il 17 marzo in un bar di corso Grosseto, insieme a un compagno che in un primo momento 140
i giornali liquidano come «uno di Milano». In realtà si tratta di Raffaele Fiore, capocolonna delle Brigate rosse di Torino, l’uomo che ha sparato in faccia a Carlo Casalegno. Ora il nu mero uno, a Torino, è Patrizo Peci. Gli arresti sembrano finalmente erodere la potenza di fuoco di un’organizzazione ancora molto forte. Intorno la terra si fa bruciata, soprattutto dopo il 24 gennaio 1979. Quel giorno la colonna genovese uccide Guido Rossa, ope raio dell’Italsider, «colpevole» di aver denunciato un collega che diffondeva volantini Br all’interno dello stabilimento. Guido Rossa, operaio, sindacalista della Cgil, comunista. Ucciso dalle Brigate rosse. A Genova, il 27 gennaio in piazza De Ferrari, sfilano in 250.000 (2 pullman e 31 treni partono da Torino) insieme a Sandro Pertini, allora presidente della Repubblica. A dispetto del cerimoniale, Pertini spinge per incontrare i camalli del porto: «Il prefetto – racconta Anto nio Ghirelli, ex portavoce del Quirinale – glielo sconsigliò, perché lì, disse, c’era simpatia per le Br. Ma Pertini insistet te, fino a che non lo accompagnarono al porto. Entrò in un grosso container, con le gigantografie di Lenin e Togliatti alle pareti. E, nonostante i suoi ottantadue anni, scattò sulla pedana. In mezzo a un pesantissimo silenzio, urlò a centinaia di portuali: ‘Non è il presidente della Repubblica che vi parla. È il compagno Pertini! Io le Brigate rosse, quelle vere, le ho viste con i miei occhi. Ma combattevano contro i fascisti, non contro i democratici!’. Bastò questo per squarciare il silenzio. E i camalli applaudirono a lungo». A Torino, intanto, continua l’attacco alle Carceri Nuove. Il 1° febbraio, in via San Marino 93 le «Squadre armate pro letarie per l’esercito di liberazione comunista» feriscono alle gambe il dottor Grazio Romano, 45 anni, medico in servizio alle Nuove. Quattro giorni dopo, in via Cervignasco angolo corso Peschiera, un commando di Prima Linea, composto esclusivamente da donne, colpisce Raffaella Napolitano, 35 anni, vigilante alle Nuove, anch’essa, come Cutugno e Lorus so, addetta al rapporto tra i detenuti e l’esterno. Per sua fortu 141
na, soltanto uno dei sette colpi esplosi va a segno, alla coscia destra. È la prima donna vittima del terrorismo. L’agguato a Raffaella Napolitano accade ventiquattr’ore dopo l’irruzione dei carabinieri di Dalla Chiesa nel covo di corso Regina Mar gherita 81, considerato un’autentica stamperia delle Brigate rosse. È l’undicesimo «covo» scoperto a Torino dal 1974.
Anni spietati
«Ci si abitua, a vivere con la violenza. Al varietà televisivo del sabato sera, lo spettacolo più leggero e popolare della settima na, con un pubblico di almeno quindici milioni di persone, lo sketch comico è per esempio questo: Pino Caruso con la pi stola continua a spararsi nei polpacci, e a chi domanda spiega zioni risponde che lo fa per abituare il corpo ai proiettili, così quando altri lo colpiranno sarà ormai vaccinato e il piombo non lo ucciderà. Al concorso radiofonico per le migliori bar zellette (si chiamava L’Italia che ride, dopo l’affare Moro l’han no ribattezzato L’Italia quando ride), un concorrente di Torino invia la parodia d’una canzoncina pubblicitaria, questa: ‘Ti spunta un foro in boccaaaa...’. Non fa ridere, ma è realistico. [...] La moglie d’un sottufficiale dei carabinieri che lavora col generale Dalla Chiesa telefona alla radio: lo Stato non potreb be garantire un posto di lavoro agli orfani dei caduti dell’anti terrorismo? La questione la interessa personalmente, spiega, ha due bambini: dunque già pensa a se stessa come a una vedova, e immagina i propri figli tra dieci anni come disoc cupati. Terribile, ma realistico [...]. Soprattutto nelle grandi città, la violenza italiana ha resuscitato la paura, dimenticata dai tempi di guerra, d’essere ammazzati, feriti, fatti prigionie ri; ha mutato i comportamenti e il linguaggio, la ritualità e l’iconografia sociali, il paesaggio urbano [...]. La ritualità na zionale si esprime soprattutto in grandi funerali popolari, in cerimonie funebri ufficiali. L’iconografia nazionale si inverte: se nel 1968 l’esemplare immagine italiana rappresentava folle di lavoratori o studenti che rivendicavano progresso nelle ma 143
nifestazioni di massa, nel 1978 rappresentava singoli cadaveri abbandonati e sconnessi sull’asfalto insanguinato, o crivellati e riversi dentro le automobili». Questa è l’Italia che Lietta Tornabuoni descrive sulla pri ma pagina della Stampa del 4 febbraio 1979. Un paese di cui Torino, suo malgrado, è tornata a essere la capitale. Lietta Tornabuoni scrive prendendo spunto dalla sparatoria di via Paolo Veronese in cui sono rimasti feriti gli agenti France sco Sanna e Angelo Calì. Nessuno può sapere che su quello stesso, triste e anonimo stradone della periferia nord – a più o meno mille passi di distanza – si scatenerà pochi giorni dopo l’inferno del bar dell’Angelo. Eccolo, questo luogo del cielo chiamato Torino nel 1979: la città di Matteo Caggegi e Barbara Azzaroni, che sognavano di fare la rivoluzione a colpi di mitra e muoiono in quel bar il 28 febbraio. La città di Emanuele Iurilli, che sognava di costruire aerei e muore il 9 marzo perché qualcuno vuole vendicare i compagni, a colpi di mitra. La città di Carmine Civitate, che sognava un futuro di benessere per la sua famiglia e morirà a luglio perché quel la stessa vendetta non era ancora consumata. Ci si abitua, a vivere con la violenza. Cinque giorni dopo la morte di Emanuele Iurilli, è ancora la Fiat a tornare nel mirino. Alle 7.20 del 14 marzo, un altro ferimento ai danni di un capo Fiat. Questa volta le Brigate rosse aggiungono un tocco scenico al triste cerimoniale dell’azzoppamento: prima di sparare alle gambe di Giuliano Farina (sorpreso nell’an drone di via Tripoli 44) i carnefici ammanettano la vittima. Poi tocca di nuovo a un giornalista, il quarantaquattrenne Franco Piccinelli, caporedattore della Rai di Torino. Picci nelli, appassionato cantore della terra di Langa, viene ferito nel primo pomeriggio del 24 aprile, in via Santa Giulia 12. Per completare la «sentenza», il commando insegue la vitti ma – già ferita – fin nel retro di un negozio. I giornali del 25 aprile fanno confusione con le rivendicazioni e attribuiscono il ferimento della voce del Gazzettino del Piemonte ai «Prole tari armati per il comunismo», errore che fa andare su tutte 144
le furie le Brigate rosse: «Abbiamo invalidato noi Piccinelli!», ammonisce un anonimo telefonista il 25 aprile. L’ostetrica Domenica Nigra, 57 anni, viene aggredita nel suo studio di via Buenos Aires 114 il 25 maggio nel tardo pomeriggio. Un commando delle Squadre armate proletarie di combattimen to la ferisce alle gambe dopo averle appeso al collo un cartel lo: «Faccio aborti clandestini a 300.000 lire». Patrizio Peci, anni dopo, racconterà che l’ostetrica punita dalle Sap era la stessa cui si rivolgevano le compagne delle Br per le interru zioni di gravidanza. Ci si abitua, a vivere con la violenza. Lo sanno soprattutto i bambini, che non hanno mai visto nulla di diverso. Elisa betta Farina, nel 1979, ha 13 anni, abita con i genitori in via Malta, angolo via Millio. Non esistono quartieri immuni alla violenza, ma ad alcuni va peggio che ad altri: l’isolato è lo stes so dove abitava Emanuele Iurilli, che Elisabetta conosceva e vide morire: «Quel giorno ero a casa con mia madre – ricorda Elisabetta –, avevamo da poco finito di mangiare. Di solito, dopo pranzo, uscivo per tornare a scuola ma quel giorno, per fortuna, non successe. Erano le due e cominciammo a sentire dei colpi sparsi e pensammo a dei petardi lanciati nel giardino vicino a casa. Guardando fuori dalla finestra, però, vedem mo delle persone fuggire, altre ripararsi dietro le macchine in strada e capimmo che si trattava di qualcosa di diverso. L’impatto con l’attentato in cui morì Emanuele fu il primo scontro vero con realtà che fino a quel giorno, per me, erano solo lontane notizie date dal telegiornale». Tre mesi dopo, l’8 giugno 1979, la lontana realtà del tele giornale arriva fin sulla soglia della sua cameretta. Quel giorno le Brigate rosse, per la prima volta, irrompono direttamente in casa della loro vittima designata, il papà di Elisabetta, Gio vanni Farina, guardiano alla Fiat Mirafiori: «Quella mattina lui uscì molto presto – racconta Elisabetta – o meglio, stava per uscire. Erano esattamente le 5.25 quel mattino. Aprì la porta di casa e si trovò di fronte tre persone che lo respinse ro all’interno dell’appartamento, colpendolo col calcio della 145
pistola. Lo buttarono a terra e gli spararono: otto colpi, che lo ferirono ad entrambe le gambe. Io mi svegliai prima che sparassero, perché ci fu prima una colluttazione. Ricordo che li vidi in faccia e capii le loro intenzioni. Ovviamente non po tevo sapere che si trattasse di terroristi, pensavo che volessero ucciderci tutti, pensai a dei ladri, pensai a tutto in quel mo mento. Mio padre mi urlò di allontanarmi e io rimasi per un istante impietrita. L’uomo con la pistola, Patrizio Peci, puntò l’arma verso di me e io scappai in camera, pensando che do po sarebbero venuti da me. Dalla mia stanza sentii questi 8 colpi, che con il silenziatore emettono un suono particolare, ovattato ma terribile allo stesso tempo. Quegli otto colpi non si dimenticano». Pur ferito gravemente, Giovanni Farina non perde il senso dell’umorismo. «Un mattino – ricorda Diego Novelli – ho ri cevuto molto presto una telefonata che mi informava dell’at tentato. Era a due passi da casa mia e pensai che per forza l’avrebbero portato all’ospedale Martini di via Tofane. Allo ra ho telefonato al presidente della Regione Viglione, anche lui abitava vicino, e ci siamo precipitati all’ospedale, ma non c’era ancora niente. Dopo un attimo sentiamo la sirena. Arri va l’autoambulanza, gli infermieri scaricano la barella, dove era sdraiato questo signore che perdeva sangue da tutte le parti. Noi gli andiamo incontro, questo si tira su con i gomiti sulla barella, ci guarda, ci riconosce e in piemontese ci dice ‘E seve già sì?’. Cioè ‘Siete già qui?’. Era Farina. Avevamo scelto di essere sempre presenti accanto alle vittime del ter rorismo, ma c’era anche il rischio di essere scambiati per dei cornacchioni, che arrivavano sempre come delle cornacchie sui cadaveri e sui feriti». Ci si abitua, a vivere con la violenza. Anche d’estate. Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca privata italiana, viene ucciso a Milano la notte dell’11 luglio da un killer assoldato da Michele Sindona; le Br uccidono il collaboratore del generale Dalla Chiesa, il colonnello Anto nio Varisco (13 luglio), mentre il capo della squadra mobile di 146
Palermo Boris Giuliano (23 luglio) muore per mano di Cosa Nostra. È l’estate del governo «monocolore frastagliato» di Francesco Cossiga, del caro carburante, dei distributori vuo ti a causa dello sciopero a oltranza degli autotrasportatori, delle strade di Torino bloccate dai lavoratori metalmeccanici in attesa del rinnovo del contratto collettivo di lavoro, del rapimento in Sardegna di Fabrizio De André e Dori Ghezzi e dell’ultimo mondiale di Formula Uno vinto dalla Ferrari prima degli anni Duemila. A Torino l’offensiva dei carabinieri di Dalla Chiesa prose gue: il 29 giugno finisce in manette il brigatista Andrea Coi, sospettato di essere l’assassino di Carlo Casalegno (in realtà è soltanto quello che ha ritagliato gli articoli ed effettuato i pedinamenti). Il 10 luglio tentano di ferire il vigilante Fiat Antonio Manfredini, 33 anni, che però risponde al fuoco e mette in fuga il commando. Venerdì 13 luglio, quattro per sone fanno irruzione nella sede della Cassa di Risparmio di Torino a Druento, piccolo centro a nord del capoluogo. Quando i rapinatori abbandonano la banca (peraltro con un magro bottino, nel caveau erano in corso lavori e, udite le urla, gli operai si erano chiusi dentro) steso sul pavimento ri mane il corpo senza vita del vigile urbano Bartolomeo Mana, 34 anni. Sembra uno degli innumerevoli casi di criminalità comune che in quegli anni riempiono le pagine dei giornali. Soltanto mesi dopo si saprà che Bartolomeo Mana è una vit tima di Prima Linea. Lo racconterà Roberto Sandalo, Roby il pazzo. È lui, quel venerdì, a uccidere «per sbaglio» il vigile di Druento: «La guardia giurata che mi era immediatamente da vanti, mentre stava abbassandosi per stendersi a terra, portò la mano sulla fondina. Accortomi di ciò, con la pistola che im pugnavo, lo colpii alla base del collo». Sandalo, appassionato d’armi, descrive con dovizia di particolari la propria pistola, alla quale però aveva omesso di mettere la sicura. Mentre colpisce la guardia giurata, parte il colpo che uccide il vigile Mana. Considerata la dinamica, Prima Linea non ritiene di dover rivendicare l’azione. 147
A mezza estate i torinesi, benzina permettendo, partono in massa. Secondo i dati dell’acquedotto municipale, rimango no in città meno di 200.000 abitanti. A Porta Nuova salgono a migliaia, ogni giorno, sulle «Frecce del Sud» per qualche settimana di vacanza al paese. Da Pallagorio in provincia di Catanzaro, invece, sono costretti a fare il percorso inverso un anziano contadino che sembra disegnato da Renato Guttuso e la moglie. Sono i genitori di Carmine Civitate. «La madre è una forma disfatta» – per citare ancora una volta Un’auto targata «TO» di Lucio Dalla – sopraffatta da un dolore che non riesce a contenere. Una Torino afosa e chiusa per ferie riserva al barista della Falchera un addio per pochi: «Ai fu nerali – ricorda Marina Cassi – si cercava di partecipare il più possibile per dimostrare ai terroristi quanto fossero isolati. E alcuni di questi sono stati effettivamente momenti di gran de mobilitazione. Altri meno, anche solo per circostanze del tutto contingenti: se si moriva d’estate, purtroppo, i funerali erano meno affollati». Scuole, fabbriche e uffici, come sempre, riaprono a set tembre. Riprende anche il campionato di calcio. Nel 1979, dopo anni di dominio torinese, lo scudetto è tornato a Mila no, sulle maglie rossonere. Anche i novelli partigiani di Prima Linea sono tornati dalle ferie. Si sono riuniti qualche giorno prima a Bordighera, rinomata località del Ponente ligure, per decidere le strategie future. In riva al mare hanno pianificato la «campagna contro il vertice d’impresa». «Campagna», an cora una volta, significa morte. «Oggi finisce l’estate anche per il meteo», scrive Stampa Sera il 20 settembre 1979. E infatti il 21 piove. L’ingegner Car lo Ghiglieno, distinto signore di 51 anni, quella mattina esce con l’ombrello. In città non è un volto conosciuto, eppure occupa una posizione molto importante. Come responsabile del settore Pianificazione di Fiat Auto, Ghiglieno è al sesto posto nella gerarchia aziendale. Negli ultimi quattro anni, a Torino, sono stati feriti quattordici uomini Fiat, ma Ghiglie no rifiuta la scorta. Il suo è un lavoro lontano dalla catena di 148
