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Italian Pages 322 [328] Year 2022
Quodlibet Studio
Almanacco di Filosofia e Politica
Almanacco di Filosofia e Politica 4 Diretto da Roberto Esposito
Sull’evento Filosofia, storia, biopolitica A cura di Rita Fulco e Andrea Moresco
Quodlibet
Prima edizione: marzo 2022 © 2022 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata www.quodlibet.it isbn 978-88-229-0742-4 | e-isbn 978-88-229-1309-8 Progetto grafico della copertina: CH RO MO Per il saggio di Étienne Balibar © Éditions La Découverte, Paris 2020 Per il saggio di Didier Fassin © Éditions du Seuil, Paris 2022 Quodlibet studio. Almanacco di Filosofia e politica Direttore Roberto Esposito Comitato editoriale Laura Cremonesi, Silvia Dadà, Andrea Di Gesu, Mattia Di Pierro, Rita Fulco, Francesco Marchesi, Alberto Martinengo, Paolo Missiroli, Taila Picchi, Sebastiano Taccola, Elia Zaru Comitato scientifico Laura Bazzicalupo, Simona Forti, Enrica Lisciani Petrini, Oliver Marchart, John P. McCormick, Paolo Napoli, Gabriele Pedullà, Nadia Urbinati, Miguel Vatter Redazione Andrea Moresco, Chiara De Cosmo, Matteo Polleri, Matteo Pagan, Francesca Monateri, Bianca Maria Esposito, Raffaele Grandoni
Opera edita con il contributo della Scuola Normale Superiore
Indice
Rita Fulco, Andrea Moresco
Evento e storicità: attualità di un problema filosofico
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Interventi. La filosofia nel tempo della pandemia Roberto Esposito
Biopolitica e istituzioni
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Didier Fassin
Complottismo
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Thomas Lemke
Governare il milieu. Per una biopolitica più-che-umana
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Vanessa Lemm
Coronavirus e comunità di vita
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Alenka Zupančič
Breve saggio sulle teorie del complotto
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Monografica. Pensare in rapporto all'evento Étienne Balibar
La filosofia e l’attualità. Oltre l’evento?
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Mattia Di Pierro
L’immanenza e il Politico. Per una critica della democrazia come evento
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Bianca Maria Esposito
«Non essere indegni di ciò che ci accade». L’etica dell’evento in Gilles Deleuze
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indice
Francesco Marchesi
Ontologia machiavelliana. Il conflitto politico dopo il neoliberismo e la pandemia
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Andrea Moresco
Congiuntura, rottura, emergenza. Tre modi di pensare il rapporto processo/evento
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Vittorio Morfino
Evento e struttura. Uno o due materialismi dell’aleatorio?
197
Emmanuel Renault
Evento, processo storico e politica in John Dewey
213
Caterina Resta
L’evento e (è) l’impossibile
233
Claudia Terra
La breccia del sociale, la storia, l’evento: Le travail de l’œuvre di Claude Lefort
247
Elia Zaru
Evento, processo e temporalità. La storia tra Fukuyama e Derrida
261
Archivio Reiner Schürmann
«Ormai solo Proteo ci può salvare»: sull’anarchia e le egemonie infrante
275
A cura di Francesco Guercio e Ian Alexander Moore
Con un’introduzione di Alberto Martinengo
L’ontologia politica di Reiner Schürmann Simone Weil
Un tumulto proletario nella Firenze del XIV secolo
305
A cura di Rita Fulco Con un saggio di Rita Fulco
Pensare l’evento nella congiuntura: Simone Weil e Machiavelli 313
Evento e storicità: attualità di un problema filosofico Rita Fulco, Andrea Moresco
1. Congiuntura pandemica La crisi pandemica globale ha dapprima interrotto, poi irreversibilmente stravolto, il corso delle nostre vite, delle pratiche e delle relazioni quotidiane. Così come è stata interrotta e infine stravolta la dialettica che dovrebbe caratterizzare le istituzioni delle democrazie liberali, ivi comprese le istituzioni tecniche e scientifiche. Sulla società si è imposto un intervento tecnico-politico indubbiamente “eccezionale”, che ha combinato – in modi diversi alle diverse latitudini del mondo – procedure istituzionali emergenziali, esecutivi di unità nazionale, retoriche belliche, un rigido governo della mobilità, la digitalizzazione dei servizi, dell’amministrazione pubblica, del controllo e di molti aspetti della vita sociale. Come ribadito da più parti, una diffusione così rapida e mortale del contagio sorge all’intersezione di molteplici processi che lo precedevano, dai fenomeni di deforestazione e distruzione degli ecosistemi, all’intensificazione delle filiere logistiche globali, fino allo smantellamento neoliberale dei sistemi sanitari pubblici. All’incrocio di quel tessuto variegato di processi di lunga durata, l’irruzione accidentale e non prevedibile – almeno, non per tempi, modi e luoghi – del virus si impone come un evento senza precedenti, quantomeno per le modalità e il coinvolgimento dell’intera popolazione terrestre. Adesso che si profila all’orizzonte una “nuova normalità intrapandemica” (il post-pandemico sembra molto di là da venire) e una maggior capacità sanitaria di contenere il tasso di mortalità provocato dal Covid-19, una rinnovata centralità dell’intervento pubblico e politico sembra affermarsi, e aprire scenari che potrebbero invertire la rotta del neoliberalismo, come appare plausibile considerando il
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Recovery Plan europeo o il piano infrastrutturale statunitense. Tuttavia, soltanto i conflitti e i rapporti di forza nella società potranno determinare le priorità di questi piani pubblici e orientarli in un senso progressista o conservatore. Conflitti che non sono di certo mancati durante le molteplici “fasi” della pandemia (scioperi per la sicurezza sul lavoro e in difesa del salario, movimenti per la giustizia climatica e femministi, Black Lives Matter, reti di solidarietà e mutualismo, per citarne solo alcuni), ma che stentano a convergere e ad articolarsi in conflitto politico. D’altro lato, la stabilizzazione di uno stato di crisi permanente è stata, nel decennio appena trascorso, una forma di governo della crisi stessa, di neutralizzazione delle istanze di conflitto e cambiamento, di compressione delle aspettative rivolte al futuro; ed è, ancora oggi, il rischio della “normalizzazione” neutralizzante dell’intra-pandemico a cui stiamo assistendo. La difesa della vita, i programmi di immunizzazione collettiva – ma anche la necessità del controllo della crisi climatica – hanno riproposto la centralità, in particolare, di alcune istituzioni; occorre, tuttavia, guardarsi da un eccesso di “immunizzazione” politico-istituzionale, che finirebbe per imprigionare la vita nei suoi dispositivi, sedando i conflitti sociali e chiudendosi nell’eterna ripetizione di una crisi permanente. In sintesi, né la società può sottrarsi al potere politico e sovrastarlo con la propria potenza ontologica, affermando se stessa in un rapporto unicamente negativo con esso; né il potere biopolitico (immunopolitico) può chiudere la vita di una società entro i suoi steccati e soffocarne la vitalità. Il privilegio immunitario concesso ad alcuni soggetti e non ad altri, ritenuti superflui e sacrificabili (come ancor oggi la concentrazione dei vaccini nel Nord del Mondo conferma), ha generato rivolte di massa negli Stati Uniti, e non solo, per chiedere a gran voce un allargamento dei diritti sanitari e un ripensamento delle istituzioni militari. Le crisi sono, d’altronde, momenti che offrono l’opportunità di ripensare le “basi” del nostro vivere sociale, le pratiche e le istituzioni che le incarnano, le relazioni tra l’umano e l’ambiente. Le istituzioni dinamiche e vitali – di cui ragioniamo all’interno del percorso di ricerca collettiva sul “pensiero istituente” che si è già espresso nei tre precedenti volumi di questo Almanacco di filosofia e politica – incarnano i conflitti e i movimenti vitali, producendo nuovi “ordinamenti” anche a partire da essi. Sono, dunque, istituzioni
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aperte ai tratti evenemenziali della storicità, al mutamento accidentale: nascono dagli “eventi” e ne ricercano una durata e una produttività ulteriore rispetto all’istante singolo ed effimero. La pandemia, d’altra parte – come evidenziano alcuni dei saggi ospitati nella prima sezione di questo volume – ci ha anche mostrato l’attività storica del non-umano (di un virus, in questo caso) e la compenetrazione di vite umane, animali e vegetali che caratterizza la communitas. Da questo punto di vista, le istituzioni biopolitiche a cui occorre guardare non potranno più riprodurre un dualismo conflittuale tra umano e nonumano ma, anzi, dovranno produrre e istituire un equilibrio salutare e non predatorio tra le molteplici dimensioni del vivente: una biopolitica più-che-umana. 2. Evento ed emergenza di nuovi soggetti Sin dal primo volume dell’Almanacco di filosofia e politica abbiamo riflettuto sulla “crisi” sistemica che caratterizza il nostro tempo e, in particolare, sulla crisi della politica e sulle sue radici filosofiche. Non potevamo quindi, ora, non prendere atto del fatto che la congiuntura pandemica segna irrimediabilmente anche la nostra attualità filosofica e delinea il compito di un pensiero che si propone effettuale, cioè produttivo di effetti, sulla politica. Proprio alla luce della crisi scatenata dal Covid 19, abbiamo allora interrogato lo statuto ontologico-politico della categoria di “evento” e il rapporto tra evento storico, conflitto politico e forma istituzionale. Si tratta, infatti, di comprendere i conflitti e le opportunità di cambiamento in seno alla situazione attuale e le forme (bio)politiche che potrebbero incarnare questo cambiamento. Soltanto riconducendo l’evento al terreno della storicità, delle continuità e discontinuità storiche, dell’attività politica che lo precede e che ne segue, spogliandolo della sua veste “pura” e “incondizionata”, questa categoria può ancora esprimere un valore euristico e aiutarci a comprendere filosoficamente il nostro tempo. Pur da prospettive eterogenee, con “evento” si può intendere il momento critico di un processo, che lo costringe a un bivio, a un cambio di direzione, o persino a un’interruzione o a un’inversione. I processi che attraversano la società sono molteplici e articolati, e gli eventi si verificano
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all’incrocio, più o meno imprevedibile, di quel tessuto di processi. L’evento non va, allora, pensato come accidente puro e discontinuità assoluta che taglia il continuum storico, bensì, come punto di incontro, di fusione o attrito, di molteplici processi, contraddizioni e pratiche sociali, che si combinano tra loro e determinano un momento fecondo per la trasformazione della società. In particolare, per la ricerca intorno al “pensiero istituente”, il riconoscere la coimplicazione di processi ed eventi storici ci consente di collocare il processo istituente sul piano della “storicità effettiva” e di porlo di fronte all’alterità, all’imprevisto storico, alle soggettivazioni inedite e irrisolte, alle crisi e alle rotture che scandiscono il corso della storia. Se ne ricava un’utile cartografia delle variegate dinamiche da cui possono nascere, trasformarsi e morire le istituzioni intorno a cui è organizzata una società. Gli eventi possono, infatti, essere momenti di cominciamento, di compimento o di brusca frenata dei processi da cui provengono. In ciascuno di questi casi, l’evento introduce uno stato di confusione e lacerazione dei soggetti e una biforcazione dei processi storici, suscitando una trasformazione complessiva delle istituzioni, lo sviluppo di alcune e il declino di altre. In questo orizzonte si inscrive il progetto di tornare a riflettere, criticamente, sulle filosofie post-heideggeriane dell’evento, per lo più diffuse nell’ambito del post-strutturalismo francese; in sostanza su quella che Étienne Balibar – in una conferenza del 2003, che presentiamo per la prima volta in traduzione italiana – definisce la «svolta evenemenziale della filosofia», con espliciti riferimenti a Heidegger, Deleuze, Derrida e Badiou. Essa giunge, quantomeno in alcune delle proposte filosofiche dei suoi protagonisti, a una concezione metafisica, destoricizzata e, per certi versi, formale dell’evento, compreso in un orizzonte di sinonimia con l’Essere. Eppure, l’insistenza sulla dimensione evenemenziale dell’essere e della storia rispondeva all’esigenza di ripensare la soggettività sotto una nuova luce. Lo strutturalismo degli anni Sessanta (Saussure, Lévi-Strauss, ma anche il primo Althusser) aveva, in molti casi, forcluso la distinzione di soggetto e oggetto, lo spazio della soggettività e, con essi, la dimensione storica della struttura e la possibilità stessa di un evento. La “casella vuota” metteva in moto un “gioco differenziale” di scambio di posizioni nella struttura e realizzava una delle possibili (e dunque prevedibili) combinatorie di elementi pre-esistenti. Non si voleva, tuttavia, nep-
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pure ritornare al soggetto storico universale della tradizione dialettica, capace di farsi carico della contraddizione della propria epoca e del destino dell’intera umanità. In Deleuze l’evento è, anzitutto, la scoperta di una nuova modalità del soggetto, un modo di vivere e di essere al mondo. L’intensità che si concentra nell’evento destituisce, infatti, l’identità personale dell’io, che si ritrova teso tra due o più direzioni simultaneamente e preso da una profonda incertezza sul proprio sé. Con l’evento emerge, dunque, una potenza pre-individuale e impersonale, che eccede e mette in pericolo la stessa individualità. In questo orizzonte, quella dell’evento è un’etica ontologica: la volontà di cogliere, in ciò che accade, una nuova luce, la sperimentazione di una potenza non-personale e non-organica, che confonde la personalità individuata e organica, aprendo nuovi sensi, nuove soggettivazioni e nuove istituzioni. In Derrida, di contro, l’evento è l’esperienza di un’alterità radicale, la venuta di un altro irriducibile, fuori da ogni possibilità di controllo. L’eteronomia si afferma come la legge di un soggetto non più sovrano né autonomo. L’esposizione all’evento decostruisce il fantasma dell’Uno e del sovrano, a favore di un soggetto vulnerabile, ospitale, votato all’altro e a una giustizia-a-venire. Dunque, una declinazione anche politica dell’evento, che nella decisione, ogni volta singolare ed unica, può mutare il corso della storia e le istituzioni, per renderle “sempre-più-giuste”. Nonostante la differenza tra queste posizioni, nella “svolta evenemenziale” della filosofia domina un deficit di storicità. Un pensiero che, all’inverso, si proponga di ricondurre l’evento sul piano della storicità interroga, anzitutto, il rapporto tra l’evento e le sue condizioni di possibilità all’interno di una struttura (sociale, politica, culturale) specifica. Una “teoria della congiuntura” – che tanti autori ripresi nel volume, in particolare Louis Althusser, Claude Lefort, ma anche Simone Weil, apprendono dalla lettura di Machiavelli – articola in un “sistema contraddittorio” tutte le circostanze e le condizioni esistenti ai molteplici livelli della società, tentando di delinearne i punti di frizione, i vuoti, le occasioni che potrebbero presentarsi. Il “vuoto” di questa lettura di Machiavelli non è più la casella vuota dello strutturalismo, ma l’apertura di una società alla perturbazione, lo scarto che la attraversa, l’alterità che le sfugge, l’occasione imprevista che si genera dagli incontri e dai conflitti tra le forze in campo. Dal “vuoto” un nuovo soggetto, una nuova forza, emerge sulla
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scena della storia: il soggetto non precede né “fonda” l’evento, ma l’evento è proprio l’apparizione storica di un soggetto e di un luogo sconosciuti. L’evento emerge dalle fessure e dagli scarti interni di una struttura e, in questo senso, può essere considerato come il lato “non cristallizzato” delle strutture, delle istituzioni. Lo scarto tra la realtà storica e la sua rappresentazione, in particolare, è una costante possibilità di eventi imprevisti. Fare dell’attualità (storica, teorica, ideologica, politica, giuridica, ecc.) il proprio oggetto filosofico non significa schiacciarsi su di essa, bensì mantenere un grado di “inattualità” rispetto all’“attualità”, scrutando nei pieni e nei vuoti di una struttura per intravedervi nuovi cominciamenti in atto. L’attualità non è, in questo orizzonte, un ulteriore nome dell’evento, ma la modalità “inattuale” attraverso cui la filosofia entra in relazione con il tempo presente, mettendo in gioco il rapporto tra una struttura e i suoi scarti, il soggetto e l’oggetto. L’attualità è, come abbiamo appreso da Foucault, la compresenza di tempi eterogenei, di provenienza e discontinuità, di variazioni storiche e invarianti archeologiche, all’interno di un “momento attuale”. Un’ontologia dell’attualità coglie, allora, gli scarti all’interno di una situazione, e può così pensarne la trasformazione e orientarla in un senso piuttosto che in un altro. La politica, a sua volta, si potrebbe così definire, da una parte, come la capacità di comprendere gli eventi, di orientarli, di assumersi i compiti contingenti affidati dalla storia all’hic et nunc. Dall’altra, essa non può ridursi all’evento, a un momento singolare e circoscritto di affermazione o di disattivazione: cogliere gli eventi, le occasioni, i compiti posti dalla congiuntura vorrà dire tanto costruirne le condizioni di possibilità, quanto lasciare che quel processo di costruzione sia attraversato e modificato dagli eventi. 3. Evento e processo istituente Nei precedenti volumi è stato messo in luce come il “pensiero istituente” si riconosca in quelle istituzioni che non si separano dalla loro origine antagonistica, non neutralizzano la portata dei conflitti sociali, bensì ne assumono la forza d’urto e provano a modificarne la forma politica, favorendone la produttività e la durata. Si delinea, sul
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piano diacronico, un “processo istituente”, in cui le “istituzioni del conflitto”, orientate e determinate dai conflitti e dalle forze che esse incarnano, non solo danno forma e maggior forza ai conflitti da cui il processo istituente ha origine, ma riescono a scuotere l’ordinamento complessivo della società, favorendo eventuali nuovi conflitti che, a loro volta, modificano le istituzioni esistenti. Non si tratta, tuttavia, di un processo lineare, di una ripetizione priva di momenti di stasi, di una messa in forma capace di accogliere ogni tipo di alterazione. Il processo istituente sperimenta interruzioni e salti, coagulazioni e dispersioni, circostanze in cui l’ordinamento tiene, e altre in cui, invece, viene revocato e deve essere ripensato. Ciascun processo è, al contempo, parzialmente determinato dalle proprie condizioni strutturali interne e parzialmente indeterminato; suscettibile, cioè, di essere modificato dagli eventi, dagli incontri con le circostanze esterne, che possono attivare e disattivare le contraddizioni interne. La singolarità dell’evento, del “salto”, può talvolta darsi all’interno dell’istituzione, come sua parte dinamica e trasformativa, mobilitandone il lato “non cristallizzato”. In questo caso, l’evento apre un nuovo campo di senso e di possibilità all’interno dell’istituzione, modificandola, innovandola, o generando dal suo interno nuove istituzioni. Questo tipo di eventi rompe “dall’interno” con il campo da cui provengono e apre un orizzonte nel quale potranno iscriversi esperienze ulteriori. A loro volta, facendosi istituzione, gli eventi durano nel tempo, si consolidano, depositano un senso nuovo delle pratiche sociali a cui ineriscono, modificando l’intero sistema a cui appartengono. Sulla scorta di Merleau-Ponty, l’evento viene pensato sia come inizio che come risultato: è il risultato di un campo istituzionale che se ne lascia attraversare e modificare e lo rende possibile, e al tempo stesso segna l’“inizio” di nuove istituzioni. Il movimento istituente si dà all’interno delle istituzioni esistenti. In un altro caso, le “istituzioni del conflitto” non sorgono all’interno di istituzioni esistenti, ma da movimenti contro di esse e da rotture che ne provocano la crisi e il deperimento. L’inizio evenemenziale di nuove istituzioni può segnare la fine di istituzioni precedenti e interrompere quel processo che le reggeva. Il richiamo a questo scenario può servire per mettere il “processo istituente” alla prova del proprio resto, di ciò che gli sfugge, l’imprevisto – catastrofi improvvise che paralizzano il sistema istituzionale, rivolte di massa, che
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necessitano, a maggior ragione, tanto di essere politicamente comprese, quanto di un orientamento cosciente e istituente. La rottura non è mai, infatti, un evento istantaneo, sganciato dal processo istituente; l’evento rivoluzionario, per essere tale, non è un atto politico immediato né autosufficiente. La rottura sorge dalla costruzione di condizioni favorevoli, di strutture istituzionali e di abitudini individuali e collettive, che approfondiscono lentamente – spesso carsicamente – le linee dello scontro, giungendo a “fondersi” con circostanze esterne più casuali e, quindi, a “emergere” in modi e tempi inaspettati. La categoria di “rottura” coglie, insieme, il processo di costruzione complesso e cumulativo e l’evento che sorprende il presente e nega il proprio passato. Vi è qualcosa, nell’evento, di irriducibile ai processi che lo hanno provocato: in esso si liberano energie soffocate dall’ordine passato e si dischiudono nuove possibilità, che dovranno, tuttavia, trovare le forme della loro durata per consolidare il processo di transizione. La prospettiva “istituente” si propone di abbandonare le dicotomie novecentesche di riforma e rivoluzione, istituzione e insurrezione, continuo e discontinuo, tentando di articolare tra loro processi ed eventi eterogenei. Le “istituzioni” popolari e vitali, che aderiscono ai conflitti sociali da cui sorgono, possono collocarsi all’interno o all’esterno delle istituzioni esistenti, alternando rapporti di cooperazione e competizione con esse. In ogni caso, il “nuovo inizio” istituzionale è sempre unità e coimplicazione di processo ed evento. Non è la realizzazione di un progetto soggettivo precostituito; il soggetto non “fonda” la prassi istituente, bensì la prassi istituente produce e modifica i suoi stessi soggetti e, dunque, non è mai riducibile esclusivamente a una volontà sovrana o direttiva. Non è, tuttavia, neanche un puro evento sganciato dai processi in atto e dalle determinazioni strutturali. Lo stesso Machiavelli, avanzando un’analisi di “classe” del tumulto dei Ciompi nelle Istorie fiorentine – tumulto che appassionò Simone Weil, che lo considerava la prima sollevazione operaia della storia –, mette bene in luce come quel tumulto non accada all’improvviso. Esso proviene, piuttosto, dalla struttura dei rapporti sociali corporativi e “classisti” della Firenze del XIV secolo: “preparato” dalle lotte dei decenni precedenti, “incontra”, infine, ulteriori e favorevoli condizioni esterne. Ciò non significa che un evento sia totalmente padroneggiabile, né che il processo istituente, nei suoi
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molteplici aspetti, risponda al progetto di un soggetto pre-esistente. Come ammoniva lo stesso Machiavelli, «non sia alcuno che muova una alterazione in una città, per credere poi, o fermarla a sua posta, o regolarla a suo modo» (Istorie fiorentine, Libro III, cap. 10). *** Il presente volume è organizzato in tre sezioni. La prima è dedicata al dibattito filosofico generato dall’evento pandemico globale, e ospita non riflessioni sulla pandemia in sé e per sé, bensì letture oblique che ne ricercano gli aspetti più rilevanti in un orizzonte filosofico e ontologico-politico. Vi trovano posto i contributi di Roberto Esposito, Didier Fassin, Thomas Lemke, Vanessa Lemm, Alenka Zupančič. La seconda è invece dedicata allo studio, al confronto critico e all’interpretazione di alcune tra le teorie filosofiche dell’evento più importanti nel Novecento, e ospita gli interventi di Étienne Balibar, Vittorio Morfino, Emmanuel Renault, Caterina Resta, e di giovani studiose e studiosi partecipanti al Seminario permanente di Filosofia e politica che si tiene presso la Scuola Normale Superiore. La terza sezione, infine, dedicata all’Archivio, ospita la traduzione di due saggi, inediti in italiano, che sono risultati rilevanti per il tema della nostra ricerca, accompagnati da un’introduzione di specialisti: un commento di Simone Weil ai capitoli delle Istorie fiorentine di Machiavelli dedicati al tumulto dei Ciompi, e una conferenza di Reiner Schürmann dedicata alla critica heideggeriana del fondamento e alle categorie di evento e di singolarità. *** Questo volume, come quelli che lo hanno preceduto, prosegue il percorso di ricerca collettiva dedicato alla relazione tra conflitti e istituzioni, che deve molto all’ispirazione e al sostegno di Roberto Esposito. Lo ringraziamo più del solito e più di quanto non abbiamo già fatto, per tutta la passione e l’affetto che ha continuato a trasmetterci nonostante i tempi bui attraversati. Questo Almanacco non potrebbe esistere se non fosse sostenuto dai lavori del Seminario permanente di filosofia e politica, coordinato da Francesco Marchesi e Mattia di
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Pierro, dalle discussioni collettive che trovano spazio negli appuntamenti pisani del seminario presso la Scuola Normale Superiore. Un ringraziamento affettuoso, in particolare, a Francesco, a Mattia e al comitato editoriale e di redazione, per la fiducia e il supporto che ci hanno dato. Ringraziamo tutte le autrici e tutti gli autori che hanno deciso di contribuire a questo volume, arricchendo gli orizzonti della nostra ricerca. Per questa iniziativa editoriale, restano ovviamente decisivi il contributo della Scuola Normale Superiore, nonché il confronto continuo con la cattedra di Filosofia Politica e con quella di Filosofia Teoretica, con le loro collaboratrici e con i loro collaboratori. Per questo, e per molto altro, ringraziamo Simona Forti, Alberto Martinengo e Laura Cremonesi.
Interventi La filosofia nel tempo della pandemia
Biopolitica e istituzioni Roberto Esposito
1. Colpisce la singolare distonia tra la straordinaria espansione della biopolitica in tutti i gangli della società contemporanea e le critiche ad essa rivolte, generalmente da parte di coloro che non ne hanno avvertito il rilievo crescente negli ultimi decenni. Nel frattempo, intorno a noi, tutte le intuizioni di Foucault – sulla medicalizzazione della società, sul disciplinamento della popolazione, sulla diffusione del potere pastorale – non solo hanno trovato puntuale riscontro, ma sono state perfino sopravanzate dalla tragica realtà di questi ultimi due anni. L’immunizzazione, già ampiamente praticata nelle democrazie contemporanee, è diventata la forma centrale di governance nei Paesi colpiti dalla pandemia – cioè pressoché tutti. Che ad essere attaccata, e spesso devastata, dal virus sia stata la vita biologica di milioni di individui è troppo tristemente noto per doverlo ricordare. Ma è significativo il carattere esplicitamente immunologico di tutte le misure prese per attutirne gli effetti. Dalle mascherine ai dispositivi di sicurezza alla ricerca del vaccino, non c’è nulla, in questi due anni, che non abbia parlato in lingua immunitaria. Immunità naturale e indotta, individuale e di gregge, provvisoria e definitiva. Tutti i provvedimenti adottati fin dai primi mesi del 2020 – di distanziamento, confinamento, controllo – sono stati orientati alla protezione della vita individuale e collettiva. Anche le misure economiche prese dagli Stati nazionali e dagli organismi internazionali, a partire dall’Unione Europea, sono state volte a fronteggiare le conseguenze sociali di una malattia virale capace di anticipare, con le proprie varianti, le terapie mediche per neutralizzarla. A sua volta, la vaccinazione su larga scala – con la frattura politica, economica, tecnologica che ha scavato tra Paesi produttori e Paesi compratori di vaccino – sta diventando uno dei baricentri decisivi della geopolitica mondiale.
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Ebbene, in questo quadro intensamente biopolitico, i detrattori della categoria non esitano a parlare di errore, se non di “inganno”1, perpetrato inizialmente da Michel Foucault e poi da coloro che ne hanno sviluppato le ricerche. La critica principale mossa nei suoi confronti è sdoppiata in due accuse reciprocamente contraddittorie. Da un lato gli si è contestato un eccesso di storia, che non gli consentirebbe di attingere un linguaggio autenticamente filosofico. Dall’altro, talora da parte degli stessi critici, gli si è attribuito un deficit di storicità che lo condurrebbe a naturalizzare le proprie categorie. Causa, o effetto, di tale carenza sarebbe una concezione biologizzata della vita umana, anch’essa collocata in una dimensione astorica, se non addirittura metafisica. Non è difficile obiettare che la naturalizzazione della vita, e della stessa idea di natura, è stato per anni l’obiettivo polemico di Foucault. Il quale, in un celebre dibattito televisivo con Noam Chomsky, sosteneva che la nozione di vita non è un concetto scientifico, ma un indicatore epistemologico2 dipendente da variabili socio-culturali, dal momento che lo stesso corpo umano è plasmato dai regimi storici in cui è situato. Anziché naturalizzare la storia, insomma, Foucault intendeva storicizzare la natura, visto che la vicenda dei corpi non lascia «nulla al di sotto di sé che abbia la stabilità rassicurante della vita o della natura»3. È vero che un processo di naturalizzazione della vita, teso a schiacciarla sulla sua falda biologica, e anche razziale, c’è stato, soprattutto nella prima metà del Novecento. Ma proprio da parte di quei regimi tanatopolitici – a partire dal nazismo – che la genealogia foucaultiana intendeva smascherare. Tutt’altro che della categoria di biopolitica, quella biologizzazione è stato l’effetto perverso del biopotere e dei suoi dispositivi genocidari. Se, per esempio, si considerano le variazioni genetiche delle popolazioni, sostiene Foucault, bisogna comprendere che «è la 1 Si veda il numero monografico Biopolitica: inganno o chiave di volta?, «Micromega», 8, 2020. 2 Michel Foucault, Human Nature: Justice Vs Power. The Chomsky-Foucault Debate (1971), Souvenir Press Ltd, London 2011; tr. it. di T. Falchi e B. Balsi, in Noam Chomsky, Michel Foucault, La natura umana. Giustizia contro potere, Castelvecchi, Roma 2013, p. 23. 3 Michel Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire, in Hommage à J. Hyppolite, Puf, Paris 1971; tr. it. di A. Fontana, P. Pasquino, G. Procacci, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, p. 55.
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storia che disegna questi insiemi, prima di cancellarli; non bisogna cercarvi dei fatti biologici bruti e definitivi che, dal fondo della “natura”, s’imporrebbero alla storia»4. L’idea che la ricerca foucaultiana difetti di senso storico – o addirittura sfoci in un registro metafisico – è del tutto fuorviante5. Quando scriveva che «siamo votati storicamente alla storia»6, Foucault intendeva dire che nessuna teoria o prassi eccede le determinazioni storiche in cui è inscritta o dalle quali è prodotta. Ma questo presupposto, lungi dal sottrarlo all’orizzonte filosofico, ne esprime la modalità specifica. Una volta decostruita l’idea di verità assoluta, la variazione storica diventa il contenuto stesso di una filosofia che le conferisce senso in base al criterio di verità di volta in volta assunto. Questo non vuol dire che la filosofia coincida con la storia, così come questa non coincide con la natura. C’è sempre un momento in cui il soggetto eccede il perimetro storico in cui è collocato, criticandolo – anzi proprio tale critica costituisce l’impegno più proprio del pensiero. In tal modo egli non rinuncia alla propria storicità – come potrebbe? – ma incide criticamente su di essa per modificarla, al contempo modificandosi. Tutta la riflessione foucaultiana sulla biopolitica, a partire dalle pagine conclusive de La volontà di sapere, è segnata da questa implicazione di storia e filosofia, cui, come è noto, Foucault assegna il nome, nietzscheano, di “genealogia”. A caratterizzarla è l’idea che la storia non abbia né un’origine unica né un fine ultimo sottratti alla storicizzazione. In questo senso, appunto a proposito di Nietzsche, Foucault afferma che «il senso storico sfuggirà alla metafisica per diventare lo strumento privilegiato della genealogia se non si orienta su nessun assoluto»7. Nonostante le sensibili variazioni tematiche tra i tre grandi corsi al Collège de France degli anni 1976-1979 sulla biopolitica, il presupposto che li unifica è che si debba sottrarre il potere alla sua declinazione giuridica, per ristabilirne la natura essenzialmente storica. 4 Michel Foucault, Bio-histoire et bio-politique, in Dits et Écrits, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, vol. III, p. 97. 5 Sul carattere intensamente storico della filosofia di Foucault, cfr. Judith Revel, Foucault avec Merleau-Ponty, Vrin, Paris 2015, pp. 21-109. 6 Michel Foucault, Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical, Puf, Paris 1963; tr. it. di A. Fontana, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico (1969), a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 1998, p. 10. 7 Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia cit., p. 54.
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2. Si può dire che con ciò tutti i problemi siano risolti? Che la biopolitica foucaultiana risponda, in quanto tale, alle nostre esigenze filosofiche e politiche? Che possa essere assunta da noi così come Foucault l’aveva profilata? Le cose non stanno in questo modo. Intanto perché il contesto generale – storico, politico, tecnologico –, rispetto agli anni Settanta del secolo scorso, è tanto radicalmente cambiato da rendere problematica ogni continuità categoriale con esso. Ma poi perché, già nell’elaborazione del filosofo, non mancano incertezze, incongruenze, vere e proprie antinomie. La prima delle quali è costituita da un’irrisolta articolazione tra le due categorie – di “vita” e “politica” – di cui quella di “biopolitica” è la risultante. Che Foucault non abbia attivato una compiuta riflessione epistemologica sulla vita biologica – nonostante i tanti riferimenti all’evoluzionismo, non solo darwiniano – è ben comprensibile. Ma, in verità, egli, preso dall’analisi genealogica del potere, non elabora a fondo nemmeno la categoria di politica8. Naturalmente la dialettica, anch’essa di derivazione nietzscheana, tra potere e resistenza ha un evidente risvolto politico, così come anche i processi di soggettivazione tematizzati soprattutto nella seconda parte della sua ricerca. Eppure manca in Foucault un’analisi della politica paragonabile, per estensione e profondità, a quelle messe in campo da Carl Schmitt o Hannah Arendt. In particolare, nel paradigma di biopolitica, le due polarità di politica e di vita appaiono pensate in maniera disgiunta, e ricongiunte solo in un secondo momento, col risultato, anziché di integrarle perfettamente, di sovrapporle l’una all’altra. Così in diversi testi foucaultiani, e perfino in uno stesso testo, o il potere appare sovrapposto a una vita imprigionata nei suoi dispositivi; oppure è la vita, già da sempre sottratta al potere, a sovrastarlo con la propria potenza ontologica. Non so fino a che punto questo scarto ontologico condizioni la teorizzazione foucaultiana di biopolitica. Fatto sta che si intensifica nelle sue più fortunate rielaborazioni, segnate appunto da una sorta di eccedenza reciproca tra corpo vivente e potere9. Se per alcuni il corpo è creazione, ma anche oggetto di esclusione, da parte di un 8
Si veda in merito la tesi di dottorato di Andrea Di Gesu, discussa alla Scuola Normale Superiore nel 2021 con il titolo Comunità e voce. Verso un pensiero del comune a partire da Wittgenstein e Foucault. 9 Cfr. in merito Francesco Marchesi, La seconda vita della biopolitica. Dal corpo come eccedenza all’istituzione della vita (1995-2020), «Teoria», 2, 2021.
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potere teso a schiacciarlo sulla nuda materia biologica, per altri la sua potenza produttiva sopravanza ontologicamente i dispositivi che pure intendono governarlo, rendendolo autonomo da essi. Così a un eccesso del potere sulla vita risponde, in modo speculare, un eccesso della vita sul potere. Pur nella loro apparente opposizione, questi due modelli di biopolitica pervengono al medesimo esito di neutralizzare l’attività politica in quanto tale – bruciata nel primo caso dalla riduzione del bios alla zoe e nel secondo assorbita nella produzione del corpo vivente, individuale o collettivo. A venire escluso da questa doppia, e convergente, piega biopolitica è la possibilità del conflitto politico, da una parte indebitamente radicalizzato in scontro senza resti e dall’altra disattivato in una sorta di esodo dalle istituzioni. I due paradigmi di “potere costituente” e “potenza destituente” hanno espresso, sul piano teoretico, questa impasse politica, senza percepirne l’effetto neutralizzante. A essi il gruppo di autori raccolti all’interno dell’Almanacco ha opposto quello che si può definire un pensiero, ma anche una prassi, “istituente”10. Vedremo più avanti in che forma chiami in causa l’istituzione, o meglio l’attività dell’istituire. Ma fin d’ora va detto che esso si pone nel punto di giunzione tra quei due tronconi della biopolitica rimasti separati, o non del tutto articolati, nella semantica foucaultiana. Personalmente ho individuato nella categoria di “immunità” – implicita, in forma negativa, in quella di “comunità” – il punto di saldatura intrinseca tra politica e vita che fa dell’una non la sporgenza, ma il contenuto dell’altra. Il paradigma d’immunizzazione, di derivazione al contempo giuridica e medica, è la modalità con cui la vita si difende dal suo stesso eccesso vitale, adeguandolo al contesto ambientale in cui è inscritta. Ma è anche il modo, da parte della politica, di proteggere una vita minacciata da pericoli interni ed esterni senza arrivare a negarla in maniera autoimmune. Forse nulla più della pandemia in corso esprime questo intreccio, certo problematico, tra politica e vita, comunità ed immunità, protezione e negazione. Si tratta di un nodo complesso, che va affrontato con pari complessità, senza soggiacere alla tentazione – oggi molto diffusa – di tagliarlo, liberando politica e vita dalla loro inevitabile impli10
Per quanto mi riguarda, cfr. Roberto Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020; Roberto Esposito, Istituzione, il Mulino, Bologna 2021.
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cazione e spingendo l’una lontano dall’altra. Opporre vita e libertà, come spesso si vede fare, costituisce il modo peggiore per riconoscerne l’originaria compresenza, implicita nella relazione costitutiva tra comunità e immunità. 3. Per ripoliticizzare una biopolitica neutralizzata, occorre rimetterla in rapporto con le istituzioni, sfuggendo all’esito anti-istituzionale sia del potere costituente che della potenza destituente. Se il primo aggredisce le istituzioni, destabilizzandole con un’intenzione iperpolitica, la seconda intende disattivarle, sottraendo la potenza all’atto, con un esito inevitabilmente impolitico. A venir meno, nell’un caso come nell’altro, è la possibilità di un conflitto politico, diverso tanto dalla guerra civile quanto dal ritiro impolitico. Va detto – venendo al secondo anello debole della biopolitica foucaultiana – che tale difficoltà risale parzialmente alla stessa posizione di Foucault. Il quale, in sintonia con un largo fronte di intellettuali di diversa provenienza, ha visto nell’istituzione soprattutto un apparato repressivo, volto non a consolidare l’esperienza umana entro canali stabilizzanti, ma a ingabbiarla in strutture di potere sovrastanti. Concentrare la ricerca sulle istituzioni, anziché sulle forze che agiscono alle loro spalle, voleva dire, per Foucault, perdere di vista i reali rapporti di potere. Da qui la sua diffidenza, mai venuta meno, per ciò che egli definisce “istituzionalcentrsmo”: «ritengo però che neppure la nozione di istituzione sia del tutto soddisfacente. Mi sembra che nasconda un certo numero di pericoli, perché a partire dal momento in cui si parla di istituzione, si parla in realtà di individui e insieme di collettività, presupponendo come già dati l’individuo, la collettività e le regole che governano entrambi»11. Se assunte in quanto tali – per ciò che esse dichiarano di essere – le istituzioni finiscono per legittimare quel discorso giuridico da cui Foucault ha sempre preso le distanze. Questa funzione legittimante di poteri retrostanti le rende inattaccabili, ma anche sostanzialmente irriformabili, dal momento che perfino le resistenze nei loro confronti finiscono dialetticamente per rafforzarle. 11 Michel Foucault, Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France 1973-1974, a cura di F. Ewald, A. Fontana e J. Lagrange, Seuil-Gallimard, Paris 2003; tr. it. di M. Bertani, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), a cura di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004, p. 47.
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Tuttavia lo stesso Foucault, proprio nel corso intitolato La nascita della biopolitica, sembra aprire una direzione di discorso diversa che ha per oggetto, più che le istituzioni in quanto tali, la prassi istituente che le attiva, riaprendo un confronto con la dimensione giuridica che aveva sempre contestato a favore di quella storica. Piuttosto che ridursi alla sovrastruttura dell’economia, come voleva il marxismo, il diritto «dà forma all’economico, il quale a sua volta non sarebbe ciò che è senza il giuridico»12. Non solo esso non è subalterno alle vicende dell’economia, ma in qualche modo produttivo di quelle e dunque esso stesso integralmente storico. Come hanno colto gli ordoliberalisti, a partire da Walter Eucken, «non è l’economico, ma l’istituzionale a costituire l’inconscio degli storici, o meglio, non tanto l’inconscio degli storici quanto quello degli economisti. Ciò che sfugge alla teoria economica, e agli economisti nella loro analisi, è l’istituzione»13. Contro coloro che hanno avversato, o ridimensionato, il ruolo delle istituzioni, come egli stesso altrove ha fatto, Foucault ne sostiene adesso la potenza performativa. Esse non solo non legittimano l’ordine economico esistente, ma contribuiscono a trasformarlo mediante una serie di movimenti istituzionali. Esistono istanze giudiziarie, esterne al potere legislativo, che, in caso di controversia, proteggono i diritti dei cittadini rispetto ai poteri pubblici, configurando forme di vera e propria “resistenza giuridica”. Si tratta di una condizione, o meglio di una prassi, istituente in cui «per ciascun cittadino esistono possibilità concrete, istituzionalizzate ed efficaci, di ricorso contro la potenza pubblica»14, dal momento che «uno stato di diritto sarà tale solo quando i cittadini potranno presentare dei ricorsi contro la potenza pubblica di fronte alla giustizia ordinaria»15. Attraverso un potere a tutti gli effetti “istituente” si possono, anzi si devono, non solo modificare le istituzioni esistenti, ma anche crearne di nuove. Che Foucault teorizzi tale funzione performativa delle istituzioni proprio nel corso sulla nascita della biopolitica è tutt’altro che irri12
Michel Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours al Collège de France 19781979, a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Senellart, Seuil-Gallimard, Paris 2004; tr. it. di M. Bertani e V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), a cura di M. Senellart, Feltrinelli, Milano 2012, p. 136. 13 Ivi, p. 141. 14 Ivi, p. 143. 15 Ivi, p. 144.
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levante. Indica che si è aperta una strada per riarticolare il nesso, finora interrotto dalla tendenza anti-istituzionale dei suoi teorici, della biopolitica con un istituzionalismo anch’esso radicalmente rinnovato nei suoi statuti teorici e nella sua prassi politica. Contro l’idea, assai diffusa, che per biopolitica debba intendersi l’implicazione diretta – cioè non mediata dalle istituzioni – tra vita e politica, si va da qualche tempo facendo strada il convincimento che solo la mediazione istituzionale le restituisca quel tasso di politicità andato perduto. Del resto, anche il potere costituente e la potenza destituente, per essere praticati, e anche soltanto teorizzati, vanno a loro volta istituiti. Come non esiste una forma di vita sottratta – precedente o successiva – alla storia che non precipiti in un vitalismo indifferenziato, così una politica disinteressata alla vita delle generazioni presenti e future non può pretendere ascolto. Sul piano teoretico, ma si può ben dire ontologico, si tratta di aprire un confronto con il “negativo”16, senza cancellarlo come fa il paradigma costituente né assolutizzarlo come fa quello destituente. 4. Naturalmente, come la biopolitica deve modificare il proprio statuto per incontrare le istituzioni, così queste devono rompere il cerchio autoreferenziale in cui sono state a lungo chiuse, riconquistando una dimensione dinamica. La carenza di questa rimanda da un lato alla nozione verticale di institutio, risalente al Medioevo, ma diversamente protratta fino agli inizi del Novecento. Il “mostro freddo” cui Nietzsche riconduce l’istituzione statale anticipa la “gabbia d’acciaio” di cui parla, più sobriamente, Weber. Entrambe traducono una concezione conservativa dell’istituzione alla quale, nel corso della seconda metà del Novecento, si sono contrapposti i movimenti sociali di protesta. Ma è stato proprio tale contrasto, degenerato negli anni Settanta in lotta armata, a bloccare la dialettica istituzionale, spoliticizzando i movimenti e irrigidendo ancora di più le istituzioni. Nei confronti di tale esito, doppiamente nefasto, si è recentemente aperta una differente filosofia delle istituzioni, parallela alla proliferazione crescente che va moltiplicandole ben al di là dei confini 16 Sul “negativo” si veda adesso la tesi dottorale di Paolo Missiroli, discussa nel 2021 alla Scuola Normale Superiore, Il posto del negativo. Un’antropologia per l’antropocene.
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degli Stati nazionali. Senza poterci adesso soffermare sulla necessaria distinzione, e anche opposizione, tra istituzioni legate ad interessi consolidati di carattere economico-finanziario ed altre rivolte alle esigenze di gruppi sociali più fragili ed emarginati, proviamo a fissare qualche elemento generale della nuova riflessione sulle istituzioni. Al centro di essa vi è lo spostamento dell’accento dall’organismo istituito alla prassi istituente. Guardare al movimento dell’istituire prima che a ciò che è istituito significa riconnettere le istituzioni da un lato alla storia e dall’altro alla politica. Non solo l’istituzione è un prodotto storico, dunque destinato a mutare nel corso del tempo, ma vive di questo movimento. Il significato primo dell’istituire è la continua creazione del nuovo, la capacità di far esistere ciò che non c’era, di dare vita a qualcosa di inedito. Certo, nel movimento istituente l’inizio non è mai posto in maniera assoluta, fuori dal proprio contesto, dal passato che lo precede. Diversamente dalla rivoluzione, l’istituzione è sempre storicamente tesa tra passato e futuro. Essa non parte mai da un grado zero, come invece la categoria cristiana di creazione dal nulla, bensì sempre da qualcosa che la precede nel tempo e che è destinato a trasformarsi. Secondo Merleau-Ponty, l’istituzione è sempre “ripresa” di una prima “presa”, di un istituire precedente17. Ma, nello stesso tempo, immette in esso ciò che porta di nuovo, mutandolo anche radicalmente. Anzi, la prassi istituente muta non solo il proprio oggetto, ma anche il proprio soggetto – i soggetti, sempre plurali, che l’attivano. Piuttosto che precederla, la soggettività scaturisce dalla stessa prassi istituente. Più che a un unico soggetto, o a un insieme di soggetti, essa rimanda a quello che Foucault definisce processo di soggettivazione. L’istituzione, o meglio l’atto istituente, produce la stessa soggettività che la mette in opera. Istituendo qualcosa, il soggetto si modifica a sua volta rispetto al suo modo di essere iniziale. In questo senso si può parlare anche di soggetto impersonale, rompendo il legame che il diritto ha stretto tra istituzione e persona, in particolare nel concetto di Stato-persona. Per definizione, il processo istituente non può mai identificarsi con una singola persona. La prassi istituente è sempre collettiva, molteplice, plurale, irriduci17
Per una eccellente ricostruzione del tema dell’istituzione in Merleau-Ponty, cfr. Enrica Lisciani-Petrini, Merleau-Ponty: potenza dell’istituzione, «Discipline Filosofiche», 2, 2019, pp. 71-98.
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bile alla figura del sovrano. In questo senso l’istituzione contiene qualcosa che rimanda a ciò che Hegel definiva “spirito oggettivo” – vale a dire un punto di vista che situa i desideri individuali in un orizzonte più ampio, oggettivando quel che è puramente soggettivo. A ciò rimanda l’elemento simbolico dell’istituzione, vale a dire il fatto che collega coloro che l’attivano senza fonderli in un blocco unico. Per funzionare, l’istituzione deve creare insieme vicinanza e distanza – una distanza che mette in relazione i soggetti che ingloba. Se gli esseri umani s’integrassero immediatamente tra loro non ci sarebbe bisogno di istituzioni. Essi sarebbero uniti in una stessa volontà generale, come quella di cui parlava Rousseau, nel progetto – da lui stesso ritenuto inattuabile per cittadini che non fossero angeli – di democrazia diretta. Tutti i tentativi di realizzare una simile democrazia sono naufragati nel fallimento o nella catastrofe, a riprova del fatto che gli interessi diversi non sono componibili che attraverso le istituzioni. 5. A tale necessità rimanda la politica. Come l’istituzione ha sempre una rilevanza politica, così la politica coincide, in ultima analisi, con la prassi istituente. Ad articolarle è la figura del conflitto. Contrariamente a quanto si può ritenere, le istituzioni non neutralizzano il conflitto, ma lo incorporano, costituendo il luogo in cui esso si dispiega. In particolare l’istituzione democratica è fondata dal conflitto politico tra parti, o partiti, diversi. In questo senso, come ha sostenuto Claude Lefort18, il ruolo della politica è quello di istituire la società, dividendola in due campi inevitabilmente conflittuali. Essa porta alla luce la divisione che fin dall’inizio la percorre. La società è sempre divisa tra valori ed interessi contrapposti, ma spesso non sa di esserlo, pretendendosi unita nella figura, in verità mitologica, di un popolo indifferenziato. Ciò definisce il rapporto tra politica e società. L’una non potrebbe esistere senza l’altra. La società è lo spazio in cui si esercita la politica, senza il quale questa non esisterebbe. Ma ciò vale anche all’inverso. Come non esiste politica senza società, così non può esistere società senza politica. 18 Cfr. Mattia Di Pierro, L’“esperienza del mondo”: Claude Lefort e la fenomenologia del politico, Ets, Pisa 2020.
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Solo la politica indica la differenza che passa tra le diverse società, assegnando loro quelle configurazioni che le rendono specifiche, diverse le une dalle altre. Senza le istituzioni, che le conferiscono forma, ogni società sarebbe uguale alle altre. Per esempio sono le istituzioni a differenziare le società di ancien régime da quelle moderne, o la società democratica da quella totalitaria. A separarle sono il ruolo assunto dal potere e le modalità del suo esercizio. Perché – al contrario di quanto si potrebbe pensare – non esiste società che possa fare a meno del potere, neanche quella democratica. Ma il potere, almeno in democrazia tutt’altro che qualcosa di originario, è l’esito del confronto, o dello scontro, tra valori e interessi diversi delle parti sociali. Le istituzioni sono i luoghi, le procedure, le prassi entro cui si rapportano potere e conflitto. La logica istituente è necessariamente legata alla dinamica conflittuale. Nasce da essa e la riproduce ad altro livello. Il contrario esatto della funzione conservativa e neutralizzante che le si è voluta a lungo attribuire. Istituzione è ciò che garantisce al conflitto politico il suo ruolo regolativo all’interno delle società. Ma le istituzioni, oltre che di storia e politica, sono anche portatrici di vita. Perciò possono, e devono, entrare in risonanza con la biopolitica. Sono organismi viventi, che nascono, crescono e, in certi casi, muoiono, quando vengono meno le motivazioni che le hanno generate. A sua volta la nostra vita è sempre istituita, situata in forme storiche che oltrepassano la semplice materia vivente, quella che Benjamin chiamava “nuda vita”. Ma, essendo organismi viventi, le istituzioni vanno sempre di nuovo rivitalizzate, innovate, mobilitate verso obiettivi che attengono alla nostra esistenza. Come sapevano i grandi istituzionalisti della prima metà del Novecento, le istituzioni sono vitali quando funzionano da filtro tra società e politica, comunicando alla seconda le domande che vengono dalla prima. Questa spinta vitale delle istituzioni vale sempre, ma a maggior ragione dopo un periodo di pandemia come quello che, in tutto il mondo, ha segnato a lungo la prevalenza della morte sulla vita. Mai come oggi, nella speranza che la pandemia regredisca, si sente il bisogno di istituire la vita, nel senso di ricreare una nuova condizione di esistenza. Come sostiene Hannah Arendt, fa parte della natura umana iniziare qualcosa di nuovo, perché, essendo venuti al mondo, gli esseri umani sono essi stessi un inizio. Ma la prima nascita, quella biologica, non basta. Ad essa va aggiunta una seconda nascita, costituita dalla poli-
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tica – da una vita insediata nella polis e rivolta alla sua cura. A lungo si è immaginato che vita ed istituzioni – o libertà ed istituzioni – si situassero in due spazi diversi, incapaci di incontrarsi. La pandemia ci ha insegnato che non è così. Che senza istituzioni la vita soccombe a forze ostili che la sovrastano. E che senza vitalità le istituzioni sono destinate a deperire. Perciò gli uomini – anche nelle condizioni più drammatiche, come quelle dalle quali per fortuna stiamo uscendo – non potranno mai smettere di istituire la vita, di proteggerla, ma nello stesso tempo di articolarla nelle istituzioni che essi stessi, di volta in volta, si danno. Le istituzioni sono il ponte necessario tra individui e comunità, tra società e politica, tra una generazione e l’altra. Quando il loro filo minaccia di spezzarsi, la nostra vita rischia di smarrire la sua dimensione più intensa e regredire. È arrivato il momento di mettere mano alle istituzioni esistenti. E crearne di nuove, più giuste e adeguate alla nostra vita.
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Negli ultimi decenni le teorie del complotto sono diventate una componente fondamentale sia della vita politica sia della fabbrica sociale. Esse scandiscono il corso degli eventi di cui forniscono una lettura dissidente, dalla negazione della presenza dell’uomo sulla Luna il 20 luglio 1969 alla contestazione della caduta di un aereo sul Pentagono l’11 settembre 2001, dalla morte della principessa Diana alla nascita di Barack Obama, dall’attentato contro Charlie Hebdo agli omicidi di Mohamed Merah. Gettano una luce inquietante su una serie di fatti, dal presunto legame tra l’immunizzazione dal morbillo e l’autismo, alla negazione del riscaldamento globale in quanto invenzione volta a promuovere un governo mondiale. Alimentano la letteratura, dai romanzi di Don DeLillo al fumetto XIII, così come il cinema, dal film JFK di Oliver Stone alla serie X-Files. Offrono in tal modo una rappresentazione delle cose secondo la quale dietro il mondo comunemente percepito esisterebbe un altro mondo, occulto e tenebroso, dove forze oscure nasconderebbero la verità e ordirebbero cospirazioni. In effetti, parlare di teorie del complotto presuppone che i fatti negati o asseriti siano falsi: l’uomo ha davvero camminato sulla Luna, un aereo si è schiantato sul Pentagono, la morte della principessa Diana è stata accidentale, la nascita di Barack Obama è avvenuta alle Hawaii, il vaccino contro il morbillo non causa l’autismo e il riscaldamento globale costituisce una minaccia reale per il pianeta e i suoi abitanti; e, soprattutto, in nessuno di questi casi ci sono servizi segreti o agenti cattivi che cercano di diffondere queste bugie o perpetrare questi crimini. Distinguere tra teorie del complotto e complotti sembra quindi semplice a prima vista: le prime sono immaginarie, i secondi sono reali. Tuttavia, la distinzione diventa più complessa quando le accu-
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se di complottismo sono mosse in modo reciproco: negli Stati Uniti quasi tutti i democratici sono convinti dell’esistenza di un complotto da parte della Russia, che sarebbe intervenuta in modo decisivo nelle elezioni presidenziali del 2016, cosa che la maggioranza dei repubblicani respinge come teoria del complotto, mentre molti repubblicani sono convinti dell’esistenza di una cospirazione che si sarebbe manifestata nella forma di brogli su larga scala in occasione delle elezioni presidenziali del 2020, cosa che la maggior parte dei democratici interpreta come una teoria del complotto. Per poter considerare un dato punto di vista come una teoria del complotto bisogna quindi aver stabilito un punto di vista ortodosso. Questo solleva una serie di domande. Come definire queste teorie complottiste? Sono caratteristiche del mondo contemporaneo e delle società occidentali? C’è motivo di preoccuparsene o bisogna prima cercare di spiegarle, considerandole (come si vuole fare qui) non come patologie sociali ma come chiavi di lettura euristiche che, rispecchiando la società, aiutano a comprenderla? Questo compito impone di evitare due atteggiamenti comuni sull’argomento: la denuncia, che la strumentalizzazione delle opinioni a fini antidemocratici potrebbe certamente giustificare; e la derisione, che la credenza di alcuni in un governo di rettiliani o alieni sembrerebbe autorizzare. In sostanza, né deplorare né deridere, ma cercare di comprendere: questa è l’applicazione della famosa massima spinoziana che le scienze sociali devono darsi come parola d’ordine. Prendiamo dunque sul serio questo oggetto, a prima vista bizzarro, che è il complottismo. Che cos’è una teoria del complotto? L’11 novembre 2020, quando la Francia conta già quasi due milioni di casi di Covid-19 e più di quarantaduemila morti e il presidente della Repubblica ha appena annunciato un secondo lockdown della popolazione, esce sulla piattaforma Vimeo Hold up un documentario di due ore e quarantatré minuti. Basato su numerosi pezzi di interviste a ricercatori, tra i quali due premi Nobel, a medici, tra cui un professore di malattie infettive, e a politici, fra i quali un ex ministro della sanità, oltre che su spezzoni abilmente tagliati da archivi recenti, il film critica innanzitutto la gestione della crisi sanitaria da parte delle autorità pub-
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bliche francesi, denunciando gli errori del governo, una manipolazione delle statistiche e una politica della paura. Attaccando due decisioni controverse, il documentario evoca un accanimento sull’unico trattamento a suo dire efficace, l’idrossiclorochina, il cui divieto avrebbe portato a un picco di mortalità senza precedenti, e l’eutanasia degli anziani attraverso l’autorizzazione di un sedativo, il clonazepam, che servirebbe ad accelerare la fine della vita di questi pazienti. Progressivamente, il discorso dei relatori si fa tuttavia più oscuro e allarmista, pretendendo di rivelare verità che si vorrebbe nascondere al pubblico: il virus sarebbe stato prodotto all’Istituto Pasteur modificando la struttura genetica di un altro coronavirus, il che sarebbe confermato dalla registrazione del brevetto di un test di screening diversi anni prima dell’inizio dell’epidemia; il vaccino, previsto da molto tempo, servirebbe a Bill Gates per prendere il controllo degli individui introducendo nanoparticelle legate a criptovalute che verrebbero poi assegnate in base al comportamento di ogni persona; infine, la pandemia farebbe parte di un vasto piano deciso al Forum economico di Davos, il Grande Reset, che cercherebbe di far prosperare il capitalismo limitando le libertà fondamentali e asservendo la popolazione mondiale. Un sociologo sostiene addirittura che si sia in presenza di un nuovo olocausto paragonabile a quello perpetrato dai nazisti e che l’élite mondiale sarebbe determinata a eliminare tre miliardi e mezzo di poveri, di cui – grazie ai progressi dell’intelligenza artificiale – i ricchi non avrebbero più bisogno per garantire la loro sopravvivenza. Dopo la sospensione della proiezione da parte di Vimeo, che ha considerato queste teorie pericolose, la decisione dei registi di rendere il film liberamente disponibile su un’altra piattaforma ha generato quasi tre milioni di visualizzazioni in pochi giorni – un successo senza dubbio favorito dalla condivisione del film sui social network da parte di celebrità e dall’attenzione ambigua dei media. Diverse inchieste giornalistiche rivelano tuttavia che, oltre al fatto che la maggior parte dei relatori non ha l’autorità scientifica che pretende di avere ed è già nota per le sue posizioni complottiste, diversi di loro sono legati ad ambienti cattolici tradizionalisti o di estrema destra. Inoltre, permettono di scoprire che quattro di loro sono vicini a un movimento nato qualche anno prima negli Stati Uniti su dei forum di Internet e passato dalla marginalità dei social network alla centralità della vita pubblica: QAnon.
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Secondo i membri di questo movimento – molto influente nella alternative right –, una cabala satanica e pedofila, composta da politici democratici, alti funzionari e figure religiose, governerebbe il mondo, organizzando una rete pornografica internazionale che pratica il sacrificio di bambini. Condivide questa tesi quasi un americano su cinque, secondo un sondaggio nazionale condotto alla fine del 2020, mentre più di uno su tre dice di non potersi pronunciare sull’esistenza di tale cabala, con percentuali molto più alte tra i repubblicani che tra i democratici. Secondo i più informati seguaci di questo movimento, l’elezione di Donald Trump nel 2016, organizzata da capi militari, doveva interrompere il progetto malvagio. Quattro anni dopo, durante la campagna presidenziale, QAnon ha denunciato una cospirazione contro il suo campione, rinfrancandolo dopo la sua sconfitta elettorale, nella convinzione che la vittoria gli fosse stata rubata. Molti di coloro che, incoraggiati da lui, si sono precipitati al Campidoglio e l’hanno invaso il 6 gennaio 2021, hanno mostrato con orgoglio la lettera Q come segno del loro sostegno a questo movimento, che è così ben radicato nel partito repubblicano che l’ex consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Michael Flynn gli ha giurato fedeltà e Marjorie Taylor Greene, che proclama di esserne membro, è stata eletta alla Camera dei Rappresentanti, della cui presidentessa, poco tempo prima, aveva chiesto l’esecuzione. Negli ultimi tempi, da una parte all’altra dell’Atlantico, il film francese Hold up e il movimento americano QAnon hanno dato alle teorie del complotto una particolare risonanza nella sfera pubblica. Essi offrono due illustrazioni del complottismo contemporaneo. Uno mette alla prova la salute pubblica, l’altro l’ordine politico. Nel caso del documentario Hold up, le affermazioni degli autori rafforzano il sospetto, già radicato nella popolazione, rispetto alle misure decise dalle autorità pubbliche, in particolare l’uso di mascherine, il lockdown e soprattutto la vaccinazione, ponendo un problema sanitario potenzialmente importante. Per quanto riguarda il movimento QAnon, le affermazioni dei suoi seguaci, che godono di un grande pubblico, portano a una contestazione delle basi democratiche del paese, ricorrendo anche alla violenza collettiva per rovesciarle con la complicità della figura principale dello Stato. Nonostante alcune somiglianze che si possono osservare tra le due teorie, in particolare l’idea di un governo mondiale con intenzioni malvagie, che del re-
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sto è in parte dovuta agli scambi tra alcuni dei partecipanti al film e membri del movimento, ci sono evidentemente grandi differenze nelle narrazioni di Hold up e QAnon. Che cosa autorizza dunque, in entrambi i casi, a parlare di teoria del complotto? Il primo ad aver utilizzato questa espressione è il filosofo austriaco, esiliato in Gran Bretagna, Karl Popper nel suo libro The Open Society and Its Enemies, pubblicato nel 1945. Secondo lui, una teoria del complotto è una teoria falsa che spiega i fenomeni dannosi per la società, quali la guerra, la disoccupazione o la povertà, come opera di individui o gruppi potenti che cospirano per realizzarli. Questi sono i cinque elementi essenziali dell’architettura del complottismo: un’inferenza causale, un processo segreto, un intento nefasto, un gioco di poteri e interessi, e naturalmente, a suo avviso, una fallacia. Questa definizione è essenziale nella storia intellettuale delle teorie del complotto, in quanto ne delimita i contorni peggiorativi, sia sul piano cognitivo che sul piano morale: sono ingannevoli e malvagie. Ma il complottismo che Popper prende di mira non è quello del senso comune. È quello delle teorie critiche della società, e più particolarmente quelle influenzate dal marxismo, pensiero a cui un tempo è stato vicino. Mezzo secolo dopo, la sua analisi viene ampliata e ridiscussa da altri filosofi1. Per Brian Keeley, l’efficacia delle teorie del complotto nella sfera pubblica sta sia nel fatto che offrono un’alternativa alle versioni ufficiali di eventi inquietanti, sia nel fatto che rendono possibile collegare logicamente fatti irrisolti. Contestano l’interpretazione ufficiale e, al contrario dell’opinione comune, sono a modo loro perfettamente razionali. Per questo sono politicamente e logicamente attraenti. Secondo Charles Pigden, la relazione tra il complottismo e i complotti reali è più complessa di quanto sembri. Ciò che a prima vista sembra una teoria del complotto e viene denunciato come tale può essere la base per lo smascheramento di un vero complotto, come la collusione tra politici, banchieri ed economisti all’origine di una grave crisi finanziaria globale. Questi filosofi non giustificano il complottismo: cercano di capire l’attrazione che esercita su ampi 1 Si rimanda agli importanti articoli di Brian Keeley, Of Conspiracy Theories, «The Journal of Philosophy», XCVI, 3, 1999, pp. 109-126; e di Charles Pigden, Popper Revisited, or What Is Wrong with Conspiracy Theories, «Philosophy of the Social Sciences», 25/1, 1993, pp. 3-34.
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segmenti della popolazione e di invitare a riflettere sui legami che intrattiene con il mondo reale. Ma forse bisogna andare oltre e chiedersi se tutte le teorie del complotto siano uguali. È ciò che Russell Muirhead e Nancy Rosenblum cercano di fare in uno studio sugli Stati Uniti contemporanei. Secondo loro c’è una differenza tra la convinzione che i servizi segreti del loro paese siano coinvolti negli attacchi al World Trade Center e l’affermazione che Barack Obama sia un musulmano o che Hillary Clinton organizzi traffici di esseri umani in una pizzeria di Washington D.C. Nel primo caso, si ha a che fare con ciò che chiamano una forma classica di complottismo, che implica una certa visione del mondo e si basa su un insieme di dati che sembrano avere senso. Nel secondo caso, che chiamano il nuovo complottismo, non c’è più un quadro interpretativo e nemmeno una ricerca di prove: si tratta di un complotto senza teoria basato su voci e insinuazioni create intenzionalmente per danneggiare dei politici e persino delegittimare la democrazia, spesso ribaltando semplicemente le accuse. Così l’indagine richiesta dal Dipartimento della Giustizia sul documentato coinvolgimento della Russia nelle elezioni presidenziali del 2016 viene presentata come un colpo di Stato organizzato dall’FBI al soldo dei democratici. Si è nel campo delle fake news, informazioni false, come il presunto sostegno del papa alla candidatura di Donald Trump, e degli alternative facts, descrizioni inesatte, come la falsa affermazione di una partecipazione record alla cerimonia di insediamento di quest’ultimo. Ma se si torna a Hold up e QAnon, si vede che la distinzione non è veramente operativa. Non si sa nulla delle intenzioni dei creatori di questi complotti e, per quanto insolite ed eccessive possano sembrare le loro idee, esse implicano una forma di teoria di governo mondiale. Un nuovo fenomeno proprio del mondo occidentale? Gli esempi forniti finora riguardano il periodo contemporaneo e le società europee e nordamericane. È vero che è in questo quadro temporale e spaziale che le accuse sono più costanti o perlomeno più visibili e che vi si inscrive la maggior parte delle teorie del complotto denunciate o semplicemente registrate. Questo significa che non esistevano in passato o che non esistono altrove?
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La consultazione del sito Ngram Viewer, che analizza l’evoluzione lessicale delle fonti stampate in diverse lingue, potrebbe portare a crederlo. Mostra in effetti che l’espressione francese théorie du complot, assente fino agli anni ’80, ha conosciuto un’ascesa folgorante a partire dall’inizio del XXI secolo, aumentando di venti volte la sua occorrenza in soli due decenni. Al contrario, la frequenza di una parola ben più antica complot, che aveva raggiunto il suo apice nella prima metà del XVIII secolo, si è dimezzata negli ultimi duecento anni. Si osservano le stesse tendenze per le formulazioni inglesi, con conspiracy theory che tuttavia appare prima, aumentando a partire dagli anni ’50, mentre conspiracy, che ha raggiunto il suo apice tra il 1750 e il 1850, diminuisce poi in misura maggiore, riducendosi a un terzo in due secoli. Sulla base di questi dati quantitativi e convergenti si sarebbe quindi portati a credere, da un lato, che il pensiero complottista sia un fenomeno abbastanza recente e, dall’altro, che, paradossalmente, più diminuiscono i complotti reali più aumentino le accuse di teorie del complotto. Ma è davvero così? Bisogna peraltro sottolineare che queste analisi si basano sulla produzione di documenti scritti in francese o in inglese e rappresentano essenzialmente l’uso di questi termini nella letteratura occidentale, scientifica o romanzesca. Ne ignorano la possibile presenza nelle tradizioni scritte o orali del resto del mondo. Se ne dovrebbe dedurre che, altrove, non esistano fatti corrispondenti? In fondo, ciò che questo strumento permette di studiare è semplicemente l’evoluzione dei termini “complotto” e “teorie del complotto” nei Paesi occidentali dal momento in cui questi vocaboli sono stati creati, piuttosto che la realtà che rappresentano, dato che già in latino sotto lo stilo di Cicerone, tra gli altri, si trovano le parole conjuratio e conspiratio. Occorre quindi evitare il pregiudizio presentista, che consiste nel sovrainterpretare i fatti come appartenenti alla temporalità nella quale li si esamina, ma anche, per estensione, premunirsi contro il pregiudizio etnocentrico, che consiste nel considerarli dalla sola prospettiva dell’universo sociale al quale si appartiene. La storia e l’antropologia forniscono delle chiavi di lettura per evitare in parte queste due insidie. Nel lungo periodo, il caso più noto di teoria del complotto riguarda le accuse di omicidio rituale di bambini, in inglese blood libels, lanciate contro gli ebrei nel Medioevo. Gli storici riportano un primo caso a Norwich, nell’ovest dell’Inghilterra, dove nel 1144 la morte di un gio-
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vane fu attribuita a degli ebrei locali. Gradualmente, negli anni successivi, si diffuse in diverse città del paese, poi in Francia, Italia, Spagna e ancora in Austria, Polonia e Slovacchia, una storia secondo la quale gli ebrei tramavano per uccidere dei bambini di cui usavano il sangue per eseguire riti religiosi in una sorta di parodia della Passione di Cristo. La credenza, che permetteva convenientemente di porre fine a controversie economiche, ha giustificato nel corso di diversi secoli decine di esecuzioni per impiccagione o sul rogo, spesso dopo torture per ottenere confessioni. La si ritrova invocata nei processi a Damasco nel XIX secolo e a Kiev nel XX secolo, prima di essere usata a sua volta dai nazisti e, più recentemente, da leader religiosi del Medio Oriente. È degno di nota il fatto che anche le cabale immaginate oggi da QAnon incorporino il tema del sacrificio dei bambini nella loro denuncia dell’élite democratica, mentre attaccano la figura ebraica più spesso citata dagli antisemiti, George Soros, ma senza collegare le due cose. Se le accuse di omicidio rituale di bambini hanno una lunga storia, lo stesso vale per le teorie del complotto durante le epidemie. Con la peste, a partire dal XIV secolo, gli ebrei furono nuovamente usati come capri espiatori: li si sospettava di avvelenare i pozzi; alcuni furono bruciati vivi in Alsazia e in Renania; in questa persecuzione furono in seguito sostituiti dai lebbrosi. Il colera ha dato origine ad altre paure nel XIX secolo, questa volta dirette contro le élites: si diceva che i medici causassero la malattia per poter dissezionare i cadaveri; i poveri attaccavano i ricchi, poiché gli abitanti dei quartieri popolari costatavano che questi ultimi erano molto meno colpiti di loro. A parte questi periodi epidemici, a partire dal XVIII secolo sono state osservate delle recrudescenze di tesi complottiste che coinvolsero successivamente i Massoni (un insieme di obbedienze apparso in Inghilterra), gli Illuminati (un movimento di breve durata nato in Baviera) e persino, un po’ più tardi, negli Stati Uniti, i gesuiti. Gli uni come gli altri sono stati accusati, a seconda del contesto e delle circostanze, di voler rovesciare i poteri in vigore e addirittura di governare il mondo. In un articolo pionieristico sul paranoid style Richard Hofstadter colloca il maccartismo, la caccia alle streghe organizzata negli Stati Uniti contro i comunisti o presunti tali negli anni ’50, in questa tradizione di pensiero complottista. Al di fuori del mondo occidentale le modalità accusatorie del complottismo assumono molte forme. Tra queste la stregoneria è la
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più diffusa nel continente africano e le storie raccontate in Camerun sugli uomini di potere e le loro trame segrete sono stranamente simili a quelle sui maghi e sulle loro cospirazioni notturne. In entrambi i casi si ritrova uno stesso tentativo di spiegazione di fatti che si pensa non possano essere dovuti al solo caso, una capacità di raccogliere elementi che possono presumibilmente essere usati come prove, l’identificazione di forze maligne che agiscono in segreto. Soprattutto, le une come le altre sono semioticamente sature: ogni elemento scoperto diventa un segno e assume un senso, nel quadro di un’ermeneutica della persecuzione. Peraltro, nell’immaginario dei minatori basotho del Sudafrica, la presunta antropofagia degli stregoni trova un parallelo nel cannibalismo simbolico dei capitalisti che si nutrono dell’energia e della vita stessa dei lavoratori2. Tuttavia, c’è una doppia differenza tra le teorie del complotto e quelle della stregoneria. Una è la scala: mentre le seconde sono locali, con gli stregoni accusati che appartengono al contesto più vicino alle vittime, le prime assumono una dimensione più ampia, nazionale e persino internazionale. L’altra è il bersaglio: mentre le persone accusate di stregoneria sono spesso esseri deboli, tipicamente donne anziane, i gruppi presi di mira dai complottisti oggi sono spesso i potenti. Al di là delle accuse di stregoneria, antropologi e sociologi hanno descritto un insieme di pratiche che condividono ciò che Wittgenstein chiamerebbe un’«aria di famiglia» con le teorie del complotto, in particolare le voci malevole e le leggende urbane, che si possono trovare sia nei paesi del cosiddetto Sud che in quelli nel cosiddetto Nord. Pensiamo alla leggenda metropolitana, particolarmente diffusa a partire dagli anni ’80 in America Latina, riguardante il rapimento di bambini al fine di prelevare i loro organi nel contesto di un presunto traffico sia di reni che di cornee. Trasmessa dai media, ha contribuito in gran parte all’interruzione quasi totale delle adozioni internazionali, dato che gli stranieri erano sospettati di queste pratiche, sulla cui realtà effettivamente persistono dei dubbi. Pensiamo anche alla voce proveniente da Orléans, diffusa nel 1969, secondo la quale giovani ragazze di questa città sarebbero state drogate in 2 Sul Camerun si rimanda a Peter Geschiere, Sorcellerie et politique en Afrique. La viande des autres, Karthala, Paris 1995, mentre sul Sudafrica a David Coplan, In the Time of Cannibals. The Word Music of South Africa’s Basotho Migrants, The University of Chicago Press, Chicago 1994.
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negozi di abbigliamento gestiti da ebrei e poi rapite e vendute in reti di prostituzione in Nord Africa3. Vi si ritrovano i temi frequenti della tratta dei bianchi e dell’antisemitismo, ai quali si aggiunge ormai il razzismo anti-arabo ereditato dalla guerra d’Algeria. Insomma, le credenze nelle forze oscure che agiscono in segreto per commettere delle azioni malvagie non sono né recenti né limitate al mondo occidentale. Le teorie del complotto sono solo un avatar contemporaneo. Devono essere comprese come un modo di affrontare il mondo, caratterizzato dalla ricerca di una spiegazione che non si accontenta delle interpretazioni ufficiali e le sostituisce con la responsabilità di agenti malvagi. Ma se queste teorie per molto tempo sono state limitate all’ambiente immediato dei complottisti, nella loro città o nel loro villaggio, ora circolano in tutto il mondo attraverso Internet e i troll, nei media alternativi così come in quelli ufficiali. Soprattutto, mentre hanno a lungo preso di mira individui e gruppi marginali, come continuano a fare contro i Rohingya in Birmania, i Copti in Egitto e i Rom in Francia, oggi attaccano soprattutto le élites, il che le porta a entrare in contatto con le ideologie populiste. C’è quindi una continuità nel complottismo, ma anche delle trasformazioni, potenzialmente preoccupanti. Bisogna avere paura delle teorie del complotto? Ormai diffuso in tempo reale su scala mondiale, il complottismo istaura un clima di sospetto le cui conseguenze sono a volte gravi. In Nigeria, nel 2003, l’affermazione secondo cui il vaccino contro la poliomielite sarebbe usato per sterilizzare le donne ha dissuaso la popolazione dal vaccinarsi contro l’infezione e provocato focolai, mentre negli Stati Uniti, nel 2012, la dichiarazione di Donald Trump secondo la quale i cinesi avrebbero inventato il riscaldamento globale per indebolire l’industria statunitense gli è servita da giustificazione, una volta divenuto presidente, per ritirare il suo paese dall’accordo di Parigi, rivedere il Clean Air Act del suo predecessore e sopprimere o 3 Sul traffico di organi si rimanda a Véronique Campion-Vincent, Organ Theft Narratives as Medical and Social Critique, «Journal of Folklore Research», 39/1, 2002, pp. 3350, mentre per quanto riguarda la tratta dei Bianchi a Edgar Morin, La Rumeur d’Orléans, Seuil, Paris 1969; tr. it. di E. Campelli, Medioevo moderno a Orléans, ERI, Torino 1979.
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modificare un centinaio di leggi e regolamenti volti a ridurre le molteplici forme di inquinamento. Il complottismo può anche assumere una portata globale. Per esempio, la tesi della Grande Sostituzione, secondo la quale le popolazioni nordafricane e subsahariane progetterebbero di sostituirsi alle popolazioni occidentali, alimenta oggi la xenofobia e il razzismo, in particolare nei confronti dei musulmani, nello stesso modo in cui la falsificazione dei Protocolli dei Saggi di Sion, rappresentata come un programma ebraico per la conquista del pianeta, è stata utilizzata nel XX secolo per giustificare l’antisemitismo. È quindi importante prendere sul serio queste teorie del complotto, senza tuttavia assecondare quella reazione eccessiva rispetto a pratiche ritenute devianti nota come “panico morale”. Consideriamo il principale sondaggio condotto sull’argomento in Francia, alla fine del 2017, i cui risultati, secondo Le Monde, «sono agghiaccianti» a causa della «forte prevalenza delle teorie del complotto tra la popolazione francese in generale, e tra i più giovani in particolare», dato che «solo il 21% degli intervistati non crede in nessuna di queste teorie»4. Quali sono queste teorie? Il questionario mescola le classiche affermazioni complottiste per cui la CIA sarebbe stata coinvolta nell’assassinio di John F. Kennedy, i gruppi terroristici jihadisti sarebbero stati manipolati dai servizi segreti occidentali e un progetto segreto sarebbe stato sviluppato per stabilire un nuovo ordine mondiale, con opinioni secondo le quali Dio avrebbe creato l’uomo o la Terra sarebbe piatta. Qualunque cosa si pensi di queste credenze, religiosa in un caso, insolita nell’altro, è sorprendente vedere il creazionismo e il terrapiattismo classificati tra le teorie del complotto. La confusione aumenta quando le persone vengono interrogate su teorie di cui otto su dieci non hanno mai sentito parlare, come il coinvolgimento delle società segrete nella rivoluzione russa o la produzione da parte degli Stati Uniti di un’arma che scatena terremoti e tsunami. In questi casi capita addirittura che ci siano più soggetti che affermano di aderire a queste tesi di quanti le conoscano. Inoltre, le ambiguità delle formulazioni aumentano il numero di risposte considerate complottiste, come quando si chiede, in relazione agli attentati del gennaio 2015, se «rimangono zone grigie» sulla loro delucidazione, in particolare sul fatto 4
Jean-Baptiste de Montvalon, Les théories du complot bien implantées au sein de la population française, «Le Monde», 7 gennaio 2018. Sondaggio realizzato dall’Institut français d’opinion publique per la Fondazione Jean Jaurès e Conspiracy Watch.
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che siano stati «pianificati e realizzati unicamente da terroristi islamici». Anche se effettivamente non si sa tutto su questi atti terroristici, dato che il processo non è terminato, accettare questa affermazione, come fa un quinto degli intervistati, porta i quotidiani a mettere come titolo della loro edizione nell’anniversario degli attentati il fatto che le teorie complottiste persistono. In queste condizioni, si comprende come un sondaggio che utilizza un questionario online auto-somministrato, di cui si ignora il numero dei rifiuti e che non lascia mai agli intervistati la possibilità di dire che non hanno un’opinione, possa aver prodotto risultati allarmanti. Importati dalla psicologia americana, tali studi sono stati tuttavia criticati in quella sede, in particolare per il fatto che, mescolando la sfiducia nelle fonti d’informazione ufficiali e la reale credenza nelle teorie della cospirazione, non permettono di conoscere la realtà del complottismo. Né permettono di analizzarne i meccanismi. Il fatto che i più alti tassi di adesione alle teorie del complotto si trovino tra i più modesti, i meno istruiti, i giovani, i contadini, i musulmani e gli elettori ai due estremi dello spettro politico, soprattutto all’estrema destra, mentre al contrario i dirigenti, i laureati, i pensionati, gli abitanti della regione di Parigi, i cattolici praticanti, i conservatori e la sinistra moderata siano meno tentati da queste idee meriterebbe una riflessione sulle ragioni di questa differenziazione sociale e politica. L’assenza di una discussione critica e persino la pubblicazione di commenti che raddoppiano la stigmatizzazione delle categorie più suscettibili al complottismo rafforzano l’argomento populista secondo cui le élites squalificano le classi popolari, contribuendo così all’amalgama degli estremi, che generalmente serve ad eludere la critica sociale. Così, nel momento stesso in cui si pretende di denunciare le teorie del complotto, si forniscono loro indirettamente delle armi. A tale proposito, approssimazioni metodologiche e sensazionalismo giornalistico non sono privi di conseguenze. Il fatto che i sondaggi d’opinione che alimentano le paure dell’opinione pubblica e informano le decisioni dei leader pongano seri problemi di natura sia scientifica che politica, in Francia come altrove, non deve tuttavia indurre a minimizzare l’esistenza delle teorie del complotto e le loro implicazioni sociali. Ma piuttosto che questi fuorvianti conteggi della loro diffusione, a rivelarsi necessaria è un’analisi rigorosa delle loro cause. Per usare la formula del filosofo britannico
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J. L. Austin, quali sono le condizioni di felicità di queste teorie? O, più semplicemente, quali sono le ragioni per aderire a teorie generalmente considerate false o addirittura assurde? Le spiegazioni che emergono dalla vasta letteratura prodotta in psicologia, filosofia e scienze sociali possono essere divise in due gruppi. Alcune si basano su approcci cognitivi e propongono meccanismi universali. Altre mobilitano conoscenze storiche e sociologiche e suggeriscono fattori contestuali. Le prime permettono di capire le logiche generali dell’adesione alle teorie del complotto. Le seconde permettono di capire perché certi periodi e certi gruppi si rivelano più esposti ad esse. Le domande a cui ogni spiegazione risponde sono quindi diverse ma complementari. Le spiegazioni universaliste propongono tre logiche principali: epistemica, esistenziale e sociale5. In primo luogo, le teorie del complotto forniscono delle risposte alle incertezze che tutti affrontano; escludendo la possibilità del caso o del dubbio, collegano tra di loro degli elementi, spesso dettagli inosservati, che cominciano ad avere un senso dal punto di vista causale. In secondo luogo, offrono agli individui la possibilità di riprendere il controllo sull’interpretazione delle realtà opponendosi a versioni ufficiali provenienti da fonti mediatiche o politiche di cui non si fidano; questo è particolarmente vero per coloro che si sentono ansiosi o espropriati rispetto a come va il mondo. Infine, rassicurano le persone che vi aderiscono in quanto migliorano la loro immagine, che può essere stata degradata nelle loro relazioni con gli altri; forniscono loro un’interpretazione più accettabile della propria situazione di vittime. Queste tre logiche individuali sono rafforzate dalle interazioni all’interno di gruppi che condividono le stesse convinzioni6. I meccanismi di autoselezione, reputazione e concentrazione portano alla convergenza delle opinioni di coloro che ne fanno parte e guadagnano così prestigio per il fatto di opporsi al discorso ufficiale. In modo controintuitivo, le ricerche mostrano che lo sviluppo di Internet non sembra aver portato a una maggiore produzione di teorie del complotto, quanto, soprattutto, a un’accelerazione della loro circolazione nelle reti che le hanno adottate. 5 Cfr. Karen Douglas and al., Understanding Conspiracy Theories, «Political Psychology», 40/Suppl. 1, 2019, pp. 3-35. 6 Cfr. Cass Sunstein, Adrian Vermeule, Conspiracy Theories: Causes and Cures, «The Journal of Political Philosophy», 17/2, 2009, pp. 202-227.
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Tutte queste analisi non permettono tuttavia di rispondere alle domande: perché in certi momenti? perché certi soggetti? Questo è ciò che fanno le letture contestuali. Innanzitutto, da una prospettiva storica sono state avanzate due interpretazioni apparentemente contraddittorie. Secondo la prima, i regimi autoritari, a fortiori totalitari, producono essi stessi teorie del complotto che diventano armi sia contro i loro nemici interni che contro i loro nemici sulla scena internazionale. Per George Marcus, l’atmosfera di sfiducia e paura in cui vive la popolazione favorisce queste teorie e, tra l’altro, alcuni dei complotti da esse descritti si rivelano davvero reali. Allo stesso modo, i conflitti tra nazioni tendono a generare un clima complottista in ciascuna di esse, come si è visto durante la guerra fredda. Naturalmente queste situazioni non scompaiono con la fine di questi regimi e conflitti. Persistono, ed è perciò che si è potuto rendere conto della persistenza del complottismo nell’ex-impero sovietico e nella società americana dopo il crollo del primo, che sembrava annunciare, per la seconda, l’egemonia mondiale. Al contrario, e paradossalmente, Harry West e Todd Sanders hanno sostenuto che le democrazie contemporanee, promuovendo un discorso di trasparenza delle istituzioni e delle aziende, hanno contribuito a generare delle teorie del complotto. In effetti, mentre i mondi della politica e degli affari hanno talvolta fatto progressi in questo campo, la permanenza dei paradisi fiscali in Europa, l’estensione illimitata dei finanziamenti delle campagne elettorali negli Stati Uniti, le rivelazioni dei crimini di guerra da parte di Wikileaks e dei dispositivi di sorveglianza diffusa da parte di Edward Snowden, la protezione di cui beneficiano gli agenti di polizia che commettono omicidi, le molteplici pratiche volte a coprire le devianze e gli illeciti dello Stato, la tendenza dei media tradizionali ad accettare le versioni ufficiali dei fatti e, in Francia, le ripetute menzogne a proposito della pandemia di Covid, mostrano che la trasparenza invocata serve spesso a produrre una nuova opacità. Quindi le teorie del complotto sono favorite dal totalitarismo o dalla democrazia? Le due interpretazioni non si escludono a vicenda. Suggeriscono che il complottismo non obbedisce a una legge storica, ma piuttosto a logiche multiple. Lo stesso vale per la prospettiva sociologica che cerca di stabilire perché certi individui o gruppi aderiscano più facilmente al complottismo. Numerosi studi mostrano che i gruppi dominati sono par-
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ticolarmente sensibili alle teorie che rafforzano la loro sfiducia nei resoconti ufficiali. Educati da una presentazione dei fatti che, quando sono coinvolti, va spesso a loro sfavore, convinti, a volte sulla base di esperienze precedenti, che i potenti nascondano loro la verità o semplicemente sospettosi a priori di tutto ciò che può provenire da luoghi di potere e sapere, aderiscono più facilmente alle teorie del complotto. Prendiamo il caso dell’AIDS. Negli Stati Uniti, secondo un sondaggio condotto negli anni Dieci del nuovo millennio sulla base di interviste approfondite, un terzo degli afroamericani e degli ispanici pensa che il virus sia stato creato con intento genocida, più della metà crede che esista una cura ma che non vi si abbia accesso per ragioni di profitti di laboratorio e quasi tre quarti crede che ci sia una collusione tra il governo e l’industria farmaceutica7. Queste credenze sono alimentate dal ricordo degli esperimenti umani condotti nel paese, il più tristemente celebre dei quali, a Tuskegee, in Alabama, consistette nel tracciare a partire dal 1932 l’evoluzione naturale della sifilide tra 399 contadini neri affetti dalla malattia, ai quali fu fatto credere che fossero in cura, mentre non poterono mai beneficiare della penicillina, introdotta nel 1947. Quando lo studio fu interrotto 25 anni dopo in seguito allo scandalo pubblico causato dalla sua rivelazione, 28 uomini erano morti di sifilide e 100 di complicazioni correlate, mentre 40 mogli erano state infettate. Se ne è derivato un profondo sospetto nei confronti della salute pubblica, sono anche l’esperienza attuale del razzismo sistemico con le sue microaggressioni quotidiane e la marginalità socio-economica affiancata a una ricchezza esuberante a spiegare, più in generale, il pensiero complottista delle comunità nere povere. Il parallelo con il Sudafrica è impressionante, poiché nel 2000, quando il paese aveva la più alta diffusione dell’infezione al mondo, il presidente e i suoi due ministri della salute succedutisi hanno contestato l’origine virale dell’AIDS e l’efficacia dei farmaci antiretrovirali, accusando alternativamente la minoranza bianca, il mondo occidentale e l’industria farmaceutica di voler indebolire la popolazione nera e sostenendo che le sperimentazioni terapeutiche utilizzassero cavie africane per testare farmaci che sarebbero poi stati distribuiti nei Paesi ricchi. Gli abitanti delle 7
Cfr. Jessica Jaiswal et al., HIV-Related “Conspiracy Beliefs”: Lived Experiences of Racism and Socio-Economic Exclusion Among People Living with HIV in New York City, «Culture, Health & Sexuality», 21/4, 2019, pp. 373-386.
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township e delle ex homelands, quanto a loro, erano persuasi che il virus fosse stato iniettato nelle arance per infettare popolazioni inutili di cui ci si voleva liberare. Ma la ricerca storica mostra che per tutto il XX secolo, dalle epidemie di peste, tubercolosi e influenza fino all’avvento dell’AIDS, la salute pubblica è stata usata per imporre misure sempre più draconiane di segregazione ed esclusione razziale. La Truth and Reconciliation Commission ha inoltre scoperto che negli ultimi anni dell’apartheid è stato sviluppato un progetto di guerra chimica e biologica che includeva la diffusione dell’AIDS nei quartieri neri. Anche se il complottismo non è una questione che riguarda soltanto i gruppi dominati, è comprensibile che questi possano essere più ricettivi ad esso, a causa non di una vulnerabilità psicologica, come si dice troppo facilmente, ma di esperienze reali. A differenza degli approcci cognitivisti, che propongono un’interpretazione atemporale e desocializzata delle teorie del complotto, gli approcci contestuali, che le reintegrano nei tempi storici e nelle relazioni sociali, hanno così il vantaggio di evitare di addossare la responsabilità di teorie la cui produzione obbedirebbe a meccanismi puramente psicologici solo all’individuo o al suo gruppo. Sono fenomeni collettivi che coinvolgono l’insieme della società, del suo passato e del suo presente, della sua opacità e delle sue disuguaglianze. Conclusione La visibilità delle teorie del complotto, il consenso di cui sembrano godere e le conseguenze che possono avere, dal rifiuto delle vaccinazioni all’accelerazione del riscaldamento globale passando per le violenze commesse contro agenti o istituzioni sospettate di atti malvagi, ma anche per la pubblicità data loro dai media e per la drammatizzazione sostenuta dagli esperti, le hanno rese oggetto di preoccupazione nella maggior parte dei Paesi. Questa visione paranoica del mondo non è di certo recente e può persino apparire pacificata nel mondo occidentale contemporaneo rispetto a quello che fu in altri tempi e luoghi. Essa deve comunque richiamare l’attenzione in quanto vettore di segnali che bisogna saper leggere. In questa prospettiva, parlare di sfiducia nei confronti della scienza e della politica è troppo vago e, soprattutto, troppo esclusivamente orientato verso
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gli agenti ritenuti complottisti, come se si avesse a che fare con una patologia di individui o gruppi che si tratterebbe di curare – cosa che rafforza le tendenze che si vogliono combattere. Non si dovrebbe quindi, sulla base della ricerca delle scienze sociali, semmai invertire la prospettiva e considerare la responsabilità della società per la sensibilità alle teorie del complotto? Nel caso francese, bisognerebbe interrogarsi sul ruolo che giocano la mancanza di trasparenza dell’azione pubblica, la pratica della menzogna, l’abitudine alla segretezza, le restrizioni alla libertà d’informazione, la normalizzazione dello stato d’emergenza (pensiamo al modo in cui è stata gestita l’epidemia di Covid). Bisognerebbe anche mettere in discussione la banalizzazione dei discorsi xenofobi e razzisti fino ai più alti livelli dello Stato, la stigmatizzazione dei musulmani e il tabù dell’islamofobia, la sanzione delle opinioni dissenzienti nelle scuole e la tolleranza nei confronti della violenza delle forze dell’ordine, l’aumento delle disuguaglianze socio-economiche e l’aumento del sentimento di ingiustizia (pensiamo agli effetti deleteri di questa esperienza quotidiana della dominazione). Sarebbe tuttavia ingenuo immaginare che la soppressione di questi fenomeni sia sufficiente a far scomparire le teorie del complotto, le cui cause, come si è visto, sono molteplici. Si può però pensare che renderebbe più difficile la loro penetrazione nella società. (Tr. it. dal francese di Matteo Pagan, testo originale non editato)
Governare il milieu. Per una biopolitica più-che-umana Thomas Lemke
Com’è noto, Donna Haraway ha sostenuto che il progetto critico di Foucault non abbia sufficientemente destabilizzato l’antropocentrismo e si sia limitato ad un’analisi delle sole relazioni tra esseri umani1. Secondo questa lettura estremamente influente, il lavoro di Foucault sarebbe gravemente compromesso da uno «sciovinismo di specie»2 che ne limita il valore analitico e critico. Analogamente, Nicole Shukin ha sostenuto che l’analisi foucaultiana del funzionamento della biopolitica «si scontra, sulla questione della specie, con il suo limite interno»3. In questa prospettiva, concetti come quelli di “governamentalità” e di “biopolitica”, focalizzati sulle popolazioni umane, risultano incapaci di affrontare la complessità delle relazioni tra l’umano e il non umano o l’impatto della razionalità e delle tecnologie governamentali su ciò che va al di là degli agglomerati umani. In questo articolo verrà proposta una lettura alternativa dell’opera di Foucault. Essa prenderà spunto da alcuni elementi dei suoi scritti al fine di delineare i contorni di una concezione più-che-umana di biopolitica. Nel primo paragrafo, analizzeremo il significato e le dimensioni della nozione di milieu nelle lezioni al Collège de France sulla governamentalità. Dopo aver ricostruito la breve genealogia del termine proposta da Foucault, nel secondo paragrafo dimostreremo che il milieu costituisce parte integrante dell’emergenza, nel XVIII secolo, di una governamentalità liberale che mira a governare l’alea1 Questo articolo si basa su materiale tratto dal nostro libro The Government of Things. Foucault and the New Materialisms, New York University Press, New York 2021. 2 Donna Haraway, When Species Meet, University of Minnesota Press, Minneapolis 2008, p. 60. 3 Nicole Shukin, Animal Capital: Rendering Life in Biopolitical Times, University of Minnesota Press, Minneapolis 2009, p. 11.