montaggio, pensa, e non c’è motivo di temere un attentato. Carlo Ghiglieno è una persona abitudinaria. Come ogni mat tina, anche il 21 settembre 1979 esce poco prima delle 8, in compagnia della moglie Matilde, e prende un caffè al bar del Residence Valentino, proprio di fronte a casa, in corso Massi mo D’Azeglio 72, accanto ai padiglioni di Torino Esposizioni. Saluta la moglie, poi si avvia verso la sua Ritmo 65 color rame, parcheggiata in via Petrarca angolo corso Massimo D’Aze glio. Non ha il tempo di inserire le chiavi nella portiera che sette colpi (quattro alla nuca) lo uccidono all’istante. Cade all’indietro, in mezzo alla strada, con le braccia divaricate. Matilde, la moglie, sente gli spari e corre verso via Petrar ca. Poco dopo la raggiungono i due figli Alberto, 21 anni, e Giorgio, 24. Un fotografo immortala la sagoma dell’ingegner Ghiglieno a terra, coperto da un telo bianco: è come crocifis so sulla strada, circondato dai familiari inginocchiati accanto. È un’altra cartolina dal terrore, che racconta di una Torino divenuta metropoli di lenzuola stese sull’asfalto. Poche ore dopo la rituale rivendicazione: «Qui Prima Linea, gruppo di fuoco Carla e Charlie. I nemici della classe operaia comincia no a pagare. Notifichiamo l’eliminazione dell’ingegner Carlo Ghiglieno. Perché non vi sbagliate, sappiate che lo abbiamo eliminato con sette colpi di 38 Special Norma punta cava. Questo è il primo atto della campagna di terrore proletario contro il comando d’impresa. Onore ai compagni Matteo e Barbara». La Ritmo color rame rimane a lungo parcheggiata in via Petrarca. In pochi giorni si ricopre di fiori. Segue un nuovo funerale, affollato e sentito, in un giorno di pioggia. Accanto alla compostissima famiglia Ghiglieno, questa volta, siedono anche il presidente del Consiglio Francesco Cossiga, i ministri Scotti e Bisaglia, Gianni e Umberto Agnelli. Torino si scopre ancora più vulnerabile. È un brusco risveglio, gli arresti dei mesi precedenti avevano fatto credere che il ter rorismo fosse in chiara difficoltà. E invece, rieccoli: spietati, efficaci, imprendibili e, soprattutto, informatissimi. In pochi conoscevano la figura chiave di Carlo Ghiglieno. Si saprà 149
dopo – sempre grazie ai racconti di Roberto Sandalo – che l’obiettivo era stato individuato in maniera piuttosto casuale: «Sono stato io – dichiarerà Sandalo – a fornire alcuni nume ri dell’Illustrato Fiat che mi arrivavano regolarmente a casa, perché mio padre lavora in Fiat. La stessa cosa ho fatto con il giornale dei capi. Su uno dei numeri di questo giornale vi era tutto un inserto sulla logistica della Fiat con foto di Ghiglie no». Prima Linea pensa anche a Vittorio Ghidella, numero uno di Fiat Auto. Ma ha la scorta e i suoi orari sono incer ti. Meglio questo Ghiglieno di cui parla il giornale dei capi, abitudinario e senza scorta. Nessuna «geometrica potenza» dunque, soltanto suggerimenti via posta. È difficile distrarsi. Ci provano in 65.000, la sera del 3 ottobre 1979, allo stadio comunale. Il Torino affronta i forti tedeschi dello Stoccarda per il ritorno dei sedicesimi di finale della coppa Uefa. C’è da ribaltare lo 0 a 1 della partita d’anda ta. I granata, spinti dal pubblico, segnano a metà ripresa con Claudio Sala e guadagnano i tempi supplementari: al minuto 104 Graziani, dopo aver sventato un gol fatto sulla linea della propria porta, si butta in avanti e infila il portiere tedesco Roleder, ma i 65.000 del comunale si rimangiano l’urlo di gioia a tempo abbondantemente scaduto, quando l’arbitro sovietico Zade ha già il fischietto in bocca, un tiraccio del tedesco Ohlicher, sbuca tra una selva di gambe e infila la porta di Terraneo. Si qualifica lo Stoccarda. Due minuti di silenzio irreale; quindi esplode la frustrazione della curva Maratona, che costerà alla società del presidente Pianelli una salata multa. Ma non c’è tempo per parlare di calcio. Il giorno suc cessivo Cesare Varetto, 36 anni, esce dalle Carrozzerie di Mirafiori, dove da circa un anno (dopo il ferimento del suo predecessore Rinaldo Camaioni) ricopre il ruolo di responsa bile relazioni sindacali. Ancora una volta sono le abitudini a rendere più vulnerabili: Varetto, come è solito fare, raggiunge la moglie Rita Popolani alla merceria di largo Sempione 168. Sono le 19.30, il negozio sta chiudendo quando irrompono 150
tre uomini armati a volto scoperto. Rita pensa a una rapina e mette mano al registratore di cassa, ma ai tre non interessano i soldi: uno di loro si rivolge a Varetto, che ha in braccio il figlioletto di 2 anni e mezzo, e gli ordina: «Posa il bambino e mettiti nell’angolo». Dopo pochi secondi il responsabile re lazioni sindacali delle Carrozzerie di Mirafiori è a terra in un lago di sangue: «Tranquilla – sussurra alla moglie –, le gambe, solo le gambe...». Per sua fortuna l’Astanteria Martini (oggi ospedale San Giovanni Bosco) è dall’altra parte della strada. Poco dopo la solita telefonata: «Qui Brigate rosse, poco fa abbiamo azzoppato il capo della Lancia... no, della Fiat Mi rafiori... Si chiama Varetto». A volte sembra una gara tra organizzazioni concorrenti, peraltro in perenne polemica fra loro. Nemmeno ventiquat tr’ore dopo un commando di Prima Linea irrompe negli studi della Praxi, società di consulenza e organizzazione industriale in corso Lecce 80. Chiedono del titolare, ma in ufficio c’è solo l’amministratore delegato Piercarlo Andreoletti, 43 anni, che si prende due pallottole nei polpacci: «Abbiamo perquisito noi l’agenzia di consulenza – è la rivendicazione – invalidando il capoufficio Andreoletti. Continua la campagna di terrore pro letario contro i quadri intermedi del comando d’impresa». «Torino città dannata?» titola Stampa Sera il giorno successivo: «Guardiamoci intorno – risponde sconsolato il presidente della Regione Aldo Viglione –, abbiamo uno spaventoso primato: qui c’è la più alta percentuale al mondo di terrorismo». La Fiat commenta così l’attentato a Cesare Varetto: «La Fiat non può fare a meno di rilevare come que sto ultimo attentato segni una nuova tappa nella strategia del terrore portata avanti da gruppi eversivi con varie etichette. Il ripetersi di aggressioni in forme diverse per gravità, ma tutte riconducibili ad un unico disegno, impone con sempre mag giore urgenza la necessità di chiarezza negli atteggiamenti e nei comportamenti da parte di tutti, istituzioni e forze sociali, perché la condanna del terrorismo non sia solo un vuoto e rituale ripetersi di parole». 151
Sembra un comunicato come tanti altri, l’ennesimo, obbli gato, dopo l’ennesimo ferimento a Torino. Ma forse è qualco sa di più. Il 6 ottobre 1979, 61 dipendenti Fiat (40 a Mirafiori, 13 a Rivalta e 8 alla Lancia di Chivasso) ricevono una lettera con il seguente testo: «Le contestiamo formalmente il com portamento da lei sin qui tenuto, consistente nell’aver fornito una prestazione di lavoro non rispondente ai princìpi della diligenza, della correttezza e della buona fede, e nell’avere costantemente mantenuto comportamenti non consoni ai princìpi della civile convivenza sui luoghi di lavoro. In rela zione a quanto sopra, e cioè tanto per le modalità della sua prestazione, quanto per il comportamento da lei tenuto in connessione con lo svolgimento dei rapporti di lavoro, ella ci ha procurato grave nocumento morale e materiale. Nel corso di tali circostanze è divenuta impossibile la prosecuzione del suo rapporto di lavoro. A sensi dell’art. 26 disciplina generale sez. III del vigente contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria, viene disposta la sua sospensione dal lavoro con effetto immediato. Sue eventuali deduzioni contrarie potran no essere presentate entro sei giorni dalla data di ricevimento della presente». Non è un’accusa esplicita di terrorismo ma poco ci manca. Tecnicamente è una sospensione, in sostanza un licenziamento: «In fabbrica da anni non si vive più – di chiara il responsabile Relazioni industriali della Fiat Cesare Annibaldi – e la gente non regge più. Per gente intendo i dirigenti, i capi e la stragrande maggioranza dei lavoratori. Sono i capi che lavorano in fabbrica e vengono alle nostre riu‑ nioni, con le unghie nere, a dirci: ‘Fate qualcosa, perché qui va tutto a rotoli’. Non è più tempo di comunicati di generica solidarietà, come azienda siamo parte sociale e intendiamo fare la nostra parte fin in fondo per ristabilire un minimo di civile convivenza sui luoghi di lavoro». La prima assemblea dei «61» si tiene il giorno successivo. Per l’occasione Lotta continua, dalle cui file provengono al cuni dei licenziati, riapre la storica sede di corso San Maurizio 27. A lume di candela, perché da mesi non si pagano più le 152
bollette. Tutta la città ne parla, e si divide. Giampaolo Pan sa ritorna ai cancelli della fabbrica: «Torino, la violenza, il terrorismo. Sulla pelle di questa città ci siamo esercitati tutti per anni. Adesso proviamo ad ascoltare qualche voce di chi sta dentro Torino e dentro le sue paure» scrive su Repubblica dell’11 ottobre 1979. La prima voce è quella di un capo Fiat: «Dei 61 operai licenziati non voglio dire niente. [...] Non dia i miei dati personali e non mi descriva. Dica soltanto che ho una quarantina d’anni e che sono uno dei duemila ca pisquadra di Mirafiori [...]. Prendiamo 100 operai: 30 non vogliono saperne né di sindacato né di niente: la fabbrica è un posto dove bisogna faticare e basta. Altri 30 vogliono una politica sindacale democratica e giusta. 20, 25 sono in balia della prima aria che tira e non sanno da che parte stare. E su questi premono gli ultimi 15 che sono estremisti e cercano ogni occasione per rompere i coglioni, per non lavorare e non far lavorare. 15 sono pochi ma bastano per fare casino se gli altri reagiscono. È una minoranza però fa quello che vuole, il loro nemico è il primo capo che hanno sottomano, il caposquadra, quasi fosse la controfigura di Agnelli [...]. Capo non rompere o ti facciamo sciopero. Capo vaffanculo. Capo sei un bastardo, guarda che ti conosco so dove stai e ti pren do fuori di qui. Capo sei un fascista, ti faremo camminare in carrozzella. Capo non fare rapporto in direzione, altrimenti... bisogna subire. C’è chi subisce piegandosi a gesti meschini. Qualche volta è capitato anche a me [...]. Una volta ritornavo a casa e mi riposavo o stavo coi figli o facevo dell’altro lavoro. Adesso penso soltanto a ricaricarmi di energia per affrontare la battaglia del giorno dopo in Fiat. Anche dentro sono cam biato. Si metta al mio posto, al posto di una persona che se fa una cosa gli dicono: sbagli; e se ne fa un’altra gli dicono sempre: bastardo, sbagli. Dai e dai, come fa a non sorgerti il dubbio che forse davvero c’è qualcosa in te che non va? [...] No, non sono più iscritto al sindacato. E se in fabbrica non lo critico apertamente è solo per paura. Ho degli estremisti in squadra e non voglio finire al traumatologico. Però non 153
pensi che sia di destra [...] ogni giorno leggo due giornali, La Stampa e l’Unità, per fare il confronto. Capisco che al pugno duro di una volta non si torna più, era ingiusto e comunque oggi sarebbe impossibile, e la parola ‘intimidire’ mi fa paura. Per troppi anni in Fiat l’operaio è stato intimidito. Ma adesso quelli che vogliono lavorare, e sono ancora tanti, non respira no più. [...] Torino ormai mi fa paura. Non voglio più abitare a Torino, appena potrò, me ne andrò a stare via». Il giorno dopo l’inviato incontra uno dei «61»: «Ero un operaio generico del terzo livello. Secondo la Fiat anche un operaio violento, un quasi terrorista, un aiutante delle Brigate rosse: questo è il bollo che Agnelli sta cercando di mettermi in fronte. [...] Sono della provincia di Catanzaro [...] sbarco qui nel gennaio del 1969. Non ero mai stato fuori dal paese, Torino mi fa spavento. Grande. Brutta. La nebbia. La neve. Mi sono chiesto: ma dove sei arrivato? [...] però io pensavo solo alla Fiat [...] ci entro il 28 maggio 1969 [...] nel 1970 ho cominciato a darmi un po’ da fare sul problema dell’ambien te della verniciatura. La situazione era disastrosa e anch’io ne risentivo. Ho perso otto denti. E poi le nausee. L’ulcera duo denale. L’udito scassato. In una parola mi sono mosso quan do ho visto che pagavo il posto in Fiat con la pelle [...] poi ho fatto un incontro importante: Lotta continua. [...] Quella lettera mi bolla come violento, e io la contesto! Certo, i miei scioperi per cambiare l’ambiente li ho fatti. E qualche fastidio alla Fiat l’ho dato, ma come tanti altri [...]. Perché allora mi hanno messo fuori? La mia risposta è questa, la Fiat conosce vita, morte e miracoli di ciascuno dei suoi operai. Io sono un operaio politicizzato. Ho sempre cercato di coinvolgere i miei compagni nei problemi del lavoro, per l’ambiente e per i ritmi. Andavo io a controllare, a parlare, a discutere. Insomma, davo fastidio. Così hanno tirato fuori le vecchie liste: in quelle di Lotta continua c’ero anch’io e mi hanno sbattuto fuori [...] adesso ci ho fifa. Ho perso il lavoro, non ho copertura politica, i giornali ci danno addosso, io rischio di compromettermi con tutti. Se fossi un violento avrei l’ani 154