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torio. Nel terzo paragrafo proporremo una concezione della biopolitica basata sull’idea di milieu come strumento di governo. Questa teorizzazione non-antropocentrica della biopolitica non si rivolge più esclusivamente agli individui umani e alle popolazioni, ma prende in considerazione la co-costituzione di umani e non umani. Infine, presenteremo brevemente il concetto foucaultiano di «ambientalità» come un modo di cogliere una nuova costellazione di potere, nella quale le modalità contemporanee di governo tentano di modulare e controllare le condizioni sociali, ecologiche e tecnologiche della vita. 1. La genealogia del milieu Nelle sue lezioni al Collège de France del 1977-1978 e 19781979, Foucault propone una breve genealogia del milieu4. Secondo la sua lettura, il concetto di milieu e il suo uso pratico costituiscono una parte essenziale della governamentalità liberale. Si possono distinguere tre fasi della sua emergenza5. In un primo momento, il milieu compare come concetto tecnico nelle città dell’Europa occidentale degli ultimi anni del XVIII secolo6. L’interazione di diversi fattori (la soppressione delle mura cittadine 4 Per una storia più approfondita del concetto di milieu, si veda Leo Spitzer, Milieu and Ambiance: An Essay in Historical Semantics, «Philosophy and Phenomenological Research», 3/1-2, 1942, pp. 1-42, 169-218; Georges Canguilhem, La connaissance de la vie, Vrin, Paris 1965; tr. it. di F. Bassano, La conoscenza della vita, il Mulino, Bologna 1976, pp. 185-217; cfr. anche Florina Sprenger, Epistemologien des Umgebens. Zur Geschichte, Ökologie und Biopolitik künstlicher environments, transcript, Bielefeld 2019. Nelle edizioni inglesi dei testi di Foucault, milieu è spesso tradotto come environment. Brian Massumi, nella sua prefazione alla traduzione di Mille Plateaux di Deleuze e Guattari, sottolinea la differenza tra la concezione francese e quella inglese di milieu: mentre in inglese il termine si riferisce solo all’ambiente naturale nel quale vivono gli organismi, milieu in francese suggerisce anche “medio” e “mezzo” (cfr. Brian Massumi, Translator’s Foreword, in Gilles Deleuze, Felix Guattari, A Thousand Plateaus: Capitalism and Schizophrenia, University of Minnesota Press, Minneapolis 1987, p. xvii). [Lo stesso dicasi per le edizioni italiane delle opere di Foucault ed in generale per la traduzione del termine milieu con «ambiente», n.d.t.]. 5 Cfr. Leonie Ansems de Vries, Political Life beyond the Biopolitical?, «Theoria», 60/134, 2013, pp. 50-68. 6 Cfr. Michel Foucault, Sécurité, Territoire, Population. Course au Collège de France 1977-1978, Seuil-Gallimard, Paris 2004; tr. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 29-30.
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per facilitare il commercio e lo scambio economico, l’aumento della popolazione urbana, che sollevava seri problemi di salute, e le sfide della prevenzione del crimine) rendeva necessario supervisionare e amministrare i movimenti di esseri umani e non umani: «Si trattava insomma di organizzare la circolazione, di eliminare i pericoli, di separare la buona circolazione da quella cattiva, potenziando la prima e riducendo la seconda»7. Foucault nota che il termine milieu non appariva (ancora) nei programmi e nelle riflessioni sistematiche degli architetti e degli urbanisti dell’epoca; tuttavia, lo «schema tecnico»8 della nozione informava in maniera piuttosto evidente le loro pratiche e le modifiche concrete agli spazi urbani «ancor prima che la nozione si [fosse] formata e definita. Il milieu sarà esattamente ciò in cui avviene la circolazione»9. In un secondo momento, l’idea di milieu emerge in fisica – nell’opera di Isaac Newton e dei suoi seguaci – per rendere conto dell’«azione a distanza»: «è il supporto e il mezzo di circolazione di un’azione»10. Foucault prende qui le mosse dalla storia del concetto di milieu proposta da Canguilhem11, la quale dimostra che, se da un lato la nozione non veniva utilizzata da Newton (che impiegava piuttosto il termine “fluido”), dall’altro essa aveva comunque un’importanza strategica nella ricerca di una soluzione a un problema della meccanica dell’epoca: la questione di come un corpo ne metta in movimento un altro senza alcun contatto fisico diretto12. Secondo Canguilhem, Newton arrivò a intendere il “fluido” come un elemento intermedio posto tra due corpi (la sorgente luminosa e l’occhio, ad esempio) che esistono nel mezzo in cui si muovono: «sono situati in mezzo ad esso [au milieu de lui]»13. 7
Ivi, p. 27. Ivi, p. 30. 9 Ibid. [traduzione modificata, n.d.t.]; cfr. anche Michel Foucault, The Birth of Social Medicine, in Power: Essential Works of Michel Foucault, 1954-1984, vol. III, ed. by James D. Faubion, The New Press, New York 2001, pp. 134-156; tr. it. di A. Petrillo, La nascita della medicina sociale, in Archivio Foucault 2. Interventi, colloqui, interviste, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 220-240. 10 Ivi, p. 29; cfr. Marco Altamirano, Three Concepts for Crossing the Nature-Artifice Divide, «Foucault Studies», 17, 2014, pp. 11-35. 11 Cfr. Canguilhem, La conoscenza della vita cit., pp. 98-120; Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione cit., pp. 297-298, nota 37. 12 Canguilhem, La conoscenza della vita cit., pp. 185-186. 13 Ivi, p. 187. 8
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In un terzo momento, la nozione meccanicistica di milieu viene ripresa e trasformata dalla biologia, che si costituisce come disciplina scientifica nel XVIII secolo14. Il milieu diventa un concetto centrale per rendere intelligibile la relazione tra gli esseri viventi e il loro habitat naturale. Mentre il biologo francese Jean-Baptiste Lamarck concepiva il milieu nel senso meccanico di un insieme di forze che agiscono dall’esterno su un organismo, questo modello di spiegazione della vita viene progressivamente soppiantato da un diverso significato di milieu, secondo il quale gli organismi creano e trasformano attivamente gli ambienti che abitano. Mentre nel primo caso l’organismo funziona meccanicamente all’interno di spazi delimitati, nel secondo si tiene conto del fatto che «la caratteristica propria del vivente è quella di farsi il proprio milieu, di comporselo»15. 2. Governare l’aleatorio Pur recuperando la ricostruzione della nozione di milieu di Canguilhem, Foucault si discosta dall’interpretazione storica del suo maestro in quanto presta una particolare attenzione al modo in cui il milieu viene utilizzato nelle nuove forme di calcolo e controllo – una prospettiva assente nelle considerazioni di Canguilhem16. Foucault allude solo brevemente al dibattito teorico sulla nozione di 14
Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione cit., p. 29. Canguilhem, La conoscenza della vita cit., pp. 203-204 [traduzione modificata, n.d.t.]; cfr. Marco Altamirano, Three Concepts for Crossing the Nature-Artifice Divide cit.; Maria Muhle, Eine Genealogie der Biopolitik: Zum Begriff des Lebens bei Foucault und Canguilhem, transcript, Bielefeld 2008, pp. 140-145. La genealogia del milieu si potrebbe estendere ulteriormente, dato che nella seconda metà del XIX secolo il termine è migrato dalla biologia alla sociologia per mezzo dei lavori di Comte e Durkheim: cfr. Tobias Cheung, Organismen. Agenten zwischen Innen- und Außenwelten 1780-1860, transcript, Bielefeld 2014, 249-277; Christina Wessely, Florian Huber, Milieu. Zirkulationen und Transformationen eines Begriffs, in Christina Wessley, Florian Huber (hrsg.), Milieu: Umgebungen des Lebendigen in der Moderne, Wilhelm Fink, Paderborn 2017, pp. 7-17. Più recentemente, la nozione è stata usata per andare oltre le determinanti economiche (e centrate sulla classe) della disuguaglianza e della differenza sociale, al fine di prendere in considerazione gli ambienti culturali caratterizzati da interessi e stili di vita simili (si veda, ad esempio, Pierre Bourdieu, La distinction: critique sociale du jugement, Les Édition de Minuit, Paris 1979; tr. it. di G. Viale, La distinzione: critica sociale del gusto, Il mulino, Bologna 2001). 16 Sprenger, Epistemologien des Umgebens cit., pp. 78-82. 15
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milieu in fisica e biologia, concentrandosi piuttosto sulla «struttura pragmatica»17 a cui essa ha dato origine. Secondo Foucault, l’interesse per il controllo della circolazione emerso nel XVIII secolo si collega a una nuova configurazione del potere che si distingue tanto dalla sovranità quanto dalla disciplina. Foucault presenta la città dell’Europa occidentale come un esempio paradigmatico del modo in cui gli spostamenti, dal XVIII secolo in poi, vengono promossi e gestiti all’interno di questo regime governamentale. Egli sottolinea fin da subito che la questione della circolazione pone il problema di governare dei complessi di uomini e cose; essa comprende un insieme eterogeneo di artefatti materiali e forme discorsive, di infrastrutture artificiali e ambienti naturali, che prendono in considerazione «la minuziosa materialità dell’esistenza e della coesistenza umana, dello scambio e della circolazione»18. Per circolazione, Foucault intende gli «strumenti materiali»19 che rendono possibili alcune forme di mobilità: strade, fiumi, canali, ponti, piazze pubbliche, ecc. Tuttavia, il termine non si limita a queste infrastrutture materiali, ma comprende anche ciò che Foucault chiama «la circolazione stessa»: «l’insieme di regolamenti, obblighi, divieti o, al contrario, facilitazioni e stimoli che permetteranno agli uomini e alle cose di circolare»20. In breve, la circolazione è concepita sia in quanto materiale che semiotica; è una questione sia tecnica che sociale. La circolazione, inoltre, include sia la mobilità degli esseri umani che i movimenti delle merci e degli organismi non umani. Il milieu integra sistematicamente le condizioni geografiche, climatiche o idrografiche dell’esistenza umana e le coordinate della vita sociale21. Esso, quindi, articola il legame tra uno spazio dato naturalmente e uno spazio costruito artificialmente, senza distinguerli in maniera sistematica. Il milieu è «un insieme di elementi naturali – come fiumi, paludi, colline – e un insieme di elementi artificiali – come agglomerazioni di individui, di abitazioni, eccetera»22. 17
Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione cit., p. 30. Ivi, p. 245. 19 Ivi, p. 236. 20 Ibid. 21 Cfr. Michel Foucault, Il faut defendre la société, Seuil-Gallimard, Paris 1997; tr. it. a cura di M. Bertani, A. Fontana, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 209-210. 22 Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione cit., p. 30 [traduzione modificata, n.d.t.]. 18
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In questa prospettiva, il milieu è, più che un “ambiente”, uno “sfondo” o un “intorno” in cui gli individui e le popolazioni vivono ed evolvono; è uno spazio interattivo, una rete di relazioni che costituisce gli elementi di cui è composto ed è esso stesso il loro punto d’arrivo o risultato. Da un lato il milieu è oggetto di regolazioni e aggiustamenti, dall’altro esibisce anche delle capacità di autoregolazione che devono essere rispettate e incoraggiate. Esso definisce una «intersezione tra una molteplicità di individui che vivono, lavorano e coesistono gli uni con gli altri in un insieme di elementi materiali che agiscono su di loro e sui quali, a loro volta, essi agiscono»23. Qui Foucault riconosce abbastanza chiaramente che l’agency non è esclusivamente una proprietà degli esseri umani; piuttosto, le forze agenti hanno origine nelle relazioni tra esseri umani e non umani. Ad ogni modo, il milieu non solo definisce una costellazione spaziale, ma riconfigura anche le temporalità esistenti, in quanto rinvia «a eventi possibili, a ciò che è temporaneo e aleatorio, e che bisogna inscrivere in uno spazio dato. Lo spazio in cui si svolgono serie di eventi aleatori corrisponde, credo, a ciò che è definito milieu»24. In questo senso, il milieu è anche “nel mezzo” tra gli eventi passati e un futuro aperto. Non è tanto l’obiettivo o l’oggetto del governo, quanto piuttosto il suo “mezzo”25. Il milieu definisce un’organizzazione spazio-temporale di un insieme ibrido di fattori materiali (l’igiene, il commercio, il traffico, la sorveglianza, la prevenzione del crimine, ecc., nel caso della circolazione) mobilitati per controllare traiettorie future e raggiungere obiettivi specifici. Esso articola «il problema di come trattare l’aleatorio»26, portando alla luce fenomeni “naturali” che non possono essere completamente controllati ma che possiedono comunque delle tendenze autoregolatrici a cui le pratiche di governo possono attingere27. Il concetto di milieu, quindi, ha a che fare con le relazioni molteplici, complesse, ricorsive e dinamiche tra elementi ed entità in23
Ivi, p. 30. Ivi, p. 29 [traduzione modificata, n.d.t.]. 25 Frederich Balke, Maria Muhle, Einführung, in Frederich Balke, Maria Muhle (hrsg.), Räume und Medien des Regierens, Wilhelm Fink, Paderborn 2016, p. 18; cfr. Sprenger, Epistemologien des Umgebens cit. 26 Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione cit., p. 21. 27 Cfr. Ansems de Vries, Political Life beyond the Biopolitical? cit. 24
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terdipendenti di ogni tipo mobilitati nelle “circolazioni”28. La struttura relazionale del milieu, al cui interno le reti materiali della circolazione sono disposte in modi contingenti, esclude che vi siano legami fissi tra cause singole ed effetti isolati; gli elementi e i loro milieux emergono insieme da una «correlazione»29 o da una «instabile con-causalità»30. I processi di circolazione sono definiti da serialità che consentono l’elaborazione di conoscenze statistiche e il calcolo delle probabilità, i quali permettono di stabilire modelli ricorrenti e regolarità strutturali31. Il punto centrale, qui, è l’intima relazione tra il governo della circolazione e la produzione di un sapere che cerca di trasformare le incertezze in una valutazione di rischi e probabilità. Questa volontà di conoscenza, però, non si limita all’acquisizione di informazioni sulla specifica realtà materiale del milieu e su «tutti coloro che vi risiedono»32: essa plasma e trasforma attivamente il milieu per produrre certi risultati piuttosto che altri. Il milieu, perciò, non è un tempo-spazio dato e preesistente, ma la condizione materiale e lo strumento tecnico del governo: «Il milieu designa quella zona di interferenza tra gli eventi prodotti da individui, popolazioni e gruppi, e gli eventi quasi naturali che accadono attorno a essi»33. 3. Elementi di una biopolitica più-che-umana L’analisi del ruolo strategico del milieu all’interno della governamentalità liberale coincide con un importante cambiamento teorico nell’opera di Foucault. Nelle lezioni del 1978-1979 al Collège de France, egli definisce il liberalismo come «il quadro generale della
28 Cfr. Nathaniel O’Grady, Adopting the Position of Error: Space and Speculation in the Exploratory Significance of Milieu Formulations, «Environment and Planning D: Society and Space», 31/2, 2019, pp. 253-256. 29 Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione cit., p. 21. 30 Tiziana Terranova, Another Life: The Nature of Political Economy in Foucault’s Genealogy of Biopolitics, «Theory, Culture & Society», 26/6, 2009, p. 234; O’Grady, Adopting the Position of Error cit., p. 516. 31 Cfr. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione cit., p. 28. 32 Ivi, p. 30. 33 Ibid. [traduzione modificata, n.d.t.].
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biopolitica»34. Si tratta di un risultato dell’autocritica che l’autore rivolge alle sue precedenti analisi contenute in Sorvegliare e punire e nella Volontà di sapere, in cui erano affrontati esclusivamente i processi di regolazione della popolazione e di disciplinamento dei corpi individuali35. Concentrandosi sulla circolazione degli esseri umani e delle “cose”, l’analitica del governo richiede di rivedere il programma di ricerca iniziale. Foucault ora non solo richiama l’attenzione sulla produzione di corpi individuali e collettivi, ma propone anche un concetto più esteso di biopolitica che prende in considerazione le correlazioni tra esseri umani e non umani. Questa concezione più ampia della biopolitica prende corpo nel corso del 1978-1979 al Collège de France, quando Foucault discute le Recherches et considerations sur la population de la France di JeanBaptiste Moheau, descrivendo l’autore come «il primo grande teorico di ciò che potremmo chiamare la biopolitica»36. Con la sua opera, Moheau è stato uno dei primi ad affermare che la conoscenza dello stato della popolazione è essenziale per l’esercizio del governo. Esso si occupa di una varietà di fattori che determinano le caratteristiche di una popolazione – includendo elementi tanto “fisici” quanto “politici” e “morali”, senza distinguere nettamente gli uni dagli altri37. Foucault attribuisce nella sua analisi una forte centralità alla categoria di milieu, facendo sua l’intuizione di Moheau secondo cui è proprio del governo «governare l’esistenza fisica e morale dei loro soggetti»38. Moheau non menziona il termine nella sua opera, ma 34 Michel Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 19781979, Seuil-Gallimard, Paris 2004; tr. it. di M. Bertani, V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005, p. 33. 35 Per un’argomentazione più approfondita su questo cambiamento teorico, si veda Thomas Lemke, Beyond Foucault: From Biopolitics to the Government of Life, in Ulrich Bröckling, Susanne Krasmann, Thomas Lemke (eds.), Governmentality: Current Issues and Future Challenges, Routledge, New York 2011, pp. 165-184. 36 Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione cit., p. 30. Per le informazioni bibliografiche e il dibattito sulla contestata identità dell’autore, cfr. ivi, p. 297, nota 39; cfr. anche Joshua Cole, The Power of Large Numbers: Population, Politics, and Gender in Nineteenth-Century France, Cornell University Press, Ithaca 2000, pp. 31-40. Foucault cita Moheau già in La volonté de savoir. Histoire de la sexualité, tome 1, Gallimard, Paris 1976; tr. it. di P. Pasquino, G. Procacci, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 2013, p. 124. 37 Cole, The Power of Large Numbers cit., pp. 38-39. 38 Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione cit., p. 31. La citazione è tratta da Moheau (corsivo mio) [traduzione modificata, n.d.t.].
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propone «una tecnica politica che si rivolgerebbe all’ambiente»39. Infatti, secondo Moheau, anche le condizioni climatiche e geografiche sono soggette a calcoli e interventi governativi, dato che l’obiettivo di quest’ultimi è di alterare «il corso delle cose»40. La razionalità di governo presa in esame da Moheau non si limita all’ambito delle società umane né si rivolge unicamente agli esseri umani. Piuttosto, essa articola un’ampia comprensione delle “cose” e della loro “circolazione” che esamina le relazioni tra il naturale e l’artificiale, tra l’umano e il non umano. Nell’immaginario politico di Moheau, il sovrano ha a che fare non tanto con la natura (umana), quanto con «l’interferenza, l’implicazione perpetua tra un ambiente geografico, climatico, fisico ecc. e la specie umana, dotata di un corpo e di un’anima, di un’esistenza fisica e morale»41. La riformulazione del concetto di biopolitica all’interno di un’analitica più che umana del governo implica due importanti evoluzioni teoriche. In primo luogo, assistiamo al superamento di una concezione della biopolitica circoscritta all’esistenza fisica e biologica. L’idea più complessa di biopolitica che abbiamo rintracciato concepisce il milieu come il «punto di articolazione»42 tra il “naturale” e l’“artificiale”, tra il fisico e il morale: essa va oltre la disciplina e la regolamentazione dei corpi individuali e collettivi per includere processi di soggettivazione e problematizzazioni morali. In questa prospettiva, la natura umana non è concepita come un universale antropologico immutabile, ma è diversamente articolata all’interno di pratiche concepite come processi più-che-umani. C’è una seconda differenza tra il concetto di biopolitica che Foucault aveva privilegiato nelle pubblicazioni precedenti e quello che abbozza nei corsi sulla governamentalità: quest’ultimo – oltre a insistere sull’intreccio tra questioni fisiche e morali, biologiche e non biologiche – sottolinea che il biologico può solo esprimersi in un certo ambiente. Nella prospettiva di Foucault, né la natura né la vita sono un’entità o 39
Ivi, p. 31 [traduzione modificata, n.d.t.]. Ibid. Alla luce dell’attuale crisi climatica, si veda il più lungo passaggio dell’opera di Moheau citato da Foucault: «Dipende dal governo se cambia la temperatura dell’aria e il clima migliora; le acque stagnanti che defluiscono, le foreste piantate o bruciate, le montagne distrutte dal tempo o dalla cultura intensiva formano un suolo e un clima nuovi» (ibid.). 41 Ibid. [traduzione modificata, n.d.t.]. 42 Ibid. 40
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una proprietà evidente o stabile; piuttosto, egli si riferisce a «un complesso di individui profondamente, essenzialmente, biologicamente legati alla materialità in cui esistono»43. Di conseguenza, la vita non è già data a priori, ma dipende dalle condizioni materiali di esistenza determinate all’interno e al di là dei processi biologici44. Questa concezione del milieu non solo sconvolge le idee convenzionali di esteriorità ed esternalità ma spinge inoltre gli esseri umani a riconoscere l’alterità nella loro stessa umanità, andando così al di là del tradizionale concetto di embodiment. In altre parole, le azioni non umane sono la precondizione per l’esistenza e l’emergenza degli esseri umani45. La concezione estesa di biopolitica di Foucault prende in considerazione i molteplici intrecci tra umani e non umani. Tuttavia, dopo la sua morte la nozione di biopolitica è stata prevalentemente usata in un senso molto più limitato, rivolgendosi esclusivamente ai «fenomeni propri alla vita della specie umana»46. Com’è noto, Paul Rabinow e Nikolas Rose hanno sostenuto che la nozione di biopotere non è applicabile in contesti non umani, poiché si riferisce a «tentativi più o meno raziona43
Ivi, p. 30. Questo punto è ben illustrato dallo studio empirico di Valerie A. Olson sulla biomedicina spaziale. Combinando la definizione di milieu di Canguilhem con la concezione della biopolitica di Foucault, Olson propone il concetto di «ecobiopolitica» per cogliere la relazione tra caratteristiche biologiche e condizioni ambientali (in un veicolo spaziale o su un pianeta, ad esempio). Analizzando la co-costituzione di esseri umani e ambienti, Olson sostiene che «gli astronauti sono gestiti a un livello fondamentalmente ambientale piuttosto che biologico, e le loro risposte biologicamente patologiche sono rese “normali” in modi che normalizzano politicamente e socialmente anche gli ambienti spaziali esterni. Gli esseri umani sono dunque visti come “sistemi a rischio” calcolabili che, in termini equivalenti, possono essere resi prevedibili e gestibili con i sistemi tecnologici e ambientali in cui sono situati» (The Ecobiopolitics of Space Biomedicine, «Medical Anthropology», 29/2, 2010, pp. 170-193). 45 Il filosofo della biologia John Dupré propone una ridefinizione degli organismi come «insiemi cooperanti». In questa prospettiva, la vita umana esiste solo come effetto di sistemi simbiotici che collegano vita umana e non umana: «Un organismo umano funzionante è un sistema simbiotico che contiene una moltitudine di cellule microbiche (batteri, archei e funghi) senza i quali l’insieme sarebbe seriamente disfunzionale e, in ultima analisi, non vitale. Queste cellule risiedono per la maggior parte nell’intestino, ma si trovano anche sulla pelle e in tutte le cavità del corpo. Infatti, circa il 90% delle cellule che compongono il corpo umano appartiene a questi simbionti microbici e, a causa della loro grande diversità, contribuisce a qualcosa come il 99% dei geni nel corpo umano» (John Dupré, Processes of Life: Essays in the Philosophy of Biology, Oxford University Press, Oxford 2012, p. 125). Si veda anche Lynn Margulis, Symbiotic Planet: A New Look at Evolution, Basic Books, New York 1998; Haraway, When Species Meet cit., pp. 3-4. 46 Foucault, La volontà di sapere cit., p. 125. 44
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lizzati di intervenire sulle caratteristiche vitali dell’esistenza umana»47. Secondo questa interpretazione, le operazioni del biopotere si basano su modalità di soggettivazione e forme di “biosocialità” che riguardano solamente gli esseri umani – il che significa che gli animali e altri enti non umani non possono essere suoi soggetti. Negli ultimi vent’anni, tuttavia, un numero crescente di studiosi ha cercato di estendere la cornice interpretativa del concetto di biopolitica. In When Species Meet, Haraway mette in luce le molteplici interrelazioni tra le pratiche riproduttive umane e quelle animali, mostrando come il commercio internazionale di bestiame e la gestione delle pratiche di allevamento abbiano anche plasmato le storie dell’eugenetica e della genetica48. Con il suo concetto di “specie compagne” [companion species], Haraway evidenzia l’instabilità dei confini tra le specie, sostenendo che la vita umana e quella non umana sono tra loro costitutive e intimamente intrecciate. Indicando i limiti e i punti deboli delle teorie sui diritti degli animali, Before the Law: Humans and Other Animals in a Biopolitical Framework di Cary Wolfe offre un ulteriore modo di interrogare l’eccezionalismo umano tramite il riferimento alla nozione di biopolitica di Foucault49. In un dialogo critico con i lavori di Agamben ed Esposito, Wolfe indica gli effetti repressivi e mortali di questo potere sulla vita che assume “l’animale” come oggetto primario. Oltre ad Haraway e Wolfe, altri studiosi hanno impiegato la nozione foucaultiana di biopolitica per esaminare criticamente le pratiche di allevamento50, le politiche di conservazione della biodiversità e delle specie51, 47
Paul Rabinow, Nikolas Rose, Biopower Today, «Biosocieties», 1, 2006, pp. pp. 196-197. Cfr. Anche Nikolas Rose, The Politics of Life Itself, «Theory, Culture & Society», 18/6, 2001, pp. 1-30; Nikolas Rose, The Politics of Life Itself: Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First Century, Princeton University Press, Princeton 2007; tr. it. di M. Marchetti, G. Pipitone, La politica della vita. Biomedicina, potere e soggettività nel XXI secolo, Einaudi, Torino 2008. 48 Haraway, When Species Meet cit., p. 53. 49 Cary Wolfe, Before the Law: Humans and Other Animals in a Biopolitical Frame, University of Chicago Press, Chicago-London 2013; tr. it. e cura di C. Iuli, Davanti alla legge. Umani e altri animali nella biopolitica, Mimesis, Milano-Udine 2018. 50 Lewis Holloway, Carol Morris, Contesting Genetic Knowledge-Practices in Livestock Breeding: Biopower, Biosocial Collectivities, and Heterogeneous Resistances, «Environment and Planning D: Society and Space», 30, 2012, pp. 60-77. 51 Cfr. Rafi Youatt, Counting Species: Biopower and the Global Biodiversity Census, «Environmental Values», 17/3, 2008, pp. 393-417; Matthew Chrulew, Managing Love
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la gestione dell’agricoltura e dell’ambiente52 e il ruolo delle banche dati nel governo della vita non umana53. Sebbene queste linee di ricerca abbiano fornito ampie prove empiriche di quanto possa essere produttivo utilizzare l’apparato concettuale foucaultiano per studiare varie forme di governo della vita animale e vegetale, la nostra prospettiva è divergente sotto un aspetto importante: per quanto anche noi suggeriamo una interpretazione più complessa e comprensiva dei processi biopolitici, il nostro principale interesse non è quello di estendere le analisi di Foucault ad aree di ricerca non esplorate nei suoi lavori. Piuttosto, l’obiettivo è di identificare i modi in cui i concetti già presenti nei suoi scritti possono offrire intuizioni nuove o (finora) inesplorate sul funzionamento delle pratiche governamentali54. Nel prossimo paragrafo, quindi, introdurremo il concetto di «ambientalità» proposto da Foucault al fine di descrivere il funzionamento delle pratiche biopolitiche contemporanee basate su una diversa concezione del milieu.
and Death at the Zoo: The Biopolitics of Endangered Species Preservation, «Australian Humanities Review», 50, 2011, pp. 137-157; Krithika Srinivasan, Caring for the Collective: Biopower and Agential Subjectification in Wildlife Conservation, «Environment and Planning D: Society and Space», 32/3, 2014, pp. 501-517; Irus Braverman, Anticipating Endangerment: The Biopolitics of Threatened Species Lists, «BioSocieties», 12/1, 2017, pp. 132-157. 52 Cfr. Jamie Lorimer, Clemens Driessen, Bovine Biopolitics and the Promise of Monsters in the Rewilding of Heck Cattle, «Geoforum», 48, 2013, pp. 249-259; Jamie Lorimer, Clemens Driessen, From “Nazi Cows” to Cosmopolitan “Ecological Engineers”: Specifying Rewilding Through a History of Heck Cattle, «Annals of the American Association of Geographers», 106/3, 2016, pp. 631-652. 53 Cfr. Irus Braverman, Governing the Wild: Databases, Algorithms, and Population Models as Biopolitics, «Surveillance & Society», 12/1, 2014, pp. 15-37. 54 Questa lettura si avvicina al recente lavoro di Jeffrey T. Nealon sull’opera di Foucault. Mentre altri studiosi si sono concentrati su ciò che hanno ritenuto mancante o insufficientemente trattato nel quadro foucaultiano della biopolitica – nel tentativo di estenderlo –, Nealon mette in luce ciò che è già presente ma spesso trascurato nella ricezione dell’opera di Foucault. Si veda Jeffrey T. Nealon, Plant Theory: Biopower and Vegetable Life, Stanford University Press, Stanford 2015; Jeffrey T. Nealon, The Archeology of Biopower: From Plant to Animal Life in The Order of Things, in Vernon W. Cisney, Nicolae Morar (eds.), Biopower: Foucault and Beyond, Chicago University Press, Chicago-London 2017, pp. 138-157.
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4. «Ambientalità»: mappatura delle topografie politiche contemporanee Nel suo corso al Collège de France del 1978-1979, Foucault introduce la nozione di «ambientalità»55 per definire una modalità operativa caratteristica delle tecnologie neoliberali di governo che cominciano a prendere forma in quel periodo56. Secondo Foucault, il termine denota una «governamentalità che agisce sul milieu e modifica sistematicamente le variabili del milieu»57, che tenta di governare l’“ambiente” in cui delle entità umane e non umane entrano in relazione, piuttosto che agire direttamente su “soggetti” e “oggetti”58. Il termine «ambientalità» appare per la prima volta quando Foucault discute la gestione neoliberale della criminalità59 – durante la lezione del 21 marzo 1979 al Collège de France, dedicata alla Scuola di Chicago e alla sua proposta di estendere la forma economica del mercato a ogni ambito della società. In questo programma neoliberale, Foucault identifica gli elementi di una nuova razionalità governamentale non tanto preoccupata di colpire il comportamento individuale o dei gruppi devianti, quanto di alterare i contesti e le condizioni materiali al fine di attuare delle strategie di regolamentazione. 55
Il termine proposto da Graham Burchell, il traduttore inglese della Nascita della biopolitica, è “ambientalismo” [environmentalism]. Jennifer Gabrys nota giustamente che la nozione originale francese “environnementalité” [tradotto dall’autore con environmentality, n.d.t.] si collega più facilmente al tema della governamentalità e non comporta il rischio di confusione con i movimenti sociali o le organizzazioni politiche che si occupano di questioni ambientali: cfr. Jennifer Gabrys, Programming Environments: Environmentality and Citizen Sensing in the Smart City, «Environment and Planning D: Society and Space», 32/1, 2014, p. 35, nota 2; cfr. anche Jamie Lorimer, Probiotic Environmentalities: Rewilding with Wolves and Worms, «Theory, Culture & Society», 34/4, 2017, p. 16. 56 Foucault, Nascita della biopolitica cit., p. 216. 57 Ivi, p. 220 [traduzione modificata, n.d.t.]. 58 Cfr. Ben Anderson, Population and Affective Perception: Biopolitics and Anticipatory Action in US Counterinsurgency Doctrine, «Antipode», 43/2, 2010, pp. 205-236; Ben Anderson, Affect and Biopower: Towards a Politics of Life, «Transactions of the Institute of British Geographers», 37/1, 2011, pp. 28-43. 59 Come nota Hörl, il termine «ambientalità» [environmentality] compariva già nelle traduzioni inglesi di Essere e tempo di Heidegger, in riferimento alla sua nozione di Umweltlichkeit. Tuttavia, l’uso del termine da parte di Foucault differisce in maniera sostanziale dall’analisi della mondanità di Heidegger. Cfr. Erich Hörl, The Environmentalitarian Situation: Reflections on the Becoming-Environmental of Thinking, Power, and Capital, «Cultural Politics», 14/2, 2018, p. 158.
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Secondo Foucault, questa «tecnologia ambientale»60 non persegue più il progetto di una società disciplinare pervasiva. Al contrario, essa disloca le tecnologie «normalizzanti» o «uniformizzanti»61 per promuovere «l’ottimizzazione dei sistemi di differenza»62 operando sul milieu degli individui e delle popolazioni: «L’azione [viene esercitata] non sui giocatori coinvolti nel gioco ma sulle regole del gioco […] dovrebbe essere effettuato un intervento non nella forma dell’assoggettamento interno degli individui, ma nella forma di un intervento di tipo ambientale»63. Foucault promette di discutere più dettagliatamente questo regime ambientale nelle lezioni successive. Tuttavia, egli non tornerà mai sulla nozione di «ambientalità». Una versione abbreviata delle sei pagine di appunti preparatori per i suoi corsi, nelle quali delinea la sua concezione di «ambientalità», è inclusa come nota a piè di pagina in Nascita della biopolitica64. Sebbene il termine manchi certamente di chiarezza e profondità concettuale, rimane comunque «una provocazione per il pensiero»65, in quanto fornisce una categoria astratta attraverso cui indagare come le attuali tecnologie neoliberali mettano in pratica modi di governo dell’ambiente che sono aperti «agli eventi aleatori e ai fenomeni trasversali»66. Di fatto, la nozione di «ambientalità» propone una peculiare concezione ecologica dell’ambiente sia come tecnologico che come naturale: «il problema del milieu stesso, ma non in quanto ambiente naturale»67. Lo spostamento verso una modalità di governo di tipo ambientale è legato all’emergenza della scienza della complessità e alla proliferazione dell’ecologia a partire dagli anni Settanta. In questo contesto, il concetto di resilienza gioca un ruolo cruciale. Originariamente 60
Foucault, Nascita della biopolitica cit., p. 216. Ibid. 62 Ivi, p. 214. 63 Ivi, pp. 214-215; cfr. Gabrys, Programming Environments cit., pp. 34-35; Erich Hörl, Introduction to General Ecology: The Ecologization of Thinking, in Erich Hörl, James Burton (eds.), General Ecology: The New Ecological Paradigm, Bloomsbury Academic, London-New York 2017, pp. 1-73; Sprenger, Epistemologien des Umgebens cit., pp. 82-84. 64 Ivi, pp. 215-216. 65 Gabrys, Programming Environments cit., p. 35. 66 Foucault, Nascita della biopolitica cit., p. 216. 67 Foucault, Bisogna difendere la società cit., p. 211 [traduzione modificata, n.d.t.]. 61
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adottato negli anni Settanta dall’ecologo Crawford S. Holling68, esso è diventato negli ultimi decenni «il paradigma dominante per l’amministrazione della vita»69, divenendo centrale in discipline scientifiche e dibattiti politici eterogenei, come lo sviluppo internazionale, la salute pubblica, la regolamentazione finanziaria, l’analisi del rischio aziendale, la psicologia del trauma, la pianificazione urbana e la politica ambientale. Il discorso della resilienza permette di reindirizzare procedure operative e accordi strategici molto diversi verso un orizzonte e una cornice di senso comuni, riconducendoli a una logica e a una logistica della crisi. Esso fornisce perciò una chiave concettuale fondamentale per ripensare le pratiche di governo, i processi organizzativi e le configurazioni istituzionali al fine di affrontare eventi di emergenza e sviluppare metodi di gestione delle crisi. Nel problematizzare la nozione convenzionale di stabilità e l’ideale normativo di omeostasi, il concetto di resilienza cerca di cogliere come i sistemi siano in grado di mantenere l’integrità strutturale e la coesione anche quando sottoposti a stress estremi o a situazioni di shock. Se la stabilità si riferisce all’idea ormai familiare di un ritorno all’equilibrio, la resilienza ecologica designa «la capacità di un sistema di mantenere la sua struttura e i suoi modelli di comportamento di fronte alle perturbazioni»70. Holling propugna un particolare stile di governo derivato da questa concezione della resilienza – uno stile che, sottolineando l’opportunismo e la preparazione invece della prevenzione e della previsione, rompe con l’idea di pianificazione basata sulla conoscenza che ha caratterizzato le strategie politiche ed economiche del dopoguerra: Un approccio gestionale basato sulla resilienza […] enfatizzerebbe il bisogno di mantenere le opzioni aperte […] e la necessità di enfatizzare l’eterogeneità. Da ciò deriverebbe non la presunzione di una conoscenza sufficiente,
68 Si veda, ad esempio, Crawford S. Holling, Resilience and Stability of Ecological Systems, «Annual Review of Ecology and Systematics», 4/1, 1973, pp. 1-23. 69 Sara Holiday Nelson, Resilience and the Neoliberal Counter-Revolution: From Ecologies of Control to Production of the Common, «Resilience», 2/1, 2014, p. 2. 70 Crawford S. Holling, The Resilience of Terrestrial Ecosystems, in Lance Gunderson, Craig Allen, Crawford S. Holling (eds.), Foundations of Ecological Resilience, Island Press, Washington DC 2010, p. 76; cfr. Holling, Resilience and Stability of Ecological Systems cit., p. 17. Holling definisce la resilienza come «una misura della persistenza dei sistemi e della loro capacità di assorbire il caso e le perturbazioni e di mantenere le stesse relazioni tra popolazioni o variabili di stato» (ivi, p. 14).
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ma il riconoscimento della nostra ignoranza: non il presupposto che gli eventi futuri siano previsti, ma che saranno inaspettati. Il quadro della resilienza può accogliere questo cambiamento di prospettiva, in quanto non richiede una capacità precisa di predire il futuro, ma solo una capacità qualitativa di concepire sistemi che possano assorbire e accogliere gli eventi futuri sotto qualsiasi forma inaspettata essi possano presentarsi71.
Spostando il problema dalla (ri)costituzione della stabilità alla questione di come sostenere e promuovere capacità di adattamento in ecologie incerte, il concetto di resilienza è arrivato a riorientare anche le strategie politiche. Esso fornisce «un idioma pervasivo della governance globale»72, ridefinendo il problema della sicurezza come una questione di adattamento flessibile in condizioni di incertezza irriducibile e di minaccia inevitabile. Dinanzi a un ambiente caratterizzato da eventi dirompenti e rischi incalcolabili, la sfida consiste nel progettare sistemi in grado di adattarsi (o di beneficiare dei) futuri shock, che sono, in linea di principio, inevitabili e imprevedibili. Se la resilienza è diventata il criterio normativo per misurare la capacità degli individui e delle organizzazioni di adattarsi a esperienze traumatiche e ad ecologie turbolente, ciò è avvenuto perché essa possiede due importanti punti di forza. In primo luogo, la resilienza segnala i problemi e i fallimenti delle pratiche di gestione convenzionali e delle politiche tradizionali del dopoguerra nell’affrontare il cambiamento socioeconomico attenendosi a un modello apparentemente obsoleto di omeostasi e distinguendo gli ecosistemi dai sistemi sociali. In secondo luogo, la resilienza di Holling propone anche nuovi modi di sfruttare i processi non lineari come vere fonti di innovazione e dinamismo73. Sebbene la teoria dei sistemi complessi e la cibernetica di secondo ordine siano iniziate come una critica (incentrata sui concetti di omeostasi e stabilità) all’economia keynesiana e alla politica della Guerra Fredda, esse sono diventate ben presto elementi integrali di un nuovo regime capitalista. L’avvento della teoria della resilienza ha segnato un netto contrasto con la costellazione del dopoguerra, nella quale giocavano un ruolo centrale la termodi71
Holling, The Resilience of Terrestrial Ecosystems cit., p. 21. Jeremy Walker, Melinda Cooper, Genealogies of Resilience: From Systems Ecology to the Political Economy of Crisis Adaptation, «Security Dialogue», 42/2, 2011, p. 144. 73 Sara Holiday Nelson, Beyond The Limits to Growth: Ecology and the Neoliberal Counterrevolution, «Antipode», 47/2, 2015, pp. 461-480. 72
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namica classica e il concetto meccanicistico di equilibrio. Dopo la Seconda guerra mondiale, essi hanno fornito il modello di un’organizzazione economica ed ecologica guidata dall’idea regolatrice di una traiettoria prevedibile e misurabile che, dopo qualsiasi perturbazione, si risolve nel ritorno allo status quo pro ante. Il lavoro di Holling ha permesso di destabilizzare e infine rovesciare questa familiare narrazione. Esso rappresenta l’inizio di una grande trasformazione, in cui «la figura dell’ambiente si sposta: dall’armonia di un equilibrio naturale a un calderone ribollente di crisi in perpetuo divenire»74. Le forme contemporanee di governo ridefiniscono e ridisegnano le tecnologie della sicurezza alla luce di un rischio onnipervasivo e di un pericolo sempre presente. Poiché la sicurezza è concepita sia come normativamente problematica (dato che tende a limitare l’innovazione e il cambiamento) sia come praticamente irraggiungibile (alla luce delle molteplici sfide ed esperienze di crisi, dalla crisi economica al cambiamento climatico), questo nuovo dispositivo governa umani e non umani senza la promessa di un futuro al di là di tutte le crisi75. Per questo Braun afferma che, «sotto aspetti importanti, resilienza è il nome della nostra forma contemporanea di biopolitica. Vista attraverso la più ampia delle lenti, potremmo postulare che la resilienza è una modalità di governo propria del neoliberismo, in cui il governo non cerca di punire, né di prevenire o disciplinare, ma piuttosto di modulare i “processi naturali” creando un milieu»76. 5. Conclusione Questo articolo ha proposto una concezione della biopolitica che non si rivolge più esclusivamente a individui e popolazioni umane, ma che prende in considerazione le complesse associazio74
Brian Massumi, National Enterprise Emergency: Steps Toward an Ecology of Powers, «Theory, Culture & Society», 26/6, 2009, p. 154; cfr. Walker e Cooper, Genealogies of Resilience cit. 75 Stephanie Wakefield, Bruce Braun, Governing the Resilient City, «Environment and Planning D: Society and Space», 32/1, 2014, pp. 4-5. 76 Bruce Braun, A New Urban Dispositif? Governing Life in the Age of Climate Change, «Environment and Planning D: Society and Space», 32, 2014, p. 61.
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ni di esseri umani e non umani. La nozione di milieu è essenziale per questa concezione più-che-umana di biopolitica. Insieme al concetto di «ambientalità», essa coglie una nuova costellazione di potere, identificando il ruolo centrale delle tecnologie della resilienza. Queste ultime, tuttavia, non corrispondono più alle iniziali descrizioni foucaultiane della biopolitica, come nota giustamente Sara Nelson77. Nell’analisi classica di Foucault, infatti, i due elementi centrali degli interventi biopolitici (la disciplina del corpo individuale e la regolazione del corpo collettivo della popolazione) sono caratterizzati da un legame stabile. La biopolitica li collega e li mantiene separati come due ambiti distinti, rendendo possibile la creazione di norme all’interno delle scienze umane e di nuove conoscenze statistiche e demografiche. In questo senso, essa si configura come una convergenza di meccanismi disciplinari incentrati sull’individuo con «meccanismi di regolazione» che intervengono al livello della popolazione per «determinare un equilibrio, conservare una media, stabilire una sorta di omeostasi, assicurare delle compensazioni all’interno di una popolazione globale, con i fenomeni aleatori che l’accompagnano»78. Di contro, i meccanismi di resilienza sfruttano e favoriscono le differenze e le devianze. Essi «cercano di capitalizzare l’alterità piuttosto che mitigarla»79. Le tecnologie della resilienza non pretendono più di prevedere o prevenire, ma cercano di adattarsi e accogliere futuri eventi dirompenti: invece di basarsi su tassi di occorrenza quantificabili, medie statistiche o curve di distribuzione normali, esse fanno riferimento a proprietà qualitative, a modelli strutturali e a reti di relazioni complesse che definiscono un sistema. Questa modalità di governo dell’ambiente cerca di controllare tutte le infrastrutture naturali e artificiali della vita, rivolgendosi non solo alla vita biologica ma anche alle condizioni tecniche e materiali necessarie a sostenere e promuovere certi «modi di vita»80 o «forme di vita»81. 77
Nelson, Resilience and the Neoliberal Counter-Revolution cit., p. 8. Foucault, Bisogna difendere la società cit., p. 212 [traduzione modificata, n.d.t.]. 79 Nelson, Resilience and the Neoliberal Counter-Revolution cit., p. 8. 80 Michel Foucault, De l’amitié comme mode de vie, in Dits et écrits, vol. IV, Gallimard, Paris 1994, p. 165. 81 Michel Foucault, Michel Foucault, an Interview: Sex, Power and the Politics of Identity, «The Advocate», 400, 1984, pp. 26-30; tr. it. di S. Loriga, Michel Foucault, un’intervista: il sesso, il potere e la politica dell’identità, in Michel Foucault, Archivio Foucault 3, a cura di A. 78
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Come ha notato Erich Hörl, l’«ambientalità» è definita dalla simultanea proliferazione e denaturalizzazione dell’ecologico82. Se da un lato oggi non c’è quasi nessun campo o oggetto che non possa essere inquadrato in termini ecologici, dall’altro il concetto è sempre più svincolato da qualsiasi riferimento alla natura. Tuttavia, la diagnosi delle modalità contemporanee di governo dell’ambiente non segnala una forma di dominio onnipervasivo e totalizzante. L’attuale dispositivo dell’ambientalità promuove ulteriormente l’idea di un’adattabilità e controllabilità universali, facendo anche emergere una concezione dell’ecologia più articolata e al di là del potere neocibernetico, avvalorando un approccio integrale che problematizza la moderna opposizione di natura e cultura, umano e non umano. Sara Nelson ha notato un’ironica tensione nel discorso della resilienza e nella sua attenzione all’adattabilità: sebbene il suo emergere a partire dagli anni Settanta costituisca un elemento integrante nell’ascesa del neoliberismo, la teoria della resilienza potrebbe essere trasformata o (ri)appropriata quale strumento critico in grado di mettere in crisi le strategie neoliberali al fine di promuovere un “comune” socio-ecologico al di là del controllo capitalista. L’appropriazione critica del discorso della resilienza offre degli importanti «strumenti teorici per una politica ecologica anticapitalista, sia per comprendere le ecologie capitaliste che esso attualmente informa, sia per sviluppare una strategia di uscita»83. Pertanto, questo concetto denaturalizzato e tecnologizzato di ecologia proposto da Foucault potrebbe essere utile anche per immaginare una politica ontologica che si concentri sulle relazioni materiali e trasgredisca le attuali forme di controllo tecnocratico e capitalista. (Tr. it. dall'inglese di Raffaele Grandoni)
Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 296. Per argomenti simili, si veda Gabrys, Programming Environments cit.; Andreas Folkers, Politik des Lebens jenseits seiner selbst. Für eine ökologische Lebenssoziologie mit Deleuze und Guattari, «Soziale Welt», 68/4, 2017, pp. 356-384. 82 Hörl, Introduction to General Ecology cit. 83 Nelson, Resilience and the Neoliberal Counter-Revolution cit., p. 16.
Coronavirus e comunità di vita1 Vanessa Lemm
1. Ideologie contagiose: la speranza in un “Aufbruch” verso una nuova Rivoluzione In tutto il mondo, dall’emisfero sud a quello nord e trasversalmente rispetto ai confini politici e culturali, studiosi e scienziati di tutte le discipline hanno intonato lo stesso identico coro: «Possiamo imparare tantissimo dal virus!»; le crisi sono «tempi per la riflessione»2; «la pandemia è un’opportunità per migliorarci!»3. Teorici e intellettuali di un ampio spettro di discipline – storia, filosofia, psicanalisi, economia, scienze politiche e media studies – sono ottimisti e vedono molti aspetti positivi legati alla pandemia da coronavirus, a partire dal modo in cui l’umanità l’ha finora affrontata fino alle enormi opportunità che essa dischiude per essa e per il pianeta4. 1 Questo articolo è tratto da un testo intitolato Contagion and the community of life da me presentato al workshop internazionale “Aesthetic & Critique III: Thinking in Pandemic Times: Contagion as Metaphor”, 27-28 maggio 2021, presso l’Université de Fribourg. Ringrazio gli organizzatori Emmanuel Alloa e Christoph Haffter, nonché il pubblico, per le loro domande e per i loro suggerimenti. 2 Herfried Münkler, Marina Münkler, Der Einbruch des Unvorhersehbaren und wie wir uns zukünftig darauf vorbereiten sollten, in Bernd Kortmann, Günther G. Schulze (hrsg.), Jenseits von Corona: Unsere Welt nach der Pandemie – Perspektiven aus der Wissenschaft, transcript, Bielefeld 2020, p. 101. 3 Sergio Benvenuto, The virus and the unconscious: diary from the quarantine, in Fernando Castrillón, Thomas Marchevsky (eds.), Coronavirus, Psychoanalysis, and Philosophy: Conversations on Pandemics, Politics and Society, Routledge, London-New York 2021, p. 128. 4 Cfr. Fernando Castrillón, Thomas Marchevsky, Introduction: of pestilence, chaos and time, in Castrillón, Marchevsky (eds.), Coronavirus, Psychoanalysis, and Philosophy: Conversations on Pandemics, Politics and Society cit., dove i due autori descrivono la pandemia come una «catastrofe suprema» che rappresenta «una grande opportunità per cambiare il corso delle cose» (pp. 5-6). La loro speranza è che l’«enorme pausa dalla vita
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Per Jean-Luc Nancy, la «lente del virus ingrandisce i caratteri delle nostre contraddizioni e dei nostri limiti»5. Si tratta di una «eccellente sessione di catch-up»6. Alcuni psicanalisti parlano di «una rivalutazione virale di tutti i valori»7 e Julia Kristeva è «pronta» per una «rivalutazione della vita», «per una nuova arte di vivere che non sarà tragica, ma complessa ed esigente»8. Roberto Esposito ci ricorda che il virus ci assegna l’importante compito di «istituire la vita, ancora e di nuovo: vitam instituere!»9. «Siamo tutti sulla stessa barca»10, esclama Žižek. «Non perdiamo quest’opportunità unica per una rivoluzione! Le pandemie sono dei grandi laboratori di innovazione sociale»11. Le ondate di entusiasmo, spirito ottimistico (Aufbruchstimmung) e speranza in un futuro migliore sono significative nel contesto di una pandemia così devastante e letale come quella da coronavirus, specialmente se si considera il suo impatto disastroso sul benessere economico e sociale delle persone in tutto il mondo12. Le ondate indotta dalla pandemia» (a causa dei lockdown e di misure simili) (p. 5) possa «arrivare a forzare la scatola chiusa, fatale e piena di sensi di colpa, del tempo omogeneo e vuoto dello storicismo, regalandoci un momento messianico di interruzione, rottura e discontinuità à la Benjamin» (p. 5): «se c’è un qualcosa che possiamo chiamare Speranza, sorgerà dalle ceneri sregolate della nostra esperienza presente e non da un ritorno ordinato a ciò che avevamo» (p. 6). 5 Jean-Luc Nancy, A much too human virus, in Castrillón, Marchevsky (eds.), Coronavirus, Psychoanalysis, and Philosophy: Conversations on Pandemics, Politics and Society cit., p. 65. 6 Jean-Luc Nancy, Communovirus, in Castrillón, Marchevsky (eds.), Coronavirus, Psychoanalysis, and Philosophy: Conversations on Pandemics, Politics and Society cit., p. 90. 7 Dany Nobus, A viral revaluation of values?, in Castrillón, Marchevsky (eds.), Coronavirus, Psychoanalysis, and Philosophy: Conversations on Pandemics, Politics and Society cit., pp. 97-100. 8 Julia Kristeva, Humanity is rediscovering existential solitude, the meaning of limits and mortality, in Castrillón, Marchevsky (eds.), Coronavirus, Psychoanalysis, and Philosophy: Conversations on Pandemics, Politics and Society cit., p. 104. 9 Roberto Esposito, “Vitam instituere”, in Castrillón, Marchevsky (eds.), Coronavirus, Psychoanalysis, and Philosophy: Conversations on Pandemics, Politics and Society cit., p. 87. 10 Slavoj Žižek, Pandemic: Covid-19 Shakes the World, OR Books, New York-London 2020; tr. it. di V. Salvati, M.G. Cavallo, F. Ferrone, B. Tortorella, Virus. Catastrofe e solidarietà, Ponte alle Grazie, Milano 2020, pp. 24-25. 11 Paul B. Preciado, Aprendiendo del virus, in Pablo Amadeo (dir.), Sopa de Wuhan: Pensamiento contemporáneo en tiempos de pandemias, Aspo, Buenos Aires 2020, p. 175. 12 Esempi di “speranza ottimistica” includono Lisa Herzog, secondo la quale «nel “mondo dopo il coronavirus”, il compito che aspetta le nostre società è di trasformare le dipendenze che il coronavirus ha rivelato in strutture davvero solidali ed epistemologicamente giuste.
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contagiose di un sentimento di speranza che hanno attraversato il mondo durante la pandemia confermano, come ci ricordava Žižek, che «l’essere dello Spirito è un virus»13 e che le ideologie, siano esse kantiane o hegeliane, liberali o comuniste, secolari o religiose, sono contagiose e possono prendere fuoco14. Žižek fornisce probabilmente il resoconto più significativo di come un’idea hegeliana possa “conquistare il mondo”. Come ha notato un mio collega, mentre noi tutti stavamo ancora cercando di capire come indossare una mascherina, Žižek aveva già pubblicato un libro in cui auspicava il contagio da un «virus ideologico»: «un virus che ci faccia immaginare una società alternativa, una società che vada oltre lo Stato-nazione e si realizzi nella forma della solidarietà globale e della cooperazione»15. Il Coronavirus, a parere di Žižek, «ci costringerà anche a reinventare un comunismo basato sulla fiducia nella gente e nella scienza»16. In modo non dissimile da Žižek, anche Nancy spera nell’avvento del comunismo e ribattezza il “coronavirus” come “comunovirus”. Questo cambio di nome illustra bene il potenziale rivoluzionario che Nancy vede emergere dalla pandemia: invece di “corona”, che «evoca vecchie storie imperiali e monarchiche», Nancy preferisce “comune”, che è buono per «detronizzare la “corona”, se non decapitarla»17, invocando così il grande spirito della Rivoluzione Francese. Secondo Nancy, il comunovirus è una sorta di doppio agente del comunismo: da un lato, ha «permesso alla Cina di dimostrare l’effiLa speranza ottimistica è che alcuni schemi di pensiero ormai da tempo anacronistici, e in particolare l’iperindividualismo competitivo, possano finalmente essere messi da parte» (Wir Abhängigen, in Kortmann, Schulze (hrsg.), Jenseits von Corona: Unsere Welt nach der Pandemie cit., p. 114). Gert Scobel interpreta la pandemia come un «relevantes Geschichtszeichen (un rilevante segno della storia) à la Kant» (Die Corona-Krise als philosophisches Ereignis: Sieben Thesen, in Kortmann, Schulze (hrsg.), Jenseits von Corona: Unsere Welt nach der Pandemie cit., p. 167). Cfr. anche, per un’assunzione critica della speranza in un “dopo” pandemia, Vera King, Ewiger Aufbruch oder Einbruch einer Illusion, in Kortmann, Schulze (hrsg.), Jenseits von Corona: Unsere Welt nach der Pandemie cit., p. 124. 13 Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà cit., p. 43. 14 Sul contagio come «principio di “riproduzione culturale”», si veda anche Sybille Krämer, Brennspiegel, learn-Labor, Treibsatz?, in Kortmann, Schulze (hrsg.), Jenseits von Corona: Unsere Welt nach der Pandemie cit., pp. 31-42, in particolare le pp. 34-36. 15 Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà cit., p. 29. 16 Ivi, p. 30. 17 Nancy, Communovirus cit., p. 89.
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cacia degli aspetti collettivi e statali del suo sistema»18, e, dall’altro, ci riporta al significato originale di comunismo di Marx: «la possibilità per gli individui di diventare propriamente loro stessi» nella e attraverso la loro comunità con altri19. Nancy insiste che «il virus ci comunizza [communise us] effettivamente. Essenzialmente, ci mette su una base di equità, aggregandoci insieme sulla base della necessità di costruire una posizione comune». Secondo questo autore, «è un bene che il “comunovirus” ci spinga a porre questa questione [la questione della comunità]»20. In Germania, dove si trova quella che è probabilmente la più alta densità di kantiani del pianeta, non desta sorpresa che si stia annunciando una “nuova Aufklärung”, un nuovo Illuminismo. Questo nuovo Illuminismo avanza attraverso ciò che Markus Gabriel chiama un «imperativo virologico»: Alla luce del pericolo sanitario della situazione, un consenso generale nella forma di una gigantesca ondata di solidarietà è stato immediatamente evidente, nella forma di un obbligo incondizionato a fare tutto il possibile, a quasi ogni costo dal punto di vista economico, per proteggere le persone particolarmente a rischio da malattie gravi e anche per evitare che il nostro sistema sanitario venisse travolto. Chiamo questa preoccupazione morale “l’imperativo virologico”21.
L’imperativo virologico di Gabriel è una sorta di “bussola morale” che permetterà all’umanità di affrontare le grandi sfide del nostro tempo, dal cambiamento climatico alle disuguaglianze sociali. Questa è la frohe Botschaft, la «buona notizia»: «abbiamo compreso [erkannt] che siamo capaci di progresso morale [zu moralischem Forschritt fähig]»22. 18
Ibid. Ivi, p. 90. Secondo Nancy, ciò che è in gioco in questa rivoluzione è niente meno che la possibilità della nostra liberazione, ossia «la possibilità di una disarticolazione dei valori capitalistici e dunque la possibilità di un movimento dall’accumulazione di capitale alla trascendenza dell’individuo» (ibid.). 20 Ibid. 21 Markus Gabriel, Das Virus als soziale Entität, in Kortmann, Schulze (hrsg.), Jenseits von Corona: Unsere Welt nach der Pandemie cit., p. 139. Cfr. anche Sybille Krämer, secondo la quale «la pandemia ci ha illuminati» (Krämer, Brennspiegel, learn-Labor, Treibsatz? cit., p. 39). 22 Gabriel, Das Virus als soziale Entität cit., p. 139. 19
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2. Un’infezione pericolosa: il ritorno dell’Umanismo L’appello a ripensare la comunità, a una solidarietà e a una cooperazione globali, giunge assieme a un ritorno dell’umanismo. Non c’è dubbio che la pandemia da coronavirus abbia determinato un rinnovato interesse per ciò che significa essere umani e per la questione di cosa sia necessario per proteggere la nostra umanità. Agamben è stato probabilmente uno dei primi a chiedersi se una società che ha sostituito la politica con l’economia e che opera nel nome di «un’astratta e presumibilmente fittizia sicurezza sanitaria» a spese di «relazioni significative, volti, amicizia, amore» possa ancora legittimamente «definirsi umana»23. Ma cosa intendiamo con umano? Per Byung-Chul Han, la risposta è immediata: siamo esseri razionali. Contro Žižek, Byung-Chul sostiene che il virus non sconfiggerà il capitalismo e che abbiamo piuttosto bisogno di una vera «rivoluzione umana»: «siamo NOI, PERSONE dotate di RAGIONE, che dobbiamo ripensare radicalmente e limitare il capitalismo distruttivo, così come la nostra mobilità distruttiva e senza limiti, per salvare noi stessi, il clima e il nostro splendido pianeta»24. La posizione di Byung-Chul Han sulla natura umana si allinea con quella di molti dei suoi compatrioti tedeschi che vedono nella capacità di progresso morale la caratteristica distintiva dell’essere umano. Il fatto che noi umani siamo portatori di una “moralità più alta” ci permetterà di superare le sfide della pandemia. Per Gabriel, questa “moralità più alta” denota la nostra capacità di cambiare sistematicamente il nostro comportamento sulla base della consapevolezza che «dobbiamo assolutamente fare alcune cose e evitarne assolutamente altre»25. Secondo Nancy, al contrario, la risposta alla questione dell’umano non è semplice ma «complessa». Grazie alla pandemia, «stiamo scoprendo quanto gli esseri umani siano molto più complessi e difficili da definire rispetto a come li avevamo descritti»26. Al netto della 23 Giorgio Agamben, citato in Castrillón, Marchevsky (eds.), Coronavirus, Psychoanalysis, and Philosophy: Conversations on Pandemics, Politics and Society cit., p. 8. 24 Byung-Chul Han, La emergencia viral y el mundo de mañana, in Amadeo (dir.), Sopa de Wuhan: Pensamiento contemporáneo en tiempos de pandemias cit., pp. 110-111. 25 Gabriel, Das Virus als soziale Entität cit., p. 140. 26 Nancy, A much too human virus cit., p. 65. Per inciso, penso che Nancy stia qui attaccando Esposito e la sua nozione di biopolitica (che mancherebbe di complessità). Tornerò fra poco sulla nozione espositiana di biopolitica.
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complessità, la «sessione di catch-up» della pandemia mostra che non siamo animali solitari: «abbiamo bisogno di incontrarci, bere un bicchiere insieme e farci visita»27. In ultima istanza, e forse in mancanza di risposte migliori, Nancy torna a Platone: «noi umani siamo bipedi, implumi e dotati di linguaggio». «Troppo» finiti, e dunque né superumani né transumani. È in questa finitudine che dovremmo cercare la nostra infinitudine. Questo sembra essere il messaggio finale di Nancy. Esposito racchiude la risposta alla questione dell’umano nel motto vitam instituere: «in un momento in cui la vita umana appare minacciata e soverchiata dalla morte, il nostro sforzo comune può solo essere quello di “istituirla” ancora e di nuovo»28. Con “istituire la vita” Esposito intende l’atto di creare nuovi significati. La nostra prima nascita, biologica, è seguita da una “seconda” nascita, l’istituzione della vita politica attraverso il linguaggio. Per Esposito, questa seconda nascita fornisce «alla vita biologica un orizzonte storico». Esposito aggiunge subito che questo orizzonte non è in contrasto con il mondo della natura, piuttosto lo attraversa in tutta la sua estensione. Lo spazio del logos, e dunque del nomos, per quanto autonomo nella sua ricchezza di configurazioni, non si è mai separato da quello del bios. Al contrario, la loro relazione è diventata sempre più stretta, al punto che è impossibile parlare di politica rimuovendola dalla sfera in cui la vita è generata. La prima nascita annuncia la seconda in quanto quest’ultima ha le sue radici nella prima29.
Secondo Esposito, solo attraverso la seconda nascita l’essere umano diviene davvero umano, in quanto parte di un mondo comune30. Mentre in Bios lo studioso concepiva la vita umana come parte di un continuum di vita, egli è adesso adamantino nel sottolineare che l’essere umano non è «mera biologia». C’è stato uno spostamento nella concezione espositiana della vita, ristretta qui alla vita umana istituita? La zoe è stata esclusa dall’equazione? Ciò che dà forma alla vita umana non avviene più nella e attraverso la partecipazione della 27
Nancy, Communovirus cit., p. 89. Esposito, “Vitam instituere” cit., p. 87. 29 Ibid. 30 Per questo motivo egli sostiene che «la vita umana non può essere ridotta a semplice sopravvivenza – a “nuda vita”»: «essendo stata istituita fin dall’inizio, la nostra vita non coincide mai con la mera materialità biologica – anche quando è schiacciata su di essa» (ivi, p. 88). 28
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vita umana alla pluralità di forme di vita diverse, nella e attraverso la comunità di una vita planetaria o cosmica oltre la dicotomia natura/cultura? La zoe, ora «mera vita biologica», sembra essere stata strappata dalla sua capacità formatrice, dai suoi poteri normativi31. Per riassumere, il rinnovato interesse nell’umanismo determinato dalla pandemia è in realtà molto tradizionale. Esso approccia l’essere umano attraverso la figura del soggetto moderno, un agente razionale, sociale e morale capace di condurre la rivoluzione del futuro. Dotato di linguaggio e della capacità di stabilire istituzioni politiche sulla e oltre la natura, l’essere umano emerge dalla crisi come il vincitore della pandemia. Nel rovescio della medaglia di questa tendenza troviamo un’immagine della natura dipinta come un nemico, ad esempio attraverso la personificazione di un «virus maledetto» che minaccia di rompere la «rete delle relazioni comuni»32, «un attivo, combattivo ed efficace agente del libero mercato»33 che siamo chiamati a «sconfiggere», «eliminare»34, «eradicare» attraverso la tecnologia e la scienza. Siamo sotto attacco da parte delle «cieche forze [della natura] che minacciano di divorarci»35, e siamo dunque chiamati a farci avanti per difendere la nostra umanità. 3. Diagnosticare la malattia: il futuro di un’illusione Sono d’accordo con Žižek sul fatto che il linguaggio della “guerra” e della “conquista” non sia utile per descrivere la presente crisi sanitaria: «il virus non è un nemico che ordisca piani e strategie per distruggerci, è 31 Esposito insiste invece sul fatto che «ciò che dà [alla vita umana] questo carattere formale – qualcosa di altro rispetto alla mera biologia – è la sua appartenenza ad un contesto storico, costituito da relazioni sociali, politiche e simboliche. Ciò che ci istituisce fin dall’inizio, ciò che noi stessi continuamente istituiamo, è questa rete simbolica attraverso la quale tutto ciò che facciamo acquista senso e significatività per noi e per gli altri» (ibid.). Questo virus ci assegna, così Esposito, non solo la sfida di rimanere vivi, di proteggere innanzitutto la vita, ma anche e soprattutto di proteggere il secondo «tipo di vita», ossia «il carattere sociale della nostra relazione con gli altri» (ibid.). La socievolezza umana, la comune fabbrica umana, è il tassello centrale del nuovo umanismo di Esposito. Durante una pandemia, dobbiamo proteggere la nostra umanità a distanza: «uniti da una distanza comune» (ibid.). 32 Ibid. 33 Nancy, A much too human virus cit., p. 64. 34 Ibid. 35 Esposito, “Vitam instituere” cit., p. 88.
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solo uno stupido sistema auto-replicante»36. Tornerò sulla presunta stupidità del virus alla fine. Condivido anche il dubbio sollevato da Žižek sul fatto che «l’epidemia ci renderà più saggi»37. Non usciremo dalla pandemia «più razionali e in sintonia con la scienza», come alcuni colleghi in Germania hanno sostenuto38. Conosciamo fin troppo bene la dialettica dell’Illuminismo e sappiamo che sarebbe ingenuo credere che «alla fine, comunque, il corona sarà sconfitto dalla scienza (medica)»39. Piuttosto, il vero problema legato a questo ritorno dell’umanismo è che sembra rinfocolare la nostra incapacità di fare i conti con l’irrilevanza umana nell’universo40. Come Benvenuto illustra in modo convincente, «la verità è che queste ferite del narcisismo umano [originariamente] definite da Freud a loro volta ingrandiscono il narcisismo umano: più gli esseri umani si riconoscono come marginali e casuali, più l’idea del loro potere disperato emerge come una forma di compensazione»41. 36 Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà cit., p. 77. Per una prospettiva diversa su questo stesso punto, cfr. Soraya de Chadarevian, Roberta Raffaeta, Covid 19: Rethinking the nature of viruses, in Giovanni Boniolo, Lisa Onaga (eds.), Seeing Clearly Through Covid-19: Current and future questions for the history and philosophy of the life sciences, Springer, Berlin 2021, pp. 1-5. 37 Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà cit., p. 7. 38 Günther G. Schulze, Was bleibt?, in Kortmann, Schulze (hrsg.), Jenseits von Corona: Unsere Welt nach der Pandemie cit., p. 307. 39 Ibid. Si veda anche Karl-Heinz Leven, uno storico della medicina, secondo il quale «sostenere che la vaccinazione contro il Covid sia una soluzione al problema è per uno storico della medicina tanto realistico quanto sostenere l’esistenza del Sacro Graal» (Die Welt mit und nach Corona: medizinhistorische Perspektiven, in Kortmann, Schulze (a cura di), Jenseits von Corona: Unsere Welt nach der Pandemie cit., p. 96). 40 Cfr. su questo punto anche Žižek: «la cosa davvero difficile da accettare è il fatto che l’epidemia in corso sia il risultato di una contingenza naturale allo stato puro, che sia semplicemente avvenuta e non celi nessun significato riposto. Nel più ampio ordine delle cose, siamo una specie che non conta» (Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà cit., p. 17). E, poco prima, «la cosa da accettare, con cui riconciliarci, è che c’è un sostrato di vita, la vita non-morta, stupidamente ripetitiva, pre-sessuale dei virus, che da sempre sono qui e che staranno per sempre con noi come un’ombra oscura, insidiando la nostra sopravvivenza, manifestandosi all’improvviso quando meno ce lo aspetteremmo. E su un piano ancora più generale, le epidemie virali ci rammentano la contingenza ultima e l’insensatezza della vita: per quanto spettacolari possano essere gli edifici spirituali che noi, il genere umano, fondiamo, una stupida contingenza naturale può decretarne la fine… per non citare la lezione dell’ecologia, ossia che noi umani, senza nemmeno rendercene conto, possiamo contribuire a questa fine» (ivi, p. 11). 41 Sergio Benvenuto, Satanization of man: The pandemic and the wound of narcissism, in Castrillón, Marchevsky (eds.), Coronavirus, Psychoanalysis, and Philosophy: Conversations on Pandemics, Politics and Society cit., p. 96.
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Come sappiamo dalla genealogia della morale di Nietzsche, rispondere all’assenza di significato della vita è il business della religione, un’altra malattia che si diffonde tramite infezione. Fornendo agli esseri umani qualcosa in cui credere, qualcosa in cui sperare, ma anche qualcosa o qualcuno da incolpare per la loro sofferenza, la religione è riuscita a rendere la nostra vita sopportabile in una maniera non dissimile dalla speranza in una rivoluzione, nell’avvento del comunismo o nella nascita di un nuovo Illuminismo. Abbiamo a che fare con un nuovo attaccamento religioso all’umanismo? Leven sostiene che, nella modernità, la posizione della religione sia stata occupata da una sorta di sostituto della religione, una Ersatzreligion, secondo la quale l’umanità non resterà impunita nell’era dell’Antropocene. La “natura” o “il pianeta terra” prendono il posto di un’autorità più alta, che contrattacca punendo l’essere umano. In questa prospettiva, la pandemia è una punizione “divina” per i crimini commessi dall’umanità contro la “natura”42. Žižek riassume i fondamenti religiosi di questa posizione con «quello che avete fatto a me, ora io lo faccio a voi»43. Benvenuto ha probabilmente ragione nel sostenere che, in ultima analisi, la nostra reazione alla pandemia non sia così diversa da quella delle cosiddette società primitive, secondo le quali l’idea di morire di morte naturale è inconcepibile: «le teorie per le quali gli esseri umani sarebbero – in ogni caso – la causa primaria dei loro stessi mali segue la logica degli Jivaros, che rifiutano di accettare l’idea di una morte naturale senza intervento umano»44. Ma, secondo Benvenuto, «incolpare gli umani per ogni male è l’altro lato della divinizzazione dell’Uomo»45. La lezione che possiamo trarre dall’analisi psicanalitica di Benvenuto della nostra reazione alla pandemia è che «esseri umani divinizzati autoproducono la 42 Leven, Die Welt mit und nach Corona: medizinhistorische Perspektiven cit., p. 92. Si veda anche Benvenuto, Satanization of man: The pandemic and the wound of narcissism cit., p. 96, e, sul bisogno di additare dei colpevoli, Emmanuel Alloa, Coronavirus: A Contingency that Eliminates Contingency, «Critical Inquiry», S2/47, 2021, pp. S73-S76. 43 Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà cit., p. 45: «ecco qual è la lezione più scomoda che possiamo trarre dall’epidemia virale in corso: quando la natura ci attacca con i virus, in qualche modo ci rende la pariglia. E ci risponde con questo messaggio: quello che avete fatto a me, ora io lo faccio a voi». 44 Benvenuto, Satanization of man: The pandemic and the wound of narcissism cit., p. 93. 45 Ibid.
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propria demonizzazione»46. In altre parole, «Dio non è morto» o, come ha sottolineato Nietzsche, egli «rimane»47, ritorna e continua a ritornare come una malattia contagiosa, nella forma di credenze religiose, verità scientifiche o ideologie politiche con le quali dobbiamo continuare a combattere48. 4. La comunità della vita: un’unica natura, un’unica salute Ma quali sono le alternative possibili ai discorsi religiosi e ideologici sulla pandemia e sul futuro dell’umanità? A mio parere, se c’è qualcosa che possiamo ri-apprendere da una pandemia zoonotica, ossia una pandemia che emerge da un “salto di specie”, è che siamo parte integrante della natura49. George Monbiot, un attivista politico e ambientale, riflette sul fatto che questa pandemia «potrebbe essere il momento in cui iniziamo a vedere noi stessi, ancora una volta, come governati dalla biologia e dalla fisica, e dipendenti da un pianeta abitabile»50. La questione aperta è la seguente: in che senso dovremmo lasciare che la biologia e la fisica “ci governino”? Io interpreto questa asserzione nello spirito dell’Homo Natura nietzscheano – il testo base della natura umana – e del compito di 46
Ivi, p. 95. Friedrich Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft [1882]; tr. it. di F. Masini, La gaia scienza, Laterza, Roma-Bari 1977, aforisma 110. 48 Sono dunque in disaccordo con la tesi di Nancy, per cui il «virus conferma l’assenza del divino» o che noi non interpretiamo più le pandemie come «punizioni divine» (Nancy, A much too human virus cit., p. 65). Alla luce della critica della religione proposta da Benvenuto, possiamo notare come l’analisi dello stesso Nancy della malattia autoprodotta dell’Europa tradisca uno strano sottotesto superstizioso: «la morte che noi [Europa] abbiamo esportato con guerre, carestie e devastazioni, che pensavamo di aver confinato a pochi virus e al cancro, ora ci attende dietro l’angolo» (ibid.). Nancy sta forse suggerendo che il virus si sta vendicando dell’Europa per tutti i mali commessi dall’Europa contro l’umanità? 49 Eben Kirksey, The emergence of Covid-19: A multispecies story, «Anthropology Now», 12/1, 2020, pp. 11-16. 50 George Monbiot, Covid-19 is nature’s wake-up call to complacent civilisation, «theguardian.com», 25 marzo 2020, disponibile online (https://www.theguardian.com/commentisfree/2020/mar/25/covid-19-is-natures-wake-up-call-to-complacent-civilisation). Ringrazio Miguel Vatter per avermi riferito questa citazione. Si veda anche Miguel Vatter, One Health and One Home: On the Biopolitics of Covid-19, in Castrillón, Marchevsky (eds.), Coronavirus, Psychoanalysis, and Philosophy: Conversations on Pandemics, Politics and Society cit., pp. 79-82. 47
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ritradurre l’essere umano nella natura. Tale compito implica una de-deificazione della natura che conduce alla consapevolezza che la natura stessa non è che caos, «che [non] esistono leggi della natura. Non vi sono che necessità»51. Nietzsche parla della fisica come una risposta non religiosa all’assenza di significato della vita: «una fisica della vita superiore» come una nuova scienza dell’essere umano. Nietzsche non sta certamente rivendicando un approccio scientifico al naturalismo52. E tuttavia non dovremmo separare la politica – il governo umano di se stessi – dal fatto che ciò che ci definisce non è la fabbrica delle relazioni sociali tra umani, come suggeriscono i nuovi umanisti, ma la nostra inserzione [embeddedness] in un ambiente naturale. Siamo inseparabili e dipendenti da una innumerevole diversità di specie, inclusi i virus, i funghi, i minerali ecc. Siamo “mera biologia”, siamo “mera fisica”, siamo “multi-specie”53, ed è per questi motivi che, secondo Chadarevian e Raffaeta, «dobbiamo capire che il mondo sociale e quello biologico sono intrinsecamente connessi»54. Piuttosto che re-istituire la dicotomia natura/cultura come una barriera immunitaria che ci protegga dal virus, abbiamo bisogno di pensare la vita umana come parte di una comunità di vita. Gli antichi Cinici furono forse tra i primi a ripensare seriamente il posto dell’essere umano nel cosmo e che cosa significhi vivere in accordo con le leggi della natura, essere “governati” dalla natura. Diogene di Sinope, che come sappiamo coniò il termine cosmopolis, provò a mostrare attraverso il suo esempio di vita che ciò che costituiva la sua grande ricchezza e salute non era la sua partecipazione alla vita della polis, ma il suo essere cittadino del cosmo. Mentre la prima è fondata su una separazione tra natura e legge, physis e nomos, la cosmopolis di Diogene è una comunità di vita dove ogni singola cosa è legata a tutte le altre. Dal punto di vista della cosmologia cinica, è impossibile una forma di vita indipendente da tutte le altre. 51
Nietzsche, La gaia scienza cit., aforisma 109. È possibile leggere una forma più estesa di questa argomentazione in Vanessa Lemm, Homo Natura: Nietzsche, Philosophical Anthropology and Biopolitics, Edinburgh University Press, Edinburgh 2020. 53 Eben Kirksey, The Multispecies Salon, Duke University Press, Durham 2014. Eben Kirksey, Stefan Helmreich, The emergence of multispecies ethnography, «Cultural Anthropology», 25/4, 2010, pp. 545-576. 54 Chadarevian, Raffaeta, Covid 19: Rethinking the nature of viruses cit., p. 5. 52
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Oggi, questa concezione di una comunità di vita è forse approssimata al meglio dal modello One World One Health. Secondo questo modello, la salute umana è considerata inseparabile dalla salute del pianeta, e la salvaguardia della salute ambientale e dell’integrità dei sistemi ecologici costituisce il metodo migliore per prevenire future pandemie. L’idea di One Health è certamente interessante nella misura in cui ci sfida a ripensare il nostro posto nell’ambiente sottolineando la nostra dipendenza dalla salute delle altre forme di vita non-umane. Paul Preciado sostiene anche che «la nostra salute non ci verrà dall’imposizione di confini e separazioni, ma da una nuova idea di comunità con tutti gli altri esseri viventi»55. Tuttavia, rimane la questione di che cosa significhi per gli umani far parte di una comunità di vita che li eccede. L’analisi critica proposta da Carl Eduard Scheidt delle nuove forme di socialità emerse durante la pandemia aggiunge una prospettiva interessante alla questione delle modalità in cui interagiamo con il nostro ambiente56. A parere di Scheidt, la pratica di stringersi la mano dimostra che la nostra concezione della socievolezza umana deve prendere in considerazione aspetti psicobiologici e psicosomatici. Come gli animali e le piante, gli umani reagiscono al loro «ambiente sociale non solo attraverso i loro comportamenti e le loro sensazioni psicologiche, ma anche attraverso i loro corpi, ossia biologicamente»57. Scheidt concepisce la socievolezza nei termini di una sincronizzazione e di un’armonizzazione dei ritmi biologici. Stringendoci le mani, noi testiamo, per così dire, se e come i nostri ritmi biologici sono sincronizzati o armonizzati. Ma come si stringe la mano ad un virus? E come possiamo sincronizzare o armonizzare i nostri ritmi biologici con quelli di un virus mortale? Per quanto io concordi con l’analisi di Scheidt della natura corporea e incorporata delle nostre interazioni sociali, mi chiedo se le idee di “armonia” e di “sincronizzazione” non siano esempi di proiezioni antropomorfiche sulla natura, o, in altre parole, di ri-deificazioni della natura. Dopo 55 Paul B. Preciado, Aprendiendo del virus, in Amadeo (dir.), Sopa de Wuhan: Pensamiento contemporáneo en tiempos de pandemias cit., p. 184. Preciado parla di questa comunità di tutti gli esseri viventi nei termini di un «nuovo equilibrio planetario» (ibid.). 56 Carl-Eduard Scheidt, Abschied vom Handschlag, in Kortmann, Schulze (hrsg.), Jenseits von Corona: Unsere Welt nach der Pandemie cit., pp. 46-47. 57 Ibid.
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tutto, la natura può essere poco interessata al fatto che con essa ci si armonizzi/sincronizzi o meno. Anche Birgit Meyer, un’etnologa tedesca, rivendica «una nozione alternativa del sociale basata sull’interconnessione materiale e fisica di ogni essere umano con ogni altro, nonché con gli altri esseri viventi e sostanze»58. Per Meyer la sfida di fronte ad un virus mortale consiste nel rimanere aperti a «altre [aggiungerei non-teologiche] narrazioni sulla relazione tra virus e umani»59, riconoscendo che i virus agiscono «come media di una rete, attraverso la quale l’infezione si diffonde, ma viene anche resa possibile l’immunità»60. Una narrazione del genere richiederebbe di rimanere aperti al contagio e di opporre resistenza a gesti immunitari negativi di chiusura e di resa. Come ha scritto Maria Galindo, un’attivista femminista boliviana, «il coronavirus è la paura del contagio», e dunque «la nostra sola alternativa reale è di ripensare il contagio»61. Se questo è il cammino che vogliamo intraprendere, allora la distinzione proposta da Žižek tra forme di vita “inferiori” e “superiori” e la sua descrizione del virus come «vita còlta nella stupidità apicale della ripetizione e moltiplicazione» non sono a mio avviso molto utili62. Non sono sicura che ci sia qualcosa di “stupido” nella ripetizione della natura – dopo tutto, è probabile che il nostro linguaggio e la nostra ragione abbiano avuto inizio da una capacità “mimetica”, come disse Walter Benjamin. Esiste davvero qualcosa come una “stupida ripetizione” dopo ciò che Derrida e Deleuze ci 58 Birgit Meyer, Religion und Pandemie, in Kortmann, Schulze (hrsg.), Jenseits von Corona: Unsere Welt nach der Pandemie cit., p. 151. 59 Ivi, p. 154. 60 Ivi, p. 152. 61 María Galindo, Desobediencia por tu culpa voy a sobrevivir, in Amadeo (dir.), Sopa de Wuhan: Pensamiento contemporáneo en tiempos de pandemias cit., p. 120. 62 «Un virus è vivo grazie all’impulso a replicarsi, ma si tratta di una sorta di vita al livello zero, una caricatura biologica non tanto della pulsione di morte quanto della vita còlta nella stupidità apicale della ripetizione e moltiplicazione. Eppure, i virus non rappresentano la forma elementare della vita da cui si sarebbero poi sviluppate forme più complesse; sono parassiti allo stato puro, si replicano infettando organismi più evoluti (quando un virus ci infetta, usa noi umani come mere fotocopiatrici) […] un […] resto della forma di vita più bassa che si manifesta come prodotto del malfunzionamento di meccanismi di moltiplicazione superiori e continua a tormentarli (infettarli), un resto che non potrà mai essere re-incorporato nel momento subordinato di uno stadio di vita superiore» (Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà cit., p. 43).
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hanno insegnato sulla relazione intrinseca tra iterabilità, differenza e novità? E, ovviamente, anche il più recente vaccino a mRNA contro il coronavirus “copia” il codice genetico del patogeno di modo da permettere alle nostre cellule di creare antigeni che stimolino le nostre risposte immunitarie. Stiamo cercando di “sovracopiare [outcopy]” lo “stupido” virus “replicante [copying]”? Questa può essere una ragione del motivo per cui la fobia quasi-religiosa contro le vaccinazioni è così forte: riflette il tipico bisogno umanista di essere più “razionali” dello “stupido virus”. Ma l’iterabilità derridiana non è in gioco soltanto a livello virale e immunologico. Essa ci aiuta a comprendere la religione come un fenomeno virale di proporzioni cosmiche. Se la religione è un’illusione inevitabile, come dice Freud, o se «Dio rimane morto», come sostiene Nietzsche, allora potrebbe essere utile considerarla da una prospettiva cosmica. Alla fine di Fede e sapere, Derrida cita Bergson sul fatto che il cosmo è «una macchina per la fabbricazione di dèi», o, più precisamente, «una macchina per duplicare dèi»63. La religione non è (solo) un artefatto umano auto-immunitario. C’è in essa, o a fianco di essa, anche una dimensione di fiducia indecostruttibile nell’altro, che Derrida rende con la formula “n+Uno”. La formula può essere letta ovviamente in modi diversi. Può essere intesa nel senso che la religione e la ragione, tutto ciò che associamo con l’Uno, emerge da ripetizioni “stupide” e “virali” della materialità che Derrida chiama con il termine platonico di chora e che ricorda lo statuto a metà tra vivente e non-vivente della materialità virale. Alternativamente, si può anche intendere nel senso che le religioni e le razionalità non sono che copie e simulacri (n+) di Una Natura in cui ogni cosa si affida continuamente ad un’altra, implicata [embedded] in una comunità di vita e di morte64. Dato che ho cominciato mettendo in discussione il nuovo entusiasmo generato da questa pandemia, la speranza in un Aufbruch di 63 Cfr. Jacques Derrida, Foi et Savoir, in Foi et Savoir. Le Siècle et le Pardon, Seuil, Paris 2000; tr. it. di A. Arbo, Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione, in Jacques Derrida, Gianni Vattimo (a cura di), La religione, Laterza, Roma-Bari 1995. 64 Sul significato della formula “n+Uno” in Derrida, si veda Michael Naas, Miracle and Machine: Jacques Derrida and the Two Sources of Religion, Science and the Media, Fordham, New York 2012, e ora anche Miguel Vatter, Divine Democracy, Oxford University Press, Oxford 2020.
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rivoluzione, vorrei concludere mettendo una buona parola in favore della disperazione e della melancolia. Walter Benjamin considerò l’età barocca, riflesso della disperazione delle guerre religiose, come un’epoca che aveva abbandonato ogni speranza in una salvezza futura e in una vita felice65. Quest’epoca originò un Trauerspiel, una «commedia della tristezza», che espresse un nuovo «dramma del destino» in cui la storia si rivelava come un processo infinito di accumulazione di rovine, nella totale assenza di ogni illusione di progresso morale. La variante tedesca del Trauerspiel, dato il suo background luterano, fu particolarmente efficace nel descrivere la mortificazione della natura. Forse possiamo pensare che il coronavirus esemplifichi questa mortificazione della natura, che esso funzioni come un memento mori. Ma ciò che è interessante del libro di Benjamin è che si chiude su una nota più spagnola, più solare: si tratta della ponderación misteriosa (o riflessione misteriosa), in cui l’esistenza del male nella e in quanto natura è rifiutata sulla base del fatto che la creazione è un bene. Il male, dal canto suo, fu introdotto dal desiderio umano di conoscere «il bene e il male»: è la nostra rivendicazione di essere “animali razionali” che ci porta a credere nell’esistenza del male, e di conseguenza a farlo. Forse questa è l’unica lezione che questo “stupido” virus sta cercando di comunicarci. (Tr. it. dall'inglese di Andrea Di Gesu)
65 Cfr. Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Ernst Rowohlt Verlag, Berlin 1928, tr. it. di F. Cuniberto, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999.
Breve saggio sulle teorie del complotto Alenka Zupančič
Iniziamo da un fatto piuttosto ovvio: i complotti certamente esistono. La formula “teoria del complotto” è spesso utilizzata semplicemente come mezzo per screditare alcune ipotesi perfettamente razionali a proposito di qualcosa che non è come viene presentato dalle autorità, che eccede ciò che è visibile, che riguarda l’esistenza di motivazioni e piani nascosti. Tuttavia, sentiamo allo stesso tempo che c’è una differenza (almeno finora) tra sospetti non confermati riguardo a manipolazioni e programmi nascosti e teorie del complotto in senso stretto. Anche se talvolta è difficile dire in che cosa esattamente consista questa differenza, e si ha l’impressione che le teorie del complotto cessino di essere considerate tali solo quando si rivelano vere. In questo senso sembra di avere a che fare con una relazione simile a quella tra potenza e atto: le teorie del complotto sono una sorta di riserva di ipotesi e possibilità, tra le quali solo alcune diventano vere (perdendo così lo status di teorie del complotto). Eppure è anche chiaro che questo genere di distinzione non coglie fino in fondo l’essenza di ciò che è in questione quando si parla di teorie del complotto, dal momento che queste ultime contengono un surplus di teoria, reale o fattuale, che non può essere ridotto alla, o assorbito dalla, differenza tra teoria e attualità. In altre parole, in questione non è semplicemente l’attualità (esistenza) o non-attualità (non-esistenza) di alcune trame cospirative, ma la specifica attualità, e realtà, della teoria in se stessa. L’investimento emotivo e la passione associati alle “teorie del complotto” non riguardano semplicemente la cospirazione e il suo disvelamento, ma almeno altrettanto la fabbricazione, la formazione e la produzione della teoria, che assembla e riconosce gli elementi che ne fanno parte, in modo da interpretarne e connetterne gli indizi.
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Quando parliamo di teorie del complotto possiamo dunque utilizzare il paradigma offerto dalla famosa considerazione lacaniana sulla gelosia: anche quando il nostro partner ci sta effettivamente mentendo, c’è comunque qualcosa di patologico nella nostra gelosia, c’è un surplus che la “corrispondenza con i fatti” non riesce interamente ad assorbire. Analogamente possiamo dire che, anche quando alcune cospirazioni esistono, resta qualcosa di patologico nelle teorie del complotto, un surplus di investimento che non è riducibile a questi o a quei fatti. D’altra parte, è importante sottolineare che la “patologia” in questione non è mai semplicemente una patologia individuale, ma segnala una patologia sociale. Come ha sostenuto molto bene Frederic Jameson nel suo studio seminale sulla cospirazione nei film degli anni Settanta e Ottanta, il pensiero complottista è un importante strumento cognitivo nel tardo capitalismo – al punto che può essere visto quasi come l’ultima via rimasta per pensare il sociale come totalità e in forma collettiva (opposta all’individualità)1. In ogni caso qui non approfondiremo in particolare il carattere esteticamente sovversivo delle teorie del complotto, ma il lato riguardante la passione epistemologica che le caratterizza, e i suoi limiti. Il lato, insomma, della “teoria”. Nel quadro di un più generale stato d’ansia connesso alla (im)possibile apparizione della totalità sociale, nelle teorie del complotto si osserva uno scarto quasi impercettibile: in esse l’enfasi passa dalla realtà descritta da alcune teorie del complotto («in verità le cose stanno così e così») alla cospirazione, all’inganno in quanto tale. Questo spiega il cosiddetto aspetto “paranoide” delle teorie del complotto: qualcuno ci sta deliberatamente manipolando, non tanto per ottenere un suo tornaconto, ma per il fatto stesso di ingannarci e sviarci dalla realtà autentica. Esistono molte sfumature di questa tendenza, alcune delle quali chiaramente classificabili come serie patologie: ciò che rimane costante è il riferimento a un “Loro”, mentre tutto il resto si dissolve in un insieme piuttosto confuso. Un buon esempio è la seguente testimonianza di uno degli appassionati terrapiattisti che hanno avuto l’opportunità di esprimere le loro convinzioni nel documentario di Netflix La Terra è piatta: 1 Frederic Jameson, The Geopolitical Aestethics, Indiana University Press and British Film Institute, Bloomington-London 1992.
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Poi ho capito che la cosmologia biblica è una cosmologia geocentrica, e quindi ho realizzato che ci stanno nascondendo la verità. Ed è perché loro vogliono che non sappiamo niente. Loro vogliono che la gente sia stupida, cieca, disinteressata alla verità, così possono iniettarti i loro vaccini, la loro scuola pubblica e il loro modello eliocentrico, che è essenzialmente un culto del sole obbligatorio.
Rapidamente tutto ritorna su di “Loro”, che vogliono che tu diventi così e così, che tu creda a questo o a quello. L’agente del complotto – anche se rimane vago e indefinito – è sullo sfondo, onnipresente, e implica una serie di bizzarri scarti metonimici quanto ai contenuti (vaccinazioni, istruzione pubblica, paganesimo), la connessione tra i quali appare chiara a chi parla ma molto meno a chi ascolta (nel nostro caso essi sembrano tratti in modo casuale da un repertorio evangelico). Da questo punto di vista le narrazioni dei teorici del complotto possono spesso colpirci in modo simile alla logica dei sogni e delle connessioni stabilite da ciò che Freud chiamava lavoro onirico: esse sembrano perfettamente logiche e autoevidenti al sognatore, ma quando quest’ultimo si sveglia esse appaiono strane e illogiche. E Freud aveva ovviamente ragione nell’insistere sul fatto che nonostante tutto c’è una logica nel lavoro onirico. Ci sono altri motivi di interesse nelle teorie del complotto, che ricordano i sogni. Perlopiù si può dire che essi riguardino o tocchino il reale, o che, con le loro incredibili narrazioni, propongano un’articolazione deformata e fraintesa di qualcosa che può essere chiamato, con Lacan, le peu du réel, un pizzico di reale. Prendiamo come esempio la teoria, abbastanza popolare, secondo cui l’atterraggio sulla Luna fu girato in uno studio cinematografico e non avvenne mai davvero. Come ha mostrato Jodi Dean2, durante il periodo della Guerra Fredda, l’intero programma spaziale americano era strettamente legato alla sua proiezione televisiva. Il radicamento della cultura televisiva (la TV come nuovo grande Altro, moderno punto focale, “focolare” di ogni famiglia) è avvenuto simultaneamente e in stretta relazione allo sviluppo del programma spaziale, e fin dall’inizio la presentazione di questo programma ha avuto come obiettivo i telespettatori, applicando una serie di criteri nella scelta e nella presenta2 Jodi Dean, Aliens in America. Conspiracy Cultures from Outerspace to Cyberspace, Cornell University Press, New York 1998.
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zione dei protagonisti (gli astronauti) e delle loro famiglie. Possiamo non inferire da tutto ciò che la televisione e l’allunaggio siano stati, nei fatti, materialmente connessi in una sorta di sovrapposizione o fusione, e che sia il reale di questa fusione, in una forma sublimata, a riemergere e alimentare teorie secondo le quali l’allunaggio non avvenne mai e fu interamente girato in studio? Ciò non significa che il surplus della trasmissione televisiva connessa alla spedizione lunare della NASA “spieghi” questa particolare teoria del complotto, e che essa possa ridursi a questo. Ci sono molte altre cose in questione, ma possiamo dire che l’investimento nella sua trasmissione televisiva, e nell’intera presentazione-produzione della spedizione, funzioni come «un piccolo pezzo di reale» – probabilmente non l’unico – al lavoro in questa teoria del complotto. In ogni caso, le teorie del complotto sono un fenomeno interessante e complesso, che non può essere semplicemente rifiutato con disprezzo. Tantomeno in tempi in cui alcune tra le più bizzarre teorie del complotto sembrano entrare a forza nello spazio pubblico, nel mainstream e persino nella politica ufficiale (l’esempio più impressionante è probabilmente dato dal nesso tra QAnon e la politica di Donald Trump; secondo alcune fonti, più di 35 candidati per il congresso aderiscono a questa teoria, che analizzeremo meglio più avanti). Si tratta di un cambiamento importante rispetto allo status sociale delle teorie del complotto, se confrontato al loro ruolo marginale e sovversivo negli anni Settanta e Ottanta. Ci sono molte ragioni che spiegano questa marcia delle teorie del complotto dai margini della società verso il suo centro, e si collocano a diversi livelli. Ad esempio, si indica spesso come una causa quello che si presenta nelle nostre società occidentali contemporanee come una sorta di realizzazione postmoderna del nietzschianesimo: il declino della realtà oggettiva come valore e categoria epistemologica. In questo senso, si può attribuire il fatto che «non è più possibile distinguere la verità dalla finzione» all’influenza della teoria postmoderna, della decostruzione di ogni nozione di origine, all’indebolimento di ogni sorta di autorità, alla generale promozione del relativismo e del nominalismo… Tuttavia, in questa riscoperta entusiasta del realismo, si tende a dimenticare il fatto, molto realistico, che è spesso oggettivamente difficile distinguere tra le due. Le contraffazioni e i falsi migliorano di giorno in giorno e la tecnologia ha prodotto alcuni
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effetti sorprendenti e disturbanti in questo senso. Le nostre relazioni sociali tardocapitalistiche sono divenute sempre più fittizie così che la realtà del capitale possa seguire il suo discorso. E questa non è una questione teorica, ma concerne una configurazione materiale che include e rende necessarie queste finzioni. L’indebolimento e la messa in discussione postmoderna di ogni originalità è da tempo divenuta una realtà in se stessa, e non è più semplicemente “una questione di prospettiva”, di una teoria o di una “ideologia” della pluralità delle differenti prospettive. Possiamo ovviamente concordare che il livellamento (considerato democratico) e la relativizzazione di ogni affermazione, per cui anche le tesi scientifiche appaiono come uno tra i tanti giochi linguistici, costituisca oggi un rilevante problema sociale, così come lo è la dissoluzione del pubblico come piattaforma generale o comune, che a lungo ha svolto il ruolo di grande Altro condiviso, e la sua sostituzione con verità particolari e private. Eppure, anche se accettiamo questa (in parte semplicistica) tesi secondo cui è stato il relativismo ad aprire la strada per il mainstream alle teorie del complotto, ciò non implica che esse giurino sul relativismo. Al contrario, le teorie del complotto prendono la categoria di verità molto seriamente. Esse ritengono che ci sia la Verità: sono semplicemente convinte che questa verità sia differente e altra rispetto a quella ufficiale. L’idea paradigmatica di ogni teoria del complotto non è che ci siano molte verità, ma che esista un’altra Verità. 1. Teoria critica e teorie del complotto Da questo punto di vista le teorie del complotto non somigliano molto al relativismo nietzschiano, almeno non quanto risultano invece vicine a una certa teoria critica, alla critique – come Bruno Latour ha ironicamente osservato alcuni anni fa: Permettetemi di essere cattivo per un momento. Qual è la differenza reale tra una teoria del complotto e una versione divulgativa della critica sociale ispirata da una lettura veloce di un, ad esempio, eminente sociologo come Pierre Bourdieu (per essere educato mi dedicherò alle grandi autorità francesi)? In entrambi i casi si deve imparare a essere sospettosi di tutto ciò che dice la gente perché, ovviamente, tutti sappiamo che essi sono schiavi di una totale illusio rispetto alle
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ragioni reali delle loro convinzioni. In seguito, dopo che il disincanto ha colpito e viene richiesta una spiegazione su ciò che sta davvero accadendo, in entrambi i casi ancora c’è uno stesso appello ad agenti potenti e nascosti nell’ombra che agiscono di continuo e senza sosta. Certo, noi nell’accademia amiamo utilizzare cause più elevate – la società, il discorso, il sapere-barra-potere, i campi di forze, gli imperi, il capitalismo – mentre ai complottisti piace descrivere un miserabile manipolo di gente avida con interessi oscuri, ma trovo che vi sia qualcosa di fastidiosamente simile nella struttura delle due spiegazioni, nel primo movimento di disincanto e, dopo, nell’affermare spiegazioni causali provenienti da un fondo oscuro. […] Certamente le teorie del complotto sono un’assurda deformazione dei nostri stessi argomenti ma, come armi di contrabbando finite nelle mani sbagliate attraverso un confine poroso, esse sono in effetti le nostre stesse armi. Malgrado tutte le deformazioni, è facile riconoscervi, scolpito nella pietra, il nostro marchio: prodotto in criticalandia3.
Latour ne conclude che il ruolo della teoria critica (di cui egli stesso ha fatto parte) si sta esaurendo, e che la critica dovrebbe essere fondata su basi differenti, dovrebbe insomma cambiare profondamente. Il suo saggio è anche un testo programmatico che accompagna la sua svolta filosofica verso il realismo ontologico – o «metafisica pratica», come la chiama nel suo libro Reassembling the Social4. Questo non è naturalmente il luogo per discutere il lavoro di Latour e la sua versione della metafisica. Ciò che è interessante per il nostro tema, e che rende più complesso il terreno che stiamo esplorando, è quanto segue: il distacco di Latour dagli strumenti della teoria critica in direzione di un radicale relativismo, ossia l’affermazione dell’esistenza di molteplici mondi, contraddittori tra loro e dallo stesso valore ontologico. Nella sua formulazione più semplice, la tesi di Latour è questa: non esiste una struttura fondamentale della realtà, ma, al suo posto, esiste una pluralità di realtà che possono essere considerate di eguale peso ontologico, e tutte “oggettive”. Non ci sono fatti soggettivi. In questa direzione è necessario prendere sul serio (e letteralmente) le affermazioni di attori differenti a proposito delle loro motivazioni, piuttosto che guardare a un’altra, più autentica, spiegazione. 3 Bruno Latour, Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, «Critical Inquiry», 2, 2004, pp. 228-230 [traduzione nostra]. 4 Bruno Latour, Reassembling the Social: An Introduction to Actor-Network-Theory, Oxford University Press, Oxford 2005.
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Dunque, paradossalmente, Latour utilizza la comparazione tra teoria critica e teorie del complotto per affermare, nelle sue conseguenze, qualcosa che suona come una universalizzazione delle teorie del complotto: a ogni attore la sua teoria del complotto. Ciò che egli ritiene problematico nella struttura logica delle teorie del complotto (così come in quella della critique o teoria critica) è solamente il fatto che queste teorie credono nella verità e nella possibilità di una diversa realtà (diversa da ciò che appare), nell’esistenza di una struttura fondamentale della realtà, nella possibilità che le cose – inclusi quelli che assumiamo come “fatti” – possano essere spiegate (in un’altra maniera) da una qualunque interpretazione, narrazione o teoria. Questo è il punto che la teoria critica condivide con le teorie del complotto: esse credono nell’esistenza di un’altra, diversa, verità. Al contrario, la metafisica di Latour si oppone radicalmente all’interpretazione e all’attitudine scettica. Potremmo dire che, nella metafisica di Latour, le teorie del complotto sono uno dei mondi possibili (o alcuni mondi possibili) che interagiscono come tali con altri mondi. Essi non sono problematici in ragione delle loro tesi, o di ciò che ritengono vero, ma solamente a causa del loro punto di partenza critico, che è in effetti dogmatico (esiste una struttura fondamentale della realtà che possiamo riconoscere). Non si deve dimenticare che il bersaglio del saggio di Latour è, in effetti, la critica e non le teorie del complotto. Queste ultime sono un mezzo per screditare i presupposti epistemologici (e le conseguenze ontologiche) della critica, in ragione della loro prossimità alle teorie del complotto. Eppure, questa è in fondo una manovra retorica che, nelle sue implicazioni, sembra anch’essa troppo semplicistica. Quello che viene attribuito alla critique in questa prospettiva è paradossalmente ciò che Nietzsche attribuiva alla metafisica classica: la credenza nell’esistenza di due mondi, uno apparente e uno vero, per cui la critica implica un’interpretazione del mondo secondo la quale le apparenze sono sempre ingannevoli, mentre esiste un’altra, più autentica, spiegazione. L’attitudine scettica e la passione ermeneutica, la passione per l’interpretazione, sono in questo senso e ovviamente forme piuttosto diverse dall’assunto per cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni», dal momento che l’interpretazione è qui guidata dalla convinzione di operare al servizio della verità (al singolare), di condurre da qualche parte, e che dove essa porti sia rilevante. Il prin-
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cipale bersaglio di Latour è così la convinzione che esista in fondo una spiegazione corretta. In questo senso, egli è più vicino al postmodernismo che alla teoria critica. Nel suo sforzo di indebolire la prospettiva della critica, Latour non trova nel relativismo un nemico, bensì un alleato. È utile tenere a mente questo aspetto mentre si legge il seguente passaggio, con il quale si può d’altra parte concordare completamente: In quel caso il rischio non proverrebbe più da un’eccessiva fiducia in argomentazioni ideologiche poste come dati di fatto – cosa che abbiamo imparato a combattere nel passato in modo molto efficiente – ma da un’eccessiva sfiducia in dati di fatto attendibili scambiati per cattivi pregiudizi ideologici! Mentre abbiamo speso anni tentando di identificare dei pregiudizi reali nascosti dietro l’apparenza di affermazioni oggettive, dobbiamo adesso rivelare i fatti reali, oggettivi e incontrovertibili, nascosti dietro l’illusione dei pregiudizi? Eppure interi programmi dottorali stanno ancora lavorando affinché i bravi ragazzi americani imparino che i fatti sono costruiti, che non esiste un naturale, immediato, imparziale accesso alla verità, che siamo sempre prigionieri del linguaggio, che stiamo sempre parlando da un particolare punto di vista, ecc. ecc., nello stesso momento in cui pericolosi estremisti stanno usando lo stesso argomento della costruzione sociale della verità per distruggere evidenze che sono state difficili da acquisire e che possono salvare le nostre vite5.
L’efficacia di questo argomento risiede nel dare conto di una circostanza di cui tutti noi abbiamo probabilmente fatto esperienza: a diversi livelli nella nostra società stiamo assistendo a una sfiducia di massa verso diversi fatti (ad esempio: le evidenze scientifiche del cambiamento climatico, l’esistenza del virus COVID-19, la sicurezza dei vaccini, la credibilità dei media…), dal momento che molti attori sociali, a partire dai teorici del complotto, non credono più a questi fatti e li vedono come introiezione di pregiudizi, nebbia ideologica, illusione, manipolazione. Nel contesto attuale della crisi del COVID possiamo anche osservare come, in effetti, una parte considerevole del cosiddetto “pubblico della critica” (e la sua teoria) almeno in parte converga su questo con i complottisti. Tuttavia, quando accogliamo la diagnosi di Latour, non dobbiamo dimenticare che la sua soluzione non consiste affatto in un ritorno ai “puri fatti” (ad esempio i fatti scientifici) e nella loro difesa contro i pericolosi estremisti 5
Latour, Why Has Critique Run out of Steam? cit., p. 227 [traduzione nostra].
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che evoca, ma, al contrario, in una radicalizzazione del relativismo, in cui la differenza tra illusione e realtà diventa del tutto irrilevante. In altre parole, Latour non ci sta suggerendo di iniziare a svelare i fatti oggettivi e dimostrabili nascosti dietro l’illusione dei pregiudizi (nascosti nel loro apparire come pregiudizi), ma di abbandonare completamente la distinzione (epistemologica e ontologica) tra i due ambiti. Tutto ciò che esiste è un fatto, oggettivo e rilevante. I fatti non sono l’opposto dell’illusione e della finzione – esse stesse sono fatti. Proponiamo qui di assumere la proposta di Latour riportata nella citazione precedente in modo letterale, come strumento utile per identificare il cambiamento che è occorso nella relazione tra illusione e attualità. Ma non intendiamo semplicemente rinunciare al valore epistemologico della distinzione tra illusione e attualità che, in aggiunta, non può essere ridotta alla distinzione tra un mondo vero e uno apparente. E spero non ci sia bisogno di sottolineare che troviamo nella tradizione della teoria critica potenti correnti di pensiero e opere che resistono fermamente alla ultra-semplificata distinzione tra due mondi (vero e apparente), che non rappresenta affatto l’essenza della critica. Naturalmente questo saggio non può essere l’occasione per un’analisi della relazione tra la teoria critica e la teoria di Latour, che lasciamo da parte a questo punto. Semplicemente assumiamo la tesi della somiglianza di un “primo riflesso” (scetticismo), che le teorie del complotto condividono con la teoria critica, come punto di partenza per esporre alcune delle importanti differenze che le dividono, sperando che questo contribuisca a gettare una nuova luce su alcuni tratti fondamentali delle teorie del complotto. 2. Il soggetto che (ci) inganna Iniziamo con l’automatismo che conduce a dubitare di tutto ciò che si presenta ufficialmente come fatto, ossia con l’attitudine scettica assunta in linea di principio. Questo scetticismo emerge primariamente rispetto a delle autorità simboliche, rispetto al potere, a ciò che si suppone essere un consenso generale autoevidente, o semplicemente a tutto ciò che è ufficiale. Tuttavia, mentre la teoria critica esamina i mezzi e i modi in cui, ad esempio, la fabbricazione del consenso ha luogo, e quindi concentra il suo sguardo critico sulla realtà
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condivisa, sul modo in cui certi fatti vengono prodotti come fatti, sulla sua strutturazione e dialettica interna, sul lavoro dell’ideologia (meccanismi che di solito operano proprio di fronte ai nostri occhi, sulla superficie, e che sono inseparabilmente connessi alla realtà data), la teoria del complotto salta immediatamente a quello che c’è dietro, alle profondità nascoste, all’altra realtà. Non si occupa mai davvero dell’analisi (critica) dei fatti o della realtà nella loro natura intima, ma semplicemente ne fa piazza pulita in quanto falsi, e dunque irrilevanti. L’assunto fondamentale di ogni teoria critica degna di questo nome, d’altra parte, è che precisamente in quanto falsi questi fatti sono estremamente rilevanti per l’analisi, e devono essere esaminati seriamente. Questo rifiuto del carattere problematico dei fatti e della realtà, in favore della irrilevanza che ne risulta, rappresenta – in modo quasi letterale – il primo passo verso quella “perdita della realtà” caratteristica delle teorie del complotto. L’interrogazione a proposito del perché e di come l’illusione appaia e strutturi la nostra realtà viene immediatamente risolta/scartata evocando l’Agente della presunta cospirazione, che spiega tutto in una volta. Sembra che questo Agente del complotto, con tutte le, spesso molto complesse, macchinazioni che sta presumibilmente orchestrando, abbia un solo e unico progetto: ingannarci, indurci in errore, non ingannarci a proposito di questo o quello, ma ingannarci, punto. E spesso non è molto chiaro perché lo faccia: l’inganno come tale appare un motivo sufficiente. Certo, sentiamo spesso parlare dei “Loro” interessi, del “Loro” tornaconto… Ma questo interesse e profitto rimane abitualmente oscuro e incerto, specialmente se consideriamo gli incredibili e costosi sforzi fatti per ingannarci. Prendete ad esempio gli sforzi (e i costi) che sarebbero necessari per “Loro” per sostenere l’illusione che la terra ruoti intorno al sole, se la terra fosse, in effetti, piatta: ogni possibile interesse, profitto o guadagno scompare di fronte a ciò che appare un più forte e primordiale Interesse o Volontà: ingannarci. I teorici del complotto hanno quindi un rapporto molto intricato e interessante con quello che Lacan chiama l’agire del grande Altro. Da un lato, essi sono convinti che il grande Altro esista effettivamente (essi credono nell’esistenza di un’azione che è in se stessa molto solida, che opera con decisione, che tira tutti i fili e li coordina tra loro). Eppure essi credono anche che questo agente stia fondamentalmente e deliberatamente ingannando. Potremmo dire che credono
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nell’esistenza dell’ipotetico genio maligno dell’inizio delle Meditazioni cartesiane, il quale ci inganna deliberatamente su ogni cosa. Ne possiamo concludere che abbiamo a che fare fondamentalmente con un disperato tentativo di preservare l’operato del grande Altro, in un tempo segnato dalla sua disintegrazione in favore di un relativismo generalizzato, un tentativo che può avere successo solo al prezzo di spostare il grande Altro nell’ambito della malignità? La consistenza del grande Altro può manifestarsi solamente nella riuscita del suo inganno. Un grande Altro consistente può essere solo un grande Ingannatore (un grande Truffatore o Ciarlatano), un Altro maligno. Un Dio coerente può essere solo un Dio maligno, niente da aggiungere. Eppure, meglio un Dio maligno che nessun Dio. Tuttavia, la spiegazione del “bisogno di un grande Altro” non sembra esaurire il fenomeno e il significato dell’assunzione condivisa da tutte le teorie del complotto, ossia che esista un Soggetto o Agente che ci sta deliberatamente ingannando. Questa enfasi libidinale non riguarda meramente l’esistenza dell’Altro (meglio un Altro maligno che nessun Altro): la falsità e la malignità dell’Altro sembrano essere costitutive della Sua esistenza, e non semplicemente il prezzo della sua esistenza. Il presupposto è così in qualche modo più forte, e può essere formulato in questo modo: il grande Altro può essere solamente ingannatore/maligno, altrimenti Egli non esiste. La falsità e la malignità sembrano garantire dall’interno della consistenza del grande Altro – una consistenza che rimane completamente intangibile per la sedicente “critica radicale” e per lo scetticismo all’opera nelle teorie del complotto. L’Altro è onnipotente. Possiamo certo identificare qui un limite intrinseco dell’attitudine critica e dello scetticismo di cui i teorici del complotto si fanno vanto. Essi non sono troppo critici o troppo scettici, lo sono troppo poco. Essi non credono a niente e a nessuno, sono scettici su ogni “fatto”, eppure credono a un grande Altro che ci inganna costantemente, sistematicamente e infallibilmente in ogni momento. Collegato a questo è un altro circolo vizioso delle teorie del complotto, il lato cieco che appare come tautologia e come loro limite interno. Se una teoria del complotto si rivela vera e diventa dunque la versione ufficiale degli eventi, questo mette in dubbio la figura dell’Ingannatore onnipotente, che diventa così meno potente e consistente di quanto lo si è proclamato. I teorici del complotto spesso si
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impegnano molto nel provare le loro teorie. Eppure, se hanno successo con queste prove, mettono la loro presupposizione iniziale in una cattiva luce: era veramente un Complotto o solo un (non riuscito) tentativo di coprire alcuni fatti? La condizione di esistenza del Complotto è, in questo senso, non diventare mai la versione ufficiale dei fatti. Se diviene tale, il complotto stesso getta le basi per il sospetto: che sia una nuova, e persino più perfida tattica (un doppio gioco) di una Cospirazione più profonda… Immaginate per un momento che un’indagine oggettiva confermi che l’allunaggio sia stato filmato in studio. I supporter di questa teoria sarebbero trionfanti, celebrerebbero il fatto che la loro teoria ha prevalso e che avevano ragione fin dall’inizio? Penso che sia verosimile pensare che non andrebbe così. Perché ciò su cui essi vogliono avere ragione non è sul fatto che l’uomo sia davvero andato sulla Luna, ma sul fatto che “Loro” ci stanno sistematicamente ingannando al riguardo. Nel momento in cui le teorie del complotto si rivelano vere, esse si scoprono false, dal momento che l’inganno (efficace) termina. Le teorie del complotto risultano confermate nella convinzione che le autorità ci stiano sistematicamente e deliberatamente ingannando solo se l’inganno funziona perfettamente. C’è un altro aspetto distintivo dei teorici del complotto, almeno in parte collegato a questo: ossia il fatto che essi abbandonano facilmente una teoria per abbracciarne un’altra, e che tendono a spostarsi da una all’altra (spesso credendo in più d’una). L’accento non è sui contenuti, quanto piuttosto sulle modalità del complotto, ossia sul fatto che un complotto sia in corso. Da ciò segue che, nel loro insistere su “un’altra verità”, l’accento cada non tanto sulla verità, ma sul fatto che sia “un’altra”, altra, diversa. Più esattamente, l’alterità costituisce qui una parte intima della verità, la verità è sempre altra (rispetto a quella ufficiale), donde la sua plasticità e il suo essere sfuggente. Il complotto non esiste solo dalla “Loro” parte, sul lato dell’Altro ingannatore, ma c’è qualcosa del complotto che esiste anche dal lato dei suoi teorici. Non è solo il fatto che le Cospirazioni si suppone siano pianificate e condotte in luoghi segreti, dove il male e il potere si incontrano e comandano il mondo. Anche i teorici del complotto mantengono il segreto, abitano luoghi oscuri, lontani dalla luce (ad esempio le profondità di internet); c’è una sorta di “complicità” co-
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spirativa tra di loro: un certo legame, una iniziazione, una condivisione, un surplus di sapere – e tuttavia un surplus di sapere che esiste solo finché esiste il Complotto dall’altra parte. I teorici del complotto sono di solito presi in un rispecchiamento, in una relazione immaginaria con l’Altro (ingannatore). Da un lato ci siamo “noi” (che sappiamo cosa sta accadendo veramente), e dall’altra parte ci sono “Loro” (che, ovviamente, sanno anch’essi cosa sta avvenendo, dal momento che sono gli agenti della macchinazione). In mezzo ci sono le masse ingenue e cieche che credono nella versione ufficiale degli eventi propagandata da “Loro”, e che testimoniano dell’esistenza e della dimensione colossale del complotto. Ciò che viene creduto dalla maggioranza delle persone non costituisce in questa configurazione un “dato di realtà” in grado di far dubitare i teorici del complotto; al contrario, esso prova la validità delle loro ipotesi. Abbiamo menzionato il surplus di sapere, che costituisce un elemento importante di questa configurazione. Il nostro surplus di sapere, il nostro sapere riguardo alle cose per come stanno veramente, funziona come garanzia diretta (e testimonia) della consistenza del grande Altro, del grande Ingannatore. O, forse, più precisamente: il nostro surplus di sapere è in un certo senso l’apparire mondano, l’incarnazione, di questa consistenza, il suo nucleo fondamentale. La chiave della consistenza del grande Altro si trova fuori da esso, abita in noi che siamo in grado di vederlo e di averne cura con le nostre teorie e i nostri sforzi interpretativi. 3. Il delirio dell’interpretazione Connesso a quanto abbiamo visto è uno specifico “delirio dell’interpretazione”, al lavoro nelle teorie del complotto. Paradossalmente, l’interpretazione è qui alimentata dalla conoscenza della soluzione, del suo risultato finale: la questione fondamentale è come leggere e interpretare ciò che avviene o appare in questo mondo in maniera tale che possiamo coglierne il risultato in anticipo (esistente negli assunti di base della teoria del complotto), un risultato che diverge rispetto alla spiegazione più ovvia. Da questo punto di vista le teorie del complotto assomigliano a ciò che in storia della scienza (in particolare nell’astronomia) è conosciuto come “salvare i fenomeni”, il
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cui esempio più famoso è la scelta tra il sistema tolemaico e il modello eliocentrico. Il sistema tolemaico, basato sulla presupposizione di una terra collocata al centro dell’universo, attorno a cui circolano gli altri pianeti, dovette a un certo momento confrontarsi con una crescente massa di osservazioni empiriche fatte attraverso il telescopio in cui i movimenti dei pianeti non apparivano circolari. In risposta, gli astronomi tolemaici svilupparono una teoria molto complessa di epicicli e orbite eccentriche che sembrava in grado di riconciliare l’osservazione con i loro assunti fondamentali (che la terra sia immobile e i pianeti le circolino attorno), e dunque di dare conto dei fatti discordanti. L’ipotesi eliocentrica era in grado di spiegare questi fatti in maniera migliore e più semplice, ma richiedeva un cambiamento radicale dei più fondamentali assunti in materia di cosmologia. Le teorie del complotto spesso ci colpiscono per una pratica simile al “salvare i fenomeni”: esse introducono ipotesi ulteriori e spiegazioni sempre più complicate degli stessi eventi al fine di giustificare la loro versione della realtà, in cui credono e che assumono come punto di partenza. Oltre alla figura del grande Altro come grande Ingannatore, in alcune teorie del complotto esiste un’istanza specifica, immagine speculare del grande Altro: un grande Altro che è dalla nostra parte, un grande Altro buono, portatore di Verità e di Luce. Questa è una caratteristica che avvicina alcune teorie del complotto alla religione. Il buono e verace Altro differisce considerevolmente, nella sua strutturazione interna, dal grande Altro della narrazione ingannatrice. La sua funzione è quella di una sorta di Oracolo, un’Eminenza Grigia dai messaggi enigmatici, che come tale non dà (ancora) forma a una narrazione consistente. Sta a noi costruire questa Narrazione. Questa è la figura del grande Altro positivo che incontriamo, ad esempio, in quella che è probabilmente la teoria del complotto oggi più popolare: QAnon. Il 28 Ottobre 2017 Q emerge dal brodo primordiale di internet sul forum 4chan e rapidamente costruisce la sua leggenda come addetto ai lavori nel governo dotato di una autorizzazione di sicurezza di vertice (la cosiddetta autorizzazione-Q). Egli è a conoscenza di uno scontro segreto per il potere fra Trump e il “deep state”. Da quel momento egli ha postato per più di 4.000 volte, e nel novembre 2017 si è spostato da 4chan a 8chan, rimanendo poi in silenzio per alcuni
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mesi dopo la chiusura di 8chan nell’agosto 2019, per riemergere in un nuovo sito dello stesso proprietario di 8chan, 8kun6. Sebbene in modo anonimo, Q utilizza un “trip code” che permette ai suoi follower di distinguere i suoi post da quelli di altri utenti anonimi (conosciuti come “Anons”). I post di Q sono criptici ed ellittici, enigmatici. Essi consistono spesso in lunghe serie di domande allusive, il cui compito sarebbe guidare i lettori verso un’autonoma scoperta della verità attraverso la ricerca. Il bello di questa procedura è, ovviamente, che quando una predizione concreta non si avvera (il che avviene molto spesso), i veri credenti adattano rapidamente le loro narrazioni per dare conto degli errori. Per i seguaci più assidui di QAnon i post (o drops) contengono frammenti di conoscenza che essi “cucinano” trasformandoli in prove. Per i “cuochi” (bakers), QAnon è al tempo stesso un hobby divertente e un impegno tremendamente serio (qui possiamo vedere ancora una volta come i “cuochi”, quando compongono narrazioni apparentemente consistenti a partire da frammenti di realtà, somiglino nel loro funzionamento a ciò che Freud chiama lavoro onirico). Questa particolare teoria, che per alcuni è più di una teoria del complotto (una visione del mondo simile a una nuova religione o a un nuovo movimento politico), comprende così una struttura gerarchica, al cui centro sta il nostro buon grande Altro, che lotta dal basso contro il cattivo grande Altro, che domina il mondo e ci tiene prigionieri di ogni tipo di illusione. L’iconografia di un movimento di resistenza che si trova nel cuore di una delle più reazionarie teorie del complotto è, come tale, molto istruttiva. Film come Matrix ci presentano una sorta di versione progressista di questa stessa configurazione: un piccolo gruppo di combattenti per la libertà che resistono al grande Altro, il quale tiene il mondo prigioniero di una gigantesca illusione riguardo alla vita e alla realtà. Dal basso, i combattenti per la libertà provano a rompere questo incantesimo e lottano per l’emancipazione. La figura chiave per il successo di questa battaglia è chiamata l’Oracolo. In QAnon Q svolge in effetti la funzione di un oracolo: grazie al suo sedicente accesso ai più nascosti segreti egli incarna un assoluto 6
Julia Carrie Wong, QAnon explained: the antisemitic conspiracy theory gaining traction around the world, 2020, disponibile online (https://www.theguardian.com/usnews/2020/aug/25/).
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surplus di sapere: i frammenti che concede ai suoi seguaci, i quali “cucinano” storie a partire dalla loro stessa ricerca e interpretazione. Non c’è probabilmente bisogno di sottolineare che la passione messa in questa ricerca si può considerare in se stessa una soddisfazione e dunque una ricompensa per gli sforzi dei cuochi. In una certa misura si tratta qui di una sfida e di una passione simili a quelle che riguardano ogni tipo di gioco, ad eccezione del fatto che qui la linea di demarcazione tra gioco e realtà è obliterata fin dall’inizio e che la posta in gioco è molto più alta. Riuscire in questo gioco significa saperne di più sulla (autentica) realtà del mondo. Alle spalle dei “cuochi” e dei seguaci più ferventi, c’è una folla di credenti “ordinari” che semplicemente prendono queste narrazioni – questo work in progress (della teoria del complotto) – seriamente. Ma anche in questa “gente normale” possiamo rilevare una grande passione per l’interpretazione, un considerevole quantitativo di iniziativa personale nel ricercare e stabilire ogni tipo di connessione, che può anche variare sensibilmente – all’interno del contesto generale della narrazione di QAnon – secondo la situazione locale o le ossessioni personali. All’opposto rispetto al grande altro del complotto, il grande Ingannatore, si trova così in questa teoria del complotto il grande Altro oracolare: quest’ultimo non dice la Verità (eccetto che, ovviamente, nei suoi vaghi contorni), ma ci aiuta a indovinarla, a scovarla o a ricostruirla, a esplicitarla completamente da soli – e, dunque, a renderla soggettiva, a prenderla in carico e, se necessario, a difenderla appassionatamente. Si possono richiamare qui le considerazioni lacaniane sulla funzione e il funzionamento dell’enigma. Prendendo ad esempio l’enigma che la Sfinge pone a Edipo il quale, rispondendovi, diventa Re (e, così, stabilisce il suo destino), Lacan sostiene che Edipo avrebbe potuto rispondere diversamente alla domanda della Sfinge («Cos’è che prima cammina su quattro zampe, poi su due e infine su tre?»). Ma, in quel caso, non sarebbe stato l’Edipo che conosciamo: Penso che si possa comprendere la funzione dell’enigma – è un dire a metà (mi-dire), come la Chimera il cui corpo appare diviso a metà, con il rischio che scompaia del tutto quando viene trovata la soluzione. Se ho insistito a lungo sulla differenza tra il livello del discorso (énonciation) e quello dell’enunciato (énoncé), è perché è così che l’enigma acquista significato. Un enigma è molto probabilmente questo, un discorso di cui ci facciamo carico, con il compito
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di trasformarlo in un enunciato. Si tratta di uscirne meglio che si può – come fece Edipo – e di assumerne le conseguenze. È questa la posta in gioco di un enigma7.
Quando risolviamo un enigma di questo tipo siamo noi a esserne la posta in gioco: siamo implicati nella realtà che stiamo decifrando e diventiamo la garanzia di questa realtà. Ciò spiega bene l’investimento, lo zelo, che è possibile osservare nei teorici del complotto – inclusi i seguaci di quelle teorie del complotto che non implicano una figura oracolare e nelle quali l’enigma consiste nel mettere assieme diverse parti del mondo in modo tale che esse si accordino in un enunciato che descrive una realtà alternativa (la terra piatta, ad esempio). In questo senso la verità che stabiliamo sulla base della nostra stessa ricerca e della decifrazione di messaggi enigmatici e oracolari è, ovviamente, molto soggettiva: perché è, per così dire, la verità del soggetto. Non si può essere neutrali nei suoi confronti. Ed essa è in effetti una verità molto più in grado di generare militanza rispetto a una verità tramandata o rivelata. È per questo che spendiamo ore, giorni, anni a cercarla e a stabilire certe connessioni, passando dal registro di un sapere che si suppone sia un miglior sapere, al registro della professione di questo sapere. Investiamo personalmente in esso, dal momento che si lega al nostro stesso Essere, un essere che siamo pronti a dare in pegno per questo sapere (per decifrare la verità). L’investimento soggettivo ha, ovviamente, molte conseguenze pratiche e – nel caso di QAnon – politicamente rilevanti. In questione vi è anche un rapporto estremamente produttivo tra sapere e credenza, che appare come la caricatura di ciò che la psicoanalisi concettualizza attraverso la nozione di transfert. La fede cieca in alcuni assunti fondamentali (e nei loro portatori) è la condizione o l’innesco della produzione di massa del sapere (e del suo surplus). In altre parole, si tratta qui non solo della fede cieca nei dogmi o nelle verità di un certo complotto, ma anche del fatto che noi personalmente (e autonomamente) scaviamo e ricostruiamo la verità attraverso il nostro lavoro e la nostra ricerca. Tutto ciò è basato su una fede infallibile che contiene già il risultato finale. La ricerca e il sapere ba7
Jacques Lacan, L’envers de la psychalyse. Le Séminaire, Livre XVII (1969-1970), Seuil, Paris 1991; tr. it. a cura di A. Di Ciaccia, Il rovescio della psicoanalisi. Il seminario XVII, Einaudi, Torino 2001, pp. 36-37.
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sati su di essa sono pezzi di un puzzle la cui figura già esiste nei suoi contorni fondamentali, sebbene essa rimanga per molti versi plastica e ambigua. Tuttavia questa descrizione è ancora troppo semplice. Dobbiamo fare attenzione a un importante rivolgimento, uno sdoppiamento circolare che possiamo osservare in molte testimonianze di ferventi seguaci di diverse teorie del complotto. Molti sottolineano che il primo passo non è la credenza, ma lo scetticismo. Di norma tutto inizia con il disincanto: le persone vengono a conoscenza di alcune teorie del complotto e sono molto scettiche in proposito, spesso trovandole assurde. Eppure qualcosa di esse (a volte la loro “assurdità”) attrae la loro attenzione a sufficienza per spingerli a volerne sapere di più, a svolgere alcune ricerche – spesso con un disincanto affascinato – tuffandosi nella lettura di siti e letteratura correlati, il che li conduce alla “tana del bianconiglio”. In questo processo, lo scetticismo e il disincanto vengono gradualmente sostituiti da una fervente Credenza nel sapere così ottenuto, una Fede che è tanto più assoluta in quanto vi si giunge a dispetto dello scetticismo originario e basandosi sulla ricerca e sullo stabilimento delle giuste connessioni. Lo scetticismo che troviamo all’origine di praticamente tutte le teorie del complotto è la condizione di tutte le vere fedi. Questo scetticismo non riguarda però solo le versioni ufficiali degli eventi e le autorità ufficiali, ma è anche uno scetticismo che concerne la stessa teoria del complotto: esso costituisce la condizione essenziale e il primo passo verso la credenza assoluta. Da questo punto di vista le teorie del complotto sono molto prossime alla configurazione del sapere dell’inconscio, «sapere che non conosce se stesso», che Lacan mette in relazione con gli enigmi. È come se, fin dall’inizio, i loro supporters sapessero senza sapere. Ciò che li attrae immediatamente in una teoria del complotto, a dispetto del loro scetticismo, è in fondo che, in un certo senso (inconsciamente), essi già sanno. O, come ha scritto Peter Klepec seguendo una strada diversa: «potremmo dire che la fermezza della loro convinzione o credenza sgorghi da ciò che è inconscio, nel senso psicoanalitico del termine»8. Le credenze la cui correttezza viene stabilita e garantita da noi stessi, personalmente, e che sono fortificate al livello 8 Peter Klepec, Kaj spregleda “teorija zarote”?, «Časopis za kritiko znanosti», 266, 2016, p. 68 [traduzione nostra].
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dell’inconscio, rappresentano credenze di tipo particolare: e l’investimento collettivo in esse è qui particolarmente forte, il che fa del dubbio il principale carburante della certezza. L’attitudine (più o meno paranoide, anche se non sempre ingiustificata) secondo la quale non possiamo credere a niente e a nessuno e possiamo contare solo su noi stessi, inizia così a funzionare, attraverso un rovesciamento dialettico, come condizione interna e pilastro di una credenza cieca e inamovibile nelle cose più incredibili e bizzarre. Possiamo davvero meravigliarci di come persone che non credono ai media, alle autorità, alle prove scientifiche – persone che, in sintesi, guardano a ogni segmento della verità ufficiale con estremo scetticismo – credano immediatamente che gli alieni stiano rapendo gli umani, che la terra sia piatta, che George Soros comandi un traffico di bambini, che il COVID-19 non esista… La lista è molto molto lunga e molto pittoresca. Più bizzarra è l’idea, più appare credibile: la credibilità attuale di una teoria è inversamente proporzionale alla credibilità che le si può spontaneamente attribuire. Tutto ciò non è così sorprendente, dal momento che la spontaneità non è altro, in questa prospettiva, che il pregiudizio sistematicamente prodotto dai media. Ciò che spontaneamente, automaticamente crediamo è dunque quasi certamente sbagliato o, come avrebbe detto Althusser, è un marchio dell’ideologia. Eppure, ciò che è diverso da ogni tipo di critica althusseriana è questa ulteriore mossa delle teorie del complotto, la mossa per cui ogni elemento di bizzarria e incredulità diventa come tale immediatamente un criterio di verità, la prova degli assunti della teoria. 4. Il godi-senso (enjoy-meant) Abbiamo lasciato da parte in precedenza il fatto che le teorie del complotto comportano una forte carica libidinale: il problema del godimento. In conclusione tentiamo di abbozzare brevemente la logica di questa componente. Un elemento di eccessivo godimento appare spesso nelle teorie del complotto come istigatore o esca: qualcosa che cattura subito l’attenzione. Un esempio tipico di questo tipo di esca eccessiva e fantasmatica è il dirottamento da parte di QAnon dell’hashtag #SaveTheChildren. E vi sono molti altri aspetti in cui si osserva questo surplus di godimento del grande Altro manipolatore
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di QAnon. I supporters di QAnon credono, tra le altre cose, che una congrega di Democratici adoratori di Satana, celebrità di Hollywood e miliardari9 girino per il mondo intenti alla pedofilia, al traffico di esseri umani, e alla produzione di una sostanza chimica – ottenuta da sangue di bambini maltrattati – in grado di allungare la vita. Oltre a quest’ultimo motivo, che è un tradizionale luogo comune antisemita, l’antisemitismo è al lavoro già nell’ipotesi iniziale. L’idea di una setta onnipotente al comando del mondo deriva direttamente dai Protocolli del Savi di Sion, un documento falso che espone la trama di un complotto giudaico finalizzato al controllo del mondo diffuso nel Ventesimo secolo per giustificare l’antisemitismo. L’altro come luogo in cui sono proiettate le fantasie più diverse, godimenti bizzarri ed eccessivi, è qualcosa che troviamo in tutte le teorie del complotto. Eppure la sua presenza non è in tutte uguale e non “interpella” i seguaci nello stesso modo. Possiamo dire che, sebbene le teorie del complotto incorporino il luogo strutturale dell’Altro che indulge in alcuni “impossibili godimenti”, che ci sta derubando del nostro godimento o sta godendo a nostre spese e, con il suo godimento, incarna la quintessenza dell’Alterità rispetto a noi, esso non è ciò che definisce primariamente le teorie del complotto. Le nozioni di godimento derubato (dall’Altro), così come il tratto di Alterità del protagonista di questo godimento, costituiscono una categoria più generale o una struttura fantasmatica10, la quale può essere rintracciata, ad esempio, in tutti i razzismi e, ovviamente, al centro dell’antisemitismo. Dunque, dobbiamo forse rovesciare la prospettiva e dire: il significato e la presenza del godimento dell’Altro in una teoria del complotto è proporzionale al ruolo e al significato che hanno in essa il razzismo, l’antisemitismo, il sentimento di minaccia da parte degli Stranieri. Nelle teorie come, ad esempio, il terrapiattismo o in quelle del falso allunaggio, questa componente è presente a un livello più basso o lasciata alla psicologia individuale del seguace. Eppure, questo non significa che il livello del godimento sia assente: significa che dobbia9
Questi alcuni dei nomi ricorrenti: Hillary Clinton, Barack Obama, George Soros, Bill Gates, Tom Hanks, Oprah Winfrey, Chrissy Teigen e Papa Francesco. 10 Per un’analisi di questi problemi si veda Mladen Dolar, The subject supposed to enjoy, introduzione a Alain Grosrichard, The Sultan’s court: European fantasies of the East, Verso, London-New York 1998, pp. ix-xxvii.
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mo guardare altrove. Davvero, c’è qualcosa che possiamo trovare in ogni teoria del complotto e che è intimamente connesso al godimento – connesso a ciò che Lacan chiamava joui-sens (un gioco di parole con jouissance [godimento]), il godi-senso, il godimento del significato. Molti hanno già notato che le teorie del complotto sono una sorta di macchine ermeneutiche – potremmo chiamarle “giochi di significato” [meaning games], per parafrasare il titolo Hunger games. Una delle regole fondamentali di questi “giochi” è che tutto ciò che avviene ha un significato, non esistono coincidenze o contingenze. Tutto ciò che avviene necessita di un’interpretazione che conduce a un Significato autentico. Con Lacan giungiamo a una, forse sorprendente, connessione tra questa produzione di significati e il godimento. Qui n’en a le sens avec le joui? Dice Lacan in uno dei suoi famosi giochi di parole – «chi non “fa” senso [sens] con il godimento [joui]?»11. La frase è difficile da tradurre, ma possiamo dire così: chi non fa (produce, genera) significato con piacere, chi non gode producendo senso/significato? In questione non è solo il godimento del significato, il piacere tratto dal produrre/riconoscere il significato, ma anche l’atto del produrre, generare, “fare” senso del godimento, far sì che esso “significhi” qualcosa. Una tra le forze motrici fondamentali delle teorie del complotto può essere identificata precisamente nella produzione di senso del godimento, jouissance – e ciò nonostante il fatto che come godimento esso sia privo di significato, non abbia alcuno scopo, non abbia alcun senso e ci colpisca in quanto superfluo (come qualcosa di cui non c’è bisogno). Ripeto: il vettore punta qui simultaneamente in entrambe le direzioni, dal godimento al significato (l’interpretazione come dotazione di senso e uso di qualcosa che appare privo di significato e inutile) e dal significato al godimento (godere nel produrre significato). In questa prospettiva, la presunzione complottista del “non ci sono coincidenze” può essere vista come un altro modo per dire “non c’è godimento”, ossia, come segnalazione di una repressione del godimento nella sua mancanza di significato, nella sua inutilità. Per quanto ne sanno i teorici del complotto, non ci sono coincidenze, 11 Jacques Lacan, Telévision, Seuil, Paris 1974; tr. it. di G. Contri, Radiofonia, televisione, Einaudi, Torino 1982, p. 16.
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né contingenze, e di conseguenza nessun godimento – non per loro, almeno. Ogni momento di godimento (che certo non manca) viene immediatamente trasformato in un significato, alimenta la macchina ermeneutica e oltrepassa la ricerca della verità come elemento guida dell’interpretazione. Da questo punto di vista le teorie del complotto sono come industrie manifatturiere del godimento, manifatture nel senso di “processi produttivi a partire da materiale grezzo”. È un’industria del godimento che si fonda in larga parte sull’inconscio (sul lavoro dell’inconscio) inconscio. Eppure, il godimento così trasformato in significato non smette mai di ripresentarsi: si ripresenta nel godimento della “produzione di senso”, nel godimento del significato. E questo genera il bisogno di altre teorie (del complotto). In questo modo le teorie del complotto sono chiuse nel loro circolo vizioso in quanto non sono mai in grado di chiuderlo definitivamente – dal momento che continua a riversarsi al suo interno, assieme alla familiarità del significato, uno strano, eterogeneo, elemento di godimento. (Tr. it. dall'inglese di Francesco Marchesi)
Monografica Pensare in rapporto all’evento
La filosofia e l’attualità: oltre l’evento? Étienne Balibar
Doch die Verhältnisse, sie sind nicht so! Brecht, L’opera da tre soldi
Inizierò col raccontare un aneddoto di cui, in un certo senso, questa conferenza sarà il seguito a lungo differito1. L’aneddoto si riferisce a un fatto accaduto nell’autunno del 1967, al mio ritorno da un soggiorno di due anni in Algeria come assistente all’Università di Algeri, nell’ambito della “cooperazione militare”; mi ero ritrovato a Parigi in un ambiente morale, politico, intellettuale notevolmente cambiato dai tempi del “marxismo strutturalista”. Una parte degli allievi di Louis Althusser, tra cui alcuni miei cari amici, aveva rotto con la sua concezione “teoricista” della filosofia, che ritenevano indissociabile da posizioni riformiste e revisioniste in politica, e avevano deciso di darsi non alla lotta rivoluzionaria armata, come in Germania o in Italia (anche se a un certo punto il problema si è posto), ma all’impresa di un movimento rivoluzionario di base, ispirato all’esempio maoista, che corrispondeva a un nuovo tentativo storico di “stabilire” gli intellettuali tra gli operai, sui loro luoghi di vita e di lavoro2. Rompendo – in alcuni casi in modo doloroso – con il “maestro”, essi riannodavano legami di collaborazione con Sartre, Foucault e altri. Io facevo parte di quelli che, a distanza, erano stati messi di fronte a un dilemma e che alla fine avevano scelto la via tradizionalista. Così, quando rincontrai Robert Linhart, uno dei capi del movimento 1
Intervento presentato il 10 giugno 2003 all’École normale supérieure, nell’ambito del ciclo di conferenze inaugurali del CIEPFC (Centre international d’études de la philosophie française contemporaine). 2 Cfr. Robert Linhart, L’Établi, Minuit, Paris 1978; Virginie Linhart, Volontaires pour l’usine: vies d’établis, 1967‑1977, Seuil, Paris 1994.
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maoista e uno degli intellettuali più brillanti della nostra generazione, venne il momento non proprio di regolare i nostri conti (non ne avevamo mai avuti), ma di discutere i nostri argomenti, andando in fondo alle cose. E Robert, alla fine, mi fece questa domanda: «tu stai dalla parte dell’autonomia “relativa” della pratica teorica, della sua irriducibilità ai bisogni della lotta politica, che noi riassumiamo nella parola d’ordine “servire il popolo”; bene! Ma chi dà ordini al teorico?». Avrebbe potuto dire: chi pone i problemi teorici? O, in modo più anonimo: da dove vengono, da dove provengono i problemi teorici che richiedono lo sforzo del pensiero in un certo momento, o da sempre? Come sono costituiti in problemi? “Cadono dal cielo”, come diceva ironicamente Mao, o salgono dalla terra? E come riflettere queste modalità del loro sorgere nel modo in cui vengono trattati? Invece Robert dava alla sua interrogazione una forma al tempo stesso più personale e più speculativa, che conteneva implicitamente un paradosso: ingiungeva in un certo senso (cosa che era anche un modo di risolvere la questione) alla filosofia di riconoscere un padrone (il sovrano, o, meglio, il sovrano del sovrano, cioè il popolo) oppure di assumere l’incertezza radicale, l’ignoranza costitutiva della propria arché, cioè dei suoi inizi e dei suoi fini. A questa domanda devo senz’altro aver risposto qualcosa del genere: questa domanda è essa stessa teorica, ecc. A dire il vero, ho dimenticato la mia risposta, che sarà stata dilatoria, un modo di dire che non volevo rinunciare al mio genere di vita, bios theoretikos a malapena modernizzato. Ma non ho mai dimenticato la domanda, ed ecco perché, ancora senza una risposta, sono qui stasera. Uno dei modi possibili di risolvere l’aporia del “chi dà ordini al filosofo?”, che coinvolge tutta la nostra concezione dell’attività filosofica, è evidentemente quello di esporsi, il più spesso possibile e senza restrizioni di competenza, senza immunità garantita, a ordini, interrogazioni, richieste di teorizzazione di cui non si scelgono i termini, anche se si tenta, a posteriori, di problematizzarli. Si tratta di lasciare che altri soggetti, altre istanze determinino ciò di cui vi si ritiene, a torto o a ragione, capaci di discutere, e, almeno in una certa misura, lasciarli scegliere per voi il linguaggio stesso della questione. È quel che è successo e che, ancora una volta, mi porta qui. Pur avendo già tutte le buone ragioni per voler partecipare a questo ciclo di conferenze, ne ho aggiunta un’altra: mi si imponeva la formulazione
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della questione: la filosofia e l’attualità. Nell’aver accettato – stavo per dire: nella fretta di averlo fatto – ha sicuramente molto giocato il fatto che mi sembrava di udirvi di nuovo la domanda per la quale non ho mai avuto una risposta, ma la cui assenza di risposta non ha mai smesso di preoccuparmi. Rispetto a questa formulazione, che quindi non ho scelto io, mi prenderò subito una libertà (ed è possibile che questa libertà metta in gioco tutto il seguito), quella di aggiungere un termine supplementare: evento. Completo dunque la questione in questa forma: “La filosofia e l’attualità: oltre l’evento?”. E in questo “oltre” vorrei che si sentisse al tempo stesso una distanza rispetto alla categoria di evento, a un certo insistere sui suoi significati e i suoi poteri nel discorso della filosofia francese contemporanea, e un riconoscimento della sua funzione strategica, inevitabile. Da una parte, vorrei tratteggiare una critica di quel che mi arrischierò a chiamare «evenemenzialismo» [événementialisme], nel modo in cui si è parlato di esistenzialismo, storicismo, strutturalismo, mostrando in particolare che la sua possibilità e perfino le sue realizzazioni in sistemi singolari sono prescritte dal rapporto dialettico che esso ha sin dall’inizio con i suoi contrari – cosa che costituisce anche un limite per la capacità del pensiero dell’evento di fare esso stesso “evento” , cioè rottura, novità assoluta, cambiamento di problematica. Nonostante la scelta delle parole comporti evidentemente una parte di convenzione e imponga anche delle connotazioni di cui non siamo del tutto padroni, riprendo qui il termine «attualità» per tentare di designare il supplemento di evenemenzialità [événementialité] che strapperebbe l’evento alla sua funzione di semplice variante nella storia della metafisica del tempo. Dall’altra, tuttavia, vorrei confermare e approfondire l’idea – che soggiace anche, mi sembra, a molti tentativi filosofici contemporanei, ognuno secondo la propria modalità e per i propri fini, compresi quelli politici – per cui una riflessione autentica sul rapporto della filosofia con l’attualità (nel doppio senso comune di questo termine: immediatezza di una “situazione”, fatticità delle “condizioni” o delle “circostanze” e passaggio all’atto, alla realizzazione, quindi all’efficacia o all’effettività della pratica) può svilupparsi in modo rigoroso solo se inizia da una riflessione sull’evento e sull’evenemenzialità, e forse se si limita, di fatto, a tentare di costituirne completamente la categoria e di enunciarne i problemi. È in questo gioco sull’unità e lo
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scarto dei due termini di evento e di attualità, o delle questioni che essi designano, che spero di tratteggiare una risposta alla questione di sapere cosa “comanda” la pratica e gli orientamenti dei filosofi e, quindi, almeno in principio, “chi” li comanda o dà loro ordini, anche quando questo “chi” non è attribuibile a nessun altro che a loro stessi. La decisione, ha scritto Jacques Derrida, è sempre decisione dell’altro. * In questo percorso, necessariamente molto schematico, procederò in due tempi. Per iniziare, ricorderò alcuni dei tratti da cui si può riconoscere che la filosofia del XX secolo ha operato una sorta di “svolta evenemenziale”, che l’ha condotta non solo a confermare la grande equivalenza del problema dell’essere e del problema del tempo, della questione ontologica e della questione della storicità (certo, con le sue dissidenze), ma anche a installare nella storicità una problematica trascendentale dell’evento, che è anche una problematica dell’evento trascendentale, al posto di una problematica del divenire, della trasformazione, del processo; in modo più sottile, a fare dell’evento trascendentale la condizione di possibilità di un pensiero del divenire e del processo stessi. È inevitabile che questa presentazione richiami delle questioni sollevate dal confronto tra ciò che ci viene da Hegel e ciò che ci viene da Heidegger: dal primo la teleologia del “metodo assoluto” e del processo “senza soggetto”, che costituisce la forma di autorealizzazione e quindi di temporalizzazione dell’Idea; dal secondo la fatticità dell’evento/avvento (Ereignis), inseparabile dalla modalità di un “Esserci” insuperabile, di un «aver luogo» interpretato come una donazione senza donatore (es gibt). Proverò a mostrare che la rottura “evenemenziale” con il punto di vista della processualità dialettica è ancora comandata da simmetrie come Essere e Nulla, divenire ed eternità, continuità e discontinuità, determinazione e indeterminazione, rappresentazione e non rappresentabile, ecc. In un certo senso, essa si limita a sviluppare le possibilità inscritte nella metafisica del tempo, anche quando rovescia le questioni che ha dovuto rimuovere o negare. Tuttavia, essa fa emergere anche una domanda senza risposta prestabilita, quella della resistenza “paradossale” del soggetto alla propria decostruzione, o alla decostruzione della sua
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opposizione con l’oggetto, che costituisce in un certo senso l’orizzonte di tutte le filosofie “evenemenzialiste”. Passerò poi all’esame di due discorsi molto particolari, per molti aspetti incompatibili, e che tuttavia hanno avuto in comune – in un passato recente – il fatto di praticare il rapporto tra problematiche dell’evento e problematiche della soggettività nella modalità del “paradosso” discorsivo, in cui essi stessi si sono investiti. Hanno tentato, di conseguenza, di costituirne l’attualità non tanto sul modo della definizione, descrizione o fondazione, quanto su quello dell’effettuazione e della scrittura. Sto parlando di Althusser e Foucault, e più precisamente di due testi, o di due serie di testi, che si situano in posizione autocritica all’interno del loro discorso, ma in entrambi i casi lo fanno per il tramite, per la deviazione del commento di un autore classico: il Kant dell’opuscolo Was ist Aufklärung?, al quale Foucault non ha mai smesso di tornare negli ultimi anni della sua vita, per proiettare, in letture successive degli stessi passi, la definizione del suo obiettivo “critico”; e il Machiavelli del Principe, cui Althusser, in un piccolo libro postumo che è forse il suo gran libro, chiede di “spiegargli” (e di spiegarci) cosa significa, in fin dei conti, agire politicamente nello spazio dell’ideologia. L’accostamento di questi due discorsi sarà facilitato dal fatto che recentemente Judith Butler, nel suo libro La vita psichica del potere, ha molto giustamente messo in luce, grazie alla categoria di «contraddizione performativa», una similitudine formale tra i modi in cui Foucault e Althusser trattano il paradosso evenemenziale3. La nozione di attualità, almeno secondo un certo uso che ne possiamo fare, appare quindi non come un altro nome dell’evento, ma come l’indice discorsivo della modalità con cui la filosofia può provare non tanto a “pensare l’evento” in quanto tale, quanto a scrivere “in rapporto all’evento”, in una modalità obliqua, essa stessa evenemenziale, che mette in gioco il differenziale del soggetto e dell’oggetto o, se vogliamo, della passività e dell’attività. Vorrei innanzitutto suggerire che la filosofia contemporanea è stata teatro di una “svolta evenemenziale” che ha evidentemente la stessa importanza del famoso linguistic turn (e che in fin dei conti non avviene in modo indipendente da esso). Può essere utile, per indivi3
Judith Butler, The Psychic Life of Power: Theories in Subjection, Stanford University Press, Stanford 1997; tr. it. e cura di F. Zappino, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto, Mimesis, Milano-Udine 2013.
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duarne alcune caratteristiche, basarsi sul modo in cui Hegel pensa di poter “compiere” la rivoluzione trascendentale kantiana, facendo del procedere del tempo che genera il proprio contenuto “concreto”, o se vogliamo del processo, non solo la condizione di possibilità della nostra rappresentazione dei fenomeni, ma la sostanza o l’essere stesso della loro manifestazione, ciò per cui essi si danno al pensiero nella forma dell’intelligibile e delle sue determinazioni sensibili. In questo senso, si dirà che la svolta evenemenziale, in qualsiasi momento si sia prodotta, è innanzitutto individuabile come anti-hegelismo – cosa che implicherà inevitabilmente una connivenza molto profonda con alcuni aspetti dell’hegelismo, e un’analogia con altri aspetti del movimento generale di messa in questione della dialettica, o di critica delle strutture della dialettica nella filosofia contemporanea. È possibile che questo punto di vista sia troppo limitato, e immagino che ci siano altri modi di individuare la svolta evenemenziale, da altri punti di partenza, ad esempio dalla filosofia analitica, dagli spunti venuti da Hume, che mette in opera la categoria di evento per operare la dissociazione delle azioni e delle cause4, o dall’orientamento del “pragmatismo” verso una teoria generale degli «atti di parola», che conferiscono o sospendono l’identità dei locutori. Devo confessare, però, di non avere la competenza per affrontare le cose da questa prospettiva. Mi accontenterò quindi di un punto di vista “continentale” e, da questa prospettiva, mi sembra si possa dire che la dialettica hegeliana è al tempo stesso una filosofia del divenire e una filosofia dell’evento, che essa chiama “momento” o “figura”; ma, in questa unità di contrari, essa lavora sistematicamente ed esplicitamente a ricondurre l’evento al primato del processo, a farne precisamente un momento del processo. È proprio in questa operazione che la dialettica ha la possibilità di definirsi e di porsi come il movimento dell’essere concreto e di superare le astrazioni di un punto di vista formale sulla temporalità, in cui questa non è altro che una forma soggettiva giustapposta allo spazio. Hegel non smette mai di pensare il processo nel linguaggio della vita, anche se questa (nell’ultima sezione della Logica) è descritta come una delle figure, ancora parziale, determinata, e non “assoluta”, della realizzazione dell’Idea: cosa che si può anche esprimere 4
Si pensi a Donald Davidson, Essays on Actions and Events: Philosophical Essays Volume 1, Oxford University Press, Oxford 2001; tr. it. di R. Brigati, Azioni ed eventi, a cura di E. Picardi, il Mulino, Bologna 2000.
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dicendo che il concetto di processo è colto al meglio dall’idea di una vita che sa se stessa5. Il processo, quindi, non può lasciare fuori di sé l’evenemenzialità: al contrario, da una parte deve renderne conto, e al limite generarla come un momento della propria realizzazione (ad esempio come transizione, cambiamento qualitativo, figura individualizzata dell’esperienza) e dall’altra deve ridurne l’eterogeneità persistente, in particolare nella forma della contingenza, della particolarità, dell’esteriorità irriducibile al concetto, la cui esistenza è il tempo. Sappiamo che questa operazione è presa molto da lontano in Hegel, all’interno della “natura”, che è logicamente l’ambito in cui si effettua il superamento della spazialità da parte della temporalità, la conversione delle determinazioni spaziali in determinazioni temporali, o la cui disposizione spaziale è assegnata dalla loro temporalità propria. Sappiamo anche che essa comporta una difficoltà intrinseca, che Hegel non ha remore ad ammettere, ma di cui fa anche il punto di partenza della sua sistematizzazione finale: c’è una sorta di “resistenza” della particolarità alla necessità del processo, omologa a una resistenza della dispersione spaziale all’interiorizzazione temporale, che si manifesta, ad esempio, nella Filosofia del diritto e nella Filosofia della storia, nell’ammissione che “tutti gli eventi” non possono essere integralmente dedotti dal procedere dell’Idea. La storia comporta un margine di incertezza e di contingenza, di cui si dilettano i politici e i giornalisti, ma che diventa anche la ragione principale per cui il processo, in quanto temporalità dello spirito oggettivo, storico o istituzionale, non può costituire la figura ultima della realizzazione dello spirito. Bisogna passare a una figura “assoluta”, in cui l’evento in quanto tale è annullato, perché coincide con la singolarità stessa del tutto, del movimento eterno dello spirito che produce se stesso. Vorrei sottolineare due questioni, anche se dovrò argomentarle in modo troppo rapido. In primo luogo, questo movimento hegeliano d’assolutizzazione del concetto di processo non costituisce una confutazione o ricusazione del punto di vista trascendentale, anche 5
George Wilhelm Friedrich Hegel, Wissenschaft der Logik, 1812, III, Die subjektive Logik oder die Lehre vom Begriff, II.3.1, Erstes Kapitel: Das Leben; tr. it. di A. Moni e C. Cesa, Scienza della logica, Laterza, Roma-Bari 2001. Si vedano le profonde considerazioni di Gérard Lebrun, La Patience du concept. Essai sur le discours hégélien, Gallimard, Paris 1972, pp. 361 sgg.
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se si presenta come critica di un trascendentalismo che gli sembra formale. Al contrario, ci deve apparire come un compimento, o almeno come uno dei compimenti possibili, del movimento trascendentale nella storia della filosofia moderna, cioè della costituzione della filosofia in teoria delle condizioni di possibilità dell’esperienza, compimento nel quale – ma forse è anche questo che porta alla crisi e al rovesciamento – le condizioni devono essere messe in evidenza nell’esperienza stessa, nel e attraverso il movimento che porta l’esperienza ai suoi limiti. In secondo luogo, il punto di partenza di questa costituzione – ciò che chiamerei costituzione del processo trascendentale, o istituzione del processo come figura ultima del trascendentale oltre le disgiunzioni analitiche kantiane in forme sensibili e forme intellettuali – consiste, a quanto pare, nella riunione di due operazioni speculative. Una è quella che permette di pensare, a partire dal processo, sia il processo stesso, sia il suo contrario, essenzialmente individuato dalle caratteristiche della finitudine, della fugacità, e dello scarto tra la certezza e la verità, o del “per sé” e dell’“in sé”, che possiamo chiamare coscienza, nel linguaggio della Fenomenologia dello spirito. Sono queste le caratteristiche che devono essere “superate” nel processo e attraverso di esso, ovvero il movimento di manifestazione e di risoluzione delle loro contraddizioni. Per completare il superamento dell’esteriorità spaziale o dell’oggetto nell’interiorità determinata del tempo, bisogna procedere anche a un superamento della coscienza o del soggetto in un’interiorità assoluta, o interiorità senza soggetto. L’altra operazione consiste, di conseguenza, nel conferire alla categoria di «processo» le caratteristiche di ciò che Foucault chiama (ma qui non fa che seguire da vicino il linguaggio di Kant) l’«allotropo [doublet] empirico-trascendentale»6. Nella filosofia hegeliana il processo dialettico è essenzialmente ciò che esiste al tempo stesso come manifestazione empirica e come manifestazione speculativa, o pura, cioè trascendentale, come condizione di possibilità di ciò che differisce da esso7. La processualità dialettica deve 6 «L’uomo, nell’analitica della finitudine, è uno strano allotropo [doublet] empiricotrascendentale» (Michel Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Gallimard, Paris 1966, p. 329; tr. it. di E. A. Panaitescu, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1998, p. 343). 7 Al posto di «manifestazione», si può anche dire, nel linguaggio della Logica, «proposizione». Cfr. Jean Hyppolite, Logique et existence, PUF, Paris 1953 pp. 167 sgg.; tr. it.
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rendere conto dei propri ostacoli, ritardi, interruzioni, deve farne altrettante occasioni di verifica, in fin dei conti, della propria potenza irresistibile, che è quella dell’assoluto. L’assoluto non è onnipotente se non perché indefinitamente differito. La contingenza deve essere giustificata in permanenza, che vuol dire che deve essere ridotta in un processo. Ma per questo bisogna che in realtà ci siano due tipi di «processo», che siano inseriti l’uno nell’altro o che formino una sorta di «chiasmo»: processi empirici, osservabili o rappresentabili, quindi immersi nella contingenza, ad esempio la contingenza delle istituzioni storiche, e il processo trascendentale stesso, che coincide con il procedere necessario dello spirito. La tesi che vorrei sottoporre ora alla discussione è la seguente: quel che colpisce nel movimento che ho chiamato sommariamente rovesciamento evenemenziale, è che vi si ritrova in un certo modo la stessa caratteristica formale (cosa che ci può aiutare a capire che c’è più che mai qualcosa di formale nella critica hegeliana del formalismo), ovvero il raddoppiamento empirico-trascendentale, che prenderà la forma di una tensione tra l’evento empirico – sono tentato di dire “volgare” – e l’evento trascendentale, cioè l’evento autentico, o pensato secondo la sua essenza propria, il solo che appunto permette di pensare la storicità, cioè di rendere conto di se stesso e del proprio contrario, all’occorrenza del processo, o più verosimilmente dell’apparenza del processo, dell’illusione del processo, che può essere anche in certi casi la possibilità del divenire (penso in particolare alle formulazioni notevoli di Deleuze sulla «differenziazione della differenza» come essenza del virtuale8). L’evento trascendentale è quello e cura di S. Palazzo, Logica ed esistenza. Saggio sulla logica di Hegel, Bompiani, Milano 2017, pp. 447 sgg. Sull’importanza, come filo conduttore dall’idealismo trascendentale alla fenomenologia, dell’idea dell’identità dell’identico e del differente (che riprende il motivo eracliteo dell’hen diapheron heauto), cfr. Françoise Dastur, Philosophie et Différence, Les Éditions de la Trasparence, Chatou 2004. 8 Gilles Deleuze, Différence et répétition, PUF, Paris 1968, in particolare pp. 269 sgg.; tr. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, il Mulino, Bologna 1971, pp. 336 sgg. Capisco di cosa si tratti solo grazie al commento di François Zourabichvili, Deleuze. Une philosophie de l’événement, ripubblicato in François Zourabichvili, Anne Sauvagnargues, Paola Marrati, La philosophie de Deleuze, PUF, Paris 2004, p. 78 (La multiplicité: différence et répétition). Sulla difficoltà che l’idea di una “concezione volgare del tempo” e la sua attribuzione a Hegel comporta, cfr. Jacques Derrida, Les fins de l’homme, in Marges de la philosophie, Les Éditions de Minuit, Paris 1972; tr. it. di M. Iofrida, Fini dell’uomo, in Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997 [e ora il corso tenuto da Derrida nel 1964-
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che si manifesta con quelle caratteristiche che Hegel aveva considerato il residuo dello spirito, al rischio di non esaurirne mai la resistenza: la contingenza radicale, l’assenza di senso o di funzione teleologica, il carattere fondamentalmente non rappresentabile. Heidegger insiste particolarmente su questo punto, sottolineando (in Tempo e Essere, nel 1962) che questa è una caratteristica abissale, refrattaria alla designazione dell’evento (o dell’evento-avvento, insieme appropriante e disappropriante: Ereignis) come fondamento del senso della metafisica. Mi assumo però il rischio di suggerire che questo non esclude affatto di assegnare all’evento una posizione “ultima” né che possa essere designato come condizione di possibilità a partire dalla quale le opposizioni tradizionali, continuità e discontinuità, determinazione e indeterminazione, si lasciano porre e relativizzare. Che mi si capisca: non voglio suggerire che il rovesciamento evenemenziale sia una semplice sostituzione o inversione verbale di un termine con l’altro, né suggerire che, in modo indistinto, le filosofie dell’evento (caratteristica forse ancora più decisiva di quella di “filosofie della differenza”, in ogni caso necessaria all’intelligibilità di quest’ultima formula), trasferiscano caratteristiche dell’Idea ultima o dell’assoluto sulla nozione di evento. Al contrario, intendo suggerire che per noi, ormai, il senso stesso (e la potenza) dell’idea del trascendentale è diventato indissociabile dalla sua “migrazione” dal primato del processo al primato dell’evento, quindi dalla promozione delle categorie della rottura, della contingenza non deducibile da una causalità o da una finalità, o eccedente rispetto alle proprie “condizioni”, dell’irreversibilità, come correlato dell’imprevedibilità, della fatticità come nucleo di realtà irriducibile alla rappresentazione e alla regolarità di una legge o di un racconto, e dei modi straordinariamente vari in cui queste nozioni possono essere interpretate e sviluppate fenomenologicamente. Anche in questo caso il riferimento a Hegel è utile, perché permette di indicare una serie di problemi inerenti all’evenemenzialismo, che rendono conto della sua straordinaria produttività filosofica. 1965 all’ENS – stesso anno in cui Althusser e i suoi allievi si dedicavano a Lire le Capital, ma senza nessuna comunicazione –, Heidegger: la question de l’Être et l’histoire. Cours de l’ENS-Ulm 1964-1965, éd. établie par Th. Dutoit avec le concours de M. Derrida, Galilée, Paris 2013. Nota del 2019].
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C’è innanzitutto questo fatto su cui, giustamente, Jean Hyppolite insisteva nei suoi corsi, vale a dire, che le radici dell’evenemenzialismo risiedono nelle diverse modalità secondo cui nel corso del XIX secolo la rappresentazione hegeliana del processo assoluto è stata radicalmente rimessa in questione da Kierkegaard, da Nietzsche e da Marx. Certo, non è la stessa cosa porre il primato dell’evento nella figura del momento dell’angoscia in cui, in Kierkegaard, si dà in modo radicalmente soggettivo il sentimento della “possibilità della libertà”, che mette in comunicazione l’individuo singolare (irriducibile al “genere”, all’“umanità”) con l’enigma dell’eternità da cui dipende l’autenticità della sua esistenza, il suo “rapporto di sé a sé”; o porre il primato dell’evento nella figura dell’«eterno ritorno» nietzscheano, che coincide con l’arresto del corso del tempo in cui, se seguiamo il commento di Deleuze (Nietzsche et la philosophie, 1962), ciò che si afferma è la potenza di selezione del divenire, delle forze della vita, mai riducibili alla rappresentazione di una norma o di una legge di regolarità, sempre capaci di differire da se stesse o di produrre la propria trasmutazione. Il caso più delicato è indubbiamente quello di Marx: non è mai chiaro se la sua debba essere pensata come filosofia del processo trascendentale o come filosofia dell’evento trascendentale, non solo a causa della pregnanza di una dialettica della fine della storia, di un tentativo di fare del divenire storico il movimento stesso della realizzazione dell’assoluto o della risoluzione delle contraddizioni che formano il “motore della storia”, ma soprattutto a causa del fatto che la figura più chiara con cui Marx pensa la contingenza o l’indeterminazione dell’evento (Althusser dice: la sua «surdeterminazione») consiste nello scarto materiale tra il processo storico e le sue rappresentazioni ideologiche (descritte in modo drammatico a proposito della rivoluzione francese e delle sue ripetizioni nel XIX secolo), quindi nella forma di un’illusione trascendentale che bisognerebbe dissipare per accedere all’irriducibilità delle contraddizioni, alla loro efficacia evenemenziale. Da un altro punto di vista, l’inclusione di Marx tra i precursori della svolta evenemenziale è necessaria, se si vuole mettere pienamente in luce il tratto a partire dal quale, forse, si può comprendere la costituzione trascendentale dell’evento come principio di intelligibilità della storia, negativo, critico o difettivo che esso sia: mi riferisco all’idea della «ripetizione» come condizione di
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possibilità del divenire stesso. In Marx (Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte) l’idea della ripetizione include chiaramente il simulacro9. È questa inclusione a far sì che, a seconda che si pensi la costituzione trascendentale dell’evento in cui – conformemente alle indicazioni di Heidegger – l’esteriorità reciproca delle dimensioni del tempo deve essere negata o superata, la “dimensione” fenomenologicamente privilegiata possa essere il passato come rottura irreversibile, l’avvenire come ciò che resta e resterà sempre ancora in riserva o in attesa, o il presente come ciò che include allo stesso tempo la differenza virtuale. In tutti i casi, però, va messo in conto un elemento di simulacro, di finzione o di illusione, che impedisce di trattare la potenza dell’evento come una garanzia, e che rovina in qualche modo dall’interno ogni possibilità di farne il punto di partenza di una nuova teleologia. Avendo fatto ancora riferimento a Heidegger, cioè alla concezione dell’Ereignis esposta in particolare in Tempo e Essere del 1962, vorrei concludere questo primo punto con un nuovo cortocircuito con Hegel. Quel che penso, per dirlo nei termini più semplici (se non semplificatori) possibili, è che tutte le filosofie contemporanee del primato dell’evento, sia che privilegino fenomenologicamente l’a-venire (come nel caso di Derrida, in un dibattito costante con il messianismo), sia che privilegino invece fenomenologicamente il passato (come nel caso di Badiou, in un dibattito costante con l’idea di rivelazione), sia che privilegino fenomenologicamente il presente (come nel caso di Deleuze, in un dibattito costante con l’idea di creazione), procedono indubbiamente nel modo in cui Heidegger ha descritto l’Ereignis come un «ritrarsi dell’Essere» nella sua manifestazione stessa, cosa che conferisce appunto al “c’è” o “es gibt” la doppia dimensione empirico-trascendentale di cui ho parlato10. 9
È il motivo per cui Deleuze, che oppone pensiero nietzscheano della ripetizione e pensiero platonico del simulacro (Différence et répétition cit., pp. 165 sgg.; tr. it. cit., pp. 105 sgg.), non fa spazio – a questo livello – a Marx, che, a quanto pare, è con Platone dal lato della «visione morale del mondo» (tutt’altra cosa, certo, nelle opere scritte in collaborazione con Guattari). Le figure della ripetizione nel 18 Brumaio di Marx sono state commentate in particolare da Paul-Laurent Assoun, Marx et la répétition historique, PUF, Paris 1978, e da Christine Buci-Glucksmann, Déconstruction et critique marxiste de la philosophie, «La Quinzaine littéraire», 211, 1975. 10 L’espressione ripetuta da Heidegger in Tempo e Essere: «Die Zeit ist nicht, es gibt Zeit», con il gioco di parole che comporta, è intraducibile in francese (cfr. Question IV, Gallimard, Paris 1976, p. 35: «Le temps n’est pas, il y a temps»; «si dà tempo», tr. it. di
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Tuttavia, se ne distanziano anche, o scoprono che c’è in questa enunciazione qualcosa di insostenibile, tanto più insostenibile in quanto essa si dà anche come un’enunciazione della verità. Quel che è insostenibile – mi arrischierei a caratterizzarlo come un elemento di nichilismo – credo verta proprio sul trattamento di ciò che la tradizione, in particolare hegeliana, chiamava il «soggetto». Le filosofie contemporanee dell’evento sono chiaramente delle critiche radicali della metafisica della soggettività, e a questo titolo intraprendono sistematicamente la rovina dell’immenso privilegio – che si potrebbe chiamare anche una «sovranità» – conferito al soggetto dalla filosofia classica: quello di figurare per natura ai due lati dell’allotropo [doublet] empirico-trascendentale, dal lato della contingenza e dal lato della necessità, dal lato della finitudine e dal lato dell’assoluto o dei suoi sostituti logici, o anche dal lato della passività e dal lato dell’attività. Heidegger è forse il più radicale di tutti i distruttori del soggetto, e non solo di tutti gli antiumanisti, nella misura in cui la «donazione» evenemenziale dell’essere e della verità, espressa dalla formula “es gibt”, o “c’è”, non lascia, a rigor di termini, nessuna “traccia” di soggettività – o, se ne lascia, è altrove, nelle opinioni e prese di posizione ideologiche del rettore di Friburgo, trasformatosi successivamente in eremita della Foresta Nera… In altri termini, ogni tensione di attività e di passività è radicalmente abolita nel pensiero dell’evento, e si passa senza soluzione di continuità da un pathos della decisione a una poetica dell’abbandono, del «lasciar essere», in cui l’evento apre apparentemente solo all’invarianza: non alla critica dell’idea di processo o di teleologia, ma alla sua abolizione. Questa situazione è, chiaramente, il contraccolpo del fatto che, in Hegel, la soggettività fosse diventata lo strumento della teleologia del processo, fosse essenzialmente localizzata nel punto della “mediazione”, della “negazione” che forma la condizione di possibilità preliminare di una negazione della negazione, cioè di una riduzione della contingenza e dell’evenemenzialità al ruolo di semplice momento di un processo orientato e continuo. Tuttavia, si potrebbe suggerire che la filosofia contemporanea dell’evento sia una reazione sia contro Heidegger che contro Hegel: essa tenta allo stesso tempo di liberare la E. Mazzarella, Tempo ed essere, Guida, Napoli 1991, p. 105). Si veda anche Françoise Dastur, Heidegger et la question du temps, PUF, Paris 1990, p. 113.
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potenza, l’indeterminazione, l’irriducibilità dell’evento dallo schema teleologico del processo e dei suoi momenti successivi o costitutivi, e di pensare nell’evento o per mezzo di una fenomenologia dell’evento, un’altra modalità della soggettività: direi una soggettività senza soggetto sostanziale, che connota nella loro generalità ed eterogeneità tutte le differenze dell’attività e della passività, o dell’affermazione e della negazione, di cui la soggettività è più l’effetto che la causa, e che sono altamente rilevanti per l’etica, se non per la politica11. Passo allora alla seconda parte, e lo farò cortocircuitando ancora una volta un’indicazione di Hegel con una suggestione – a mio parere molto chiarificatrice – che si può trarre dal recente libro di Judith Butler. Si tratta ora di capire in che modo si possa “attualizzare” il pensiero dell’evento, o pensare filosoficamente l’evento come attualità12. Ricordiamoci che Hegel ha incontrato questo problema, in particolare nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, e secondo modalità enunciative particolarmente interessanti per la nostra discussione. Hegel si trova di fronte alla difficoltà di riassumere un sapere che non può risultare che dal suo sviluppo ancora a venire, o anche più semplicemente alla difficoltà di designarne l’oggetto. Riconosce che questa presentazione è a rigor di termini impossibile, ma anche che essa è “necessaria”, di una necessità eterogenea alla logica stessa dello sviluppo dello spirito, e che sono tentato di designare come politica in senso ampio13. Questa necessità deriva dall’esistenza di una 11 In questo senso, per quanto irriducibili esse siano al “positivismo” o al “teoricismo” che segnavano la coscienza di sé dello strutturalismo, le problematiche dell’evento condividono con esso un orientamento fondamentale, che rovescia la questione della «soggettività costituente» nella questione della «costituzione del soggetto» o della «soggettivazione». Si veda il mio articolo Le structuralisme: une destitution du sujet?, «Revue de métaphysique et de morale», 1, 2005, numero spécial Repenser les structures. 12 Non mi posso servire, a contrappunto dell’«evenemenzialismo», del termine «attualismo», perché serve già a designare una grande filosofia del XX secolo, l’«attualismo» (o filosofia dello spirito come atto puro) di Giovanni Gentile, spesso considerata in modo semplificatore come una variante dell’“hegelismo italiano”, ma che è piuttosto una filosofia della praxis originale (cfr. André Tosel, Marx en Italiques. Aux origines de la philosophie italienne contemporaine, T.E.R., Mauvezin 1991), la cui influenza è ben viva oggi (Antonio Negri). «Attualismo», nel senso di applicazione retroattiva degli schemi di causalità osservabili nel presente, è anche un concetto proprio della geologia, al quale le discussioni recenti sull’antropocene conferiscono un supplemento di attualità epistemologica. 13 Saremmo tentati di accostare, a questo proposito, lo statuto della Prefazione della Fenomenologia a quello degli scolii dell’Etica di Spinoza, che Deleuze interpreta come la traccia di un secondo libro che raddoppia il primo, non dimostrativo e ostensivo, ma
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resistenza, se non di un simulacro di filosofia dell’Assoluto, e al limite dall’esistenza contingente di una voce che bisogna far tacere, al rischio di distorcere il senso dell’autopresentazione delle figure dello spirito: quella di Schelling. Questa voce è l’altro del processo dialettico, che non può essere recuperato in nessun momento come una figura del suo sviluppo, dato che ne invaliderebbe la necessità. La “soluzione” trovata da Hegel consiste nell’affermazione di una certa attualità del proprio discorso, ma questa attualità è straordinariamente paradossale: essa finisce per “negare” in modo fittizio l’evenemenzialità, a meno che non vi si possa leggere anche, in modo sintomatico, una presentazione della filosofia come discorso di finzione. Essa consiste, lo sappiamo, nel sostenere che il filosofo è colui che si installa in anticipo nella situazione della nottola di Minerva, che anticipa il dopo, cioè che pensa in pieno giorno come se stesse già facendo notte. Assumendo il paradosso di enunciare in anticipo che il suo discorso si tiene già al termine del divenire dello spirito, ne contempla il risultato, e proclama lui stesso che il suo tempo era venuto. Come si vede, questa modalità paradossale dell’enunciazione non torna in modo puro e semplice a una tesi metafisica della «fine della storia», ma piuttosto – cosa in un certo senso molto più rischiosa – a una decisione del filosofo sulla propria “attualità” o sulla sua contemporaneità con l’attualità del proprio discorso. Vorrei suggerire che tutta una parte della filosofia contemporanea – e in questo vedo non la confutazione, ma la complicazione della tematica dell’evento trascendentale, in legame diretto con la traccia di soggettività oltre il processo – non ha smesso di approfondire questo paradosso e di provare a problematizzarne i termini. Riprendo di proposito la terminologia di Foucault, che del resto cita Hegel, anche se si situa nel solco di Kant, come rappresentante tipico di quel movimento della modernità che porta i filosofi a chiedersi, a chiederci “ciò che siamo” (e ciò che diveniamo), cercando di caratterizzare i tratti della “nostra epoca”. Judith Butler ha fatto di un paradosso dello stesso genere il punto di partenza della sua analisi ne La struttura psichica del potere14, da poco tradotto in francese, e lo ha fatto accostando in modo sorpolemico e politico. La Prefazione sarebbe come uno “scolio preliminare”, anche se è possibile, sostituendo quello che si sa dell’ordine della scrittura all’ordine dell’esposizione, interpretarlo come una «transizione» dalla Fenomenologia alla Logica. 14 Butler, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto cit.
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prendente Foucault e Althusser. Quel che Butler identifica, non come una debolezza o un difetto, ma come l’oggetto stesso delle imprese filosofiche di Foucault sul potere e di Althusser sull’ideologia, è un “paradosso” pragmatico, o se vogliamo performativo. Foucault e Althusser sono costretti a parlare del «soggetto» o della «soggettivazione» – di cui studiano le condizioni di possibilità, uno in rapporto al potere, che lo identifica e normalizza le sue condotte, l’altro in rapporto all’ideologia, che lo interpella e gli assegna le sue forme di buona e di cattiva coscienza – al tempo stesso come di un risultato e come di un presupposto. Più esattamente, sono costretti, nel loro discorso stesso, che diventa per questo anfibologico, a designare come «soggetto» preesistente nel senso di suppositum (o come «individuo» da interpellare, sostituto del soggetto ancora mancante) ciò che, al tempo stesso, essi concepiscono come una «forma» o una «funzione» del sistema delle relazioni sociali. Ne deriva una difficoltà, almeno apparente, che assume in Foucault la forma dell’affermazione ambivalente (si pensi ad esempio al celebre testo Il soggetto e il potere) che fa della «soggettivazione» al tempo stesso, o alternativamente, l’altro dell’assoggettamento, la sua «liberazione», e la forma privilegiata dell’assoggettamento perpetuo, la liberazione che non si dà che nelle condizioni di un nuovo assoggettamento (ma niente dice che tutti gli assoggettamenti si equivalgano…)15. In Althusser, nel testo sugli 15 Ci si riferirà qui al testo di Foucault, Le sujet et le pouvoir, pubblicato prima (in inglese) in Hubert L. Dreyfus, Paul Rabinow, Michel Foucault. Beyond Structuralism and Hermeneutics, University of Chicago Press, Chicago 1982 (tradotto in francese nel 1984) con l’indicazione «due saggi sul soggetto e il potere», poi ripubblicato nei Dits et écrits, IV, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, pp. 222-243. Nell’attesa di lumi che potrebbero venire dalla pubblicazione dei corsi al Collège de France che ancora oggi mancano, credo (in ragione del contenuto) che si tratti di note personali legate al lavoro di Foucault sulla governamentalità, la resistenza, le relazioni di potere nella seconda metà degli anni Settanta – e che di conseguenza hanno, al momento della pubblicazione, un significato retrospettivo più che prospettivo (Foucault sta riorientando il suo insegnamento e le sue ricerche intorno all’ermeneutica del soggetto e alla cura di sé (che, evidentemente, non costituiscono in modo puro e semplice un abbandono dei temi precedenti). Gli sviluppi iniziali (intorno alla formula: «è un tipo di potere che trasforma gli individui in soggetti. Ci sono due significati della parola “soggetto”», seguita da una tipologia di «lotte», Dits et écrits cit., IV, p. 227; tr. it. di D. Benati, M. Bertani, F. Gori, I. Levrini, Il soggetto e il potere, in H.L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analisi della verità e storia del presente, La Casa Usher, Firenze 2010, p. 283) non lasciano alcun dubbio sul fatto che si tratti anche di una reazione alle ipotesi di Althusser sull’“interpellazione degli
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Appareils idéologiques d’État, essa prende la forma di una circolarità eticamente e politicamente angosciante, per non dire nichilista: la sottomissione volontaria o la coscienza del divieto come condizione di esistenza e di individualità, precede sempre già il gesto, o il rituale, con cui l’individuo riconosce l’interpellazione che lo costituisce – a meno che non si debba dire che questa descrizione ha a che vedere solo con i giochi di specchio dell’immaginario, che significa che la genesi del soggetto si svolge interamente nel campo della propria illusione, e che in questo senso è insuperabile16. Ma possiamo anche dire che questa ambivalenza, o circolarità, costituisca precisamente una caratteristica dell’evenemenzialità in quanto tale – evenemenzialità dell’assoggettamento, evenemenzialità dell’interpellazione – almeno in questo: che essa trasgredisce la regolarità e la normalità della descrizione di un processo che lasciava al teorico e al filosofo la possibilità fittizia di riposizionarsi all’origine, allo stato di “natura”, o alla fine, nel regno della libertà e della verità. Tralasciando
individui in soggetti” assicurata dagli apparati ideologici di Stato, pubblicate per la prima volta nel 1970. Si trova così delineata una costellazione di discorsi e tendenze politiche che costituisce anche, a modo suo, un’«attualità». Questo punto è giustamente notato da Guillaume Le Blanc, La pensée Foucault, Ellipses, Paris 2006, pp. 68 sgg. 16 Il testo di Althusser Idéologie et appareils idéologiques d’État, oggi considerato come uno dei più importanti dell’autore, e tipico delle elaborazioni del «momento filosofico» francese degli anni 60-70, ha uno statuto molto strano: inizialmente pubblicato nella rivista «La Pensée», 151, 1970, è stato ripubblicato nella raccolta Positions, Éditions Sociales, Paris 1976, pp. 67-125; tr. it. di S. Ginzberg, Ideologia e apparati ideologici di Stato, in Freud e Lacan, a cura di C. Mancina, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 65-123. Si trattava di “frammenti” di un manoscritto incompiuto, intitolato De la superstructure: droit, État, idéologie, interrotto nella sua redazione da una delle depressioni di Althusser, e mai ripreso. Per segnare questo carattere discontinuo dell’esposizione, Althusser aveva inserito, all’inizio, alla fine e nel testo, delle linee tratteggiate, che sono completamente scomparse nelle ripubblicazioni postume, in particolare in quella di Jacques Bidet (in appendice al volume Sur la reproduction, PUF, Paris 1995, che contiene il manoscritto “completo” da cui proviene l’articolo) e in quella di Yves Vargas (nel volume Penser Louis Althusser, Le Temps des Cerises, Montreuil 2006), che raccoglie una parte degli articoli pubblicati da Althusser nella rivista «La pensée» tra il 1964 e il 1975). Ciò che viene così cancellato, non è solo un segno di circostanza, ma l’indice delle “mancanze” e delle “aporie” che l’argomentazione del testo comporta e che rimandano direttamente alle circostanze della sua scrittura. Il senso e le ragioni dei suoi effetti storici sono quindi del tutto falsati. Ho sostenuto (in un seminario al Collège International de Philosophie) che il luogo delle discontinuità deve essere preso come punto di appoggio per capire in che senso il manoscritto Machiavel et nous (anch’esso incompiuto) ne costituisca la ripresa e, per certi aspetti, la rettificazione.