ma in pace. Sarebbe una scelta mia. Invece mi sento condan nato dalla Fiat senza prove. [...] Come ho nostalgia di Lotta continua, ho nostalgia della Fiat. Sono un emigrato, la Fiat è stata la mia casa per dieci anni [...] se i sindacati mollano, Brigate rosse e Prima Linea potranno dire: vedete? Nessuno può difendere la classe operaia, siamo rimasti solo noi e le nostre pistole». Agnelli sacrificali o fiancheggiatori del terrorismo, sem plici oppositori o pericolosi violenti? Soltanto due dei «61» risulteranno effettivamente implicati nella lotta armata; la maggior parte accetterà il licenziamento cercando un nuo vo lavoro, altri (meno) si rivolgeranno alla magistratura per ottenere il reintegro in fabbrica. Ma quasi nessuno rientre rà in Fiat. Da quel momento i «61» entrano di diritto nella narrazione collettiva della città e segnano, loro malgrado, un nuovo punto di svolta: «L’omicidio di Carlo Ghiglieno da parte di un gruppo di fuoco di Prima Linea determina uno sbandamento nel quadro di comando aziendale e finisce, con uno straordinario effetto boomerang, per accrescere oltre mi sura il disorientamento operaio, accelerando i processi – già in corso – di disgregazione e di privatizzazione. Non furono molti gli operai Fiat a compiere la scelta della lotta armata: 62 in tutto, ne segnala il Ministero dell’Interno, di cui due membri della direzione strategica – entrambi delegati sin dacali – e molti militanti con ruoli minori, concentrati con maggior intensità alle Presse di Mirafiori. Ma l’effetto sulla comunità di fabbrica fu devastante, paragonabile a quello dell’avvelenamento dei pozzi nelle comunità rurali. I delicati canali della comunicazione informale e della fiducia, costruiti pazientemente in anni di conflitto, furono d’improvviso dis seccati. Il meccanismo della diffidenza e della paura ritornò a isolare e dividere. Il mito della piena trasparenza dei rapporti interpersonali – l’idea antica che in fabbrica si conoscono gli uomini nella loro piena autenticità – fu infranto. L’ombra del la clandestinità di alcuni finì per rendere ognuno clandestino a ogni altro; per inibire la comunicazione e la solidarietà con 155
chi non si sapeva più quale identità celasse. Divenne impossi bile denunciare pubblicamente un capo, quando si rischiava che questo pochi giorni dopo venisse gambizzato. Divenne difficile continuare a usare lo stesso linguaggio del conflitto, il lessico che per quasi un decennio aveva strutturato un mo do d’essere e di comunicare collettivo, una volta fatto pro prio dai messaggi di morte dell’area armata. Gli spari delle Br non ruppero il silenzio operaio. Contribuirono a renderlo più avaro, e pesante»1. Tra il silenzio operaio che diventa «più avaro e più pesan te» e la voce della città che si fa via via più prodiga e meno impaurita, Torino entra nel più terribile dei mesi, il dicembre 1979. Alla Falchera c’è un ragazzo di 20 anni, si chiama Anto nio Pollidoro e ha entrambe le mani gravemente danneggiate, rimaste mesi prima sotto una pressa di una stamperia di Lei nì. Le Ronde proletarie di combattimento vengono a cono scenza della storia e decidono di fare giustizia a modo loro. Giovedì 7 dicembre 1979 irrompono nell’azienda e, di fronte a quattordici operai tenuti sotto tiro, sparano alle gambe del titolare Pietro Orecchia, 45 anni. Un ferimento come tanti, commentano i più cinici. Lo stesso commento non potranno farlo quattro giorni dopo. Non sarà come le altre volte: «Se dovessi disegnare la copertina di un album di quegli anni – racconta Luciano Borghesan, cronista della Stampa – mette rei una foto della Saa». Saa sta per Scuola di amministrazione aziendale, la prima business school italiana, fondata a Torino negli anni Cinquanta, da sempre ospitata nei locali di via Ven timiglia 115, immersi nel verde di Italia 61, il quartiere nato per la celebrazione dei cento anni dell’Unità d’Italia. Mar tedì 11 dicembre 1979, in aula magna, novanta neolaureati ascoltano la lezione di statistica del professor Barberis. Altri sessanta, in un’aula a fianco, seguono quella di diritto d’im presa del professor Vercellone, presidente del Tribunale dei 1 Marco Revelli, Lavorare in Fiat. Da Valletta ad Agnelli a Romiti. Operai sindacati robot, Milano 1989, p. 86.
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minori di Torino. Gli allievi del master, una ventina, stanno per affrontare un esame. Sono le 15.20 quando una decina di persone ben vestite varca la soglia della Saa. I bidelli pensano a un gruppo di studenti, ritardatari, ma dalle borse spun tano mitra e pistole: «Occuparono l’edificio semplicemente staccando i telefoni – ricorda Giampaolo Giuliano, 31 anni, studente del master –, la tecnologia era molto semplice». Un ragazzo, età apparente 25/30 anni, spalanca la porta dell’aula magna: «Siamo di Prima Linea. State tranquilli, l’ufficio è oc cupato». Gli studenti pensano a un mitomane e dai banchi si sente anche qualche battuta di spirito, fino a quando l’uomo spalanca il giubbotto mostrando due pistole: «State calmi e niente scherzi. Siamo qui per una dimostrazione proletaria». Stessa scena nell’aula a fianco. Altri componenti del com mando si dirigono verso quelli del master: «Noi eravamo in un’altra ala della scuola – ricorda Giuliano –, ci raggiungono in due, si presentano armati e ci comunicano che si tratta va di un’irruzione proletaria. Quindi ci portano dall’auletta all’aula magna». Riuniti tutti gli studenti, professori e il personale di servi zio, una ragazza sale sulla cattedra e legge un volantino: «Qui si formano i quadri dirigenti delle multinazionali – urla –. Non dovete proseguire questi studi o sarà peggio per voi». Uno studente obietta: «Io vengo dal Sud, seguo questi corsi per poter lavorare». «Non dico che tu debba fare come noi, ma qui non devi più venire» è la risposta. Non l’unica, secon do alcune testimonianze. C’è chi racconta di aver sentito un «Allora vai a rubare». Alla fine della «lezione rivoluzionaria», il commando seleziona dieci persone tra quelle del master, cinque tra i professori e cinque tra gli studenti. Tra questi c’è anche Giampaolo Giuliano: «Ci hanno fatto sedere per terra, in corridoio, dopo averci legato le mani e tappato la bocca con il nastro adesivo». Gli altri studenti del master sono Giuliano Dall’Occhio, 28 anni, Renzo Poser, 31, Tom maso Prete, 24, e Pietro Tangari, 21. Gli altri cinque sono il dirigente dell’Olivetti Paolo Turin, 40 anni, e i professori (e 157
dirigenti Fiat) Angelo Scordo, 45 anni, Lorenzo Uasone, 34, Diego Pannoni, 41, e Vittorio Musso, 42 anni. Quest’ultimo è l’unico di cui i terroristi accertano l’identità («Tu sei quello che lavorava alla pianificazione con Ghiglieno?»). Gli altri vengono scelti a caso: «Dopo pochi minuti è cominciata l’ese cuzione – ricorda Giuliano –. Seduti a terra con la testa verso il basso, due colpi ciascuno. Io ero l’ultimo della fila, dunque ho sentito i gemiti e i colpi di tutti gli altri. Non potevo sape re quale sarebbe stata la mia sorte, meno di due mesi prima avevano ucciso Ghiglieno. Poi ho visto la canna di una pistola vicino alle gambe, quindi due colpi. Io fui colpito all’arteria femorale, ma solo per due terzi. Il che, oggi, mi permette di parlare con lei». Alle 15.45, meno di mezz’ora dopo l’irruzione, il com mando abbandona la Saa. Studenti e insegnanti che dall’aula magna hanno potuto sentire tutto sono i primi a soccorrere le dieci vittime. Lo spettacolo è agghiacciante: dieci persone a terra, tra urla, lamenti e decine di rivoli di sangue. Sopra le loro testa, vergate a spray rosso, le scritte «Prima Linea» e «Onore ai compagni Barbara e Matteo». Tra i feriti il più grave è Giampaolo Giuliano: «Sono stato parecchi mesi in ospedale, ho subìto un trapianto di 6 centimetri all’arteria femorale. Il periodo di recupero è stato lungo e difficile, non solo dal punto di vista fisico. Quel giorno mi ha lasciato una traccia indelebile che mi porto addosso ancora adesso. Non ho mai voluto sapere chi ha sparato materialmente, né perché abbiano sparato proprio a me. Non ho mai provato a rispon dere, perché probabilmente una risposta non c’è». Lo shock è enorme. L’assalto alla Scuola di amministrazio ne aziendale è un’autentica decimazione, dal sapore di rap presaglia nazista. Metà delle vittime sono semplici studenti, feriti a colpi di pistola nel mezzo di una normale giornata di studio. I giornali cittadini parlano del «più clamoroso atten tato terroristico mai avvenuto in Italia», quasi come il rapi mento e l’omicidio di Aldo Moro. E se in via Fani le Brigate rosse raggiungono l’apice della loro potenza prima di imboc 158
care la via del declino, lo stesso può dirsi del terrore a Torino dopo l’assalto Saa. È il punto più alto della violenza: «Per Prima Linea – ricorda ancora Giampaolo Giuliano – è stata una dimostrazione di invulnerabilità, come a dire, ‘possiamo fare quello che vogliamo’. Ma il giorno dopo in piazza c’era un sacco di gente. Io penso che da quel momento il percorso del terrorismo a Torino abbia cominciato a decadere». Ven tiquattr’ore dopo gli studenti della Saa si riuniscono in as semblea: «Dobbiamo continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto. Guai a farci intimorire», ripetono in molti. La violenza dà assuefazione, le organizzazioni, imboccato il crepuscolo, sembrano gareggiare per sentirsi vive. Non c’è tempo di «elaborare» l’assalto alla Saa di Prima Linea che le Brigate rosse rispondono con il «venerdì nero», il 14 dicem bre 1979. Poco dopo le 6 del mattino il caporeparto della Carrozzeria, settore Montaggio 127, Adriano Albertino, 37 anni, parcheggia la sua 500 in piazzale Caio Mario, di fronte all’ingresso principale di Mirafiori in corso Agnelli. È un po’ in ritardo e corre verso il cancello 3. È ancora buio, piovig gina, forse non vede le tre persone che lo stanno aspettando. Quando se ne accorge è troppo tardi. Un uomo scarica nelle gambe del caporeparto l’intero caricatore. Albertino giace a terra con i femori spezzati e l’arteria femorale sfiorata da un proiettile. I primi soccorritori vedono allontanarsi una 127 amaranto. Pochi minuti dopo la rivendicazione: «Qui Briga te rosse, abbiamo sospeso noi il caporeparto carrozzerie. Se tornerà in fabbrica lo elimineremo». Adriano Albertino ave va avuto l’ingrato compito di consegnare brevi manu alcune delle 61 lettere di licenziamento poche settimane prima. Le sirene dell’ambulanza che trasportano alle Molinette l’enne simo «gambizzato» si mescolano a quelle delle volanti richia mate alla Fiat Lingotto. Alle 7 un commando di tre uomini ha preso in ostaggio due vigilanti, poi rilasciati a Moncalieri, durante un tentativo di rapina. Il portavalori con 2 miliardi di tredicesime è arrivato in ritardo in via Nizza 250 e il colpo sfuma. Non così a Rivalta. Alle 9, tre sconosciuti assaltano il 159
portavalori con le buste paga dei lavoratori Fiat, 520 milio ni in contanti. La città è una sinfonia di sirene della polizia quando in via Valprato 60, in barriera di Milano, di fronte alla Fiat Iveco, ricompare la 127 amaranto. Questa volta a cadere ferito è il sorvegliante Michele Sacco, 53 anni. Alla scena as siste un camionista, che tenta di disarmare lo sparatore, ma viene picchiato a sangue a colpi di calcio di pistola. L’allerta è massima. Durante la notte, di fronte allo sta bilimento Elcat di Rivoli, che produce sedili per la Fiat, un guardiano della Mondialpol nota una vettura sospetta di fronte ai cancelli. In meno di un minuto arriva una gazzella dei carabinieri che illumina a giorno via Nizza. Dalla vettura parcheggiata di fronte al numero 4 sparano immediatamente. L’appuntato Giovanni Serra, 32 anni, viene colpito alla spalla, il collega Massimo Asnaghi è ferito gravemente all’addome e alla gambe, ma riesce a rispondere al fuoco. Sull’asfalto rimane il corpo di Roberto Pautasso, appena 21 anni. È un ragazzo di Condove, paesino della bassa Val Susa. Il mattino seguente le Brigate rosse confermano quanto da subito si era sospettato: Pautasso era uno di loro. Poi minacciano: «Per ogni compa gno caduto saranno passati per le armi cinque carabinieri». Questa è la Torino che aspetta il Natale 1979, una città che Lietta Tornabuoni descrive così il 16 dicembre sulla Stampa: «Due colpi come di pistola risuonano secchi alle dieci del mat tino, e al mercato del Balon la folla del sabato s’immobilizza: le facce si girano tutte insieme in un repentino grande silen zio (una sola voce di donna, sottile, lamentosa: ‘Anche qui?’), aspettano. Non è niente: di colpo il movimento riprende, sui trespoli del gioco delle tre carte si ricomincia a puntare 50.000 lire a colpo, si riavviano le contrattazioni anche tra i tanti ex di Autonomia operaia divenuti venditori o rimasti clienti dell’an tiquariato povero, una musicassetta di Heather Parisi canta fortissimo ‘È fantastico, superfantastico’. È la doppia vita di Torino alla fine della settimana nera. In una settimana si sono addensati atti terroristici clamorosi, sanguinosi e diversi: se è una guerra, la gente non vuole com 160