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la “soluzione” che Butler17 stessa tenta di dare al paradosso, vorrei partire da questo accostamento per esaminare in parallelo i testi in cui Foucault e Althusser hanno elaborato praticamente, se non teorizzato in generale, una forma dell’attualità come oggetto e obiettivo specifico della filosofia. Del resto, facendo un passo in più rispetto ai commenti di Butler, credo si possa sostenere che lo schema del “ritorno del soggetto sulle proprie condizioni di possibilità” (che Butler chiama «tropologico»), o dell’implicazione “evenemenziale” del soggetto nella situazione stessa che gli presenta il suo “oggetto”, costringa la scrittura filosofica a una specie di contraddizione performativa, comune a Foucault e Althusser. In un caso e nell’altro, questa aiuta a comprendere in cosa l’attività di scrittura filosofica costituisca una sorta di spostamento del “cerchio” dell’assoggettamento, una forma di distanziamento rispetto allo schema della ripetizione pura e semplice. Quindi, in un certo senso, un modo, per quanto limitato perché puramente discorsivo, di prevenire la riduzione dell’evento alla necessità. Notiamo che Foucault e Althusser usano entrambi il linguaggio dell’«attualità». Nel suo libro postumo Machiavel et nous (tornerò su questo “noi”, talvolta simile in modo sorprendente al “noi” di Foucault), Althusser scrive: «Ho voluto riflettere su questo enigma […]. Su questa presenza sempre attuale nonostante i secoli, come se Machiavelli, dalla sua campagna […] fosse da sempre, arrivato tra noi, e ci parlasse» (in modo sorprendente e inafferrabile)18. E più avanti: «Machiavelli, in effetti, non parla a Hegel al passato […] gli “parla” al presente: precisamente della situazione politica della Germania […]. L’attualità di Machiavelli per Hegel [e più generalmente per tutti i suoi lettori, quali noi siamo] è di aver avuto l’audacia di porre e di trattare il problema politico […] della costituzione di uno 17 Nonostante sia particolarmente interessante, perché fa intervenire l’idea di un’indeterminazione originaria dell’io, sullo sfondo della quale si disegnano delle possibilità di «gioco» nell’assoggettamento o nell’interpellazione degli individui in soggetti («interpellazione» e «controinterpellazione», o, come diceva Michel Pêcheux, produzione in una stessa struttura d’assoggettamento del «buon soggetto» e del «cattivo soggetto»). 18 La prima edizione (postuma) del testo di Louis Althusser è compresa nel volume I degli Écrits philosophiques et politiques, Stock/IMEC, Paris 1994 (ivi, p. 43). In seguito è stato oggetto di un’edizione separata: Louis Althusser, Machiavel et nous, suivi de deux essais par François Matheron, Prefazione di Étienne Balibar, Taillandier, Paris 2009; tr. it. di M.T. Ricci, Machiavelli e noi, manifestolibri, Roma 1999.
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Stato […]» (vale a dire, tesi che Althusser svilupperà più avanti, il problema dell’inizio delle istituzioni o dei processi di trasformazione storici, che è l’enigma della politica)19. Foucault, invece, nelle diverse varianti della sua conferenza sul testo di Kant Was ist Aufklärung? (che era stato oggetto di una lezione nel 1982-1983), insiste costantemente sul fatto che l’“oggetto” della domanda di Kant (che è anche, in un certo senso, un non-oggetto, un oggetto non-esistente, non categorizzabile) è l’«attualità»: Ora, Kant pone la questione della Aufklärung in un modo affatto diverso [rispetto ai suoi contemporanei, ad esempio Mendelssohn]: né come età del mondo a cui si appartiene, né come un evento di cui si percepiscono i segni, né come l’aurora di un compimento. Kant definisce la Aufklärung in modo quasi interamente negativo, come una Ausgang, un’“uscita”, un “esito”. Negli altri suoi testi sulla storia, capita che Kant ponga delle questioni d’origine o che definisca la finalità interna di un processo storico. Nel testo sulla Aufklärung la questione riguarda la pura attualità. Egli non cerca di comprendere il presente a partire da una totalità o da un compimento futuro. Cerca una differenza: qual è la differenza che l’oggi introduce rispetto a ieri?20
O anche: L’ipotesi che vorrei proporre è che questo breve testo si trova, in qualche modo, a cavallo fra la riflessione critica e la riflessione sulla storia. È una riflessione di Kant sull’attualità della sua impresa. Probabilmente, non è la prima 19
Ivi, p. 49; tr. it. cit., p. 23. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières?, in Dits et écrits cit., IV, p. 564; tr. it. di S. Loriga, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio 3. Interventi, colloqui, interviste. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di Alessandro Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 218-219. Non entro ora nella questione delle riscritture, da parte di Foucault, in varie occasioni, della sua analisi dell’opuscolo di Kant. Essa è oggetto di diversi studi (tra cui quello, notevole, di Rudy M. Leonelli, nella sua tesi su Foucault généalogiste, stratège et dialecticien. De l’histoire critique au diagnostic du présent, discussa nel 2007 all’Université Paris X-Nanterre; tr. it. Illuminismo e critica. Foucault interprete di Kant, Quodlibet, Macerata 2017. Diciamo solo che c’è, in fin dei conti, una strana analogia tra la sorte di questa analisi in quanto «isolabile» dalle ricerche di cui faceva parte o in cui è stata inserita (ad esempio il Corso del 1982-1983 Le gouvernement de soi et des autres, Gallimard/Seuil, Paris 2008; tr. it. di M. Galzigna, Il governo di sé e degli altri, Feltrinelli, Milano 2009), in cui precede, senza introdurlo, il “ritorno” alla questione della parrhesia nei Greci, e la sorte, in parte imposta ad Althusser dalle circostanze, del suo testo su Les appareils idéologiques d’État, diffuso e commentato ovunque, fuori dal manoscritto incompiuto e inedito da cui era stato tratto. 20
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volta che un filosofo spiega le ragioni che lo spingono a iniziare la sua opera in questo o quel momento. Ma mi sembra che sia la prima volta che un filosofo collega in modo così stretto, e dall’interno, il significato della sua opera in rapporto alla conoscenza con una riflessione sulla storia e un’analisi particolare del momento singolare in cui scrive e a causa del quale scrive. Mi sembra che la novità di questo testo consista nella riflessione sull’“oggi” come differenza nella storia e come motivo per un compito filosofico particolare. E, da questo punto di vista, mi sembra che si possa riconoscere in esso un punto di partenza: l’abbozzo di ciò che potremmo chiamare l’atteggiamento moderno21.
E infine (ma ci sarebbero ancora molte altre citazioni possibili): Mi sembra che si veda apparire, nel testo di Kant, la questione del presente come evento filosofico cui appartiene il filosofo che ne parla. Se si vuole considerare la filosofia come una forma di pratica discorsiva che ha la propria storia, mi sembra che con questo testo sull’Aufklärung si veda la filosofia […] problematizzare per la prima volta la propria attualità discorsiva: attualità che essa interroga come evento, come un evento di cui deve dire il senso, il valore, la singolarità filosofica e in cui deve trovare sia la propria ragion d’essere, sia il fondamento di ciò che essa dice. […] È questo noi [«un insieme culturale caratteristico della propria attualità», uno Zeitgeist che non sarebbe un Volksgeist] che sta diventando per il filosofo l’oggetto della propria riflessione; e in questo modo si afferma l’impossibilità di fare economia dell’interrogazione, da parte del filosofo, della propria appartenenza singolare a questo noi. […] Qual è la mia attualità? Qual è il senso di questa attualità? E cosa faccio quando parlo di questa attualità? Mi sembra che in questo consista questa interrogazione nuova sulla modernità22.
Non si tratta di sovrapporre in modo puro e semplice questi testi gli uni agli altri, di identificarli e di ridurre i loro discorsi a una “dottrina” unica. Si tratta piuttosto di identificare il loro “tropo” comune e che dà appunto senso a questo riferimento insistente all’attualità: attualità dell’evento, evento dell’attualità. Nei due casi, storico e discorsivo al tempo stesso. Notiamo innanzitutto la presenza della contraddizione performativa o del paradosso dell’enunciazione da cui siamo partiti. Essa è clamorosa in Foucault nell’uso insistente, che accompagna questo testo e tutte le allusioni ad esso che troviamo nei Dits et écrits, 21 22
Foucault, Qu’est-ce que les Lumières?, in Dits et écrits cit., IV, p. 568; tr. it. cit., p. 222. Foucault, Qu’est ce que les Lumière? II, in Dits et écrits cit., IV, pp. 680-681.
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della strana espressione «ontologia di ciò che noi siamo», «ontologia critica [o storica] di noi stessi», di cui si è servito anche altre volte, dettagliandola in più “campi” di studio (la verità, il potere, la cura di sé) per caratterizzare il proprio orientamento filosofico. Ci sono, naturalmente degli echi di formulazioni precedenti: Kant stesso, Nietzsche, Heidegger e la questione del «chi» sostituita alla questione del «cosa», dell’essenza. Ma c’è soprattutto l’enunciazione difficile (logicamente «inconsistente») del fatto che, per il filosofo, la «situazione» in cui pensa è essa stessa il suo «oggetto» principale, e che la sua “appartenenza” alla situazione ne fa essa stessa parte: non tanto perché ne dipende, e quindi potrebbe immaginare anche la possibilità di distaccarsene, ma in quanto – circolarmente – l’efficacia del suo proprio discorso contribuisce, o contribuirà, ipoteticamente a trasformarla, a liberarne le virtualità, a orientarla in un senso anziché un altro, quindi a conferirle un certo senso23. C’è qui una circolarità che è altro dallo scetticismo, o dal relativismo, ma che ci si può arrischiare a designare come la forma stessa dell’investimento della pratica, o della critica, nella teoria più speculativa. Ora, ritroviamo l’analogo nel testo di Althusser: anche lui si serve di un «noi», già presente nel titolo, e ripreso nel corso del testo: «Machiavelli si impadronisce di noi. Ma se per caso ci volessimo impadronire di lui, egli ci sfugge: inafferrabile»24 e alla fine: Ma siamo allora davanti a una forma di pensiero eccezionale. Da un lato condizioni definite con estrema precisione, dallo stato generale della congiuntura italiana fino alle forme dell’incontro tra la Fortuna e la virtù e alle esigenze della pratica politica; dall’altro l’indecisione totale riguardo al luogo e al soggetto della pratica politica. Ciò che colpisce è che Machiavelli tiene con fermezza i due estremi della catena, insomma egli pensa e pone questo scarto teorico, questa specie di contraddizione, senza voler proporre nel pensiero, sotto forma di una nozione o di un sogno, una riduzione o una soluzione teorica qualunque. Questo pensiero dello scarto è legato al fatto che Machiavelli non solo pone, ma pensa politicamente il suo problema, cioè come una contraddizione 23
Si potrebbe dire che Foucault e Althusser riprendano qui il problema che era stato posto da Sartre in Qu’est-ce que la littérature?, in Situations, II, Gallimard, Paris 1951; tr. it. di D. Tarizzo, G. Tarizzo, A. Mattioli, G. Monicelii, M. Mauri, L. Arano Cogliati, Che cos’è la letteratura?, il Saggiatore, Milano 1995. Tuttavia, in Sartre l’articolazione del discorso all’interno del campo di forze costitutivo della situazione passava attraverso l’istanza del soggetto o dell’individualità psico-sociologica. 24 Althusser, Machiavel et nous cit., p. 43; tr. it. cit., p. 16.
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nella realtà che non può essere tolta dal pensiero, ma dalla realtà, ovvero dal sorgere necessario ma imprevedibile, non assegnabile in un luogo, un tempo, una persona, delle forme concrete dell’incontro politico di cui sono definite solo le condizioni generali. Viene così fatto posto, in questa teoria che pensa e mantiene lo scarto, alla pratica politica, le viene fatto posto da questa disposizione di nozioni teoriche divise, dallo spostamento tra il definito e l’indefinito, il necessario e l’imprevedibile. Questo spostamento pensato e risolto dal pensiero è la presenza della storia e della pratica politica nella teoria stessa25.
Lascio da parte le osservazioni critiche che si potrebbero fare a proposito di questo testo, in particolare la questione che potremmo porci di sapere se il termine «concreto», «concreta» non sia una tautologia (anche se, di nuovo, questa tautologia può essere interpretata nel registro dell’effetto di scrittura performativo. È «concreta» la caratterizzazione di una situazione in cui è possibile inserirsi con il pensiero in modo da liberare il gioco delle sue «forze» attive e reattive, cioè problematizzare in modo estremamente ambivalente, e tuttavia estremamente “attivo”, l’impossibilità e la necessità della sua trasformazione con il solo sviluppo delle istituzioni che la formalizzano). Tuttavia, per concludere, sottolineo due caratteristiche. In primo luogo, c’è una somiglianza sorprendente tra le strategie di scrittura (e quindi di riflessione) di Foucault e Althusser: in modo manifesto entrambi hanno bisogno, per pensare il proprio problema in quanto problema filosofico, o il proprio problema politico come filosofico, o il loro problema filosofico nella sua determinazione politica, di metterlo a distanza nella figura di un modello, un Exemplar: Kant, Machiavelli. Ma il processo di mise en abîme, che tratta in un certo modo la contraddizione performativa, o la sposta, permette anche di porre la nozione di attualità al punto di incrocio di una certa situazione storica, di un certo insieme di condizioni determinate (sottoposte al “processo” del loro sorgere e della loro trasformazione) e di una certa atemporalità o trans-temporalità: di una certa ripetizione evenemenziale che è al tempo stesso, per definizione, variazione continua o riproduzione incessante di singolarità storiche. Questa mise en abîme non si ferma quindi all’omologia tra la situazione del filosofo Althusser e del teorico-stratega (o, se vogliamo, dell’anti-filosofo) Machiavelli, o tra la situazione del filosofo-archeologo-genealogista 25
Ivi, pp. 133-134; tr. it. cit., pp. 131-132.
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Foucault e del filosofo critico Kant. In entrambi i casi essa comporta anche un ulteriore, terzo livello, che non abbiamo motivo di supporre sia l’ultimo. Da un lato è il modello cui si ispira Machiavelli (o che forgia per ispirarsene): la politica del “Principe” Cesare Borgia, da cui trae le lezioni decisive sulla “paura senza odio”, cioè sulla possibilità di utilizzare l’ideologia stessa dei governati, degli “uomini della storia”, per far loro produrre la situazione che contraddice i loro fini di riproduzione e di conservazione sociale. Dall’altro, è l’insieme in cui Kant prova a inserirsi per conferirgli la coscienza critica di sé, necessaria al compimento dei suoi obiettivi: “l’Illuminismo”, o, più esattamente (ma ne è il nucleo attivo), l’intellettualità dell’Illuminismo, suscettibile di concludere con il Principe (diciamo, in modo più generale, con l’istituzione, con la società organizzata) un “contratto” che bilanci (e quindi metta in movimento) l’equilibrio dell’obbedienza e della critica, o dell’uso pubblico e libero della ragione, ciò che altrove Foucault chiamerà, secondo il modello greco, il «dire il vero», la parrhesia26. Però, da un altro lato i due testi tirano in direzioni molto diverse. A prima vista molto diverse… Sembra, letteralmente, che il movimento di scrittura che investe l’intervento o lo sforzo di soggettivazione del filosofo sul proprio oggetto sia orientato in senso inverso: 26 È interessante che quando, nel suo corso del 1982-1983, dopo una lunghissima deviazione, Foucault prova a far coincidere la sua lettura di Kant e le sue analisi della parrhesia, lo fa intorno alla questione platonica dell’«identità tra il modo di essere del soggetto filosofante e il modo d’essere del soggetto che pratica la politica» (Foucault, Le gouvernement de soi et des autres cit., p. 272; tr. it. cit., p. 283). Ma la questione è trattata in modo breve e possiamo dire che è realmente approfondita nelle ulteriori riscritture del commento a Kant. Più strano è il passaggio seguente, almeno se è stato trascritto correttamente: «In ogni caso, se ho iniziato con Kant il corso di quest’anno, è perché mi sembrava che il suo testo sull’Aufklärung fosse per la filosofia una certa maniera di prendere coscienza, attraverso la critica dei Lumi, di quelli che erano, nel mondo antico, i problemi tradizionali della parrhesia, problemi che riemergeranno, dunque, nel corso dei secoli XVI e XVII; problemi che sono stati elaborati coscientemente nell’Aufklärung e soprattutto nel testo di Kant sull’Aufklärung» (ivi, p. 322; tr. it. cit., p. 333). Bisogna intendere che Kant critica le posizioni dell’Aufklärung, come se fossero omogenee, o che le illustra? Un hegeliano sarebbe tentato di dire: nel testo di Kant, la contraddizione interna dell’Aufklärung viene alla luce (che è più o meno quello che dice la Fenomenologia). Più soddisfacente mi sembra l’idea che, nell’opuscolo di Kant, sia messo a punto un «dispositivo» retorico (o tropologico), che introduce la contraddizione nel discorso dell’Illuminismo, nella misura in cui pone la questione della sua attualità effettuandola e assegnandole dei limiti (l’obbedienza al Principe).
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in Foucault, tutto accade come se il progetto di Kant fosse ancora di attualità; più esattamente, si tratta di sapere in che misura questo progetto sia ancora di attualità, cioè in che misura siamo ancora “moderni” (e questa misura sicuramente non è nulla). In Althusser, che mantiene di Gramsci più di quanto voglia ammettere, tutto accade come se il progetto di Machiavelli (o il progetto immaginato da Machiavelli e proiettato su un principe a venire) fosse già d’attualità – a meno che non lo si debba intendere in modo pessimista o in ogni caso scettico: noi non siamo ancora più progrediti di Machiavelli per quanto riguarda il sapere come un «nuovo corso», un’«altra politica» possa sorgere dalle condizioni della vecchia, contro il suo processo. O piuttosto, siamo ancora (non spiaccia a Marx, a Lenin e a tutti gli altri «dirigenti-teorici» del proletariato) condannati a scrutare nei “casi” del presente gli “inizi” che sarebbero già là, e che nessuna teoria avrà il potere di forgiare o dedurre. Si potrebbe anche dire che l’inserzione retroattiva della scrittura di Foucault nell’attualità di Kant miri a individuare il significato di alcuni discorsi, mentre l’inserzione retroattiva della scrittura di Althusser nell’attualità di Machiavelli miri a individuare la risultante di alcuni rapporti di forza. È vero che appena ho formulato questo passaggio, che tenta di cogliere una sfumatura stilistica o qualitativa, diciamo una modalità di relazione all’attualità, mi sono reso conto che deve essere rovesciato o messo al contrario, perché anche i discorsi di Kant e Foucault sono delle «forze» e l’obiettivo pratico che tracciano è quello della formazione di un discorso sovrannumerario, che sarebbe quello della filosofia, che determina in un certo modo l’evoluzione del rapporto delle forze, o quantomeno tenta di determinarlo. E le forze di Machiavelli e di Althusser sono anche dei discorsi, in ogni caso delle «ideologie», secondo la terminologia che egli mantiene, e la questione che pone, o che pone praticamente la sovrapposizione dei due «soggetti» attraverso il tempo, è di sapere quale discorso, se esiste, e secondo quale modalità, potrà colmare la mancanza della forza trasformatrice27. O forse di simularla per farla esistere. È da 27
Questa modalità, dice il testo (riprendendo Gramsci), è quella di un «Manifesto», che dovrebbe però rinunciare a esprimere i fini di un movimento preesistente. Riproduco qui alcune considerazioni che ho formulato alla fine della Prefazione che ho scritto per la ripubblicazione del testo di Althusser: «Si delinea qui, tuttavia, per finire, un problema […]. Matheron lo dice chiaramente: una tale figura della politica, essenzialmente “non
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questa simmetria che bisognerebbe ripartire per tentare di far coincidere ancora l’ontologia dell’evento e la pragmatica dell’attualità, ponendo la domanda: quale topica, o topografia, conviene alla presa in carico di questa “impurità” specifica, e a mio parere specificamente filosofica, del rapporto soggetto-oggetto in quanto problema per la riflessione? (Tr. it. dal francese di Laura Cremonesi)
situabile”, radicalmente estranea (come la filosofia stessa, che forma il suo doppio) alla logica della garanzia o del fondamento, che circola al contrario in modo imprevedibile tra le congiunture e le “istanze” della congiuntura, non è quella del “marxismo”. Né quella che egli [Althusser] ha potuto costituire intorno alle questioni della lotta di classe o della presa del potere di Stato, né quella che gli mancava, intorno all’invenzione di un “partito” (di una forma di organizzazione) che, a differenza di tutti gli altri partiti, fosse essenzialmente “fuori Stato”. Non ci sarebbe qui, di per sé, nessuna difficoltà […] se Althusser non avesse insistito tanto sulla filosofia come “arma della rivoluzione”, sulla “lotta di classe nella teoria” e sulla reciprocità delle nozioni di politica (o di “nuova pratica” della politica) e di comunismo. Cosa che forse spiega la sua incapacità a “finire” il Machiavel, o il suo sentimento soggettivo che il Machiavel non fosse ancora finito, che il suo rapporto a “noi” rimanesse aporetico, fintanto che “noi” siamo in cerca di una politica comunista, e non solo di una pratica del governo dei popoli. Il libro […] non si chiama, forse, Machiavel et nous? Ora, chi è questo “noi”, se non quello che sorge altrove, come portatore di un’enunciazione e di una speranza collettive? Questo “noi” che, nella coscienza acuta delle trasformazioni irreversibili compiute dal XX secolo (con le sue catastrofi), resta più che mai contemporaneo all’“imminenza” annunciata nel Manifesto comunista già 150 anni fa? Non dico che Matheron ignori questo problema […]. Ma leggendolo si giudicherà se ha o meno la tendenza a tracciare, “se possibile”, una linea di demarcazione […] tra un Althusser machiavelliano, o che riflette in modo essenzialmente aporetico a partire da Machiavelli sulla “politica della politica” e sul suo carattere interminabile, e un Althusser comunista in cui, per ragioni psicologiche, se non religiose, la pienezza o la funzione di garanzia assegnata al partito (soprattutto se si tratta di un “partito” ideale, di cui il partito storico sarebbe solo la caricatura) conferisce di nuovo alla lotta di classe e alla sua “fine”, di cui si vuole lo strumento e l’agente, una consistenza e un valore di fondamento che ricadono nell’ontologia» (Une rencontre en Romagne, in Althusser, Machiavel et nous cit., pp. 28-29.
L’immanenza e il Politico. Per una critica della democrazia come evento Mattia Di Pierro
1. Nel 1960, nel suo Politics and Vision, Sheldon Wolin poneva l’attenzione su una tensione disgregatrice che avrebbe caratterizzato la teoria politica degli ultimi due secoli. Per il teorico americano, il pensiero politico moderno sarebbe stato attraversato dal continuo tentativo di destrutturare la dimensione del politico per trovare nell’immanenza del sociale, nella contingenza degli interessi, nei rapporti di forza, la “fondazione” tanto della teoria quanto della società1. Ridotta a una dimensione tra le altre, la politica sarebbe stata in un certo senso fagocitata dalla prepotente emersione del sociale, destinato a diventare la questione principale delle teorie posthobbesiane2. Alla politicizzazione di sfere che prima non appartenevano all’ambito politico avrebbe corrisposto una socializzazione e una frammentazione della politica, da sempre caratterizzata dalla capacità di uno sguardo generale sull’interezza della società3. In que1 «Negli ultimi due secoli la visione della teoria politica è stata una visione disgregatrice, che ha operato costantemente per distruggere l’idea che la società dovesse essere considerata come un tutto e che la sua vita fosse espressa al meglio attraverso forme politiche. L’esito di questa teorizzazione è stato quello di abbattere la tradizionale majestas dell’ordine politico. Questo obiettivo è stato raggiunto riducendo l’associazione politica a livello delle altre, mentre queste ultime venivano elevate al rango dell’ordine politico e dotate di molte delle sue caratteristiche e dei suoi valori» (Sheldon Wolin, Politics and Vision. Continuity and Innovation in Western Political Thought, Little, Brown & Co., Boston 1960; tr. it. di R. Giannetti, Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale, il Mulino, Bologna 1996, p. 631). Si veda anche ivi, p. 418. 2 Hobbes, afferma Wolin, non conosce il legame tra economia e politica e valuta ancora quest’ultima come un piano ulteriore e complessivo comprendente l’autorità, gli obblighi che gravano su chi intende far parte di un determinato sistema, l’insieme di regole comuni. Compito della filosofia era proprio quello di individuare e definire ciò che era realmente politico. Cfr. ivi, p. 416. 3 Per Wolin non si tratta quindi di un generale processo di spoliticizzazione, quanto di una ridefinizione e ricollocazione del politico, che viene frammentato e ridotto al sociale. Cfr. ivi, p. 630.
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sto quadro, Wolin tracciava una linea di continuità tra la riflessione di John Locke, le teorie liberali e l’opera di Karl Marx: tutte accumunate, a suo dire, dal medesimo tentativo di eliminare la politica come dimensione separata. La stessa propensione, sottolineava ancora il filosofo americano, sarebbe altrettanto evidente nella teoria politica contemporanea e in particolar modo nel successo delle scienze sociali4. Pur nelle differenze sicuramente riscontrabili tra i vari autori, sarebbe dunque riconoscibile un tratto comune: al piano del sociale, costruito dagli interessi e dai rapporti di forza, viene conferita una certa dose di autonomia e autosufficienza, quando non direttamente una capacità creatrice. Esso porterebbe già in sé ogni significato, ogni elemento utile per comprendere le dinamiche varie e contrastanti che sole compongono ciò che si chiama società. Se per Locke e per gli economisti classici il politico diviene sinonimo di governo, cioè di forza coercitiva necessaria e opposta al piano creativo del sociale, per Montesquieu, Tocqueville, Comte o de Maistre il senso delle istituzioni politiche può essere facilmente ridotto all’incontro di una serie di lealtà individuali5. Allo stesso modo, Adam Smith rifiuta l’esigenza di qualsiasi motore politico generale, riconoscendo piuttosto in ogni individuo un principio di movimento autosufficiente6. Non è difficile comprendere come, in questo contesto, la dimensione politica divenga una sovrastruttura, se non fuorviante e dannosa, quantomeno inutile. È la spinta degli interessi, sono i rapporti di produzione, è la capacità creativa dei singoli individui a dare forma al sociale, senza che ci sia la necessità di chiamare in causa una dimensione di senso ulteriore, alcuna struttura. D’altronde, tutti questi autori avevano giustamente riconosciuto i segni della crisi della funzione generale della politica tradizionale, della sua volontà di abbracciare e dirigere la totalità della società7. In questo senso, affermava Wolin, al tramonto della politica corrisponde l’abbandono della raffigurazione della società in quanto totalità, come un’unità che oltrepassa gli interessi dei singoli gruppi e degli individui. Una volta liberato dal politico, il sociale, costruito da interessi e spinte particolari, è piuttosto concepibile come un arcipelago in cui ogni isola, priva di affiliazio4
Ivi, p. 415. Ivi, p. 419. 6 Ivi, p. 421. 7 Ivi, p. 630. 5
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ni con un’unità più ampia, risponde a interessi ed esigenze propri8. Ogni dimensione di senso comune perde di significato ed è guardata con sospetto. Ciò che rimane è una rete di rapporti contingenti e autosufficienti che solo per la loro momentanea interdipendenza possono essere cautamente riferiti a un contesto collettivo. Non è allora difficile comprendere come, una volta superata l’illusione della politica, una volta scoperte le motivazioni “reali” soggiacenti al discorso, si apra lo spazio per l’organizzazione, ovvero per l’idea – comune tanto agli economisti liberali, quanto al Marx che prefigurava la dissoluzione dello Stato – che la società sia in grado di pianificarsi in ogni suo aspetto e che tale gestione non necessiti di alcuna sfera politica autonoma, di nessuna messa in campo di significati condivisi, ma del semplice coordinamento di interessi muti e specifici9. Di fronte a questo scenario, concludeva Wolin, compito della teoria sarebbe proprio quello di recuperare la dimensione del politico e riconsegnare agibilità a una filosofia politica. Non solo perché potrebbe risultare quantomeno utile ricordarsi di continuo come ogni descrizione implichi una valutazione10 e tenere perciò ben presente che la società è uno spazio di significato più ampio dei singoli individui e dei gruppi a cui essi appartengono; uno spazio da cui questi ultimi sono attraversati e formati. Per il filosofo americano, il recupero della politica e della filosofia politica era anche un invito a tenere alta la guardia rispetto alle possibili derive e alle risposte che proprio la frammentazione e la parcellizzazione della società avrebbero potuto provocare. Risposte che oggi potremmo definire immunitarie11 e che, per Wolin, potevano essere facilmente rintracciate in alcune teorie conservatrici dei secoli XVIII e XIX e soprattutto nelle esperienze totalitarie12. Contro queste derive, affermava il filosofo americano, 8
Ivi, p. 633. Cfr. ivi, pp. 551 sgg. 10 Cfr. ivi, p. 415. 11 Cfr. Roberto Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 2006 e Roberto Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2020. 12 I secoli XVIII e XIX sono profondamente segnati dall’industrializzazione, dalle teorie dell’organizzazione e da quel processo di frammentazione a cui si fa riferimento nel testo. Da questo contesto nacque, per Wolin, una forte esigenza di comunità che incitò le teorie di Durkheim o Weber: cfr. Wolin, Politica e visione cit., p. 527. Afferma inoltre lo stesso autore: «la sfida contemporanea è quella di riconoscere che il totalitarismo ha mostrato 9
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è necessario compiere ogni sforzo per restaurare l’arte della politica come arte volta a orientare e integrare gli individui in un senso più ampio rispetto a qualsiasi gruppo o organizzazione. Significa infine che è necessario tornare a concepire la teoria politica come quella forma di conoscenza relativa a ciò che è comune e che svolge una funzione integrativa per gli uomini: una vita di legami di appartenenza comuni. L’urgenza di questi compiti è evidente dato che il destino dell’uomo non sarà deciso ai livelli inferiori delle associazioni più piccole: è l’ordine politico a prendere le decisioni fatali per la sopravvivenza dell’uomo in un’epoca su cui incombe la possibilità di una illimitata distruzione13.
Naturalmente, per Wolin, la questione non era quella di recuperare una sorta di primato della comunità sul singolo, né di un ethos comunitario in grado di ristabilire limiti e certezze ormai anacronistici. Si trattava piuttosto di spingere la teoria a confrontarsi con le storture del modello che perseguiva da più di due secoli e di recuperare la politica come dimensione sui generis, non trascendente ma irriducibile alle altre sfere sociali e capace di interrogarsi sulla società nel suo complesso. 2. Il ragionamento proposto da Wolin può facilmente ricordare la riflessione che solo due anni prima, nel 1958, Hannah Arendt aveva consegnato alle pagine di The Human Condition14. La tesi è nota: il «mondo moderno»15 deve essere interpretato come oblio della politica contestuale all’emersione della società. La politica, in quanto sfera distinta e caratterizzata dalla pluralità, dal discorso, dalla visibilità, dall’azione – cioè dalla possibilità di iniziare una serie nuova di eventi – e perciò dalla libertà, è per Arendt andata lentamente scomparendo. Il suo terreno è stato fagocitato dalla società, caratterizzata invece dai bisogni, dalle necessità della vita e dal comportamento. L’uomo politico, che appariva sulla scena pubblica per agire, esse-
che le società reagiscono nettamente alla disintegrazione operata tramite il feticcio del gruppo e che potrebbero ricorrere a metodi ancora più estremi per riaffermare il politico in un’epoca di frammentazione. Se questo è vero, il compito delle società non totalitarie dovrebbe essere quello di temperare gli eccessi del pluralismo» (ivi, p. 636). 13 Ivi, p. 633. 14 Hannah Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago-London 1958; tr. it. di S. Finzi, Vita activa, Bompiani, Milano 2000. 15 Ivi, p. 5.
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re visto e guadagnarsi l’immortalità16, è stato sostituito dall’animal laborans rinchiuso nella soddisfazione dei suoi bisogni e nella mera perpetuazione della vita biologica. Imprigionato nella privatezza del suo corpo, egli è espulso dal «mondo», inteso come «in-fra», spazio comune della pluralità17. D’altra parte, tali elementi legati alle necessità biologiche e perfino all’economia erano per Arendt esclusi dal politico nella sua forma più pura, la quale, non per caso, deve essere rintracciata prima dell’inizio della modernità, nell’esperienza della polis greca. Qui la politica era concepita come sfera autonoma dell’azione, della pubblicità e del discorso. Essa veniva praticata nelle assemblee, tra i cittadini che ne avevano diritto e cioè tra coloro che non dovevano lavorare per vivere. L’ambito domestico dell’oikos, così come quello del lavoro e del soddisfacimento delle necessità biologiche, erano estromessi dal politico. Ne erano le condizioni di possibilità. Prendere parte alla discussione pubblica significava partecipare a un’esperienza collettiva, a un dialogo che nulla aveva a che fare con le esigenze materiali della vita, né con la sfera privata degli interessi e della famiglia. Tutto ciò che apparteneva all’economia, che era pertinente alla vita dell’individuo o della specie, era estromesso dalla politica18. Perciò coloro che non godevano dei diritti di cittadinanza, gli schiavi, le donne e i bambini, non potevano farne parte: essi provvedevano a quella sfera della necessità e del privato che rendeva la politica possibile19. Come spiega Arendt: «Il dominio della polis, al contrario, era la sfera della libertà, e se c’era relazione tra queste due sfere, il controllo delle necessità della vita nella sfera domestica era evidentemente il presuppo16
Ivi, p. 41. Ivi, p. 84. Per quanto riguarda la definizione di mondo e la sua relazione con la sfera pubblica e politica, Arendt afferma: «Il termine “pubblico” significa il mondo stesso, in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi vi occupa privatamente. Questo mondo, tuttavia, non si identifica con la terra o con la natura, come spazio limitato che fa da sfondo al movimento degli uomini e alle condizioni generali della vita organica. Esso è connesso, piuttosto, con l’elemento artificiale, il prodotto delle mani dell’uomo, come pure con i rapporti tra coloro che abitano insieme il mondo fatto dall’uomo. Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo, come ogni in-fra (in-between), mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo» (ivi, p. 39). 18 Ivi, p. 22. 19 Ivi, p. 23. 17
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sto della libertà della polis. In nessuna circostanza la politica poteva costituire solo un mezzo per proteggere la società»20. Si misura qui tutta la distanza e il capovolgimento rispetto alla prospettiva moderna. Come per Wolin, anche per Arendt l’avvento del sociale coincise con l’invasione della sfera pubblica da parte di questioni ed elementi che ne erano da sempre stati espulsi perché relegati all’ambito privato. Non è allora difficile cogliere l’inversione totale proposta da Hobbes e poi da Locke e dal liberalismo21. Con questi autori la libertà, prima elemento distintivo della sfera politica, viene a caratterizzare il campo del sociale, l’individualità, il godimento della proprietà e dei propri diritti. Solo a partire da questa base possono venire giustificate la creazione di un potere comune, con funzioni di tutela, e le sue limitazioni. Con Locke, in particolare, la proprietà privata, che nella polis greca non era che un mero presupposto per l’esercizio della politica, diviene l’elemento attorno al quale il potere politico viene concepito. Con le parole di Arendt: Quello che abbiamo chiamato l’avvento del sociale coincise storicamente con la trasformazione della cura privata per la proprietà privata in una preoccupazione pubblica. La società, quando all’inizio fece il suo ingresso nella sfera pubblica, assunse la configurazione di un’organizzazione di possidenti che, invece di reclamare l’accesso alla sfera pubblica a causa delle loro ricchezze, chiedevano a essa protezione per l’accumulazione di un’ulteriore ricchezza22.
Da questo punto di vista, l’autore più rappresentativo del percorso della modernità e dell’oblio del politico risulta essere Karl Marx. Nella sua opera emergono con straordinaria chiarezza e radicalità alcune delle direttrici chiave che definiscono il mondo moderno: l’avvento del sociale, la glorificazione del lavoro e delle necessità vitali, l’abbandono della politica in favore della mera gestione dell’esistente23. L’utopia suggerita nei suoi lavori sarebbe 20
Ibid. Ibid. 22 Ivi, p. 49. 23 Si veda in particolare il capitolo dedicato al lavoro: ivi, pp. 58 sgg. Cfr. inoltre le conferenze del 1953: Hannah Arendt, Karl Marx and the Tradition of Western Political Thought (short and long drafts), Paper, Library of Congress, Washington; tr. it. e cura di S. Forti, Karl Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale, Raffaello Cortina, Milano 2016. 21
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quella di un’umanità completamente socializzata, costituita da lavoratori incapaci di libertà e di azione e in cui non c’è più alcuno spazio per la politica24. Marx, seguendo Arendt, metterebbe così in atto un completo ribaltamento della concezione politica greca: l’uomo non è definito dalla libertà e dall’azione, ma dal lavoro e dal perseguimento delle necessità naturali. Se nella polis gli schiavi, in quanto consegnati alla sfera del lavoro e delle necessità biologiche, non erano considerati pienamente umani, nell’opera del teorico di Treviri sono gli oziosi, coloro che vivono del lavoro altrui, ad essere visti come dei parassiti non degni del riconoscimento di una piena umanità25. Anche nell’opera di Marx, all’eliminazione della politica corrisponde l’illusione di un sapere oggettivo su una società che è solo da organizzare, da gestire. Proprio come per Wolin, così per Arendt il risultato del percorso moderno di oblio del politico è l’emersione delle scienze sociali come unico strumento valido per indagare una società che è divenuta un oggetto tra gli altri. Quest’ultima si estende solo sul piano orizzontale degli interessi e dei rapporti di forza, contiene in sé i suoi significati, i quali sono oggettivi e misurabili. In essa l’azione e l’imprevedibilità dei suoi esiti sono state sostituite dal comportamento, il quale si presta alla previsione e al calcolo. La società, in altri termini, viene ridotta a un elemento biologico, a mera espressione senza voce del movimento incessante della vita, del tutto. Di conseguenza, proprio la vita diviene l’ultimo significato possibile. Non per caso, la conservazione della vita biologica assurge a unico elemento guida di questa società pienamente moderna. All’eliminazione del politico corrisponde l’innalzamento della zoé a unico significato fondamentale e fondante su cui la società può costruirsi26. Si tratta di un piano completamente immanente e incessantemente creativo, i cui significati sono sempre espressi dal «movimento» oggettivo della sua dinamica27. 24
Arendt, Vita activa cit., p. 64. Arendt, Karl Marx cit., p. 57. 26 Arendt, Vita activa cit., p. 239. 27 Quello di «movimento» è un concetto chiave per la comprensione dell’idea arendtiana di totalitarismo. A riguardo si veda almeno Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt Brace & Co., New York 1951; tr. it. di A. Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009, in particolare pp. 634-637. 25
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Ciò che, per Arendt, si delinea per il futuro immediato è quindi una società burocratica degli impiegati, la quale, dopo aver eliminato la sfera politica e la sua autonomia, ai suoi membri non richiederà altro che un «funzionamento automatico», un abbandonarsi e adagiarsi inerte a un tipo funzionale di comportamento28. La riflessione arendtiana si muove sempre su un crinale estremamente interessante, perché intensamente problematico. Al di là della lettura a dir poco netta e parziale del lavoro di Marx29, diversi interpreti hanno messo in luce le difficoltà del rapporto tra politica e società proposto anche nelle pagine di On Revolution dedicate alla questione sociale e alla rivoluzione francese30. L’autonomia estrema rivendicata per la sfera politica, infatti, confina quest’ultima in uno spazio elitario, sublimato nell’agonismo discorsivo e in cui non esiste conflitto. Una dimensione che appare davvero riduttiva di fronte alla complessità dei fenomeni politici moderni e contemporanei e al loro legame con le questioni sociali, con i processi economici31. Lasciando da parte tali difficoltà, ciò che tuttavia è interessante mettere in luce per il nostro discorso è la critica che Arendt dirige allo schiacciamento del politico sul piano sociale, che fa di quest’ultimo un dato oggettivo, quantificabile e riscontrabile attraverso un’analisi scientifica. Come Wolin, anche Arendt riflette sul fatto che il superamento della politica sia rivendicato da una società che si illude di essere padrona della sua oggettività, di essere ridotta a un elemento naturale la cui comprensione non necessita di alcuna interpretazione. Entrambi gli autori, insomma, presentano la teoria politica contemporanea come 28
Ivi, p. 240. Si veda a riguardo il giudizio di Simona Forti nella prefazione a Arendt, Karl Marx cit., pp. 7-31. 30 Cfr. Hannah Arendt, On Revolution, Viking Press, New York 1963; tr. it. di M. Magrini, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino 2009. Il dibattito intorno al rapporto tra sociale e politico in Arendt è decisamente ampio. Mi limito a segnalare il numero che la rivista «aut aut» vi ha recentemente dedicato: Hannah Arendt e la questione sociale, «aut aut», 386, 2020. 31 Questo problema si riflette sull’impostazione stessa della riflessione arendtiana. Con le parole di Simona Forti: «Si tratta innanzitutto di un’impostazione filosofica, quella arendtiana, che kantianamente si attiene ancora a una separazione netta tra il regno della natura e il regno della libertà. Nonostante il bisogno di mettere sotto accusa le categorie di quella filosofia che ha condannato all’irrilevanza la filosofia pratica, Hannah Arendt non riesce a liberarsi del tutto dal dualismo metafisico per eccellenza: quello tra corpo e spirito» (Simona Forti, Hannah Arendt lettrice di Karl Marx, in Arendt, Karl Marx cit., p. 28). 29
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votata all’accantonamento del politico attraverso il reperimento di una dimensione immanente antecedente, in cui non si dà più distinzione tra significante e significato, in cui la società, in altri termini, trova il suo fondamento e la sua realtà immediata. Mentre il politico viene percepito come una dimensione illusoria o ideologica, come oppressione, il sociale diviene il piano orizzontale, autonomo e continuamente creativo. Compito della teoria che accetta di muoversi in questa orizzontalità sarà allora quello di rintracciare gli elementi singoli, al di sotto o al di là della dimensione politica: quegli elementi che di per sé, nella loro differenziazione o continua creazione, contengono i significati a cui riferirsi per leggere correttamente la società. 3. Le teorie di Wolin e Arendt non sono del tutto sovrapponibili. Le definizioni della dimensione politica e i limiti che ad essa vengono attribuiti sono in alcuni aspetti differenti. Se per Wolin al politico attiene una certa generalità, la presa in conto delle diverse sfere che compongono il sociale, il ragionamento di Arendt ne fa una sfera autonoma e separata, i cui confini sono chiusi alla necessità e al conflitto sociale. Come detto, ciò che tuttavia mi interessa sottolineare, al di là delle discordanze, è come entrambi gli autori mettano l’accento su un medesimo problema: la riduzione del politico al piano sociale. Sia Arendt che Wolin intercettano nell’allontanamento dal politico uno degli elementi peculiari delle teorie contemporanee. Un allontanamento che si svolge in favore della scoperta di un piano prepolitico, composto di rapporti di forza, di elementi singoli e autosufficienti, di spontanea creatività, in cui il significato non si distingue dal significante, in cui non c’è bisogno di interpretazione, ma che si dà già nel suo pieno e autonomo significato, nella sua diretta esperienza. All’interno di questo ragionamento, le voci di Arendt e Wolin appaiono consonanti con quelle di una serie di autori – come Claude Lefort, Cornelius Castoriadis, Marcel Gauchet, Miguel Abensour o Marc Richir – che, durante gli anni Settanta e attraverso le riviste «Textures» e «Libre», promossero un movimento di riscoperta del politico e della filosofia politica32. Proprio l’articolo di apertura del primo numero di 32
Per un quadro di questa linea teorica e delle posizioni in gioco, cfr. almeno Warren Breckman, The Adventures of the Symbolic. Post-Marxism and Radical Democracy, Columbia University Press, New York 2013; Nicolas Poirier (sous la direction de), Cornelius Castoriadis
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«Libre», pubblicato nel 1977, risulta particolarmente utile per chiarire le questioni in gioco33. In questo saggio, Lefort intende delimitare un preciso campo teorico, e per farlo si propone di giudicare il panorama della teoria francese tra gli otto anni antecedenti e gli otto successivi agli eventi del 1968. Ciò che viene rintracciato è un elemento comune: il misconoscimento della dimensione del politico (le politique), termine con il quale il filosofo intende indicare quella dimensione generale di senso – storica e simbolica – in cui il sociale si istituisce e in cui è sempre preso. L’obiettivo dichiarato è quello di proporre una secca alternativa alle posizioni allora egemoniche: Riportare alla luce la dimensione del politico, riportare alla luce la dimensione storica: un unico compito. Il politico non designa né un insieme di istituzioni nella società, né una rete di relazioni estratta come buon oggetto da molteplici reti ugualmente propizie agli affari della scientificità. Se teniamo alla parola, nonostante la perversione del suo uso, è perché dà a pensare il tutto del sociale – non una sostanza – ma questo ambiente differenziato, aperto alla generalità della représentation e che si apre a se stesso nel lavoro della représentation, disposto in modo tale che si tratta di una questione di identità e contemporaneamente di una questione di reale al di fuori, che gli individui vi trovano i loro riferimenti identificativi e un accesso ad uno stesso reale34.
Per Lefort e per il gruppo di «Libre» parlare di istituzione politica del sociale significa affermare che quest’ultimo è sempre interpretazione di se stesso e che, proprio perché preso nella sua stessa interpretazione, non può mai cogliersi in modo oggettivo e totale. Non si tratta quindi di rivendicare una “autonomia” del politico, quanto di mettere in luce la et Claude Lefort: l’expérience démocratique, Le Bord de l’eau, Lormont 2015; Marc Chevrier, Yves Couture, Stéphane Vibert, Démocratie et modernité. La pensée politique française contemporaine, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2015. Per il ruolo giocato da queste riviste, cfr. Franck Berthot, Textures et libre (1971-1980). Une tentative de renouvellement de la philosophie politique en France, in Jean Baudouin, François Hourmant (sous la direction de), Les revues et la dynamique des ruptures, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2007, pp. 105-129; Marcel Gauchet, La condition historique, Gallimard, Paris 2008, pp. 197-220; Miguel Abensour, La communauté politique des «tous uns». Entretien avec Michel Enaudeau, Les Belles Lettres, Paris 2014; tr. it. di P. Serafini e V. Gualdi, La comunità politica. Desiderio di libertà, desiderio di utopia. Conversazioni con Michel Enaudeau, Jaca Book, Milano 2017, pp. 19-26. 33 Claude Lefort, Maintenant, «Libre», 1, 1977, pp. 3-28, ora in Le temps présent. Écrits 1945-2005, Belin, Paris 2007, pp. 275-299. 34 Ivi, p. 294 (trad. nostra). Il significato del vocabolo francese représentation unisce insieme rappresentazione e rappresentanza, perciò è stato mantenuto in francese nella traduzione.
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dimensione conflittuale e interpretativa che compone la società e tutte le sue sfere, comprese quelle economica, scientifica, filosofica35. I bersagli polemici contro cui questa teoria è indirizzata vengono chiaramente individuati. Per quanto riguarda gli otto anni antecedenti il 1968, Lefort critica anzitutto il «nuovo spirito scientifico», il successo delle scienze umane, della linguistica e della teoria dei giochi, colpevoli di attribuire all’oggetto di conoscenza la «virtù di essere sufficiente a se stesso»36. In altri termini, attraverso un certo formalismo e l’adozione del metodo scientifico si pensa di analizzare la società “dall’esterno”, come se fosse un elemento oggettivo, materiale, che possiede di per sé il proprio significato. Secondo Lefort, questo stesso formalismo sarebbe condiviso dallo strutturalismo – che sotto l’immagine della struttura nasconde la differenza fra soggetto e oggetto e imprime l’operazione di conoscenza nell’oggetto conosciuto – e dalle «voci ampollose» – anzitutto quella di Louis Althusser – che rivendicano la scientificità del marxismo37. La seconda parte del saggio prende invece in esame il dibattito teorico degli anni dal 1969 al 1976. In questo caso, l’obiettivo polemico sono le teorie del desiderio di Wilhelm Reich e Herbert Marcuse, e in particolar modo le opere di Gilles Deleuze e Michel Foucault38. Nonostante la loro propagandata critica allo strutturalismo e al metodo scientifico, sostiene Lefort, questi autori si collocano piuttosto in linea di continuità con il formalismo e l’oggettivismo moderni. Essi non riconoscono l’istituzione politica del sociale e cercano invece di scovare una dimensione antecedente in cui svanisce la differenza fra significato e significante. È questo il progetto che Lefort legge sia nell’archeologia foucaultiana, sia nel piano d’immanenza deleuziano. In entrambi i casi, il posto del pensiero, del soggetto, della classe, 35
Per un approfondimento delle tesi di Lefort e sulla teoria del politico mi permetto di rimandare a Mattia Di Pierro, L’esperienza del mondo: Claude Lefort e la fenomenologia del politico, ETS, Pisa 2020. 36 Lefort, Maintenant cit., p. 277. 37 Ivi, pp. 278-281. 38 Ivi, pp. 282-286. Nei pochi anni che vanno dal 1968 al 1977 vengono pubblicati due saggi che orientarono profondamente il dibattito dell’epoca: Michel Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; tr. it. di G. Bogliolo, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Rizzoli, Milano 2017 e Gilles Deleuze, Différence et répétition, Presses Universitaires de France, Paris 1968; tr. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997.
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dell’interpretazione viene abolito in favore di una totalità immanente che si riproduce autonomamente differenziandosi continuamente. Il sociale, in quanto discorso o esperienza, è ridotto a una serie di elementi puri che si auto-riproducono creando continuamente scarti. Eppure, agli occhi di Lefort, queste teorie che tendono a ridurre il sociale ai suoi elementi ultimi o a un piano autonomo di continua creazione e differenziazione non sono altro che ideologia, in quanto tentativo di ricucire quella distanza tra la conoscenza e l’oggetto conosciuto, tra il sociale e l’alterità che sempre lo attraversa39. Essi occultano l’istituzione politica del sociale. Con maggiore enfasi rispetto a Wolin o Arendt, dunque, Lefort e i promotori della riscoperta del politico mettono in luce come la ricerca di una dimensione prepolitica autonoma e immanente sia illusoria, sia un meccanismo ideologico. Il piano d’immanenza non permette realmente di uscire dal circolo dell’interpretazione, ma è al contrario solo il frutto di un’ennesima valutazione, di una rappresentazione, e perciò, potremmo dire, di una “scelta” politica che, però, si nega come scelta e, in questa sua negazione, diviene ideologia. 4. Giunti a questo punto, è bene esplicitare l’idea che ha guidato il discorso e la schematica ricostruzione proposta nelle pagine precedenti: lungi dall’essere un’esperienza confinata alla storia delle idee, il percorso di oblio della dimensione politica continua nella filosofia e nella teoria politica contemporanee. Non assistiamo forse ancora al persistente tentativo di scovare un piano pre-politico, immanente, autonomo, creativo o generativo40 a cui non sia necessario attribuire dei significati ma che sia di per sé politico? Non è forse tuttora ben rappresentata la volontà di rintracciare degli elementi singoli e puri – il sociale, il corpo, la voce, la vita – da cui una politica possa scaturire autonomamente, senza necessità di mediazione41? Non è questo, 39
Lefort, Maintenant cit., pp. 281-282. Cfr. Adriana Cavarero, Democrazia sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt, Raffaello Cortina, Milano 2019, p. 25. 41 Cfr. almeno Antonio Negri, Potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, SugarCo, Carnago 1992; Judith Butler, Notes Toward a Performative Theory of Assembly, Cambridge University Press, Cambridge 2015; tr. it. di F. Zappino, L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva, Nottetempo, Milano 2017; Rocco Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017; Cavarero, Democrazia sorgiva cit. 40
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almeno in parte, il senso riscontrabile nelle teorie dell’autonomia del sociale, del potere destituente, della performatività che hanno segnato una parte importante della teoria critica negli ultimi decenni e di ciò che possiamo, con una certa approssimazione, definire poststrutturalismo? Il richiamo continuo alla vita biologica come piano di realtà a cui ogni politica e ogni rappresentazione del sociale debba rendere conto ed essere in ultima analisi ricondotta non è l’ultimo tassello di quello stesso percorso individuato, benché in termini di volta in volta differenti, da Arendt, Wolin e dal gruppo di «Libre»? La tesi che vorrei discutere in conclusione è che uno dei possibili esiti di questo percorso di esclusione della dimensione del politico in favore di un piano immanente e creativo, è la riduzione della politica a evento. Presa nel continuo «movimento» creativo della vita o del sociale, la politica diviene infatti necessariamente effimera, incapace di struttura e di durata. Ancora, quando il significato è già inscritto nel significante – nell’azione, nell’incontro dei corpi, nella produzione spontanea del tutto, nella natura –, la politica emerge solo come un senso già dato e dunque momentaneo, slegato, lontano dalla riorganizzazione e risignificazione di un campo e dalla conflittualità. Questi esiti possono a mio avviso essere osservati in quelle teorie della democrazia «insorgente» o «selvaggia» che sono capaci di pensare il politico solo nella sua contrapposizione diretta ad un elemento avverso e contrappongono perciò l’evento alla forma, la politique alla police, la democrazia allo Stato, la resistenza al potere42. Il riferimento, oltre che all’opera di Jacques Rancière43, è ovviamente all’affascinante tesi esposta da Miguel Abensour nel saggio La democrazia contro lo Stato44, e in particolare nella prefazione alla seconda edizione, in cui l’aggettivo «insorgente» viene utilizzato per descrivere la democrazia in quanto perpetua sollevazione contro 42 Non sarebbe sbagliato inserire tra questi autori lo stesso Sheldon Wolin, che, in Fugitive Democracy and Other Essays, Princeton University Press, Princeton 2016, riduce la democrazia alla sua dimensione costituente e evenemenziale. 43 Cfr. Jacques Rancière, La mésentente: politique et philosophie, Galilée, Paris 1995; tr. it. di B. Magni, Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007. Per un’analisi dell’opera di Rancière che relativizza l’importanza della dicotomia presentata nella Mésentente, cfr. Anders Fjeld, Jacques Rancière. Pratiquer l’égalité, Michalon, Paris 2018. 44 Cfr. Miguel Abensour, La Démocratie contre l’État. Marx et le moment machiavélien, Félin, Paris 2004; tr. it. e cura di M. Pezzella, La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano, Cronopio, Napoli 2008.
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lo Stato45. Nonostante i continui richiami alla lezione di Lefort e alla teoria dell’istituzione politica del sociale, Abensour non rinuncia a delineare uno schema bipolare che aderisce alla contrapposizione frontale tra un piano della forma – le strutture politiche oppressive e definitorie dello Stato – e un’insorgenza spontanea e permanente, direttamente politica in senso emancipatorio – la democrazia46. Quest’ultima, sostiene infatti Abensour, nella sua essenza selvaggia è contestazione permanente, che la caratterizza nell’ambito del diritto e della politica, non è che l’effetto di questa prova (épreuve) dell’Essere, di questo pensiero dell’Essere come ciò che avviene, come evento. In altri termini, la contestazione permanente, se ad essa accordiamo la sua vera dimensione, non è un tratto empirico del regime democratico, ma è l’intermittente disvelamento di questa prova dell’Essere nel tempo47.
In quanto contraria a ogni sintesi, eccesso su qualsiasi definizione, la democrazia si trova solo dalla parte della critica, della decostruzione. Essa è infatti lotta tanto contro il vecchio quanto contro il nuovo ordine, è una «lotta continua per l’agire contro il fare»48. In altri termini, essa è l’irruzione continua di un evento anomico la cui unica capacità è l’effimera e spontanea messa in discussione dell’istituito. In altri termini, nella descrizione di Abensour la politica è pura azione reiterata, 45 Ivi, pp. 17-32. Il filosofo francese rielabora qui i suoi studi sul giovane Marx e sull’incontro tra la democrazia selvaggia lefortiana e il principio d’anarchia proposto da Reiner Schürmann. Cfr. Miguel Abensour, «Démocratie sauvage» et «principe d’anarchie», «Revue européenne des sciences sociales», 31/97, 1993, pp. 225-241. Il saggio è stato leggermente rielaborato e ripreso in Id., La Démocratie contre l’État cit.; tr. it. di M. Pezzella, “Democrazia selvaggia” e “principio di anarchia”, in La democrazia contro lo Stato cit., pp. 173-197. Si veda inoltre Reiner Schürmann, Le principe d’anarchie. Heidegger et la question de l’agir, Seuil, Paris 1982; tr. it. di G. Carchia, Dai principi all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, Neri Pozza, Vicenza 2019. 46 Abensour, La democrazia contro lo Stato cit., p. 22. Per le diverse posizioni sul rapporto tra le interpretazioni di Abensour e Lefort, cfr. Martin Legros, Qu’est-ce que la démocratie sauvage? De Claude Lefort à Miguel Abensour, in Anne Kupiec, Étienne Tassin (a cura di), Critique de la politique. Autour de Miguel Abensour, Sens & Tonka, Paris 2006, pp. 93-102; Antoine Chollet, Penser la politique sans ordre, in Manuel Cervera-Marzal, Nicolas Poirier, Désir d’utopie, Politique et émancipation avec Miguel Abensour, L’Harmattan, Paris 2018, pp. 261-274; Antoine Chollet, L’énigme de la démocratie sauvage, «Esprit», 451, 2019, pp. 136-146; Brian Nelson, Lefort, Abensour and the Question: What is «Savage» Democracy?, «Philosophy and Social Criticism», 45, 2019, pp. 844-861. 47 Abensour, La democrazia contro lo Stato cit., p. 190. 48 Ivi, p. 31.
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senza istituzione di significati. È netta opposizione, la continua creazione evenemenziale di scarto rispetto alle definizioni vigenti. Nonostante gli intenti, dunque, il filosofo francese non fa altro che traslare la lotta tra sociale e politico in quella tra democrazia e Stato49. In questa lotta, gli attori interpretano gli stessi personaggi, chiamandoli semplicemente con nomi differenti50. Nonostante la presa in considerazione della tematica dell’istituzione e la volontà di intrecciare istituito e istituente nella forma di istituzioni insorgenti, lo schema proposto da Abensour non fa quindi altro che riproporre quell’oblio del politico in favore del sociale contro cui pure lo stesso filosofo si era scagliato insieme al gruppo di «Libre»51. La destrutturazione della dimensione del politico passa in questo caso per la sua riduzione ad evento continuo e per il riferimento a una dimensione – il politico che maschera il sociale – immanente e di per sé portatrice di un significato autonomo e già politico. Nello schema proposto da Abensour, infatti, il politico non è la dinamica conflittuale di continua risignificazione proposta da Lefort, ma l’atto evenemenziale con cui i significati vengono destrutturati. È l’urlo del popolo, l’irruzione della vita, l’assalto al Palazzo d’Inverno, ma mai progetto e durata, mai affermazione contingente di significati, mai ridefinizione, nemmeno in fieri. Un puro urlo di libertà che rimane slegato dalle altre dimensioni e dai processi che compongono e attraversano il sociale. Appare evidente come al fondo di questa concezione del politico agiscano alcune delle categorie con cui Hannah Arendt aveva pensato la politica52 – come spazio dell’azione, del puro cominciamento di una 49
Per una risposta alle critiche si veda la Prefazione all’edizione italiana: ivi, pp. 7-15. Afferma Abensour, in conclusione alla prefazione: «La democrazia insorgente muta in modo sensibile e caratteristico la posta in gioco. Invece di concepire l’emancipazione come vittoria del sociale (una società civile riconciliata) sul politico, che determinerebbe allo stesso tempo la scomparsa del politico, questa forma di democrazia fa sorgere, e si adopera perché sorga in permanenza, una comunità politica contro lo Stato. All’opposizione tra il sociale e il politico, essa sostituisce quella tra il politico e lo statuale. Detronizzando lo Stato, essa rivolge il politico contro lo statuale e riapre l’abisso troppo spesso occultato tra il politico e lo Stato» (ivi, pp. 31-32). 51 Per un approfondimento della riflessione di Abensour e per interpretazioni differenti, cfr. Kupiec, Tassin (a cura di), Critique de la politique cit.; Manuel Cervera-Marzal, Miguel Abensour. Critique de la domination, pensée de l’émancipation, Sens & Tonka, Paris 2013; Cervera-Marzal, Poirier (sous la direction de), Désir d’utopie cit.; Gilles Labelle, L’Écart absolu: Miguel Abensour, Sens & Tonka, Paris 2018. 52 Queste stesse categorie innervano profondamente diverse teorie contemporanee della politica. Cfr. Butler, L’alleanza dei corpi cit., p. 120; Cavarero, Democrazia sorgiva cit.; ma anche Wolin, Fugitive Democracy cit. 50
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serie totalmente nuova di eventi, della libertà – e la concezione relazionale del potere53. Come ho già affermato sopra, tuttavia, l’importanza e l’interesse della riflessione arendtiana risiede proprio nella tensione che cerca senza successo di risolvere. È noto, infatti, come per la pensatrice la politica non è solamente una dimensione critica e agonistica, ma ha anche a che fare con la fondazione, con la creazione di un senso e di una durata. Non per caso, nel corso della sua opera insiste a più riprese sul legame tra fondazione, autorità e tradizione come elementi chiave per comprendere e descrivere la politica. È proprio in questi concetti – insieme a quello di religione – che si trovano tanto il significato e la straordinaria potenza della politica romana, quanto la riuscita parziale della rivoluzione americana54. Già nelle pagine de Le origini del totalitarismo, inoltre, risulta evidente come propria della politica sia la capacità di creare una distanza rispetto al muto movimento della vita per fornire senso e durata: un’interpretazione55. Al contrario, la volontà di aderire al perenne movimento della Vita o della Storia è ciò che caratterizza i totalitarismi e la loro incompatibilità con la politica56. La politicità dell’azione, anzitutto linguistica, è dunque per Arendt intrinsecamente collegata alla proposta di significati condivisi, all’idea di interpretazione. Non è mai muto avvento di una dimensione spontanea e auto-prodottasi. Non è allora un caso se il suo ultimo saggio, rimasto purtroppo incompiuto, si apre con un esplicito riferimento alla fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty e all’inestricabile intreccio tra Essere e Apparire, alla rappresentazione in cui ogni pensiero è già da sempre inserito57. Forse, allora, nella tensione del pensiero arendtiano, nella sua peculiare fenomenologia, c’è oggi ancora spazio non per recuperare un pensiero dell’autonomia della politica, ormai consunto, ma per pensare il politico in forma nuova, per riuscire cioè a leggere il sociale nella sua istituzione politica, come continua affermazione e destituzione di significati, perpetua, contingente e conflittuale rifondazione. 53
Cfr. Arendt, Vita activa cit. Di particolare importanza risulta in questo quadro la categoria di natalità. A riguardo, cfr. ivi, pp. 8, 39, 129. Sulla politica in quanto sfera della libertà si veda almeno Hannah Arendt, Was ist Politik? Fragmente aus dem Nachlass, Piper, München-Zürich 1993; tr. it. di M. Bistolfi, Che cos’è la politica?, Einaudi, Torino 2006, p. 21. 54 Cfr. Arendt, Sulla rivoluzione cit. 55 Arendt, Le origini del totalitarismo cit., pp. 631-641. 56 Ivi, p. 634. 57 Cfr. Hannah Arendt, The Life of the Mind, Harcourt Brace Jovanovich, London 1978; tr. it. di G. Zanetti, La vita della mente, il Mulino, Bologna 2009, pp. 99-103.
«Non essere indegni di ciò che ci accade». L’etica dell’evento in Gilles Deleuze Bianca Maria Esposito
Paul Valéry ebbe una parola profonda: «il più profondo è la pelle». Scoperta stoica che presuppone molta saggezza e comporta tutta un’etica. G. Deleuze
La nozione di evento è affrontata da Deleuze in particolare in Logica del senso, un testo del ’69 nel quale sono presentati una serie di paradossi che formano, nel loro complesso, la teoria deleuziana del senso1. Che tale teoria sia inscindibile da paradossi, sostiene Deleuze, è facilmente spiegabile: «il senso è un’entità inesistente, che ha rapporti molto particolari anche con il non senso»2. È a partire da questa concezione del senso, del linguaggio e della sua logica paradossale, presentata da Deleuze come fenomeno di superficie – una sorta di sdoppiamento non dialettico e postmetafisico su un unico piano d’immanenza –, che vorrei indagare, nel presente contributo, i concetti deleuziani di senso, evento e contro-effettuazione. Come vedremo, la nozione di evento è strettamente legata a quella di senso: un’entità altrettanto inesistente, eppure capace di produrre degli effetti di superficie gravidi di conseguenze etiche e politiche3. Scopo di questo saggio sarà quello di verificare la tesi di Slavoj Žižek, secondo il quale sarebbe proprio la produzione di Deleuze che precede l’incontro con Guattari a costituire il potenziale più
1 Gilles Deleuze, Logique du sens, Minuit, Paris 1969; tr. it. di M. De Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975. 2 Deleuze, Logica del senso cit., p. 7. 3 Su Deleuze e il Sessantotto, cfr. Rocco Ronchi, Gilles Deleuze, Feltrinelli, Milano 2015.
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politico della sua ontologia monista4. Attraversando la critica del platonismo, la scrittura di Lewis Carroll e la rilettura di un testo di Émile Bréhier dedicato agli stoici5, vedremo come Deleuze proponga di leggere nell’evento una sorta di retroazione affermativa su ciò che accade. L’etica dell’evento consiste, infatti, nella volontà di cogliere in ogni accadimento o mescolanza corporea uno splendore neutro e un senso nuovo. Non si tratta di un’accettazione appiattita o passiva di tutto ciò che accade, ma dell’affermazione ontologica e della consapevolezza che in ogni situazione – anche quella più drammatica e crudele – sia possibile conquistare uno splendore e un bagliore, per trovare in ciò che avviene a noi a livello personale un senso impersonale e pre-individuale. Da questo punto di vista ben si comprende l’attualità filosofica e politica di Deleuze. In un momento storico in cui l’improvvisa irruzione di un evento – come quello pandemico – sembra aver preso il sopravvento non solo sulla progettualità politica, ma anche sul nostro stesso essere dei corpi soggetti ad un rapporto di mescolanza reciproca, l’etica deleuziana è in grado di fornirci gli strumenti per riappropriarci del presente seguendo una nuova modalità, che trasfiguri gli accadimenti in eventi, le contingenze in virtù6. 1. Rovesciare il platonismo, liberare il simulacro Per introdurre l’analisi di Logica del senso e comprenderne meglio il programma e l’intenzione, sarà utile soffermarci prima sulla questione del rovesciamento del platonismo. Affrontata per la prima
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Cfr. Slavoj Žižek, Organs without bodies. On Deleuze and Consequences, Routledge, London-New York 2004; tr. it. di M. Grosoli, Organi senza corpi. Deleuze e le sue implicazioni, La scuola di Pitagora, Napoli 2015. 5 Intendo pertanto concentrarmi sui testi che precedono la stesura de L’anti-Edipo. Cfr. Gilles Deleuze, Nietzsche et la philosophie, Presses Universitaires de France, Paris 1962; tr. it. di F. Polidori, Nietzsche e la filosofia e altri testi, Einaudi, Torino 2002; Gilles Deleuze, Renverser le platonisme (Les simulacres), «Revue de Métaphysique et de Morale», 4, 1966; tr. it. di M. De Stefanis, Platone e il simulacro, in Logica del senso cit., pp. 223234; Gilles Deleuze, Différence et répétition, Presses Universitaires de France, Paris 1968; tr. it. di G. Guglielmi, Differenza e Ripetizione, il Mulino, Bologna 1971; G. Deleuze, Logique du sens cit. 6 Cfr. Rocco Ronchi, Le virtù del virus, «doppiozero», 08 marzo 2020, disponibile online (https://www.doppiozero.com/materiali/le-virtu-del-virus).
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volta in un saggio del 19667, essa è, non a caso, ripresa in appendice a Logica del senso. Qui è presentato quello che Deleuze definisce il compito della filosofia di Nietzsche e dell’avvenire. Cosa significa, infatti, rovesciare il platonismo? Questa formula sembrerebbe indicare l’abolizione delle essenze e delle apparenze, afferma Deleuze: un progetto filosofico già presente nella filosofia trascendentale kantiana e nella dialettica razionale di Hegel, ma che nel progetto nietzschiano si contraddistingue proprio per la sua radicalità. Per Nietzsche rovesciare il platonismo significa individuare nell’ombra la sua motivazione profonda, farla emergere per «braccarla [traquer]»8. Il modello platonico si comprende soltanto se lo riconduciamo alla volontà di selezionare e separare idea e immagine, originale e copia, distinguendo tra essenza e apparenza, modello e simulacro. Scopo di tale divisione, afferma Deleuze, non è tanto quello superficiale di dividere il genere in specie o di ricondurre la contingenza all’idea, quanto, più profondamente, quello di selezionare stirpi e di distinguere il puro dall’impuro, il vero dal falso9. La dialettica platonica è, infatti, una dialettica dei rivali e dei pretendenti. Essa consiste nel «selezionare i pretendenti, distinguendo le copie buone da quelle cattive, o piuttosto, le copie sempre ben fondate dai simulacri, sempre corrotti nella dissomiglianza»10. È il tema del fondamento che interessa qui a Deleuze. Attraverso di esso si è in grado di distinguere le buone immagini, le copie-icone, immagini ben fondate, dai simulacri, ovvero tutte quelle immagini prive di somiglianza. Ed è di questi simulacri che Deleuze intende fare l’apologia nella sua ontologia differenziale11. Secondo Deleuze, tutta la tradizione filosofica successiva a Platone – influenzata dalla pretesa cristiana che tende alla rappresentazione fondata dell’infinito – ha tentato di conquistare l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo a partire da un principio di rappresentazione radicato nella 7
Cfr. Deleuze, Renverser le platonisme (Les simulacres) cit. Deleuze, Platone e il simulacro cit., p. 426. 9 Rovesciare il platonismo significa, citando Foucault: «discendere d’un gradino […]; instaurare un’altra serie staccata e divergente; costituire, con questo piccolo salto laterale, un para-platonismo scoronato […] indurlo a maggior pietà per il reale, per il mondo e per il tempo» (Michel Foucault, Theatrum Philosophicum, in Deleuze, Differenza e ripetizione cit., p. IX). 10 Deleuze, Logica del senso cit., p. 226. 11 Ivi, p. 227. 8
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duplice esigenza del Simile e del Medesimo. I due massimi esempi di tale tentativo sono Leibniz e Hegel. L’uno ha tentato di conquistare la molteplicità del reale attraverso il principio di ragione nella nozione di compossibilità. L’altro ha, invece, provato a determinare un senso della storia attraverso un principio dialettico-razionale onnicomprensivo. Pur avendo avuto entrambi il merito di aver volto il loro sguardo al differimento continuo della contingenza, sia Leibniz che Hegel hanno voluto catturare la differenza riconducendola alla ragione12. Lo scopo di tutta la filosofia è, infatti, sempre stato lo stesso: quello di escludere l’eccentrico e il divergente in nome di una finalità superiore, di una realtà essenziale o anche di un senso della storia. In Rovesciare il platonismo incontriamo, dunque, due tematiche centrali nella filosofia del primo Deleuze: la questione del fondamento, presentata in una prospettiva che potremmo definire post-fondazionale13, e quella della rappresentazione, criticata secondo una modalità analoga alla critica heideggeriana alla metafisica e al principio leibniziano di ragione, il Satz vom Grund14. Il pensiero di Deleuze è un pensiero che vuole risalire in qualche modo dalle profondità di quel Grund per rimanere in superficie. In esso, un movimento, una postura o un’immagine di pensiero possono essere considerati come migliori soltanto in quanto più capaci di rendere giustizia alla molteplicità del reale e all’intensità della vita. Nessun fondamento o punto di vista privilegiato dal quale ordinare il reale. Nel suo empirismo trascendentale non c’è un criterio con il quale sia possibile ordinare un oggetto in senso “organico”, ma soltanto una molteplicità di punti di vista e di intensità vitali, le quali si esprimono sulla superficie virtuale del linguaggio15. In questa prospettiva tutti i punti di vista sono ugualmente accolti, in quanto molteplici e contradditori, in un unico sistema “non-organico”. In questo modo Deleuze supera sia il principio dialettico sul quale riposa il dualismo 12
Cfr. Gilles Deleuze, Le pli. Leibniz et le Baroque, Les Éditions de Minuit, Paris 1988; tr. it. di D. Tarizzo, La piega. Leibniz e il Barocco, Einaudi, Torino 1990, pp. 45-65. 13 Cfr. Roberto Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020, p. 83. 14 Cfr. Martin Heidegger, Der Satz vom Grund, Klett-Cotta, Stuttgart 2021; tr. it. di F. Volpi, Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991. Si veda a tal proposito Gavin Rae, Ontology in Heidegger and Deleuze. A Comparative Analysis, Palgrave Macnillan, Basingstone-New York 2014, pp. 116-144. 15 Cfr. Claire Colebrook, Gilles Deleuze, Routledge, London 2002, pp. 69-90.
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platonico che la categorizzazione trascendentale kantiana, proponendo una nuova forma di vitalismo trascendentale capace di pensare la molteplicità del reale a partire da un principio di differenza16. Seguendo le lezioni di Bergson e di Nietzsche, Deleuze sostiene infatti che ogni sapere, anche il più astratto e formale, implichi sempre al proprio interno «il dispiegarsi di una forza, presentando un vettore affettivo che rivela la tonalità etica o vitale del pensiero»17. Da qui, la concezione deleuziana dell’immagine di pensiero la quale indaga in senso immanente la logica etica e politica dei sistemi filosofici18, ma anche, e soprattutto, l’attenzione di Deleuze alla letteratura e, in particolare – per quanto ci riguarda – alla scrittura di Lewis Carroll, capace di narrare storie differenti e divergenti in quanto puri eventi, rimanendo dunque sulla superficie contraddittoria e paradossale del linguaggio19. 2. Le avventure di Alice e la simultaneità del divenire Nella prima serie di Logica del senso, intitolata Sul puro divenire, Deleuze si riferisce a due opere di Carroll: Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò20. In queste due opere viene trattata una categoria di cose “specialissime”, afferma Deleuze, ovvero gli eventi come “eventi puri”. Schivando ogni principio di fondazione del senso e narrando l’innocenza degli eventi nella loro contraddittorietà, Carroll è in grado di realizzare in forma letteraria ciò che Deleuze interpreta, in senso filosofico, come il paradosso del puro divenire. La logica che domina questo puro divenire è espressa da un passo, in particolare, in cui viene descritta l’eterna caduta nel vuoto di Alice: Quando dico “Alice cresce”, voglio dire che diventa più grande di quanto non fosse. Ma voglio anche dire che diventa più piccola di quanto non sia ora. 16
Cfr. Deleuze, Differenza e Ripetizione cit. Cfr. Paolo Godani, Deleuze, Carocci, Roma 2009, p. 50. 18 Cfr. Rocco Ronchi, Gilles Deleuze, Feltrinelli, Milano 2015. 19 Cfr. Gregg Lambert, The Non Philosophy of Gilles Deleuze, Continuum, London 2002, pp. 3-10. 20 Cfr. Lewis Carroll, Alice. Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie & Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò, tr. it. di M. D’Amico, Longanesi & C., Milano 1971. 17
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Senza dubbio, non è nello stesso tempo che Alice sia più grande e più piccola. Ma è nello stesso tempo che lo diventa. […] Tale è la simultaneità del divenire la cui peculiarità è schivare il presente21.
La peculiarità della scrittura di Carroll risiede proprio in questo schivare il presente, che è anche uno schivare il principio aristotelico d’identità e non contraddizione. Nella caduta nel vuoto di Alice il presente è continuamente differito nell’accadere degli avvenimenti. Il “puro divenire” non si lascia catturare, né afferrare o subordinare ad un ordine di tipo platonico. Una volta smascherato il suo intento ordinativo, ciò che emerge dal rovesciamento del platonismo è la dimensione liberata del presente, espressa e tradotta sulla superficie del linguaggio dai paradossi che dominano l’universo di Alice. Come abbiamo visto, Platone divideva la realtà in una grande dualità: quella delle cose limitate e misurate, qualità fisse in eterna quiete, dove un oggetto determinato ha una data grandezza in un dato momento; e quella del puro divenire senza misura, vero divenirfolle che non si arresta mai e che schiva il presente differendolo, facendo coincidere futuro e passato, il più e il meno, il troppo e il non abbastanza. Questa seconda dimensione è la dimensione liberata del divenire dionisiaco. Una volta rovesciato il platonismo è tempo di riabilitare i fenomeni sul piano della loro pura innocenza, liberando, afferma Deleuze, la «materia del simulacro»22. Nell’Alice, Carroll porta a espressione proprio questa “materia” in un’unica sequenza, mettendo in scena il paradosso del divenire e la sua capacità di schivare la fissità del linguaggio. Questo movimento continuo del senso e del non-senso, il quale appare in una sorta di dispiegamento infinito di un’identità continuamente in divenire, culmina, non a caso, nella contestazione dell’identità di Alice e nella perdita del nome proprio: «se non sono la stessa – si chiede Alice – “Chi mai sarò?” Ah, eccolo, il grande punto interrogativo!»23. Nel mondo delle qualità fisse, il nome proprio aveva il carattere della fissità, garantito dalla permanenza del sapere e della soggettività24. Superando la logica aristotelica, l’identità di Alice si perde invece nel puro divenire degli eventi espressi dai 21
Deleuze, Logica del senso cit., p. 9 (corsivi miei). Cfr. Fabio Agostini, Deleuze: evento e immanenza, Mimesis, Milano 2003. 23 Carroll, Alice cit., p. 39. 24 Deleuze, Logica del senso cit., p. 24. 22
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predicati verbali. Alice non è più “piccola” o “grande” in due momenti diversi, come vorrebbe la logica tradizionale. Alice “cresce” e “rimpicciolisce”, perdendo qualsiasi qualità fissa. Non è un caso che il dubbio iperbolico che la assale non abbia il carattere razionale del dubbio cartesiano, il quale metteva al centro l’ego che dubita della realtà esterna. Il dubbio di Alice, quest’incertezza radicale, riguarda la sua stessa persona, spingendo Alice fino ai limiti della soggettività. Esso è la struttura stessa dell’evento, che va contemporaneamente nella duplice direzione del “più piccolo” e del “più grande”. L’evento dilania il soggetto revocando l’uni-direzionalità del tempo e del movimento. Esso lo dissolve nei predicati e nel puro divenire. Questa struttura dell’evento e del puro divenire è la struttura stessa del paradosso e del linguaggio, che, distruggendo il buon senso come senso unico o senso comune, elimina ogni possibile assegnazione di identità. In Critica e clinica (1993), molti anni dopo, Deleuze scriverà: È il regno dell’azione e della passione dei corpi: cose e parole si disperdono in tutti i sensi o al contrario si saldano in blocchi indivisibili. Nel profondo è tutto orribile, tutto è nonsenso. Alice nel paese delle meraviglie doveva all’inizio chiamarsi Le avventure sotterranee di Alice. Ma perché Carroll non mantiene questo titolo? Perché Alice conquista progressivamente la superficie. Sale o risale alla superficie. Crea delle superfici25.
Seguendo una terminologia successiva potremmo dire che le avventure di Alice traducono sulla superficie del linguaggio i paradossi dell’esperienza trascendentale “pura” dello schizo. La bambina – equivalente del fanciullo nietzscheano26, – di fronte alla scrittura abissale e al mostro informe della follia di Artaud, non può infatti che arrestarsi. Se Alice rappresenta il linguaggio in superficie – espressione incorporea del puro divenire –, Artaud è quel fondo corporeo dal quale scaturisce ogni senso. È il linguaggio insensato della schizofrenia, pura potenza vitale e affermativa che mostra quell’Untersinn (sotto-senso) in grado di frantumare e distruggere ogni senso esprimibile. 25
Gilles Deleuze, Lewis Carroll, in Critique et clinique, Éditions de Minuit, Paris 1993; tr. it. di A. Panaro, Lewis Carroll, in Critica e clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, p. 37 (corsivi miei). 26 Cfr. Deleuze, Nietzsche e la filosofia cit. Sul valore antidialettico della filosofia di Nietzsche, cfr. ivi, pp. 13-16 e pp. 234-245.
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3. Il senso e l’evento come effetti incorporei Come abbiamo visto, Alice risale in superficie, producendo il senso degli eventi come loro “effetto”. Nella seconda serie di Logica del senso, Deleuze affronta proprio il tema della creazione del senso in superficie, accostando le sue riflessioni sull’Alice al pensiero degli stoici. Una volta rovesciato il grande dualismo platonico, ciò che interessa a Deleuze è di assicurare il senso attraverso l’instaurazione, nella sua ontologia monista, di una nuova dualità. Deleuze ricorre, a tal fine, alla fisica stoica; un sistema monista della radicale immanenza, il quale era in grado di preservare una nuova forma di dualità a partire dalla dottrina degli incorporei27. La fisica stoica sosteneva che tutto fosse corporeo e formato da un’unica sostanza. Non si trattava, però, di una fisica atomistica governata da un principio di causalità meccanica, quanto di una fisica che affermava la compenetrazione di tutti i corpi tra loro. La materia, pur essendo infinitamente divisibile, non era costituita da atomi, bensì da un’unica sostanza governata da due principi: un principio attivo (Dio, forma, fuoco come soffio vitale), e uno passivo, costituito dalla materia informe. Pur essendo un’unica sostanza, gli stoici tendevano a distinguere in essa due tipi di cose: i corpi, con le loro tensioni, le loro qualità fisiche, le loro relazioni di azione e passione, e i corrispondenti effetti incorporei o stati di cose. Tali effetti incorporei, pur risultando come effetti dalla mescolanza dei corpi, non venivano considerati come materiali. Essi esistevano come “effetti di superficie” ed erano considerati come puri esprimibili incorporei: degli eventi o predicati che riguardavano i corpi, pur essendo di tutt’altra natura. Deleuze si serve di questa nozione stoica per descrivere il movimento di produzione del senso: Il senso è la quarta dimensione della proposizione. Gli stoici l’hanno scoperta con l’evento: il senso è ciò che è espresso della proposizione, quest’incorporeo alla superficie delle cose, entità complessa irriducibile, evento puro che insiste o sussiste nella proposizione28.
27
Deleuze si riferisce al testo di Émile Bréhier, La théorie des incorporels dans l’ancien stoïcisme, Vrin, Paris 1928. 28 Deleuze, Logica del senso cit., p. 25 (corsivi miei).
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Gli eventi non sono dunque propriamente dei corpi. Essi non sono ontologicamente nulla. Non hanno un essere in quanto nomi o aggettivi. Essi sono verbi, dei puri predicati, degli incorporei. Questi incorporei non sono agenti né pazienti, e non rientrano né nella categoria dei corpi mossi da un principio attivo né in quella dei corpi mossi da un principio passivo. Essi sono, per così dire, i risultati o gli effetti delle mescolanze, delle azioni e passioni dei corpi, degli impassibili. Tra questi eventi-effetti e il linguaggio vi è un rapporto essenziale: «è proprio degli eventi essere espressi o esprimibili, enunciati o enunciabili da proposizioni quanto meno possibili»29. Gli eventi non coincidono, dunque, con i corpi o gli stati di cose, bensì con il senso che si produce sulla loro superficie. Essi hanno a che fare con il linguaggio e il processo di significazione. Quando un corpo ne incontra un altro, esso non subisce alcuna modificazione ontologica da questo incontro, ma esprime una propria nuova maniera d’essere. Questa maniera d’essere – questo predicato incorporeo – è ciò che gli stoici chiamano “incorporeo”; ciò che non è corpo, ma riguarda i corpi, il loro evento o effetto di superficie. Gli eventi non sono dunque delle modificazioni autonome dai corpi, bensì gli effetti risultanti da una loro mescolanza. Ecco perché essi non si danno né nella forma dei nomi né degli aggettivi, ma dei puri predicati. L’evento non esprime l’“essere verde” dell’albero, quanto il suo “verdeggiare”30. Quando uno scalpello incide la carne, esso produce nella carne l’effetto-evento dell’“essere tagliata”. Non si tratta di una qualità fissa o di una nuova proprietà, quanto di un predicato, un verbo o un attributo, che riguarda una maniera d’essere del corpo stesso. L’evento è sempre l’effetto di un incontro tra corpi, non la qualità di un corpo autonomo rispetto agli altri. Esso esprime il movimento di Alice nel crescere e nel rimpicciolire, il verdeggiare dell’albero o l’ammalarsi di un corpo. In questo sdoppiamento superficiale del senso, il quale esprime l’evento sulla superficie del linguaggio, i corpi sono coinvolti in quella che Deleuze, riprendendo il De fato di Cicerone, definisce una «doppia causalità»31. Gli stoici non rinviavano gli effetti incorporei alle cau29
Ivi, p. 19. Cfr. Adrian Parr, The Deleuze Dictionary, Edinburgh University Press, Edinburgh 2005, p. 87. 31 Cfr. Anna Maria Ioppolo, Dibattiti filosofici ellenistici. Dottrina delle cause, Stoicismo, Accademia scettica, a cura di B. Centrone, R. Chiaradonna, D. Quarantotto, E. Spinelli, Academia Verlag, Sankt Augustin 2013, pp. 17-84. 30
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se corporee, ma gli effetti tra loro, stabilendo così un collegamento “di superficie”, il cui concetto era, appunto, il destino. È così che essi riuscivano ad affermare che il cosmo, pur essendo materiale e ontologicamente uno, non fosse ordinato in senso moderno da una causalità meccanica. Per quanto riguarda gli effetti incorporei, questi non erano legati tra loro come “cause”, bensì come “con-cause”, seguendo una legge e un principio che crea un’unità relativa rispetto a quella ontologicamente materiale. I due piani dell’ontologia monista stoica conservavano così una loro autonomia. Quella degli stoici è una dualità che salvaguarda allo stesso tempo il monismo ontologico. Se volessimo confrontarci ad un altro livello del discorso con il problema della storia e della storicità, potremmo affermare che gli eventi incorporei, pur essendo determinati dall’incontro dei corpi tra loro – pur essendo gli effetti di una mescolanza materiale –, conservano un’autonomia che ha a che fare con la possibilità di sottrarsi al piano della causalità e, con essa, ad ogni determinismo storico32. Gli eventi sono infatti prodotti come effetti sulla superficie dei corpi: essi vanno considerati come “concause” degli accadimenti. 4. Figli degli eventi, non delle proprie opere Giungiamo così al tema della contro-effettuazione, che riguarda la produzione del senso in superficie. Deleuze tratta questo tema a partire dall’esempio pratico di Joë Bousquet, un poeta francese che rimase gravemente ferito da un proiettile durante la prima guerra mondiale. Dal diario di Bousquet, Deleuze riprende una frase: La mia ferita esisteva prima di me, io sono nato per incarnarla. […] Tutto era già al suo posto negli eventi della mia vita prima ancora che io li facessi miei, e viverli è trovarmi tentato di uguagliarmi ad essi come se dovessero ricavare soltanto da me ciò che hanno di meglio e di perfetto33.
32
Cfr. François Zourabichvili, Deleuze. Une philosophie de l’événement, Presses Universitaires de France, Paris 1994; tr. it. di F. Agostini, Deleuze. Una filosofia dell’evento, ombre corte, Verona 1998, pp. 11-24. 33 Deleuze, Logica del senso cit., p. 133; cfr. Joë Bousquet, Les Capitales, Le cercle du livre, Paris 1955.
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Così, Deleuze la commenta: «Bisogna chiamare Joë Bousquet stoico. La ferita che egli porta profondamente nel suo corpo, egli l’afferra nella sua verità eterna e come evento puro»34. La tematica dell’evento è affrontata a partire dall’eventualità concreta del ferimento di un corpo. Attraverso quest’esperienza Bousquet giunge alla volontà stoica del farsi “con-causa” di un avvenimento subìto, come se viverlo significasse doverne ricavare l’evento, il senso incorporeo o la verità eterna. La contro-effettuazione deleuziana consiste nel produrre, attraverso una duplicazione superficiale e una trasfigurazione incorporea, il senso di un accadimento subìto. Nella contro-effettuazione si manifesta lo splendore neutro che ogni avvenimento possiede in sé in quanto evento pre-individuale e impersonale. Scorgere questo splendore significa “produrre” il senso dell’accadimento o, in altre parole, volere l’evento e riconoscere ciò che nell’evento non mi riguarda, mi precede e mi prescinde, per cogliere in ciò che accade un “si” impersonale35. Lontano da Heidegger e dalla sua concezione negativa dell’impersonale – espressa nel concetto di dittatura del man [si] – Deleuze individua nel “si” un impersonale positivo che libera, in senso nietzscheano, dal risentimento. Attraverso la contro-effettuazione Bousquet arriva alla constatazione di essere il mero attore nell’incarnazione di un qualcosa che lo precede. Quest’etica stoica, quella che Deleuze chiama l’unica vera morale, è proprio quella del non reputarsi indegni di ciò che ci accade, vale a dire, uno stoico e nietzschiano amor fati. Quest’etica supera ogni norma e ogni morale e si realizza come pratica affermativa della pura contingenza. Si tratta di un “dire sì” agli eventi, alla vita e al proprio destino. È qui che Nietzsche incontra lo stoicismo. Non abbiamo a che fare con una semplice indifferenza cristiana nei confronti del mondo, né con una rassegnazione passiva nei confronti degli eventi, ma con un atteggiamento selettivo che coglie in ciò che accade una breccia capace di produrre il senso degli accadimenti36. L’indifferenza e la rassegnazione sono infatti ancora due figure del risentimento. Non bisogna rassegnarsi agli eventi, alle guerre o alle 34
Deleuze, Logica del senso cit., p. 133 (corsivi miei). Cfr. Michael Hardt, Gilles Deleuze. An Apprenticeship in Philosophy, UCL Press, London 1993, pp. 26-55; tr. it. di C. Savi, Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia, a cura di G. Di Michele, DeriveApprodi, Roma 2016. 36 Cfr. Deleuze, Nietzsche e la filosofia cit., pp. 101-105. 35
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proprie ferite, ma piuttosto raggiungere il punto in cui «la guerra è condotta contro la guerra, la ferita, tracciata vivente, come la cicatrice di tutte le ferite, la morte rovesciata voluta contro tutte le morti»37. La contro-effettuazione consiste dunque nella volontà e nella capacità, con la potenza e la gioia che ne derivano, di realizzare se stessi non in quanto individui, ma eccedendo l’individuazione personale. Essa è la conquista di una potenza che non ci appartiene e che, anzi, destituisce e mette in pericolo la nostra stessa individualità. Operare la contro-effettuazione significa, in questo senso, riconoscere nella mia vita una vita, dedurne lo splendore neutro per darle un nuovo senso38. Quest’etica dell’evento o della contro-effettuazione ha a che fare con la capacità di cogliere, di “intuire” e “risalire” negli stati di cose, nelle individuazioni date, il pre-individuale di ogni nostra esperienza. In Nietzsche e la filosofia la gioia del tragico come pura affermazione, persino del proprio dolore, costituiva il primo orizzonte attraverso il quale Deleuze esplorava l’idea della pura affermazione della vita. In Logica del senso, quest’orizzonte cambia, passando dal tragico-dionisiaco nietzschiano alla figura umoristica del saggio stoico. Il soggetto non si afferma più come pura volontà di potenza, legata ancora ad una volontà organica, inserita in una cosmologia. Esso è, piuttosto, destituito e lasciato al mero ruolo di attore. Come afferma Bousquet: «Tutto era già al suo posto negli eventi della mia vita prima ancora che io li facessi miei»39. Ma quello di Deleuze non è nemmeno un sistema di rinvii razionali che rimandano ad una precedenza temporale o trascendente degli eventi rispetto agli accadimenti. Non si tratta né di una predestinazione, né di un’armonia prestabilita, come in Agostino o Leibniz, ma di un flusso contraddittorio e paradossale che riguarda il divenire puro e a cui bisogna attribuire un senso e un significato nella sua dimensione innocente e liberata. Commentando ancora il diario di Bousquet, Deleuze afferma:
37
Ivi, pp. 133-134. A tal proposito rimando all’ultimo scritto di Deleuze. Cfr. Gilles Deleuze, L’immanence: une vie…, «Philosophie», 47, 1995, pp. 1-4; tr. it. di F. Polidori, L’immanenza: una vita…, «aut aut», 271-272, 1996, pp. 4-7; cfr. Federico Luisetti, Una vita. Pensiero selvaggio e filosofia dell’intensità, Mimesis, Milano 2011. 39 Joë Bousquet citato in Deleuze, Logica del senso cit., p. 133. 38
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“Diventa l’uomo delle tue infelicità, impara a incarnare la perfezione e il bagliore”. Non è possibile dire di più, mai è stato detto niente di più: diventare degni di ciò che ci accade, volerne dunque e liberarne l’evento, diventare il figlio dei propri eventi, è quindi rinascere, rifarsi una nascita, rompere con la propria nascita di carne. Figlio dei propri eventi e non delle proprie opere, poiché l’opera stessa è prodotta soltanto dal figlio dell’evento40.