batterla, non l’accetta, non riesce neppure a concepirla. In una settimana, il terrorismo ha cambiato faccia. Per la prima volta ha attaccato una collettività sequestrando duecento per sone, per la prima volta ha colpito all’ingresso della fabbrica anziché sotto la porta di casa: al segreto agguato individuale s’è sostituita la teatralità ad effetto politico dell’impresa in pubblico, delle vittime scelte e ferite davanti a tutti, del bersa glio raggiunto ai cancelli di Mirafiori con l’esattezza di identi tà tempo e luogo che vuol significare una minaccia d’andare oltre, d’entrare. Per la prima volta hanno preso a circolare in città notizie false, ‘pare che mettano il coprifuoco’, ‘dice che hanno mandato il volantino che adesso arrivano nei super market’. Per l’ennesima volta, gli inviati speciali dei giornali sono arrivati in città con la malavoglia scettica dei corrispon denti di guerra: nell’opinione nazionale, il terrorismo rischia di diventare per Torino quello che è la miseria per Napoli, la mafia per Palermo, la paralisi politico-burocratica per Roma: un altro problema drammatico e mai risolto, mortale e fatale, una sanguinosa specialità locale. ‘Il resto d’Italia guarda a Torino come a una cavia da esperimento, o come se dovesse piangere i mali da lei stessa creati: e ingiusto, è ingeneroso’, dice il deputato comunista Libertini. ‘È una città preoccu pante’, dice l’avvocato Agnelli, ‘l’aggettivo sarà banale, è il più appropriato’. Ma la città quasi in guerra lavora, si diverte, si prepara al Natale, va a sciare, impara. Alle pareti del salone del con siglio di quartiere di via Vigone, accanto ai manifesti della ‘polentata di circolo’, s’impolverano grandi cartelli distribuiti dalla Regione. Fanno i conti del terrorismo (nel 1978 cinque morti e dieci feriti, nel 1979 cinque morti e ventisei feriti si nora), illustrati dalla nuova iconografia cittadina: fotografie di corpi lacerati e funerali di massa, la terribile immagine di Roberto Crescenzio seduto su una sedia da caffè, ancora vi vo e arso, insanguinato, denudato, reso calvo e slabbrato dal fuoco. Ma nessuno vi fa più attenzione e nonostante spari, sirene e sangue del mattino, come ogni venerdì sera ottanta 161
persone assistono attente, anche stasera, alle lezioni di bio logia di Torino-Enciclopedia. La voglia di civiltà trasforma in un successo ogni iniziativa culturale. Nonostante tutto, i soci del Fondo internazionale della natura non rinunciano a inaugurare, con educati discorsi e giri di vermouth all’insegna del panda bianconero, la loro nuova sede: ‘Ci mancherebbe altro, vorrebbe dire che hanno vinto. Anche da quelli do vremmo lasciarci comandare, farci negare una filosofia rivol ta al futuro?’. All’Università la scritta ‘Per i delatori, attenti!’ s’affianca agli slogan dei ‘Corsi di danza afrocubana’ e agli insulti goliardici: ‘Paranoici, punkinari’. Nei discorsi della gente lo sgomento echeggia soprattutto per ‘quella scuola trasformata in uno scannatoio, sangue nei gabinetti, cose da macelleria’; per i cerchi di gesso che isolano sull’asfalto cada veri e grumi di sangue: il terrorismo-problema, il terrorismoastrazione delle tavole rotonde è per i torinesi impatto fisico, presenza concreta e brutale. Ma allo stadio gli spettatori sono quelli di sempre pure nella tribuna delle autorità, anche se i ragazzi della curva Maratona o della curva Filadelfia provano ad entrarci con le biglie d’acciaio nascoste dentro i panini. Quando l’industriale Carlo De Benedetti arriva all’aeropor to, gli autisti dei taxi schizzano via: ‘Dai, che se gli sparano prendono dentro anche noi’. I giornali del mattino sembrano bollettini di guerra; i capi Fiat hanno tolto dalla porta di casa o dal citofono la targhetta col proprio nome; all’inaugura zione del Teatro Regio l’élite cittadina non va, come non va da nessun’altra parte. Molti girano armati: ‘Anch’io porto la pistola’, dice l’industriale e deputato democristiano Rossi di Montelera. ‘In chi si sente un possibile bersaglio, e ormai so no moltissimi, c’è un senso di autentica angoscia. Chi poteva ha mandato all’estero mogli e figli: famiglie sfasciate, genitori pendolari, ragazzi che non possono avere una vita normale e vengono pure presi in giro dai compagni perché vanno a scuola con la scorta...’. Ma nessun consigliere comunale ha dato le dimissioni, nessun dirigente industriale ha lasciato il lavoro, non vi è stato alcun collasso economico, né si può dire 162
che la disoccupazione sia drammatica: nei primi dieci mesi del 1979 a 33.393 licenziamenti hanno corrisposto 42.200 as sunzioni. Al tribunale, sette carabinieri col mitra imbracciato sorvegliano l’ingresso: ma il processo d’appello alle Brigate rosse s’è svolto senza rifiuti o fughe dei giudici popolari e sen za oscillazioni degli avvocati, in un assetto da stato d’assedio ma senza il clima di terrore del primo processo nel 1978. In corso Marconi la direzione della Fiat è difesa da un presidio numeroso e vistoso di poliziotti col giubbetto antiproiettile, in tenuta da combattimento. Il terrorismo ha alterato anche i criteri di scelta dei dirigenti industriali: il coraggio finisce per contare più delle qualità professionali. Ha alterato anche il lavoro dei partiti: ‘Non fai più niente altro che sentire cos’al tro è successo stamattina, e vedere come puoi organizzare la risposta necessaria’. ‘La città va diventando sempre più silenziosa e chiusa’, dice il deputato democristiano Bodrato, ‘e va crescendo l’ostilità verso la politica, considerata global mente un po’ responsabile’. I comunisti fanno invece i conti di modesti successi: l’anno scorso [1978] i nuovi iscritti al partito erano 2.197. Quest’anno [1979] sono 2.222, e circa 500 appartengono alle sezioni di fabbrica, alla ‘nuova giovane classe operaia’. Tra gli operai, dice il dirigente regionale del Pci Guasso, una consapevolezza di massa del terrorismo non c’è ancora: ‘Ad avere su questo tema una mobilitazione per manente si fa una gran fatica, sono alti e bassi, devi ricomin ciare da capo ogni volta’. Il segretario comunista Giannotti dice: ‘Una maggiore coesione della comunità di fabbrica di fronte ai fatti terroristici c’è. I corpi sociali reagiscono bene: gli individui...’. Gli individui vogliono campare, e ci riescono. Rimozione, indifferenza, abitudine convivono con un panico composto e solitario. Torpore, sconcerto, accidioso e triste consenso alle condanne antiterroriste convivono con furiose richieste di pena di morte. Di sera brillano festose le lampadi ne lucenti del Natale, le strade del centro s’ingorgano di gen te in cerca di regali, si completano i programmi per i viaggi di fine anno. Del terrorismo filtra nel linguaggio: ‘Attento, che 163
ti stritòlo’, scherza una ragazza, allegra nel primo mattino di via Nizza. Il terrorismo sta lì: e ci sta anche tutto il resto. È la doppia vita di Torino nella guerra rifiutata, in una nebbia che gli occhi ancora non riescono a bucare». Prima della fine dell’anno la «guerra rifiutata» fa ancora una vittima. Il 21 dicembre 1979, in corso Vercelli 154, ignoti feriscono alle gambe Ezio Gavello, 35 anni, capolaboratorio Controlli alla Fiat Mirafiori. Non è grave. Torino non lo sa, ma Gavello è l’ultimo capo Fiat a finire all’ospedale con le gambe crivellate di proiettili. Non accadrà più. In questi ulti mi giorni del 1979 i carabinieri del generale Dalla Chiesa sco prono tre covi: uno in via Rossini a Nichelino, l’altro in corso Peschiera 171 a Borgo San Paolo, l’ultimo in corso Lecce 25, quartiere Parella. Qui sfuggono alla cattura i due inquilini, che vengono però identificati. Uno si chiama Patrizo Peci.
Ultima corsa
Sembra passato un secolo dai primi fuochi alle auto dei diri genti, dai sequestri di Bruno Labate e di Ettore Amerio, dalla prima volta di un volantino o di una telefonata di rivendica zione. All’inizio del 1980, i cancelli e i portoni che si erano aperti per il grande rimescolamento seguito al ’68, sono di nuovo sprangati. Torino appare ancora debole, buia, asserra gliata, divisa tra la rassegnazione di chi dell’incubo non vede la fine, e il distacco di chi a lungo ha pensato – e forse ancora pensa – che la cosa non lo riguardi, che in fondo sia una par tita tra istituzioni e terroristi, «che se la combattano loro e mi lascino in pace». Ma non è così. Da tempo la città ha comin ciato a muoversi con iniziative sempre più frequenti, sempre più affollate. Il numero di quanti contestano pubblicamente la lotta armata aumenta ogni giorno, si arricchisce di idee che mirano semplicemente a «fare uscire la gente di casa». E che funzionano: «Avevamo il problema – racconta Diego Novelli – che la città al calar delle tenebre ricadeva ogni volta nell’angoscia e nella paura: Torino diventava deserta. E allora io presi materialmente le pagine gialle nel mio ufficio a Pa lazzo Civico e cercai tutta una serie di associazioni, di gruppi e con la mia segreteria andai avanti una decina di giorni, non feci altro. Convocai tutti i dirigenti di queste varie associazio ni, dalle bocciofile alle palestre, dalle società di fotografia ai gruppi teatrali, per invitarli a promuovere delle iniziative che smuovessero le persone. Ci inventammo così i punti verdi per l’estate, Settembremusica per gli amanti dei concerti, e TorinoEnciclopedia, un ciclo di serate e manifestazioni sui temi più 165
vari, con conferenze, dibattiti, proiezioni. È stato un modo efficace per rispondere, per fare vedere che la città era viva e non voleva rimanere chiusa in casa». Torino racconta la sua reazione, prima sotterranea, poi or gogliosa e visibile. Tra il 1978 e i primi mesi del 1980, soprat tutto in Fiat ma non soltanto, si tengono un po’ dappertutto oltre quattrocento assemblee. Magistrati e poliziotti, politici e sindacalisti, entrano nelle fabbriche per dialogare con gli operai, per persuaderli che il terrorismo non riguarda solo le vittime designate o potenziali, ma attacca e peggiora la vita di ognuno: «Era un problema di tutti – racconta Gian Carlo Caselli – di cui tutti dovevano in qualche modo provare ad occuparsi. L’obiettivo principale delle assemblee era uscire dal chiuso delle aule di giustizia, degli uffici di polizia, per far capire che questo non era solo un problema criminale, ma anche un problema politico che di conseguenza doveva esse re trattato e preso in considerazione dalla pòlis, dai cittadini. Nelle fasi iniziali la situazione è molto difficile: alle prime assemblee non viene letteralmente nessuno, tanta è ancora la paura. Poi c’è una seconda fase, in cui la gente comincia a venire, ma ancora non fa domande pubbliche; le domande, quando ci sono, sono un po’ clandestine, scritte su bigliet tini anonimi consegnati al tavolo dei relatori che provano a rispondere. Poi il contesto cambia radicalmente e si arriva alle assemblee oceaniche, con partecipazione di massa nei reparti della Fiat, alla presenza di terroristi o aspiranti terro risti. Lo prova il fatto che in alcune basi, soprattutto di Prima Linea, troveremo dei veri e propri verbali di queste assem blee: chi erano i relatori, quante persone partecipavano, quali domande venivano fatte. Insomma, i terroristi capivano che queste assemblee stavano sempre più prosciugando l’acqua, il consenso o quantomeno l’equidistanza in cui, fino a quel momento, avevano nuotato. Il risultato fu un progressivo iso lamento politico del terrorismo. I clandestini si accorgevano ogni giorno di più di non essere l’avanguardia di qualcuno, ma solo ed esclusivamente di se stessi. Non hanno più nes 166
suno né dietro né intorno a sé e sfuma la speranza di fare proseliti, di innescare un processo rivoluzionario ampio e ir reversibile. Crollano, insomma, le certezze politiche e anche psicologiche su cui avevano basato fino a quel momento la loro azione. Ed entrano in crisi. La fine del terrorismo briga tista scaturisce anche da qui, da questo isolamento politico che con le assemblee e in tanti altri modi, ma soprattutto con le assemblee, si riesce a realizzare». La fine di questa stagione, almeno a Torino, è vicina, ma ancora nessuno riesce a immaginarla. Gli effetti della trasfor mazione culturale in atto stanno per manifestarsi in una città che conosce un rapido e inatteso spopolamento (ogni anno 10.000 abitanti in meno dal 1974 in avanti). Il 1980 si apre con notizie che in parte rimandano al decennio concluso, in parte anticipano quello che comincia. I giornali del 2 genna io, che titolano sulla morte del leader socialista Pietro Nenni, danno largo spazio alle rivelazioni del «professorino» Carlo Fioroni, ex Potere operaio recluso nel carcere di Matera, il primo collaboratore di giustizia nella storia italiana dell’ever sione di sinistra. Il giorno dopo, 3 gennaio, si parla di due arresti vicino a Ivrea per l’attentato contro una concessionaria Fiat, della crisi degli ostaggi tra Stati Uniti e Iran khomeini sta, e dell’opinione dei giudici bolognesi, secondo i quali sono circa 800 i giovani pronti a entrare nei partiti armati da un momento all’altro. Il 6 gennaio, giorno dell’omicidio mafio so del presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella a Palermo, La Stampa apre con la notizia del terremoto che ha sconvolto l’intera provincia di Torino, «la più forte scossa mai avvertita in città dal 1914». A pagina 7 compaiono i dati, im pressionanti, forniti dal Pci sulla violenza politica in Italia nel 1979: 2.056 atti terroristici complessivi (1.773 contro le cose, 283 contro le persone) con 40 morti e 54 feriti, rivendicati da 283 organizzazioni differenti. Passano venticinque giorni e in Piemonte il conteggio può ricominciare. La sera del 31 gen naio, alle 21.50, un commando irrompe alla Framtek, azienda dell’indotto Fiat con sede a Settimo Torinese, popoloso comu 167
ne della cintura nord. Mentre alcuni assaltano lo stabilimento a colpi di molotov, altri prendono in ostaggio i sorveglianti, costringendoli a sdraiarsi a terra, al centro della guardiola. Indossano una divisa e meritano una punizione. Otto colpi raggiungono le gambe di Carlo Ala, 59 anni e tre figlie, che muore dissanguato poco più tardi perché un proiettile, anco ra una volta, recide l’arteria femorale della vittima. Giovanni Pegorin, 39 anni, se la cava invece con due mesi di prognosi e una tibia spezzata. Nel rivendicare al telefono l’impresa, i Nu clei comunisti territoriali, sigla fino a quel momento pressoché sconosciuta, annunciano che quello è solo l’inizio della loro «campagna contro la Fiat». Di fatto però, i due sorveglianti della Framtek resteranno le uniche vittime di un gruppo nato con l’intento di punire l’azienda, anche nel suo indotto, do po i «61» licenziamenti. Le armi tacciono per una settimana, fino a venerdì 8 febbraio 1980, quando ricompaiono ancora in un comune della cintura. Questa volta tocca all’architetto Roberto Garrone, 40 anni, assessore comunista all’urbanisti ca del Comune di Caselle e professore di matematica in una scuola media. Intorno alle 8 di mattina, mentre percorre via Saccarelli per raggiungere l’Istituto Pacinotti dove insegna, un giovane a volto scoperto lo raggiunge alle spalle e gli esplode un proiettile di calibro 22 al polpaccio sinistro. Prima di av vertire il bruciore alla gamba, l’architetto Garrone ha il tempo di immaginare che sia uno scherzo, forse un petardo che gli è esploso tra i piedi. Dopotutto è carnevale, pensa, e i ragazzi amano sparare i botti per le strade del paese. A Torino invece, il cuore dei festeggiamenti per il carneva le è tradizionalmente compreso tra i portici e i lampioni stile impero di piazza Vittorio Veneto. Per i torinesi «piazza Vit torio è la piazza più grande d’Europa». Qualcuno, per amor di verità, aggiunge «chiusa da tre lati» o «senza monunenti». Nessuno in cuor suo sa se sia vero o no, ma tutti, un po’, ci sperano. Torino ama, talvolta al limite del parossismo, colle zionare primati d’ogni genere. Le giostre di piazza Vittorio sono l’odore di zucchero filato e le maschere, colori e corian 168
doli che sfiorano il corso quieto del Po. È quasi mitologia: «E a carnevale la piazza si trovava invasa dalle giostre, c’erano i tirassegno con i palloncini e le grotte del terrore, e i più vecchi si ricordavano persino di una volta che le rotaie dell’ottovo lante le avevano montate fin dentro l’acqua, a pelo, in modo che ti sembrava di finire nel fiume e annegare»1. Cinquantamila persone, in maschera, seguono la sfilata del «sabato grasso»: 16 febbraio 1980. Torino, che prova a cam biare, non s’accorge di quando le cose cambiano davvero. Accade due giorni più tardi. Tra le giostre, lunedì 18 febbraio 1980, i carabinieri del generale Dalla Chiesa arrestano due uomini, che immediatamente pronunciano il classico: «Mi dichiaro prigioniero politico», rifiutando di fornire le gene ralità. Ma chi li blocca sotto i portici di piazza Vittorio li co nosce bene: sono Rocco Micaletto e Patrizio Peci, da tempo ricercati perché sospettati di appartenere alle Brigate rosse. I loro nomi, e la notizia dell’arresto, compaiono sui giornali soltanto tre giorni più tardi, accompagnati dalle informazioni che gli inquirenti hanno sul loro conto. Di Peci in particolare si è molto parlato nell’ultimo mese, da quando è riuscito a sfuggire agli arresti seguiti alla scoperta del covo di corso Lec ce 25. Tra le altre cose, Peci è considerato l’autore della tele fonata alla moglie di Aldo Moro durante il rapimento del pre sidente Dc, dell’omicidio del vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet, avvenuto a Roma il 12 febbraio 1980 e del lancio di bombe anticarro Energa contro la caserma Lamarmora. «Ap pena arrestato – ricorda Gian Carlo Caselli – Peci si dichiara prigioniero politico, ma dopo un po’ di tempo comincia a circolare la voce che potrebbe collaborare, potrebbe pentirsi. Sono in tanti ad avere raccolto questa voce. L’unico che fa la cosa giusta è il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che viene da me e mi dice: ‘Pare che Peci potrebbe collaborare, vorrei essere autorizzato a parlargli’. E allora, sulla mia macchinet Luca Rastello, Piove all’insù, Torino 2006, p. 37.
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ta per scrivere, scrivo un bigliettino di cui ancora ricordo il testo: ‘Si autorizza il latore della presente, generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, o ufficiale dell’Arma dei carabinieri dal medesimo delegato, ad avere colloqui nel carcere di Cuneo – dove Peci si trovava – senza limitazioni di orario’. Comincia allora una serie di colloqui tra gli ufficiali dell’Arma e Peci, che in quel momento è soltanto un confidente». Sulla base delle prime rivelazioni di Peci, i carabinieri mettono a segno due operazioni. La prima consente di scoprire un deposito d’armi interrate in un campo nei pressi di Biella. Tra le armi recuperate, anche la famigerata Nagant 7,62, utilizzata dalle Br in almeno nove attentati. I periti balistici avevano dunque ragione, la pistola-feticcio dell’Armata Rossa esiste davvero. La seconda operazione è il blitz dei carabinieri nel covo di via Fracchia 12 a Genova, nella notte del 28 marzo 1980. Lungo il corridoio dell’appartamento restano a terra i corpi senza vi ta di quattro brigatisti (Riccardo Dura, Piero Panciarelli, Lo renzo Betassa e Annamaria Ludmann), mentre il maresciallo Rinaldo Benà viene ferito da una pallottola che lo colpisce a un occhio. «L’irruzione di via Fracchia – continua Caselli – mette in crisi Peci, il quale ha una sorta di ripensamento, vorrebbe pentirsi di aver cominciato a parlare. Per nostra for tuna, riesce a superare questo momento e in occasione di un trasferimento già disposto da Torino a Pescara, di primissima mattina ricevo una telefonata, un fonogramma trasmesso via telefono, in cui mi si comunica che Peci vorrebbe collaborare ufficialmente. Allora, durante il trasferimento, lo fermiamo a Cambiano [in provincia di Torino] in un caserma dei cara binieri e lo raggiungiamo in tre, il collega Alberto Bernardi come pubblico ministero, Mario Griffey ed io come giudici istruttori. Interroghiamo Peci – letteralmente senza fermar ci se non per bere un caffè ogni tanto – per quarantott’ore filate. Uno dopo l’altro passavamo i fogli dell’interrogatorio al generale Dalla Chiesa, che li aspettava fuori dalla stanza, come un padre in attesa della nascita di un figlio. Peci è il capocolonna delle Br a Torino. Dice tutto quello che sa, cioè 170
tutto quello che un inquirente può desiderare di sapere. Ma, in qualità di capocolonna sa molte cose che, dal punto di vista investigativo, sono di competenza di altre città e si rive leranno preziosissime. Peci infatti, prima di arrivare a Torino, ha avuto un periodo di militanza irregolare a Milano. Come irregolare ha potuto conoscere altri irregolari di Milano, e fa i nomi di tutti. Alla fine delle quarantott’ore di interrogatorio a Cambiano, i vari giudici istruttori e pubblici ministeri si di stribuiscono le parti del verbale per sviluppare chi a Torino, chi a Biella, chi a Milano le dichiarazioni. Tocca a me e al collega Griffey seguire la parte milanese, quella dei militanti irregolari. Tutti quelli che andiamo a sentire finiscono per confermare le dichiarazioni di Peci. All’inizio, soprattutto gli avvocati degli indiziati, ci trattano con una sufficienza ai li miti dello scherno. Poi però, a un certo punto, caliamo l’asso: ‘Le risulta che qualcuno la chiami con il nome tal dei tali?’. Il gelo. Perché ‘tal dei tali’ è il nome di battaglia. A quel punto capiscono che sappiamo molto di più di quello che immagi nano e crollano uno dopo l’altro. Non c’è dubbio che Peci dica la verità, l’inchiesta può decollare». Patrizio Peci, 27 anni, marchigiano, a Torino dal marzo 1977, apre una crepa irreversibile. Seguiranno molti altri in terrogatori, ma le 63 pagine del verbale di Cambiano, datate 1-2 aprile 1980, sono tra i documenti più rilevanti della storia italiana recente. La memoria di Peci è infallibile, ordinata, mette in sequenza gli eventi, disegna le scene di omicidi e fe rimenti, ricorda dettagli di tutte le azioni, quali posizioni era no state occupate, quali auto rubate, quali armi usate. È un militare che racconta gerarchie e struttura del suo esercito, ma che soprattutto ne rivela il segreto supremo, l’identità dei brigatisti. La sopravvivenza di un’organizzazione clandestina si fonda sull’anonimato; quando uno solo decide di parlare, l’intero castello si sfascia. E Peci pagherà il suo tradimento con la morte del fratello, Roberto, giustiziato dalle Brigate rosse di Giovanni Senzani nell’agosto 1981, dopo cinquan taquattro giorni di prigionia. In quella occasione le Br, an 171
ticipando i terroristi mediatici del XXI secolo, filmeranno con una telecamera il «processo proletario» e l’esecuzione del condannato, considerato complice della delazione del fratel lo. «Eravamo sconfitti – scrive Patrizio Peci – militarmente e politicamente. Questa è stata la motivazione della mia scelta, semplicemente. I pentiti che dicono di avere avuto problemi politici, morali, religiosi, etici, psicologici, raccontano balle. Chi ha sparato fino alla settimana prima non può dire ‘mi dispiace, mi dispiace tanto, ora mi pento perché ho la crisi di coscienza’. Ciò che ti sconvolge subito è paragonare la forza dello Stato alla tua debolezza. Il resto, le crisi, le turbe, vengo no dopo. Quando conosci – viso a viso, uomo a uomo – i ca rabinieri e i giudici che volevi ammazzare e capisci che sono persone che la pensano diversamente da te ma che non sono malvagi di natura, anzi. Allora sì che ti vengono tutte le crisi, e dici: ‘Ma che cazzo ho combinato?’. Solo a quel punto senti il peso e il rimorso per la morte e il dolore che hai sparso, ma per quelli non c’è pentimento, dissociazione e collaborazione che te li possa far passare, te li tieni per tutta la vita come gli azzoppati si terranno le gambe rovinate. Da quel momento anche tu sei azzoppato, nella coscienza»2. Il 10 aprile 1980 le confessioni di Peci producono i primi risultati: i carabinieri arrestano in un solo giorno trenta per sone ritenute appartenenti alle Brigate rosse, con una maxi operazione che coinvolge Torino, Milano, Biella e Ravenna. Qualcuno comincia a sospettare che le rivelazioni provenga no dall’interno delle organizzazioni armate, ma questo ancora non basta a fermare gli omicidi. Proprio quel giovedì 10 aprile infatti, le Ronde proletarie uccidono la guardia giurata Giu seppe Pisciuneri, mentre tentano, con la forza, di sottrargli la pistola d’ordinanza. Giuseppe ha 30 anni, è originario di Ar dore, provincia di Reggio Calabria, ma ha lasciato la Locride giovanissimo per trasferirsi a Torino. Per qualche tempo ha Patrizio Peci, Io, l’infame, Milano 1983, p. 17.
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prestato servizio come carabiniere alla stazione di Moncalieri, poi nel 1971 viene assunto dalla Mondialpol con un incarico molto delicato, la scorta al portavalori dei supermercati. Il 10 aprile saluta la moglie Rosaria, che sulla porta gli siste ma ancora il colletto della giubba di pelle. Sono le 7.20 del mattino. Torino in quei giorni sembra più bella, o almeno ci prova. Per domenica 13 è attesa la visita di papa Giovanni Paolo II e la città si è riempita di manifesti che ne salutano l’arrivo. Su quelli fatti affiggere dal sindaco si legge: «L’am ministrazione comunale saluta il Pontefice in occasione della sua visita alla città e lo ringrazia per l’attenzione dimostrata ai gravi problemi che turbano la vita della nostra comunità». Ma lungo il tragitto quotidiano della guardia giurata, non è pre visto alcun passaggio papale; anche quel giovedì mattina San Salvario conserva il solito aspetto trasandato. Giuseppe abita al numero 33 di via Nizza – di fronte al delta dei binari che si moltiplicano prima di infilarsi tra le arcate di Porta Nuova – e per raggiungere la sede Mondialpol di corso Turati 11 impiega più o meno quindici minuti a piedi. Arrivato quasi al fondo di via Ribet, nei pressi del cavalcavia di corso Somellier, due uomini lo aggrediscono alle spalle. Tentano di disarmarlo, ma l’ex carabiniere reagisce e i tre si aggrovigliano in una zuffa che finisce con uno scoppio sordo. Gli assalitori scappano su una 128 verde con a bordo due complici, Giuseppe prova a rincorrerli ma subito si accascia a terra. Il proiettile, entrato dalla spalla, gli ha raggiunto il cuore. Due giorni più tardi, la notizia del suo funerale è una «breve» nascosta al fondo di pagina 8 su Stampa Sera. Il titolo grande della stessa pagina dice: «Identificati gli autori di tutti gli attentati Br a Torino?». Gli effetti delle rivelazioni di Peci dunque continuano, e continuano soprattutto gli arresti. Verso la fine di aprile le for ze dell’ordine mettono a segno un colpo determinante contro Prima Linea. Nelle 63 pagine del verbale di Cambiano, Peci fa spesso riferimento a un ex militante di Prima Linea, che lui chiama «il piellino», sostenendo di averlo incontrato in due occasioni, poco prima di essere arrestato. Sul «piellino» Peci 173
ha poche informazioni: sa ad esempio che vuole entrare nelle Br, che ha già una certa esperienza militare, e che la madre lavora come addetta delle pulizie in alcuni uffici di corso Re Umberto. Seguendo una pista che va di portone in portone, la Digos, nel giro di qualche settimana, identifica il «piellino»: è Roberto Sandalo, Roby il pazzo. Lo arrestano il 29 aprile. Due giorni dopo, anche lui, comincia a parlare. Questa volta il clamore per le confessioni è dirompente. Sandalo racconta il percorso politico che l’ha condotto dal Psiup a Prima Linea, passando per il servizio d’ordine di Lotta continua e ammette di avere preso parte a numerose azioni, tra le quali gli omicidi di Bartolomeo Mana, Carlo Ghiglieno e Carmine Civitate. Poi Sandalo, confermando qualcosa a cui aveva già accennato Patrizio Peci, racconta che il numero uno torinese di Prima Linea si chiama Marco Donat-Cattin, l’ex bibliotecario del «Galfer» irreperibile dal 1977. È il figlio del vicepresidente della Democrazia cristiana Carlo Donat-Cattin. Il nome di Marco Donat-Cattin compare per la prima volta su Paese Sera l’8 maggio 1980, ma in quella data il «comandante Alberto» è già lontano, in Francia. Il padre, informato delle deposizioni di Sandalo e Peci, lo avrebbe aiutato a espatriare. Secondo la magistratura torinese, ad aver avvisato il vicepresidente della Democrazia cristiana Carlo Donat-Cattin del coinvolgimento del figlio nell’inchiesta su Prima Linea, sarebbe stato il presi dente del Consiglio Francesco Cossiga in persona. È un ter remoto politico senza precedenti; per la prima volta un presi dente del Consiglio è accusato di avere tradito la Costituzione violando gli articoli 326 e 378 del Codice penale: rivelazione di segreti d’ufficio di un pubblico ufficiale e favoreggiamento personale per «avere aiutato taluno a eludere le investigazioni dell’Autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa»3. Il 27 luglio 1980 il Parlamento respinge il rinvio a giudizio del presidente del Consiglio davanti alla Corte Costituzionale e l’affaire Cos 3 Per l’intero affaire Donat-Cattin si veda Corrado Stajano, L’Italia nichilista, Milano 1982.