Questo passo di Deleuze potrebbe ricordare la logica paolina del superamento [katargeín] delle opere attraverso la fede e della carne attraverso lo spirito (Rm 9,8; 1Cor 15,26)41. In realtà, come afferma Jean-Luc Nancy, si tratta di una logica che ci rimanda a qualcosa di diverso, più simile al contenuto della Lettera di Giacomo42. Tradizionalmente opposta alle lettere paoline, essa contiene una primissima apologia delle opere. La lettera di Giacomo propone, infatti, una forma di sintesi tra fede e opere, un’operosità nella fede o una prassi di fede, molto simile all’etica stoica. Come scrive Nancy, la praxis è qui intesa non come produzione di un’opera, ma come poiesis. La fede è, in questo senso, una praxis che ha luogo nella poiesis, o, come direbbe Maurice Blanchot, un’inoperosità che ha luogo nell’opera. Come abbiamo già visto, nella pura immanenza essere «figlio dei propri eventi»43 significa operare una contro-effettuazione o una trasfigurazione del divenire in senso impersonale o preindividuale, riconoscere nella molteplicità degli avvenimenti uno splendore neutro, e passare da una volontà organica a una volontà spirituale, rompendo così con la propria nascita di carne per liberare l’evento e con esso il simulacro. 5. Effetti politici della contro-effettuazione? Si potrebbe ragionare, in conclusione, sulle conseguenze politiche di tale etica dell’evento. Da un lato ci troviamo di fronte a una piena sottomissione alla brutalità degli accadimenti, corrispondente 40
Ivi, p. 134. Cfr. Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 91-92. 42 Cfr. Jean-Luc Nancy, La Déclosion. Déconstruction du christianisme I, Galilée, Paris 2005; tr. it. di R. Deval e A. Moscati, La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I, Cronopio, Napoli 2007, pp. 74-75. 43 Deleuze, Logica del senso cit., p. 134. 41
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al principio di attività o passività ontologica in cui versano i corpi; dall’altro, a un’attività della volontà spirituale o inorganica, che trasfigura gli accadimenti in eventi fino a rendercene degni. Come abbiamo visto, Deleuze non propone tanto un’appropriazione individuale del fato. Ogni appropriazione implicherebbe infatti un’incrinatura del corpo a favore dell’identità di un soggetto che la compie. «L’attore non è come un dio, ma piuttosto come un contro-dio»44. Riconoscere l’evento significa riconoscerlo come neutro, eterno, impersonale. Significa liberarsi da ogni risentimento, decostruendo il soggetto come soggetto agente per cogliere, infine, l’impersonale nel personale, e nell’individuo il suo ruolo di attore. L’evento ha dunque, in Deleuze, un carattere ambivalente: esso dipende dalle condizioni che lo determinano, e tuttavia eccede quelle condizioni, producendone di nuove. Nella contro-effettuazione si diventa, contemporaneamente, commedianti e interpreti degli eventi. Il significato politico di tale contro-effettuazione come processo di significazione è stato individuato da Žižek nell’opposizione dialettica o simbolica – in senso lacaniano – delle «pure intensità senza significato (cui la successiva produzione di Deleuze e Guattari attribuirà potenzialità politica), alla contro-effettuazione come significazione»45. Žižek individua, infatti, un “intrigo hegeliano” nella filosofia del primo Deleuze. Un intrigo, riconosciuto anche da Michael Hardt46, e che, già a partire da Differenza e ripetizione, Deleuze proponeva in realtà di superare formulando una nuova teoria del senso che, oltre al principio d’identità aristotelico, superasse anche la dialettica di Hegel47. Inserendo l’evento e il puro divenire come condizione della strutturazione del senso, Deleuze pensa infatti a una nuova logica che ecceda ogni principio di non contraddizione ed elimini ogni negazione48. Come dimostrato, la filosofia del primo Deleuze, lungi dal ripresentare una nuova dialettica o un idealismo nascosto, tenta di “sdoppiare” l’unico piano immanente, rimandando a una superficie ontologicamente nulla, che si separa dal suo sostrato, rimanendo44
Ibid. Cfr. Żiżek, Organi senza corpi cit. 46 Si veda l’introduzione, Hegel and the Foundations of Poststructuralism, in Hardt, Gilles Deleuze. An Apprenticeship in Philosophy cit., pp. IX-XV. 47 Deleuze, Differenza e ripetizione cit., p. 3. 48 Cfr. Esposito, Pensiero istituente cit., pp. 75-155. 45
«non essere indegni di ciò che ci accade»
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vi tuttavia aderente. In questo sdoppiamento superficiale del senso Žižek individua una potenzialità dialettica, e dunque politica, il cui presupposto si troverebbe proprio nello statuto dell’evento. L’evento sarebbe ciò che elude la storia, ciò che le sfugge, mettendo in gioco, paradossalmente, ciò che più di ogni altra cosa Deleuze ha criticato, ossia, la trascendenza. L’evento, in Deleuze, rappresenterebbe un qualcosa che trascende le condizioni storiche date, l’altro nel piano d’immanenza, una possibilità per la produzione del nuovo. Collocandosi al di fuori dalle relazioni causali esistenti, l’evento si pone così in una relazione trasformativa – seppur simbolica – nei confronti del reale49. Come afferma Deleuze in un intervento dell’84 dedicato all’evento del Sessantotto, scritto insieme a Guattari, l’evento è uno sganciamento, una rottura delle catene della causalità, una biforcazione, una con-causa immateriale e una deviazione rispetto alle leggi della storia. Esso rappresenta l’apertura a uno stato instabile che apre un nuovo campo di possibili. Tuttavia, abbiamo anche visto che l’azione produttiva della contro-effettuazione non rimane del tutto autonoma rispetto al puro divenire che investe i corpi nella loro reciproca mescolanza. Deleuze ci parla infatti di una doppia struttura dell’evento. Da un lato, l’evento è prodotto come effetto dalla mescolanza tra corpi, dall’altro, è la sua contro-effettuazione a produrlo come evento neutro, liberato, impersonale. L’evento è, dunque, quel senso disincarnato e immateriale che si produce come un vapore sulla superficie dei corpi; che partecipa e prescinde, allo stesso tempo, dalla loro mescolanza50. Secondo questa interpretazione, non può darsi alcuna sintesi “simbolica” o idealistica, nel senso hegeliano del termine, ma soltanto uno sdoppiamento superficiale (e inesistente) in grado di rendere conto della contingenza e della molteplicità. Non si tratta di un superamento paolino, di un hos me, di una negazione o abolizione della morte, della malattia, del mondo, ma di un’affermazione della morte, della malattia, del mondo, affinché in essi si possa essere in grado di 49 Cfr. Daniel W. Smith, The Inverse Side of the Structure: Žižek on Deleuze on Lacan, «Criticism», 4, 2004, pp. 635-650. 50 Cfr. Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mai 68 n’a pas eu lieu, in Gilles Deleuze, Deux régimes de fous, Éditions de Minuit, Paris 2003; tr. it. di V. Bellizzi, Il Maggio 68 non ha avuto luogo, «Engramma», 156, 2018, disponibile online (http://www.engramma.it/eOS/ index.php?id_articolo=3414).
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cogliere un senso nuovo. In quest’etica ne va di una trasformazione che non cambia nulla, di una subordinazione insubordinata. Godani parla di un «disperato ottimismo» o di un ottimismo senza speranza e senza trascendenza51. Operare la contro-effettuazione significa, infatti, riuscire a conquistare lo splendore che è proprio della vita in quanto tale: «Attribuire alle pesti, alle tirannidi, alle guerre più spaventose la fortuna comica di aver regnato per nulla»52.
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Godani, Deleuze cit. Deleuze, Logica del senso cit., p. 135.
Ontologia machiavelliana. Il conflitto politico dopo il neoliberismo e la pandemia1 Francesco Marchesi
1. Una nuova situazione filosofica Due crisi in poco più di dieci anni hanno trasformato profondamente l’orizzonte politico, economico e sociale delle democrazie occidentali. Il collasso finanziario del 2008 e lo shock pandemico hanno però probabilmente solo accelerato tendenze e contraddizioni già visibili da tempo. E tuttavia la filosofia, più ancora di altre scienze umane, sembra aver del tutto mancato l’incontro con questi avvenimenti. Dominata ancor oggi da una generazione di autori che ha svolto la propria riflessione a partire da eventi quali il maggio parigino e la strategia della tensione italiana, la filosofia contemporanea sembra attardata sui motivi tipici di quella fase. Una concezione leviatanica e astratta di ogni forma politica e istituzionale (a partire da quella statuale), che ha l’effetto di dividere i filosofi in fobici pronti all’esodo2 e apologeti di ogni katéchon tecnocratico3, e una lettura
1 Questo saggio anticipa alcune tesi di un mio libro di prossima pubblicazione presso Edinburgh University Press, dal titolo: Machiavellian Ontology. 2 Cfr. da ultimo Pierre Dardot, Christian Laval, Dominer. Enquête sur la souveraineté de l’État en Occident, La Découverte, Paris 2020, in una linea che si riconnette, pur criticamente, a Michael Hardt, Antonio Negri, Empire, Harvard University Press, Cambridge 2000; tr. it. di A. Pandolfi, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2000. Per una discussione: Elia Zaru, La postmodernità di «Empire», Mimesis, MilanoUdine 2019. 3 Una tendenza diffusa ma ben rappresentata da alcuni esiti del cosiddetto pensiero negativo italiano. Cfr. ad esempio Massimo Cacciari, Il potere che frena. Saggio di teologia politica, Adelphi, Milano 2013. Ma già Massimo Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1976; Mario Tronti, Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015), a cura di M. Cavalleri, M. Filippini, J.M.H. Mascat, il Mulino, Bologna 2017.
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irrazionalistica del conflitto4, che si oppone alla forma come apparizione messianica5 o ritorno del represso6. Un complesso di posizioni da cui risulta l’impossibilità di comprendere l’evento del conflitto come fattore di sviluppo e trasformazione delle forme politiche. Alle spalle di questa immagine dello spazio filosofico – liscia, ripetitiva, priva di bisogni materiali e di striature che non siano singole differenze soggettive e isolate – si staglia un chiaro referente reale: la figura della globalizzazione neoliberista nella sua versione diffusa nel discorso delle scienze sociali a partire dagli anni Novanta. Spazio aperto e uniforme, privo di confini e conflitti, questa immagine era già stata anticipata dalla filosofia poststrutturalista degli anni Settanta, fino a generalizzarsi come trascendentale di ogni riflessione possibile. Il che ha reso qualunque limitazione e definizione di tale spazio tendenzialmente totalitaria e ogni razionalizzazione dell’esperienza, anche politica, fatalmente dogmatica. Un tale orizzonte teorico appare oggi superato. La spinta che l’Occidente trae dal proprio declino verso interventi pubblici di natura sociale e infrastrutturale – come nei piani rispettivamente europeo e della nuova amministrazione americana elaborati dopo la pandemia –, l’affermarsi di un modello orientale in cui la regolazione e la pianificazione hanno un ruolo essenziale, il necessario controllo collettivo della crisi climatica, sono solo alcuni dei fattori sociali ed economici che rovesciano i compiti della filosofia7.
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Anche in questo caso siamo di fronte ad assunzioni di ampio impatto ma la cui genesi può essere rintracciata in un orientamento presente nella filosofia francese successiva allo strutturalismo e nelle origini dell’operaismo italiano. A titolo d’esempio si veda: Michel Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire, in AA.VV., Hommage à Jean Hyppolite, PUF, Paris 1971; tr. it. e cura di A. Fontana e P. Pasquino, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977; Mario Tronti, Operai e capitale (1966), DeriveApprodi, Roma 2013. 5 Un approdo complessivo dell’opera di Giorgio Agamben. Si veda su questo in particolare Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza 2014. 6 Soprattutto le cosiddette filosofie neolacaniane della mancanza (Badiou, Laclau, Žižek, ecc.). In proposito si veda: Yannis Stavrakakis, The Lacanian Left. Psychoanalisis, Theory, Politics, SUNY Press, New York 2007; Oliver Marchart, Post-Foundational Political Thought. Political Difference in Nancy, Lefort, Badiou and Laclau, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007. 7 Cfr. Benjamin Bratton, The Revenge of the Real. Politics for a Post-Pandemic World, Verso, London-New York 2021; Paolo Gerbaudo, The Great Recoil. Politics After Populism and Pandemics, Verso, London-New York 2021.
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Come suggerito da più parti8, non si tratta più di opporre il conflitto alla forma, la libertà al controllo, le potenze frenanti allo sviluppo tecnico, ma di analizzare i conflitti all’interno di tali strutture, che ne orientano e definiscono il segno. Tra queste, tre forme politico-istituzionali emergono in particolare come luoghi del conflitto contemporaneo: il piano, lo Stato e la globalizzazione nel suo insieme. Si tratta insomma di definire quali soggetti e classi sociali siano i destinatari privilegiati di un piano pubblico come il Recovery Fund europeo o del piano infrastrutturale statunitense, come spinte differenti orientino l’opera di intervento degli Stati in senso conservatore o progressivo, e quale veste assuma adesso uno spazio globale che, non più liscio, appare animato non tanto da singoli attori statuali ma da diversi progetti di mondializzazione tra Oriente e Occidente9. Si è parlato a questo riguardo di «momento Poulantzas», dal nome del teorico dello Stato come relazione sociale e struttura conflittuale. Ma così come autori contemporanei si sono ispirati a classici del pensiero per leggere il presente – si pensi al Platone di Alain Badiou o allo Spinoza di Antonio Negri, tra gli altri – al fine di interpretare un tale intreccio inestricabile tra conflitto politico, forma istituzionale ed evento storico, il nome che emerge con più forza è probabilmente quello di Niccolò Machiavelli10.
8 Cfr. Rodrigo Nunes, Neither Vertical nor Horizontal. A Theory of Political Organization, Verso, London-New York 2021. 9 Cfr. almeno Richard Baldwin, The Great Convergence, Belknap, Cambridge 2016; Giovanni Arrighi, Adam Smith in Beijing. Lineages of the 21st Century, Verso, LondonNew York 2007; tr. it. di P. Anelli, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2008; Zhao Tingyang, Tianxia, tous sous un même ciel. L’ordre du monde dans le passé et pour le futur, tr. fr. di J.-P. Tchang, Les éditions du Cerf, Paris 2018. 10 Su questi temi generali e di periodizzazione filosofica si veda anche: Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi, Immanenza e politica: crisi di un rapporto, in Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi (a cura di), Crisi dell’immanenza, Almanacco di Filosofia e Politica 1, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 13-22; Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi, Elia Zaru, Fine della Belle époque, in Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi, Elia Zaru (a cura di), Istituzione. Filosofia, politica, storia, Almanacco di Filosofia e Politica 2, Quodlibet, Macerata 2020, pp. 7-16; Andrea Di Gesu, Paolo Missiroli, Istituire nel limite: politica, rottura, storia, in Andrea Di Gesu, Paolo Missiroli (a cura di), Res publica. La forma del conflitto, Almanacco di Filosofia e Politica 3, Quodlibet, Macerata 2021, pp 7-14.
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2. Le istituzioni del conflitto Oltre le immagini classiche del Machiavelli teorico di un potere ubiquo e diabolico o appassionato promotore della libertà repubblicana, nel corso dell’ultimo decennio si è affermata una sua diversa figura: il segretario fiorentino come pensatore anti-elitista e filopopolare che nelle istituzioni ha visto lo strumento per articolare e rendere produttivo il conflitto11. Il nesso interno tra conflitto e istituzioni viene declinato da Machiavelli in prima istanza come momento di nascita delle forme politiche e luogo di articolazione tra il potere e le sue condizioni. In altri termini, e a partire dal caso della Roma repubblicana (diffusamente analizzato nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio), le istituzioni nascono dal conflitto degli ordini: è il caso notissimo del tribunato della plebe, ma anche dei processi popolari, delle modalità di elezione delle assemblee (ad esempio la ripresa della pratica antica del sorteggio), del potere di pubblica accusa da parte dei tribuni, nonché dell’individuazione di istituzioni di parte senatoria, come la dittatura. In questo senso troviamo in Machiavelli un’analisi particolarmente complessa del potere popolare e dei suoi strumenti: lontano da una contrapposizione lineare tra istanze che provengono dal basso e una loro neutralizzazione nelle sedi del potere politico – si tratta del resto di uno schema, questo, del tutto posteriore sul piano cronologico – le istituzioni come il tribunato emergono nel contesto antagonistico senza separarsi da esso, ma producendo fin da subito, con la loro sola esistenza, una modificazione della forma politica. È noto infatti che l’ordinamento misto, prototipo giunto a Machiavelli da autori antichi come Polibio o Dionigi di Alicarnasso12, non sarebbe stato veramente tale senza l’elemento del potere popolare rappresentato dal tribunato, a fianco del senato e del consolato13. 11 Cfr. soprattutto: John P. McCormick, Machiavellian Democracy, Cambridge University Press, New York 2011; tr. it. di A. Carocci, Democrazia machiavelliana. Machiavelli, il potere del popolo e il controllo delle élites, Viella, Roma 2020. 12 Cfr. almeno: Cary J. Nederman, Mary Elisabeth Sullivan, The Polybian Moment: The Transformation of Republican Thought from Ptolemy of Lucca to Machiavelli, «European Legacy», 17, 2012, pp. 867-881; Arnaldo Momigliano, Polybius reappearence in Western Europe, in Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1980, pp. 103-123; Emilio Gabba, Dionysius and the History of Archaic Rome, University of California Press, Los Angeles 1991. 13 Cfr. Gabriele Pedullà, Machiavelli in Tumult. The Discourses on Livy and the Origin of Political Conflictualism, Cambridge University Press, Cambridge 2018.
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Le istituzioni per Machiavelli nascono dunque dal conflitto, senza cristallizzarne o attenuarne gli effetti, bensì promuovendone la produttività e la dinamica interna. Si può dunque parlare, a questo riguardo, di istituzioni del conflitto, e non solo provenienti dal conflitto. Non si tratta solamente, in effetti, della modifica dell’ordinamento vigente a causa della loro nascita e affermazione, ma della prosecuzione dello sviluppo antagonistico attraverso la loro opera. Una volta istituite, esse danno luogo a nuove istanze di mutamento o conservazione, come nell’esempio classico, ancora tratto dalla vicenda della Roma repubblicana, della riforma agraria. In quel contesto l’opera dei tribuni incarna non solamente la ricezione delle istanze popolari nel quadro politico, ma anche l’opera attiva di promozione di un conflitto specifico da parte di esponenti istituzionali. Si passa così da un rapporto tra conflitti e istituzioni a un conflitto tra istituzioni. La lezione machiavelliana consente così di eludere un secondo schema consolidato, dopo quello che coglie nella ricezione istituzionale delle istanze popolari solamente un tratto neutralizzante: viene qui meno una visione del conflitto come pura attività e delle istituzioni come puramente passive, alla luce esattamente del ruolo attivo (sebbene non necessariamente positivo) del tribunato nella promozione dell’antagonismo. L’immaginazione plebea è poi, secondo Machiavelli, capace di dare luogo a innovative forme del conflitto, sia al fine di ottenere le proprie istituzioni quanto passando attraverso di esse. I casi della secessio e della detractio militiae, se uniti a un’adeguata pressione esterna, ossia una minaccia bellica, risultano pratiche in grado di destabilizzare gli ordinamenti vigenti e produrne di nuovi. Su questo terreno l’azione popolare ha, secondo Machiavelli, prevenuto tanto la violenza politica a Roma quanto la sua repressione sanguinosa, così da costituire col tempo un quadro di riferimento in grado di incanalare e far sfogare l’antagonismo. Ciò non significa però, ancora una volta, neutralizzazione, al punto che il binomio legale/extralegale non risulta adeguato alla lettura delle pagine machiavelliane, anche se talvolta vi è stato sovrapposto da autori come Guicciardini o Montesquieu. Piuttosto, Machiavelli adotta la coppia concettuale ordinario/straordinario per designare e descrivere i fenomeni politici nel loro rapporto con le istituzioni: ed è controintuitivo notare come
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i processi popolari, le secessio e la detractio militiae, e persino la dittatura, risultino strumenti considerati ordinari all’interno della vita della città. Al contrario, la violenza politica, le clientele e le sètte, ossia la torsione privatistica della politica quando si corrompe e viene accentrata in poche mani, sono considerati fenomeni straordinari. I quali richiedono rimedi altrettanto straordinari14. In questo modo Machiavelli completa la descrizione di una sorta di processo istituente: dalla nascita delle istituzioni a partire dai conflitti, passando per la trasformazione dell’ordinamento generata dall’esistenza stessa di tali nuove istanze, nelle quali fin da subito si mostra la produttività di quell’antagonismo, fino ai nuovi conflitti che le istituzioni non solo recepiscono ma attivano e promuovono15. Un processo istituente qualificato da almeno tre caratteri che, se assunti come lezione di metodo machiavelliana – con la necessaria attenzione alla distanza che ci separa da questo modello –, appaiono opposti rispetto ad alcune tendenze diffuse nel pensiero contemporaneo. Un’ontologia machiavelliana delle istituzioni contrapporrebbe infatti alla diffidenza «anti-totalitaria» verso ogni potere o alla sua assunzione generica come katéchon, una concezione del potere come rapporto, pressione e coercitio (minaccia); contesterebbe la contrapposizione tra ripetizione e durata in nome della rifondazione periodica degli ordinamenti; diffiderebbe dell’immediatezza iterativa dei conflitti e di una concezione inerziale delle istituzioni, pensandone il nesso interno come grado zero della mediazione. In questo quadro, in effetti, Machiavelli offre un’immagine del potere in cui i rapporti di forza si articolano all’interno di forme istituzionali. Non esistono relazioni di potere opposte a forme o stati di dominio, ma tali rapporti si danno e sono produttivi solo se strutturati, e contemporaneamente le forme, strutture o istituzioni hanno un orientamento specifico esattamente in ragione dei rapporti di forza che incarnano. E se in questo esito ha una parte una concezione premoderna del potere, come potere sempre “di qualcuno” (stato 14 Cfr. almeno: Patrick J. Coby, Machiavelli’s Romans. Liberty and Greatness in the Discourses on Livy, Lexington, Lanham 1999; Fergus Millar, The Roman Republic in Political Thought, Brandeis University Press, Boston 2002; Lily R. Taylor, Roman Voting Assemblies, University of Michigan Press, Ann Arbor 1990. 15 Cfr. Roberto Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020; Roberto Esposito, Istituzione, il Mulino, Bologna 2021.
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come status), una sua accorta riproposizione può utilmente agire da solvente rispetto a una concezione indifferenziata dello Stato, delle istituzioni e del potere in generale. Un potere, quello machiavelliano, in cui le forze e le forme risultano inscindibili, giudicabili le une alla luce delle altre, e viceversa. Una concezione laica del potere, in cui le istituzioni nell’ordinamento misto romano svolgono non solamente una dialettica aperta ma operano tra loro attraverso la pressione e l’intimidazione, senza per questo mancare i loro scopi ma, al contrario, raggiungendo solo in questo modo i loro fini. Analogamente, tale dinamica dà luogo a una durata dell’ordinamento non perché limita il proprio corso ma in quanto lo alimenta costantemente. Anche qui è utile essere chiari: non siamo di fronte alla pura ripetizione, priva di momenti di stasi o di messa in forma del potere – non ignota ad alcune concezioni contemporanee delle istituzioni – ma a sequenze composte di coagulazioni e salti, di circostanze in cui l’ordine tiene e attimi in cui salta e deve essere rifondato. L’evento machiavelliano, ci torneremo, è da questo punto di vista correlato alla strutturazione, perché senza di essa si perderebbe nel flusso indifferenziato della sua pura ripetizione16. Un’ontologia machiavelliana sarebbe così un istituzionalismo conflittuale e storico, al riparo dalla ripetizione lineare che alcuni colgono nell’istituzionalismo giuridico e nella contrapposizione tra istituzioni antiche (secondo l’esempio del diritto romano) e Stato moderno. Infine, l’istituzione machiavelliana dà luogo a una sorta di grado zero della mediazione17. Recependo o attivando i conflitti essa infatti non ne eleva lo statuto, non produce quel salto qualitativo che è tipico della modernità, in particolare nella sua veste dialettica. È una mediazione più povera da questo punto di vista, ma non è neppure l’assenza di ogni mediazione. Il circolo tra attività e passività che sopra abbiamo descritto sembra dunque porsi in questa relazione duplice con le istituzioni propriamente moderne: per un verso, meno preso nelle aporie e nei dualismi della rappresentazione classica, e 16 Si veda in proposito la lettura lefortiana di Machiavelli, con particolare riferimento all’interpretazione datane da Mattia Di Pierro, L’esperienza del mondo. Claude Lefort e la fenomenologia del politico, ETS, Pisa 2020. 17 Una analisi di questi problemi si trova in Francesco Marchesi, Conflitto: il grado zero della mediazione, disponibile online (https://www.quodlibet.it/letture/francesco-marchesi-conflitto).
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tuttavia meno in grado di produrre uno scatto in avanti che trasformi la quantità in qualità, per l’altro. Riferimento che pare, nei suoi pregi e limiti, singolarmente adeguato a una congiuntura teorica che, sebbene in via di fuoriuscita dalla temperie detta talvolta postmoderna, non può che assumere parte della sua critica alle istituzioni della modernità. 3. Il conflitto contro la competizione e la guerra Una tendenza diffusa all’interno della filosofia contemporanea, che unisce autori anche molto lontani come Schmitt, Arendt e Foucault, ha pensato il conflitto politico attraverso le matrici concettuali della guerra e della competizione: un conflitto simmetrico, tra agenti omogenei per origine storica e sociale, simili per finalità e pari quanto a strumenti di lotta. Del resto è proprio così, nella guerra o nella competizione (nel mercato, per le cariche politiche in una democrazia dell’alternanza ecc.): si lotta per vincere una stessa battaglia, si condividono i fini ultimi ma si diverge sui mezzi, si è dotati di analoghe opportunità di partenza. Ne risulta un’eterna ripetizione dello stesso conflitto, che vive di spostamenti nei rapporti di forza ma non è in grado di dar luogo ad alcun cambiamento di terreno. Una battaglia in trincea piuttosto che una guerra di movimento18. Il pensiero machiavelliano si confronta con queste alternative, già presenti in forme comparabili nel pensiero platonico e aristotelico, giungendo a elaborare un’immagine dell’antagonismo del tutto diversa. In effetti, la filosofia greca ammetteva la competizione e il conflitto esterno (pólemos), ossia la guerra, mentre tentava di allontanare in ogni modo lo spettro della guerra intestina (stásis). Tutto ciò aveva un nesso con un altro rilevante avversario teorico di Machiavelli, la tradizione della concordia ordinum. Se infatti il conflitto si riduce a competizione interna per le medesime cariche politiche, divergendo unicamente sui mezzi per ottenerle, non si ha in questa chiave un reale antagonismo, ma solamente una dinamica 18 Per una discussione di queste teorie, che qui non può essere neppure avviata, cfr. Francesco Marchesi, Geometria del conflitto. Saggio sulla non-corrispondenza, Quodlibet, Macerata 2020. Su questi problemi cfr. anche Oliver Marchart, Thinking Antagonism. Political Ontology After Laclau, Edinburgh University Press, Edinburgh 2018.
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interna all’economia naturale delle forme politiche. Analogamente, se il conflitto proviene dall’esterno, e verso l’esterno viene praticato, l’omogeneità e l’unità della comunità interna non vengono messe in discussione. Più problematico, per il naturalismo politico classico, dare ragione di un conflitto tra diversi e per diversi fini, colto come patologia dalla metafora ippocratica degli umori e come fratricidio nella memoria collettiva ateniese19. Machiavelli oppone a questo solido paradigma ereditato dall’antichità una scelta strutturale per l’asimmetria: la metafora ippocratica del conflitto tra umori – divenuta adesso binaria – coglie nel conflitto una fonte inesauribile di produttività politica, piuttosto che una patologia del corpo collettivo. La differenza tra gli attori dell’antagonismo diviene condizione essenziale per questa produttività, separando il conflitto tra umori (ceti e gruppi sociali) da quello tra sètte (clientele e gruppi di interesse), mentre la dinamica politica animata dalle disunioni assume il ruolo di fondamentale antidoto alla corruzione, che viene al contrario a identificarsi con la stasi e la concordia20. A differenza di un’immagine astratta di un conflitto svolto tra agenti simili e anonimi, ancora diffusa in una parte significativa del pensiero contemporaneo, la lezione machiavelliana suggerisce una torsione materialistica (che il segretario eredita dal materialismo della filosofia araba)21 che associa alle parti in lotta una specifica caratterizzazione sociale, da cui deriva un differente orizzonte strategico. Grandi e popolo in Machiavelli non operano in effetti allo stesso modo, e si oppongono tra loro, gli uni in vista della conservazione, gli altri del mutamento. Più precisamente, il segretario tende ad associare a ogni gruppo una pratica politica specifica, secondo la caratterizzazione di agenti anche molto diversi come la nobiltà romana, il ceto ottimatizio fiorentino, la nuova ricchezza finanziaria rappresentata dai Medici, la plebe romana o i ciompi fiorentini. Ognuna 19
Cfr. almeno: Nicole Loraux, La cité divisée. L’oubli dans la mémoire d’Athènes, Payot, Paris 1997; tr. it. di S. Marchesoni, La città divisa. L'oblio nella memoria di Atene, Neri Pozza, Vicenza 2006; Nicole Loraux, La guerre dans la famille, «Clio», V, 1997, pp. 21-62. 20 Cfr. Neal Wood, Il valore dell’insocievole socievolezza: Machiavelli, Sidney, Montesquieu; tr. it. di F. Marchesi, in Di Gesu, Missiroli (a cura di), Res publica cit., pp. 269-296. 21 Cfr. Anthony Parel, The Machiavellian Cosmos, Yale University Press, New Haven-London 1992; Nancy A. Siraisi, Medieval and Early Renaissance Medicine, University of Chicago Press, Chicago 1990.
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di queste figure, e ancora altre, porta con sé tendenze e preferenze che ne connotano l’azione e il ruolo storico, del tutto inversamente rispetto a un antagonismo procedurale, a un’inimicizia astorica, a una lotta per la memorabilità tra pochi o a un conflitto permanente tra potere e resistenza. Una differenza strategica tra le parti implicate nella relazione antagonistica che ripropone la centralità, già osservata, del circolo tra conflitto e istituzioni. Solo alla luce della forma politica e istituzionale è infatti possibile comprendere i differenti fini degli attori del conflitto, così come solo queste prospettive divergenti orientano la struttura politica in un senso o in un altro. Il prevalere di una parte all’interno del conflitto decide in effetti della conformazione politica a venire, e l’evoluzione dei rapporti di forza interni all’apparato istituzionale consente di descriverne la natura. L’opera di Machiavelli, da questo punto di vista, può essere colta come un catalogo di conflitti e istituzioni, di stasi istituzionali e di rotture conflittuali22. Una sorta di tipologia, che descrive e registra gli attori politici, le pratiche che li caratterizzano e gli esiti che queste producono. E, analogamente, come un inventario di istituzioni, orientate in un senso o nell’altro, assemblate e ricomposte secondo diverse combinazioni storiche, orientate da molteplici relazioni di potere presenti al loro interno. In questo senso, in una prospettiva machiavelliana, ogni conflitto si giudica non in sé ma dagli effetti che si registrano sulla forma istituzionale cui dà luogo, e ogni istituzione si comprende alla luce di questa genesi e delle linee di forza che ne risultano al suo interno23. Lontano tanto dalla pluralità nietzschiana delle forze quanto dalla univocità a cui approdano le parti nella totalizzazione hegeliana, il distico machiavelliano di conflitto e istituzioni parla di una costante e discontinua lotta egemonica tra le parti per il tutto, punteggiata da periodi di stabilità e momenti di rottura. Da questo punto di vista il conflitto è un fattore di produttività e di ordine24: se per un verso il 22 Cfr. Marco Geuna, Ruolo dei conflitti e ruolo della religione nella riflessione di Machiavelli sulla storia di Roma, in Riccardo Caporali, Vittorio Morfino, Stefano Visentin (a cura di), Machiavelli: tempo e conflitto, Mimesis, Milano 2013, pp. 107-140. 23 Cfr. Francesco Marchesi, Cartografia politica. Spazi e soggetti del conflitto in Niccolò Machiavelli, Olschki, Firenze 2018. 24 Sebbene non sempre esplicita, questa nozione di conflitto come fattore di ordinamento, a metà tra uno e molteplice, è uno dei principali lasciti delle teorie neolacaniane
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due dell’antagonismo ordina la molteplicità dei fattori storici e sociali, separandoli attraverso una definita linea di demarcazione, esso mira all’uno della forma, alla conquista del potere politico nel suo insieme. Su questo piano, la circolazione machiavelliana del potere si oppone alle opzioni contemporanee del conflitto come fattore di dispersione della molteplicità, e dell’ordine come strutturazione astratta, indifferenziata al proprio interno. Due opzioni che impediscono di leggere il cambiamento delle forme politiche, al centro invece del problema machiavelliano della fondazione. 4. Fondare il nuovo: l’evento machiavelliano Se c’è un momento in cui può forse essere datato l’inizio del pensiero machiavelliano sulla politica questo è il settembre 1506, quando, tra il 13 e il 21, il segretario fiorentino risponde a una lettera ricevuta da Giovan Battista Soderini avviando una compiuta meditazione sullo statuto dell’azione politica e sulle sue implicazioni. Il problema teorico che Machiavelli sviluppa in queste pagine muove dall’apparente indifferenza delle forme dell’azione politica, come il conflitto, ossia dalla mancanza di un criterio stabile volto a definire la preferenza verso una qualità specifica di questa25. La soluzione machiavelliana si articola in due mosse successive e concentriche, la prima delle quali porta il nome del tema di fondo che caratterizza queste pagine, quello del riscontro. La tesi del segretario è che l’azione politica (nel suo linguaggio, i modi di procedere) non si muova mai nel vuoto ma debba sempre, e primariamente, incontrarsi e scontrarsi con la congiuntura storica (la qualità dei tempi) in cui viene a trovarsi. È il significato letterale del termine riscontro, un incontro/scontro, un incontro differenziale, tra politica e congiuntura, tra conflitto e storia, che decide in ultima istanza della politica. Ad esempio molto presente in opere come Alain Badiou, L’être et l’événement, Seuil, Paris 1988; tr. it. di G. Scibilia, L’essere e l’evento, Mimesis, Milano-Udine 2018; Ernesto Laclau, On Populist Reason, Verso, London-New York 2005, tr. it. di D. Ferrante, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008; Chantal Mouffe, Agonistics. Thinking the World Politically, Verso, London-New York 2013. 25 Cfr. Francesco Marchesi, Riscontro. Pratica politica e congiuntura storica in Niccolò Machiavelli, Quodlibet, Macerata 2017.
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della riuscita o meno dell’azione, quanto Machiavelli definisce un felice riscontro26. La questione appare così risolta attraverso l’introduzione del parametro mancante: se insomma la politica risulta in assonanza con i tempi essa otterrà il risultato prefissato, in caso contrario essa sarà destinata al fallimento. Machiavelli tuttavia coglie in questo esito un tratto deterministico che occorre superare. Secondo la sensibilità del tempo, infatti, un tale schema implicherebbe una stabilità dell’azione politica, secondo la natura che le è propria o che connota gli agenti che la incarnano: in questo senso non vi sarebbe spazio per una trasformazione della politica stessa in vista di un adeguamento alla congiuntura. Il segretario sembra invece in questo senso postulare un’inversione di tendenza attraverso la seconda operazione teorica che caratterizza questo testo, ossia l’idea che il riscontro si dica in molti modi. In altri termini, oltre l’opzione deterministica appena esaminata, si affacciano nell’ipotesi machiavelliana due altre formule del rapporto tra azione e tempi: da un lato, l’ipotesi dell’adeguamento, di spuria derivazione aristotelica, secondo la quale il politico saggio potrebbe modificare la propria natura permettendo alla propria azione di corrispondere ai tempi. Dall’altro, vi sarebbe la possibilità di una azione politica volta a «tentare la fortuna», ossia a forzare i limiti della congiuntura stessa, in vista di una diversa strutturazione del contesto storico di riferimento. Una modalità, insomma, orientata verso la trasformazione dei tempi. Una prospettiva machiavelliana svolta in questa luce assumerebbe una logica in grado di superare l’isolamento e l’autonomia della politica, tornando a includerne le prerogative in un campo la cui materialità sarebbe data dalla forza propria della congiuntura, dei processi, della cornice di riferimento. Quella machiavelliana è poi, di seguito, una prospettiva rivolta a determinare la storicità specifica della politica, conservativa quando assume il compito dell’adeguamento e della corrispondenza ai tempi, progressiva allorché contempli le esigenze di forzatura e non-corrispondenza al quadro dato. Una prospettiva in grado di pensare la storicità della politica a partire 26 Diverse su questo terreno le letture recenti di Carlo Galli, Riscontro, in Enciclopedia Machiavelliana, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2014, pp. 427-433, e di Miguel Vatter, Between Form and Event. Machiavelli’s Theory of Political Freedom (2000), Fordham University Press, New York 2014.
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dalla possibilità di un riscontro con la qualità dei tempi non rivolto all’adeguamento ma alla non-corrispondenza verso il presente27. Non corrispondere all’origine, all’inizio, al presente, è stato uno dei problemi della modernità politica da Machiavelli fino almeno alla Rivoluzione francese. Se il moderno è stato, tra l’altro, la stagione che si è data il compito di respingere la tradizione e la natura, la figura del ritorno all’origine, o ai princìpi, è stata spesso un esempio di questo intendimento e il campo di battaglia nel quale è emerso con maggiore chiarezza il nodo del rapporto con il passato. L’immagine del ritorno ai princìpi, a partire dalle sue origini antiche e rinascimentali, ha infatti dato luogo a un ambito semantico in grado di significare tanto la conservazione, nella ripresa di un’origine arcaica, quanto la novità, attraverso la riproposizione dell’atto fondativo, e dunque il trascendimento delle condizioni date28. E lo ha fatto nella modalità di un incontro tra istanze differenti: quella di un’origine, o di princìpi, intesi come condizionamenti dati da sempre, sedimentazione ancestrale di consuetudini e tradizioni, e l’atto della ripresa, del ritorno, della ripetizione, figura dell’atto storico-politico in rapporto con il quadro di riferimento. Una forma, in altre parole, di riscontro, di incontro conflittuale volto a pervertire o a salvaguardare il presente, a utilizzare il passato in funzione della conservazione o dell’innovazione, a traghettare verso un futuro simile all’attualità o in aperta rottura con essa. In Machiavelli la figura del ritorno ai princìpi mostra l’ampiezza del plesso semantico che contribuisce a inquadrare: per un verso, essa riprende l’idea di una tendenziale identificazione con i modi e gli ordini del passato, assumendo la possibilità di un loro ritorno e di una loro ripresa letterale, in assonanza con tanta parte della letteratura politica rinascimentale. Per l’altro, invece, sembra alludere all’avvenimento dell’inizio, alla ripresa dell’atto originario di fondazione di una città, di uno Stato, di una comunità politica. Una renovatio radicale che dell’inizio ripropone allora solamente lo spirito d’avvio di qualcosa di inedito. La figura più autenticamente machiavelliana del 27
Cfr. Charles S. Singleton, The Perspective of Art, «The Kenyon Review», 2, 1953, pp. 169-189. 28 Ha insistito, non senza alcune imprecisioni, su questa dimensione del pensiero machiavelliano Louis Althusser, Machiavel et nous, in Écrits philosophiques et politiques II, Stock/IMEC, Paris 1995; tr. it. M.T. Ricci, Machiavelli e noi, manifestolibri, Roma 1999.
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ritorno alle origini è però probabilmente un’altra: nel fiorentino il recupero dei princìpi non significa esattamente né regresso o riattivazione ma neppure rottura verticale e discontinuità. Piuttosto, la ripetizione del momento fondativo risulta problematicamente orientata verso la durata del corpo politico: in altri termini, rifondare periodicamente le istituzioni consente secondo Machiavelli all’aggregato di non corrompersi e di allungare la propria vita. Ripetizione, rinnovamento e conservazione costituiscono dunque una triangolazione complessa e non univoca. Il ritorno ai princìpi rappresenta un esempio storicamente determinato del rapporto di incontro/scontro differenziale dell’azione politica in generale, e del conflitto in particolare, con le condizioni date, fuori dall’isolamento e dalla sovrapposizione a queste ultime. Il concetto di non-corrispondenza sembra quindi eludere fin dal principio l’alternativa rigida tra una storia intesa come processo lineare, nelle molteplici forme in cui è possibile concepire il suo determinismo, e la pura simultaneità di uno spazio piatto, privo di storicità, così tipico di molte proposte filosofiche che hanno inteso sottrarsi, non senza qualche ragione, alle cornici delle filosofie della storia e dei concatenamenti strutturali. La non-corrispondenza, insediando l’antagonismo al centro della struttura, configura un istituzionalismo conflittuale che, come tale, è in grado di andare oltre se stesso. Il suo nucleo conflittuale altro non è, in effetti, che una mediazione verso il futuro, in direzione di una storicità non garantita da uno sviluppo necessario, ma neppure consegnata all’eterna ripetizione dell’identico.
Congiuntura, rottura, emergenza. Tre modi di pensare il rapporto processo/evento Andrea Moresco
Non si tratta di ripiegare tutto su uno stesso piano, che sarebbe quello dell’avvenimento, ma di ben considerare che esiste tutto un disporsi su piani distinti di tipi di avvenimenti diversi che non hanno né la stessa portata, né la stessa ampiezza cronologica, né la stessa capacità di produrre effetti. Il problema è […] differenziare gli insiemi di relazione e i livelli ai quali appartengono, e fanno sì che si generino gli uni a partire dagli altri. Da qui il rifiuto delle analisi che si riferiscono al campo simbolico o al dominio delle strutture significanti, ed il ricorso ad analisi che si farebbero in termini di genealogie, rapporti di forza, di sviluppi strategici, di tattiche. M. Foucault Noi non ce l’aspettavamo, però l’abbiamo organizzata. R. Alquati
Obiettivo di questo saggio è discutere criticamente la categoria di evento e ripercorrere alcune strade attraverso cui è possibile concepire il rapporto tra l’evento e le sue condizioni di possibilità. Con la «svolta evenemenziale della filosofia»1 segnata da alcuni protagonisti della filosofia francese dagli anni Settanta in poi (si pensi a Deleuze, Derrida, Badiou), in contrasto sia con il primato del processo dialet1
Cfr. Étienne Balibar, La philosophie et l’actualitè: au-delà de l’événement?, in Patrice Maniglier (dir.), Le moment philosophique des années 1960 en France, PUF, Paris 2011, pp. 211-234; poi in Étienne Balibar, Ecrits II. Passions du concept. Epistemologie, theologie et politique, La Découverte, Paris 2020, pp. 191-214; tr. it. di L. Cremonesi, La filosofia e l’attualità: oltre l’evento?, in Rita Fulco, Andrea Moresco (a cura di), Sull’evento. Filosofia, storia, biopolitica, Almanacco di Filosofia e Politica 4, Quodlibet, Macerata 2022, pp. 109-133.
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tico tipico della tradizione hegeliana sia con il primato della struttura tipico degli approcci strutturalisti, l’evento diventa la verità dell’essere, la legge della conoscenza e dell’accessibilità del reale. Secondo questi autori – diversamente ispirati dalla concezione heideggeriana dell’Ereignis – il bagliore dell’evento illumina la struttura dell’essere (la contingenza assoluta, inappropriabile, imprevedibile, di ciò che è, non deducibile da alcuna causa né efficiente; l’alterità impersonale che attraversa l’io; le singolarità molteplici e a-normali; l’assenza di senso e di scopi predeterminati), dissolvendo i fantasmi delle identità individuali e sociali, la razionalità del processo storico, la continuità delle strutture. In quanto tale, l’evento è convertito in una categoria trascendentale e sottratto alla dimensione della storia e della politica. Altre vie, ispirate dai lavori di Louis Althusser e di Étienne Balibar, possono essere percorse sul tema, prendendo le distanze da questa formalizzazione dell’evento e, al tempo stesso, riconoscendone alcune funzioni teoriche oggi più attuali che mai. Richiamando l’attenzione sulle sue condizioni di realizzazione all’interno di una struttura specifica, di un momento attuale, si può riportare la riflessione filosofico-politica sull’evento al piano della storicità. In primo luogo, si riprende da questi autori la lettura di Machiavelli e, in particolare, l’esercizio della filosofia come una «teoria della congiuntura»2, attraverso cui è indagata la possibilità dell’evento, ma lasciati vacanti e imprevedibili i soggetti e i luoghi del suo accadere. In secondo luogo, nella pratica teorica e politica di Marx si può ritrovare un’idea di «rottura» che qualifica materialmente e storicamente l’evento, da un lato come preparazione e gestazione di determinate condizioni favorevoli, dall’altro come concorso e fusione aleatoria di quegli stessi elementi. In terzo e ultimo luogo, la categoria di emergenza (surgissement) consente di articolare in un solo concetto la costruzione dell’evento-rottura e le occasioni propizie che quel processo è chiamato ad attraversare. 2 Louis Althusser, Machiavel et nous, in Écrits philosophiques et politiques II, Stock/ IMEC, Paris 1995; tr. it. M.T. Ricci, Machiavelli e noi, manifestolibri, Roma 1999, pp. 3641. La pubblicazione postuma di Machiavel et nous è realizzata a partire da due versioni ritrovate nell’archivio di Althusser: la prima è il dattiloscritto originale del 1971-1972, preparato in vista di un corso, su cui Althusser continua a mettere mano fino al 1986, apportando aggiunte e correzioni a lato del testo; la seconda, risalente con ogni probabilità al 1975-1976, è una fotocopia della versione precedente, con ulteriori aggiunte e correzioni manoscritte, e una riscrittura delle prime tredici pagine.
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1. Congiuntura La teoria politica di Machiavelli si può interpretare, secondo Althusser, come il pensiero di un evento: la fondazione di uno Stato nazionale nuovo in Italia. Il problema che si pone Althusser leggendo Machiavelli è proprio quello del rapporto tra l’evento e la congiuntura, l’insieme delle condizioni oggettive e soggettive in cui un evento può scaturire. In una lettera del 1962, Althusser scrive che «il problema centrale di Machiavelli dal punto di vista teorico poteva riassumersi nella questione dell’inizio a partire dal niente di un Nuovo Stato assolutamente indispensabile e necessario»3. L’evento si presenta come nuovo inizio a partire dal niente, non nel senso di un evento ex nihilo, incondizionato, che in quanto tale non potrebbe appartenere alla storia. Se così fosse, la storia sarebbe ridotta a volontarismo, a realizzazione di progetti soggettivi. Machiavelli elabora una teoria della congiuntura che, tenendo conto delle circostanze esistenti, pone un obiettivo politico e definisce le condizioni generali di possibilità che l’evento si realizzi: Che cosa significa pensare nella congiuntura? Pensare un problema politico sotto la categoria di congiuntura? Significa innanzitutto tener conto di tutte le determinazioni, le circostanze concrete esistenti, passarle in rassegna, farne il rendiconto e il confronto. Per esempio, significa, come vediamo nel Principe e nei Discorsi, ritornare con insistenza sulla divisione, sullo spezzettamento dell’Italia, sulla miseria estrema in cui la gettano le guerre tra i principi e le repubbliche, l’intervento del Papa, il ricorso ai Re stranieri. […] [Ma] la congiuntura non è il semplice riassunto dei suoi elementi, l’enumerazione delle circostanze diverse, ma il loro sistema contraddittorio che pone il problema politico e designa la sua soluzione storica, e dunque ipso facto un obiettivo politico, un compito pratico4. 3 Louis Althusser, Lettres à Franca (1961-1973), éd. par F. Matheron e Y. Moulier Boutang, Stock/IMEC, Paris 1998, pp. 221-226 (29 settembre 1962). L’interesse per Machiavelli si registra sin dal 1962, quando Althusser gli dedica il suo primo corso, in cui approfondisce la concezione non antropologica della politica, non fondata su una teoria della natura umana, e una concezione non lineare né circolare della storia, abbandonata mediante l’ipotesi teorico-politica del governo misto, che rompe l’infinità astratta dei cicli polibiani; cfr. Louis Althusser, Politique et histoire. De Machiavel à Marx, éd. par F. Matheron, Seuil, Paris 2006. Dopo il Machiavel et nous degli anni Settanta, Machiavelli sarà una figura centrale degli scritti degli anni Ottanta sul materialismo aleatorio; cfr. Louis Althusser, Sul materialismo aleatorio, a cura di V. Morfino e L. Pinzolo, Mimesis, Milano 2006. 4 Althusser, Machiavelli e noi cit., pp. 36-38, corsivo dell’autore. Cfr. Niccolò Machiavelli, Il Principe, a cura di G. Inglese, Einaudi, Torino 2013, XXVI, § 1, p. 183: «Con-
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L’evento è posto in relazione alle circostanze concrete esistenti. D’altro canto, la teoria della congiuntura lascia nell’indeterminazione il soggetto e il luogo di quell’evento, considerandoli elementi imprevedibili che il (non-)filosofo deve mantenere vuoti e indefiniti. L’evento avviene «dal nulla», «al di là di tutto ciò che esiste, dunque in un luogo sconosciuto e con un uomo sconosciuto»5. Il nuovo inizio non è la metamorfosi di qualcosa di esistente (l’espansione di un soggetto già istituito), ma una novità assoluta, il Principe nuovo in un principato nuovo, estraneo alle forme politiche esistenti della società feudale e del Papato6. Il soggetto di questa fondazione non precede l’evento, ma l’evento è proprio l’apparizione storica di un soggetto e di un luogo fino ad allora sconosciuti. Dal nulla, inoltre, poiché il nuovo inizio non risponde al telos prestabilito di un processo, né al disegno progettato da un soggetto. Il nulla di soggetti, scopi e relazioni prestabiliti non va dunque confuso con un nulla assoluto, generale, ma come «un’assenza determinata»7, non assoluta ma relativa alla congiuntura: un’indeterminazione di soggetti e geografie situata in un’analisi della congiuntura e degli elementi molteplici che la attraversano. Il nulla a cui si riferisce la lettura althusseriana di Machiavelli consiste allora nell’occasione imprevista che si genera all’interno di una formazione sociale aperta e (in) determinata dagli incontri-scontri tra le forze in campo8. L’evento è siderato adunque tutte le cose sopra discorse, e pensando meco medesimo se, al presente in Italia correvano tempi da onorare uno nuovo principe, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso di introdurvi forma che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella, mi pare concorrino tante cose in benefizio di uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo». 5 Althusser, Machiavelli e noi cit., p. 131. 6 Il Principe distingue tra l’inizio per acquisizione e l’inizio per fondazione. Nel primo caso, il principato nuovo si costituisce a partire da un principe che annette gli altri principati, ducati, staterelli e stati papali, intorno a una forma politica nuova. Questo non sarà «tutto nuovo», bensì «quasi misto»: dà una forma nuova a realtà già esistenti (cap. III). Per fondazione, invece, quando si tratta di «principati al tutto nuovi, e di principe e di Stato» (cap. VI). Ed è proprio la soluzione che fa il caso della congiuntura italiana, in cui l’unità nazionale non può essere assicurata da nessuno degli Stati e dei principi esistenti [I, 1]. 7 Louis Althusser, Lettres à D…, in Écrits sur la psychanalyse, éd. par O. Corpet et F. Matheron, Stock/IMEC, Paris 1993, pp. 83-84 (lettera a René Diatkine, 22 agosto 1966); tr. it. a cura di G. Piana, Lettere a D…, in Sulla psicoanalisi. Freud e Lacan, Cortina, Milano 1994, p. 80. 8 Come nota Matheron, la nozione di vuoto non ricorre nell’opera althusseriana con una funzione e un significato omogenei, ma assume significati differenti ed equivoci. Nei
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necessario nella sua forma, imposto dalle condizioni della congiuntura, ma contingente e aleatorio quanto al luogo e ai soggetti della sua apparizione, nonché quasi impossibile, perché la congiuntura stessa non offre soluzioni immediate al problema che pone. Pensare l’evento in relazione alle circostanze significa «pensare l’impensabile», ed è questa posizione ad essere altrove definita come la «solitudine di Machiavelli»9. Il Principe nuovo, essendo uno sconosciuto, non ha armi proprie immediatamente disponibili per fondare uno Stato, ma inizialmente necessita di armi altrui. Il riferimento di Machiavelli va, come è noto, a Cesare Borgia, figlio di papa Alessandro VI, che non è signore di nessun territorio, parte dal nulla e, servendosi delle armi francesi testi degli anni Sessanta, l’ideologia è un falso pieno capace di risolvere ogni problema poiché pone le domande in funzione di risposte già pronte. La cosiddetta «lettura sintomale» proposta da Althusser cerca allora i vuoti e le sviste delle ideologie per colmare quel vuoto ponendo le domande nascoste; questa casella vuota è il principio di nuove strutturazioni, ma paradossalmente assente e non localizzabile nella struttura stessa. La teoria che sorge dalla lettura sintomale in opposizione al falso pieno ideologico sutura quel vuoto, non ha più punto cieco ed è trasparente al proprio oggetto, donde l’accusa di teoricismo rivolta ad Althusser. Il vuoto che affiora dallo studio di Machiavelli è, invece, quello dell’occasione imprevista e dell’emergenza della novità storica, ed è a tutti gli effetti un tentativo di rispondere in un modo non più teoricista al problema della casella vuota che oscilla nella struttura. Venendo a indicare la dimensione contingente e discontinua della storia, da cui possono emergere nuovi incontri e distruggersi quelli già stabiliti, i concetti di nulla e vuoto secondo Morfino mantengono una funzione soltanto retorica e non più teorica: la contingenza, la novità imprevista, è posta dall’incontro, non dal nulla-vuoto. Secondo Terray, il vuoto su cui Althusser vuole fondare l’evento-Principe è invece il vuoto della distanza tra il popolo e il Principe; il Principe non deve diventare popolo, bensì mantenersi esterno e superiore al conflitto tra il popolo e i grandi. Anche Vatter sostiene che il vuoto e la solitudine in cui il Principe sorge siano la distanza che costui deve prendere dal conflitto sociale per fondare uno Stato nazionale. Cfr. Emmanuel Terray, Althusser and Machiavelli, in Antonio Callari, David F. Ruccio (eds.), Postmodern Materialism and the Future of Marxist Theory, Wesleyan University Press, London-Hannover 1996, pp. 257-277; François Matheron, La récurrence du vide chez Louis Althusser, in Gabriel Albiac (éd. par), Lire Althusser aujourd’hui, L’Harmattan, Paris 1997, pp. 23-49; Vittorio Morfino, Il primato dell’incontro sulla forma, in AA. VV., Giornate di studio sul pensiero di Louis Althusser, 11-12 febbraio 2004, Mimesis, Milano 2006, pp. 9-34; Miguel Vatter, Althusser et Machiavel: la politique après la critique de Marx, «Multitudes», 13, 2003, pp. 151-163; André Tosel, La Pensée italienne, de Machiavel à Gramsci, in Aliocha Wald Lasowski (dir.), Althusser et nous, PUF, Paris 2016, pp. 309-329. 9 Louis Althusser, La solitude de Machiavel (1977), «Futur Antérieur», 1, 1990, pp. 26-40; poi in Louis Althusser, La solitude de Machiavel et autres textes, éd. par Y. Sintomer, PUF, Paris 1998, pp. 311-323.
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come luogotenente del re, conquista la Romagna e poi avanza nelle Marche e in Toscana10. Un individuo che non è un Principe, in uno Stato che non è uno Stato, crea un principato nuovo ed è un Principe nuovo. Il Borgia avanza in Romagna con l’appoggio delle armi ausiliarie francesi11; non sembrandogli sicure, ricorre poi alle armi mercenarie; ma, trovando pericolose e dubbie anche quelle, si dedica alle armi proprie, procurandosi con concessioni e inganni il sostegno delle città romagnole e rendendosi così popolare12. Allo sconosciuto non si chiede di essere già Principe, ma di essere capace di diventarlo. Il «nuovo inizio» non si dà nella forma dell’immediatezza, ma come l’inizio di un diventare-Principe, di una durata13. Occorre che l’individuo abbia la virtù di servirsi delle armi altrui e di sapersene poi liberare, non diventandone dipendente. Occorre, in altri termini, che la fortuna disponga le condizioni materiali propizie, ad esempio il caso che gli interessi francesi si allineassero con quelli di Borgia; allo stesso tempo, che un individuo sia dotato di virtù per afferrare quella fortuna, servendosi provvisoriamente delle forze altrui e poi creando le proprie. L’anti-utopismo machiavelliano consiste nel «non proiettare [una forma ideale] su una materia, ma [nel] cercare l’inserimento del piano politico nella materia stessa, nelle strutture politiche esistenti»14. Le difficoltà degli Stati italiani non possono più essere lette con la lente hegeliana del negativo: la materia non è «una forma contenuta
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Machiavelli, Il Principe cit., VII, §§ 15-16, pp. 44-45. Ibid. 12 Ivi, VII, §§ 24-28, pp. 47-50. 13 «L’inizio […] è radicato nell’essenza di una cosa, poiché è l’inizio di questa cosa; riguarda tutte le sue determinazioni, non passa con l’istante ma dura con la cosa stessa» (Althusser, Machiavelli e noi cit., p. 19). Althusser propone la categoria di «inizio» e rifiuta quella di «genesi», che a suo avviso implica una concezione continuista e omogenea del processo, in cui l’oggetto che troviamo alla fine è già virtualmente presente all’origine. Il pensiero della genesi, sostiene Althusser, vuole ricostruire tutte le fasi del processo di generazione reale, «fin dalla sua origine, senza alcuna interruzione, cioè senza alcuna discontinuità, lacuna o rottura». Alla logica della genesi Althusser intende sostituire una nuova logica dell’emergenza (surgissement) in cui «il sorgere [surgissement] del fenomeno A, [è] radicalmente nuovo in relazione a tutto ciò che precede il proprio sorgere». Louis Althusser, Lettere a D cit., pp. 74-78. Cfr. anche Louis Althusser, Sur la génèse, «Décalages», 1, 2012; tr. it. di M. Turchetto, L’imperialismo e altri scritti sulla storia, a cura di F. Marchesi, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 147-148. 14 Althusser, Politique et histoire. De Machiavel à Marx cit., p. 207. 11
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nel momento hegeliano della storia»15, bensì ospita un vuoto, un’assenza, che offre ai soggetti politici l’«occasione» di dimostrare la propria virtù e di darle una forma adeguata. L’evento risulta dall’incontro aleatorio di virtù e fortuna – condizioni soggettive e oggettive –, attraverso le quali un imprevisto irrompe dall’esterno trasformando il presente16. Al tempo stesso, la virtù non può limitarsi ad attendere la sua occasione propizia, ma consiste nella preparazione delle condizioni migliori di intervento nella congiuntura – si pensi all’esempio degli argini, che in tempi di quiete gli uomini possono costruire per prepararsi a future inondazioni17. L’attesa dell’evento è un’attesa impegnata – come dimostra l’impegno politico di Machiavelli e lo sforzo continuo di delineare il compito politico nella congiuntura –, sebbene l’evento, il nuovo inizio, accada al di fuori di qualsiasi disegno e preparazione. L’evento avviene nelle condizioni e nei processi in atto nella congiuntura, ma rispetto ad essi esprime uno scarto imprevisto, non un compimento né un inveramento. La teoria può pensare efficacemente la congiuntura soltanto se mantiene quello scarto tra sé e la soluzione politica – tra il necessario e l’imprevedibile – che testimonia la presenza della storia e della politica nella teoria stessa. L’attualità di Machiavelli rivendicata da Althusser sta in questa teoria dell’emergenza e della congiuntura, che insegna a scrutare nelle contingenze del presente per intravedervi nuovi cominciamenti in atto. 2. Rottura Per pensare l’evento come concorso di congiuntura e scarto imprevisto – come fatto storico condizionato a cui prepararsi, ma indeterminato e aleatorio – si può recuperare la categoria di rottura dalla riflessione epistemologica – ma non meno intensamente politica 15
Ibid. Sulle modalità eterogenee dell’incontro di virtù e fortuna, cfr. Fabio Raimondi, Il custode del vuoto. Contingenza e ideologia nel materialismo radicale di Louis Althusser, ombre corte, Verona 2011, pp. 244 sgg. 17 Cfr. Machiavelli, Il Principe cit., XXV. Sul concetto di «preparazione» nell’incontro tra virtù e fortuna, si veda Filippo Del Lucchese, Sul vuoto di un incontro: Althusser lettore di Machiavelli, in AA.VV., Rileggere il Capitale. La lezione di Louis Althusser, Mimesis, Milano-Udine 2009, pp. 41-43. 16
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– dello stesso Althusser. Nei saggi raccolti in Leggere il Capitale e Per Marx negli anni Sessanta, Althusser riflette sull’evento teorico, che qualifica come «rottura teorica» o «rottura epistemologica» riprendendo i concetti dell’epistemologia di Bachelard18. Althusser pensa la teoria come una pratica articolata sulle altre pratiche sociali, il cui tratto specifico è quello di trasformare una materia prima caotica, astratta e ideologica in conoscenze scientifiche attraverso strumenti di ricerca, sperimentazione, astrazione, calcolo. La materia prima consiste in elementi immaginari, simbolici, o già scientifici, eterogenei tra loro in base al grado di sviluppo raggiunto dalla conoscenza e alle condizioni date19. Queste condizioni culturali, ideologiche, sociali, politiche, dalle quali l’esercizio del pensiero è attraversato, e nelle quali a sua volta agisce, rappresentano «la necessità della [sua] contingenza»20. Il risultato della pratica teorica, infine, è un concetto specificato, distinto, che supera il carattere generico e confuso della materia prima e diviene il concetto di una struttura specifica, di un sistema di differenze interne in cui il singolo elemento può essere compreso21. La teoria è una pratica, in quanto tale sottomessa a condizioni sociali complessive di esistenza che le impongono una certa problematica dominante. Ma lo sviluppo del concetto risulta da un processo di produzione che trasforma un materiale immaginario e frammentario in una determinazione ricca e specificata del suo contenuto. Vige un rapporto di emergenza e discontinuità tra le circostanze iniziali e il concetto specificato che non è comprimibile all’interno della dicotomia errore/verità. Secondo Althusser, il Capitale comincia dalle categorie più astratte e generali della struttura (merce, valore, denaro), che Marx riprende dalla scienza economica dei Fisiocratici, di Smith e Ricardo. Questa materia prima, o circostanze date, combina un insieme di concetti già 18 Louis Althusser, Pour Marx, La Découverte, Paris 1996 (prima edizione: Maspero, Paris 1965); tr. it. e cura di M. Turchetto, Per Marx, Mimesis, Milano-Udine 2006; Louis Althusser, Étienne Balibar, Roger Establet, Pierre Macherey, Jacques Rancière, Lire le Capital, PUF, Paris 1996 (prima edizione: Maspero, Paris 1965); tr. it. e cura di M. Turchetto, Leggere il Capitale, Mimesis, Milano 2006, pp. 259 sgg. 19 Per una definizione di «pratica teorica» cfr. Althusser, Per Marx cit., pp. 147 sgg. 20 Ivi, p. 61. 21 Louis Althusser, L’objet du Capital, in Althusser, Balibar, Establet, Macherey, Rancière, Lire le Capital cit.; tr. it. di F. Raimondi, L’oggetto del Capitale, in Leggere il Capitale cit., pp. 259 sgg.
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scientifici, correttamente elaborati dall’economia classica, con immagini ancora ideologiche e inadeguate. L’economia politica analizzava il plusvalore nelle sue forme specifiche d’esistenza (profitto, rendita e interesse), ma non ne coglieva la forma generale di pluslavoro, lo sfruttamento dei lavoratori22. Ricardo aveva formulato una teoria del valore-lavoro in cui il luogo della creazione di valore è la produzione e non la circolazione. Tuttavia, chiedendosi quale fosse il «valore del lavoro» e rispondendo che esso corrisponde al «valore dei mezzi di sussistenza necessari alla riproduzione del lavoro»23, non poteva spiegare la formazione del capitale. Marx rompe con la concezione idealistica del lavoro, pensando il lavoro a partire dalle condizioni materiali dei lavoratori all’interno del processo lavorativo. Il silenzio degli economisti circa la differenza tra lavoro e lavoratori è sintomatico di un concetto nascosto, la forza-lavoro. Mentre il lavoro è l’atto produttivo, la forza-lavoro è una potenza, una capacità psicofisica generica dell’essere umano. Il concetto materialista di forza-lavoro apre alla scoperta fondamentale di quella merce particolare il cui valore d’uso è fonte di valore per chi l’ha comprata24; si produce così il concetto generale di plusvalore. Qui sta la rottura epistemologica di Marx, che rende visibili le sviste e i rimossi dell’economia politica. La rottura epistemologica ridispone le categorie e gli strumenti concettuali in una nuova e differente struttura teorica, non deducibile da quelle preesistenti, nella quale assumono nuova luce e nuovi significati. Al di là dell’interpretazione althusseriana del metodo
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Cfr. ivi, p. 224. Ivi, pp. 178-179. 24 Cfr. Karl Marx, Das Kapital, in Marx Engels Werke, Dietz Verlag, Berlin 19841990, vol. XXIII; tr. it. di A. Macchioro e B. Maffi, Il Capitale, 3 voll., UTET, Torino 2009, vol. I, pp. 570-577. «Ciò che, in realtà, il possessore di denaro si trova di fronte non è il lavoro, ma il lavoratore. Ciò che quest’ultimo vende è la sua forza lavoro. Il suo lavoro, non appena ha veramente inizio, ha già cessato di appartenergli. Quindi non può essere più venduto da lui. Il lavoro è la sostanza e la misura immanente dei valori, ma esso stesso non ha valore» (ivi, p. 571). «Ma che cosa sono i costi di produzione — del lavoratore, cioè i costi per produrre o riprodurre il lavoratore stesso? Nell’economia politica, senza che se ne avesse coscienza, questa domanda si è sostituita alla domanda originaria, perché, con i costi di produzione del lavoro in quanto tale, essa girava in un circolo vizioso, non faceva un passo avanti. Quello che l’economia politica chiama valore del lavoro (value of labour) è quindi, in realtà, il valore della forza lavoro» (ivi, p. 572). E il valore della forza-lavoro – il tempo di lavoro sociale necessario alla sua (ri)produzione – «deve essere sempre minore del valore da esso prodotto, giacché il capitalista fa funzionare la forza lavoro più a lungo di quanto è necessario alla riproduzione del suo proprio valore» (ivi, p. 573). 23
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di Marx, da questa digressione epistemologica si ricava un concetto di rottura utile ai fini della nostra ricerca. Si parla di «rottura epistemologica» quando le soluzioni fornite dalle teorie esistenti, che definiscono il campo teorico dato, vengono in parte elaborate, specificate, approfondite criticamente, in parte problematizzate e rovesciate, poiché, come detto, il punto di partenza è un magma di conoscenze adeguate e inadeguate. La scienza che emerge da una rottura epistemologica è sempre scienza dell’ideologia che l’ha preceduta: scava nel tessuto ideologico e nelle condizioni imposte dalla congiuntura, ne studia la struttura e la logica interna, ne manifesta i punti ciechi e le sviste e, manifestandoli, ridispone gli elementi in una nuova struttura, fornendo nuove risposte e concetti più avanzati ed elaborati25. La rupture – che Althusser distingue dalla coupure [taglio] – è un fatto storico totale, che si produce sul piano della conoscenza e si estende alla sfera sociale, politica e ideologica; è un «evento storico-teorico», o «teorico con portata storica» – quando provoca «una mutazione dei rapporti strutturali esistenti» e della problematica teorica26: Una scienza non nasce dal nulla, ma da tutto un lavoro di gestazione, complesso, molteplice, rotto talvolta da lampi, ma oscuro e cieco, perché esso non sa a cosa tende, né, se mai giunge a una conclusione, dove va a sboccare. Una scienza nasce dal concorso imprevedibile e incredibilmente complesso e paradossale, ma necessario nella sua contingenza, di “elementi” ideologici, politici, scientifici (dipendenti da altre scienze), filosofici, ecc., che in un dato momento “scoprono”, ma a cose fatte, che si stavano cercando giacché si incontrano senza riconoscersi nella figura teorica di una scienza nascente. È in questo primo senso che una scienza esce dalla propria preistoria […]. Ma una scienza esce dalla propria preistoria anche per se stessa […] rifiutando cioè in tutto o in parte la propria preistoria, qualificandola come errore27.
La rottura sorge da «tutto un lavoro di gestazione» che approfondisce gli «elementi» e le «circostanze» date. Da questa «gestazione» 25
Louis Althusser, Du Capital à la philosophie de Marx, in Althusser, Balibar, Establet, Macherey, Rancière, Lire le Capital cit.; tr. it. di V. Morfino, Dal Capitale alla filosofia di Marx, in Leggere il Capitale cit., p. 40. 26 Cfr. Althusser, L’oggetto del capitale cit., p. 230. Si veda poi Louis Althusser, Eléments d’autocritique, Hachette, Paris 1974; tr. it. di N. Mazzini, Elementi di autocritica, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 7-8. 27 Althusser, Elementi di autocritica cit., p. 13.
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emerge un «concorso imprevedibile» di elementi che viene al mondo rifiutando – non realizzando o inverando – le proprie condizioni e segnando una novità irreversibile. La categoria di rottura coglie, insieme, la pratica complessa e non lineare della gestazione e costruzione delle sue condizioni favorevoli da un lato, e dall’altro il nuovo inizio che sorprende il presente e nega il proprio passato. La necessità della contingenza, mettendo l’accento sulla contingenza e sull’imprevedibilità, non toglie che le condizioni stesse della produzione si accompagnino silenziosamente al proprio prodotto. Le filosofie che riducono la storicità «all’imprevisto, al caso, all’eccezione, che sorge e cade per ragioni contingenti nel vuoto continuo del tempo»28, perdono di vista i nessi strutturali tra elementi non contemporanei che «in un dato momento» si incontrano e con-corrono. Questo «concorso imprevedibile, complesso e paradossale» si pone dunque fuori dalla dicotomia di continuo e discontinuo, con cui il tempo storico è rappresentato come una linea lungo la quale marcare dei tagli [coupures] e periodizzare la continuità29. 3. Emergenza I testi storici e politici di Marx concepiscono la rottura proprio come un accumulo di contraddizioni, di circostanze e di processi di preparazione e gestazione, che generano eventi e occasioni imprevedibili30. Nell’apertura del 18 Brumaio si legge che «gli uomini fanno 28
Althusser, L’oggetto del capitale cit., p. 193. Cfr. ivi, p. 190. 30 Sulla compresenza nell’opera di Marx di una filosofia della storia progressiva e lineare, basata sulla «negazione delle negazione», e una teoria anti-evoluzionista, cfr. Étienne Balibar, La philosophie de Marx, La Découverte, Paris 1993; tr. it. A. Catone, La filosofia di Marx, manifestolibri, Roma 2005, pp. 115-161. Balibar distingue nel Capitale «tre livelli di generalità decrescente» del materialismo storico: un primo livello finalistico e deterministico della successione progressiva dei modi di produzione, in cui la socializzazione delle forze produttive contraddice e tende a dissolvere i rapporti sociali di produzione; un secondo livello della lotta di classe, che è la variabile decisiva della risoluzione della contraddizione, la cui unica necessità è quella soggettiva interna alle classi; un terzo livello riguarda la relazione tra le lotte operaie e la ristrutturazione capitalistica che le contrasta. Dalla combinazione di questi tre livelli risulta che Marx abbandona i modelli esplicativi precedenti e costruisce una nuova conoscenza della storia, trasformando radicalmente i concetti della dialettica stessa. 29
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la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione»31. Analizzando la fase politica francese tra il 1848 e il 1851 – con la repressione dell’insurrezione operaia del giugno 1848, la costituzione della repubblica e infine il colpo di Stato di Luigi Bonaparte –, Marx comprende che le circostanze interagiscono sempre con la tradizione, e che le condizioni sociali sono sempre surdeterminate dall’immaginario storicopolitico. La storiografia borghese (Guizot, Tocqueville) rappresentava la storia francese senza soluzione di continuità tra la rivoluzione del 1789 e la dittatura bonapartista: un processo continuo comprendente la dissoluzione dell’Ancien Régime, la monarchia assoluta, l’evento rivoluzionario, poi la centralizzazione burocratica del potere statale sotto Napoleone, la repubblica, infine il partito dell’ordine e il colpo di Stato del 1851. La rivoluzione è addomesticata in un continuum storico; la ripetizione e i parallelismi sono le rappresentazioni tipiche di quella storiografia32. Marx la descrive come una «storia senza eventi (Geschichte ohne Ereignisse); un’evoluzione la cui unica molla sembra essere il calendario, e che stanca per la ripetizione degli stessi momenti di tensione e distensione»33. La «storia senza eventi» sussume la storicità sotto una causalità lineare in cui i giorni si ripetono sempre uguali, il conflitto è espulso dalla storia, «uomini e avvenimenti appaiono come […] ombre a cui è stato tolto il corpo»34. Come segnala Massimiliano Tomba, Marx non rifiuta una teoria processuale della storia. Al contrario, coglie i processi di lunga durata e si serve diffusamente del concetto di processo per esprimere l’insieme delle condizioni reali di un fenomeno storico35; analizza i processi tipicamente borghesi di concentrazione dei mezzi di produzione e della proprietà, di agglomerazione urbana della popolazione e di centralizzazione burocratico-amministrativa del potere statale che attraversano le fasi pre- e post-rivoluzionarie. Ma i processi storici di 31 Karl Marx, Der achtzehnte Brumaire des Louis Bonaparte (1852), in Marx Engels Werke cit., vol. VIII; tr. it. di P. Togliatti, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 44. 32 Massimiliano Tomba, Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Jaca Book, Milano 2011, pp. 27-28; pp. 128 sgg. 33 Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte cit., p. 87. 34 Ibid. 35 Cfr. Balibar, La filosofia di Marx cit., pp. 142-143.
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medio/lungo periodo non sono proiettati su una teoria continuista e omogenea del tempo storico; al contrario, processi e tendenze di lunga durata si sovrappongono a rotture e salti capaci di interrompere quel continuum36. Le lotte di classe in Francia che Marx prende in esame sono il discontinuum dei processi storici in atto; riferendosi alla rivoluzione del febbraio 1848, Marx la definisce «un colpo a sorpresa [...], un avvenimento di importanza storica mondiale»37, che tuttavia fu recuperato dal partito dell’ordine, riportando la società francese più indietro di prima. Questo accade perché le lotte di classe sono irregolari e discontinue, procedono per avanzamenti improvvisi e interruzioni, regressi e salti in avanti, con un movimento a spirale che le porta in una situazione in cui un ritorno indietro non è più possibile: Le rivoluzioni proletarie […] criticano continuamente se stesse; interrompono ad ogni istante il loro proprio corso; ritornano su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo; […] si ritraggono continuamente, spaventate dall’infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: Hic Rhodus, hic salta! Qui è la rosa, qui devi ballare38.
Marx elabora nel 18 Brumaio una «stratigrafia di classe»39 che cerca nel presente quegli elementi che – seppur sotterranei, carsici, o ritratti su se stessi – sono incompatibili con lo Stato centrale e prefigurano una rottura possibile. L’analisi stratigrafica della società e della storia contrasta la storiografia continuista e la causalità lineare; tenta di cogliere, ai vari livelli e strati della congiuntura, le circostanze e le condizioni che preparano la rottura. Sono percorsi carsici, quelli che la storiografia materialista deve ricostruire per ritrovare la forza dei movimenti operai del 1848. Ciò che prepara l’evento è infatti un accumulo di condizioni oggettive e soggettive, di circostanze esterne, e di un’elaborazione politico-immaginaria capace di tradurre quelle circostanze in iniziativa autonoma. Questi “elementi” non configu36
Cfr. Tomba, Strati di tempo. Karl Marx materialista storico cit., pp. 128-129. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte cit., p. 52. 38 Ibid. Cfr. Vittorio Morfino, Dal Manifesto al Diciotto Brumaio: storia e rivoluzione, in Stefano Petrucciani (a cura di), Il pensiero di Karl Marx. Politica, filosofia, economia, Carocci, Roma 2018, pp. 161-171. 39 Tomba, Strati di tempo. Karl Marx materialista storico cit., 130-131. 37
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rano una pluralità indistinta; Marx ne mette anzi in rilievo i nessi strutturali e stratificati accanto alla loro variabilità e contingenza. La storiografia marxiana indaga i percorsi carsici della rivoluzione, il «lavoro di gestazione» della rivoluzione sociale proletaria che sorge nelle pieghe della rivoluzione borghese40. Riprendendo quella ricerca storica e teorica, nei saggi raccolti in Per Marx, Althusser concepisce il nuovo inizio a partire dal nulla – l’occasione che si apre nella congiuntura – come accumulazione di molteplici contraddizioni all’interno di una società che si “fondono” ed “emergono” in modi e tempi inaspettati. Esaminando la rivoluzione bolscevica del 1917, nota che circostanze multiple ed eccezionali surdeterminano la contraddizione principale e producono un’«unità di rottura»41. La teoria della congiuntura non ricerca soltanto il sistema contraddittorio delle circostanze concrete esistenti, ma soprattutto gli spostamenti e le fusioni delle contraddizioni esistenti nel momento attuale. Le cosiddette «condizioni» o «circostanze» non sono dei fatti empirici, ma concetti teorici che rispondono all’idea di un incontro articolato e talvolta paradossale di molteplici contraddizioni e surdeterminazioni. Parlare di condizioni e di circostanze e praticare una teoria della congiuntura non significa cadere nell’empirismo o abbandonare la teoria all’irrazionalità del caso; le condizioni e le circostanze riflettono l’esistenza concreta e attuale delle contraddizioni che animano il processo storico42. «Questo riflettersi delle condizioni di esistenza della contraddizione all’interno di se stessa» è proprio ciò che Althusser coglie attraverso il concetto di «surdeterminazione», evidenziando nella sincronia del momento attuale il carattere sempre surdeterminato della contraddizione43. Dalla prospettiva del materialismo storico, una pluralità di pratiche e condizioni sociali si accumulano nei sotterranei e, se si fondono, emergono in superficie all’interno di un’unità di rottura improvvisa
40 Cfr. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte cit., p. 59: «Non appena uno degli strati sociali a lui sovrastanti entra in fermento rivoluzionario, il proletariato stabilisce con esso un collegamento, e in questo modo condivide tutte le sconfitte che i vari partiti subiscono uno dopo l’altro. Ma questi colpi successivi diventano via via tanto più deboli, quanto più si ripartiscono su tutta la superficie della società». 41 Althusser, Per Marx cit., pp. 184-185. 42 Cfr. ivi, pp. 175-191. 43 Cfr. ivi, p. 180.
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che Althusser definisce «esplosione»44. L’evento non è assorbito in una catena storica causale lineare, ma situato all’incrocio sincronico dei molteplici livelli che determinano la congiuntura (le condizioni socio-economiche, le circostanze nazionali e internazionali, l’immaginario e la tradizione a cui si richiamano le classi sociali, ecc.). Da Marx a Machiavelli, e ritorno: la rottura non è concepita come un taglio nel continuum dell’essere, ma come la possibilità di pensare e agire nella congiuntura e di inserirsi attivamente nel corso delle variazioni e delle occasioni che si presentano. L’evento porta un debito con il suo passato, con la congiuntura, ma è irriducibile ad esso in ragione dell’incontro aleatorio e sincronico in cui si realizza. Questo lavoro preparatorio riceve, nel Manifesto, sostanza organizzativa e indicazioni programmatiche. Marx ed Engels criticano ogni illusione dell’immediatezza e qualificano il comunismo, secondo Balibar, come una «costruzione»45. Denunciando l’insufficienza delle forme di resistenza puntuali, locali, economiche, si pone infatti l’esigenza di un’articolazione reciproca e di una generalizzazione politica dei conflitti localizzati e categoriali. Il comunismo non è qualificato né come esito necessario della storia, né come evento incondizionato e imprevedibile, ma come movimento di composizione e convergenza che agisce all’interno dei singoli partiti e dei movimenti sociali per spingerli al livello della lotta complessiva per l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione46. La ricomposizione non è una semplice sommatoria dei singoli conflitti esistenti, ma l’emergenza nel corso storico di un soggetto nuovo (la classe), che si costituisce in quel movimento compositivo e non esiste al di fuori degli elementi che si incontrano e si compongono. Da questa prospettiva non si cede né alle teorie delle mediazioni sociali e del processo continuo né all’immediatezza dell’evento puro. Il concetto della lotta di classe, su cui è fondata l’ipotesi del Manifesto comunista, segnala che non esiste un interesse comune tra le parti in gioco dentro i rapporti sociali di sfruttamento. Non c’è me44
Ivi, p. 189. Étienne Balibar, Il Manifesto oltre il suo tempo, in Karl Marx, Friedrich Engels, Il Manifesto comunista. Con saggi e contributi sull’attualità, a cura del Collettivo C17, Ponte alle grazie, Milano 2018, p. 180 (ed. or.: Manifest der kommunistichen Partei, in Marx Engels Werke cit., vol. IV). 46 Cfr. Marx, Engels, Il Manifesto comunista cit., p. 25. 45
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diazione se non residuale, destinata ad essere assorbita dallo sviluppo dell’antagonismo. Tuttavia, tra l’origine (i conflitti locali e puntuali) e la fine (l’estinzione dello Stato), la lotta di classe deve cercare le proprie mediazioni, dei campi di contesa intermedi, per accumulare forza e farsi duratura. Tali tappe intermedie del conflitto sociale si presentano, secondo Balibar, come occasioni della transizione, da utilizzare per rafforzare la lotta di classe e la scissione del corpo sociale, non per ricomporla o regolarla. In questo senso, abbandonando ogni schema storicistico, le mediazioni sono semplici occasioni, terreni di sedimentazione dell’antagonismo sociale e non momenti di sintesi. La «costruzione» non è un’immediatezza, né una mediazione nel suo significato tradizionale, ma può essere pensata come «emergenza», un processo costruttivo segnato da tappe intermedie e scarti interni, accumulo soggettivo e occasioni impreviste che trasformano il processo stesso e i propri soggetti. Evento e rottura sono sottratti alla dicotomia immediatezza/mediazione e qualificati, mediante la categoria di «emergenza», come un ricco mosaico di occasioni non prevedibili attraverso cui le condizioni e le contraddizioni sono approfondite e surdeterminate. La mediazione/occasione non è più il momento di un processo, ma il movimento stesso, ciò che succede tra un momento e l’altro.
Evento e struttura. Uno o due materialismi dell’aleatorio? Vittorio Morfino
1. Premessa Se volessimo caratterizzare nel modo più schematico possibile il campo delle interpretazioni degli scritti althusseriani degli anni Ottanta potremmo ridurre le differenti sfumature a una opposizione fondamentale: continuità o discontinuità rispetto al pensiero althusseriano precedente ed in particolare rispetto allo strutturalismo degli anni Sessanta. Da una parte una filosofia dell’evento, del soggetto, della libertà, che costituisce una vera e propria Kehre rispetto alla filosofia degli anni Sessanta, pensata secondo la classica immagine caricaturale di uno strutturalismo che rende impensabile il divenire, la storia, il soggetto; dall’altra, una “inflessione”, sia pure unilaterale, di una tendenza ricorrente nel pensiero althusseriano, per usare i termini di Gregory Elliot1. Vorrei proporre nelle pagine che seguono, prendendo spunto da alcuni miei lavori sull’argomento, una lettura che vuole essere, al tempo stesso, una complicazione del quadro interpretativo basato sulla coppia continuità/ discontinuità, ed una rettifica delle conclusioni implicite nella mia interpretazione precedente. 2. Un excursus Come detto, farò in primo luogo un breve excursus attraverso i lavori da me dedicati nel corso degli anni all’ultimo Althusser. 1 Gregory Elliott, Ghostlier demarcations. On the posthumous edition of Althusser’s writings, «Radical Philosophy», 90, 1998, p. 28.
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In primo luogo prenderò in considerazione l’Introduzione che ho scritto con Luca Pinzolo alla traduzione italiana di alcuni scritti althusseriani degli anni Ottanta, pubblicati con il titolo Sul materialismo aleatorio2. Si tratta di Sur la pensée marxiste, Le courant souterrain du matérialisme de la rencontre, i due testi apparsi sulla rivista «Lignes» su Machiavelli e Spinoza e il Portrait d’un philosophe matérialiste3. Il libro è stato pubblicato nel 2000. Nella seconda edizione del 2006 abbiamo aggiunto la traduzione del testo Sur le matérialisme aléatoire, pubblicato nel frattempo dalla rivista «Multitude»4. Volendo sintetizzare in estremo la tesi della breve introduzione, si potrebbe vedervi sostenuta una forte continuità tra l’Althusser degli anni Sessanta e quello degli anni Ottanta. L’obiettivo polemico implicito era molto probabilmente un articolo di Negri apparso in un numero speciale di «Futur Antérieur» (Sur Althusser. Passages), intitolato Pour Althusser. Notes sur l’évolution de la pensée du dernier Althusser5, in cui Negri individuava una Kehre nell’ultimo Althusser. Luca Pinzolo ed io sostenevamo che «negli scritti degli anni ’80 […] Althusser riprende alcuni dei temi cruciali già al centro delle grandi opere degli anni ’60, Leggere il Capitale e Per Marx: quelli della temporalità, della contraddizione, della complessità»6. Per illustrare questa affermazione citavamo luoghi strategici dell’opera di Althusser come L’abbozzo del concetto di tempo storico, Contraddizione e surdeterminazione e Sulla dialettica materialista, e, ancora, la distinzione tra il tutto e la totalità in È facile essere marxisti in filosofia? 2 Louis Althusser, Sul materialismo aleatorio, a cura di V. Morfino e L. Pinzolo, Unicopli, Milano 2000. 3 Louis Althusser, Sur la pensée marxiste, éd. par l’IMEC, in AA.VV., Sur Althusser. Passages, «Futur antérieur», 1993, pp. 11-29; tr. it. in Sul materialismo aleatorio cit., pp. 25-53; Louis Althusser, Le courant souterrain du matérialisme de la rencontre, in Écrits philosophiques et politiques I, éd. par F. Matheron, Stock/IMEC, Paris 1994, pp. 553-591; tr. it. in Sul materialismo aleatorio cit., pp. 55-115; Louis Althusser, L’unique tradition matérialiste, éd. par O. Corpet, «Lignes», 18, 1993, pp. 71-119; tr. it. in Sul materialismo aleatorio cit., pp. 117-180; Louis Althusser, Portrait du philosophe matérialiste, in Écrits philosophiques et politiques I cit., pp. 581-582; tr. it. in Sul materialismo aleatorio cit., pp. 181-183. 4 Louis Althusser, Du matérialisme aléatoire, «Multitude», 21, 2005, pp. 179-194. 5 Antonio Negri, Pour Althusser. Notes sur l’évolution de la pensée du dernier Althusser, in AA.VV., Sur Althusser. Passages cit., pp. 83 sgg. 6 Vittorio Morfino, Luca Pinzolo, Introduzione in Althusser, Sul materialismo aleatorio cit., p. 7.
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Tra l’altro, davamo particolare importanza a questo passaggio di Contraddizione e surdeterminazione, in cui Althusser, criticando la teoria marxista della rivoluzione come contraddizione “semplice” tra forze produttive e rapporti di produzione, scriveva: Ritorniamo dunque a Lenin e attraverso Lenin a Marx. Se è vero, come dimostrano tanto l’esperienza quanto la riflessione leninista, che la situazione rivoluzionaria in Russia dipendeva precisamente dal carattere d’intensa surdeterminazione della contraddizione fondamentale di classe, bisogna forse domandarsi in che cosa consista l’eccezionalità di questa “situazione eccezionale” e se, come ogni eccezione, questa eccezione non illumini la regola, se non sia, all’insaputa della regola, la regola stessa. Giacché infatti, non siamo forse sempre nell’eccezione?7
La conclusione della nostra introduzione insisteva precisamente su quest’ultimo punto: gli scritti degli anni Ottanta prendevano in considerazione la complessità della struttura (che era al centro delle ricerche althusseriane degli anni Sessanta) dal punto di vista dell’«inizio o genesi di una tale complessità». In questa prospettiva «emerge la distinzione tra congiuntura e congiunzione, ma soprattutto il modello epicureo della caduta parallela degli atomi e del loro incontro reso possibile dal clinamen». Ci sembrava importante sottolineare che questo tema non aveva nulla a che vedere con «la riproposizione di una causalità per libertà in senso kantiano, che […] è sempre stata un oggetto privilegiato delle critiche di Althusser». Si trattava piuttosto «della ripresa del tema della complessità sempregià-data, nella prospettiva non già della sua dissoluzione rivoluzionaria ma della sua stessa costituzione aleatoria». Concludevamo: In questo senso la contingenza non si oppone tanto alla necessità, quanto alla teleologia. Il vuoto e gli atomi epicurei non fondano dunque la libertà, ma piuttosto sono la garanzia dell’assenza di un piano precedente il loro incontro. Nulla, se non le circostanze fattuali dell’incontro, ha preparato l’incontro stesso: questo il senso dell’insistenza althusseriana sul vuoto e sul nulla, non una mistica che ne fa l’altro nome di Dio, ma il nulla di tutto ciò che non è pura fatticità8.
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Ibid. Ivi, pp. 10-11.
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Il secondo testo che prenderò in considerazione è Il materialismo della pioggia di Louis Althusser. Un Lessico9, che ho pubblicato su «Quaderni materialisti» cercando di mostrare la struttura sistematica che si poteva rintracciare sotto la frammentarietà degli scritti di quegli anni. Per quanto riguarda la questione della continuità/discontinuità, suggerivo che in questi scritti fosse possibile identificare alcuni dei più importanti temi e problemi degli anni Sessanta, anche se, indubbiamente, questi erano affrontati con uno stile completamente diverso: lo stile […] è impressionistico, talvolta autobiografico, qua e là narrativo […], i riferimenti ai testi sono tutti a memoria, qualche volta stravolti o semplicemente inventati; di certo non c’è in questi testi la sistematicità e il rigore dei due grandi capolavori Leggere il Capitale e Per Marx, quell’Althusser lettore prodigioso dei testi marxiani da cui veniva fatta emergere una nuova concettualità: qui si limita a piegare la memoria dei testi al suo volere10.
A parte la differenza di stile, vedevo il più importante aspetto teorico di questi scritti nel portare al centro della riflessione filosofica ciò che era ai margini negli scritti degli anni Sessanta o, meglio, che era stato spostato ai margini dal dibattito scatenatosi sui grandi temi del rapporto scienza-ideologia e della scansione dell’opera di Marx: E tutto ciò grazie all’uso insistito di una nuova costellazione di termini […]: 1) vuoto / nulla 2) incontro 3) fatto / Faktum / fattuale / fatticità 4) congiuntura / congiunzione 5) necessità / contingenza11.
Insistendo sulla linea interpretativa tracciata dall’Introduzione, ho sostenuto «la stretta correlazione del concetto di vuoto o niente con il concetto di incontro: l’uno non può essere pensato senza l’altro, pena il cambiare di natura di entrambi»12. 9
Vittorio Morfino, Il materialismo della pioggia di Louis Althusser. Un Lessico, «Quaderni materialisti», 1, 2002, pp. 85-122. 10 Ivi, p. 87. 11 Ivi, pp. 87-88. 12 Ivi, p. 93.