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siga-Donat-Cattin si chiude con una soluzione che da noi si ama definire «politica». È l’estate della bomba a Bologna, del boicottaggio Usa alle olimpiadi di Mosca, dello scandalo del calcio-scommesse, della nascita di Canale 5, di Solidarnosc e della strage di Ustica. Ma a Torino, fino a prova contraria, c’è ancora il centro del mondo. Il calendario non sempre indica soltanto il succedersi delle stagioni. A volte, il codice umano dello scorrere del tempo si incarica di formalizzare un muta mento sostanziale, umano e geologico. Sul finire di quell’esta te i poli della terra stanno cambiando, la Grande Fabbrica – il centro del mondo – comincia a staccarsi come un iceberg alla deriva dal tempo e dallo spazio. L’11 settembre 1973 fu del Cile, l’11 settembre 2001 sarà di New York. Torino vive l’11 settembre 1980, il giorno in cui la città si sveglia con la notizia del licenziamento di 14.469 lavoratori, quasi tutti del settore Auto, da parte della Fiat. Ce ne siamo ricordati tutti, quando una particolare congiunzione astrale, nel gennaio 2011, ha riavvicinato i poli terrestri. Per un attimo, tutto è tornato a girare lì intorno, a Mirafiori, di fronte a quei cancelli. Come archeologi dilettanti, ci siamo accorti che quella Torino è an cora tra noi: la fabbrica, la città intorno deserta a tarda sera, i bar scalcinati e i giardinetti spelacchiati. Perfino la nebbia è tornata a fare visita. Tutto è ancora miracolosamente al suo posto, come una roccia in bilico sullo strapiombo. La Torino degli «anni zero» ha trascurato la sua invitante bellezza, si è alzata da tavola rovesciando un calice di ottimo vino, ha attraversato di corsa la notte affollata di locali e look da finto reality ed è corsa a 10 chilometri dalla Mole fino là, di fronte al vecchio centro del mondo per soffiare sotto la roccia e non farla cadere. Per non perdere il passato, e continuare a raccontare un po’ di futuro. Oggi come ieri il sentimento è lo stesso, la sindrome di cui Torino soffre da sempre: l’horror vacui, il timore della perdi ta, l’insostenibile pesantezza del rimpianto. Oggi la città lotta contro l’impeto dei processi di globalizzazione, ieri faceva quadrato contro lo smarrimento di un’idea di comunità. Oggi 175
la partita è ancora aperta, nel 1980 fu una sconfitta. Forse sa lutare, forse soltanto fisiologica, di certo epica. Tutto accade in trentacinque giorni, dall’11 settembre al 14 ottobre 1980. Subito dopo l’annuncio dei licenziamenti, la fabbrica di venta un fortino. Decine di migliaia di operai picchettano gli ingressi, si costruiscono presìdi prima improvvisati poi, via via, consolidati. Attorno all’enorme perimetro di Mirafio ri cresce una comunità di tende e falò, chitarre e ritratti di Marx, Lenin e Che Guevara. I camminamenti tra una porta e l’altra diventano «sentiero Ho-Chi-Min», dalle Carrozzerie alle Presse si comunica via walkie-talkie e ogni mattina un ca mion rifornisce di legna i resistenti: «Sapevano che lì, su quei piazzali grigi che rapidamente si andavano affollando di tute blu e di bandiere rosse su quell’incerto confine tra fabbrica e città, si sarebbero giocati tutto: i dieci anni di lotte trascorsi, le conquiste materiali e la solidarietà costruita, ma anche le loro vite spese, il senso collettivo delle proprie esistenze, le ragioni del proprio protagonismo. Sapevano che da quello scontro non si sarebbe usciti con una mediazione. Che era una di quel le occasioni in cui uno solo può essere il vincitore, perché in discussione non è una qualche distribuzione del reddito, o di potere, ma l’identità stessa dei contendenti. E vollero mettere in campo, fin da subito, tutta la propria forza residua»4. Il Partito comunista, apparentemente senza indugi, si schiera a favore degli operai contro la Fiat. Il 26 settembre 1980 il segretario del Pci Enrico Berlinguer parla di fronte alla porta 5 delle Carrozzerie. Alla domanda di un delegato, che gli chiede conto dell’atteggiamento del partito in caso di occupazione della fabbrica, Berlinguer risponde: «Queste forme di lotta dovranno essere discusse e decise dai lavoratori stessi nelle loro assemblee. Se si giungerà a questo, è evidente che ci dovrà essere un grande movimento in tutto il Paese per sostenere i lavoratori che saranno impegnati in queste più 4 Marco Revelli, Lavorare in Fiat. Da Valletta ad Agnelli a Romiti. Operai sindacati robot, Milano 1989, p. 100.
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acute, più stringenti e anche più pesanti forme di lotta. E in questo senso, potete esserne certi, vi sarà l’impegno politico, organizzativo e anche di idee e di esperienza del Partito co munista». Un discorso prudente, ma che accende una miccia. Ancora oggi, dopo tre decenni, si discute se Berlinguer abbia davvero voluto dire che il Pci avrebbe sostenuto l’occupa zione di Mirafiori o se il modo di diffondere la notizia sia stato, in qualche modo, concordato tra l’ufficio stampa Fiat e l’agenzia Ansa. Il giorno successivo, 27 settembre, cade il governo. Cossi ga, abbattuto dai franchi tiratori, è costretto alle dimissioni. A Torino qualcuno parla di «grande vittoria operaia», ma a sfruttare il momento è la Fiat che, con il pretesto dello «spiri to di responsabilità», sospende i licenziamenti commutandoli nella messa in cassa integrazione a zero ore per tre anni di oltre 23.000 lavoratori a partire dal 6 ottobre 1980. L’azienda stessa compila le liste dei lavoratori interessati, pescando tra la spina dorsale del sindacato, le donne e i non più idonei al lavoro: «Il meccanismo innescato è devastante. Se la minac cia iniziale di 14.000 licenziamenti anonimi aveva unificato il fronte operaio, ora le liste di proscrizione, i lunghi elenchi di nomi appesi ai reparti personalizzano, distinguono. Lasciano emergere il profilo netto delle due aree contrapposte di chi resta e di chi deve lasciare la fabbrica. Paradossalmente, dal 6 ottobre, i ‘privilegiati’, coloro che sono sfuggiti alla deci mazione e che rimangono in fabbrica, sarebbero chiamati a lottare (e a perdere salario) contro l’espulsione di 23.000 loro compagni che manterrebbero, invece, quasi intatta la paga. La divisione è nei fatti. Superarla richiede risorse eccezionali»5. Il 6 ottobre è il giorno della verità. L’azienda diffida i cas sintegrati dal presentarsi al lavoro, i sindacati invitano a bol lare la cartolina e tornare ai cancelli. Vince il sindacato, per l’ultima volta. Ivi, p. 108.
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Il 14 ottobre accade ciò che nessuno aveva saputo pre vedere: al Teatro Nuovo, a poche decine di metri dal luogo dove un anno prima è stato ucciso Carlo Ghiglieno, il Co ordinamento dei capi e dei quadri intermedi convoca una manifestazione contro il blocco della produzione. Di fronte al piazzale del teatro si forma lentamente una folla dapprima nutrita, poi strabocchevole. S’improvvisa un corteo che attra versa silenziosamente il centro di Torino. All’inizio si parla di 15.000 persone, La Stampa ne conta 30.000. Poi la Repubblica scrive 40.000 e la manifestazione del Teatro Nuovo entra ufficialmente nella storia come «la marcia dei 40.000». Un fiume grigio di middle class esasperata da anni di violenza: «In un’ora cancellano con il loro silenzio 33 giorni di rumore operaio. Sono loro i vincitori: d’ora in poi incarneranno ‘lo spirito del mondo’. Rappresentano ‘la notizia’, il novum che il sistema dei media oramai annoiato dalla ripetitività operaia attende»6. È la svolta. Già nelle prime ore del pomeriggio la Procura della Repubblica di Torino emette un’ordinanza con cui si intima ai picchetti di lasciare libero accesso agli impianti. La Questura rende noto che già dalla mattina se guente si occuperà di rendere esecutiva l’ordinanza: «Lo sce nario su cui si apre la mattina del 15 è impressionante, con la massa grigia dei capi e degli impiegati e la cintura multi colore dei presìdi, irta di bandiere e striscioni, separate dalla sottile striscia blu dei mezzi di carabinieri e polizia. Evoca presagi di guerra civile. Sui grandi spiazzi antistanti gli sta bilimenti sono decine di migliaia gli uomini, esasperati, che si confrontano a lungo, l’anello esterno in lento movimento come un minaccioso fiume lavico intorno alla linea irrigidita dei picchetti. Basterebbe un nulla, una scintilla in un punto qualunque dell’immenso perimetro, per far saltare il delicato equilibrio. E per un attimo, alla porta 14 (Presse), si sfiora lo scontro. Un gruppo di capi si avvicina al cancello deciso ad Ivi, p. 115.
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entrare. Lo appoggia un plotone di carabinieri in assetto da combattimento, le celate già abbassate sul viso, i lacrimogeni inastati. Gli operai si chiudono in fabbrica, barricati dietro il cancello. Ma poi la tensione si allenta. Si deciderà discutendo. È annunciata, nel pomeriggio, la convocazione del Consiglio di fabbrica. Per l’indomani le assemblee»7. Il 16 ottobre, al cinema Smeraldo, si tiene un drammati co confronto tra operai e leader sindacali. La base è contro l’accordo, il sindacato ha già deciso che non c’è altra strada che la firma. La notizia viene data il giorno dopo di fronte ai cancelli: «Fischi e insulti a Trentin e Benvenuto, calci e pugni a Carniti, Lama esce scortato dai sorveglianti» è il resoconto di Stampa Sera. Alle 2.30 di sabato 18 ottobre 1980 la firma è ufficiale. È la vittoria dell’amministratore delegato della Fiat Cesare Romiti. Alle migliaia di operai che durante i trentacinque giorni presidiano il fortino di Mirafiori – si saprà in seguito – si mescola anche quel che rimane delle milizie rivoluzionarie delle Brigate rosse e di Prima Linea. La classe operaia, che ritenevano arbitrariamente di dover difendere armi in pugno, si lecca le ferite del folle tiro a segno che le avanguardie di nessuno hanno perpetrato per anni. L’accordo dell’ottobre 1980 non sarà mai rispettato. Alla scadenza del 30 giugno 1983 nessuno dei 23.000 cassintegrati rientrerà in fabbrica. Poco più di 7.000 troveranno un posto grazie alla gigantesca macchina assistenziale messa in piedi dall’Unione industriale, dai sindacati e dalla Regione Piemonte. Fredde statistiche cui è doveroso affiancare il dato più drammatico e spaventoso di questa vicenda epocale: gli oltre 150 suicidi in pochi anni tra gli ex operai espulsi dal ciclo produttivo. Il 18 dicembre 1980, due mesi dopo la fine dei «35 gior ni», Marco Donat-Cattin viene arrestato a Parigi all’uscita da un ristorante degli Champs-Elysées. Estradato in Italia il Ivi, p. 118.
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27 febbraio 1981, confessa immediatamente di aver ucciso il giudice Emilio Alessandrini, assassinato a Milano il 29 gen naio 1979. Quindi decide di collaborare con la magistratura. Entrerà per la prima volta in un aula giudiziaria il 16 giugno 1981, a Torino. Il suo ingresso davanti alla Corte d’Assise, riunita nell’aula bunker del carcere delle Vallette, sarà salu tato dalle urla e dagli insulti degli ex compagni rinchiusi nelle gabbie. Tutti tranne uno: chiuso in una cella isolata, Roberto Sandalo osserva in silenzio l’incedere del suo vecchio amico Marco, la cui deposizione chiude di fatto la stagione furente di Prima Linea. Le Brigate rosse – o quel che ne rimane – continuano invece a uccidere nel vano tentativo di sentirsi ancora in vita. A Torino (e in provincia) accade ancora due volte nell’autunno 1982. La sera dell’8 ottobre il comandan te della stazione dei carabinieri di Corio Canavese, Benito Atzei – al quale oggi è dedicata la caserma di via Guido Reni a Torino – è di pattuglia lungo la strada provinciale dalle parti di Rocca Canavese, insieme al carabiniere Giovanni Bertello, 20 anni. Intorno alle 18.30 i due militari fermano una Renault 5 azzurra che procede a forte velocità. Un controllo come decine di altri, ma dall’auto scendono tre persone armate, che non esitano a sparare contro il vicebrigadiere Atzei, che cade a terra fulminato, colpito al ventre e a una spalla. L’altro militare, pur ferito in maniera non grave all’anca e alla mano destra, risponde al fuoco con la mitraglietta. Sessanta secon di di pallottole e urla e sangue. Benito Atzei, 48 anni e due figli, muore sull’ambulanza che lo trasferisce alle Molinette. A uccidere Atzei sono alcuni fuoriusciti dalle Brigate rosse, che per rivendicare l’impresa inventano sul momento la sigla «Comunisti per la costruzione del sistema di Potere Rosso». Meno di due settimane più tardi i colpi di coda di un terro rismo allo sbando si abbattono su Sebastiano D’Alleo e Anto nio Pedio, guardie giurate della Mondialpol, come Giuseppe Pisciuneri. Il 21 ottobre 1982 D’Alleo e Pedio controllano l’ingresso dell’agenzia 5 del Banco di Napoli, all’angolo tra via Domodossola e via Rosolino Pilo, Borgata Parella. Un 180
lavoro di routine, di certo i due, in quelle lunghe ore di guar dia trascorse insieme, hanno tempo per raccontarsi qualcosa delle loro vite. Sebastiano, 27 anni, è sposato da poco più di un mese con Linda, che lavora proprio lì di fronte, in un laboratorio odontotecnico di via Domodossola. Sono appena tornati dal viaggio di nozze e lei, quel giorno, ha portato con sé l’album di fotografie per mostrarlo alle colleghe. La moglie di Antonio, invece, ha lasciato Torino a metà 1981 per tor nare in Puglia, a Muro Leccese. La grande città la intristiva troppo e Antonio, che ha 26 anni, non vede l’ora di raggiun gerla nel giro di poche settimane. Sono le 11 quando quattro persone, due uomini e due donne, entrano nell’agenzia del Banco di Napoli chiedendo informazioni per l’apertura di un conto. I quattro escono dalla banca, ma tornano dopo pochi minuti. Armati. Pedio e D’Alleo sono colti di sorpresa, disarmati e portati dentro la succursale dove, insieme agli altri clienti, sono costretti a sdraiarsi per terra. Sembra una normale rapina, ma dopo avere arraffato circa 10 milioni dalla cassaforte, i quattro del commando si avvicinano alle guardie giurate sdraiate per terra: per entrambi un colpo di pistola alla nuca, a freddo. Un’esecuzione contro due uomini disarmati e inermi. Accanto ai loro corpi il commando lascia un plico di volantini. «In quella occasione – ricorda Ettore Boffano – il commando è composto da un gruppo di sban dati delle Br. Il motivo per il quale uccidono le due guardie giurate ha dell’incredibile. Dopo lo smantellamento seguito al pentimento di Peci, ciò che rimane delle Br si divide in due tronconi, l’ala militarista e l’ala movimentista, che in realtà si fanno una guerra feroce tra di loro. Sono anche attraversati da profondi sospetti gli uni contro gli altri, anche dentro alle carceri si sospettano a vicenda di essere delle spie, degli infil trati. Quelli che ammazzano Pedio e D’Alleo, sono convin ti, erroneamente, che Natalia Ligas, una brigatista arrestata qualche giorno prima a Porta Nuova, sia una pentita, o che si stia per pentire. Il loro fine è denunciarne il pentimento e fare in modo che la notizia faccia il più grande rumore possi 181
bile. E allora decidono di accompagnare la diffusione del vo lantino contro la Ligas con un’azione clamorosa. L’omicidio dei due agenti Mondialpol – che quindi non sono neanche dei simboli dello Stato come carabinieri, poliziotti o guardie carcerarie – è deliberato e premeditato con questo specifico scopo. In sostanza, si erano convinti di una cosa sbagliata e decidono di ammazzare due persone per dare maggiore pub blicità a un volantino». È troppo, anche per le Br, che in città non sparavano da trentatré mesi. Torino racconta che quel giorno scorre l’ultimo sangue di questa storia. Il 26 luglio 1983 la Corte d’Assise di Torino, ancora presieduta da Guido Barbaro, condanna tutti, o quasi, i responsabili materiali di omicidi, ferimenti e attentati compiuti a Torino dalle Brigate rosse tra il 1976 e il 1981. La stessa Corte, il 10 dicembre dello stesso anno, condanna gli autori degli attentati firmati Prima Linea. Una pioggia di ergastoli e centinaia di anni di carcere confermati, con qualche riduzione di pena, sia in appello sia in Cassazione. Tutti, chi prima chi dopo, torneranno liberi entro la fine degli anni Novanta. L’ultimo a uscire dal carce re, nel 2004, è stato il primo a finirci dentro: Paolo Maurizio Ferrari, che ha scontato fino all’ultimo giorno trent’anni per banda armata. Il solo «fine pena mai» è idealmente scritto nelle lapidi sparse per Torino, nelle foto sbiadite di chi non è potuto in vecchiare; nel cuore e nell’anima di chi ha perso un figlio, un marito, un fratello, un amore, un amico; e nella carne di chi, sopravvissuto, porta ancora i segni delle pallottole. La neces sità di dimenticare, l’imbarazzo di non aver capito abbastan za, gli imperativi degli anni Ottanta, per troppo tempo hanno nascosto come polvere sotto un tappeto la verità prevalente di questa storia, il dolore di chi è rimasto. Ricorda Ezio Mauro: «Tutti abbiamo fatto troppo poco anche perché l’omicidio, un danno irreparabile commesso in pochi attimi, ha pesato molto di più sulle famiglie più deboli, quelle che abitavano nelle case di ballatoio di Torino. Quante volte, insieme con il prefetto e il comandante dei carabinieri, siamo andati dalle 182
mogli – ragazze venute dal Sud, magari con i bambini piccoli in braccio – a dare l’annuncio che il marito era morto. Ma non c’era bisogno di dirlo, perché quando vedevano le macchine arrivare in cortile con la sirena, quel codazzo salire su per le scale, con noi cronisti dietro, capivano tutto. Se lo aspettava no, lo temevano, faceva parte della vita che vivevano in quel momento, soltanto per il fatto di guadagnarsi il pane facendo le guardie carcerarie, i poliziotti, i capi alla Fiat oppure, in altri casi, il servitore dello Stato. Subito dopo, quando quelle porte si chiudevano e il prefetto saliva in macchina, quelle famiglie rimanevano sole. E anch’io, che queste cose le ho viste e raccontate, non ho mai avuto l’intelligenza di ritornare in quelle case, di aprire quelle porte e di chiedere semplice mente se serviva qualcosa. Non l’ho fatto. In questi anni ho capito che per superare la fase del terrorismo bisogna passare anche di lì, bisogna rendere onore alle famiglie delle vittime. Trasformare quel lutto privato in un lutto della Repubblica, un lutto civile, è l’unico modo per chiudere quella stagione. Probabilmente ci siamo. Con ritardo drammatico».
Epilogo
«Diffidate di quelli che dicono ‘mi ricordo perfettamente. Io c’ero’. Non è possibile. Il ricordo, in qualche modo, è sempre filtrato, inquinato dall’esperienza personale». Giovanni De Luna lo ripete spesso. Io «perfettamente» non ricordo nulla, perché negli anni in cui questa storia andava in scena ero appena nato o troppo piccolo per conservare qualcosa in più di un vago e lontano sapore. Questa è una storia che bisogna farsi raccontare. Da chi c’era, ma soprattutto dai «segni sulla pietra» dell’unica protagonista comune di ogni cosa: Torino, la città che all’inizio dei miei ricordi, anni Ottanta inoltrati, era un posto «grigio» da cui tutti sembravano voler scappare, perché tutto accadeva altrove. Eppure, già allora a me sem brava stranamente bella, nascosta da qualche parte, ma bella. Da qualche anno non si nasconde più, anche se un sacco di gente ancora si stupisce. Il perché, forse, bisogna chiederlo a Torino. Allora ripenso a quella passeggiata con Diego Novelli lungo via Po, di fronte a quello che un tempo era l’Angelo Azzurro: sotto i portici, un signore gli si fa incontro e quasi lo abbraccia: «Sindaco, mi riconosce? Lavoravo con lei in Co mune...». Un attimo di esitazione, poi il sindaco (perché tale è rimasto nell’immaginario dei torinesi) lo riconosce: «Ah sì! Come sta?». Segue una breve conversazione, poi l’ex usciere di Palazzo di Città si congeda: «Eh... diciamo la verità. Si stava meglio quando c’era lei!». Novelli per un attimo rimane in silenzio, quindi, prima di salutare cortesemente, sbotta: «Si stava meglio? Ma non diciamo fesserie! Ti sparavano ad dosso...». Il Xò, sfavillante di colori in puro happy hour style, 184
per un attimo, come in un flash, ritorna alle tinte un po’ fané dell’Angelo Azzurro che fu. Ecco, è così che Torino racconta. Di quando era così lontana da quello che adesso è. A saperli vedere, i flash come quelli di via Po 46 sono decine. Come la serranda di via Millio, che è chiusa anche stanotte. Non ce l’ho fatta a tornare a casa senza venire a vederla ancora una volta. Borgo San Paolo intorno è immobile, addormentato, non si vede un’anima. Nessuno si accorge di me. Allora par cheggio distante, percorro gli ultimi passi di Emanuele Iurilli. Metto il dito nella ferita della lamiera. È rimasto quello a testimoniare la storia di un ragazzo e del dolore di una fami glia. Di tutte quelle famiglie. Torino non è un posto dove ci si perde. È una città che respira. E alla fine di questo viaggio ti parla con una voce che non avevi mai ascoltato. E ti capita di immaginartela mentre sussurra: «Sì. È successo qui».
Ringraziamenti
Questo libro non esisterebbe senza le persone che si sono prese del tempo per raccontarci la Torino che non abbiamo conosciuto. In ordine sparso: Diego Novelli, Gian Carlo Ca selli, Carlo Marletti, Ezio Mauro, Giovanni De Luna, Marina Cassi, Stefano Della Casa, Silvio Viale, Livio Pepino, Michele Zaffino, Andrea Casalegno, Ettore Boffano, Antonio Mau rella, Luciano Borghesan, Elisabetta Farina, Giuseppe Mic ciché, Luca Rastello, Rocco Larizza, Bruno Babando, Bruno Diotti, Giampaolo Giuliano, Dino Sanlorenzo. A voi il nostro ringraziamento più grande. Grazie a Luca De Luise per aver realizzato la cartina. Grazie a Piero Corsini, Giovanni Minoli e a tutta la re dazione di La storia siamo noi, per l’infaticabile ricerca sulla memoria dalla quale anche questo lavoro discende. Grazie a Bruno e Federica Mariani, Mauro Tunis, Ezio Torta, Igor Mendolia e a tutti gli amici della Sgi di Torino, per averci scommesso per primi. Grazie alla Aiviter (Associazione italiana vittime del terro rismo), per la collaborazione. Grazie all’archivio storico digitale della Stampa, per la mo numentale operazione culturale. Grazie a Luca Milanetto, Gian Luigi Ricuperati e Filippo Taricco. Grazie a Corrado Stajano. Un ringraziamento speciale va alle nostre famiglie per averci sostenuto, ai nostri amici per averci giustificato, al Rossini per averci (spesso) alimentato. 187
Indice dei nomi
Babando, Bruno, 89n, 94n. Bachelet, Vittorio, 169. Balbis, Franco, 39. Balestrini, Nanni, 31. Barbaro, Guido, 69, 83-84, 119-120, 123, 128, 182. Barberis, Pietro, 48, 156. Bassi, Pietro, 47, 49. Bearzot, Enzo, 127. Benà, Rinaldo, 170. Benedetti, Mauro, 139. Benvenuto, Giorgio, 179. Berardi, Agata, 120-121. Berardi, Bruno, 120. Berardi, Filomena, 120. Berardi, Giovanni, 120-121. Berardi, Rosa, 120. Berardi, Rosario, 120-122, 126-127, 140. Berardi, Salvatore, 120. Berlinguer, Enrico, 70, 176-177. Bernardi, Alberto, 170. Bersellini, Eugenio, 93. Bertello, Giovanni, 180. Bertolazzi, Pietro, 47, 49. Betassa, Lorenzo, 82, 170. Bettega, Roberto, 65, 71. Bevilacqua, Quinto, 39. Biglia, Miki, 112. Biglieri, Giulio, 39. Bignami, Maurice («Davide»), 18-19, 23. Bisaglia, Antonio, 149. Bobbio, Luigi, 66. Bobbio, Norberto, 55, 66. Bodrato, Guido, 163. Boffano, Ettore, 16, 24, 77, 135, 181.
Acella, Vincenzo, 121, 140. Aglietta, Adelaide, 119. Agnelli, famiglia, 66. Agnelli, Gianni, 27, 35, 65, 133, 149, 153-154, 161. Agnelli, Umberto, 35, 149. Ala, Carlo, 168. Albertino, Adriano, 159. «Albertino», vedi Bonvicini, Alberto. «Alberto», vedi Donat-Cattin, Marco. Alessandrini, Emilio, 180. Alfano, Bonaventura, 28-30. Allara, Mario, 30, 33. Aimasso, Elvira, 10, 20. Almirante, Giorgio, 54. Ambrosoli, Giorgio, 146. Amerio, Ettore, 42-46, 165. Anastasi, Pietro, 71. Andreis, Adele, 107. Andreis, Elisabetta, 107. Andreoletti, Piercarlo, 151. Annibaldi, Cesare, 152. Appella, Giorgio, 112. Ardito, Giorgio, 72. Arduino, Gaspare, 27. Arduino, Libera, 27. Arduino, Vera, 27. Aromando, Eleonora, 56. Asnaghi, Massimo, 160. Astengo, Giovanni, 57. Astolfi, Valentina, 136. Atzei, Benito, 180. «Augusta», vedi Vai, Angela. Ausino, Carlo, 107. Azzaroni, Barbara («Carla»), 10, 1618, 22-24, 144, 149, 158.
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Bongioanni, Graziella, 112. Bonvicini, Alberto («Albertino»), 74, 92, 97, 114, 116. Borello, Giuseppe, 78. Borghesan, Luciano, 156. Borrelli, Giulia, 121. Bosco, Giovanni, 136. Braccini, Paolo, 39. Braggion, Antonio, 59. Buonavita, Alfredo, 49. Buri, Lidia, 118.
Ceretto, Mario, 47. Cerrato, Carlo, 130. Chaplin, Charlie, 29. «Charlie», vedi Caggegi, Matteo. Cicala, Carlo, 95. Ciotta, Giuseppe, 71, 73-76, 79, 80, 121. Ciotta, Nunzia, 73. Ciotti, Luigi, 80. Cipolla, Ruggero, 137. Civitate, Carmine, 21-24, 144, 148, 174. Civitate, Francesca, 21, 23. Civitate, Gian Luca, 21. Civitate, Roberto, 21. Coco, Francesco, 68-70. Cocozzello, Antonio, 41, 100-101. Coda, Giorgio, 114-116. Coggiola, Myrna, 132. Coggiola, Piero, 132-133. Coi, Andrea, 122, 147. Cordero di Pamparato, Felice («Cam pana»), 29. Cossiga, Francesco, 76, 147, 149, 174175, 177. Costanzio, Carlo, 56. Craxi, Bettino, 120. Crescenzio, Elvira, 88. Crescenzio, Giovanni, 88, 100. Crescenzio, Roberto, 12, 87-88, 93, 95, 96 e n, 97-100, 161. Criscuolo, Giorgio, 121, 140. Croce, Fulvio, 69, 81-85, 119. Croce, Severina, 82. Cruijff, Johann, 127. Curcio, Renato, 41-42, 46-49, 57, 85, 120, 122, 128. Curino, Luciano, 77, 79. Cusano, Francesco, 75n. Cutugno, Lorenzo, 123-126, 137-138, 140-141.