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È proprio a partire da qui che ho ripreso la lettura dell’ultimo Althusser, in particolare della Corrente sotterranea del materialismo dell’incontro, in un intervento (Il primato dell’incontro sulla forma) in un convegno che si è svolto a Venezia nel 2004. Le due mosse teoriche di questo testo risiedono nell’affermazione della funzione retorica del vuoto e della centralità latente di Charles Darwin. Sul “vuoto” scrivevo: «Vorrei provare a sostenere che la grande enfasi posta sui concetti di “nulla”, “niente” e “vuoto” ha una funzione esclusivamente retorica: la contingenza, l’alea, è posta infatti dall’incontro, non dal nulla/vuoto/niente. Se si prende questa funzione retorica per teorica si rischia di trasfigurare la teoria dell’incontro in una teoria dell’evento o della libertà»13. Su Darwin: Ciò che vorrei sostenere è che la posizione althusseriana è diametralmente opposta a quella aristotelica, e che la tesi non scritta apertis verbis da Althusser nella Corrente sotterranea è in realtà il suo centro teorico fondamentale: il primato dell’incontro sulla forma. […] [Questa] riceve una luce del tutto nuova dal confronto del testo althusseriano con un autore che viene evocato una sola volta: Charles Darwin14.
Ho sostenuto la tesi della centralità del ruolo di Darwin sulla base del fatto che la semplice citazione del suo nome fa riferimento a un convegno organizzato a Parigi da Dominique Lecourt e Yvette Conry in cui Lecourt aveva presentato un intervento intitolato Marx al vaglio di Darwin, in cui il naturalista inglese veniva indicato come il vertice di una filosofia dell’incontro che contava nelle sue fila anche Epicuro e Machiavelli, un intervento che mi sembrava, se non direttamente ispirato da Althusser, almeno in dialogo con lui. 3. Un solo materialismo dell’aleatorio? Dopo questo breve excursus, posso finalmente tornare alla domanda che ho posto nel titolo, ovvero “Uno o due materialismi aleatori?”. Naturalmente nella formulazione della domanda risuona il 13
Vittorio Morfino, Il primato dell’incontro sulla forma, in Maria Turchetto (a cura di), Giornate di studio sul pensiero di Louis Althusser, Mimesis, Milano-Udine 2006, pp. 9-34, poi in Vittorio Morfino, Il tempo della moltitudine. Materialismo e politica prima e dopo Spinoza, manifestolibri, Roma 2005, p. 203. 14 Ivi, p. 210.
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titolo di un articolo di François Matheron e Yoshihiko Ichida: Un, deux, trois, quatre, dix mille Althusser. Considérations aléatoires sur le matérialisme aléatoire15. La risposta che si profila attraverso l’Introduzione e i due articoli è, in estrema sintesi, che vi è un solo materialismo aleatorio in forte continuità con il pensiero althusseriano degli anni Sessanta. Di più, quando ho trovato in alcuni testi pubblicati postumi degli anni Sessanta categorie come “congiunzione”, “incontro” e “presa” ho finito per retrodatare il materialismo aleatorio agli anni Sessanta. Mi chiedo ora se questo fosse il modo corretto di porre il problema e se non si debba invece in primo luogo prendere in considerazione il ruolo di queste categorie nel contesto teorico degli anni Sessanta per poi confrontarlo con il pensiero degli anni Ottanta. Mi chiedo oggi se questa fosse un’operazione legittima. 4. Al posto della “genesi” Prendiamo innanzitutto in considerazione il contesto in cui queste categorie emergono nei testi degli anni Sessanta. Sembrano intervenire per far luce sulla questione della disgiunzione stabilita in Leggere il Capitale tra genesi e struttura. In altre parole, una cosa è la teoria del corpo, della struttura attuale della società (per meglio dire, del meccanismo che produce ciò che Althusser chiama l’«effetto società»16) e una cosa è la teoria della società borghese come risultato storico. Mi sembra che Althusser abbia introdotto il concetto di incontro e congiunzione per risolvere due problemi che forse hanno un’origine comune: in primo luogo, l’insistenza sul termine marxiano Verbindung, tradotto con “combinazione” ma pensato come “combinatoria”, non permette di pensare la natura costitutiva delle relazioni e, in secondo luogo e di conseguenza, non consente di pensare con sufficiente chiarezza un’alternativa al concetto di “genesi”, che egli rifiutava apertamente. Vediamo le due questioni in rapida successione. 15 François Matheron, Yoshihiko Ichida, Un, deux, trois, quatre, dix mille Althusser. Considérations aléatoires sur le matérialisme aléatoire, «Multitude», 21, 2005, pp. 167-178. 16 Louis Althusser, Du Capital à la philosophie de Marx, in Louis Althusser, Étienne Balibar, Roger Establet, Pierre Macherey, Jacques Rancière, Lire le Capital, PUF, Paris 19963; tr. it. di V. Morfino, Dal Capitale alla filosofia di Marx, in Leggere il Capitale, a cura di M. Turchetto, Mimesis, Milano-Udine 2006, p. 60.
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Il primo problema emerge nell’Oggetto del Capitale, nel capitolo dedicato alla critica marxiana dell’economia politica: Althusser sottolinea l’uso marxiano del termine Verbindung per pensare i rapporti di produzione al di là del paradigma dell’intersoggettività. Una Verbindung – o, per usare i termini dell’Introduzione del 1857, una distribuzione – è «una certa attribuzione dei mezzi di produzione agli agenti della produzione in una certa proporzione fissata tra, da una parte, i mezzi di produzione e, dall’altra, gli agenti della produzione»17. Althusser nota che vi sono ulteriori distinzioni che si possono trovare in Marx: dal lato dei mezzi di produzione vi è la distinzione tra l’oggetto e gli strumenti della produzione, e dalla parte degli agenti vi è quella tra gli agenti immediati della produzione e i possessori dei mezzi di produzione. E conclude: È combinando, mettendo in rapporto questi diversi elementi, forza lavoro, lavoratori immediati, Padroni non lavoratori immediati, oggetto di produzione, strumenti di produzione ecc. che arriviamo a definire i diversi modi di produzione, che sono esistiti e che possono esistere nella storia umana18.
Qui Althusser aggiunge una importante riflessione: questa Verbindung di elementi determinati preesistenti «costituirebbe propriamente e puramente una combinatoria»19. Nella seconda edizione del 1968, Althusser corregge il tiro, affermando che questa operazione «potrebbe far pensare a una combinatoria», ma che la natura specifica dei rapporti messi in gioco da queste differenti combinazioni definisce e limita strettamente il campo: Per ottenere i diversi modi di produzione, bisogna invece combinare questi diversi elementi, ma servendosi di modi di combinazione, di “Verbindungen” specifiche, che hanno senso solo all’interno della natura propria del risultato della combinatoria20.
Perché Althusser ha proposto questa rettifica? Possiamo supporre che la traduzione del termine Verbindung con combinazione e la 17
Louis Althusser, L’objet du Capital, in Althusser et al., Lire le Capital cit., p. 388; tr. it. di F. Raimondi, L’oggetto del Capitale, in Leggere il Capitale cit., pp. 247-248. 18 Ivi, p. 248. 19 “Variantes de la première édition”, in Althusser et al., Lire le Capital cit., p. 645. 20 Althusser, L’oggetto del Capitale cit., p. 248.
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lettura come «combinatoria di elementi» possa far pensare alla preesistenza degli elementi che entrano poi in differenti relazioni nei differenti modi di produzione. La correzione di Althusser sembra tesa ad evitare ogni formalismo. Sul secondo problema si possono enumerare una serie di testi, in particolare la breve nota intitolata Sur la genèse, le lettere a Diatkine e la Querelle sull’umanismo. In questi testi viene alla luce la ragione dell’assenza del concetto di “genesi”. In una lettera a Diatkine del 22 agosto 1966, Althusser si sofferma a lungo sulla questione: Chi dice genesi dice: ricostituzione del processo attraverso il quale un fenomeno A è stato effettivamente generato. Questa ricostituzione è essa stessa un processo di conoscenza: non ha senso (di conoscenza) che se riproduce (ricostituisce) il processo reale che ha generato il fenomeno A. Si vede immediatamente che chi dice genesi dice dall’inizio che il processo di conoscenza è identico in tutte le sue parti, e nel loro ordine e nella loro successione, al processo di generazione reale. Ciò vuol dire, per parlare un linguaggio meno astratto, che chi fa la genesi di un fenomeno A può seguire à la trace, in tutte le sue fasi, fin dalla sua origine, il processo di generazione reale, senza alcuna interruzione, cioè senza alcuna discontinuità, lacuna o rottura […]. Questo recupero immediato e integrale, senza alcuna interruzione, del processo reale attraverso il processo di conoscenza, implica l’idea, che sembra ovvia, che il soggetto del processo reale è un solo e stesso soggetto, identificabile dall’origine del processo fino alla fine21.
Il paradigma della genesi implica dunque in una sorta di unità organica i concetti di “processo di generazione”, “origine del processo”, “fine o termine del processo”, “identità del soggetto del processo di generazione”, unità che è impregnata dal riferimento a un’esperienza, l’esperienza della generazione, «che sia quella del bambino che diventa un adulto, o del seme che diventa un essere vegetale o vivente»22. Nel modello genetico l’individuo che troviamo alla fine del processo, che si tratta di generare, è già presente all’origine en germe. Questo fa sì, secondo Althusser, che la struttura di ogni “genesi” sia teleologica; che ogni pensiero 21
Louis Althusser, Lettres à D…, in Écrits sur la psychanalyse, éd. par O. Corpet et F. Matheron, Stock/IMEC, Paris 1993, pp. 83-84 (lettera a René Diatkine, 22 agosto 1966); tr. it. di G. Piana, Lettere a D…, in Sulla psicoanalisi. Freud e Lacan, Cortina, Milano 1994, pp. 73-74. 22 Ivi, p. 74.
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genetico [sia] ossessionato dalla ricerca della “nascita”, con tutto ciò che comporta in termini di ambiguità questa parola, che presuppone, tra altre tentazioni ideologiche, l’idea (il più delle volte implicita e misconosciuta) che ciò che deve essere osservato nella sua nascita [abbia] già il suo nome, [possieda] già la sua identità, [sia] già identificabile, dunque in una certa misura esist[a] già prima della sua nascita per poter nascere!23.
Althusser aggiunge che il concetto di “genesi”, come ogni concetto ideologico, «riconosce [una realtà] misconoscendola, cioè designa una realtà mentre la ricopre di una falsa conoscenza, di una illusione»24. La realtà che il concetto di genesi misconosce pensandola entro il modello della nascita è il sorgere [le surgissement] del fenomeno A, radicalmente nuovo in relazione a tutto ciò che precede il proprio sorgere. […] Da ciò l’esigenza di un’altra logica rispetto a quella della genesi, ma precisamente per pensare [penser] questa realtà, e non per dispensarsi [dispenser] dal pensare questa realtà. Ho da lungo tempo attirato l’attenzione sulla necessità di costituire questa nuova logica, che è la stessa cosa che definire le forme specifiche di una dialettica materialista25.
In una breve nota dattiloscritta esattamente un mese dopo, il 22 settembre 1966, intitolata Sulla genesi, Althusser dà un nome a questa nuova logica che dovrà sostituire la categoria ideologica e religiosa della genesi: théorie de la rencontre o théorie de la conjonction26. Esempio privilegiato, come del resto anche nella lettera a Diatkine, la logica della costituzione del modo di produzione capitalistico: 1) gli elementi definiti da Marx si “combinano”, io preferisco dire (per tradurre il termine Verbindung) si “congiungono” “facendo presa” in una struttura nuova. Questa struttura non può essere pensata, nel suo sorgere [surgissement], come l’effetto di una filiazione, ma come l’effetto di una congiunzione. Questa Logica nuova non ha nulla a che vedere con la causalità lineare della filiazione né con la causalità “dialettica” hegeliana […]. 2) Tuttavia ognuno degli elementi che si sono appena combinati nella congiunzione della nuova strut23
Ivi, p. 76. Ivi, p. 78. 25 Ibid. 26 Louis Althusser, Sur la génèse, «Décalages», 1/2, 2012 ; tr. it. e cura di F. Marchesi in L’imperialismo e altri scritti sulla storia, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 147-148. 24
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tura (nello specifico il capitale-denaro accumulato, le forze di lavoro “libere” cioè spogliate dai loro strumenti di lavoro, le invenzioni tecniche) è esso stesso, in quanto tale, un prodotto, un effetto. Ciò che è importante nella dimostrazione di Marx è che questi tre elementi non sono i prodotti contemporanei di una sola e unica situazione: non è, detto altrimenti, il modo di produzione feudale che da sé solo e per una finalità provvidenziale, genera allo stesso tempo i tre elementi necessari perché “faccia presa” la nuova struttura. Ognuno di questi elementi ha la sua propria “storia” o la sua propria genealogia (per riprendere un concetto felicemente usato da Balibar a questo proposito): le tre genealogie sono relativamente indipendenti. […] Dunque, le genealogie dei tre elementi sono indipendenti le une dalle altre, e indipendenti (nella loro co-esistenza, nella co-esistenza del loro rispettivo risultato) dalla struttura esistente (il modo di produzione feudale). Cosa che esclude ogni rinascita [résurgence] del mito della genesi: il modo di produzione feudale non è il “padre” del modo di produzione capitalistico nel senso in cui il secondo sarebbe stato contenuto “in germe” nel primo27.
La pluralità di genealogie di questo passaggio indica precisamente l’opposto della “genesi”, cioè indica l’emergenza di una pluralità di elementi che coesiste ma non è l’effetto contemporaneo della stessa situazione. Questa critica del concetto di genesi ritorna nella Querelle sull’umanismo, in cui Althusser si confronta con il dibattito suscitato in campo marxista da quelle che egli definisce «le recenti scoperte della paleontologia umana»28. Il riferimento è a Leroi-Gourhan e alla teoria secondo cui l’«“ancêtre” de la lignée humaine»29 è un essere dallo sviluppo cerebrale modesto, ma che ha la particolarità distintiva di avere una posizione eretta e di avere le mani libere per fabbricare strumenti in condizioni non individuali, ma gregarie. Queste scoperte sembrerebbero colmare la lacuna che separa le società umane attuali dalle origini animali della specie umana, poiché dalle origini questa sarebbe costituita da esseri che vivono insieme e producono degli strumenti rudimentali. A riguardo Althusser cita Suret-Canale secondo cui è allora dimostrato che il lavoro sociale è la causa originaria dell’ominizzazione. Ma l’obiettivo polemico è in realtà finalizzato alla costruzione di una forma-limite del discorso che Althusser riassume 27
Ibid. Louis Althusser, La querelle de l’humanisme, in Écrits philosophiques et politiques II, éd. par F. Matheron, Stock/IMEC, Paris 1995, p. 504. 29 Ivi, p. 505. 28
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con una delle sue caratteristiche equivalenze: «Essenza dell’Uomo = lavoro (o lavoro sociale) = creazione dell’Uomo attraverso l’Uomo = Uomo Soggetto della Storia = Storia come processo il cui Soggetto è l’Uomo (o il lavoro umano)»30. Lasciamo da parte la critica che Althusser rivolge al concetto di lavoro (che deve essere sostituito da tutt’altre categorie, come ricordato sopra) e concentriamo l’attenzione sulla questione dell’antropogenesi e di quella che Althusser definisce la persistenza spontanea di una concezione che non può resistere ad associare materialismo e genesi. Genesi significa filiazione, significa che si ha a che fare con uno stesso individuo di cui si possono seguire le trasformazioni nella forma spontanea dell’empirismo che tesse un filo continuo. Nel momento in cui si rompe lo schema della genesi dell’uomo dalla scimmia, si precipita nello schema della genesi all’interno del regno umano, si identifica l’individuo originario: «[…] abbiamo finalmente trovato l’Individuo originario, è identificato, fabbrica degli strumenti di qualche sorta [de vagues “outils”], vive in gruppo: è proprio lui»31. A questo schema Althusser oppone una teoria dell’incontro, il cui esempio privilegiato è il sorgere del modo di produzione capitalistico non da un processo che ha la forma di una genesi (di una filiazione dal modo di produzione feudale), ma dalla congiunzione di una molteplicità di elementi definiti, indispensabili e distinti, generati dal processo storico anteriore, di cui è possibile tracciare differenti genealogie non riconducibili ad una logica comune. E allora, conclude Althusser, per restare all’interno della metafora della filiazione, «bisogna andare molto più lontano e dire che i Figli che contano nel processo storico non hanno padre, perché gliene servono molti, i quali padri a loro volta non sono i figli di un solo padre […], ma di molti»32. Come abbiamo visto, la critica del concetto di genesi è accompagnata costantemente da un esempio storico, quello dell’accumulazione originaria, che ritornerà nella Corrente sotterranea. L’altro esempio che si trova nel testo di Althusser è quello dell’inconscio. In una lettera a Diatkine del 22 agosto 1966 Althusser scrive:
30
Ivi, p. 508. Ivi, p. 517. 32 Ivi, p. 520. 31
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Quando si vuole pensare la “genesi” dell’inconscio si parte dal risultato nella conoscenza, cioè l’esistenza di questo “individuo” identificato che si chiama inconscio, e fare la genesi dell’inconscio significa risalire alla sua nascita, al punto in cui potremo assistere alla sua nascita, ma non si arriva se non con grande difficoltà a sbarazzarsi dell’idea che in un certo senso fare la genesi dell’inconscio significa ricercare tutto ciò che lo prefigura, lo annuncia, lo contiene già in persona, anche se a titolo di schizzo, ma che gli somiglia, e che è già lui, che porta già il suo nome, che è già identificabile se non come inconscio, come ciò che lo sarà, che dunque è più o meno già in sé l’inconscio. Si ha la più grande difficoltà a considerare che assolutamente niente preesiste all’inconscio che assomiglia all’inconscio, si ha sempre la tendenza a riconoscerlo, in germe, promessa, schizzo, elemento, prefigurazione ecc. prima della sua nascita, proprio perché viene concepito il suo sorgere [surgissement] sotto forma di una nascita [naissance]33.
Il concetto di “genesi” e di “nascita” è stato rigettato per concetti quali “incontro”, “presa”, “congiunzione”. Possiamo prendere come esempio questo passaggio della Tre note sulla teoria dei discorsi: Possiamo disporre gli elementi che sono presenti e presiedono alla congiunzione che “fa presa” nella forma dell’inconscio. […] Ora, questi elementi in presenza esistono nei personaggi della scena familiare, della situazione familiare: “situazione” ideologica in cui si producono, come costitutivi di questa “situazione”, gli effetti d’articolazione degli inconsci della madre e del padre sopra e nella struttura di questa situazione ideologica. Inconsci articolati sull’ideologico, degli inconsci articolati gli uni sugli altri attraverso l’intermediario (nella) loro articolazione sull’ideologico, ecco ciò che compone la “situazione” che presiede all’instaurazione dell’inconscio del bambino34.
È interessante infine sottolineare che il concetto di vuoto ha anch’esso un ruolo tra l’insieme dei concetti usati per sostituire lo schema della genesi, ma in una configurazione molto precisa, come “assenza determinata”: «Credo che sarete d’accordo sul principio molto generale che l’assenza possiede un’efficacia, a condizione ben inteso che non sia l’assenza in generale, il niente, o qualsiasi altro [tout autre] “aperto” heideggeriano, ma un’assenza determinata, che gioca un ruolo nel luogo della sua assenza»35. 33
Althusser, Lettere a D… cit., p. 76. Louis Althusser, Trois notes sur la théorie des discours, in Écrits sur la psychanalyse cit., p. 147; tr. it. Tre note sulla teoria dei discorsi (1966), in Sulla psicoanalisi cit., p. 133. 35 Althusser, Lettere a D… cit., p. 80. 34
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Si potrebbe forse avanzare l’ipotesi che “la teoria dell’incontro” intervenga in questi testi degli anni Sessanta come rettifica di una teoria formalista della causalità strutturale o quantomeno al fine di evitare il rischio di un fraintendimento in questo senso. In altre parole, mi sembra che il funzionamento della teoria della causalità strutturale sia garantito da tre tesi: 1) la tesi della costitutività delle relazioni; 2) la tesi del primato dell’incontro sulla forma; 3) la tesi della temporalità plurale o differenziale. Queste tre tesi vanno pensate l’una nell’altra, l’una attraverso l’altra. Infatti la tesi 1 senza la 2 produce la reversibilità di genesi e struttura o l’impossibilità di pensare il divenire della struttura; la 2 senza la 3 porta a pensare l’incontro come un evento discontinuo rispetto a un tempo unilineare; la 3 senza la 1 finisce per far pensare a una molteplicità di tempi senza relazione tra loro. 5. I testi degli anni Ottanta Possiamo ora prendere in considerazione il contenuto dei testi degli anni Ottanta in cui una serie di concetti permangono: incontro, presa, relazioni costitutive. Questa permanenza può farci pensare che abbiamo a che fare con lo stesso materialismo degli anni Sessanta, e l’esempio privilegiato dell’accumulazione originaria sembrerebbe confermare questa impressione, anche se scompare del tutto il riferimento alla psicoanalisi e all’inconscio. Vorrei sostenere che questa costellazione concettuale costituisce una delle due tendenze presenti in questi scritti, tendenza che propongo di chiamare “materialista”. Tuttavia, accanto a questi concetti, ne troviamo altri, la cui storia nel lessico althusseriano resta da scrivere, per esempio il concetto deleuziano di rizoma, il concetto marxiano di interstizio, e soprattutto la coppia margine-centro. Cito, a mo’ di esempio a proposito dei primi due concetti, questo passaggio delle Tesi di giugno, un testo scritto nel 1986 ancora inedito: Il mondo è ormai un flusso imprevedibile. Se ne vogliamo dare un’immagine, dobbiamo risalire ad Eraclito (non ci si bagna due volte nello stesso fiume), o a Epicuro (primato del vuoto sui corpuscoli atomici). Se vogliamo dare un’immagine più vicina, seguendo Deleuze in questo […] non dobbiamo più
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rappresentare il mondo à la Cartesio come un albero gerarchico, ma piuttosto come un rizoma. Quanto a me, preferirei un’altra immagine, quella di Marx. Marx diceva: gli dèi esistono negli interstizi del mondo di Epicuro. Aggiungeva: allo stesso modo in cui esistevano rapporti commerciali negli interstizi del mondo schiavistico. Direi lo stesso: i rapporti comunisti (il comunismo è la fine dei rapporti di sfruttamento economico, la fine del dominio statale e la fine delle mistificazioni ideologiche) esistono negli interstizi del mondo imperialista36.
Nello stesso testo, un passaggio sulla coppia margine-centro: «Marx diceva: il proletariato si accampa [campe] ai margini della società borghese. E lo mise al centro, al cuore della lotta di classe della società borghese. Che cosa stava facendo Marx? Ha fatto del margine il centro. Il problema è formalmente lo stesso oggi. Dobbiamo fare del margine il centro»37. Mi sembra che l’uso di questi concetti, benché raro ed episodico, lasci intravedere un’altra tendenza rispetto a quella che ho proposto di chiamare “materialista”, che è radicata profondamente nella problematica degli anni Sessanta, e che potremmo chiamare “escatologica” nella misura in cui, da una parte rifiuta la struttura gerarchica del tutto (che significa, allo stesso tempo, la complessità temporale della congiuntura), e, dall’altra, di conseguenza, afferma il comunismo come semplice parousia a-venire. In questo senso, il concetto che illumina la presenza conflittuale di queste due tendenze nei testi degli anni Ottanta è precisamente quello di vuoto: è un’espressione della tendenza materialista se pensato in una triangolazione con il concetto di clinamen e di elementi atomici (potremmo dire che vuoto, clinamen e atomi sono gli strumenti concettuali che rendono pensabile la teoria dell’incontro o della congiunzione), e, all’interno di questa relazione concettuale, esprime il semplice rifiuto dell’anteriorità del logos, del modello della genesi. Invece, se è pensato in connessione con il concetto di “mondo”, diviene espressione della tendenza escatologica (naturalmente, la partizione è schematica: vi sono alcuni passaggi in cui le due tendenze si intersecano). Ecco un esempio: Voglio dire semplicemente che questo mondo, privo di qualsiasi struttura sicura e stabile, privo di teoria, depoliticizzato all’estremo […] voglio sempli-
36 37
Louis Althusser, Thèse de juin, testo inedito, IMEC, ALT2.A29.60.04, p. 9. Ivi, p. 12.
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cemente dire che questo mondo si offre e che è da prendere. Ho studiato il tema della “fortuna” (la buona occasione) in Machiavelli, e sono giunto alla conclusione dai suoi testi che la fortuna nella sua forma superiore è il vuoto: l’assenza di ostacoli38.
Se volessimo prestare sistematicità a questo insieme di concetti (forse forzandoli), mi sembra che attraverso di essi sia coglibile il profilo di quella seconda tendenza presente negli scritti degli anni Ottanta (una tendenza che diviene predominante nei testi del 19851986), una tendenza escatologica in cui il vuoto deve divenire pieno, i margini centro, gli interstizi mondo, in cui l’assenza non ha un carattere determinato ma è piuttosto l’attesa di una piena parousia, che la teoria della causalità strutturale degli anni Sessanta considerava insieme impossibile e immaginaria: «ciò che regna in silenzio è una grande attesa!»39. 6. Conclusione Per concludere, proporrei il seguente schema interpretativo. Se prendiamo nel loro insieme gli scritti degli anni Ottanta (cosa che abbiamo fatto, Luca Pinzolo ed io, pubblicandoli con il titolo di Sul materialismo aleatorio), vi troviamo la rielaborazione del materiale depositato da due differenti flussi temporali, il primo individuabile negli anni ’66-’67 e che dà vita a quella che abbiamo chiamato tendenza materialista, il secondo negli anni ’76-’7840, che disegna la tendenza escatologica. Si potrebbe forse ascrivere alla prima tendenza la rielaborazione del materiale lasciato da un ulteriore flusso, individuabile agli inizi degli anni Settanta con i corsi su Rousseau e Machiavelli e con il testo sull’imperialismo41. Naturalmente, le due 38
Ivi, p. 10. Althusser, Sur le matérialisme aléatoire cit., p. 189. 40 Sto pensando in particolare ad alcuni passaggi sul comunismo in Louis Althusser, Sur les vaches noires, PUF, Paris 2016, pp. 251-267; tr. it. e cura di F. Bruschi, A. Cavazzini, M. Turchetto, Le vacche nere, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 143-151, e sui margini, in Louis Althusser, Être marxiste en philosophie, PUF, Paris 2015, pp. 212-216; tr. it. di V. Carassi, Essere marxisti in filosofia, Dedalo, Bari 2017, pp. 153-157. 41 Louis Althusser, Machiavel et nous, in Écrits philosophiques et politiques II cit., pp. 39-167; tr. it. e cura di M.T. Ricci, Machiavelli e noi, manifestolibri, Roma 1999; Louis 39
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tendenze producono una tensione che attraversa gli scritti e i concetti di quegli anni, una tensione che può forse spiegare le differenti, se non opposte, interpretazioni che di essi sono state offerte. Tuttavia è forse possibile fare un passo in più e rischiare un’ipotesi che potrebbe essere provata solo attraverso un preciso e rigoroso lavoro sui testi, una parte dei quali non è ancora stata pubblicata42: è possibile tentare di proporre una periodizzazione più precisa di questi scritti adombrando l’ipotesi che negli scritti del 1982 vi sarebbe una dominanza della tendenza materialista, mentre negli scritti del 1985-1986 una dominanza della tendenza escatologica. Ma forse si potrebbe tentare una periodizzazione ulteriore di questi scritti, dicendo che negli scritti del 1982 vi è un predominio della tendenza lucreziana, mentre negli scritti dell’85-’86 vi è un predominio della tendenza escatologica.
Althusser, Cours sur Rousseau, éd. par Y. Vargas, Les temps des cerises, Paris 2012; tr. it. e cura di S. Pippa, in La contingenza dell’inizio. Scritti sul materialismo di Rousseau, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 98-184; Louis Althusser, Sur l’imperialisme, in Écrits sur l’histoire, PUF, Paris 2018, pp. 103-260; tr. it. L’imperialismo e altri scritti sulla storia cit., pp. 91-179. 42 Mi riferisco al gruppo di testi classificati negli archivi dell’IMEC con la segnatura ALT2.029 (Textes divers, 1982-1986).
Evento, processo storico e politica in John Dewey Emmanuel Renault
Interrogare il rapporto tra i concetti di evento e di processo porta immediatamente a confrontarsi con una serie di difficoltà terminologiche. Entrambi i concetti, d’altronde, non hanno un uso filosofico stabile. Non appartenendo alla semantica filosofica classica, sono stati oggetto di un importante interesse a partire dal XX secolo, ma in direzioni molto diverse a seconda delle tradizioni filosofiche e dei dibattiti specifici nei quali sono stati impiegati. Se il concetto di processo ha infatti giocato un ruolo determinante in Schelling, Hegel e Marx, ancor prima di essere ereditato da Whitehead e dai suoi successori, è però soltanto da poco tempo che ha cominciato a designare un’opzione filosofica generale, alternativa alle filosofie della sostanza1, fino a confondersi con l’idea di divenire – mentre in Hegel si accompagnava, al contrario, a una critica dell’astrattezza tipica delle ontologie del divenire2. Il concetto di evento, dal canto suo, può essere inteso in un senso più o meno ampio: dalla concezione più larga o “triviale” (l’evento è tutto ciò che avviene), a quella più stretta o “enfatica” (l’evento è quell’interruzione che apre nuovi possibili). Siamo allora tentati di ricondurre le concezioni “triviali” del termine al pragmatismo americano e alla filosofia analitica e post-analitica e di agganciare invece la concezione “enfatica” alla fenomenolo-
1 Cfr. Nicholas Rescher, Process Metaphysics. An Introduction to Process Philosophy, State University of New York Press, New York 1996; Nicholas Rescher, Process Philosophy: A Survey of Basic Issues, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 2000; Johanna Seibt, Process Philosophy, in Edward N. Zalta (ed.), The Stanford Encyclopedia of Philosophy, Spring 2018 Edition, disponibile online (https://plato.stanford.edu/archives/ spr2018/entries/process-philosophy/). 2 A questo proposito, si rimanda a Emmanuel Renault, Hegel philosophe du processus, in corso di pubblicazione in un volume di studi in omaggio a Pierre-François Moreau.
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gia, all’ermeneutica e al post-strutturalismo3. Tuttavia, invece che due, conviene forse distinguere tre concetti di evento e riconoscere che certe versioni del pragmatismo americano, come quella di John Dewey, sono in grado di articolarli insieme, dotando ciascuno di essi di funzioni teoriche e politiche differenti. Come si vedrà, la filosofia processuale dell’evento di Dewey procede in questa direzione, designando con il concetto di processo un orientamento generale della filosofia, e attribuendo un senso e un ruolo specifico a quest’idea, che sembra legata alla tradizione hegeliana4. Tre concetti di evento Possiamo distinguere tre accezioni ordinarie del termine “evento”. Ciascuna di esse ha potuto essere innalzata a concetto filosofico e ognuno di questi concetti può essere a sua volta associato, in modo certo differente, all’idea di processo, sollevando questioni teoriche e implicazioni politiche non trascurabili. Possiamo rappresentare schematicamente tutto ciò con la tavola seguente. Estensione del concetto di evento
Massima Ciò che avviene
Intermedia Evento marcante
Minima Evento dirompente
Rapporto tra evento e processo
Tutto/parte Processo composto di eventi
Esclusione Evento come interruzione del processo in corso
Tipo di questione teorica posta
Ontologica «Il mondo è composto di eventi»
Momento determinante Processo iniziato, concluso o riorientato da un evento Fenomenologica, psicologica, sociologica Concetto di “esperienza problematica” e di turning point
Filosofia politica La rivoluzione come evento dirompente
3 È questo, ad esempio, l’approccio di David Espinet (Ereigniskritik: Zu einer Grundfigur der Moderne bei Kant, De Gruyter, Berlin 2017), che tenta di risolvere, a partire da Kant, l’antinomia tra queste due concezioni dell’evento, attribuite rispettivamente alla filosofia analitica e alla filosofia continentale, nella sua versione fenomenologica, ermeneutica e post-strutturalista. 4 Sul rapporto tra Dewey e Hegel, si veda Emmanuel Renault, Dewey’s Relation to Hegel, «Contemporary Pragmatism», 13/3, 2016, pp. 219-241.
evento, processo storico e politica in john dewey Questioni politiche
Possibilità della trasformazione sociale
Processi di mobilitazione collettiva, di politicizzazione, di radicalizzazione, ecc.
215 Pensare il valore politico intrinseco delle rivoluzioni
La definizione più estensiva del concetto di evento – “ciò che avviene” – può condurre alla tesi, sostenuta ad esempio da Mead, secondo la quale «il mondo è un mondo di eventi»5. La posta in gioco filosofica consiste allora nel sottolineare che il mondo è essenzialmente temporale, non spaziale, e che è composto di processi in divenire, non di entità statiche. La tesi secondo la quale il mondo è un insieme di eventi si oppone infatti alla definizione del mondo come insieme di sostanze, conducendo all’idea per cui la realtà è fondamentalmente processuale6. Si giunge così a una tendenziale identificazione di processo e evento, poiché l’evento è concepito come il tessuto stesso dei processi. A prima vista, le questioni poste dal concetto di evento, inteso in senso largo, ontologico, non sembrano avere nessuna implicazione politica. Ve ne è tuttavia una: affermare che il mondo è composto di eventi e di processi significa anche affermare che la realtà non è condannata a rimanere identica a sé stessa, e che il nuovo può sempre avvenire7. Il che significa garantirsi la possibilità di pensare il mondo nella prospettiva della trasformazione sociale8. 5 George Herbert Mead, The Philosophy of the Present, Chicago University Press, Chicago 1932, p. 1: «Parmenidian reality does not exist. Existence involves non-existence; it does take place. The world is a world of events». 6 In Mead, come in Dewey, ontologia processuale e epistemologia processuale sono strettamente legate. «I am proceeding upon the assumption that cognition, and thought as part of the cognitive process, is reconstructive, because reconstruction is essential to the conduct of an intelligent being in the universe. This is part of the more general proposition that changes are going on in the universe, and that as a consequence of these changes, the universe is becoming a different universe. Intelligence is but one aspect of this change. It is a change that is part of an ongoing living process that tends to maintain itself» (ivi, pp. 3-4). 7 Per un’argomentazione in favore dell’ontologia sociale dell’evento e del processo, si vedano le opere recenti di Andrew Abbott, nello specifico, Processual Sociology, Chicago University Press, Chicago 2017, pp. IX-X: «the world of the processual approach is a world of events. Individuals and social entities are not the elements of social life, but are patterns and regularities defined on lineage of events. They are moments in a lineage, moments that will themselves shape the next iteration of events even as they recede into the past. The processual approach, in short, is fundamentally, essentially historical». 8 Emmanuel Renault, Critical theory and processual social ontology, «Journal of Social Ontology», 2/1, 2016, pp. 17- 32.
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Ci si può poi affidare a una definizione più ristretta dell’evento, quella che impieghiamo quando diciamo, ad esempio, «questo non è un evento», parlando di un evento nel senso largo di ciò che è accaduto. In questo caso, evento non significa più ciò che accade in generale, ma ciò che avviene e che attira l’attenzione: l’evento marcante. Questo concetto di evento non ci insegna molto sulle caratteristiche generali della realtà. Sul piano teorico, le questioni poste dal suo uso non riguardano più la riflessione ontologica, ma l’analisi della costituzione degli oggetti della coscienza – perché un evento marcante modifica il nostro rapporto cognitivo con l’ambiente – o della teoria psicologica e sociologica – perché gli eventi marcanti, come l’accesso a un nuovo statuto o a una nuova posizione sociale, o la loro perdita, possono rappresentare dei “punti di svolta” nelle traiettorie sociali, o innescare nuove dinamiche psichiche9. Ancora una volta, i concetti di evento e di processo sono qui strettamente associati. Ma l’evento non definisce più il tessuto del processo: designa piuttosto uno o diversi momenti cruciali all’interno di un processo. Gli eventi marcanti possono essere dei momenti di cominciamento (il licenziamento collettivo che suscita un movimento sociale), dei momenti di compimento (l’ascesa di un governo di sinistra nel 1981), o dei momenti che si verificano nello sviluppo di un processo e che lo portano a un bivio: la repressione delle manifestazioni altermondialiste a Genova nel 2001, dopo la quale le lotte furono obbligate ad assumere forme nuove o a soccombere. Questi esempi suggeriscono che le nostre riflessioni politiche si riferiscono spesso a questo tipo di articolazione tra evento e processo. Ci interroghiamo spesso sugli eventi che inducono processi di politicizzazione o di spoliticizzazione, attribuiamo grande importanza alla comprensione di eventi che innescano i processi di radicalizzazione islamica, speriamo che un evento come la crisi sanitaria del Covid-19 possa condurre a delle ricomposizioni politiche, ecc. Ma possiamo davvero accordare a quest’articolazione di 9
Sul piano fenomenologico, cioè al livello dell’analisi della coscienza, si può menzionare il concetto di «esperienza problematica» sviluppato da Dewey. Si tratta, infatti, dell’occasione in cui un rapporto non cognitivo all’ambiente si trasforma in un rapporto cognitivo. Ho analizzato la teoria della trasformazione di Dewey in Emmanuel Renault, Dewey et la connaissance comme expérience. Sens et enjeux de la distinction entre “cognitive’’, “cognitional” et “cognized” ou “known”, «Philosophical Enquiries: Revue des philosophies anglophones», 5, 2015, pp. 19-43. A questo proposito, si veda anche il concetto di turning point in Andrew Abbott, On the concept of turning point, in Time Matters. On theory and method, Chicago University Press, Chicago 2001, pp. 240-260.
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evento marcante e processo un valore paradigmatico in filosofia politica? Probabilmente no. È però possibile affrontare le lotte contro l’ingiustizia e il dominio, o meglio, pensare il non-dominio e la giustizia, a partire dai processi pratici e cognitivi che sono generati dalle esperienze di ingiustizia e di dominio che “fanno evento”10. Ad ogni modo, colpisce il fatto che, a causa della polarizzazione del dibattito tra accezioni estese o ristrette del termine, questo terzo concetto di evento sia stato così poco impiegato filosoficamente11. Il senso più ristretto del termine consiste in qualcosa che potremmo chiamare «evento dirompente» [événement de rupture]: è l’evento che crea una cesura, che sospende l’ordine delle cose passate, che fa in modo che si creda che niente sarà più come prima. Evento non solo marcante ma siderale, perché imprevisto e inimmaginabile, capace di far apparire un possibile inedito. L’attentato alle Torri Gemelle di New York, o il primo confinamento sanitario della pandemia da Covid-19 sono stati vissuti come eventi di questo genere, come confermato dal discorso, ormai inflazionistico, secondo il quale «niente sarà come prima», che il “mondo che verrà” dovrà rompere con il “mondo precedente”. La figura politica per eccellenza di questo tipo di evento è la rivoluzione. Ciò che distingue questo concetto di evento rispetto agli altri due è anzitutto la sua restrittività. L’evento è raro, e ciò significa che se si pensa la politica a partire da questo modello, come nel caso di Badiou, bisogna anche aderire al principio arendtiano della rarità della politica. Questo concetto di evento si distingue poi per il fatto che permette di pensare l’evento contro il processo, nella misura in cui l’evento diventa l’interruzione di processi antecedenti, e non solo il loro tessuto o il loro bivio. Un pensiero dell’evento contro il processo, attraverso Heidegger e contro di lui: ecco una delle caratteristiche generali del movimento anti-hegeliano sviluppatosi in Francia a partire dagli anni Sessanta12. 10
Cfr. Emmanuel Renault, L’expérience de l’injustice. Essai sur la théorie de la reconnaissance, La Découverte, Paris 2017; Emmanuel Renault, Reconnaissance, conflit, domination, Cnrs édition, Paris 2017. 11 Come sottolineato in Espinet, Ereigniskritik: Zu einer Grundfigur der Moderne bei Kant cit. 12 Per quanto la filosofia hegeliana debba invece essere chiaramente considerata come un tentativo di articolare i concetti di evento e di processo (come ho provato a mostrare in Emmanuel Renault, Connaître ce qui est. Enquête sur le présentisme hégélien, Vrin, Paris 2015, pp. 207-232), Deleuze, Derrida e Badiou, in particolare, hanno invece cercato di dis-
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Concepire l’evento in questo modo conduce non solo ad affermare che gli eventi rivoluzionari devono essere pensati a partire dalla loro evenemenzialità, irriducibile ai processi precedentemente in corso, ma anche che il loro valore politico consiste in un’occasione di apertura di possibili, che vale per sé stessa, anche qualora non dia luogo a processi che realizzano tali possibili. Questa doppia tesi è magistralmente illustrata nell’articolo di Deleuze e Guattari intitolato Mai 68 n’a pas eu lieu. Vi sostengono infatti che «nei fenomeni storici come la Rivoluzione del 1789, la Comune o la Rivoluzione del 1917, c’è sempre una parte di evento, irriducibile ai determinismi sociali e alle serie causali. Gli storici non amano questo aspetto: restaurano delle causalità a posteriori. Ma, in sé, l’evento è sganciato da, o in rottura con, tali causalità»13. Per poi concludere che il valore dell’evento del Maggio 68 consiste nella sua dimensione “visionaria”, nel campo del possibile inedito che ha permesso di intravedere, senza tuttavia dar vita a nessun processo di realizzazione – ed è in questo senso che il Maggio non ha avuto luogo. Vi è dunque una pluralità di significati ordinari del termine “evento”, che possono condurre a diverse sue associazioni al concetto di processo. A ciò si aggiunge la pluralità di interessi di conoscenza e di interessi etico-politici che possono spingerci a privilegiare tale o talaltra accezione e combinazione, dei concetti di processo e di evento. Ciò basti a provare che ogni ricerca della migliore definizione del concetto di evento, o della sua migliore associazione all’idea di processo, risulta vana. Rinunciandovi, due altri approcci restano tuttavia possibili. Il primo porta a interrogarsi sulla maniera in cui un interesse di conoscenza, combinato con un interesse etico-politico, può essere soddisfatto a partire da una certa concezione dell’evento
sociare l’evento e il processo, giocando il primo contro il secondo. A questo proposito, si veda Étienne Balibar, La philosophie et l’actualitè: au-delà de l’événement?, in Patrice Maniglier (dir.), Le moment philosophique des années 1960 en France, PUF, Paris 2011, pp. 211-234; poi in Étienne Balibar, Ecrits II. Passions du concept. Epistemologie, theologie et politique, La Découverte, Paris 2020, pp. 191-214; tr. it. di L. Cremonesi, La filosofia e l'attualità: oltre l’evento?, in Rita Fulco, Andrea Moresco (a cura di), Sull’evento. Filosofia, storia, biopolitica, Almanacco di Filosofia e Politica 4, Quodlibet, Macerata 2022, pp. 109-133. 13 Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mai 68 n’a pas eu lieu, «Chimères», 64, 2007, p. 23 [prima in Gilles Deleuze, Deux régimes de fous, Éditions de Minuit, Paris 2003].
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e dei suoi rapporti con il processo14 ; il secondo porta a domandarsi se sia possibile impiegare congiuntamente diversi concetti di evento e diverse maniere di associare evento e processo e, se sì, come. Gli scritti di Dewey risultano interessanti proprio perché si propongono di intraprendere questa seconda strada. Il concetto di evento si presenta qui come uno dei concetti più generali che designa sul piano ontologico alcuni tratti generici della realtà. Ma proprio questa sua dimensione generica impone diverse definizioni dell’evento. Dewey si impegna nel tentativo di darne conto, attribuendo funzioni e poste in gioco politiche differenti all’evento inteso come evento marcante e all’evento inteso come rottura. Può essere nuovamente utile una presentazione schematica dei diversi significati, delle funzioni e delle questioni politiche che riceve il concetto di evento. Senso Funzioni
Ciò che accade Ontologica: evento come caratteristica generica della realtà
Questioni politiche
Versante ontologico del migliorismo: un mondo in processo è un mondo in the making
Evento marcante Psicologica (passaggio dal preconscio al conscio) e teoria dell’azione (fattore di riorganizzazione dell’azione) Versante antropologico del migliorismo: gli umani possono dirigere i processi in corso verso la realizzazione di un mondo migliore
Evento dirompente Politica (specificità delle rivoluzioni politiche)
Comprendere la funzione degli eventi rivoluzionari nei processi rivoluzionari
L’evento nel senso più ampio del termine riceve una funzione ontologica, e l’implicazione politica del suo uso ontologico consiste nel dire che un mondo di eventi, o di processi, è un mondo «in corso di formazione» [in the making]. Ciò riguarda il versante ontologico del “migliorismo” di Dewey. L’evento inteso come evento marcante riceve invece delle funzioni psicologiche o fenomenologiche (suscita 14 È l’approccio adottato, per esempio, nello studio comparato della politica processuale di Dewey e di Deleuze in Simone Bignall, “Every Existence Is An Event”: Deleuze, Dewey, and Democracy, in Sean Bowden, Simone Bignall, Paul Patton (eds.), Deleuze and Pragmatism, Routledge, New York 1995, pp. 105-123.
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il passaggio dal preconscio al conscio) e intreccia la teoria dell’azione (suscita una riorganizzazione dell’azione). Le sue implicazioni politiche riguardano allora il versante antropologico del “migliorismo”: gli esseri umani sono dotati della capacità di direzione cosciente e intelligente dei processi nei quali sono presi, e ciò permette loro di tentare di orientarli verso un mondo migliore. Il concetto di evento di rottura permette infine a Dewey di pensare il modo in cui gli eventi rivoluzionari possono partecipare agli sforzi umani per orientare i processi storici nella direzione di un mondo migliore. L’ontologia processuale e le sue implicazioni politiche Lo stesso Dewey sottolinea, nel 1925, che Experience and nature è un’inchiesta metafisica soltanto se per “metafisica” si intende la teoria delle «caratteristiche generiche dell’esistenza»15. Inoltre, se gli si può a buon diritto attribuire una metafisica processuale, è perché afferma che la processualità è, per l’appunto, una delle caratteristiche generiche dell’esistenza. Nella nuova introduzione a Experience and nature, datata 1948, si legge anche che «se c’è qualcosa di universale, questo qualcosa è il processo»16. Lo stesso anno, in un’altra introduzione, quella di Reconstruction in philosophy, Dewey sostiene che «allo stato attuale, la scienza naturale è obbligata ad abbandonare, per il suo stesso sviluppo, l’idea di fissità, e scopre che il vero universale, per essa, è il processo. La filosofia, come l’opinione comune, considera tutto ciò un dettaglio tecnico, quando si tratta invece della scoperta più rivoluzionaria mai fatta finora»17. Quest’ontologia processuale è rivolta contro due possibili modi di identificare l’essere con ciò che permane: contro l’identità dell’essere e della permanenza della sostanza e contro l’identità dell’essere e della permanenza di relazioni strutturanti, siano esse concepite come
15 John Dewey, The Later Works (1925-1953), edited by J.A. Boydston, 17 voll., Southern Illinois University Press, Carbondale 2008, vol. I, p. 50. Uno studio esaustivo degli usi del concetto di processo in Dewey è stato presentato da Alix Bouffard in una conferenza ancora inedita: Flux et processus: la question de la direction du changement chez Dewey. 16 Dewey, The Later Works (1925-1953) cit., vol. I, p. 303. 17 John Dewey, The Middle Works (1899-1924), edited by J.A. Boydston, 15 voll., Southern Illinois University Press, Carbondale 2008, vol. XII, pp. 260-261.
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forme o come leggi18 (e si potrebbe anche aggiungere, con un anacronismo, sotto il concetto stesso di struttura). Abbiamo già precisato che una delle caratteristiche distintive delle ontologie processuali consiste nell’attribuzione di una funzione ontologica decisiva al concetto di evento. Experience and nature ne fornisce una paradossale illustrazione, perché il concetto di evento sembra addirittura giocare un ruolo più importante di quello di processo. Si parla più frequentemente di evento che di processo: il primo dei due termini appare nell’indice, a differenza del secondo, e certi testi fanno addirittura pensare che sia più legittimo considerare l’evento come una caratteristica generica dell’esistenza, ben più del processo. Nell’introduzione Dewey sostiene che «la natura è costituita da eventi e non da sostanze»19, mentre nel secondo capitolo dichiara che «ogni esistenza è un evento»20. Barry Duff, il solo commentatore ad aver dedicato un articolo al concetto di evento in Dewey21, ha evidenziato il ruolo fondamentale attribuito a questa nozione, a suo avviso confermato da un passaggio del secondo capitolo che sembra ridurre il processo a un tipo particolare di evento: «designare con il nome di “struttura” gli eventi più lenti, con i ritmi più regolari, e chiamare invece “processo” gli eventi più rapidi e irregolari è un atto di buon senso pratico»22. In realtà, questa tesi, attribuita al «buon senso pratico», non permette di comprendere la maniera in cui Dewey stesso impiega il concetto di processo in Experience and nature. In quest’opera, i concetti di evento e processo sono infatti strettamente legati: l’evento è concepito come il tessuto del processo, piuttosto che come un genere di cui il processo sarebbe la specie. Ciò risulta chiaro analizzando più precisamente i diversi usi di questi concetti nel testo. La prima occorrenza del concetto di evento si trova nell’introduzione. Dopo aver dichiarato che il suo procedimento consiste nel 18 Ne è testimone l’interpretazione deweyana della teoria dell’essenza della Scienza della logica di Hegel, che viene intesa come critica delle ontologie relazionali. A questo proposito, si veda Emmanuel Renault, Dewey et la Science de la logique, in Gilbert Gérard, Bernard Mabille (sous la direction de), La Science de la logique au miroir de l’identité, Peeters, Louvain 2017, pp. 295-319. 19 Dewey, The Later Works (1925-1953) cit., vol. I, p. 5-6. 20 Ivi, p. 63. 21 Barry E. Duff, “Event” in Dewey’s philosophy, «Educational Theory», 40, 1990, pp. 463-470. 22 Dewey, The Later Works (1925-1953) cit., vol. I, p. 64.
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cogliere la natura come un insieme di eventi piuttosto che come insieme di sostanze, Dewey aggiunge che «la natura è caratterizzata da storie, cioè da una continuità di cambiamenti che vanno dal cominciamento alla fine»23. Ora, quest’ultima è precisamente la definizione che Dewey dava del processo, nel 1912, alla voce «Processo» della Cyclopedia of Education: «una successione di cambiamenti nella quale, nonostante il cambiamento, un’identità di carattere viene mantenuta»24. I concetti di evento e processo sembrano qui considerati come sinonimi, e Dewey sembra prenderli come tali anche in altri passi. Se possono essere considerati in questo modo nel quadro dell’inchiesta sulle «caratteristiche generiche dell’esistenza», è perché condividono dei tratti definitori che li oppongono al modello della sostanza, e che possono dunque essere mobilitati per formulare un’alternativa rispetto alle metafisiche sostanzialiste. Gli eventi e i processi sono delle entità temporali nella misura in cui sono delimitati da frontiere temporali, poiché hanno un inizio e una fine, laddove la sostanza, in quanto res extensa, come cosa che occupa uno spazio, è dal canto suo un’entità spaziale definita. Gli eventi e i processi hanno, peraltro, delle caratteristiche dinamiche, nella misura in cui implicano delle trasformazioni, laddove le sostanze sono invece definite dal principio della permanenza. Certo, sarebbe erroneo dedurre da questi passi che Dewey non distingua i due concetti. Per evento, bisogna intendere infatti la fase attuale di un processo25, il che implica che l’evento, oltre ad essere definito come entità temporale, deve anche essere pensato come entità dinamica, transitoria e incompiuta. Si legge ad esempio nel quarto capitolo che, «essendo gli eventi degli eventi, e non delle sostanze rigide e materiali, essi sono in movimento, e risultano di conseguenza incompiuti, incompleti, indeterminati»26. L’evento è ciò che sta passando, è il processo nel suo momento dinamico attualmente in corso. È precisamente in quanto evento presente che esso resta incompiuto, perché un altro evento non è ancora succeduto ad esso. 23
Ivi, pp. 5-6. Dewey, The Middle Works (1899-1924) cit., vol. VII, p. 331. 25 Ciò distingue l’uso deweyano di questo concetto dall’uso proposto da Stout, per il quale l’evento designa delle fasi passate del processo in corso o già compiuto. Cfr. Rowland Stout, Processes, «Philosophy», 72/279, 1997, pp. 19-27. 26 Dewey, The Later Works (1925-1953) cit., vol. I, pp. 126-127. 24
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Per processo, bisogna invece intendere una serie di trasformazioni, o una storia che si sviluppa tra un inizio e una fine: più precisamente, una serie di trasformazioni che conservano un’identità di carattere, secondo la già citata definizione della Cyclopedia of Education. Un processo si distingue per una struttura interna che comanda tanto la successione delle sue fasi, quanto le modalità della sua interazione con le sue condizioni esterne di sviluppo. In questo senso, Dewey scrive che «degli ordini di sequenza e coesistenza si trovano implicati [nel processo]»27. Che l’evento sia il tessuto del processo, che sia sempre parzialmente indeterminato, significa poi soprattutto che nel processo risiede una contingenza irriducibile. In virtù della loro parziale indeterminazione, i processi in corso sono allora suscettibili di essere modificati dagli eventi esterni. Ma, d’altra parte, i processi comportano anche una forma di necessità interna che riguarda il loro stesso «ordine di sequenza e coesistenza». La strutturazione interna dei processi li rende intellegibili e permette al tempo stesso di prevedere il loro sviluppo tenendo conto delle condizioni presenti. Detto altrimenti: essa ci aiuta a determinare come agire sulle loro condizioni per modificarne l’andamento e assicurarci così che conducano ai fini che ci proponiamo di raggiungere: «la regolazione dei processi in corso, incompleti, al servizio di conseguenze scelte, comporta che degli ordini di sequenza e coesistenza vi si trovino implicati. Questi ordini o relazioni […] forniscono gli strumenti intellettuali per servirsi degli eventi come mezzi concreti per dirigere il corso delle cose verso conclusioni previste»28. Per come l’abbiamo ora definito, l’evento è inteso nel suo senso più esteso: ciò che avviene nell’esperienza. Dewey parla a questo proposito di «eventi semplici» [bare events], aggiungendo che, in quanto semplici, non sono coscienti. Una tesi generale della filosofia di Dewey è infatti che, nel suo corso normale, l’esperienza è preconscia, e si fa cosciente soltanto una volta divenuta problematica. Per esempio: quando cammino non ho coscienza esplicita del contatto dei miei piedi con il suolo, salvo quando il piede urta un ostacolo. È dunque sotto forma di un evento particolare che l’esperienza diventa cosciente: grazie a un evento che si presenta come «uno shock brutale e 27
Ibid. D’altronde, è questo che permette di distinguere il processo dalla successione disordinata di eventi alla quale Dewey rimanda con il concetto di flusso. 28 Ibid.
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assurdo»29. L’evento inteso in questo senso non è più soltanto ciò che avviene, ma ciò che attira l’attenzione. In francese, di una cosa che avviene si può dire ad esempio che ce n’est pas un événement. Ci si riferisce, in questo caso, al secondo senso possibile: l’evento che attira l’attenzione, che abbiamo definito evento marcante. È interessante notare che in Dewey si trova una formula analoga: «un evento semplice [bare event] non è in alcun modo un evento: si dovrebbe dire, piuttosto, che qualcosa accade»30. L’evento semplice, precosciente31, è qui distinto dall’evento divenuto cosciente sotto forma di shock. L’evento nel secondo senso segnala un problema che perturba il corso di un’azione. L’attenzione che mettiamo coscientemente sul problema ha la funzione di risolverlo, ossia di riorganizzare l’azione perché possa superare l’ostacolo incontrato e continuare il cammino verso il suo obiettivo. La coscienza cerca di identificare il significato del problema per determinare come riorientare l’azione. È in questo senso che Dewey scrive che «la coscienza è il significato degli eventi che si stanno producendo»32 o che «la coscienza dei significati denota il loro ri-orientamento»33. Ed è sempre in questo senso che egli sottolinea che la coscienza è sollecitata dall’urgenza di trovare una soluzione, e che è focalizzata su quanto, nella situazione problematica, è suscettibile di riorientare efficacemente l’azione: «l’immediatamente precario, il punto di maggiore bisogno immediato, definisce lo zenit della coscienza, che è qui intensa e focalizzata. È questo il punto di ri-orientamento, ri-adattamento, ri-organizzazione»34. In certi casi, l’attenzione cosciente posta sul problema è sufficiente a riorganizzare l’azione, come per esempio quando si tratta solamente di superare l’ostacolo incontrato dal piede sul terreno. In altri casi 29
Ivi, p. 244. Ivi, p. 13. 31 Dewey presenta l’evento semplice come «evento immediatamente percepito»: «nell’esperienza, la natura intrinseca degli eventi si rivela nella forma delle qualità che sono immediatamente percepite» (ivi, p. 6). Ciò è percepito nella misura in cui ha una funzione senso-motoria nel processo di interazione preconscio con l’ambiente, e non nel senso che sorge alla coscienza come sensazione. Il concetto di sensazione, infatti, designa in Dewey la qualità percepita immediatamente che si presenta alla coscienza segnalando un problema da risolvere (per esempio la sensazione del piede che urta l’ostacolo). 32 Ivi, p. 233. 33 Ivi, p. 235. 34 Ivi, p. 236. 30
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bisogna invece impegnarsi in un’analisi della natura del problema, nella riflessione sulle sue cause e sui mezzi di cui disponiamo per risolverlo. È ciò che Dewey chiama inchiesta sulla situazione problematica, nella quale non è soltanto la coscienza a essere strumento di riorganizzazione dell’azione, ma anche il pensiero: «il lavoro della riflessione consiste nell’appropriarsi degli eventi che capitano brutalmente e ci affettano altrettanto brutalmente, e di convertirli in oggetti, deducendo, tramite inferenza, le loro conseguenze probabili»35. La riflessione di Dewey sull’evento nel senso dell’evento marcante, cioè dello shock che attira l’attenzione, permette dunque di far apparire la funzione di queste due caratteristiche specifiche dell’esperienza umana: la coscienza da un lato, il pensiero dall’altro. Entrambe hanno la funzione di partecipare a tale ri-orientamento efficace del processo in corso. La riflessione sull’evento in quanto evento semplice aveva condotto all’idea che i processi in corso potessero essere riorientati e che la conoscenza della loro struttura interna fosse un mezzo per farlo. La riflessione sull’evento nel senso dell’evento marcante presenta invece la coscienza e il pensiero come vettori del ri-orientamento. La riflessione sul rapporto tra l’evento e il processo in Experience and nature permette dunque a Dewey di esplicitare le condizioni ontologiche e antropologiche della possibilità di un processo diretto in modo cosciente e intelligente. Già a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento, Dewey sottolinea infatti che la specificità dei processi evolutivi propri della specie umana concerne il fatto che possano essere diretti in tal modo36. Non c’è dubbio che a partire da questa specificità antropologica diventi possibile pensare la funzione eminentemente politica delle attività umane: il ri-orientamento intelligente dei processi sociali divenuti problematici. Dewey non smette mai, d’altra parte, di fare appello a ciò, come nell’articolo Social change and its human direction: «non c’è problema intellettuale più urgente per la pratica all’ora attuale che non sia quello della natura del controllo umano, deliberato o intelligente, del cambiamento sociale»37. Ecco dunque la prima implicazione politica della concezione deweyana del rapporto tra processo ed evento: la definizione della 35
Ivi, p. 245. Trevor Pearce, Pragmatism’s Evolution, Chicago University Press, Chicago 2020, capitoli 5 e 6. 37 Dewey, The Later Works (1925-1953) cit., vol. V, p. 363. 36
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politica come ri-orientamento intelligente dei processi sociali. Una seconda implicazione politica riguarda inoltre il fatto che, in un mondo costituito dai processi, segnato dunque dalla contingenza e dalla necessità, dall’instabilità come dalla stabilità, i problemi da risolvere non toccano solo l’esistenza e l’attualità del male, ma anche la precarietà dei beni. Una terza implicazione è che, se la stabilità sociale è in sé un male, poiché implica la permanenza dei mali sociali, non ogni cambiamento è ciononostante auspicabile, ma solamente quelli orientati alla lotta contro questi mali e alla preservazione dei beni. Il che significa anche che i cambiamenti sociali desiderabili comportano un elemento di stabilità: quello della protezione dei beni precari. Si tratta, in definitiva, di «rendere più stabili le cose buone, e più instabili quelle cattive»38. Da ciò segue allora la questione posta in The public and its problems: «è possibile che le comunità locali siano stabili senza essere statiche, in progresso senza essere puramente mobili?»39. Evento rivoluzionario e processo rivoluzionario In Dewey è peraltro presente una riflessione su quegli eventi marcanti noti come eventi rivoluzionari. Bisogna precisare ch’egli è generalmente presentato come un pensatore liberale e riformista e che il modo in cui ho poco sopra interpretato la sua ontologia processuale, insistendo sugli elementi di continuità e stabilità dei processi, sembrerebbe escludere che questi eventi di rottura radicale possano davvero giocare un ruolo positivo nella sua filosofia. Tuttavia, Dewey fa in realtà appello alla necessità di una rivoluzione sociale e riconosce che, in certi casi, la rivoluzione politica è l’unico mezzo per raggiungere questo obiettivo40. Inoltre, quando si trova a studiare le rivoluzioni politiche, egli analizza anche ciò che in esse rimanda all’evento in quanto rottura storica. 38
Dewey, The Later Works (1925-1953) cit., vol. I, p. 51. Dewey, The Later Works (1925-1953) cit., vol. II, p. 367. Questa questione è uno dei fili che permettono di comparare le politiche processuali di Dewey e Deleuze. 40 Sui conflitti interpretativi di cui il pensiero politico di Dewey è stato protagonista, si rimanda a Emmanuel Renault, Trois conflits d’interprétation: démocratie, socialisme, racisme, «Pragmata», 3, 2020, pp. 233-239. 39
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Dewey può allora essere presentato come pensatore rivoluzionario, a patto di sottolineare la sua insistenza sul fatto che l’ideale di completa democratizzazione della società da lui difeso non può essere realizzato senza una trasformazione sociale radicale, e soprattutto senza la trasformazione delle strutture economico-produttive organizzate in vista del profitto, cioè senza trasformare il capitalismo41. Certo, gli viene talvolta attribuita la tesi secondo la quale questa rivoluzione sociale dovrebbe effettuarsi gradualmente, cioè l’idea che gli obiettivi rivoluzionari debbano essere perseguiti tramite mezzi riformisti e non rivoluzionari. Ma se è vero che Dewey sostiene che le trasformazioni sociali graduali e consensuali siano sempre preferibili, poiché permettono di risparmiare violenza e distruzioni, egli riconosce al tempo stesso che spesso soltanto i mezzi politici rivoluzionari risultano appropriati42. Nel 1933, nell’articolo The Underlying Philosophy of Education, Dewey scrive ad esempio che «fino a quando l’esperienza e la riflessione indicano che le misure pacifiche sono probabilmente le più efficaci, la filosofia [sperimentale] è pacifista; quando la migliore conoscenza disponibile nelle condizioni attuali indica il contrario, la filosofia è rivoluzionaria»43. E si dà il caso che, al momento del suo viaggio nella Russia sovietica nel 1927, gli sia capitato di proporre un’analisi di un processo rivoluzionario storicamente esistente. Vi si trova un modo interessante di mettere in relazione i concetti di evento e processo. Dewey propone inoltre una riflessione sul rapporto tra eventi e processi rivoluzionari negli articoli in cui si impegna a rifiutare la tesi conservatrice per la quale le rivoluzioni sono impossibili a causa dell’immutabilità della natura umana, nonché la tesi opposta, secondo la quale le rivoluzioni sono possibili in ragione della sua plasticità illimitata. Questi argomenti sono sviluppati in particolare in Human 41 In diversi testi, come in Human nature and Conduct e negli articoli Human Nature, Does Human Nature Change? e Contrary to Human Nature?, ha d’altronde sviluppato argomenti contro la tesi per la quale l’immobilità della natura umana renderebbe illusorio il progetto di trasformazione delle strutture sociali ed economiche. A questo proposito, si veda Emmanuel Renault, Le concept de nature humaine chez Dewey, in corso di pubblicazione per Archives de philosophie. 42 È questo uno dei punti nei quali cercare delle affinità tra Dewey e Marx: cfr. Emmanuel Renault, Dewey, Hook et Mao: quelques affinités entre marxisme et pragmatisme, «Actuel Marx», 54, 2013, pp. 138-157. 43 Dewey, The Later Works (1925-1953) cit., vol. VIII, p. 99.
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Nature and Conduct, ma anche negli articoli Human Nature, Does Human Nature Change? e Contrary to Human Nature? In questi testi troviamo in realtà due approcci distinti al problema degli eventi rivoluzionari. Il primo serve a criticare un’illusione: quella secondo cui la rivoluzione si riduce a un evento, a una rottura istantanea dell’ordine politico e sociale passato. Più precisamente, a essere qui denunciata è una doppia illusione, che può essere prodotta tanto dall’evento rivoluzionario stesso quanto dalle speranze che vi sono riposte. La prima illusione è quella della rottura totale con il mondo precedente. L’evento rivoluzionario attira infatti l’attenzione sui cambiamenti più spettacolari, lasciando in ombra la persistenza delle abitudini forgiate dal passato, quand’anche queste abitudini continuino a governare le condotte e il pensiero. Questo punto è evidenziato in Human Nature and Conduct: una rivoluzione sociale può produrre delle alterazioni brutali e profonde nei costumi, nelle istituzioni giuridico-politiche. Ma le abitudini che si nascondono dietro queste istituzioni, e che sono state, volenti o nolenti, forgiate da queste condizioni oggettive, le abitudini a pensare o a sentire in un certo modo, non sono facilmente modificabili […]. Il cambiamento sociale effettivo non è mai profondo come quello apparente44.
La seconda illusione è che la rivoluzione possa raggiungere i suoi obiettivi immediatamente, che sia un atto politico autosufficiente – un’illusione prodotta, per l’appunto, tanto dall’evento in sé quanto dalle speranze riposte nella sua realizzazione. Attirando l’attenzione sulla radicalità dello stravolgimento in corso e realizzando al tempo stesso dei desideri da lungo tempo attesi, l’evento tende a infondere la sensazione che la parte più dura sia stata compiuta, che nulla sarà più come prima, e così via. Leggiamo allora in Contrary to Human Nature (1940): «le “rivoluzioni” non vanno mai abbastanza rapidamente, o abbastanza lontano, rispetto a quanto atteso; ci vuole tempo, generalmente un tempo lungo e una successione di cambiamenti parziali, per compierne una, perché compierla significa istituire delle abitudini tanto profonde e naturali quanto quelle che devono essere rimpiazzate»45. Ciò che è valido per le abitudini individuali 44 45
Dewey, The Middle Works (1899-1924) cit., vol. XIV, p. 77. Dewey, The Later Works (1925-1953) cit., vol. XIV, p. 260.
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[habits], lo è anche per le abitudini collettive [customs] e per il loro radicamento istituzionale46. La tesi di Dewey è che la rivoluzione politica non può raggiungere subito i suoi obiettivi iniziali: da un lato, perché esiste un’inerzia della natura umana, che può essere resa conforme a un nuovo ordine sociale soltanto al termine di un lungo processo educativo; dall’altro, perché un lungo lavoro di ricostruzione e riallacciamento istituzionale è necessario per costruire un nuovo ordine sociale. Ed è esattamente questo processo di ricostruzione sociale e educativa che Dewey osserva affascinato, sottolineandone il valore, nelle sue Impressions of Soviet Russia, nelle quali presenta la Russia sovietica come un «paese in transizione»47, come una «società in formazione»48 [in the making], o come «società allo stato di flusso»49. Troviamo dunque in Dewey una critica delle illusioni generate dagli eventi rivoluzionari: l’impressione di rottura assoluta, l’idea che l’essenziale sia stato fatto – illusioni che rischiano di distogliere l’attenzione da ciò che è politicamente ben più importante: la trasformazione dell’evento rivoluzionario in un processo rivoluzionario capace di raggiungere i suoi obiettivi. Ecco un passo dell’articolo Experience, Knowledge and Value: A Rejoinder: un evento rivoluzionario è una crisi ad alta intensità. Ma l’idea secondo la quale la rivoluzione come avvenimento immediato, come data determinata, 1789 o 1917-1918, è qualcosa di più del cominciamento di un processo graduale, questa idea è un’auto-illusione utopistica. Il metodo dell’azione intelligente deve essere applicato a ognuna delle tappe attraverso le quali la rivoluzione “segue il suo corso”50.
Senza dubbio queste critiche relativizzano il valore dell’evento politico in quanto tale, considerato indipendentemente dal processo rivoluzionario nel suo insieme. Tuttavia in Dewey troviamo anche un apprezzamento dell’evento rivoluzionario. Nelle Impressions from 46
Sul rapporto tra istituzioni individuali e collettive, si rimanda a Emmanuel Renault, Mead et Dewey: une même conception de la société, «Sociologies», 2 febbraio 2021, disponibile online (https://journals.openedition.org/sociologies/16536). 47 Dewey, The Later Works (1925-1953) cit., vol. III, pp. 205, 222-224, 228, 236. 48 Ivi, pp. 215- 216. 49 Ivi, pp. 208- 210. 50 Dewey, The Later Works (1925-1953) cit., vol. XIV, p. 76.
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Soviet Russia, quest’ultimo è presentato come un evento che libera energie soffocate dall’ordine passato, che fa emergere nuove possibilità, inaugurando nuove dinamiche pratiche che potranno alimentare il processo rivoluzionario nella sua durata. All’inizio di questo testo, Dewey sottolinea che «ogni studioso di storia dovrebbe essere consapevole del fatto che le forze liberate da una rivoluzione non sono funzioni matematiche degli sforzi, e ancor meno delle opinioni e delle speranze, di coloro che hanno messo in moto la catena degli eventi»51. Nello stesso passo, rimprovera a se stesso di aver spesso pensato la rivoluzione russa a partire dal progetto politico bolscevico e di «essere rimasto ignorante rispetto a questo fatto elementare di una rivoluzione – un fatto che può essere indicato, ma non descritto, come psichico e morale, e non soltanto politico e economico –, [il fatto che] una rivoluzione si dà nell’attitudine della gente rispetto ai bisogni e alle possibilità di vita»52. Anche se queste affermazioni esprimono delle “impressioni” avute da Dewey durante un viaggio datato 1927 (dunque non in presa diretta con l’evento rivoluzionario, ma nel corso del processo da esso inaugurato), sembra però evidente che ciò viene chiamato «una rivoluzione completa dei cuori e delle menti»53 oppure «una liberazione di energia a una scala senza precedenti»54 debba essere riferito proprio all’evento del 1917. D’altronde, ciò che Dewey presenta come «il fatto elementare di una rivoluzione» non può che essere una caratteristica comune a ogni rivoluzione, allorché le rivoluzioni raramente riescono a trasformarsi in processi stabili. Si giunge così all’idea seguente: l’evento rivoluzionario può suscitare profonde speranze e liberare potenti energie, e una rivoluzione può raggiungere i suoi obiettivi soltanto a condizione di aprire un processo nel quale queste energie e queste speranze sono mantenute e canalizzate intelligentemente. Quest’idea è espressa nel momento in cui Dewey scrive che se una società comunista dovesse emergere dal processo rivoluzionario in corso, che resta un processo di “transizione”, ciò non sarà dovuto al fatto che il processo è stato diretto da una qualche idea preconcetta rispetto a cosa sia il comunismo, ma 51
Dewey, The Later Works (1925-1953) cit., vol. III, p. 204. Ibid. 53 Ivi, p. 204. 54 Ivi, p. 207. 52
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piuttosto al fatto che «qualcosa di questo genere è congeniale a un popolo che si è risvegliato grazie a una rivoluzione, ed emergerà nella forma che sarà dettata dai suoi stessi desideri»55. Ne deduciamo che l’approccio deweyano all’evento rivoluzionario fornisce una nuova illustrazione dell’orientamento processuale della sua filosofia e della stretta articolazione tra evento e processo, già notata sul piano ontologico. Dewey analizza l’evento rivoluzionario attraverso il suo rapporto con il processo rivoluzionario, rendendo conto al tempo stesso conto di ciò che, nell’evento, è irriducibile al processo: da un lato, le illusioni di cui è portatore, e che possono fare ostacolo al processo rivoluzionario; dall’altro, la liberazione di energie e l’apertura di possibili tipici dell’effervescenza rivoluzionaria, che possono alimentare durevolmente il processo. Dewey abbozza, in questo modo, una teoria dell’ambivalenza degli eventi rivoluzionari e, più in generale, degli eventi dirompenti – teoria che permette di dubitare di quei discorsi che accompagnano le grandi rotture, e che affermano che «niente sarà come prima». La crisi sanitaria del Covid-19 ha prodotto un’inflazione discorsiva in questo senso, quando diversi indizi lasciano pensare che, se mai terminerà, tutto (o quasi) ricomincerà come prima. Al contrario, alcuni processi di presa di coscienza progressiva, come quelli riguardanti la crisi climatica ed ecologica, sono invece portatori potenziali di ri-orientamento sociale e politico ben maggiori. Speriamo allora che l’evento della crisi sanitaria possa contribuire all’accelerazione di questi processi. (Tr. it. dal francese di Matteo Polleri)
55
Ivi, p. 205.
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1. Il venire dell’evento C’è evento soltanto là dove non si attende, dove non si può più attendere, dove la venuta di quel che arriva interrompe l’attesa. J. Derrida, Une certaine possibilité impossible de dire l’événement
In più occasioni Derrida ha dichiarato che la decostruzione è l’esperienza dell’impossibile1. Non un metodo o l’ennesima dottrina filosofica, ma innanzitutto «quel che accade [ce qui arrive]»2. Prima ancora di nominare la singolare e inimitabile pratica di pensiero di Derrida, la decostruzione alluderebbe perciò a quanto, in ogni momento, avviene; ad un «ciò si decostruisce [ça se déconstruit]»3 già da sempre in corso. «La decostruzione è l’evento»4, perché «l’evento (è ciò che) decostruisce»5. 1 Cfr., ad esempio, Jacques Derrida, Psyché. Invention de l’autre, in Psyché. Inventions de l’autre I, Galilée, Paris 1998; tr. it. di R. Balzarotti, Psyché. Invenzione dell’altro, in Psyché. Invenzioni dell’altro I, Jaca Book, Milano 2008, p. 28: «L’interesse della decostruzione, della sua forza e del suo desiderio, se essa ne ha, sta in una certa esperienza dell’impossibile». 2 Jacques Derrida, L’Université sans condition, Galilée, Paris 2001; tr. it. di G. Berto, L’università senza condizione, Cortina, Milano 2002, p. 61. 3 Jacques Derrida, Lettre à un ami japonais, in Psyché. Inventions de l’autre II, Galilée, Paris 2003; tr. it. di R. Balzarotti, Lettera a un amico giapponese, in Psyché. Invenzioni dell’altro II, Jaca Book, Milano 2009, p. 11. 4 Jacques Derrida, Some statements and truisms about neologisms, newisms, postisms, parasitisms, and other small seismisms, in David Carrol (ed.), The States of “Theory”. History, Art and Critical Discourse, Colombia University Press, New York-Oxford 1990; tr. it. di G. Santamaria, Come non essere postmoderni. “Post”, “neo” e altri ismi, a cura di G. Leghissa, Medusa, Milano 2002, p. 45. 5 Jacques Derrida, “Avoir l’oreille de la philosophie”, entretien de L. Finas avec J. Derrida, in Leucette Finas, Sarah Kofman, Roger Laporte, J.M. Rey, Écarts. Quatre essais
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Non tutto ciò che accade ha, tuttavia, il carattere di evento, ma solo quel che avviene nella sua assoluta e irriducibile imprevedibilità, quel che o chi non mi potevo aspettare e che, perciò, mi sorprende, sospende, interrompe, arresta l’ordinaria scansione del tempo. Come afferma Derrida: «La decostruzione è l’anacronia nella sincronia, è un modo per accordarsi con qualcosa di out of joint, di disaccordato»6. Intempestività di un’anacronia che impone una sconnessione, una dis-articolazione, una dis-giunzione in quel tempo che scorre come un continuum, producendo in esso arresti improvvisi e repentini, un’anacronia nella sincronia. Un tempo che, quindi, si rivela spezzato, perché attraversato, lacerato, interrotto dall’«effrazione dell’altro nel corso della storia»7. L’evento è evento dell’altro proprio perché esso si annuncia come l’irruzione di un avvenire assolutamente non riappropriabile, non di un futuro che attendo, ma di un venire-a-me ogni volta singolare e unico che, proprio per questo, «può sfidare l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo, ogni predeterminazione»8. Questo a-venire è possibile, pensabile, solo a partire da «un’alterità radicale»9 e, proprio per questo, inappropriabile. L’evento, dunque, è ciò che interrompe il tempo, lo dissesta, lo sconnette, lo fa “uscire fuori dai cardini”, poiché è l’esperienza della venuta dell’altro, di una alterità irriducibile, che sfugge al controllo e mette in questione la padronanza di sé. Si dà evento solo quando si tratta di un venire al di là di ogni possibile anticipazione, dell’irruzione improvvisa di una sorpresa che nessun calcolo potrebbe mai in alcun modo pre-vedere:
à propos de Jacques Derrida, Fayard, Paris 1973; tr. it. di M. Chiappini e G. Sertoli, “Aver l’orecchio della filosofia”, in Posizioni, a cura di G. Sertoli, Bertani, Verona 1975, p. 135. 6 Jacques Derrida, Le goût du secret. Entretiens 1993-1995, Hermann, Paris 2018; tr. it. di M. Ferraris, «Ho il gusto del segreto», in Jacques Derrida, Maurizio Ferraris, «Il gusto del segreto», Laterza, Roma-Bari 1997, p. 100; sulla celebre espressione «The time is out of joint» dell’Amleto di Shakespeare, Derrida si sofferma a lungo in Jacques Derrida, Spectres de Marx. L’État de la dette, le travail du deuil et la nouvelle Internationale, Galilée, Paris 1993; tr. it. di G. Chiurazzi, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Cortina, Milano 1994. 7 Jacques Derrida, Artefactualités, in Jacques Derrida, Bernard Stiegler, Écographies de la télévision, Galilée-INA, Paris 1996; tr. it. di G. Piana, Artefattualità, in Jacques Derrida, Bernard Stiegler, Ecografie della televisione, Cortina, Milano 1997, p. 10. 8 Derrida, «Ho il gusto del segreto» cit., p. 20. 9 Ibid.
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Perché ci sia un avvenire come tale, una sorpresa, un’alterità, bisogna non veder venire [ne plus voir venir], bisogna che non ci sia nemmeno un’anticipazione, un orizzonte d’attesa. E dunque che l’avvenire mi venga addosso – mi avvenga, proprio quando nemmeno me lo attendo, non lo anticipo, non lo vedo venire – significa che l’altro c’è prima di me, che mi previene. L’altro non è nemmeno semplicemente il futuro è, per così dire, il prevenire, il pre-avvenire10.
La venuta dell’evento espone ad un non sapere, all’ignoto, all’aleatorio dell’imprevedibile: «La condizione perché l’a-venire resti a venire, è che non solo non sia conosciuto ma che non sia conoscibile come tale»11. Il venire dell’evento non lo si deve, dunque, intendere come la possibilità di un poter-essere reale, attraverso l’anticipazione, la previsione o il progetto, ma come impossibile, il sopravvenire di ciò che o di chi non mi aspetto, non posso veder-venire: «l’evento deve annunciarsi come im-possibile; deve quindi annunciarsi senza prevenire, annunciarsi senza annunciarsi, senza orizzonte d’attesa […]. Di qui il suo carattere sempre mostruoso, impresentabile, e mostrabile come immostrabile. Dunque, mai come tale»12. Che l’evento si sottragga alla vista e al vedere, che dunque non appartenga all’ordine del fenomenico, significa anche che non è in alcun modo rappresentabile e che si scarta dal presente. Imprevedibile, l’evento non è mai al “presente”, coglie sempre di sorpresa qualcuno cui sopravviene inaspettatamente. Proprio perché evento dell’altro, di un’alterità inappropriabile, esso comporta un «esporsi a ciò di cui non ci si può appropriare»13. Per questo la sua irruzione è traumatica e il suo venire è ogni volta unico, incalcolabile, inanticipabile, senza orizzonte d’attesa, impresentabile: 10
Ivi, pp. 101-102. Cfr. Derrida, Artefattualità cit., pp. 14-15 e Jacques Derrida, Foi et Savoir, in Foi et Savoir. Le Siècle et le Pardon, Seuil, Paris 2000; tr. it. di A. Arbo, in Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione, in Jacques Derrida, Gianni Vattimo (a cura di), La religione, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 19-20: «La venuta dell’altro può sorgere come un evento singolare solo là dove non vede venire alcuna anticipazione, là dove l’altro e la morte – e il male radicale – possono sorprendere in ogni istante. Possibilità che aprono e possono, insieme, sempre interrompere la storia, o almeno il suo corso ordinario». 11 Jacques Derrida, Mal d’archive. Une impression freudienne, Galilée, Paris 1995, p. 114; tr. it. di G. Scibilia, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Napoli 1996, p. 94. 12 Jacques Derrida, Voyous. Deux essais sur la raison, Galilée, Paris 2003; tr. it. e cura di L. Odello, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, Cortina, Milano 2003, p. 204. 13 Derrida, «Ho il gusto del segreto» cit., p. 57.
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un evento è «ciò a cui sono esposto, al di là di ogni possibilità di controllo. Eteronomia – ovvero l’altro è la mia legge»14. Ciò che av-viene «eccede anche i calcoli e le strategie della mia capacità di controllo, della mia sovranità o della mia autonomia. […] È qui che mi trovo esposto e, per così dire, felicemente vulnerabile»15. L’impossibile dell’evento16 è allora il nome di una certa inappropriabilità di ciò che o di chi arriva, per una ipseità che sperimenta il suo non potere, la sua vulnerabilità di fronte al carattere dirompente e sconvolgente dell’evento. Esposto all’evento, il Soggetto autonomo e sovrano viene “deposto”, non è più padrone di sé. Che l’evento si annunci come l’impossibile significa che la sua venuta mette a nudo un non potere, una non padronanza. La strapotenza dell’evento, eccedendo la mia capacità di controllo, revoca il mio potere, esponendomi alla venuta di un’alterità irriducibile, di cui «nessuna coscienza, nessun soggetto cosciente può appropriarsi o padroneggiare»17. L’evento arriva «al di là della padronanza, al di là dell’“io posso”, al di là dell’economia di appropriazione di un “ciò è in mio potere”, di un “ciò mi è possibile”, di “questo potere mi appartiene”»18. Se l’evento fosse semplicemente la realizzazione, l’attuazione del possibile, di un possibile di cui una ipseità ha padronanza, esso sarebbe ancora dell’ordine del potere di un “io posso” padrone di sé, ma proprio questa padronanza ne impedirebbe la venuta. Si dà evento, invece, solo là dove non si può più essere padroni di sé, solo quando la potenza dirompente dell’accadere è più forte di me.
14
Jacques Derrida, Élisabeth Roudinesco, De quoi demain… Dialogue, Fayard-Galilée, Paris 2001; tr. it. di G. Brivio, Quale domani?, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 80. 15 Ibid. 16 Sull’evento come impossibile mi permetto di rinviare a Caterina Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003 e Caterina Resta, La passione dell’impossibile. Saggi su Jacques Derrida, il melangolo, Genova 2016. In proposito cfr. anche Carmine Di Martino, Oltre il segno. Derrida e l’esperienza dell’impossibile, Angeli, Milano 2001 e Carmine di Martino, Figure dell’evento. A partire da Jacques Derrida, Guerini e Associati, Milano 2009. 17 Jacques Derrida, Une certaine possible impossibilité de dire l’événement, in Jacques Derrida, Gad Soussana, Alexis Nouss, Dire l’événement, est-ce possible? Séminaire de Montreal, pour Jacques Derrida, L’Harmattan, Paris 2001, p. 105. 18 Jacques Derrida, États d’âme de la psychanalyse. L’impossible au-delà d’une souveraine cruauté, Galilée, Paris 2000; tr. it. di C. Furlanetto, Stati d’animo della psicanalisi. L’impossibile aldilà di una sovrana crudeltà, ETS, Pisa 2013, p. 36.
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2. L’impossibile come non potere L’al di là della pulsione di potere sovrano, dunque l’altrimenti impossibile, l’altro impossibile. J. Derrida, Stati d’animo della psicanalisi
Il venire dell’evento implica, dunque, l’esperienza dell’im-possibile, del mio non-potere, della mia im-potenza; si impone come una etero-nomia più forte della legge dell’io, della sua presunta autonomia, più potente del supposto potere di un “io posso”, del fantasma di una ipseità sovrana, sostenuto da una “pulsione di potere” [Bemächtigungstrieb]19 a partire dalla quale si costituisce «il potere di un “io posso”, più originario dell’“io”, in una catena in cui lo “pse” di ipse non si lascia più dissociare dal potere, dalla padronanza o dalla sovranità»20. La pulsione di potere alimenta quindi, innanzitutto, l’appropriazione di sé, il potere di essere propriamente se stessi, «la possibilità del potere e del possesso nella semplice posizione del sé come se stesso, nella semplice autoposizione del sé, come propriamente se stesso»21. Nell’autos di questa autoposizione di sé, che definisce l’insorgere di una ipseità, si condensano «il potere, la potenza, la sovranità, il possibile implicato in ogni “io posso”»22. Il 19
È all’interno di una puntigliosa lettura di Al di là del principio di piacere di Freud e del ruolo che vi gioca la pulsione di morte che Derrida individua e mette a fuoco l’importanza fondamentale di questa pulsione che presiede alla costituzione dell’ipseità: cfr. Jacques Derrida, Spéculer – sur “Freud”, in La carte postale. De Socrate à Freud et audelà, Flammarion, Paris 1980; tr. it. di L. Gazziero, Speculare – su “Freud”, a cura di G. Berto, Cortina, Milano 2000. Per i significati che il Bemächtigungstrieb assume nel contesto dell’opera di Freud, si veda Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, Vocabulaire de la psychanalyse, sous la dir. de Daniel Lagache, PUF, Paris 1967; tr. it. e cura di G. Fuà, Enciclopedia della psicanalisi, Laterza, Roma-Bari 1973, II, pp. 449-453. Per un approfondimento del legame del Bemächtigungstrieb con la pulsione di aggressività e con la crudeltà associata ad essa, nella prospettiva aperta da Derrida, si vedano soprattutto i lavori di René Major, La cruauté originaire et le principe de pouvoir, in Jean Nadal, Nicholas Rand, Maria Torok, Alberto Eiguer, René Major, Roger Dadoun, Hernando Ramirez, MarieFrance Lecomte-Emond, Emprise et liberté, L’Harmattan, Paris 1990; René Major, La soif du pouvoir, in Au commencement. La vie la mort, Galilée, Paris 1999 e Id., La Démocratie en Cruauté, Galilée, Paris 2003. 20 Jacques Derrida, Le monolinguisme de l’autre ou la prothèse d’origine, Galilée, Paris 1996; tr. it. e cura di G. Berto, Il monolinguismo dell’altro o la protesi d’origine, Cortina, Milano 2004, p. 19. 21 Derrida, Stati canaglia cit., p. 32. 22 Ibid.
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primo potere consiste, dunque, nella padronanza di sé come ipseità. È in questo momento che si affaccia quello che Derrida ha chiamato il «principio-fantasma arcaico della sovranità»23. La pulsione di potere e di appropriazione (o del “proprio”), di sé come dell’altro, sono infatti all’origine di un fantasma, quello dell’io sovrano, a partire dall’auto-posizione di sé, che pretende di realizzare un’assoluta auto-nomia. Si può anzi dire che il fantasma dell’io sovrano, alimentato dalla pulsione di appropriazione e di potere, sorge proprio nella denegazione di quell’alterità che, come una ferita non suturabile, segna la costituzione alter-egologica di ogni ipseità, già da sempre in se stessa separata e divisa da un’alterità inassimilabile. Da questo punto di vista, il fantasma della sovranità non è altro che il fantasma dell’Uno, di quell’identico che sorge a partire dal tentativo di cancellare la differenza che lo attraversa. Per costituirsi, l’Uno deve negare l’alterità da cui è scisso, deve distruggere quell’altro a partire dal quale soltanto può guardarsi per essere sé. Violenza originaria e guerra interminabile che ogni Uno combatte in sé contro di sé nel vano tentativo di essere se stesso, con la costante inclinazione a proiettare questo insanabile conflitto anche fuori di sé. Come Derrida ha scritto: Dal momento in cui c’è dell’Uno, c’è assassinio, ferita, traumatismo. L’Uno si guarda dall’altro [l’Un se garde de l’autre]. Si protegge contro l’altro, ma, nel movimento di questa gelosa violenza, porta con sé in sé, conservandola anche, l’alterità o la differenza a sé (la differenza del con sé) che lo rende Uno. L’“Uno che differisce da se stesso”. L’Uno come Altro. Assieme, allo stesso tempo, ma in uno stesso tempo disgiunto, l’Uno dimentica di ricordarsi a se stesso, conserva e cancella l’archivio di quella ingiustizia che lui è. Della violenza che fa. L’Uno si fa violenza [l’Un se fait violence]. Si viola e violenta ma si istituisce anche in violenza. Diviene ciò che è, la violenza stessa – che egli si fa. Auto23 Jacques Derrida, Inconditionnalité ou souveraineté. L’Université aux frontières de l’Europe, Patakis, Athènes 2002; tr. it. e cura di S. Regazzoni, Incondizionalità o sovranità. L’Università alle frontiere dell’Europa, Mimesis, Milano-Udine 2008, p. 39. Alla decostruzione della sovranità Derrida ha dedicato in particolare il suo ultimo seminario biennale tenuto all’EHESS: Jacques Derrida, Séminaire. La bête et le souverain I (2001-2002), éd. établie par M. Lisse, M.-L. Mallet, G. Michaud, Galilée, Paris 2008; tr. it. di G. Carbonelli, La Bestia e il Sovrano I (2001-2002), ed. it. a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 2009; Jacques Derrida, Séminaire. La bête et le souverain II (2002-2003), éd. établie par M. Lisse, M.-L. Mallet, G. Michaud, Galilée, Paris 2010; tr. it. di G. Carbonelli, La Bestia e il Sovrano II (2002-2003), ed. it. a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 2010.
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determinazione come violenza. L’Uno si guarda dall’altro per farsi violenza (perché si fa violenza e in vista del farsi violenza)24.
Dalla negazione dell’altro, dalla rimozione della costituzione alter-egologica dell’Io, da questa violenza originaria, prende forma il fantasma di un potere assoluto, che non conosce vincoli né limiti, e di una sovranità incondizionata e indivisibile. Il fantasma della sovranità, sia di quella dell’io, sia di quella di uno Stato, sarebbe generato dal misconoscimento di questa violenta soppressione, come desiderio di un’appropriazione di sé che sopprime l’altro e di una padronanza incondizionate; questo fantasma esorcizza e tenta di neutralizzare anche la costituiva esposizione all’evento cui non possiamo sottrarci. La venuta incalcolabile, inanticipabile, imprevedibile dell’evento impone invece di «arrendersi all’imminenza di ciò che viene o sta per venire»25, richiede di «arrendersi senza condizione»26, comporta una resa, costringe a sperimentare un senza potere, è disarmante: «non si può, non si ha il potere di fare altrimenti»27. L’esposizione a ciò che e a chi viene lascia senza difesa, senza protezione ed è la sola condizione, del resto, che consente all’evento di avvenire: ci deve essere un momento di disarmo assoluto. […] Il rapporto con l’evento, l’alterità, il caso, l’occasione, ci rende del tutto inermi; e si deve esserlo. Il si deve dice sì all’evento: è più forte di me; c’era prima di me; il si deve è sempre il riconoscimento di ciò che è più forte di me. […] Si deve accettare che questo (l’altro, qualcos’altro) sia più forte di me perché qualcosa avvenga. Perché qualcosa avvenga, bisogna che mi manchi una certa forza, e che mi manchi abbastanza. Se fossi più forte dell’altro, o di ciò che avviene, nulla mi potrebbe avvenire. Ci vuole una debolezza, che non necessariamente è fiacchezza, imbecillità, deficienza, o malattia, infermità. […] Questa affermazione di debolezza è incondizionata; quindi non è né relativista né tollerante28.
La debolezza di questo senza forza non va intesa, allora, come l’opposto della forza, né in senso negativo. Al contrario – come ve24
Derrida, Mal d’archivio cit., p. 103. Derrida, Artefattualità cit., p. 11. 26 Derrida, L’università senza condizione cit., p. 15. 27 Derrida, La Bestia e il Sovrano II (2002-2003) cit., p. 304. 28 Derrida, «Ho il gusto del segreto» cit., p. 57. 25
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dremo meglio più avanti – ha un carattere affermativo e incondizionato. Con evidente riferimento a Benjamin29, Derrida insiste sulla necessaria correlazione tra il carattere dirompente e disarmante dell’evento e la “forza debole”, la vulnerabilità di chi si lascia colpire da esso: «Necessità di pensare contemporaneamente l’imprevedibilità di un evento necessariamente senza orizzonte, la venuta singolare dell’altro e, di conseguenza, una forza debole. Questa forza vulnerabile, questa forza senza potere espone incondizionatamente a ciò che o a chi viene e che viene a colpirla»30. Questa forza senza forza e senza potere, questa vulnerabilità esposta all’evento, alla strapotenza della sua irruzione non può che costringere ad una resa, attestando il carattere illusorio e fantasmatico della presunta sovranità dell’io, che così viene spodestata: «attraverso l’esperienza che si lascia attraversare da ciò che viene o da chi viene, da ciò che arriva o da chi arriva, dall’altro a venire, una certa rinuncia incondizionale alla sovranità è richiesta a priori. Prima ancora dell’atto di una decisione»31. Ma questo im-possibile, in quanto non potere, non è semplice impotenza, non va inteso in senso negativo. Scrive Derrida: «Ne va proprio di un altro pensiero del possibile (del potere, dell’“io posso” padrone e sovrano, dell’ipseità stessa) e di un impossibile che non sarebbe soltanto negativo»32. Questo impossibile va inteso, affermativamente, come una potenza senza potere, una potenza disarmata e disarmante.
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Benjamin, in una delle sue tesi Sul concetto di storia, aveva impiegato l’espressione «una debole forza messianica [eine schwache messianische Kraft]» (Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Gesammelte Schriften. Abhandlungen, hrsg. von R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, Bd. I/2, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1974; tr. it. e cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, II tesi, p. 23). Sulle sottili prese di distanza avanzate da Derrida nei confronti di questa formula, si rinvia in particolare a Jacques Derrida, Marx & Sons, PUF-Galilée, Paris 2002; tr. it. E. Castanò et al., Marx & Sons, in Marx & Sons. Politica, spettralità, decostruzione, Mimesis, MilanoUdine 2008, pp. 280-287. Su questo confronto si veda almeno Simone Regazzoni, Al di là della pulsione di potere. Derrida e la decostruzione della sovranità, introduzione a Derrida, Incondizionalità o sovranità cit. Più in generale, sulla questione di una “forza” senza potere, anche per i suoi risvolti politici, si vedano: Simone Regazzoni, La decostruzione del politico. Undici tesi su Derrida, il melangolo, Genova 2006 e Simone Regazzoni, Derrida. Biopolitica e democrazia, il melangolo, Genova 2012. 30 Derrida, Stati canaglia cit., p. 14. 31 Ivi, p. 13. 32 Ivi, p. 203.
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Si tratterebbe di quella impossibile incondizionalità senza sovranità33, che da ultimo Derrida ci ha lasciato da pensare attraverso le figure, tra le altre, dell’ospitalità, del dono, del perdono, o di una giustizia eterogenea al diritto. Figure di un non-potere senza condizione che affermativamente allude non ad una mancanza, ma ad un eccesso, alla ultra-potenza stessa dell’impossibile, del non potere. 3. La potenza dell’impossibile He gar dynamis en astheneia teleitai. 2Cor 12,9.
Attraverso il suo pensiero dell’evento e la decostruzione dell’istanza del potere e della sovranità, Derrida ci invita a spingerci al di là del principio del potere, oltre l’antinomia e l’opposizione dialettica di potere e non-potere, al di là della possibile dialettizzazione o della mera inversione dei termini dell’opposizione. Il non-potere che qui si annuncia non è, come abbiamo detto, impotenza, mancanza di potere: così come la debolezza non è il rovescio speculare della forza, allo stesso modo si tratta di pervenire al pensiero della “potenza” del non-potere, il quale non è l’opposto del potere, né questa potenza va pensata come un contro-potere. In modo estremamente conciso Derrida, una volta, ha usato questa formula: «Potere dell’impotenza. Possibilità dell’impossibile»34. Questa possibilità dell’impossibile, questa potenza che si annuncia nell’im-possibile, è un altrimenti possibile, il possibile come impossibile, che schiude la possibilità di una incondizionatezza senza potere (e senza sovranità) e di un non potere tutt’altro che impotenti. Con insistenza Derrida non perde occasione per ribadire il carattere non negativo dell’impossibile e la straordinaria “potenza” del non potere: «l’impotenza non è il contrario della potenza; è l’impotenza stessa a fare l’impossibile e a diventare onnipotente»35. Si tratta, dunque, di una potenza eccedente, al di là 33
Cfr. Derrida, Incondizionalità o sovranità cit. Jacques Derrida, Le toucher, Jean-Luc Nancy, Galilée, Paris 2000; tr. it. di A. Calzolari, Toccare, Jean-Luc Nancy, Marietti, Genova 2007, p. 169. 35 Jacques Derrida, H. C. pour la vie, c’est à dire…, Galilée, Paris 2002; tr. it. e cura di M. Fiorini, Hélène Cixous, per la vita, Marietti, Genova-Milano 2012, p. 104. 34
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del potere, la cui ultra-potenza è irresistibile. Potenza dell’impotenza: come pensarla? Abbiamo già detto come l’evento, in quanto impossibile, agisca come una forza dirompente e come a questa corrisponda la vulnerabilità dell’essere-esposti. L’im-possibile è il nome di questa passione, di questo patire, di una certa attiva passività36: esposizione di un’ipseità alla venuta di un’alterità che la depone in quanto Soggetto sovrano, facendole sperimentare il suo non poter più potere. Senza questo lasciar venire, nulla davvero potrebbe accadere, e non vi sarebbe più avvenire. Per questo, come afferma Derrida in più occasioni, «l’apertura dell’avvenire è meglio, ecco l’assioma della decostruzione»37, là dove l’avvenire non è tanto da intendersi come sinonimo di futuro, ma come un venire-a, un lasciare la porta aperta alla venuta dell’evento. Certo, proprio perché non anticipabile e non padroneggiabile, la venuta dell’evento espone sempre al massimo rischio: in ogni momento la promessa del meglio può pervertirsi nella minaccia del peggio. Sospeso alla sua imprevedibilità, l’evento si annuncia sempre nel rischio, nell’insicurezza, nell’incertezza che anche la morte potrebbe arrivare, ma senza esporsi a questo pericolo neppure la vita potrebbe accadere, né tanto meno ciò che le dà senso. Questa attiva passività va pensata al di là dell’opposizione di attivo e passivo, poiché è un lasciarsi attraversare dall’evento dell’altro. Il lasciar-venire l’evento nomina un’attiva rinuncia alla neutralizzazione del carattere dirompente dell’evento, un’attestazione di perdita di padronanza e di impotenza, al tempo stesso, affermate e subite, un esporsi all’evento senza difese. Una resa. Perché l’evento possa accadermi senza essere neutralizzato già in partenza, occorre una certa pre-di (e)sposizione, un esporsi disarmati, occorre abbassare la guardia, o – per dirlo altrimenti – le proprie difese immunitarie38, per lasciarsi colpire dall’altro in quanto altro. Lasciar-venire l’even36 «Nello stesso tempo, doppiamente, l’attività ritorna alla passività […] Da fare a lasciare non si passa più da un contrario all’altro, non si passa alla passività. La passività del “lasciare” è altra da quella della coppia, per esempio della coppia attivo/passivo» (Jacques Derrida, Survivre, in Parages, Galilée, Paris 2003; tr. it. di S. Facioni, Sopra-vivere, in Paraggi. Studi su Maurice Blanchot, Jaca Book, Milano 2000, p. 263). 37 Derrida, Artefattualità cit., p. 22. 38 Sul paradigma immunitario si vedano soprattutto: Derrida, Fede e sapere cit., e Roberto Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 20202.
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to, lasciarsi colpire dalla sua irriducibile e sconvolgente alterità, non consiste in «un certo genere di passività rassegnata […]. Lasciar venire l’altro, non è l’inerzia disposta a tutto»39. Questo arrendersi non è impotente, ma serba in sé la potenza dell’impossibile, è pronto ad accogliere l’inatteso, poiché solo lasciandolo accadere e non prevedendolo si dà evento e avvenire: lascio accadere, […] lascio accadere ciò che accade (dell’altro), questo “lasciare” non neutralizza nulla, non è una semplice passività, anche se qualche passività è qui richiesta; è al contrario la condizione perché un evento abbia luogo e qualcosa accada. Ciò che facessi accadere invece di lasciar accadere, ebbene, non accadrebbe. Ciò che faccio accadere non accade, evidentemente, e bisogna trarre le conseguenze di questa necessità paradossale40.
Smascherare il carattere di fantasma del potere e della sovranità non significa, allora, essere ricondotti ad una rassegnata impotenza, ma corrisponde, piuttosto, ad un attivo lasciar accadere l’evento, ad un lasciar-fare avvenire che richiede una disponibilità all’esposizione, perfino una certa destrezza, che si accompagna a una grazia e ad una certa capacità di abbandono. Come afferma Derrida: «Saper “lasciare” – e sapere che cosa vuol dire “lasciare” – è una delle cose più belle, più coraggiose e più indispensabili che io conosca. Che fa tutt’uno con l’abbandono, con il dono e il perdono. La pratica della decostruzione non è mai esente da questo – o, detto in altri termini, non è mai esente dall’amore»41. Per lasciar accadere l’evento, per esporsi ad esso e farsene colpire, è necessario un preliminare “sì”42 che corrisponde all’evento, dicendo “vieni”, un “sì” che ha una potenza di affermazione straordinaria. Si tratta di «un “sì” all’altro che non è forse senza rapporto con un “sì” all’evento, cioè con un “sì” a quel che viene, al lasciar
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Derrida, Psyché. Invenzione dell’altro cit., p. 57. Derrida, La Bestia e il Sovrano I (2001-2002) cit., p. 291. 41 Derrida, Quale domani? cit., p. 16. 42 «L’affermazione dell’a-venire […] non è nient’altro che l’affermazione stessa, il “sì” in quanto condizione di ogni promessa e di ogni speranza, di ogni attesa, di ogni performatività, di ogni apertura all’avvenire, qualunque esso sia» (Derrida, Mal d’archivio cit., p. 90). Sul “sì”, in quanto affermazione che è già risposta e ripetizione, si veda almeno Jacques Derrida, Ulysse Grammophone, Galilée, Paris 1987; tr. it. di M. Ferraris, Ulisse grammofono, il nuovo melangolo, Genova 2004, pp. 64 e 74. 40
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venire»43. Occorre sempre un sì, la ripetizione di un sì, per rispondere all’evento dell’altro; dicendo “vieni”, questo sì rivela l’eccesso di una forza di esposizione, la rinuncia a difendersi, la destituzione di ogni potere sovrano ad opera di una potenza disarmante, in virtù della quale non posso più potere. Dire di sì all’evento significa deporre il fantasma della padronanza e del potere, della sovranità di un “io posso”; ma soprattutto, proprio in quanto forza disarmante, proprio e soltanto in quanto “forza debole”, rivela la straordinaria potenza del non potere: «senza potere ma senza debolezza. Senza potere ma non senza forza, foss’anche una certa forza della debolezza»44. Si tratta, dunque, di una debolezza paradossale, «che può trasformarsi nella più grande forza»45. Al di là del potere, la potenza si compie, diviene “perfetta”, raggiunge il suo telos, solo quando diviene incondizionata im-potenza, debolezza di un disarmo assoluto che, paradossalmente, si trasforma in una forza straordinaria, più forte del possibile, tanto da potere l’impossibile, potenza senza potere, senza sovranità, ma altrettanto incondizionata, che può, al di là e oltre il possibile, solo quando rinuncia alla propria forza: «La forza più grande si manifesta nella rinuncia infinita alla forza, nell’interruzione assoluta della forza ad opera del “senza forza”»46. Al di là del principio di potere, l’im-possibile è più forte di un altro genere di forza, «forte nella sua propria debolezza»47, più potente del possibile, imponendo una resa incondizionata: «La logica della forza rivela, entro la sua logica, una legge più forte di questa stessa logica»48, un’altra legge, quella dell’impos43
Derrida, Hélène Cixous, per la vita cit., pp. 94-95. Derrida, Incondizionalità o sovranità cit., p. 44. 45 Derrida, «Ho il gusto del segreto» cit., p. 57. L’altro pensiero del possibile, che intende pensare, a partire dall’im-possibile, una potenza senza potere e una debolezza “potente”, eredita qui – come è evidente – la parola di Paolo, nella quale si condensa il carattere sovversivo del Cristianesimo: «he gar dynamis en astheneia teleitai» (2Cor 12,9), come ben traduce la Vulgata: «nam virtus in infirmitate perficitur»: la potenza ha compimento nella debolezza. 46 Jacques Derrida, Louis Marin, in Chaque fois unique, la fin du monde, présenté par P.-A. Brault et M. Naas, Galilée, Paris 2003; tr. it. di M. Zannini, Louis Marin, in Ogni volta unica, la fine del mondo, Jaca Book, Milano 2005, p. 164. 47 Jacques Derrida, Nietzsche and the Machine (interview with Richard Beardsworth), «Journal of Nietzsche Studies», 7, 1994; tr. it. e cura di I. Pelgreffi, Nietzsche e la macchina. Intervista con Richard Beardsworth, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 43. 48 Ibid. 44
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sibile, più forte di quella della forza, che comanda incondizionatamente di revocare la forza nel “senza forza”, la cui potenza va ben al di là di ogni forma di potere. La decostruzione, in quanto pensiero dell’evento e dell’impossibile come esperienza del senza potere, è, forse, il tentativo più radicale di decostruzione dell’istanza del potere, della sovranità e dei suoi fantasmi: se l’ipseità, in quando identità di sé con sé e appropriazione di sé, si condensa in un “io posso”; se potere e ipseità49 dicono la stessa cosa, cioè il potere di un io sovrano e autonomo, allora la legge dell’impossibile, l’etero-nomia stessa in quanto legge dell’altro, intacca, attacca, potremmo dire anche infetta, per riprende il paradigma immunitario, l’ipseità, mostrando il carattere illusorio tanto di una identità chiusa in se stessa e identica a sé, quanto del potere di un Soggetto sovrano. La legge dell’evento come im-possibile annuncia piuttosto una potenza più forte del presunto potere assoluto dell’ipseità, del fantasma di padronanza e appropriazione di sé assolute, mostrandone il carattere illusorio. Per contrastare il potere non serve allora combatterlo in modo antagonistico, opponendogli un contro-potere, ma occorre decostruirlo, riconoscendo la pulsione di potere che genera il fantasma di una sovranità incondizionata e assoluta, ultrapotente, destinata tuttavia a sgretolarsi di fronte alla potenza irresistibile, disarmata e disarmante, dell’esposizione all’evento dell’altro.
49 Cfr. Émile Benveniste, L’hospitalité, in Vocabulaire des institutions indo-européennes 1. Économie, parenté, société, Minuit, Paris 1969; tr. it. di M. Liborio, L’ospitalità, in Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee 1. Economia, parentela, società, Einaudi, Torino 1976, pp. 64-75.
La breccia del sociale, la storia, l’evento: Le travail de l’œuvre di Claude Lefort Claudia Terra
Le travail de l’œuvre. Machiavel è il punto più alto del confronto di Claude Lefort con Machiavelli. L’opera viene pubblicata da Gallimard nel 1972 come tesi di abilitazione, iniziata prima sotto la guida di Maurice Merleau-Ponty e poi, alla morte improvvisa di questi, di Raymond Aron1. Già a partire dagli anni Sessanta tuttavia, l’attenzione rivolta a Machiavelli aveva preso forma in alcuni saggi2. Abbiamo inoltre notizia di corsi sul Segretario fiorentino che Lefort tenne nel 1953-54 all’Università di São Paulo. Con un passo indietro al 1949 si incontra invece la Nota su Machiavelli di Merleau-Ponty3, che aveva enfatizzato il ruolo dell’apparenza in politica – delineando in poche pagine una fenomenologia del potere –, riconsiderato il rapporto dei soggetti politici con la fortuna e riconosciuto il carattere originario ed ineliminabile del conflitto. Si tratta di aspetti fondamentali nell’interpretazione lefortiana di Machiavelli che verranno sviluppati nel Travail de l’œuvre in maniera originale, nel quadro di un’ontologia politica in grado di rendere conto dei caratteri della società moderna e democratica. Nonostante l’importanza di quest’o1
Claude Lefort, Le travail de l’œuvre. Machiavel, Gallimard, Paris 1972. Claude Lefort, Machiavel jugé par la tradition classique, «Archives européennes de sociologie», 1, 1960, pp. 159-169; Claude Lefort, Réflexions sociologiques sur Machiavel et Marx. La politique et le réel (1960), in Les formes de l’histoire. Essais d’anthropologie politique, Gallimard, Paris 1978, pp. 286-382; tr. it. di B. Aledda e P. Montanari, Le forme della storia. Saggi di antropologia politica, Il Ponte, Bologna 2005, pp. 180-207; Claude Lefort, Machiavel et les jeunes (1971), in Les formes de l’histoire cit., pp. 153-168; tr. it. pp. 163-179. 3 Maurice Merleau-Ponty, Note sur Machiavel (1949), in Signes, Gallimard, Paris 1960, pp. 267-283; tr. it. di G. Alfieri, Nota su Machiavelli, in Segni, il Saggiatore, Milano 2015, pp. 241-254. 2
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pera nell’itinerario lefortiano e nel panorama delle interpretazioni di Machiavelli, essa non ha ricevuto grande attenzione4. Il volume esordisce con un’importante sezione sullo statuto dell’opera di pensiero. Il discorso di Machiavelli, per via dell’originalità riconosciutagli in maniera condivisa, è infatti oggetto delle più differenti interpretazioni, tutte accomunate dalla volontà di fissarne la verità ultima. Lefort si sofferma al contrario sulla sopravvivenza dell’enigme Machiavel nel tempo e sull’indeterminazione dell’opera, che resiste all’appropriazione dei suoi interpreti. Prima delle sezioni centrali vengono così discusse alcune interpretazioni di Machiavelli, «esemplari» poiché formulate da grandi autori (Cassirer, Strauss, Gramsci), ma anche, e soprattutto, per il loro mirare a una verità enunciata en surplomb5. Il mio scopo è soffermarmi su alcuni aspetti della nuova ontologia delineata da Lefort a partire dalla lettura del Principe e dei Discorsi. Lungi dal poterne affrontare tutti gli aspetti, mi limiterò alle questioni del conflitto, della divisione originaria del sociale e dell’abbandono delle categorie del pensiero classico per pensare il possibile posto dell’evento in tale ontologia. Si tratterà di comprendere la categoria 4
Esiste una traduzione spagnola del 2010 e una inglese del 2012: Maquiavelo: lecturas de lo político, Trotta, Madrid 2010, tr. di P. Lomba; Machiavelli in the making, Northwestern University Press, Evanston 2012, tr. di M.B. Smith. Nonostante non vi sia ancora una traduzione italiana, l’opera non era – e non è – del tutto sfuggita all’attenzione italiana. Roberto Esposito nel 1980 guardava a Le travail de l’œuvre come a «un denso saggio destinato ad entrare con autorevolezza nei classici della letteratura machiavelliana», (cfr. Roberto Esposito, La politica e la storia. Machiavelli e Vico, Liguori, Napoli 1980, p. 46). Lo stesso autore ha recentemente riportato l’attenzione sul pensiero lefortiano: cfr. Roberto Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020. Per l’interpretazione lefortiana di Machiavelli si vedano almeno Serge Audier, Machiavel, conflit et liberté, Vrin/EHESS, Paris 2005; Gilles Bataillon, Democracia, cambio político, e incertidumbre: Lefort al encuentro de Maquiavelo, «Revista de Sociología», 35/1, 2020, pp. 69-79; Mattia Di Pierro, Claude Lefort e l’interpretazione di Machiavelli. Una riscoperta del politico tra potere e conflitto, «Filosofia politica», 1, 2018, pp. 133-150; Bernard Flynn, Lefort as a reader of Machiavelli and Marx, «Continental Philosophy Review», 51, 2018, pp. 401-420; Gabriele Pedullà, Machiavelli in Tumult. The Discourses on Livy and the Origins of Political Conflictualism, Cambridge University Press, Cambridge 2018. 5 «Laddove è apparentemente in gioco lo statuto dell’opera non si delinea solamente una rappresentazione del potere: scopriamo invece, nella determinazione di tale statuto, una modalità della relazione al potere già stabilita; laddove è apparentemente in gioco lo statuto del politico non si delinea solamente una rappresentazione dell’opera ma scopriamo, implicata nella determinazione di tale statuto, una modalità della relazione al sapere» (C. Lefort, Le travail de l’œuvre cit., p. 151).
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dell’evento all’interno del discorso fenomenologico6, in particolare in seno al concetto di istituzione. Per Husserl, istituzione (Stiftung) indicava l’acquisizione, da parte della coscienza intenzionale, di un senso oggettivo attraverso un’istituzione primaria (Urstiftung) e la conseguente stabilizzazione. A partire da tale sedimentazione, una Nachstiftung rilancia, re-istituisce tale senso, fino all’istituzione finale nella Endstiftung. Stiftung è così un senso che si stabilizza ma che intrinsecamente chiede la propria trasformazione all’interno della tradizione che istituisce7. Questa dinamica circolare diviene in Merleau-Ponty la chiave per pensare quelle dimensioni durevoli dell’esperienza che permettono una tradizione che non è sopravvivenza del passato ma «nuova vita, che è la forma nobile della memoria»8. La pittura, per esempio, rappresenta un compito unico, l’unità di un’impresa riaffermata nel gesto di ogni pittore, un atto non solipsistico ma gravido di quella comunicazione tra passato e presente che vive in ogni gesto istituente. Il corso al Collège de France del 1954-55 esemplifica l’interesse e il lavoro di Merleau-Ponty su tale strumento di pensiero9. Institution si riferisce così a «quegli eventi di un’esperien6 Per una panoramica sul concetto di evento tra fenomenologia – e le generazioni di studiosi di tale tradizione – e storia, cfr. Marléne Zarader, L’événement entre phénoménologie et histoire, «Tijdschrift voor Filosofie», 2, 2004, pp. 287-321. 7 Cfr. Edmund Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, Nijhoff, Den Haag 1950; tr. it. di F. Costa, Meditazioni cartesiane con l’aggiunta dei Discorsi Parigini, Bompiani, Milano 1997; Edmund Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, Nijhoff, Den Haag 1954; tr. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 2015. In particolare, nella terza appendice di quest’ultimo volume (Die Frage nach dem Ursprung der Geometrie), l’unità della tradizione giunta fino a noi, che nella sua esistenza obiettiva si dice geometria, viene compresa attraverso la «vivente riattivibilità» del proprio «senso originario» (p. 365). 8 Maurice Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio (1952), in Segni cit., p. 77. 9 Maurice Merleau-Ponty, L’institution, la passivité. Notes de cours au Collège de France (1954-1955), Belin, Paris 2015. Per un’analisi del concetto di institution in Merleau-Ponty cfr. Kôji Hirose, Les phénomènes d’institution. Le point nodal de la pensée de Merleau-Ponty, «Études de Langue et Littérature Françaises», 68, 1996, pp. 182-194; Enrica Lisciani-Petrini, Merleau-Ponty: potenza dell’istituzione, «Discipline filosofiche», 2, 2019, pp. 71-98; Darian Meacham, The “Noble” and the “Hypocritical” Memory: Institution and Resistance in the Later Merleau-Ponty, «Philosophy Today», 53, 2009, pp. 233-243; Roberto Terzi, Institution, événement et histoire chez Merleau-Ponty, «Bulletin d’Analyse Phénoménologique», 3, 2017, disponibile online (https://popups.uliege.be/17822041/index.php?id=1004); Robert Vallier, Institution. The Signifiance of Merleau-Ponty’s 1954 course at the Collège de France, «Chiasmi International», 7, 2005, pp. 281-302.
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za che la dotano di dimensioni durevoli, in rapporto alle quali tutta una serie di altre esperienze avrà senso, formerà un proseguimento pensabile o una storia – ovvero gli eventi che depositano in me un senso, non a titolo di sopravvivenza e di residuo, ma come appello a un proseguimento, come esigenza di un avvenire»10. Rendendo l’husserliana Stiftung con Institution, Merleau-Ponty può così cogliere la dinamica istituente che caratterizza diversi domini dell’esperienza e la storicità di quest’ultima11. L’evento è quindi parte dell’institution. Tornerò su questo punto. Per ora vorrei sottolineare come Merleau-Ponty rompa con quel residuo di soggettività costituente all’opera nella Stiftung husserliana, descrivendo piuttosto l’apertura di un «campo» nel quale l’esperienza è già situata. L’istituzione in questo caso non è totalmente a disposizione dei soggetti, ma li precede. Si tratta di una matrice simbolica12 che rende possibile una storia comune fatta di scarti che la re-istituiscono continuamente. Lefort riprende in modo peculiare tale apparato concettuale per pensare la politica come istituzione del sociale13. È il sociale stesso a domandare la propria istituzione, per via dello scarto, della faglia che da sempre lo caratterizza. Se inoltre, in conseguenza di tale divisione originaria, il sociale è intrinsecamente 10 Maurice Merleau-Ponty, L’«institution» dans l’histoire personnelle et publique, in Résumés de cours. Collège de France (1952-1960), Gallimard, Paris 1968; tr. it. di M. Carbone, L’«istituzione» nella storia personale e pubblica, in Linguaggio, Storia, Natura. Corsi al Collège de France, 1952-1961, Bompiani, Milano 1995, p. 56, corsivi miei. 11 Non è dunque un’iniziativa filologica quella condotta dal filosofo nel corso del 1954-55: il concetto di institution viene sviluppato dalle sue premesse husserliane e portato oltre queste. Proprio in tale concetto Merleau-Ponty cerca «un rimedio alle difficoltà della filosofia della coscienza», situandosi al di là delle operazioni egologiche e sforzandosi invece di cogliere la cerniera tra il passato e il presente, tra il soggetto e l’altro (ivi, p. 55). D’altra parte, l’operazione di Merleau-Ponty appare evidente se si considerano le traduzioni effettive di Stiftung, reso da Derrida e Ricœur, ma spesso anche nelle traduzioni italiane, con «fondazione». È infatti il fenomenologo francese a mettere l’accento sulla tensione verso l’avvenire, laddove Husserl aveva insistito sul costituirsi del senso originario. Cfr., per queste considerazioni, Petar Bojanić, “Fenomenologia dell’istituzionale”. Does “to Institutionalize” something mean, in fact, to document it?, «Rivista di estetica», 50, 2012, pp. 37-52; Lisciani-Petrini, Merleau-Ponty: potenza dell’istituzione cit., p. 74 e nota 1; Roberto Terzi, Événement, champ, trace: le concept phénoménologique d’institution, «Philosophie», 131, 2016, pp. 52-68. 12 Merleau-Ponty, L’institution, la passivité cit., p. 58. 13 Cfr. Mattia Di Pierro, Il concetto di istituzione in Claude Lefort, «Discipline filosofiche», 2, 2019, pp. 99-120. Cfr. anche Mattia Di Pierro, L’esperienza del mondo. Claude Lefort e la fenomenologia del politico, ETS, Pisa 2020.
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conflittuale, esso dovrà trovare un accesso a sé nel polo simbolico del potere. Tale infrastruttura simbolica, lungi dal chiudere il senso del sociale, porta con sé la divisione da cui proviene e resta aperta alla dimensione storica che la caratterizza e ai nuovi eventi che reiterano l’esigenza di avvenire iscritta nell’istituzione14. Elementi di una nuova ontologia Dell’attacco secco del Principe «Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o republiche o principati»15, Lefort enfatizza l’elusione del discorso classico sull’origine e la finalità dello Stato, oltre che la mancata distinzione tra legittimità e illegittimità delle forme di potere, suggerendo che tali problemi abbiano cessato di essere pertinenti per Machiavelli. Già dalle prime analisi del Travail de l’œuvre emerge così un discorso sul potere innestato in un mondo non più preordinato, e segnato dall’indeterminazione. Più che pensato in relazione all’origine, il potere viene situato nel suo istituirsi a partire da condizioni date, imposte dalla storia del popolo che il principe governa o conquista. Machiavelli, infatti, classificando i tipi di principato si pone in un primo momento dal punto di vista del principe, evitando il caso della fondazione. In questo modo lo Stato appare come una dimensione della società, qualcosa che preesiste all’azione del soggetto politico: «da una parte l’oggetto, il principato, è colto attraverso una definizione che lo costituisce come risultato delle operazioni del soggetto: a differenza di Aristotele, Machiavelli non si limita a cercare dei campioni tipici nella Storia o nello spazio empirico. Dall’altra parte, il soggetto, il principe, non è determinato che in relazione al posto occupato rispetto all’oggetto»16. Ciò che invece è soggetto e oggetto allo stesso tempo 14 Questo discorso, consolidatosi a partire dagli anni Settanta come comprensione dei tratti della modernità, è il risultato di un incessante confronto con i fatti politici. Già dagli anni Cinquanta l’attenzione di Lefort aveva infatti incontrato le questioni della divisione del sociale e del simbolico come prova dell’esteriorità e dell’irriducibilità del sociale: cfr. Warren Breckman, Lefort and the Symbolic Dimension, in Martín Plot (ed.), Claude Lefort. Thinker of the political, Palgrave Macmillan, New York 2013, pp. 176-185. 15 Niccolò Machiavelli, Il Principe, a cura di G. Inglese, Einaudi, Torino 1995, p. 7. 16 Lefort, Le travail de l’œuvre cit., p. 348.
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è il potere, una dimensione ineludibile che permette di ordinare le relazioni tra gli uomini. È una trama nella quale la società è già presa: è vano allora ricercare il presunto principio metafisico che vi è all’origine, così come è fallace identificare il potere politico con la figura che assume, ad esempio quella dello Stato. Ciò che conta è comprendere le condizioni nelle quali sono inseriti gli attori politici, esposti alla permanenza del conflitto e al mutare degli accidenti. Il principe appare infatti come il soggetto in grado di dominare tale confusione degli eventi. Più precisamente, «il principe ha il merito di pensare l’universale nel particolare, di decifrare nel presente i segni della figura dei conflitti a venire e di effettuare così, nella pratica dell’anticipazione, la prova di un calcolo infinito, poiché l’evento rimette costantemente in causa i risultati acquisiti»17. In tal senso, la dimensione dell’evento apre la strada ad una rinnovata comprensione dei rapporti tra il teorico – il filosofo – e l’attore politico. Entrambi, rispettivamente nell’azione e nel pensiero, si trovano presi nelle condizioni contingenti del problema che affrontano, in una configurazione che non cessa di cambiare e di cui non può darsi soluzione definitiva. Più radicalmente, ciò implica che il soggetto di pensiero e quello d’azione non si allontanano al punto di descrivere un’antinomia. La filosofia politica classica si imbatteva nella contraddizione tra la teoria, i modelli delle costituzioni e le azioni particolari. Essa era inoltre costretta all’ancoraggio in un ordine naturale per pensare la politica, creando così uno scarto incolmabile con il piano fattuale. L’ontologia che Lefort ricava da Machiavelli, al contrario, si affranca dalla distinzione tra essenza ed esistenza: «nella storia non c’è nient’altro che quello che appare»18. In tale configurazione si dà non tanto un ordine di cose trascendente, ma «un’esperienza ordinata in se stessa la cui materia, sebbene sempre cangiante poiché le situazioni non si ripetono, si distribuisce seguendo linee di forza costanti»19. Quali siano i fuochi di tale configurazione viene chiarito nel momento in cui si precisa il contesto dell’azione del principe: la costitutiva divisione della città. Alla lettura del nono capitolo del Principe si incontrano infatti «dua umori», i grandi e il popolo: da questi «dua appetiti» hanno luogo il prin17
Ivi, p. 357. Ivi, p. 358. 19 Ivi, p. 356. 18
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cipato, la libertà o la licenza20. I grandi sono animati da un desiderio di oppressione mentre quello del popolo è un desiderio negativo di non essere oppresso. Soggiacente al potere del principe vi è così tale relazione essenziale che dà luogo a un conflitto, a una «lotta di classe»21 che il potere ha il compito di istituire simbolicamente, pur restandone sempre l’esito. L’autorità del principe, infatti, si radica in un terreno mai quieto: i due desideri sono per principio insaziabili e la loro relazione è di tipo differenziale. I grandi e il popolo esistono solo nella differenza che gli uni significano di fronte all’altro. Non è possibile, allora, cogliere tale divisione del sociale in atto: essa è originaria ed è ciò in virtù del quale la società si rapporta a se stessa22. Questa dinamica dischiude la storia dell’istituzione del sociale e rivela allo stesso tempo come ogni comunità riposi su una lacerazione essenziale (déchirement). È in base a questi elementi originari che la politica si ordina, in un movimento del quale essa è già sempre parte e che impedisce il ricorso a un fondamento stabile. La ricerca necessaria di un punto fermo passa così per «l’esperienza di vuoto che nessuna politica potrà mai colmare»23. Non è possibile ridurre a unità la società, ma proprio per questo essa si mette in forma e il potere si erge «terzo» sopra i due umori. Vi sono, tuttavia, legami politici che più si accordano con il movimento degli umori. Finché si fonda sul popolo, l’azione del principe risponderà all’attesa di riparo dall’oppressione dai grandi, come 20
Machiavelli, Il Principe cit., pp. 67-68. Nell’opera Lefort usa spesso questa espressione per riferirsi allo scontro tra i due umori, sebbene non ne siano accolte le implicazioni marxiane, non essendovi un esito finale del conflitto né identificazione del popolo con il proletariato in quanto agente di una missione storica. L’utilizzo di questo sintagma non è comunque dettato dal caso: sembra piuttosto la prova del congedo di alcune istanze marxiane, senza tuttavia lasciare da parte i problemi che lo stesso Marx aveva individuato. Per l’utilizzo da parte di Machiavelli di un criterio economico-sociale per la caratterizzazione dei soggetti della città, cfr. Marco Geuna, Ruolo dei conflitti e ruolo della religione nella riflessione di Machiavelli sulla storia di Roma, in Riccardo Caporali, Vittorio Morfino, Stefano Visentin (a cura di), Machiavelli: tempo e conflitto, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 107-139, in particolare p. 114. 22 «Lontana dall’essere mai riconoscibile come divisione di fatto, essa è inafferrabile […]. Una tale divisione non arriva a scindere il sociale in parti estranee le une alle altre: grazie a questa il sociale si rapporta a se stesso – in uno scarto – e acquisisce la propria identità. Appare come tale. […] Aperto nel suo essere alla sua fondazione presente-assente, il sociale è donazione e istituzione continua di se stesso» (Claude Lefort, Marcel Gauchet, Sur la démocratie: le politique et l’institution du social, «Textures», 2-3, 1971, p. 13). 23 Lefort, Le travail de l’œuvre cit., p. 382. 21
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se l’oppressione del principe paresse al popolo di un’altra natura. I grandi al contrario riconoscono nel principe un loro simile: gli concedono il potere solo per vedersi confermato il ruolo di oppressori. Lefort arriva a sostenere che è un’astuzia della ragione a permettere che il desiderio del principe e del popolo si congiungano. Se cercasse l’aiuto dei grandi infatti, il desiderio del principe si troverebbe contrariato dagli eguali di cui verrebbe a circondarsi. Soltanto con l’aiuto del popolo esso si erge solo, al prezzo di non lasciare in sospeso la ricerca di sicurezza che questo chiede, vale a dire mettendo un freno alla violenza dei grandi. Non per questo il popolo è al sicuro dall’oppressione: esso crede di vedere nel principe un difensore, ma guadagna semplicemente il male minore, non cogliendo tale astuzia. In ragione di questo precario equilibrio, il conflitto, analogamente alla divisione, non va dunque pensato per se stesso, ma compreso a partire dalle condizioni del flusso sul quale si edifica il potere. Se pensassimo il conflitto come buono in sé sarebbe possibile regolarlo dall’esterno, mentre l’ordine che si stabilisce porta sempre con sé la traccia dell’incomponibile24. Da ciò discende l’impossibilità di risalire all’idea di un contratto, perché non vi sarà – e mai vi è stato – un ordine del quale beneficeranno le parti una volta per tutte. L’idea di un contratto non resiste cioè al conflitto irriducibile25 che lacera la 24 Questa centrale considerazione viene ripresa nelle pagine dedicate ai Discorsi, in particolare in relazione alla «portata scandalosa» del quarto capitolo (Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica). Anche in questo caso non bisogna fermarsi alla disunione, al fatto che da questa discendono «tutte le leggi che si fanno in favore della libertà» (dalla cacciata dei Tarquini nel 510 a.C. all’uccisione di Caio Gracco nel 121 a.C.). Bisogna invece tenere presente che la legge è espressione di una lotta sociale, e se ne comprende il senso alla prova di tale movimento. In questo modo non può darsi un pensiero in sorvolo, un legislatore che da fuori regoli il conflitto. La legge nasce da un eccesso e non da un’istanza ragionevole posta all’esterno dello spazio in cui si instaura, cfr. ivi, pp. 467-479. 25 Dell’amplissima bibliografia relativa, ricordo qui i contributi che negli stessi anni circa di Lefort, ma con esiti diversi, hanno posto l’accento sul conflitto nell’opera di Machiavelli: Louis Althusser, Machiavel et nous, in Écrits philosophiques et politiques, 2 voll., Stock/IMEC, Paris 1994/1995, vol. II, pp. 39-168; tr. it. di M.T. Ricci, Machiavelli e noi, manifestolibri, Roma 1999; Antonio Negri, Virtù e Fortuna. Il paradigma machiavelliano, in Il potere costituente: saggio sulle alternative del moderno, manifestolibri, Roma 2002, pp. 48-116; Neal Wood, The value of asocial sociability: Contributions of Machiavelli, Sidney, and Montesquieu, «The Bucknell Review», 16, 1968, pp. 1-22; tr. it. di F. Marchesi, Il valore dell’insocievole socievolezza: Machiavelli, Sidney e Montesquieu, in Andrea di Gesu, Paolo Missiroli (a cura di), Res publica. La forma del conflitto, Almanacco di Filosofia e politica 3, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 269-294.
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società. Il principe ricrea di volta in volta le condizioni di una coesistenza, ma questa non ha il carattere della soluzione. Al cuore del discorso sul politico non vi è così un’essenza dei regimi, ma nemmeno un mero accadere di accidenti. Questa nuova ontologia accoglie l’evento proprio in virtù della perdita di significato della distinzione tra essenza e accidenti: dal momento che la diversità delle situazioni deve essere pensata in se stessa, «la società è, per principio, aperta all’evento»26. Essa lo è per via della lacerazione essenziale che l’attraversa, sulla quale Lefort insiste sin dalle prime pagine di commento al Principe. A partire da questa condizione «è affidato alla società il compito senza fine di colmare la breccia in cui si riversano gli appetiti di classe e degli individui»27. La non-coincidenza del sociale fa sì che il campo politico sia aperto a nuovi scarti, a nuovi eventi contingenti, i quali, innestandosi in tale campo, lo modificano inaugurando una nuova tradizione. L’evento non va pensato nel registro della sola perturbazione, dal momento che esso non è altro che «il punto di incontro tra gli effetti di azioni incommensurabili, il punto dove, attraverso una forma manifesta, s’istituisce o si disfa il senso»28. Non esprime la degradazione della pienezza di una forma che riposa in se stessa. Diversamente, è una dimensione dell’istituzione, quel momento fecondo che ne permette la re-istituzione e che aprirà nuovamente al compito mai concluso dell’istituzione. L’evento è un elemento di un’ontologia pensata alla prova dell’Essere nel tempo: l’essere della politica si lascia così cogliere a fronte di ciò che avviene, e non in relazione a fondamenti ultimi. Ma la costitutiva esposizione all’evento non si traduce né in relativismo né in azioni assolute in senso etimologico, prive cioè di condizioni. Questo perché è a partire dallo spazio sociale stesso che si delinea il compito dell’istituzione del potere. La grande politica sarà allora un evento nel suo afferrare tale compito, inscritto hic et nunc nella storia. Si tratta di un compito contingente, sorto nelle condizioni particolari di un dato momento, ma che allo stesso tempo invita all’azione neces26
Lefort, Le travail de l’œuvre cit., p. 425. Ibid. Lefort non scrive combler, che darebbe l’idea della pienezza di una soluzione, ma colmater la brèche. Colmater è utilizzato in riferimento all’intervento di argine nel tappare una fuoriuscita, una breccia. Nella lingua francese dà l’idea sia di provvisorietà che di rimedio. 28 Ibid. 27
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saria per reiterare il senso del sociale. L’ammirazione di Machiavelli si rivolge perciò agli uomini di virtù capaci di misurarsi con quella che si profila, nell’incompossibilité dei desideri della città, come la politica richiesta: quell’azione che permette di istituire il baratro sul quale riposa la società. La grande portata di tale azione dipende dalla ricchezza delle situazioni che essa incontra, a seconda di quanto libera e viva è la società, come se da tale libertà dipendesse l’inscriversi del potere in una durata29. Non solo l’evento si delinea a partire dal campo sociale che trasforma, ma l’azione stessa dei soggetti politici è presa in un tessuto del quale non sono mai completamente artefici, come è evidente nell’analisi lefortiana del venticinquesimo capitolo del Principe: Quanto possa la fortuna nelle cose umane et in che modo se li abbia a resistere. Qui si rende chiaro che la fortuna non è un’avversità anonima. Essa si configura piuttosto come il limite davanti alla libertà dei soggetti politici, un limite che dipende dall’accordo – o mancato accordo – con la «qualità dei tempi». In questo senso la Fortuna si inscrive negli intervalli di non-virtù dell’uomo, nell’impossibilità di cogliere tutte le occasioni e di adattare la condotta a ciò che le cose del mondo comandano30. Questo, lungi dal sottrarre possibilità al soggetto politico, rappresenta la possibilità per eccellenza per la reistituzione del potere, sempre presa tra il peso delle cose e il peso delle azioni degli uomini. Può chiamarsi evento, allora, l’incontro felice31 tra la fortuna e la virtù così come sono state appena intese, non 29
Ivi, p. 428. Per la figura del riscontro con i tempi cfr. Francesco Marchesi, Riscontro: pratica politica e congiuntura storica in Niccolò Machiavelli, Quodlibet, Macerata 2017, in particolare pp. 57-60. 31 Sul tema dell’incontro (rencontre) nell’opera di Machiavelli ha insistito Louis Althusser in Machiavelli e noi cit. Gli scritti di Machiavelli saranno poi essenziali anche per la sua riflessione degli anni Ottanta sul «materialismo aleatorio», un materialismo non dialettico centrato sul primato dell’incontro sulla forma: cfr. almeno Louis Althusser, Le courant souterrain du matérialisme de la rencontre, in Écrits philosophiques et politiques cit., vol. I, pp. 539-576; tr. it. di V. Morfino e L. Pinzolo, La corrente sotterranea del materialismo dell’incontro, in Louis Althusser, Sul materialismo aleatorio, Unicopli, Milano 2000. Cfr. anche Vittorio Morfino, Le cinque tesi della “filosofia” di Machiavelli, in Caporali, Morfino, Visentin (a cura di), Machiavelli: tempo e conflitto cit., pp. 157-184. Nel caso dell’interpretazione lefortiana di Machiavelli, tuttavia, l’enfasi è riservata principalmente alla costitutiva apertura all’evento di un sociale lacerato essenzialmente, aperto a nuove riconfigurazioni, che non alla priorità dell’aleatorio sulla causa. Allo stesso modo, 30
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incontro tra soggettività pure, bensì istituzione di quel senso fecondo delineatosi nelle condizioni contingenti dello spazio e degli attori del sociale. La singolarità dell’evento non è così discontinuità pura: nella tradizione, la tensione verso l’avvenire assume la cogenza di un compito, e l’evento, realizzandolo, ri-fonda una tradizione attraverso una rottura che è re-istituzione. L’evento dell’istituzione: Roma repubblicana Per concludere questa caratterizzazione dell’evento è necessario esaminare la particolarità della storia di Roma nell’interpretazione lefortiana del terzo libro dei Discorsi. Il riferimento di Machiavelli alle storie di Roma non solo ha la funzione di svelare le mistificazioni dell’élite fiorentina, guardiana dell’antichità per via della sua incapacità di prendere in carico i compiti del presente, ma permette di rivelare la dimensione storica di tutte le società. Roma è infatti attraversata da una temporalità di cui non si trova pari altrove: essa si aprì ad una storia per via della sua capacità di non cristallizzarsi nei limiti di una costituzione o nella forma di un rapporto sociale definitivo32. Detto più radicalmente, «non si trasformò solo sotto l’effetto grezzo dell’evento, ma fece legge della sua esistenza il rimettere costantemente in gioco l’acquisito»33. Diede cioè espressione alla lotta di classe inventando nuove istituzioni, come il tribunato della plebe (494 a.C.). Per giungere alla sua grandezza, Roma fece risuonare l’esigenza di conservazione con quella dell’innovazione, sperimentando così l’avventura della propria istituzione e re-istituzione. Lefort sembra attribuire alla Roma di Machiavelli, non incline a «godere il benefizio del tempo», non solo un’esposizione costitutiva all’evento, ma una disposizione. Questo è evidente nel discorso sul «ritorno ai principi» di quei corpi misti che sono le «republiche e le sètte»: nel primo capitolo del terzo libro dei Discorsi, è noto, Machiavelli affronta quelle alterazioni che riconducono tali corpi alla loro bontà non si tratta di mostrare il primato dell’incontro sulla forma, quanto di comprendere come quella forma, nel suo darsi come istituzione, sia già reiterazione di un senso preso nelle sue successive re-istituzioni, gli eventi. 32 Lefort, Le travail de l’œuvre cit., p. 588. 33 Ibid., corsivo mio.
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originaria, dal momento che non rinnovandosi non durano. Lefort si sofferma sul carattere aporetico del principio, dell’origine. Non si tratta di restaurare un ordine primo, ma di comprendere la dinamica di quello spazio sociale originariamente diviso e perciò preso nel movimento della propria istituzione. Le stesse istituzioni che sono credute buone soltanto in virtù del loro essere originarie nascono in realtà «già sotto l’effetto dell’evento»34. Qual è allora il rapporto tra istituzione ed evento? Tornando a Merleau-Ponty, l’istituzione veniva intesa attraverso «quegli eventi di un’esperienza che la dotano di dimensioni durevoli, in rapporto alle quali tutta una serie di altre esperienze avrà senso, formerà un proseguimento pensabile o una storia»35. Le istituzioni sono allora degli eventi fecondi che aprono un campo nel quale potranno inscriversi altre esperienze. La singolarità dell’evento è pensata nell’istituzione, di modo che è la logica stessa dell’istituzione a rendere possibile una serie di eventi, e dunque una storia. Questo perché essa è un senso in genesi; gli eventi si iscrivono in un campo già istituito, nelle fessure di questo, riprendendolo e modificandolo. Gli scarti dell’istituzione, gli eventi, possono essere presi come il lato «meno cristallizzato» dell’istituzione. Ne rappresentano l’origine evenemenziale ed esprimono la forza di ciò che si dice istituente, senza però scindere l’innovazione dalla conservazione, cosa che smarrirebbe il senso intimo dell’institution. L’evento è dunque esso stesso istituente: rompendo con il campo dal quale proviene, ne apre uno nuovo, in rapporto al quale nuovi eventi contingenti saranno a loro volta possibili, e così via. Se l’evento è «l’istituzione allo stato nascente»36, allora, come ha scritto Roberto Terzi, «nell’evento dell’istituzione il presente chiama un proseguimento nell’avvenire senza tuttavia necessitarlo e risponde all’appello di ciò che è già istituito riprendendolo, il passato si supera aprendo la serie delle sue trasformazioni e il futuro è ritorno retrospettivo verso l’origine»37. In questo senso sono eventi quelle 34
Ivi, p. 600. Merleau-Ponty, L’«istituzione» nella storia personale e pubblica cit., p. 56. 36 Merleau-Ponty, L’institution, la passivité cit., p. 47. 37 Terzi, Institution, événement et histoire chez Merleau-Ponty cit., p. 13. Non è ampia la bibliografia che riflette sulla relazione tra evento e istituzione e sull’interpretazione della storia ad essa conseguente. Cfr. Creusa Capalbo, L’historicité chez Merleau-Ponty, «Revue philosophique de Louvain», 73/19, 1975, pp. 511-535; Nicolas Piqué, M. Merleau-Ponty et l’histoire sauvage, «Rue Descartes», 70, 2010, pp. 74-87; Judith Revel, Istituzione e storicità: 35
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istituzioni primarie quali la creazione dei Tribuni della plebe o la fondazione della Repubblica da parte di Bruto. Essi non ripristinano un ordine buono in sé, ma fanno rivivere la dimensione originaria della legge, contro «all’ambizione e alla insolenzia degli uomini»38. Il ritorno al principio non è dunque «ritorno al passato ma, nel presente, risposta analoga a quella che fu data nel passato – nel presente, cioè a partire dalle condizioni singolari che qui e ora costituiscono i rapporti di forza tra fazioni e classi […]»39. Questo permette di pensare una rottura all’interno di una conservazione: l’evento dell’istituzione non è né puro momento di cesura né mera conservazione dell’origine40. È la breccia di un’azione più che istituita, istituente. In maniera simile all’istituzione merleau-pontiana, fatta di fessure che permettono e necessitano l’avvento di nuovi eventi, il sociale lefortiano, per il vuoto incolmabile che lo caratterizza, è preso nella storia delle sue riconfigurazioni. Da questa breve analisi è emerso un quadro di riferimento per pensare l’evento nell’istituzione del potere lefortiano. A più riprese si una lettura politica della questione dell’espressione, in Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi, Elia Zaru (a cura di), Istituzione. Filosofia, politica, storia, Almanacco di Filosofia e Politica 2, Quodlibet, Macerata 2020, pp. 71-82. D’altra parte, la concezione di evento che abbiamo visto all’opera in Merleau-Ponty contribuisce a superare l’alternativa, sorta in seno alla storiografia francese del ventesimo secolo, tra la storia evenemenziale e la prospettiva dell’école des Annales. Se quest’ultima (nell’opera dei suoi esponenti Marc Bloch, Lucien Febvre, Fernand Braudel) si opponeva al folgorio dell’evento in favore della «lunga durata» delle cause strutturanti, dagli anni Settanta una nuova meditazione sull’evento permette di uscire da tale falso dilemma. In prossimità con Merleau-Ponty, l’evento viene pensato sia come inizio che come risultato – tra passività e attività –, e la storia accoglie l’elemento contingente, attribuendo all’evento uno spessore istituente. Nell’intenzione di Ricœur, le catastrofi del ventesimo secolo (le guerre mondiali e i loro crimini, la decolonizzazione e, aggiungerei, le crisi ecologiche del nostro secolo), esigono la presa in carico dell’evento per la loro comprensione. Un evento che, «lungi dall’essere un residuo di ciò che non si lascia sistematizzare, è iniziatore di sistemi, che sono essi stessi aperti all’alea, e quindi all’evento» (Paul Ricœur, Le retour de l’Événement, «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée», 104/1, 1992, pp. 29-35). Cfr., per la ricostruzione di tale dibattito, Claudia Serban, L’événement historique: un paradigme de la phénoménalité?, «Alter», 25, 2017, pp. 135-153. 38 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, con introduzione di Gennaro Sasso, BUR, Milano 1984, p. 463. 39 Lefort, Le travail de l’œuvre cit., p. 601. 40 Diversa la lettura di Miguel Vatter, che pensa l’evento repubblicano come authentic discontinuity e la sua permanenza solo come arendtiana capacità di iniziare cfr. Between Form and Event. Machiavelli’s Theory of Political Freedom, Fordham University Press, New York 2014, pp. 260-263.
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è chiarito come esso non vada inteso solo come momento di rottura. Nondimeno, una meditazione sull’evento in un discorso di matrice fenomenologica, come è quello di Lefort, potrebbe aiutare a comprendere le ruptures nella sua riflessione sulla modernità. La più evidente tra tutte: lo sconvolgimento simbolico del potere operato dalla democrazia, l’invention démocratique41. Più ampiamente, considerare l’avvento democratico come evento metterebbe al riparo da una facile riduzione della democrazia al suo assetto giuridico o alla mera forma di governo. L’irriducibilità della democrazia di fronte alle proprie cause impedisce inoltre di pensarne la semplice replicabilità, per non dire l’imposizione. Una filosofia politica che intenda comprendere gli eventi del nostro tempo, dalle inquietudini che attraversano le democrazie alla crisi ecologica, fino alla pandemia di Covid-19 in corso, dovrà allora tener presente che, per dirla con Jean-Luc Marion, «l’evento suscita le sue cause nell’esatta misura in cui si sottrae alla causalità, ne rende ragione imponendo da solo la sua ragione»42.
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Mi riferisco qui al titolo del volume di Claude Lefort, L’invention democratique. Les limites de la domination totalitaire, Fayard, Paris 1994. Infatti, l’inedita istituzione del sociale avvenuta con la democrazia, nella quale il potere è un luogo vuoto e il sociale stesso è privo di fondamento stabile, rappresenta una rottura non riducibile alle proprie cause. Cause che tuttavia, proprio attraverso quell’intreccio tra conservazione e rottura dell’evento, possono essere pensate, e tra le quali ricordo la «disincorporazione» del potere e lo scioglimento del nesso teologico-politico. Cfr. in merito Claude Lefort, Essais sur le politique. XIX-XX siècles, Seuil, Paris 1986; tr. it. di B. Magni, Saggi sul politico. XIX-XX secolo, Il Ponte, Bologna 2006; Claude Lefort, Démocratie et avènement d’un «lieu vide» (1982), in Le temps présent. Écrits 1945-2005, Belin, Paris 2007, pp. 461-469. 42 Jean-Luc Marion, Étant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, PUF, Paris 1997; tr. it. di R. Caldarone, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001, p. 208.
Evento, processo e temporalità. La storia tra Fukuyama e Derrida1 Elia Zaru
1. Nell’osservare e discutere i fatti storici degli ultimi cinquant’anni, tra il XX e il XXI secolo la riflessione teorica ha via via sempre più acuito la sensazione di trovarsi di fronte a eventi epocali ed epocalizzanti, in grado di determinare delle cesure storiche e segnare l’inizio (o la fine) di un’epoca. In questo senso, nel rapporto tra storia ed evento il secondo si caratterizzerebbe come un intervento esterno in grado di interrompere lo scorrere della prima, una discontinuità radicale contrapposta alla continuità lineare. La metafora della frattura, con buona pace della longue durée di braudeliana memoria, ha accompagnato i più diversi tentativi di leggere la realtà. Un chiaro esempio di questo approccio, e delle aporie che esso trascina con sé, si può trovare nel modo in cui Francis Fukuyama, tramite la lente categoriale della «fine della storia», ha considerato la caduta del muro di Berlino e la sconfitta del socialismo reale e dell’Unione Sovietica tra il 1989 e il 1992. Secondo lo scienziato politico americano, nell’osservare lo scorrere degli eventi degli ultimi dieci anni circa, è difficile eludere la sensazione che qualcosa di estremamente importante sia accaduto nella storia mondiale. […] Ciò a cui stiamo assistendo potrebbe essere non solo la fine della Guerra Fredda, o l’esaurirsi di un periodo particolare della storia post-bellica, ma la fine della storia in quanto tale: cioè, il punto di arrivo dell’evoluzione ideologica della specie umana e l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma ultima di governo2. 1 Questo tema è stato da me sviluppato nella tesi di dottorato Crisi della modernità. Storia, teorie e dibattiti (1979-2020), discussa il 15 luglio 2021 presso la Scuola Normale Superiore di Pisa nell’ambito del corso di perfezionamento in Culture e società dell’Europa contemporanea. Dove non diversamente indicato, le traduzioni sono da intendersi a opera dell’autore del presente scritto. 2 Francis Fukuyama, The End of History?, «The National Interest», 16, 1989, pp. 3-4.
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La tesi di Fukuyama è nota: la storia termina perché viene meno la «concorrenza» alla democrazia liberale. Quest’ultima, nel realizzare la sua vittoria storica nei confronti dei competitors (monarchia ereditaria, fascismo e comunismo), concretizza la sua giunzione con il libero mercato e apre le porte a uno stadio pacificato che, prima o dopo, tutto il mondo raggiungerà o aspirerà a raggiungere. Dunque, la «fine» della storia va intesa nel suo duplice significato di termine e di scopo, ambizione. Lo sviluppo di questa tesi è affidato a un primo saggio pubblicato nel 1989 sulle pagine del fascicolo estivo della rivista di area realista «The National Interest» con il titolo The End of History? Qui Fukuyama dichiara fin da subito il suo debito intellettuale nei confronti di Alexandre Kojève e della sua interpretazione della filosofia hegeliana, il cui concetto di «Stato universale omogeneo» fotografa la situazione degli Stati occidentali alla fine degli anni Ottanta3: «una democrazia liberale nella sfera politica» che in ambito economico si accompagna «all’abbondanza del libero mercato»4. È bene sottolineare che, secondo Fukuyama, tra i due ambiti non esiste una relazione deterministica. Entrambi godono di una propria autonomia e, semplicemente, procedono di pari passo nello sviluppo della storia dell’umanità sostentandosi a vicenda – il che li porta, alla fine del percorso, a intersecarsi perfettamente. Poco dopo la pubblicazione di questo saggio, sollecitato dalle reazioni suscitate, nel 1992 lo scienziato politico americano pubblica un ampliamento delle sue argomentazioni, che assume la forma di un libro voluminoso: The End of History and the Last Man. La tesi principale rimane la medesima del saggio, così come permane a fondarla la presenza di Kojève lettore di Hegel5 (aspetto, que3
«Lo stato che emerge alla fine della storia è liberale nella misura in cui tramite un sistema di leggi riconosce e protegge il diritto universale dell’uomo alla libertà, e democratico nella misura in cui esiste solo con il consenso dei governati. Per Kojève questo cosiddetto “stato universale omogeneo” ha trovato la sua vera concretizzazione nei paesi occidentali dell’Europa post-bellica» (ivi, p. 5). 4 Ivi, p. 7. 5 Cfr. soprattutto Alexandre Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Gallimard, Paris 1947; tr. it. di G.F. Frigo, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1996. Un’analisi teoretica delle fonti filosofiche di Fukuyama e del modo in cui le interpreta si trova in Daniel Herwitz, Francis Fukuyama and the End of History, «South African Journal of Philosophy», 19/3, 2000, pp. 222-234.
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sto, su cui Fukuyama ha ricevuto diverse critiche6). Tuttavia, esiste una discontinuità che rende i due testi più distanti di quanto si possa credere a una prima lettura, e che getta luce su una contraddizione fondamentale che accompagna il pensiero dello statunitense. Nel libro del 1992 Fukuyama si difende (fin dalle primissime pagine) dalle critiche di chi ha «frainteso» il senso del suo «impiego del termine “storia”»7: intendendo la storia nel significato convenzionale di successione di avvenimenti, questi critici cercarono di dimostrare che io mi sbagliavo portando come prove della “continuità della storia” la caduta del Muro di Berlino, la repressione di Piazza Tienanmen da parte del governo comunista cinese e l’invasione irachena del Kuwait. La fine che io ipotizzavo non era quella degli avvenimenti, e tantomeno di quelli più grandi e più gravi, ma della Storia intesa come processo evolutivo unico e coerente, che tiene conto delle esperienze di tutti i popoli in tutti i tempi8.
Fukuyama dichiara alla base della sua idea una distinzione tra «storia-evento» e «storia-processo». Il fatto che la dichiarazione di «fine della storia» sia stata seguita da una serie di eventi storici (la caduta del muro, piazza Tienanmen, la Prima guerra del golfo ecc.) non inficia l’enunciato di partenza, poiché la storia dichiarata conclusa è quella «processuale»: la storia come processo generale ha raggiunto la sua massima evoluzione – ideale e normativa – nella democrazia liberale-occidentale, e si tratta di un traguardo che la comparsa di eventi particolari non è in grado di sconfessare. Sebbene nell’ottica dell’interpretazione della filosofia hegeliana della storia cui Fukuyama aderisce si possa comprendere il ragionamento dell’americano (per quanto in Hegel tale distinzione appaia problematica vista l’identità mediata di realtà e razionalità e dunque l’espressione stessa 6 Le analizza nel dettaglio Perry Anderson nel suo The Ends of History, Verso, London 1995, pp. 285-294. 7 Un argomento, questo, che Fukuyama solleva già nei primissimi interventi successivi al saggio del 1989, come si può osservare in A Reply to My Critics, «The National Interest», 18, 1989-1990, pp. 21-22, e che ha ribadito anche in occasioni più recenti (per esempio, Francis Fukuyama, Identity. The Demand for Dignity and the Politics of Resentment, Farrar, Straus and Giroux, New York 2018). 8 Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, The Free Press, New York-Toronto 1992; tr. it. di D. Ceni, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992, p. 10.
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del processo all’interno dell’evento), è tuttavia lo stesso Fukuyama a tradire tale distinzione. Il saggio del 1989, infatti, espone la sua tesi in forma di domanda (The End of History?) e si conclude in modo ambivalente rispetto alla possibilità di una «rinascita» della S/storia anche nella post-Storia: «forse la prospettiva di secoli di noia alla fine della storia servirà alla storia per ricominciare ancora una volta»9. Il libro del 1992, invece, vede la sparizione del punto interrogativo dal titolo (The End of History and the Last Man)10 e un’argomentazione molto più perentoria. Anche in questa sede rimane un fondo di possibilità altre (ben rappresentate dalla metafora del nuovo viaggio, alla fine del libro11), ma si tratta sempre di alternative che trascendono la condizione post-storica, che, invece, descrive la situazione attuale. Fukuyama, in altre parole, appare nel 1989 molto più cauto rispetto alla sua tesi di quanto faccia nel 1992. La ragione è, con tutta evidenza, il susseguirsi di alcuni eventi che accompagnano la distanza tra i due momenti. Il saggio del 1989 viene infatti pubblicato in estate, quando la caduta del muro di Berlino e la sconfitta definitiva dell’Unione Sovietica non si sono ancora verificate. Certo, la sensazione di essere prossimi all’implosione del socialismo reale era diffusa già nella prima metà degli anni Ottanta12, ma la sua fine effettiva ha conferito all’analisi una spregiudicatezza maggiore. Il fatto che lo stesso Fukuyama si convinca maggiormente della sua tesi dopo il 1989, come dimostra la differenza di tono esistente tra saggio e libro, rende
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Fukuyama, The End of History? cit., p. 18. Nella prefazione di Identity (cit.) Fukuyama ha sottolineato brevemente il fatto che diversi suoi critici non hanno notato la presenza del punto interrogativo nel saggio del 1989, ma egli stesso non ne ha approfondito l’assenza nel libro successivo. 11 «Alexandre Kojève credeva che alla fine sarebbe la storia stessa a rivendicare la propria razionalità. Nella città, cioè, entrerebbe un numero di carri abbastanza alto da costringere chiunque ragioni ad ammettere che c’erano solo una strada ed una destinazione. Se siamo già arrivati a questo punto non possiamo dirlo con certezza, e questo perché, nonostante la rivoluzione liberale si sia propagata in tutto il mondo, le prove che abbiamo sulla direzione dei carri non possono essere ritenute conclusive. Ed infine, anche ammesso che la maggioranza dei carri finisca per entrare nella stessa città, potrebbe anche darsi che i loro occupanti, dopo aver dato un’occhiata in giro, non la trovassero di loro gradimento e decidessero di affrontare un altro lungo viaggio» (Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo cit., p. 352). 12 Tanto che, secondo Krishan Kumar, «Fukuyama diceva ciò che molti pensavano» (Krishan Kumar, The Revolutions of 1989: Socialism, Capitalism and Democracy, «Theory and Society», 21/3, 1992, p. 313). 10
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palese la difficile sostenibilità della distinzione tra «storia-evento» e «storia-processo» anche per chi pretenda di portarla a dimostrazione della sua stessa tesi. Insomma, l’idea di un argomento esclusivamente «normativo» che «trascende i fatti empirici»13 viene tradita, seppur inconsciamente, dallo stesso Fukuyama. Al netto di questa rilevante differenza, il libro del 1992 approfondisce e sviluppa gli argomenti già esposti, in alcuni casi radicalizzandoli. È il caso del rapporto tra scienza, economia e politica, appena accennato nel saggio del 1989 e che diventa invece successivamente un punto centrale. La risposta affermativa alla domanda (kantiana) circa la possibilità di scrivere una storia universale dal punto di vista cosmopolitico è concepibile, infatti, secondo Fukuyama, grazie alle scienze moderne, che forniscono «un meccanismo il cui sviluppo progressista conferisce alla storia umana una direzionalità e insieme una coerenza lungo i diversi secoli passati»14. Al cuore di questo meccanismo si trova la florida connessione tra conoscenza-tecnologia e libero scambio garantita dalla cornice della democrazia liberale. Nella lettura di Fukuyama le scienze moderne contribuiscono in modo decisivo alla direzionalità della storia grazie alla loro «accumulazione di sapere»15: l’innovazione tecnologica e l’organizzazione razionale del lavoro che derivano dall’epistemologia moderna consentono, secondo il filosofo americano, di individuare una correlazione tra un certo grado di industrializzazione e di democratizzazione, e si presentano come un prisma di continuità tra società industriali propriamente dette e società postindustriali16. In sintesi, la capacità epistemologica delle scienze moderne di ordinare il mondo produce, secondo Fukuyama, una direzionalità storica che trova il suo apogeo politico nella democrazia liberale di stampo occidentale17. In questo senso, come è stato osservato, in Fu13 Francis Fukuyama, Reflections on the End of History, Five Years Later, «History and Theory», 34/2, 1995, p. 29. 14 Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo cit., p. 145. 15 Cfr. ivi, p. 109. 16 «Le scienze moderne continuano, nelle forme ben note dell’innovazione tecnologica e dell’organizzazione razionale del lavoro, ad imporre il loro carattere alle società “postindustriali” non meno di quanto fecero con le società ai primi stadi dell’industrializzazione» (ivi, p. 111). 17 La questione del rapporto tra scienza, nuove tecnologie e direzionalità della storia impegna Fukuyama fino in anni recenti. In Second Thoughts: The Last Man in a Bottle,
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kuyama si nota un tentativo di «ristoricizzazione» che trova il punto di approdo definitivo della lotta per il riconoscimento del proprio valore individuale «nello Stato liberaldemocratico e nella piena legittimità della società capitalistica»18. In questo modo non solo viene negata ogni ulteriore evoluzione ideologica, ma si realizza una pacificazione ordinata: «il nuovo ordine che si prospetta è per Fukuyama la soluzione più auspicabile dopo la grande disgregazione che ha caratterizzato gli ultimi decenni del XX secolo. La fine della storia è per lui il presupposto necessario per una ricostruzione dell’ordine che deve avvenire ristrutturando il discorso classico liberale con i suoi postulati individualistici»19. La «fine della storia» realizza l’«ordine spontaneo» caro a von Hayek e ai neoliberali. Che questo sia l’orizzonte entro cui si muove Fukuyama è dimostrato anche dal fatto che la sua si presenta come una tesi intimamente post-conflittualista (o, per meglio dire, a-conflittualista). Il filosofo americano riprende la dialettica hegeliana, soprattutto nella figura del rapporto servo-signore, per concepire la storia come una «lotta per il riconoscimento»20 che si sviluppa tanto sul piano delle relazioni internazionali, quanto su quello dei movimenti interni alle diverse società. Se la storia inizia come una lotta per il riconoscimento, si può pensare al primo uomo come quello ipotizzato nello stato di natura hobbesiano, e all’ultimo uomo come colui che, giunto alla «fine della storia», non ha più bisogno di tale lotta perché ottiene comunque il riconoscimento che cerca. Insomma, «fine della storia» significa anche fine del conflitto. Si tratta di un tema che emerge in modo chia«The National Interest», 56, 1999, pp. 16-33, lo scienziato politico americano ripensa la sua tesi alla luce dello sviluppo dell’Information Technology da un lato (grazie a cui, secondo Fukuyama, i processi di democratizzazione e liberalizzazione subiscono una positiva accelerata), e le biotecnologie dall’altro (responsabili, invece, di “snaturare” la condizione umana e, dunque, di allontanare l’umanità da quel percorso direzionato verso la «fine della storia» che poggia, nella sua ottica, proprio sull’immutabilità della condizione naturale umana). Temi che Fukuyama svilupperà soprattutto in Our Posthuman Future: Consequences of the Biotechnology Revolution (Farrar, Straus and Giroux, New York 2002), con cui interverrà nel dibattito sul “postumano” collocandosi in una posizione che è stata definita «neo-bio-luddista» (cfr. James Hughes, Citizen Cyborg. Why Democratic Society Must Respond to the Redesigned Human of the Future, Westview Press, Boulder 2004). 18 Maurizio Ricciardi, La società senza fine. Storia, sociologia e potere della società contemporanea, «Sociologia», 1, 2011, p. 72. 19 Ibid. 20 Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo cit., p. 163.
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ro nel saggio del 1989, in cui Fukuyama delinea come caratteristica delle società alla «fine della storia» l’assenza di contraddizioni fondamentali che non possano essere risolte nel contesto del liberalismo moderno – prima tra tutte la contraddizione tra capitale e lavoro21. La storia giunge al suo termine e apogeo nel momento in cui nessun conflitto è in grado di provocare, materialmente, un rovesciamento dell’ordine esistente e la formazione di una nuova società. Certo, prosegue Fukuyama, restano alcune contraddizioni «minori», alcuni possibili momenti locali di conflitto, nello specifico relativi all’integralismo religioso (che però secondo il pensatore americano non è in grado di assumere una valenza realmente universale, e dunque non rappresenta una vera minaccia per l’universalismo liberale22) e al nazionalismo (che però è considerato generalmente compatibile con il liberalismo23), ma si tratta di situazioni residuali e compossibili con la democrazia liberale24. 21
Cfr. Fukuyama, The End of History? cit., pp. 8 sgg. Cfr. ivi, pp. 14-15. 23 Cfr. ivi, p. 15. 24 Fukuyama si concentra sull’idea dell’esaurimento della contraddizione tra capitale e lavoro e ne deduce la fine di una conflittualità radicale in quanto tale, il termine di uno scontro in grado di far saltare il sistema. Si tratta, com’è evidente, di una prospettiva che rielabora in senso teorico l’assimilazione del “secondo” e “terzo” mondo da parte del “primo”, unico agente vittorioso operante sullo scenario globale. Esiste tuttavia un’altra contraddizione (ignorata da Fukuyama) che accompagna il liberalismo fin dai suoi esordi: quella tra forma e contenuto. È quest’ultima a rendere evidente l’insostenibilità delle tesi di Fukuyama anche all’altezza degli anni Ottanta-Novanta. Il fatto che lo scienziato politico americano non la prenda in considerazione è tanto più rilevante se si osserva che lui stesso ne è vittima. Afferma, infatti, Fukuyama: «come ha notato (tra gli altri) Kojève, l’egualitarismo dell’America moderna rappresenta la realizzazione della società senza classi immaginata da Marx. Questo non vuol dire che negli Stati Uniti non esista più una divisione tra ricchi e poveri, o che il gap tra loro non sia aumentato negli ultimi anni. Ma le cause alla radice della diseguaglianza economica non hanno nulla a che fare con la struttura giuridica e sociale sottostante la nostra società (che rimane fondamentalmente egualitaria e moderatamente redistribuzionista), né con le caratteristiche sociali e culturali dei gruppi che la compongono, che sono a loro volta l’eredità storica di condizioni premoderne. Dunque, la povertà nera negli Stati Uniti non è il prodotto intrinseco del liberalismo, ma piuttosto “l’eredità della schiavitù e del razzismo” che persiste per molto tempo dopo l’abolizione formale della schiavitù» (ivi, p. 9). Tuttavia, nell’ottica di Fukuyama questa persistenza sostanziale non mette in discussione la forma dell’egualitarismo liberale, né è considerata una contraddizione in grado di aprire un conflitto potenzialmente esplosivo per la cornice liberale. Poiché quest’ultima ha risolto formalmente le sue contraddizioni, esse sono de facto pacificate anche sostanzialmente. La storia (e la cronaca) degli anni recenti, negli Stati Uniti ma non solo, dimostra che in realtà la contraddizione tra forma e contenuto 22
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2. La critica che Derrida rivolge a Fukuyama è in grado di cogliere la portata complessiva della tesi del filosofo americano. In Spectres de Marx (199325), Derrida afferma di considerare The End of History «un vangelo» portatore di una «formula neo-testamentaria», poiché «pretende di addurre una “risposta positiva” a una domanda, le cui formazioni e formulazioni non sono mai interrogate per se stesse»26. La domanda è quella relativa all’orientamento della storia dell’umanità, e la «risposta positiva» è possibile, nell’ottica di Derrida, solo a patto di non complicare (decostruire) le nozioni implicate («storia» e «umanità»). La «fine della storia» che Fukuyama sovrappone alla presunta fine del marxismo sullo sfondo della sconfitta dell’Unione Sovietica e dell’imposizione globale del mercato unico capitalistico rappresenta, secondo Derrida, una «figura evangelica»27, una «escatologia cristiana»28. Per il momento in cui viene pensato e per i suoi contenuti, il testo di Derrida si può considerare a ragione un’opera indirizzata esplicitamente e completamente contro Fukuyama. Mentre quest’ultimo dichiara la «fine della storia» e del comunismo, Derrida dedica la sua opera a «un comunista come tale, un comunista in quanto comunista»29, come a voler precisare fin da subito la molteplicità di declinazioni del «comunismo», e dunque l’impossibilità di dichiararne una fine. In effetti, Derrida rivendica di aver assistito a una fine del comunismo marxista già negli anni Cinquanta, alludendo alla
costituisce ancora un problema irrisolto del liberalismo, e che come tale è in grado di proiettare quest’ultimo in un orizzonte tutt’altro che pacificato. 25 Jacques Derrida, Spectres de Marx, Editions Galilée, Paris 1993; tr. it. di G. Chiurazzi, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994. Il volume trae origine da una conferenza tenuta da Derrida il 22 e 23 aprile 1993 all’Università della California (Riverside) nell’ambito del convegno internazionale Whither Marxism? (gioco di parole tra «whither» nel senso di direzione e «wither» nel senso di deperimento, dunque «dove va il marxismo?», ma anche «il marxismo sta deperendo?»). 26 Derrida, Spettri di Marx cit., p. 76. 27 Ivi, p. 77. 28 Ivi, p. 81. L’evidenza di questa «struttura evangelica» è sottolineata anche da Jocelyn Benoist in La fin de l’histoire comme forme ultime du paradigme historiciste, in Jocelyn Benoist, Fabio Merlini (sous la direction de), Après la fin de l’histoire. Temps, monde, historicité, Vrin, Paris 1998, pp. 17- 60. 29 Derrida, Spettri di Marx cit., p. 1. La dedica di Derrida è a Chris Hani, militante politico e leader del Partito Comunista Sudafricano. Strenuo oppositore dell’apartheid, fu assassinato il 10 aprile 1993.
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separazione della sua generazione da una certa lettura dogmatica di stampo sovietico dell’opera di Marx e della politica comunista, oltre che all’opposizione nei confronti dello stalinismo. Lo stesso vale per la «fine della storia», per «l’ultimo uomo» ecc., temi che Derrida riconduce ancora alle discussioni degli anni Cinquanta, al «canone dell’apocalisse moderna»30 (Hegel, Marx, Nietzsche, Heidegger, lo stesso Kojève). Ma, oltre a sottolineare il carattere di non-novità delle tesi di Fukuyama, il filosofo francese si impegna in una critica radicale che investe l’impianto delle argomentazioni del pensatore americano fin dalle fondamenta, e nel frattempo sviluppa una prospettiva originale sulla storia. Derrida riscontra una contraddizione logica fondamentale nel pensiero di Fukuyama. Come osservato, infatti, contro chi accusava la sua tesi di scarsa aderenza alla realtà, Fukuyama ha sempre rivendicato la normatività del suo argomento, a partire dalla distinzione tra storia evenemenziale e storia ideale. La fine della storia di cui parla Fukuyama non è la fine degli eventi, bensì il raggiungimento (almeno in una parte del mondo) del massimo grado possibile di evoluzione. Tuttavia, osserva Derrida, su questo punto egli non può non cadere in contraddizione: per un verso, il vangelo del liberalismo politico-economico ha bisogno dell’evento della buona novella, consistente in ciò che sarebbe effettivamente accaduto (quel che è accaduto in questa fine di secolo, specificatamente, la pretesa morte del marxismo e la pretesa realizzazione dello Stato della democrazia liberale). Non può fare a meno del ricorso all’evento, ma siccome, per altro verso, la storia effettiva e tante altre realtà di apparenza empirica contraddicono questo avvento della democrazia liberale perfetta, è necessario allo stesso tempo porre questa perfezione come un semplice ideale regolatore e trans-storico. A seconda che questo lo avvantaggi o serva la sua tesi, Fukuyama definisce la democrazia liberale tanto come una realtà effettiva quanto come un semplice ideale. L’evento è tanto la realizzazione quanto l’annuncio della realizzazione31.
Manca in Fukuyama un «pensiero dell’evento» all’altezza di una temporalità che non riduca quest’ultimo all’«incatenamento succes-
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Ivi, p. 24. Ivi, p. 83.
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sivo di presenti identici a se stessi e contemporanei di se stessi»32. Manca, in altre parole, la capacità di pensare evento e processo su una scala temporale di latenza che non preveda l’unidirezionalità propria dell’idea di fine, di un traguardo raggiunto dopo un percorso singolare. Ecco perché Derrida pone la sua esposizione al servizio della costruzione di una tale temporalità alternativa. La figura dello spettro è l’emblema di questa diversità: c’è e non c’è contemporaneamente, non è pura carne né puro spirito, ma una «incorporazione paradossale, il divenir-corpo, una certa forma fenomenica e carnale dello spirito»33. In questo divenire si situa la desincronizzazione temporale del revenant, colui «che ritorna», «ri-viene» ma che al tempo stesso origina e (come lo spettro del Manifesto di Marx ed Engels) invoca un «a-venire». Lo scompenso temporale che si determina a partire dalla figura dello spettro sfalda il presente rendendolo così «non contemporaneo» a se stesso34 e scansando qualsiasi ipotesi di «fine della storia»: ripetizione e prima volta, ecco forse la questione dell’evento come questione del fantasma: che cos’è un fantasma? Che cos’è l’effettività o la presenza di uno spettro, cioè di ciò che sembra altrettanto ineffettuale, virtuale e inconsistente di un simulacro? C’è qui, tra la cosa stessa e il suo simulacro, una opposizione che tenga? Ripetizione e prima volta, ma anche ripetizione e ultima volta, giacché la singolarità di ogni prima volta ne fa anche un’ultima volta. Ogni volta, questo è l’evento, una prima volta è un’ultima volta. Tutt’altra. Messa in scena per una fine della storia. La chiamiamo hantologie. Questa logica della hantise non solo sarebbe più ampia e più potente di un’ontologia o di un pensiero dell’essere (del «to be», supponendo che ci sia essere nel «to be or not to be», e nulla è meno certo), ma celerebbe in sé, seppur come luoghi circoscritti o effetti particolari, persino l’escatologia e la teleologia. Le comprenderebbe, ma incomprensibilmente. Come comprendere infatti il discorso della fine o il discorso sulla fine? L’estremità dell’estremo può mai essere compresa? E l’opposizione tra to be e not to be? Amleto iniziava già col ritorno atteso del
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Ivi, p. 92. Ivi, p. 13. 34 «La disgiuntura nella presenza stessa del presente, questa sorta di non-contemporaneità a se stesso del tempo presente (questa intempestività o questa anacronia radicali a partire dalle quali cercheremo qui di pensare il fantasma)» (ivi, p. 36). Sul rapporto tra evento e anacronia in Derrida si vedano Caterina Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Caterina Resta, La passione dell’impossibile. Saggi su Jacques Derrida, il melangolo, Genova 2016. 33
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re morto. Dopo la fine della storia, lo spirito viene sotto forma di revenant, è figura allo stesso tempo di un morto che ritorna e di un fantasma, il cui atteso ritorno si ripete, ancora e ancora35.
3. Alla prospettiva della «fine della storia» Derrida sostituisce l’idea di una storicità intrisa di una temporalità molteplice, caratterizzata da una rivendicazione di una «giustizia a-venire» (tema centrale nella riflessione derridiana) intesa come «responsabilità» che va al di là del presente, e dunque oltre la possibilità di una qualsiasi fine: «senza questa non contemporaneità a sé del presente vivente, senza quel che segretamente lo disaggiusta, senza questa responsabilità e questo rispetto per la giustizia nei confronti di quelli che non ci sono, di quelli che non sono più o non sono ancora presenti e viventi, quale senso ci sarebbe nel porre la domanda “dove?”, “dove domani?” (“whither”?)»36. L’idea di «a venire» investe anche la democrazia e sottrae alla riflessione sulla storia la teleologia che, invece, Fukuyama le aveva attribuito, tanto sul piano prescrittivo quanto su quello descrittivo. Nella prospettiva di Derrida, la «democrazia a venire» non è la «democrazia futura» di cui parla Fukuyama, poiché quest’ultima altro non è che «una modalità futura del presente vivente»37. Per scardinare questa linearità tra i due momenti, il francese recupera l’idea di emancipazione in forma messianica, «una certa esperienza della promessa» liberata «da ogni dogmatica e persino da ogni determinazione metafisico-religiosa, da ogni messianismo»38. Una promessa che deve «promettere di essere mantenuta», cioè deve porsi nell’orizzonte di «produrre degli eventi, nuove forme d’azione, di pratica, di organizzazione ecc.»39. In sintesi, si tratta di una promessa che deve poter riattivare la storia contro l’idea di una sua fine. È evidente come la riflessione di Derrida rovesci la dimensione chiusa dell’epocalità di Fukuyama e, grazie alla figura dell’«anacronia», metta «fine alla fine della storia»40. 35
Derrida, Spettri di Marx cit., p. 18. Ivi, p. 5. Il riferimento di Derrida è al titolo del convegno all’origine del testo, Whither Marxism? 37 Ivi, p. 86. 38 Ivi, pp. 115-116. 39 Ibid. 40 Ludivine Bantigny, La fin de l’histoire n’aura pas lieu, «Écrire l’histoire», 15, 2015, p. 25. Il fatto che agli inizi degli anni Novanta questa “riattivazione politica” della storia 36
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La riflessione derridiana aiuta in questo modo a superare le problematiche insite nella prospettiva epocale ed epocalizzante sull’evento. Essa è in grado di pensare la relazione tra evento e processo, e di superare così la distinzione normativa attuata da Fukuyama. Non solo, dunque, Derrida esce chiaramente dalla cornice teorica di quello che è stato definito «endism»41, ma il suo pensiero fornisce uno strumento utile a superare la dicotomia tra continuità e discontinuità che viene posta da chi osserva la storia a partire da uno o dall’altro elemento. Se la temporalità storica viene considerata alla luce di una pluralità e non di un incedere lineare, l’evento perde la sua funzione periodizzante, pur mantenendo il suo carattere di rottura. La storia è sempre evento e insieme processo.
venga portata avanti da un teorico comunemente associato al postmoderno, e che proprio in occasione della discussione su queste sue tesi egli abbia voluto (e dovuto) rimarcare la sua distanza da tale prospettiva nonché dall’idea di «fine delle metanarrazioni» che la accompagna, dimostra la complessità degli intrecci di questo dibattito e l’occasionalità o superficialità con cui, spesso, esso è stato affrontato: «mi ha altrettanto sorpreso una certa precipitazione nel parlare di Spettri di Marx o del mio lavoro in generale come di una semplice specie, un caso o un esempio del “genere” post-moderno o post-strutturalista. Sono nozioni generiche nelle quali l’opinione pubblica meno informata (e soprattutto la stampa) colloca più o meno tutto ciò che non le piace, o non capisce, a cominciare dalla “decostruzione”. Non mi considero né un post-strutturalista né un post-moderno. Ho spiegato più di una volta perché non mi servo quasi mai di questi termini, se non per dire che sono inadeguati a indicare ciò che tento di fare. Non ne ho mai parlato, tanto meno per sottoscrivere degli “annunci della fine di tutte le metanarrazioni”» (Jacques Derrida, Marx & Sons, in Michael Sprinker (ed.), Ghostly Demarcations, Verso, London-New York [1999] 2008; tr. it. di E. Castanò, D. De Santis, L. Fabbri, M. Guidi, A. Lodeserto, Marx & Sons, in Jacques Derrida, Marx & Sons. Politica, spettralità, decostruzione, Mimesis, MilanoUdine 2008, p. 265). 41 Come afferma Stuart Sim in Derrida and the End of History, Icon Books, Cambridge 1999.
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L’ontologia politica di Reiner Schürmann Alberto Martinengo
La figura di Reiner Schürmann sta incontrando una fase di rinnovato interesse in Europa e oltreoceano. Tra gli elementi che contribuiscono a questa seconda fortuna c’è anzitutto il lavoro di pubblicazione degli inediti conservati alla New School for Social Research di New York, dove Schürmann insegna dal 1975 al 1993, succedendo a Hannah Arendt. Il contributo più significativo in tal senso arriva dall’editore Diaphanes. A Diaphanes si devono alcune traduzioni e riedizioni in francese, inglese e tedesco, dal 2013 in poi. Ma, ancor più, un ambizioso progetto sugli inediti, la cui pubblicazione inizia nel 2019 per la cura di Francesco Guercio, Michael Heitz, Malte Fabian Rauch e Nicolas Schneider. Lo stesso Guercio cura l’inedito che pubblichiamo qui: un testo – risalente al 1987 – che esce contemporaneamente in questo Almanacco e sul «Graduate Faculty Philosophy Journal» della New School. Un doveroso e sentito ringraziamento va a Guercio e a Ian Alexander Moore, che curano l’edizione inglese, così come alla rivista che concede la pubblicazione in italiano. Tuttavia, accanto a queste ragioni editoriali, ve ne sono altre più profonde, che ovviamente sono intrecciate alle prime. È per esempio il caso delle discussioni che accompagnano la pubblicazione dei primi Quaderni neri di Martin Heidegger (1931-’38, 1938-’39, 1939-’41, 1942-’48), in particolare quelle risalenti agli anni che vanno dal 2014 al 2017. Sono dibattiti molto aspri che toccano in primis il tema del coinvolgimento di Heidegger, della sua biografia ed eventualmente del suo pensiero, con il nazismo1. Ma riguardano più complessiva1
Nel dibattito italiano, i riferimenti principali rimangono i due libri di Donatella Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri» (2014), Bollati Boringhieri, Torino 20162, e Heidegger & sons. Eredità e futuro di un filosofo, Bollati Boringhieri, Torino 2015.
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mente la vocazione politica della sua riflessione (e della filosofia in generale)2. In questo contesto, le analisi che Schürmann dedica al tema dell’agire in Heidegger fin dai primi anni Ottanta hanno un grande valore in chiave retrospettiva. Si tratta infatti di un’articolazione del problema non soltanto originale per l’epoca, ma anche particolarmente efficace per leggere ciò che la pubblicazione dei primi Quaderni neri metterà in luce trent’anni dopo. Naturalmente, il punto non è accreditare a Schürmann capacità predittive o il caso fortuito di avere “indovinato” qualcosa che il tempo avrebbe confermato. Semmai, si deve riconoscere che la sua interpretazione dello Heidegger già edito, tanto quella contenuta in Dai principî all’anarchia (1982)3, quanto quella che sarà alla base delle Egemonie infrante (1995)4, è in grado di contenere risposte a domande che rimangono inevase – se non addirittura illeggibili – agli occhi di un certo mainstream heideggeriano degli anni Ottanta e Novanta. Per limitarsi a uno schema sintetico, l’originalità di Schürmann si può ricondurre sostanzialmente a due elementi. In primo luogo, per Schürmann, si tratta di mostrare che il problema della prassi e, con esso, una costellazione di questioni che tocca anche la politica non sono affatto assenti dall’orizzonte dell’essere heideggeriano: semplicemente, non si collocano là dove ci si aspetterebbe di trovarle, ossia in un contesto ancillare – le filosofie seconde della tradizione aristotelica – rispetto all’edificio della sua ontologia. Se questo è il tema centrale di Dai principî all’anarchia, il cui sottotitolo originale suona infatti Heidegger et la question de l’agir, lo spazio che il volume sulle egemonie dedica a Heidegger si concentra invece su altro. Qui l’obiettivo di Schürmann è infatti mostrare che il suo pensiero (da parte a parte, e non limitatamente ad alcuni momenti, come vogliono le interpretazioni dominanti) è spaccato tra la spinta al superamento della metafisica e la ricaduta in una sorta di metafisica alla secon2
Ancora su Heidegger, cfr. Donatella Di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2018, pp. 93-102. 3 Reiner Schürmann, Le principe d’anarchie: Heidegger et la question de l’agir, Seuil, Paris 1982, poi riedito da Diaphanes, Bienne-Paris 2013; tr. it. e cura di G. Carchia, Dai principî all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, il Mulino, Bologna 1995, poi riedito da Neri Pozza, Vicenza 2019. 4 Reiner Schürmann, Des hégémonies brisées, Trans-Europ Repress, Mauvezin 1996.
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da potenza: una frattura che, a partire dal Discorso del Rettorato (1933), si mette al servizio della politica nazional-socialista. Queste due direzioni della riflessione di Schürmann su Heidegger sono effettivamente tra le ragioni più forti della sua attualità. Nel caso dei primi Quaderni neri, per esempio, si trova confermata l’idea che la politica (e, tragicamente, lo stesso impegno politico) siano una parte della stessa ontologia heideggeriana: in altri termini, quella di Heidegger è un’ontologia politica a tutti gli effetti – il che non è vero soltanto per i pochi mesi del Rettorato, ma fin da Essere e tempo (1927) e poi in testi datati ben oltre i primi anni Trenta. Ma, accanto a questo, i Quaderni neri sono a loro volta attraversati da quella frattura che Schürmann identifica nel resto dell’opera di Heidegger: le centinaia di pagine finora edite dei Quaderni heideggeriani non si lasciano leggere con uno sguardo univoco – e non per ragioni dovute all’estensione quantitativa e cronologica dei testi. Come si è dimostrato nel dibattito seguito all’uscita dei primi Quaderni neri5, mancherebbe l’obiettivo chi volesse leggerli per intero come un’apologia metafisica dell’hitlerismo, ma anche chi li interpretasse come un contributo indifferente sul piano politico. La chiave giusta è quella che Schürmann sintetizza nell’efficace metafora dei due volti di Giano: quando Heidegger scrive della metafisica e del suo superamento, lo fa per lo più con uno sguardo doppio – emancipativo rispetto a strutture della realtà di cui dichiara l’esaurimento, ma al contempo nostalgico verso ciò che per altra via ritiene di dover abbandonare. Ora, per tante ragioni che toccano la stessa natura ontologicopolitica della sua riflessione, si dà il caso che proprio la politica sia il luogo teorico nel quale, a giudizio di Schürmann, la frattura interna alla filosofia heideggeriana si legge meglio. È quanto afferma con chiarezza all’inizio di Dai principî all’anarchia, quando scrive che «la politica è quel dominio, dominium, che con maggiore evidenza contrassegna la sfera di comando del principio epocale»6. Ciò significa due cose: in primo luogo, ciò che la filosofia chiama arché è sempre anche un principio politico, ossia un dispositivo di governo delle cose (e del pensiero, dell’azione, del linguaggio, degli edifici valoriali…); 5 Nel dibattito italiano, cfr. per es. Donatella Di Cesare (a cura di), I “Quaderni neri” di Heidegger, Mimesis, Milano-Udine 2016. 6 Schürmann, Dai principî all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, il Mulino, Bologna 1995, p. 81.