Caccia, Bruno, 46, 49, 68. Caggegi, Matteo («Charlie»), 10, 1618, 22-24, 48n, 144, 149, 158. Caggegi, Santo, 48 e n. Cagno, Roberto, 82. Cagol, Margherita («Mara»), 41-42, 47-48. Calabresi, Luigi, 37, 104. Calì, Angelo, 140, 144. Calvino, Italo, 26, 109, 116. Camaioni, Licia, 100. Camaioni, Rinaldo, 100, 105, 125, 150. «Campana», vedi Cordero di Pampa rato, Felice. Carassi, Mario, 68. Carbonato, Michelina, 71, 73-75. «Carla», vedi Azzaroni, Barbara. Carletti, Cesarina («Nonna Mao»), 121. Carlino, Francesco, 94. Carniti, Pierre, 179. Caruso, Pino, 143. Casalegno, Andrea, 31-32, 78, 103104, 106-108, 110-111, 113. Casalegno, Carlo, 78, 84, 101, 103113, 141, 147. Casalegno, Dedi, 106. Caselli, Gian Carlo, 15, 43, 45-47, 49, 68, 70, 84, 128, 139-140, 166, 169170. Cassi, Marina, 80, 105, 117, 148. Cattafi, Rosario, 48. Cattin, Bruno, 93, 95. Causio, Franco, 71. Celentano, Adriano, 131. Cellerino, Mario, 35.
D’Alfonso, Giovanni, 48. Dalla, Lucio, 120, 148. Dalla Chiesa, Carlo Alberto, 42, 46, 76, 83, 120, 139, 142-143, 146-147, 164, 169-170. D’Alleo, Sebastiano, 180-181. Dall’Occhio, Giuliano, 157.
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D’Amico, Vincenzo, 93. D’Angiullo, Gaetano, 10, 19. «Davide», vedi Bignami, Maurice. De Amicis, Edmondo, 136. De André, Fabrizio, 147. De Benedetti, Carlo, 162. Deiana, Antioco, 68-70. Della Casa, Stefano («Steve»), 31, 50, 52, 65, 72, 92, 97. De Luna, Giovanni, 29-31, 37, 52, 62 e n, 65 e n, 184. De Maria, Luigi, 89, 93, 95. De Maria, Maria Benedetta, 93, 95. Demartini, Roberto, 126. Deorsola, Mario, 133. De Ponti, Valerio, 49. De Stefano, Angelo, 97. Di Calogero, Enzo, 43-44, 53, 61. Dietrich, Marlene, 88. Di Marco, Tonino, 87, 95. Di Nanni, Dante, 20-21. Diotti, Bruno, 79. Donat-Cattin, Carlo, 174-175. Donat-Cattin, Marco («Alberto»), 23, 74-75, 174 e n, 179-180. Dosaggio, Emio, 59n. Dura, Riccardo, 170. D’Ursi, Francesco («Frankie»), 92, 97.
Fiorello, Filippo, 73. Fioroni, Carlo, 167. Firpo, Luigi, 109. Floris, Alessandro, 45. Fossat, Paolo, 78. Franceschi, Roberto, 55. Franceschini, Alberto, 42, 46-47, 49, 57, 128. «Frankie», vedi D’Ursi, Francesco. Freeman, Peter, 92. Fruttero, Carlo, 21. Furino, Giuseppe, 71. Fusi, Valdo, 39. Galante Garrone, Alessandro, 31. Gallinari, Prospero, 49, 68. Galmozzi, Enrico, 74, 121. Gancia, famiglia, 48. Gancia, Vittorio Vallarino, 47-48. Garrone, Roberto, 168. Gavello, Ezio, 164. Getto, Giovanni, 29-30. Ghezzi, Dori, 147. Ghidella, Vittorio, 150. Ghiglieno, Alberto, 149. Ghiglieno, famiglia, 149. Ghiglieno, Carlo, 148-150, 155, 158, 174, 178. Ghiglieno, Giorgio, 149. Ghiglieno, Matilde, 149. Ghirelli, Antonio, 141. Ghirotto, Gian Carlo, 118. Ghirotto, Gustavo, 118. Giachino, Enrico, 39. Giagnoni, Gustavo, 41. Giai, Fabrizio, 18-19, 23. Giambone, Eusebio, 39. Giannotti, Renzo 163. Giordana, Franco, 69. Giordano, Bruno, 93. Giovanni Paolo I (Luciani, Albino), papa, 132-133. Giovanni Paolo II (Wojtyla, Karol), papa, 133, 173. Giralucci, Graziano, 47, 70n. Girotto, Silvano, 46. Giuliani, Arnaldo, 135. Giuliano, Boris, 147. Giuliano, Giampaolo, 157-159.
Esposito, Antonio, 127. Farina, Elisabetta, 145. Farina, Giovanni, 145-146. Farina, Giuliano, 144. Fassino, Piero, 72. Feltrinelli, Giangiacomo, 42. Fenoglio, Beppe, 10-12, 16, 50. Ferrara, Giuliano, 13, 15, 72-73. Ferrari, Paolo Maurizio, 45-46, 49, 69, 120, 182. Ferrero, Adriano, 27. Ferrero, Giacomo, 127. Ferrero, Nino, 105. Ferrini, Giorgio, 71. Fersini, Alessandro 61. Fiocco, Paolo, 59-61. Fiore, Raffaele («Nasone»), 82, 106, 141.
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Gobetti, Andrea, 56. Gobetti, Piero, 56. Grande, Caterina, 60. Grande Stevens, Franzo, 69. Graziani, Francesco («Ciccio»), 67, 71, 127, 150. Griffey, Franco, 69. Griffey, Mario, 69, 170-171. Grio, Ruggero, 124. Grosso, Giuseppe, 30. Guarini, Guarino, 131. Guariniello, Raffaele, 33, 35. Guasso, Nazzareno, 163. Guevara, Ernesto «Che», 176. Guidetti Serra, Bianca, 35n, 69. Guidobaldo, Antonia, 60. Guiso, Giannino, 120. Guttuso, Renato, 148.
Ludmann, Annamaria, 170. Luparia, Angelo, 92, 97. Macchiarini, Idalgo, 40, 42, 111. Maddalena, Marcello, 69. Malfatti, Franco Maria, 89. Mana, Bartolomeo, 147, 174. Manconi, Luigi, 56. Manero, Toni, 131. Manfredini, Antonio, 147. Mantovani, Nadia, 49. Maolucci, Enzo, 130. «Mara», vedi Cagol, Margherita. Marcenaro, Pietro, 98. Marcerano, Andrea, 110-111. Maritano, Felice, 47. Marletti, Carlo, 54-55, 117. Marracani, Luciano, 85. Martellini, Nando, 106, 127. Marx, Karl, 176. Masi, Pino, 65. Massolari, Arturo, 26. Massolari, Elide, 26. Mattarella, Piersanti, 167. Maurella, Antonio, 9, 11, 17. Mauro, Ezio, 50, 101, 110, 116, 118, 182. «Mauro», vedi Peci, Patrizio. Mazzola, Giuseppe, 47, 70n. Menardi, Diego, 88, 93, 95-96. Meroni, Gigi, 106. Micaletto, Rocco, 82, 169. Micciché, Antonio (Tonino, Nino), 21, 52-54, 56-62. Micciché, Giuseppe, 61. Mila, Massimo, 130. Monia, Modesto, 140. Montale, Eugenio, 85. Montanelli, Indro, 104. Montano, Massimo, 39. Monti, Augusto, 26. Moretti, Mauro, 42. Morlacchi, Piero, 42. Moro, Aldo, 12, 43, 123, 125-126, 139, 143, 158, 169. Morrone, Severina, 81. Mozzini, Roberto, 67. Munari, Antonio, 79, 81. Musso, Vittorio, 158.
Iurilli, Alfredo, 20. Iurilli, Emanuele, 8-12, 17-18, 20, 22, 38-39, 144-145. Labate, Bruno, 38, 42-43, 45-46, 50, 54, 165. Lama, Luciano, 72, 179. Lanza, Salvatore, 12, 133-135, 138. Larizza, Rocco, 25. La Ronga, Bruno, 19. Lazagna, Giovan Battista, 46. Lenin, Nikolaj, 52, 141, 176. Leoni, Giuseppe, 40. Lerner, Gad, 110-111. Levi, Arrigo, 106. Levi, Franco, 65. Levi, Marina, 65-66. Levi, Primo, 5-6, 88. Libertini, Lucio, 161. Ligas, Natalia, 181. Lintrami, Arialdo, 49. Lizzani, Carlo, 107. Lorusso, Francesco, 74. Lorusso, Giuseppe, 12, 136-138, 140141. Lorusso, Rosa, 137-138. Lucentini, Franco, 21. Luciani, Albino, vedi Giovanni Paolo I. Luciano, Domenico, 64.
192
Mussolini, Benito, 26, 83, 127.
Piccione, Salvatore, 57. Picco, Giovanni, 41-42, 123. Pinelli, Giuseppe, 37. Pisciuneri, Giuseppe, 172-173, 180. Pollidoro, Antonio, 156. Ponti, Nadia, 81, 121. Popolani, Rita, 150-151. Porceddu, Salvatore, 12, 133-135, 138. Porcellana, Giovanni, 41. Poser, Renzo, 157. Presley, Elvis, 130. Prete, Tommaso, 157. Principe, Grazia, 60. Puddu, Maurizio, 85 e n, 86. Pulici, Paolino, 67, 71, 127.
Napolitano, Raffaella, 13, 141-142. Nascimbeni, Giulio, 85. «Nasone», vedi Fiore, Raffaele. Nenni, Pietro, 167. Nigra, Domenica, 145. Nocito, Angelo, 15. «Nonna Mao», vedi Carletti, Cesari na. Notaristefano, Dante, 41, 79-81. Novelli, Diego, 11, 14, 20, 28, 30, 4142, 51, 63, 74, 83, 96, 107, 146, 165, 184. Novelli, Edoardo, 97. Novelli, Massimo, 30n.
Quazza, Guido, 36.
Ognibene, Roberto, 47, 49. Ohlicher, Hermann, 150. Orecchia, Pietro, 156. Osella, Piero, 105.
Radice, Luigi, 67. Ramelli, Sergio, 59. Rastello, Luca, 91, 92n, 107, 169n. Ravaioli, Aldo, 131. Revelli, Marco, 156n, 176n. Rigaldo, Alessandro, 59n. Rivalta, Gian Carlo, 118. «Roby il pazzo», vedi Sandalo, Ro berto. Rocca, Umberto, 48. Rocchetti, Sergio, 119. Roleder, Helmut, 150. Roggero, Roberto, 89. Romano, Grazio, 13, 141. Romeo, Laura, 15. Romiti, Cesare, 179. Rossa, Guido, 141. Rossi, Mario, 67. Rossi, Walter, 89-90, 98. Rossi di Montelera, Luigi, 162. Russo, Salvatore, 131. Russo, Silveria («Laura»), 19.
Pajetta, Gian Carlo, 63. Palmieri, Sergio, 125. Panciarelli, Domenico, 140. Panciarelli, Piero, 170. Pannoni, Diego, 158. Pansa, Giampaolo, 108, 153. Papuzzi, Alberto, 115n. Parisi, Heather, 160. Paroli, Tonino, 49. Passoni, Luigi, 30. Pautasso, Roberto, 160. Pavese, Cesare, 27, 123. Peci, Patrizio («Mauro»), 79, 107, 118, 121, 141, 145-146, 164, 169171, 172 e n, 173-174. Peci, Roberto, 171. Pedio, Antonio, 180-181. Pegorin, Giovanni, 168. Pellegrino, Michele, 26, 41, 80. Pepino, Livio, 59. Perina, Flavia, 90. Perotti, Giuseppe, 27, 39. Pertini, Sandro, 141. Pesce, Giovanni, 20, 77. Piancone, Cristoforo, 118, 121, 125. Pianelli, Orfeo, 65, 150. Piccinelli, Franco, 144-145.
Sacco, Michele, 160. Sala, Claudio, 71, 150. Salvadori, Massimo L., 44. Salvatorelli, Luigi, 31. Sandalo, Roberto («Roby il pazzo»), 23, 74-75, 147, 150, 174, 180. Sanlorenzo, Dino, 13-14, 73.
193
Sanna, Francesco, 140, 144. Sannucci, Corrado, 44n, 54n. Santillo, Emilio, 120. Santospirito, Fortunato, 51-52. Saponara, Giovanni, 68-70. Savoia, dinastia, 131. Scavino, Marco, 121. Scoffone, Mario, 78. Scola, Ettore, 51-52. Scordo, Angelo, 158. Scotoni, Giancarlo, 19. Scotti, Vincenzo, 149. Segre, Daniele, 65. Selvaggio, Carmela, 60. Senzani, Giovanni, 171. Serra, Giovanni, 160. Silvano, Pierluigi, 27. Sindona, Michele, 146. Sofri, Adriano, 70. Solera, Luigi, 78. Soletti, Elisabetta, 12. Sossi, Mario, 43, 45-46, 67-68, 128. Stajano, Corrado, 91 e n, 174n. «Steve», vedi Della Casa, Stefano. Tangari, Pietro, 157. Terraneo, Giuliano, 150. Togliatti, Palmiro, 141. Tognini, Valerio, 131. Tornabuoi, Lietta, 144, 160. Tozzi, Umberto, 131.
Tranfaglia, Nicola, 44. Trentin, Bruno, 179. Turin, Paolo, 157. Uasone, Lorenzo, 158. Vai, Angela («Augusta»), 82. Valletta, Vittorio, 27-28. Varalli, Claudio, 59. Varetto, Cesare, 150-151. Varisco, Antonio, 146. Venditti, Antonello, 131. Vercellone, Paolo, 156. Viale, Guido, 56. Viale, Silvio, 73, 75, 90. Viglione, Aldo, 73, 146, 151. Villari, 21-22, 24. Vinci, Sebastiano 61. Viola, Guido, 40. Visca, Franco, 85. Wojtyla, Karol, vedi Giovanni Paolo II. Zaccarelli, Renato, 67. Zade, Azim, 150. Zaffino, Michele, 14-15, 18. Zibecchi, Giannino, 59. Zucconi, Giovanni, 106. Zucconi, Vittorio, 122.