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in secondo luogo, non soltanto il suo funzionamento, ma anche il suo malfunzionamento si legge sul terreno politico. In altri termini, se un’arché opera o smette di operare è perché si attiva o si interrompe la sua capacità di governare un determinato ambito della realtà. È quanto Schürmann argomenta sostenendo che la comprensione della storia – intesa come successione di principî epocali – richiede un metodo genealogico: «Allorché un’epoca tramonta, il suo principio deperisce. Il principio di un’epoca è ciò che le dà coesione, una coerenza che, per un certo periodo, è fuori discussione»; ma questa indiscutibilità cessa al termine di un’epoca, perché, «tramontando, il referente supremo di un’epoca diviene problematico»7. È come se ogni epoca della storia possedesse due facce, una delle quali – quella profonda e non palese – appare evidente soltanto nei momenti di crisi: «Il lato diritto di un’epoca è la disposizione del reticolo politico che rimane il medesimo finché dura il suo modo di venire alla presenza. Il rovescio di un’epoca, invece, è un ordine profondo, nascosto, il cui disoccultamento richiede un metodo specifico».8 La definizione e l’applicazione di questo metodo genealogico sono l’obiettivo di Dai principî all’anarchia e delle Egemonie infrante. Il saggio di Schürmann raccolto nelle pagine che seguono presuppone questo orientamento ontologico-politico della sua filosofia, ma al tempo stesso mette in luce un aspetto importante, che nelle opere maggiori non trova una tematizzazione altrettanto esplicita: che ne è della filosofia al tempo della fine della storia epocale? Martin Heidegger dà una risposta dal canto suo, che raccoglie sotto la categoria di Andenken, di pensiero rammemorante. Ma è una categoria che Schürmann considera ancora generica. O, quanto meno, si tratta di una risposta incompleta, perché non dice nulla sul piano su cui le archai e il loro venir meno si esercitano – quello politico, appunto. La formula del “congedo dal servizio civile”, che le lettrici e i lettori troveranno presentata nelle pagine seguenti, coglie il centro della questione. Per Schürmann la filosofia, nonostante la sua pretesa irrilevanza, è sempre stata un elemento-chiave della legittimazione di un’arché: talora in chiave apologetica, talaltra – ma più raramente – in chiave critica, la filosofia è stata “funzionaria dell’umanità”, cioè 7
Ivi, p. 63. Ivi, p. 83. Su questi passaggi, mi permetto di rinviare al mio Un pensiero anarchico. Filosofia, azione e storia in Reiner Schürmann, Meltemi, Milano-Udine 2021, cap. 2. 8
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ha rappresentato una delle variabili che hanno garantito – o, eccezionalmente, ostacolato – il funzionamento di un dispositivo di governo della realtà. Rifiutare l’investitura della filosofia a funzionaria dell’umanità, capovolgendo così la felice metafora di Edmund Husserl, è la via che Schürmann individua lungo tutto il pensiero heideggeriano. Si tratta di una forma di «pensiero destituente», come Roberto Esposito ha contribuito a chiarire (criticamente) in un volume recente9. Ed è una scelta che Schürmann rivendica nella stessa chiave anarchica che caratterizza complessivamente la sua interpretazione di Heidegger. Scrive in queste pagine: «Congedatosi dal suo servizio civile, il filosofo – Heidegger preferisce dire “il pensatore” – non ha più bisogno di soddisfare le richieste specificate nel suo mansionario»10. Pensare sotto gli universali, cioè ricondurre a un universale (posto metafisicamente) un particolare: questo è il compito della metafisica, ma è anche l’espressione della sua violenza, che in nome dell’arché sopprime ciò che all’universale non si lascia ricondurre. Da qui, per Schürmann, l’appello a un pensiero e a una pratica che salvino la singolarità, cioè il tratto di ciascun ente che lo rende irriducibile all’universale. È l’invito che emerge in queste pagine. Ma è anche il compito che Schürmann consegna a chi lo legge nelle Conclusioni delle Egemonie infrante, che questo saggio collega come un ponte a Dai principî all’anarchia: smantellare le condizioni alle quali la violenza metafisica è legittimata in nome di un universale11.
9 Cfr. Roberto Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020, cap. I. 10 Cfr. infra, p. 289. 11 In italiano il saggio conclusivo delle Egemonie infrante è disponibile, sotto il titolo di Le condizioni del male, in Simona Forti (a cura di), La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Einaudi, Torino 2004. Devo a Forti stessa molte osservazioni concernenti la rinnovata attualità di Schürmann fuori dall’Italia, che in queste pagine ho dovuto sintetizzare.
Nota editoriale
Chi mai presso un mostro del mare potrebbe giacere? Omero
L’intervento che i lettori trovano qui pubblicato per la prima volta in traduzione italiana fu redatto e poi discusso da Reiner Schürmann (1941-1993) in risposta ai suoi commentatori nel corso di una sessione degli incontri annuali della Society for Phenomenology and Existential Philosophy nel 19871. La sessione, tenutasi nell’ottobre di quell’anno presso l’Università di Notre Dame, in Indiana, era dedicata alla recente pubblicazione dell’edizione inglese di Dai principî all’anarchia. Essere e agire in Heidegger (uscito in francese nel 1982 con il titolo Le principe d’anarchie, e in inglese, in una versione modificata, proprio nel 1987, con il titolo Heidegger on Being and Acting: From Principles to Anarchy)2. Dennis Schmidt svolgeva il ruolo 1
I dattiloscritti, annotati a mano, delle due bozze dell’intervento in risposta datato 1987 (in seguito Prima Bozza e Seconda Bozza) si trovano nei materiali del Nachlass schürmanniano depositati presso l’archivio della New School for Social Research e sono catalogati sotto la dicitura Reiner Schürmann papers, NA.0006.01, The New School Archives and Special Collections, The New School, New York City, USA, Box 3, Folder 22. Siamo grati agli eredi di Schürmann e a Michael Heitz, in qualità di esecutore del Fondo Reiner Schürmann presso le edizioni Diaphanes, per aver generosamente consentito alla pubblicazione in originale e in traduzione; a Ceciel Meiborg, nell’Editorial Board del «Graduate Faculty Philosophy Journal», per aver ospitato la prima edizione originale sulle pagine della suddetta rivista; a Rita Fulco e Andrea Moresco per la paziente collaborazione e, infine, ad Alberto Martinengo per aver voluto che questa edizione fosse pubblicata in traduzione italiana e per i suoi preziosi suggerimenti. 2 Reiner Schürmann, Le principe d’anarchie: Heidegger et la question de l’agir, Seuil, Paris 1982, poi riedito da Diaphanes, Bienne-Paris 2013; tr. ingl. di Christine-Marie Gros in collaborazione con l’Autore, Heidegger on Being and Acting: From Principles to Anarchy, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1987; tr. it. e cura di G. Carchia, Dai principî all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, il Mulino, Bologna 1995, poi riedito
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francesco guercio, ian alexander moore
di moderatore, Walter Brogan e Michael Murray quello di commentatori. Benché sfortunatamente nessuno degli scritti a commento sia stato recuperato, gli autori – che ringraziamo per il loro aiuto durante la nostra ricerca – non hanno mancato di sottolineare in un recente giro di corrispondenza come nella sessione Schürmann fosse stato «molto presente, molto deciso, molto avvincente e persino, si potrebbe dire, magistrale» (Schmidt), riuscendo così a distillare una «incredibile esposizione filosofica» (Brogan). L’intervento di Schürmann abbozza le principali mosse teoretiche e metodologiche del suo pionieristico libro su Heidegger facendo al contempo cenno alla posta in gioco dell’immane Wiederholung della tradizione occidentale tentata negli ultimi anni di vita. Emergono così nell’intervento le questioni che in maniera più urgente egli sentiva dovessero essere poste «alla fine della metafisica», non da ultimo se la metafisica sia davvero finita e se la sua fine sia persino pensabile come tale. Ritornando dunque sulla complessa, ineludibile eredità heideggeriana del suo pensiero, Schürmann arriva qui a esplicitare la coincidenza tra la «deduzione storica delle categorie» tracciata in Dai principî all’anarchia e quella «topologia» che, seppur ivi già precisata, giungerà a dispiegare le sue molteplici potenzialità solo nel magnifico libro sulle egemonie infrante, il postumo Des hégémonies brisées3. Bastino questi brevissimi cenni a sottolineare l’importanza che la pubblicazione dell’intervento riveste per una accresciuta intelligibilità dell’itinerario schürmanniano4. Per concludere, siamo infatti convinti che occorra leggere tutto Schürmann, e non esclusivamente il suo imprescindibile libro sull’essere e l’agire in Heidegger, per da Neri Pozza, Vicenza 2019 (i richiami alla tr. it. nel testo fanno riferimento a quest’ultima edizione). 3 Reiner Schürmann, Des hégémonies brisées, Diaphanes, Zürich 2017, pp. 589-712; tr. ingl. di R. Lilly, Broken Hegemonies, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 2003, pp. 511-620; tr. it. e cura (in lavorazione) di F. Guercio, Le egemonie infrante. I passi citati sono tradotti in italiano dal curatore. 4 Davvero lodevole per la tenacia con cui si volle diffondere il pensiero dell’ultimo Schürmann, nonché fonte d’ispirazione terminologica per questo lavoro di traduzione, è stata la versione a cura di Simona Forti e Luca Savarino dello scritto di Reiner Schürmann, Conditions of Evil, in D.G. Carlson, D. Cornell e M. Rosenfeld (eds.), Deconstruction and the Possibility of Justice, Routledge, New York 1992, pp. 387-403; cfr. Reiner Schürmann, Le condizioni del male, in S. Forti (a cura di), La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Einaudi, Torino 2004, pp. 167-88.
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nota editoriale
cogliere come solo a un’an-archia davvero «proteiforme» sia data in consegna la possibilità di far apparire i mondi presso cui sempre dimoriamo «in una luce differente»5. * Schürmann aveva scelto per entrambe le bozze esistenti dell’intervento il titolo Ormai solo Proteo ci può salvare, titolo che abbiamo deciso di mantenere. Fortunatamente i dattiloscritti originali sono chiaramente leggibili e, rispetto ai materiali del Nachlass schürmanniano, più stratificati e spesso zeppi di marginalia, presentano scarsissime interpolazioni o annotazioni a mano, alcuni riferimenti bibliografici nel corpo del testo e nessuna nota. Le differenze tra le due bozze conservate sono state indicate nelle note a piè di pagina, tutte curatoriali. Per quanto riguarda l’edizione, ci siamo limitati a intervenire unicamente laddove necessario, correggendo tacitamente errori di battitura e di ortografia e riarrangiando la sintassi delle frasi solo qualora impedisse la scorrevolezza nella lettura. I riferimenti bibliografici sono stati aggiornati e le citazioni riviste e riportate in extenso a piè di pagina. A beneficio di una lettura comparata, e nell’auspicio di un sempre maggiore approfondimento dell’opera di Schürmann in Italia, abbiamo provveduto a indicare in nota le corrispondenze più significative tra il testo dell’intervento e le opere di lui finora pubblicate. Francesco Guercio, Ian Alexander Moore
5
Schürmann, Des hégémonies brisées cit., p. 725.
«Ormai solo Proteo ci può salvare» Intervento in risposta a Walter Brogan e Michael Murray (1987) Reiner Schürmann
Ringrazio Walter Brogan e Michael Murray per le loro attente osservazioni, alle quali cercherò di rendere giustizia quanto più posso abbozzando alcuni tratti del profilo di Heidegger che ho cercato di ritrarre nel libro – il profilo del corpo di questioni che reca il nome di «Heidegger» e non di quell’uomo nato nel 1889 e morto nel 1976. Sicuramente è possibile tracciare altri profili di questo corpo di questioni. Solo i dogmatici e i giornalisti possono essere schedati con una singola foto d’identità. Eppure lo scopo del mio libro era quello di porre la questione dell’azione o praxis – una questione che Heidegger aveva dichiarato di non trattare e alla quale tuttavia mi sembra egli risponda con il suo progetto stesso di «pensare differentemente»1. Inizierò con un tratto generale, disegnando nient’altro che un contorno: alla fine, dopo aver aggiunto altri tratti, porrò a quel ritratto un interrogativo specifico che ha a che fare con l’«agire». Proverò poi a farlo parlare. Dopo aver tracciato il contorno iniziale affronterò alcune delle vostre critiche2.
1
Cfr., ad esempio, Martin Heidegger, Einleitung zu: «Was ist Metaphysik?», in Wegmarken, hrsg. von F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1976; tr. it e cura di F. Volpi, Introduzione a «Che cos’è metafisica?», in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 333: «l’altro pensiero [das andere Denken]». 2 Quest’ultima frase è assente dalla Prima Bozza.
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i. Sul congedo dei filosofi dal servizio civile3 Nell’Introduzione alla Crisi delle scienze europee Husserl descriveva in questi termini il ruolo del filosofo: «Siamo i funzionari dell’umanità»4. La versione burocratizzata del re-filosofo, dopotutto. Il primo schizzo del profilo di Heidegger che sto tentando è interamente negativo: non è il ritratto di un funzionario. Non è poi così difficile cogliere il senso in cui i filosofi sono stati i più solerti agenti al servizio [servants] dell’umanità. I filosofi sono stati esperti nell’assicurare punti di ancoraggio ultimo [ultimate moorage] per il conoscere e per l’agire – di certo non una responsabilità di poco conto – e una responsabilità che ciascuno di loro doveva assumere per il massimo beneficio dei suoi contemporanei. Un simile assicurare richiede un know-how (in greco, technē): in che modo stabilire dei canoni [standards]? I filosofi in quanto funzionari dell’umanità sono ancora molto tra noi, così a destra come a sinistra. A destra sono i nostalgici della filosofia classica che cercano «le cose prime»; a sinistra i nostalgici dell’Illuminismo che cercano norme nel perimetro di un’etica della comunicazione5. Allorché Heidegger parla di «filosofia», è a questo professionalismo delle pretese di ultimità [ultimacy claims] che fa riferimento; e allorché annuncia la «fine della filosofia», indica che questa altro non è stata che un porre, un imporre, un posizionarsi e un prendere posizioni, un insistere, in ogni caso, un atto di arci-violenza6. 3 Si noti che in inglese il termine impiegato da Schürmann è release: congedo, fuoriuscita, rilascio, la cui sfera semantica, affine a quella del latino laxare, e del tedesco lassen, non può che evocare un’ascendenza eckhartiana. Il termine gelâzenheit/Gelassenheit in Meister Eckhart è infatti reso in inglese da Schürmann con releasement (in francese délaissement). Inoltre, significativamente, Schürmann, quando fa riferimento al Kant del celeberrimo saggio sull’Illuminismo, utilizza proprio release per tradurre in inglese il tedesco Ausgang [uscita]. Cfr. anche Reiner Schürmann, On the Philosophers’ Release from Civil Service: An Interview with Reiner Schürmann, «Kairos», 2, 1988, pp. 133-145. 4 Edmund Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie: Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, hrsg. von W. Biemel, Nijhoff, Den Haag 19762; tr. it. e cura di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961, p. 46 [«Funktionäre der Menschheit»]. 5 Cfr. Schürmann, Des hégémonies brisées cit., p. 17: «A destra, dove si pongono autorità ancorate nel passato […] la funzione [tetica] vuole che si riabiliti la teleologia naturale. Una certa sinistra, la quale pone autorità future scaturite dall’autonomia (come una comunità emancipata da distorsioni comunicative), vuole che si dia invece validità agli argomenti per una Letztbegründung: proprio per i fondamenti ultimi». 6 Cfr. Martin Heidegger, Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens, in Zur Sache des Denkens, a cura di F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M.
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Per comprendere l’alterità totale che Heidegger rivendica rispetto alla filosofia occidentale nella sua interezza è necessario situare con una qualche precisione la violenza cui il suo finale di partita si rifiuta. Heidegger è concorde con l’antica descrizione della filosofia come diaso–zein ta phainomena (Eudosso di Cnido)7: preservare ciò che si mostra. Tenendosi in questo suo ruolo più modesto, il filosofo tenta di pensare in maniera rigorosa le cose che «si mostrano» a ciascuno: i fenomeni che tutti sappiamo, benché confusamente. In maniera rigorosa: ossia, il filosofo indaga le condizioni che rendono quei fenomeni possibili. Poiché, però, tali condizioni non si mostrano, il massimo cui un fenomenologo possa aspirare è tenere vive e articolate le questioni che le riguardano. D’altronde, nel suo ruolo di funzionario al servizio civile, il filosofo rivendica come sua competenza il mettere fine alle questioni sulle condizioni. Anch’egli dice «decido di assumermi la piena responsabilità»8, cioè «non può esserci un regresso all’infinito». Questo assioma, «non può esserci un regresso all’infinito» – spesso evocato dal nulla – è stato l’espediente professionale dei filosofi, proprio come il salasso è stato per secoli l’espediente di ogni abile medico. Ed entrambe le abilità, quella del filosofo e quella del medico, erano terapeutiche. Invero, l’assioma era messo all’opera per assicurare una qualche unica rappresentazione del fondamento capace di consolare l’anima e consolidare la città9. La violenza professionale 2007; tr. it. e cura di E. Mazzarella, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Tempo ed essere, Guida, Napoli 1980, pp. 163-181. 7 Cfr. Eudosso di Cnido, frammenti 121 e 124, in Die Fragmente des Eudoxos von Knidos, hrsg. von F. Lasserre, de Gruyter, Berlin 1966, pp. 67 sgg., così come riportato da Simplicio, in Aristotelis De caelo Commentaria, 488, 18-24. 8 Schürmann utilizza una frase idiomatica, the buck stops here, la quale veicola il senso di una decisione presa sul termine di una ricerca di cause, colpe o responsabilità. Chiunque affermi «the buck stops here» si assume dunque la responsabilità di decidere quando la responsabilità ultima è stata assunta. 9 Nell’endiadi consolazione e consolidamento Schürmann compendia la performance tetica svolta dal filosofo nel suo «ufficio» pubblico. Il teticismo non ha tuttavia solamente a che fare con la gestione, l’amministrazione dell’interiorità (della psyché, dell’egoità, della soggettività, etc.) e con quella dell’esteriorità (dell’inter-soggettività, della società, dello Stato etc.), bensì, al tempo stesso, con la costante produzione e tenuta della relazione analogica, differenziale od oppositiva tra quelle due sfere, le quali vengono così a essere poste, separate e mantenute. Nondimeno, nell’analisi di Schürmann, l’ufficio tetico del filosofo risulta sempre «incrinato» da un simul, da una contemporaneità tra l’adempimento della funzione consolatoria-consolidante e l’abdicazione a quella sua stessa funzione, mediante
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richiesta al filosofo è stata quella della sussunzione. Ci si aspettava che consolasse le nostre vite private e consolidasse le nostre vite pubbliche indicando dei poteri di sussunzione: generi, tipi, specie o classi; la natura, la coscienza di sé o l’oggettività; gli ideali, il significato, i valori; canoni o norme… tanti copricapi sotto le cui fattezze si cela l’universale, il koinon. Tutte queste rappresentazioni infliggono all’esperienza quotidiana la stessa violenza, volgendo il singolare in un particolare: l’ineffabile in qualcosa di effabile10. Sono questi agenti della sussunzione che ho chiamato «principî». Tra questi il più recente, e quello in cui la violenza è globale, è la tecnica [technology] – ciò che Heidegger chiama im-posizione [Gestell]11. Ovviamente, a essere in gioco nel pensiero principiale è molto più dello stile. In gioco è un modo di vivere e morire che ha “fatto” l’Occidente sin dai Greci: un modo in cui ogni esperienza riceve il suo significato una volta che essa sia riferita alla forma unica di un universale… sia pure quello del Corpo dei Marines. Non a caso, in un film uscito di recente, Stanley Kubrick fa parlare uno dei suoi personaggi proprio come un agente della sussunzione: «Tu muori ma il Corpo dei Marines vive per sempre»12. Pertanto, non è possibile dire, Michael Murray, che il tentativo di qualcosa come una deduzione delle categorie, nel senso forte del termine, finisca per ridursi una continua, sotterranea o «di risacca», riabilitazione del singolare. Agli occhi di Schürmann il «filosofo» è dunque, suo malgrado, un «agente doppiogiochista» il quale, proprio mentre lavora alacremente per «consolare l’anima e consolidare la città», nel tentativo di salvare i fenomeni e riabilitare i singolari, si trova pur sempre a disfare gli edifici, e a destituire le istituzioni, che ha comunque aiutato a erigere per mezzo del suo «servizio»: l’arruolamento nelle fila del teticismo archico. Per una genealogia dell’«ontologia dell’ufficio», cfr. il notevole volume di Giorgio Agamben, Opus Dei. Archeologia dell’ufficio, Bollati Boringhieri, Torino 2011. 10 Che può cioè esprimersi a parole. 11 Tra le varie possibilità di traduzione abbiamo optato per quella scelta da Gianni Carchia in Dai principî all’anarchia (cfr. p. 413 et passim): im-posizione, per indicare – come ci ricorda Gianni Vattimo che così rende il termine Gestell, talora Ge-stell, entrato nel lessico filosofico francese come arraisonnement e in quello inglese come enframing (usato anche da Schürmann in questa sede) – «l’insieme di tutto il modo di essere dell’uomo che si incentra nello Stellen, cioè nel porre la natura come oggetto a cui si chiede ragione» (Martin Heidegger, Die Frage nach der Technik, in Vorträge und Aufsätze, hrsg. von F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a. M. 2000; tr. it. e cura di G. Vattimo, La questione della tecnica in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 14, n. 1 et passim). 12 Il film è Full Metal Jacket, scritto e diretto da Stanley Kubrick. La frase in originale è: «You die, but the Marine Corps lives forever».
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al pensiero «principiale». Nel prendere congedo dal servizio civile Heidegger non rinuncia affatto al pensiero rigoroso. Congedatosi dal suo servizio civile, il filosofo – Heidegger preferisce dire «il pensatore» – non ha più bisogno di produrre la meccanica della sussunzione come risultato che soddisfi le richieste specificate nel suo mansionario. Il suo diaso–zein, il suo coltivare, è piuttosto dedicato al singolare non più considerato un caso o una parte di un intero, non più particolarizzato. Si può mostrare questo compito di pensare interamente anti-aristotelico seguendo varie strategie13. Il singolare più singolare è la mia morte. È ciò che mi rende sempre e ovunque solo, straniero, ciò che mi riduce al silenzio. Una delle strategie dirette a riabilitare il singolare segue perciò una trasformazione nella nostra auto-comprensione: non ci comprendiamo più come particolari entro una certa specie definibile, bensì in quanto mortali – non sussumibili. Ciascuno di noi è un esemplare della specie «animale razionale», scrive Heidegger, o del «soggetto trascendentale», che «deve ancora divenire un mortale»14. Un’altra di queste strategie segue una parallela trasformazione nella comprensione dell’essere: non più l’essere come ciò che è più comune a tutti gli enti, ma come evento. Ovviamente, le strategie del pensare differentemente l’uomo e l’essere sono strettamente connesse. Per questo motivo sono rimasto perplesso di fronte alla tua preoccupazione, Walter Brogan, che la transizione messa in atto da Heidegger dalla domanda del «senso» dell’essere a quella della sua «verità» e, infine, a quella dell’«evento», possa in qualche modo produrre tre fasi incompatibili (si noti che lo stesso Heidegger esplicita queste fasi in Vier Seminare)15. Non vi è ragione di preoccuparsi: tutte le tre fasi 13 Cfr. Aristotele, Analytica Posteriora, 81 b (libro I, cap. 18): ou gar endechetai labein auto–n [to–n kath’ hekaston] tēn epistēmēn / «dacché non è possibile acquisire la scienza di questi oggetti [singolari]», in Aristotele, Organon, tr. it. e cura di G. Colli, Adelphi, Milano 2003, p. 322, tr. it. modificata. 14 Martin Heidegger, Das Ding, in Vorträge und Aufsätze cit.; tr. it. di G. Vattimo, La cosa, in Saggi e discorsi cit., p. 119: «Gli animali razionali devono anzitutto divenire dei mortali» [tr. it. modificata]. 15 Martin Heidegger, Vier Seminare, in Seminare, hrsg. von C. Ochwadt, Klostermann, Frankfurt a.M. 1986; tr. it. e cura di M. Bubola e F. Volpi, Seminari, Adelphi, Milano 1992, p. 100: «“Senso” [in Essere e tempo] va inteso a partire dal “progetto” che si spiega attraverso il comprendere. Questo modo di porre la questione consiste nel lasciare troppo spazio alla possibilità di intendere il “progetto” come un’impresa umana […] Per prevenire questo sbaglio […] dopo Essere e tempo il pensiero ha sostituito la locuzione “senso
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articolano una e una sola intuizione [insight] – quella dell’«essere come tempo»16. Se però seguiamo i vari riorientamenti nell’affrontare questo singolo problema, allora la figura dell’uomo appare in maniera differente: dapprima come Dasein, poi come Menschentum epocale e, infine, come mortale. La tua citazione sull’«abitare come mortali» appartiene al contesto del terzo e ultimo modo di affrontare questo singolo problema. Sicché, il compito è preservare, diaso–zein, i fenomeni senza dissolverli in un qualche fantasma universale. Ora, l’unico fenomeno indissolubile che tutti conosciamo è la morte in quanto propriamente mia. Attraverso i suoi scritti Heidegger ha pertanto cercato di apprendere dalla nostra esperienza come mortali al fine di pensare l’essere altrimenti che a mo’ di fantasma sussuntivo più omnicomprensivo. Heidegger cerca di comprendere l’essere come quel processo ordinario per mezzo del quale i fenomeni in quanto singolari entrano in costellazione – un processo così ordinario e familiare che è il più difficile da cogliere. Questa ordinarietà è ciò che lo sottrae alla vista. Nei suoi ultimi scritti non sarebbe nemmeno stato possibile pensare l’essere come Ereignis, come «evento-appropriazione», se al processo accennato non si fosse contrapposta dall’interno una corrente di risacca, che Heidegger chiama Enteignis, «evento di espropriazione»17. Non posso che essere d’accordo con Walter Brogan quando dice che pensare l’essere come evento è recuperare in maniera più decisa che mai il movimento di sottrazione nel presenziare [presencing]18, il movimento del trattenere e del velare, della notte. In alcuni testi precedendell’essere” con “verità dell’essere”. E per evitare ogni contraffazione del senso di verità, per escludere la possibilità che essa fosse compresa come esattezza, l’espressione “verità dell’essere” fu chiarita con “località [Ortschaft] dell’essere” – verità come essere luogo [Örtlichkeit] dell’essere». 16 Martin Heidegger, Nietzsche: Erster Band, hrsg. von B. Schillbach, Klostermann, Frankfurt a.M. 1996; tr. it. e cura di F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano 2018, p. 35 [«Sein als Zeit»]. 17 Schürmann, Dai principî all’anarchia cit., p. 414 [tr. it. modificata]: «Espropriazione, Enteignis, indica la tendenza alla negatività in un’economia data – qualsiasi negatività in qualsiasi economia. Essa designa l’occultamento (lēthē) nel disvelamento, che a sua volta designa il ritrarsi (epechein) nella epochē. Si tratta della corrente di risacca che sottende tutte le fluttuazioni di superficie». Nel Principe d’anarchie cit., p. 319, il passo recita invece solamente: «L’expropriation, Enteignis, dit maintenant la modalité de cette rétention, le cacher dans le montrer, le refus dans la faveur». 18 «anwesen»; Carchia rende con «venire alla presenza», cfr. Schürmann, Dai principî all’anarchia cit., p. 51 et passim.
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ti Heidegger aveva alluso alla corrente di risacca verso l’assenziare [absencing]19, per esempio impiegando il termine Abgeschiedenheit, preso in prestito solo secondariamente da Trakl ma anzitutto da Meister Eckhart20. Contrariamente a quanto Richard Rorty continua a raccontarci, nel pensiero di Heidegger non vi è alcunché di «edificante»: nessun sollievo di fronte alla morte, e nessuna costruzione su fondamenti posti. Prendendo le mosse dalla morte per pensare l’essere come tempo, Heidegger mette invece fine all’elevazione, sia essa elevazione dello spirito o di un qualche edificio concettuale. Per accennare alla funzione pubblica da cui Heidegger diverge – la funzione della sussunzione, il cui scopo è consolare l’anima e consolidare la città –, bastino i due modelli contemporanei a destra e a sinistra appena menzionati. Leo Strauss e i suoi discepoli cercano di riabilitare quel che è in fin dei conti la legge naturale degli Stoici: il principio di una continuità dell’ordine che lega l’anima alla città, all’umanità, al cosmo. Sussunta violentemente sotto un simile fantasma di natura universalistica, l’anima può certamente trovare riposo e la città la sua legge e il suo ordine21. All’altro capo dello spettro, i cosiddetti teorici critici investono le loro aspettative di una paragonabile salvaguardia in una qualche situazione discorsiva ideale: fate sedere allo stesso tavolo un 19
«abwesen»; Carchia traduce con «rendersi assente», cfr. ibid. Abgeschiedenheit significa «distacco» o «dipartenza». Schürmann ne tratta, tra gli altri luoghi, in Maître Eckhart ou la joie errante. Sermons allemands traduits et commentés par Reiner Schürmann, Éditions Planète, Paris 1972 (poi riedito da Payot & Rivages, Paris 2005); tr. it. di M. Giampaolo, Maestro Eckhart o la gioia errante, Laterza, Roma-Bari 2008. Heidegger ne tratta in maniera estesa in Die Sprache im Gedicht: Eine Erörterung von Georg Trakls Gedicht, in Unterwegs zur Sprache, hrsg. von F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1985; tr. it. di A. Caracciolo e M.T. Caracciolo Perotti, Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1990, pp. 45-81. Nel tardo tredicesimo secolo fu probabilmente Meister Eckhart a coniare in medio alto tedesco il termine abgescheidenheit. Cfr. Meister Eckhart, Die deutschen und lateinischen Werke, 11 voll., Kohlhammer, Stuttgart 1936, Deutsche Werke 5, pp. 283, 8; 438, nota 1; tr. it. e cura di M. Vannini, Dell’uomo nobile, Adelphi, Milano 1999, p. 104 (parziale). Per la complicata relazione di Heidegger nei confronti di Eckhart e Trakl su questo tema, cfr. Ian Alexander Moore, For the Love of Detachment: Trakl, Heidegger, and Derrida’s Geschlecht III, «International Yearbook for Hermeneutics», 18, 2019, pp. 233-256. 21 Per quanto riguarda la posizione di Schürmann nei confronti di Leo Strauss e del suo «gregge» [flock], cfr. Schürmann, Des hégémonies brisées cit., p. 496, n. 72. 20
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avvocato di Wall Street, un ayatollah e un burocrate sovietico per «risolvere la questione a parole» e alla fine la ragione prevarrà: per mezzo del discorso concorderanno sia sulle norme per la condotta da tenere tra loro – su norme etiche –, sia su quelle per la condotta pubblica, su norme politiche. Qui a consolare e consolidare è la ragione illuminata in quanto principio (non importa quali siano gli ostacoli ontici22 dovuti a nevrosi, ideologia o stupidità)23. Basti quanto detto finora circa il profilo del filosofo da cui Heidegger diverge. Indica l’alterità da lui cercata riguardo alla tradizione nella sua interezza. Heidegger non può essere annoverato tra i funzionari dell’umanità perché costantemente pensa altrimenti da un agente della sussunzione. Questo pensare altro non è riservato a un qualche problema, maggiore o minore che sia. La meccanica della sussunzione sotto le rappresentazioni ultime come la «natura» classica o la «ragione» moderna doveva essere totalizzante, e così deve essere il pensare non-sussuntivo. In altre parole, la mossa di allontanamento, la diserzione, che Heidegger intraprende dal servizio civile non può essere “regionale”. Altri contemporanei hanno cercato più recentemente di stabilirsi su un territorio non protetto dalla violenza dei principî. Paul Feyerabend ha intrapreso questa mossa per le questioni della conoscenza e Michel Foucault per quelle delle istituzioni. Allorché, come in Heidegger, il problema è la domanda dell’essere, non è possibile alcun congedo parziale dal servizio civile24. Ecco perché il titolo del mio libro afferma che Heidegger sottrae alla violenza principiale sia l’essere sia l’agire25. 22
Nel dattiloscritto, «ontico» è un’aggiunta a mano di Schürmann. Manca nella Prima Bozza. 23 Schürmann ha in mente soprattutto Jürgen Habermas e Karl-Otto Apel. Cfr. Schürmann, Des hégémonies brisées cit., pp. 9, 627; Id., Dai principî all’anarchia cit., p. 284, n. 183. 24 Cfr. Schürmann, Dai principî all’anarchia cit., p. 501: «Prendere congedo, Abschied nehmen, è quanto fanno sempre i distaccati. Essi sono abgeschieden, dipartiti. Il nonattaccamento è la protesta pratica che può produrre una stirpe distaccata dalla differenza ontologica. Abgeschiedenheit è, allora, la sola prassi capace di disfare i principî che hanno avuto corso nell’epoca della differenza ontologica. Non essere attaccato ai principî epocali, è il modo per porre in questione l’organizzazione e la sua essenza. Il non-attaccamento contesta l’impresa tecnologica globale allo stesso modo in cui l’“altro pensare” contesta il progetto dell’obiettivazione totale». 25 Il titolo inglese del libro, Heidegger on Being and Acting: From Principles to Anarchy – giustamente reso da Carchia con Dai principî all’anarchia: Essere e agire in Heidegger
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ii. L’Evento e i suoi topoi Confesso di essermi divertito a sentire Walter Brogan criticare la mia suddivisione dei testi in «tre Heidegger diversi» e Michael Murray criticare, a sua volta, la mia «omogeneizzazione» di tutto Heidegger. La questione ha meno a che fare con un’esegesi che con una topologia. Nel cercare ora di delineare un altro ritratto di Heidegger, ritengo assai più fecondo domandare: «Qual è il sito da cui parla?» che chiedere, invece, «Cosa ha detto quando?». Il primo ritratto abbozzato era del tutto negativo: il corpo di questioni che circola sotto il nome di Heidegger non si accompagna alla sagoma panciuta di un funzionario civile [civil servant]. Ovviamente, ci si deve chiedere a quali condizioni il congedo del filosofo dal servizio civile possa accadere. Qui il profilo di Heidegger apparirà bifronte, come Giano, un profilo che guarda indietro alla tradizione per-laborandola26 e, al contempo, guarda avanti verso un altro inizio possibile o, piuttosto, all’inizio possibile di qualcos’altro – inizio che egli chiama anche «ingresso nell’evento»27. Quando Heidegger
–, accennando esplicitamente a un movimento teleologico dai principî all’anarchia, passa sotto silenzio la simultaneità intenzionalmente paradossale di un «principio d’anarchia» [principe d’anarchie]. Al tempo stesso, ha perlomeno il merito di suggerire, mostrando la coordinazione e dunque la separazione tra «essere e agire», che la posta in gioco della lettura schürmanniana di Heidegger è proprio rimettere in questione lo statuto di questa pur apparentemente «innocua» congiunzione e, nel fare ciò, smantellare l’assai meno innocua funzione tetica da essa svolta entro la storia della metafisica occidentale. 26 Si è deciso di tradurre l’inglese working through, che in Schürmann rende l’heideggeriano verwinden e il freudiano durcharbeiten, con la felice resa che ne dà Lyotard: per-laborare (cfr. Jean-François Lyotard, L’Inhumain: Causeries sur le temps, Galilée, Paris 1988; tr. it. di F. Ferrari e E. Raimondi, L’Inumano: Divagazioni sul tempo, Lanfranchi, Milano 2001, p. 46 [tr. it. modificata]). Per i legami tra working through/travailler, durcharbeiten e verwinden in Schürmann, cfr., ad esempio, Dai principî all’anarchia cit., pp. 153-154, n. 14: «Noi ci disimpegniamo da qualcosa solo lottando con esso, allo stesso modo in cui ci si libera da una nevrosi solo grazie al freudiano “durcharbeiten” […], Verwinden significa, innanzi tutto, “riaversi da” una sofferenza»; oltre, ivi, p. 539: «La nuova comprensione del dimorare richiede che si oltrepassino (verwinden nel senso del durcharbeiten) le rappresentazioni della presenza costante come temporalità della legge. È un’unica decostruzione quella che infrange insieme il prestigio dei referenti e quello della permanenza»; vedi, anche, Schürmann, Des hégémonies brisées cit., p. 664. 27 Martin Heidegger, Protokoll zu einem Seminar über den Vortrag «Zeit und Sein», in Zur Sache des Denkens cit., p. 41: «Einkehr in das Ereignis»; tr. it. di E. Mazzarella, Protocollo di un seminario sulla conferenza “Tempo ed essere”, in Tempo ed essere cit., p. 144.
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descriveva le tre fasi del suo itinerario28, la terza era infatti caratterizzata dal tentativo di una topologia dell’essere in quanto evento. Qualsiasi discorso che parli da una linea di confine ha il volto bifronte di Giano, poiché affronta i due territori che il confine divide. La linea di demarcazione da cui Heidegger parla è diventata nota come «chiusura della metafisica»29. Il congedo del filosofo fa eco a una dislocazione in virtù della quale tutta un’epoca sarebbe sul punto di scivolare fuori da quella “conchiusura” – un lento processo i cui primi portavoce sono stati, secondo Heidegger, Hölderlin e Nietzsche30. Non è un’esagerazione dire che in tutti i suoi scritti Heidegger punti a comprendere quel processo in cui i canoni ultimi sono diventati nulla; comprendere gli antecedenti e i conseguenti di tale processo nonché il suo potenziale per ciò che egli chiama «salvezza», così come il suo inerente pericolo31. Per questo occorre fare un poco più di quanto Jacques Derrida sia disposto a concedere, giacché egli pensa si possa semplicemente «cambiare terreno, in modo discontinuo e improvviso, istallandosi brutalmente al di fuori,
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Cfr. supra, nota 15. Cfr. Cfr. Schürmann, Dai principî all’anarchia cit., pp. 23-24 e infra, nota 40. 30 Benché non sia riuscito a recuperare il suo commento, Michael Murray ha rammentato in un messaggio recente la maniera in cui durante la sessione incalzò Schürmann su questo punto: secondo Murray, Hölderlin non fu solamente, per Heidegger, «un primo portavoce del congedo» dal teticismo, bensì, piuttosto, «il poeta del futuro». «[Hölderlin] appartiene – continua Murray – alla storia della poesia occidentale, non all’economia estetica della letteratura europea». Schürmann non fu sempre inequivoco circa Hölderlin in Dai principî – testo che Murray stava pur commentando. La figura proteiforme di Hölderlin, «rivolto al futuro», viene alla luce in Dai principî all’anarchia con questo passo: «cosa sarebbe, invece, l’“altro pensare”, quello a fatica suggerito dalla fenomenologia della tecnica come epoca della chiusura? […]. La difficoltà di descriverlo ha portato Heidegger per alcuni anni nelle vicinanze della poesia di Hölderlin» (ivi, p. 435; tr. it. modificata; o, nella più esplicita versione francese: «est-ce justement pour pouvoir décrire cette pensée future que Heidegger, pendant quelques années, se tourna vers Hölderlin», Le principe d’anarchie, cit., p. 336, corsivo nostro). In un altro passo Hölderlin assume un profilo più simile a quello di Giano in Dai principî all’anarchia cit. pp. 431-432, n. 120: «L’“altro cominciamento”, quello di Hölderlin, ripete così il primo, il cominciamento greco preclassico». Cfr. anche il saggio degli anni ’70 di Reiner Schürmann, Situating René Char: Hölderlin, Heidegger, Char and the «There Is», «boundary 2», 4/2, Winter 1976; tr. it. e cura di R. Chierichini e P. Tamassia, Situare René Char. Holderlin, Heidegger, Char e il «c’è», «aut aut», 328, 2005, pp. 159-186. 31 Cfr., ad esempio, Martin Heidegger, Die Frage nach der Technik, in Id., Vorträge und Aufsätze cit.; tr. it. di G. Vattimo, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi cit., p. 22. 29
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e affermando una frattura [e una differenza] assolute»32. Per Heidegger, comprendere la dislocazione che sembra avvenire da più di un secolo richiede ora più di un’affermazione brutale: richiede sia il grande salto in avanti che una per-laborazione del passato33. Da qui, il Giano bifronte con il suo sguardo duplice: un volto guarda verso il territorio possibile all’esterno, l’altro è rivolto verso quelle strategie all’interno dell’arena metafisica che hanno iniziato a preparare la trasgressione già dal primo inizio con i cosiddetti presocratici. Io, dal mio canto, ho cercato di esplicitare questa rete complessa di strategie in una deduzione storica delle categorie34. Una tale deduzione è solo superficialmente «principiale». Nessun agente o referente, nessuna origine entitativa – come può essere il soggetto trascendentale – si esprime attraverso le categorie. Le categorie sono siti o topoi dell’essere. La dicitura venerabile «categoria», proprio come tutti gli altri termini presi in prestito dalla tradizione, deve essere ripensata ex novo. In che modo? Se si deve comprendere l’essere come l’evento per mezzo del quale [by which] i fenomeni entrano in una costellazione e formano un mondo, allora la categoria punta ai loci dove è possibile leggere questo presenziare – questo «mondeggiare». La deduzione è la topologia. Voi fate entrambi allusione a questa domanda importante e difficile: «La linea di confine epocale da, in vista, e a causa di cui, Heidegger parla è storica o sistematica?». Sembra che essa sia storica, poiché è la «tecnica», in quanto modo di essere del XIX e XX secolo, a tracciarla. Nondimeno, se le sue strategie retrocedono alla Grecia, allora la linea è chiaramente un tratto sistemico della metafisica compresa come meccanica della sussunzione. Una breve osservazione su Kant aiuterà a mostrare che la pertinenza della disgiunzione tra «storico» e «sistematico» è comunque decisamente limitata35. 32 Jacques Derrida, Marges de la philosophie, Édition de Minuit, Paris 1972; tr. it. e cura di M. Iofrida, Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997, p. 184 [tr. it. modificata]. Cfr. Schürmann, Des hégémonies brisées cit., p. 601, n. 17. 33 Vedi supra, nota 26. 34 Cfr. Schürmann, Dai principî all’anarchia cit., pp. 291-436. 35 Schürmann, Le principe d’anarchie cit., p. 13: «l’opposition entre système et histoire demande à être révisée» (et passim); tr. it. cit., p. 23: «Questa ipotesi [della chiusura] opera in maniera duplice […]: si tratta di una chiusura sistematica, in quanto le norme dell’agire procedono formalmente dalle filosofie prime corrispondenti; si tratta di una chiusura storica, dal momento che il discorso decostruzionista non può sorgere che al limite dell’epoca
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Kant inizia la Prefazione alla Critica della ragion pura affermando che in una delle sue attività la ragione è gravata dalle idee – rappresentazioni di totalità, precisamente – che non può risolvere né sfuggire. Ebbene, due anni dopo la pubblicazione della Critica, Kant scrive un magnifico breve saggio dal titolo Che cos’è l’illuminismo? Eccone l’incipit: «Che cos’è l’illuminismo? […] è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso»36. E che cos’è questo stato di minorità? È l’auto-soggezione della ragione alle rappresentazioni storiche, disposta ed eretta a ragione suprema stessa. Così Kant avrebbe detto, nella Critica, che la sottomissione alle totalità illusorie è sistemica, impiantata nella ragione ineludibilmente. È il nostro destino trascendentale. Viceversa, nel saggio sull’illuminismo, Kant afferma che questa servitù è storica. Lo stato di minorità è auto-imposto e da imputare a sé, e quindi l’uscita, il congedo, dell’uomo da questo stato è una possibilità entro la storia. Parimenti accade per quanto riguarda il congedo di una cultura, e dunque dei suoi filosofi, dalla meccanica della sussunzione: forse non occorre cambiare prospettive, come nel bel mezzo di una frase, se si afferma con Heidegger che, appena la missione della consolazione privata e del consolidamento pubblico è diventata e rimasta la funzione originariamente tecnica della filosofia – nel senso della technē, del know-how professionale –, l’essenza della tecnica ha reso la filosofia sempre un discorso chiuso; tuttavia, il pieno dispiegamento della tecnica di cui siamo testimoni oggi conduce quel discorso chiuso sull’orlo di un altro discorso possibile: un discorso che sarebbe altro perché eco di un’economia del presenziare non segnata dalle rappresentazioni principiali. Per un secolo e mezzo abbiamo udito vociferare di un discreto numero di tentativi in direzione di un simile discorso che rispondesse all’evento per cui i singolari entrano in una sulla quale esso si esercita» (et passim). Cfr. anche Schürmann, Des hégémonies brisées cit., p. 12 et passim. 36 Immanuel Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, «Berlinische Monatsschrift», Dezember-Heft 1784, pp. 481-494 (481): «AUFKLÄRUNG ist der Ausgang des Menschen aus seiner selbstverschuldeten Unmündigkeit»; tr. it. e cura di N. Merker, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, in Che cos’è l’illuminismo?, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 48. Schürmann cita significativamente dalla traduzione di Lewis White Beck (in Immanuel Kant, On History, L.W. Beck (ed.), Bobbs-Merrill, Indianapolis 1963, p. 3, corsivo nostro) che recita: «What is Enlightenment? It is man’s release from his selfincurred tutelage».
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costellazione precaria e, per un baleno mortale di tempo, fanno un mondo. (Credo che un siffatto mutamento sia accaduto nelle letterature in lingua inglese, francese e tedesca con James Joyce, Proust e Robert Musil). Il ritratto di Heidegger resta bifronte, gianuario, a ogni passo del suo itinerario. Il locus letteralmente decisivo, «che scinde» due territori, è il locus dal quale la deduzione delle categorie è portata avanti: il nostro. L’«aut-aut» di Michael Murray – o si ha un insieme completo di tratti categoriali o nessuna deduzione – manca interamente di cogliere il senso della mia impresa37. Naturalmente la tavola delle categorie non è completa, così come la complessa rete di esistenziali in Essere e tempo, che la mia tavola traduce in un progetto di una topologia dell’evento, non ha mai avuto la pretesa di essere esaustiva38. Persino le tavole di Aristotele e di Kant erano esaustive più per fiat che per fedeltà ai fenomeni. Inoltre, come osserva giustamente Walter Brogan, la deduzione rivela l’ambiguità pervasiva della metafisica: i tratti greci come la physis vi restano operativi lungo tutto l’arco di quella, ma sono sovradeterminati da quei tratti che raggiungono il loro pieno dispiegamento solo con la tecnica contemporanea. Cosicché la deduzione serve anche come strumento utile contro quelle dichiarazioni in Heidegger secondo le quali la «metafisica» pare essere un unico blocco monolitico. Il che significa tuttavia, contrariamente 37
Nel messaggio prima citato (cfr. supra, nota 30), Michael Murray ricorda anche di aver incalzato Schürmann circa questo punto ulteriore: «Reiner rivendicava di aver presentato una deduzione trascendentale delle categorie di Heidegger, ovviamente, mutatis mutandis. Io posi l’interrogativo se quella tavola delle categorie fosse completa e necessaria. (Il pensiero di Heidegger divenne in fin dei conti anche una decostruzione di una simile aspirazione). Il modo in cui Reiner porta avanti la deduzione esibisce lo stile sistematico con cui tratta le opere di Heidegger, ossia, assemblando pezzi e riferimenti da molti testi per costruire un’immagine generale. (Questo intendevo dire allorché gli rimproveravo di “omogeneizzare” [tutto Heidegger], cosa cui egli fa riferimento in contrapposizione alla critica di Walter Brogan). La replica di [Schürmann] fu che egli riconosceva sia l’approccio storico sia quello sistematico. Tuttavia, io avevo suggerito che [in questo modo] a essere omesso non è solamente lo “storico”, ma altresì la “singolarità” (nel senso che Reiner attribuisce al termine) dei testi di Heidegger, che viene omessa in favore di una schematica concettuale». Notevole è come nella sua Introduzione a Dai principî anche Carchia, descrivendo la deduzione storica delle categorie ivi espressa da Schürmann, affermasse che quello che il primo chiamava «kantismo escatologico» era «una delle caratteristiche più immediatamente sconcertanti [del] libro» (cfr. Gianni Carchia, Introduzione all’Edizione Italiana, in Schürmann, Dai principî all’anarchia cit., pp. 11-12). 38 Cfr. Schürmann, Dai principî all’anarchia cit., p. 312.
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all’osservazione di Walter Brogan, che le categorie greche non vengono «troppo presto» e quelle tecnico-nietzscheane «troppo tardi»: siccome i due insiemi determinano tutta la storia nel loro frammezzo, la deduzione mostra come l’osservazione di Michael Murray sulla tecnica sia di fatto vera per l’intera metafisica: essenzialmente infranta tra l’essere come piena presenza e l’essere come evento39. Il progetto di decostruire la metafisica è retrodittivo e però interamente topologico. Indaga nei luoghi, domandando: «A quale esperienza si sono rivolti i funzionari dell’umanità al fine di promuoverla al rango di canone ultimo [ultimate standard]? Per un’epoca – che non è facile delineare storicamente40 – i filosofi, come ho già detto, hanno cercato un tale canone nella natura, interpretata come un tessuto di logoi senza soluzione di continuità. Più di recente sembra che essi abbiano preso invece le mosse dall’esperienza dell’auto-riflessione. Nei suoi testi più concisi sulla metafisica come epoca singola, Heidegger direbbe che, dalla filosofia attica in poi, a disporre il canone vi è stato solo un fenomeno dante-misura41: l’esperienza del cambiamento fisico. In ogni caso, nel suo uso retrodittivo-retrospettivo il progetto di una topologia si riduce al domandare: «dove siamo andati a cercare principî supremi?» «Quali sono stati i “singolari” che abbiamo massimizzato, che abbiamo aumentato fino a gonfiarli a proporzioni normative così da convertire tutti gli altri singolari in particolari sussumibili al di sotto della loro regola integrativa?».
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Nel suo messaggio già citato Michael Murray rammenta che Schürmann finì per concedere al suo appunto che «la tecnica moderna è infranta, “già sempre infranta”, come io direi in termini heideggeriani», estendendone la posta «all’intera storia della metafisica». Murray continua argomentando così: «Penso che [Schürmann] mancasse di considerare sufficientemente fino a che punto l’importantissimo resoconto che Heidegger dà della tecnica sia totalizzante, e in un certo senso lo stesso può dirsi della sua storia della metafisica. Un semplice indizio del primo fatto è il modo in cui Heidegger tralascia totalmente questo carattere della tecnica: la sua unica predisposizione all’incidente, la sua incidentalità; contrariamente accade per il suo celebre riconoscimento dello stesso carattere nel caso del guastarsi della totalità dei mezzi in Essere e tempo». 40 Nella Seconda Bozza la frase «che non è facile delineare storicamente» è cassata a matita. 41 La resa “dante-misura” traduce measure-giving con cui Schürmann, a sua volta, rende in inglese il tedesco maßgebend (in francese tradotto con donnant la mesure). Il termine, già fortemente connotato in Heidegger, riveste un ruolo di primo piano per la comprensione della “massimizzazione” nella topologia schürmanniana delle egemonie infrante. Cfr. Schürmann, Des hégémonies brisées cit., pp. 619-621; 643; 641; 702 et passim.
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Nel suo uso prospettivo la topologia è ancora un discorso sui luoghi. Ma qui i luoghi sono altri e pertanto il discorso è un altro. È il discorso dell’«altro pensare»42. I luoghi adesso sono concatenazioni effimere di singolari mantenuti in quanto singolari. I topoi, inscindibilmente spaziali e temporali, situano l’evento del reciproco manifestarsi tra fenomeni: l’evento che costituisce la loro fenomenicità. iii. Che si deve fare alla fine della metafisica?43 Vorrei ora disegnare con alcuni tratti in più quel volto di Giano che guarda avanti verso l’altro inizio di cui si suppone il pensare dell’ultimo Heidegger sia la preparazione. Sicuramente questo suo pensiero è solo un pensiero possibile di una possibilità: eppure Heidegger, fin da Essere e tempo, ha sempre ritenuto che più in alto dell’attuale è il possibile44. Possa Esiodo perdonarmi il mostro teogonico, così come l’anacronismo, ma il volto di Giano girato verso il futuro è un volto proteiforme. E possa Heidegger perdonarmi se nomino l’innominabile: se «ormai solo un dio ci può salvare»45, quel dio dovrà essere Proteo. Se un nuovo modo di essere diventa possibile con la tecnica contemporanea, anche l’agire subirà una trasmutazione. Sopra la linea di confine sulla quale siamo, agire significa qualcosa di più militante che «seguire il flusso» [going with the flow] e qualcosa di più doloroso della gentilezza e della passività. La svolta, Kehre, nell’itinerario di Heidegger ha direttamente a che vedere con la meccanica della sussunzione e con l’arsenale di principî che essa mette all’opera. Nei 42
Cfr. supra, nota 1. Cfr. Reiner Schürmann, «What must I do?» at the End of Metaphysics: Ethical Norms and the Hypothesis of a Historical Closure, in Tomorrow the Manifold, a cura di M.F. Rauch e N. Schneider, Diaphanes, Zürich 2019, pp. 31-53. 44 Martin Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 2001; tr. it. di F. Volpi, Essere e tempo, a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Longanesi & C., Milano 2005 (1971), p. 54 «più in alto della realtà si trova la possibilità [Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit]». 45 «Nur noch ein Gott kann uns retten»: cfr. Martin Heidegger, Spiegel-Gespräch mit Martin Heidegger, in Reden und andere Zeugnisse eines Lebensweges 1910-1976, hrsg. von H. Heidegger, Klostermann, Frankfurt a.M. 2000; tr. it. e cura di C. Tatasciore, L’intervista con «Der Spiegel», in Risposta: A colloquio con Martin Heidegger, Guida, Napoli 1992, pp. 107-137. 43
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passi di Essere e tempo in cui Heidegger parla dell’esserci nell’uomo, «uomo» non era ancora interamente districato da rappresentazioni entitative; e il pensiero rappresentativo è pensiero sussuntivo. In che modo, allora, si deve pensare differentemente – e non solo l’uomo – senza cadere nella meccanica più efficace, cioè la negazione determinata? Heidegger incontra e affronta questa difficoltà costantemente. Ecco alcuni esempi di una simile negazione che rafforza lo stesso anziché preparare l’altro. Nel primo inizio, con Parmenide, il Molteplice funziona come contrario dell’Uno, rendendone così possibile il regno principiale. Nel XIX secolo il positivismo fu escogitato in opposizione all’idealismo omni-sussuntivo; ma una tale opposizione restava reattiva, e finiva per rinvigorire e aumentare la morsa dell’ideale. Il XX secolo ci ha fornito nella sua seconda metà una pletora di fughe variopinte dalla tecnica omni-sussuntiva; ma anche le fughe sono reattive e non fanno altro che rafforzare il potere di ciò da cui si cerca di fuggire46. Quando parlo di anarchia essa non deve essere compresa come negazione determinata dei principî. Il contrario di un principio è quel che si basa sul principio [the principled], ciò cui il principio si applica. Un principio è qualcosa, una rappresentazione universale, perciò un ente. L’anarchia tuttavia designa un modo [mode] di interconnessione fenomenica: non un qualche ente, bensì una rete relazionale del tutto priva di archai. Sul territorio amministrato dalla meccanica della sussunzione la fenomenicità dei fenomeni è costituita dal loro riferimento a un qualche unico focus, centro, nucleo, capo o autorità. Se si deve parlare dell’altro territorio soprattutto in termini negativi ciò tuttavia non implica che si stia così parlando di un altro generico, sia questo contrario oppure contraddittorio: l’altro è piuttosto disgiunto, spaiato, dis-pari e, in questo senso, anarchico. Nessun tratto e nessuna strategia comuni conducono dal regno della sussunzione alla libertà dell’evento. Ecco perché per comprendere l’essere come
46 Il «fuggire» e il suo carattere essenzialmente reattivo sono al cuore della scrittura schürmanniana nel suo unico récit, Les origines, PUM, Toulouse 2003; tr. ingl. di E Preston in collaborazione con l’Autore, Origins, Diaphanes, Zürich-Berlin 2016; tr. it. di F. Scabbia, Le origini, a cura di F. Guercio, Efesto, Roma 2020. Cfr. Schürmann, Le origini cit., p. 19 (et passim): «Il primo riflesso della mia vita cosciente: tagliare la corda»; ivi, p. 33: «Non sei capace di staccarti dal passato. Il mondo che vuoi sfuggire ti riagguanta».
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Ereignis è richiesto un «salto»47. Ecco anche perché quelle che ho chiamato «categorie della transizione» accadono in maniera duplice, ricapitolatrice e anticipatrice. Il sopravvenire e il trapassare delle costellazioni fenomeniche nel modo in cui accadono di farsi incontro [happen to occur], senza spazio per la hybris della durata48, sarebbe il presenziare proteiforme. Tale presenziare è anarchico poiché esclude qualsiasi forma di trascendenza – persino quella del passo, certo ancora goffo, al di là di sé dell’esserci, come è descritto nell’analitica esistenziale. Dunque, Proteo è una figura temporale laddove l’anarchia è un concetto ontologico. «L’anarchia proteiforme» è un modo di parafrasare il titolo dell’ultimo Heidegger, Tempo ed essere49. Le finzioni arci-hybristiche erano i principî epocali. La loro genealogia risale al momento in cui Platone collocò l’essere in ciò che più perdura, l’idea. La loro necrologia prepara l’accesso al terreno in cui niente è costantemente presente. Nella forma di canoni costantemente presenti l’essere ha determinato quel che poteva e doveva essere fatto: nel momento in cui la presenza costante tuttavia si dimostra essere stata l’unica illusione metafisica, anche l’agire dovrà essere pensato come proteiforme e anarchico. Ho abbozzato un profilo del corpo di questioni firmato Heidegger. Per concludere, cercherò ora di farlo parlare. Sarò costretto a farlo più brevemente possibile poiché qui mi accingo a muovere un passo al di là dell’interpretazione, un passo che non ho intrapreso nel 47
Cfr. Martin Heidegger, Was heisst Denken?, hrsg. von P.-L. Coriando, Klostermann, Frankfurt a.M. 2002; tr. it. di G. Vattimo, Che cosa significa pensare? in Saggi e discorsi cit., p. 88 [tr. it. modificata]: «si riconosce l’abisso che separa scienza e pensiero come insuperabile. Non c’è un ponte che conduca dalla scienza al pensiero; l’unico passaggio possibile è il salto». Spesso Schürmann amava citare Nietzsche, il quale aveva già scritto nello Zarathustra: «l’abisso più piccolo è il più arduo da superare» (Friedrich Nietzsche, Also Sprach Zarathustra: Ein Buch für Alle und Keinen, III, Der Genesende, 2: disponibile online: (http://www.nietzschesource.org/#eKGWB/Za-III-Genesende-2; tr. it. e cura di G. Colli e M. Montinari, Così parlò Zarathustra: Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 2007, p. 255, tr. it. modificata); cfr., ad esempio, Schürmann, Des hégémonies brisées cit., p. 217; Reiner Schürmann, The Philosophy of Nietzsche, a cura di F. Guercio, Diaphanes, Zürich 2020, pp. 82; 104. 48 Cfr. Schürmann, Dai principî all’anarchia cit., pp. 461-472. 49 Cfr. la conferenza Zeit und Sein, in Heidegger, Zur Sache des Denkens, cit.; tr. it. e cura di E. Mazzarella, Tempo ed essere, in Tempo ed essere cit, pp. 97-126.
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libro. Quel che mi spinge a farlo è l’impressione che nessuno dei due commentatori sembra aver colto la dimensione militante, pubblica, impegnativa del dislocare tutti i residui principiali. La questione si riduce a questa domanda: «Che si deve fare alla fine della metafisica?». Detto altrimenti: «Con il tempo compreso in quanto evento senza durata, e l’essere compreso come presenziare senza archē, che ne è dell’agire?». Occorre aggiungere ancora una notazione topologica. Nel modo in cui la questione dell’agire è stata da me appena formulata, essa non affronta l’altro territorio, altro dall’uno ordinato dalla meccanica della sussunzione. Il suo locus resta piuttosto la linea di confine tra l’uno e l’altro territorio, l’uno e l’altro pensare; l’uno e l’altro agire. È la questione che concerne l’agire preparatorio, preparatorio dell’altro abitare e la sua legge – dell’altra eco-nomia –, il quale, sotto il dominio della tecnica, si riduce a nient’altro che a una possibilità50. Se oggi la storia dell’essere ci assegna invero a un sito sulla linea di confine, allora le trasmutazioni che ci accadono sono, ancorché quasi invisibili, decisive. E se in queste trasmutazioni il tempo si rivolta contro la presenza costante e l’essere, contro il regno dell’universale, allora gli obiettivi dell’agire transizionale sono già stati identificati: possono soltanto essere tutte le istanze di quella presenza costante e di quel regno dell’universale. La fine della filosofia implica allora un compito per l’agire che altro non è che il compito per il pensare. In rapporto all’essere e all’agire Heidegger mette in questione il prestigio di tutti gli agenti della sussunzione che insistono, ostinandosi a perdurare. Non si resterebbe certo fedeli ai fenomeni se si descrivesse il nostro mondo di confine, la tecnica, come un mondo interamente isomorfo. Ciò sembrerebbe suggerire che dopo la morte di Dio siano scomparsi anche tutti gli idoli51. Una simile ingenuità tuttavia si riduce a niente 50 Cfr. Schürmann, Dai principî all’anarchia cit., p. 538: «in definitiva, non vi è che una regola per la guida del pensare: la physis intesa come il movimento dell’emergere, dall’assenza, nella presenza. Quale sarebbe l’agire capace di preparare un’economia liberata dai principî regolativi? Sarebbe un agire che segua questa medesima regola. […] Poiché un principio ordinatore inizia e comanda, poiché esso è l’archē di un’epoca, l’agire preparatorio di un’economia post-moderna sarebbe letteralmente an-archico» (tr. it. modificata). 51 D’altronde già Heidegger aveva ricordato nella Prolusione Che cos’è metafisica come fosse indispensabile per la filosofia «il lasciarsi andare nel nulla, ossia, divenire liberi dagli idoli che ciascuno ha e presso i quali ha cura di rifugiarsi [nonché] la capacità di trat-
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più che al nostro modo contemporaneo di far cadere il sipario sul pensiero critico tagliando corto con ogni domandare. Descrivere la nostra èra come se avesse già raggiunto uno stato di medesimezza globale tra gli enti eliminerebbe proprio l’ambiguità che definisce ogni confine. Sull’orlo del territorio principiale il nostro mondo rimane pieno di agenti hybristici provvisti di tracotante ultimità. Heidegger definisce la hybris in termini temporali come il carattere di tutto ciò che cerca di mantenersi irrigidendosi nella sua tratta52. Ebbene, a tali fantasmi hybristici ogni giorno giuriamo fedeltà, dedichiamo istituzioni e consacriamo le nostre vite per ingannare la morte. «La metafisica è quello spazio [storico]», scrive Heidegger, «in cui diviene destino che il mondo soprasensibile, le idee, Dio, la legge morale, l’autorità della ragione, il progresso, la felicità della maggioranza, la cultura, la civiltà, perdano la loro forza costruttiva e divengano nulli»53. Ciononostante, quest’auto-evacuazione, questa keno–sis dei principî, non ha ancora raggiunto il suo compimento né il suo completamento. Ancorché svuotate, le reliquie di quei fantasmi sono ancora evocate per consolare l’anima e consolidare la città. Che si deve fare allora alla fine della metafisica? Chiamare tutti i residui archici con il loro nome, che è «hybris», e per mezzo di un intervento discorsivo privarli della loro fittizia costanza54. tenersi in tale sospensione» (cfr. Martin Heidegger, Was ist Metaphysik?, in Wegmarken cit.; tr. it. di G. Vattimo, Che cos’è metafisica, in Segnavia cit., p. 77 [tr. it. modificata]). 52 Cfr. Martin Heidegger, Der Spruch des Anaximander, in Holzwege, hrsg. von F.W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M 1977; tr. it. e cura di V. Cicero, La locuzione di Anassimandro, in Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano 2002, p. 420: «La DisGiuntura consiste nel fatto che il trat-tenentesi si intestardisce a irrigidirsi nella tratta, nel senso che non vuole altro che stabilità». Schürmann traduce in Heidegger on Being and Acting cit., p. 248: «Disjointure means that whatever lingers awhile becomes set on fixing itself in its stay, in the sense of pure persistence in duration [Die Un-Fuge besteht darin, daß das Je-Weilige sich auf die Weile im Sinne des nur Beständigen zu versteifen sucht]». 53 Martin Heidegger, Nietzsches Wort «Gott ist tot», in Holzwege cit, p. 221.; tr. it e cura di V. Cicero, La parola di Nietzsche «Dio è morto», in Sentieri erranti nella selva cit., p. 260. Cfr. Schürmann, Dai principî all’anarchia cit., p. 536; Id., The Philosophy of Nietzsche cit., p. 124. 54 Cfr. Schürmann, Dai principî all’anarchia cit., p. 525: «L’ingresso nell’evento […] resta pensabile e fattibile solo come la lotta contro l’ingiustizia e la hybris del consolidato insediarsi sotto la vigilanza dei principî, qualunque forma essa possa assumere. Quella eliminazione sarebbe allora la politica non di “animali razionali”, bensì di “mortali”. È essa a elaborare la risposta alla domanda: “Che fare alla fine della metafisica?”». Questo passo non compare in Le principe d’anarchie ma solo in Heidegger on Being and Acting.
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Solo in questo modo gli «animali della tecnica» diverranno i mortali che comunque noi siamo. Una simile trasmutazione, tale com’è suscitata e apprestata dal destino kenotico di tutte le rappresentazioni supreme, è stata enunciata nella maniera più concisa in questo haiku giapponese: Morte le mie belle speranze E inaridito il mio sognare Eppure… Il gladiolo, blu ogni primavera55. Reiner Schürmann56 (Edizione inglese a cura di Francesco Guercio e Ian Alexander Moore) (Tr. it. dall’inglese e cura di Francesco Guercio)
Cfr. anche Schürmann, Tomorrow the Manifold cit., p. 52: «What must I do at the end of metaphysics? Combat all remnants of authoritative Firsts [Che devo fare alla fine della metafisica? Combattere tutti i residui dei Primi provvisti di autorità]». 55 Ome Shushiki (1669-1725). Lo stesso haiku serve da epigrafe alle Egemonie infrante. Sembra che la fonte di Schürmann possa essere Peter Beilenson (ed.), A Little Treasury of Haiku: Basho, Buson, Issa, Shiki, Sokan, Kikaku, and Others, Avenel, New York 1958, p. 9. 56 Alla Seconda Bozza si trova aggiunta una pagina di appunti dello stesso Schürmann. Eccone una trascrizione: La vecchia questione dei punti di partenza: «Nell’intimo di me stesso, io so…». (Schwärwer [entusiasta, fanatico, esaltato]): «Il fattore senza il quale ogni cosa perderebbe coerenza ([principio] di non-contraddizione); la condizione ultima (non est recedere ad infinitum [Non si dà regresso all’infinito]). «Tu muori, ma il Corpo dei Marines vivrà per sempre» [Cfr. supra, nota 12. La frase è cassata a matita nel dattiloscritto]. idion = il proprio di sé [one’s own]; la bandiera: letteralmente l’universale più idiotico; senza offesa: «Andate in America…» (de Tocqueville): Heidegger e Wittgenstein convertiti in pragmatisti [Cfr. Schürmann, Des hégémonies brisées cit., p. 15]. «Valori»: Leo Strauss e il suo gregge: versus il bene e il male assoluti; per Hei[degger]: agathon = il primo valore, perché positum [posited].
«pensiero referenziale»
supremo ultimo fenomeni
Un tumulto proletario nella Firenze del XIV secolo1 Simone Weil
In Europa, la fine del XIV secolo fu un periodo di disordini sociali e sollevazioni popolari generalizzati. I paesi con i moti più violenti furono quelli economicamente più avanzati, in particolare le Fiandre e l’Italia. A Firenze, città di grossi commercianti di panni e manifatture della lana, il tumulto assunse la forma di una vera e propria insurrezione proletaria, che, per un attimo, ebbe la meglio. Tale insurrezione, nota come tumulto dei Ciompi è, senza alcun dubbio, la primogenita tra le insurrezioni proletarie. Un motivo ancor più importante per studiarla è costituito dal fatto che in essa emergono già, con eccezionale purezza, i tratti specifici che si ritroveranno più tardi nei grandi movimenti della classe operaia, allora appena costituita, e che, dunque, appare, fin dalla sua comparsa, come un fattore rivoluzionario. La Firenze del XIV secolo, in apparenza, è uno Stato corporativo. A partire dagli ordinamenti di giustizia del 1293, il potere è nelle 1
Simone Weil, Un soulèvement prolétarien à Florence au XIVe siècle, in Écrits historiques et politiques. L’engagement syndical (1927-juillet 1934), in Œuvres complètes, tome II, vol. 1, textes rassemblés, introduits et annotés par G. Leroy, Gallimard, Paris 1988, pp. 334-341 [edizione sulla quale è stata condotta questa mia traduzione]. Simone Weil ha tradotto, di seguito al suo articolo, il testo di Machiavelli che qui commenta (Istorie fiorentine, Libro III, capp. 12-17): cfr. ivi, pp. 341-350. L’articolo era apparso, originariamente, nella rivista «La critique sociale», 11, 1934, ed è stato successivamente ripreso in Simone Weil, Écrits historiques et politiques, Gallimard, Paris 1960. Per l’edizione italiana del testo di Machiavelli, si veda Niccolò Machiavelli, Istorie Fiorentine, Libro III, capp. 12-27, in Tutte le opere. Secondo l’edizione di Mario Martelli 1971, Giunti-Bompiani, Firenze-Milano 2018, pp. 1828-1858. In merito alle note, ho scelto di riportare quelle dell’edizione da me utilizzata (Œuvres complètes, tome II, vol. I, Gallimard), ad esclusione della n. 219, che ho omesso, in quanto traduceva in francese “ordinamenti di giustizia”. Nelle note, come la presente, aggiunte da me, ho posposto [n.d.t.]. Ringrazio Giancarlo Gaeta per la sua lettura e i suoi preziosi consigli.
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mani delle arti, cioè delle corporazioni. Un’arte è tanto una corporazione, quanto, più spesso, un insieme di corporazioni che costituisce un piccolo Stato nello Stato, con capi eletti – i cui poteri si estendono alla giurisdizione civile sui membri dell’arte –, una cassa, degli statuti. Firenze è governata dai priori delle arti, magistrati designati dalle arti, e da un gonfaloniere di giustizia, designato dai priori, il quale ha ai suoi ordini mille mercenari armati. Quanto ai nobili, gli ordinamenti di giustizia li hanno esclusi da ogni funzione pubblica e sottoposti a misure d’eccezione molto severe. Se si aggiunge che tutti i magistrati sono eletti per periodi molto brevi e devono rendere conto della loro gestione, Firenze sembra essere una repubblica di artigiani. In realtà, tuttavia, le arti fiorentine sono tutt’altra cosa rispetto alle corporazioni medievali. Innanzitutto, il loro numero è fissato a ventuno e non può essere modificato: è vietato dar vita a un’arte nuova. Chi non appartiene ad alcuna delle ventuno è, dunque, privo di diritti politici. Inoltre, se è vero che le arti degli artigiani e dei piccoli commercianti somigliano alle tipiche corporazioni del Medio Evo, queste arti, chiamate arti minori, vengono lasciate in secondo piano nella vita politica. Il potere reale appartiene alle arti maggiori, che comprendono soltanto – a parte giudici, notai e medici – i banchieri, i grossi commercianti, i produttori di panni e i produttori di seterie. Quanto a coloro che lavorano la lana o la seta, alcuni sono “membri minori” dell’arte corrispondente al loro mestiere, con diritti molto limitati; la maggior parte, invece, è semplicemente subordinata all’arte, cioè sottomessa alla sua giurisdizione, senza esercitarvi alcun diritto e, per lo più, con il divieto non solo di organizzarsi, ma anche di riunirsi. L’arte di Por Santa Maria – quella dei produttori di seterie – e, soprattutto, l’arte della lana sono, dunque, non delle corporazioni, ma dei sindacati patronali. Ben lungi dall’essere una democrazia, lo Stato fiorentino è direttamente nelle mani del capitale bancario, commerciale e industriale. Nel XIV secolo, l’influenza dell’arte della lana si fa, man mano, preponderante, nella misura in cui, da un lato, la produzione del panno diviene la principale risorsa della città e, dall’altro, tutte le grandi famiglie delle altre corporazioni vi investono capitali. Con la sua struttura, costituisce un piccolo Stato, che organizza propri servizi pubblici, riscuote imposte, emette titoli, costruisce locali, gestisce depositi, prende in carico i dispositivi che superano le possibi-
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lità di ciascun imprenditore. È anche un cartello, che impone ai suoi membri un massimo di produzione, con il divieto di superarlo; ma è, soprattutto, un’organizzazione di classe, avente come principale obiettivo quello di difendere, in ogni occasione, gli interessi dei produttori di panni contro i lavoratori. I quali, invece, privati di ogni tipo di organizzazione, si ritrovano disarmati. Questa è la ragione fondamentale dell’insurrezione dei Ciompi. Questi lavoratori della lana si suddividevano in categorie molto differenti quanto a situazione tecnica, economica e sociale. Di conseguenza, tali categorie hanno giocato un ruolo diverso nell’insurrezione. La più numerosa era quella degli operai salariati dei laboratori. Ogni commerciante di panni aveva, vicino al suo punto vendita, un grande laboratorio, o meglio, tenendo conto della divisione e del coordinamento delle mansioni, una manifattura, dove si preparava la lana prima di affidarla ai filatori. Le operazioni svolte in questi laboratori – lavaggio, pulitura, battitura, pettinatura, cardatura – erano, in parte, lavori da manovali, in parte lavori anche relativamente qualificati. L’organizzazione del laboratorio era quella di una fabbrica moderna, eccettuato il macchinismo. La divisione e la specializzazione erano spinte all’estremo. Un’équipe di capisquadra assicurava la sorveglianza; la disciplina era una disciplina da caserma. Gli operai, salariati, pagati a giornata, senza tariffe né contratti, dipendevano totalmente dal padrone. Questo proletariato della lana era, a Firenze, la parte più disprezzata del popolo. È stato proprio tale proletariato che, tra tutti gli strati di popolazione in rivolta, ha dato prova dello spirito più radicale. Questi operai sono stati soprannominati Ciompi, e il fatto che sia stato conferito il loro nome all’insurrezione mostra chiaramente il ruolo che vi hanno avuto. Anche i filatori e i tessitori erano ridotti, di fatto, alla condizione di operai salariati; ma erano operai a domicilio. Isolati a causa del loro stesso lavoro, privati del diritto di organizzarsi, non sembrano aver dato prova, in nessun frangente, di spirito combattivo. La tessitura era, in verità, un lavoro altamente qualificato; ma il vantaggio che i tessitori avrebbero potuto ricavare da questa circostanza era stato annullato, nel XIV secolo, dall’afflusso a Firenze di tessitori stranieri, soprattutto tedeschi. I tintori, al contrario, operai massimamente qualificati, impossibili da sostituire con stranieri perché non c’erano buoni tintori che a Firenze, si erano impegnati per primi
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nella lotta per le rivendicazioni. In realtà, i tintori erano privilegiati rispetto agli altri lavoratori della lana. La tintoria richiedeva l’investimento di capitali considerevoli, e un tale investimento comportava grossi rischi, cosicché i produttori non cercavano di avere proprie tintorie. Fu l’arte della Lana a creare, per la tintura, grandi locali che custodivano parte dell’attrezzatura, mettendoli a disposizione di tutti gli industriali che volevano servirsene; per cui i tintori non dipesero mai da un industriale in particolare, come nel caso dei Ciompi, ma anche dei tessitori, le cui prestazioni appartenevano, in generale, ai produttori. Follatori e tosatori di panni si trovavano, da questo punto di vista, nella stessa situazione dei tintori. Infine, i tintori non erano del tutto privi di diritti politici. Avevano un’organizzazione, puramente religiosa, certo, ma che permetteva loro di riunirsi. Non erano semplicemente subordinati all’arte della lana, come gli operai dei laboratori, i filatori e i tessitori; essi ne erano membri, per quanto “membri minori”, e avevano, quindi, una certa parte nel governo. Dunque, i loro interessi erano ben lungi dal coincidere con quelli dei Ciompi, e il loro atteggiamento durante la rivolta lo dimostrò. Tuttavia, anche a loro non mancavano ragioni per insorgere. Privati del diritto di organizzarsi per difendere le loro condizioni di lavoro, subordinati ai datori di lavoro, che, in base al diritto corporativo, diventavano, in caso di contenzioso, loro giudici, essi sarebbero stati rapidamente ridotti alla situazione degli altri operai se non avessero saputo approfittare delle crisi economiche e politiche. Le prime serie lotte sociali ebbero luogo nel 1342, sotto la tirannia del duca di Atene2. Costui era un avventuriero francese al quale Firenze, stremata dalle continue contese tra le famiglie più potenti, conferì il potere a vita affinché ristabilisse l’ordine. Tale elezione era stata appoggiata soprattutto dagli scontenti, cioè, da una parte, i nobili – ai quali era stato restituito l’accesso alle funzioni pubbliche, ma che, comunque, desideravano la fine dello Stato corporativo –, e, dall’altra, il popolo. Il duca di Atene, durante i pochi mesi del suo regno, si appoggiò principalmente sugli operai, grazie ai quali sperava di poter resistere all’ostilità dell’alta borghesia. Accontentò i tintori, che si lamentavano di essere pagati con anni 2
Gualtieri VI, conte di Brienne, duca di Atene, fu tiranno di Firenze (1342-1343), da dove venne cacciato dalla rivolta suscitata dalle sue stesse brutalità. Trasferitosi in Francia, morì nella battaglia di Poitiers (1356).
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di ritardo e di non avere supporto legale, e chiedevano di costituire la ventiduesima arte. Organizzò gli operai dei laboratori della lana, non in una corporazione, ma in un’associazione armata. Poco dopo fu rovesciato da un tumulto al quale prese parte quasi tutta la popolazione, e nel quale fu difeso solo dai macellai e da alcuni operai; l’arte dei tintori non fu creata, ma i proletari della lana tennero le armi e se ne servirono negli anni successivi. Alla demagogia del duca di Atene – che, in sprezzo al diritto corporativo, aveva soddisfatto tutte le rivendicazioni degli operai della lana – seguì la più brutale dittatura capitalista. Così ben presto esplosero le rivolte. Nel 1343, 1300 operai insorgono; nel 1345, nuova rivolta, capitanata da un cardatore, con l’obiettivo di organizzare gli operai della lana. La grande peste di Firenze, che decima la classe operaia, rarefà la manodopera e provoca un tale innalzamento dei salari che l’arte della lana è costretta ad imporre delle tasse, rendendo la lotta di classe ancora più acuta. Dopo una crisi provocata dalla guerra contro Pisa – che arresta momentaneamente i conflitti –, il ritorno della prosperità, per un fenomeno che, da quel momento, si è frequentemente riprodotto, conduce a uno sciopero dei tintori che dura due anni e termina con una disfatta, nel 1372; ma tale disfatta non mette fine al fermento degli strati della popolazione lavoratrice. Questo fermento coincide con il conflitto tra la piccola borghesia da un lato, e la grande borghesia, unita in una certa misura alla nobiltà, dall’altro. I nobili, in quanto classe, erano stati definitivamente battuti quando, dopo la caduta del duca di Atene, avevano tentato di impadronirsi del potere; tuttavia, la maggior parte delle famiglie nobili erano alleate all’alta borghesia all’interno del partito guelfo. Esso si era formato durante la lotta, terminata da tempo, tra Guelfi e Ghibellini. La confisca dei beni dei Ghibellini gli aveva procurato ricchezza e potenza. Divenuta l’organizzazione politica dell’alta borghesia, domina la città a partire dalla caduta del duca di Atene; falsifica le elezioni, approfitta di una misura d’eccezione – presa in passato contro i Ghibellini e rimasta in vigore – per escludere i propri avversari dalle funzioni pubbliche. Quando, malgrado le manovre del partito guelfo, Salvestro de’ Medici3, uno dei capi della piccola borghesia, diviene, nel giugno 1378, gonfaloniere di giustizia, e 3
Salvestro de’ Medici (1331-1388) incarnò, a Firenze, l’opposizione al potere dei Guelfi.
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propone alcune misure contro i nobili e contro il partito guelfo, il conflitto si inasprisce. Le organizzazioni delle arti scendono in strada armate; gli operai le sostengono e incendiano alcune dimore di lusso e le prigioni, piene di detenuti per debiti. Alla fine Salvestro de’ Medici appare soddisfatto. Ma, come afferma Machiavelli, «non sia alcuno che muova una alterazione in una città, per credere poi, o fermarla a sua posta, o regolarla a suo modo»4. Dalla direzione della piccola e media borghesia, il movimento passa sotto quella del proletariato. Gli operai restano in strada; le arti minori li appoggiano o li lasciano fare. Appare già il tratto che si riprodurrà spontaneamente nelle insurrezioni proletarie francesi e russe: la pena di morte contro i saccheggiatori viene decretata dagli insorti. Ulteriore tratto tipico delle rivolte della classe operaia: il movimento non è affatto sanguinario; non vi è alcuno spargimento di sangue, eccezion fatta per un tale chiamato Nuto, gendarme particolarmente odiato. L’elenco delle rivendicazioni degli insorti, presentato ai priori il 20 luglio, ha, anch’esso, un carattere di classe. Si richiede la revisione delle imposte, che pesano gravemente sugli operai; la soppressione degli “ufficiali stranieri” dell’arte della lana, che costituivano degli strumenti di repressione contro i lavoratori e giocavano un ruolo analogo a quello che, ai giorni nostri, ha la polizia privata delle compagnie minerarie d’America. Soprattutto, viene chiesta la creazione di tre nuove arti per i tintori, i follatori e i tosatori di panni, cioè per quei lavoratori della lana non ancora ridotti alla condizione di proletari; una ventitreesima arte per i sarti e altri piccoli artigiani non ancora organizzati; infine e soprattutto, una ventiquattresima arte per il “popolo minuto”, cioè, di fatto, per il proletariato, che, allora, era principalmente costituito dagli operai dei laboratori della lana. Poiché l’arte della lana non era, in realtà, che un sindacato patronale, l’arte del popolo minuto avrebbe funzionato come un sindacato operaio; e doveva avere la stessa parte al potere dello Stato di quella che aveva il sindacato patronale, perché gli insorti reclamavano un terzo delle funzioni pubbliche per le tre arti nuove e un terzo per le arti minori. In considerazione del ritardo nell’accettazione di queste rivendicazioni, gli operai occupano il 4
Simone Weil non fornisce l’indicazione bibliografica precisa. La frase si trova in Niccolò Machiavelli, Istorie Fiorentine, Libro III, cap. 10, in Tutte le opere. Secondo l’edizione di Mario Martelli 1971 cit., p. 1823 [n.d.t.].
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Palazzo il 21 luglio, guidati da un cardatore di lana diventato capomastro, Michele di Lando, che viene subito nominato gonfaloniere di giustizia e istituisce un governo provvisorio con i capi del movimento delle arti minori. L’8 agosto, la nuova forma di governo, conforme alle rivendicazioni degli operai, viene organizzata e dotata di una forza armata formata non più da mercenari, ma da cittadini. La grande borghesia, sentendosi momentaneamente la più debole, non fa opposizione aperta, ma chiude i propri laboratori e i propri negozi. Quanto al proletariato, si accorge rapidamente che quanto ottenuto non gli dà sicurezza e che un’uguale divisione del potere tra esso, gli artigiani e i padroni è un’utopia. Fa, così, sciogliere l’organizzazione politica che si erano date le arti minori; elabora petizioni su petizioni; si ritira a Santa Maria Novella, si organizza come aveva fatto in passato il partito guelfo, nomina otto ufficiali e sedici consiglieri, e invita le altre arti a discutere sulla costituzione da dare alla città. Da quel momento, la città ha due governi, l’uno al Palazzo, conforme alla nuova legislazione, l’altro illegale, a Santa Maria Novella. Questo governo extra-legale somiglia singolarmente a un soviet; così vediamo apparire, per qualche giorno, insieme a questo primo risveglio di un proletariato appena formato, il fenomeno proprio delle grandi insurrezioni operaie, cioè la dualità del potere. Il proletariato, nell’agosto 1378, oppone già – come farà dopo il febbraio 1917 – alla nuova legislazione democratica che esso stesso ha fatto istituire, l’organo della sua propria dittatura. Michele di Lando fa ciò che, al suo posto, avrebbe fatto qualsiasi capo di Stato social-democratico: si rivolta contro i suoi vecchi compagni di lavoro. I proletari, avendo contro il governo, la grande borghesia, le arti minori, e senza dubbio anche le due arti nuove non proletarie, vengono battuti dopo una sanguinosa battaglia e ferocemente sterminati all’inizio di settembre. Si provvede a sciogliere la ventiquattresima arte e la forza armata organizzata in agosto; si disarmano gli operai; si fanno arrivare delle armate dalla campagna, come a Parigi dopo il giugno 1848. Alcuni tentativi di insurrezione vengono compiuti nei mesi seguenti, con la parola d’ordine: «per la ventiquattresima arte!». Ma sono ferocemente repressi. Le arti minori mantengono ancora per qualche mese la maggioranza nelle funzioni pubbliche; in seguito, il potere viene diviso in egual misura tra esse e le arti maggiori. I tintori, che hanno conservato la loro
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arte, possono ancora utilizzarla per un’azione di rivendicazione, e impongono una tariffa minima. Tuttavia, una volta privati, per loro colpa, dell’appoggio di quel proletariato la cui energia e la cui risolutezza li aveva portati al potere, gli artigiani, i piccoli proprietari e i piccoli commercianti sono incapaci di mantenere il loro dominio. La borghesia, come sottolinea Machiavelli, non lascia loro campo libero che nella misura in cui teme ancora il proletariato; dal momento in cui lo giudica definitivamente sbaragliato, si sbarazza dei suoi alleati di un tempo. Del resto, essi stessi si disgregarono al loro interno a causa della demoralizzazione, anch’essa tipica, che penetra tra i loro ranghi. Lasciano giustiziare uno dei più importanti capi delle classi medie, Scali, e tale esecuzione apre la strada a una brutale reazione, che conduce all’esilio di Michele di Lando, di Benedetto Alberti e di molti altri, alla soppressione della ventiduesima e della ventitreesima arte, al dominio delle arti maggiori, al ristabilirsi delle prerogative del partito guelfo. Nel gennaio 1382, lo status quo in vigore prima dell’insurrezione era ristabilito. La potenza degli imprenditori era ormai assoluta, e il proletariato – privo di organizzazione, impossibilitato a riunirsi senza un permesso speciale, anche solo per una sepoltura – dovrà attendere molto tempo prima di poter anche solo metterla in questione. Machiavelli, scrivendo un secolo e mezzo dopo l’evento, in un periodo di completa pacificazione sociale, tre secoli prima che la dottrina del materialismo storico fosse elaborata, ha comunque saputo, con l’eccezionale penetrazione che gli è propria, discernere le cause dell’insurrezione e analizzare i rapporti di classe che ne hanno determinato il corso. Il suo racconto dell’insurrezione, che qui proponiamo5, è – a dispetto di un’apparente ostilità nei confronti degli insorti, che egli, a torto, scambia per dei saccheggiatori – decisamente più pregevole per la strabiliante precisione con cui risponde alle nostre preoccupazioni attuali che per il carattere accattivante della narrazione e la bellezza dello stile. (Tr. it. dal francese di Rita Fulco)
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Simone Weil si riferisce alla traduzione di suo pugno di Machiavelli, Istorie fiorentine, Libro III, capp. 12-17, apparsa di seguito a questo suo articolo nella rivista «La critique sociale»; cfr. supra, nota 1 [n.d.t.].
Pensare l’evento nella congiuntura: Simone Weil e Machiavelli Rita Fulco
Il motivo principale per cui Simone Weil si dedica alla traduzione e al commento dei capitoli XII-XVII del Libro III delle Istorie fiorentine di Machiavelli viene esplicitato alla fine dell’articolo ad essi dedicato, Un soulèvement prolétarien à Florence au XIVe siècle1: la posta in gioco, il suo obiettivo, è quello di rispondere alle «preoccupazioni attuali»2, e Machiavelli, a suo avviso, lo fa con «strabiliante precisione»3. Quella di Weil su Machiavelli si presenta, dunque, come un’indagine critica con uno sguardo costantemente rivolto all’attualità, di cui questo saggio rappresenta uno dei vertici4. Tuttavia, esso 1
Simone Weil, Un soulèvement prolétarien à Florence au XIVe siècle, in Écrits historiques et politiques. L’engagement syndical (1927-juillet 1934), in Œuvres complètes, tome II, vol. 1, textes rassemblés, introduits et annotés par G. Leroy, Gallimard, Paris 1988, p. 341; tr. it. di R. Fulco, Un tumulto proletario nella Firenze del XIV secolo, in Rita Fulco, Andrea Moresco (a cura di), Sull’evento. Filosofia, storia, biopolitica, Almanacco di Filosofia e Politica 4, Quodlibet, Macerata 2022, pp. 305-312. In Francia, il commento weiliano è stato pubblicato, insieme alla sua traduzione dei capitoli di Machiavelli, anche in un’edizione specificamente dedicata: Nicolas Machiavel & Simone Weil, La révolte des Ciompi, CMDE & Smolny, Toulouse 2013. 2 Weil, Un tumulto proletario nella Firenze del XIV secolo cit., p. 312. 3 Ibid. 4 La prima lettura delle opere di Machiavelli da parte di Weil risale al periodo di studio per l’agrégation. Da quel momento, tuttavia, i riferimenti al suo pensiero restano costanti. Una delle ripetute riletture delle opere di Machiavelli avvenne in occasione del viaggio in Italia, nel 1937. Di essa restano tracce e commenti nelle lettere inviate all’amico Jean Posternak da Firenze: «qui ho riletto con passione le Istorie fiorentine di Machiavelli. Vi sono dei brani ancor più belli di Tacito, ammesso che vi possa essere qualcosa di più bello di Tacito» (Simone Weil, Lettre II à Jean Posternak, «Cahiers Simone Weil», 2, 1987, p. 107; tr. it. e cura di D. Canciani, M.A. Vito, A Jean Posternak, II, Firenze [maggio 1937], in Simone Weil, Viaggio in Italia, Castelvecchi, Roma 2015, p. 35). Sul rapporto tra Weil e Machiavelli, cfr.: André Mansau, Simone Weil devant Machiavel, in Georges Barthouil (a cura di), Machiavelli attuale, Longo, Ravenna 1982, pp. 131-137; Gennaro Barbuto, Simone Weil e Machiavelli, in Alessandro Campi, Stefano De Luca (a cura di), Il realismo
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è destinato a rimanere un unicum all’interno delle opere weiliane, non essendo preceduto né seguito da altri esplicitamente dedicati a Machiavelli, e, probabilmente, non sarebbe stato scritto se Weil non avesse collaborato alla rivista diretta da Boris Souvarine, «La critique sociale», nella quale venne pubblicato nel maggio 19345. Quali siano le preoccupazioni del momento in cui Weil scrive è palese: in tutto l’Occidente la crisi economica del 1929, con le note terribili conseguenze, aveva esasperato il malcontento, suscitando disordini e proteste; Hitler aveva preso il potere l’anno precedente; Mussolini governava l’Italia da oltre un decennio, più o meno come Miguel Primo de Rivera, dittatore in Spagna dal 1923 al 1930, al quale succederà, dopo gli anni della Seconda Repubblica, Francisco Franco, nel 1939; per non parlare della complessa situazione dell’URSS, alla quale Weil aveva già dedicato riflessioni critiche pungenti e teoreticamente originali6. Fin dal 1931, d’altra parte, anno in cui incontra il gruppo di sindacalisti espulsi dal partito comunista che politico. Figure, concetti, prospettive di ricerca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, pp. 173-190; Rosa Rius Gatell, Simone Weil lectora de Maquiavelo, in Carmen Revilla, Emilia Bea (eds.), Simone Weil, Eudeba-Katz, Buenos Aires 2018, pp. 77-98. Tra gli innumerevoli studi su Machiavelli, mi limito a segnalare John P. McCormick, Machiavellian Democracy, Cambridge University Press, Cambridge 2011, che legge Machiavelli con l’attenzione puntata all’attualità e alle sue contraddizioni, provando a cogliervi intuizioni e strategie che consentano un possibile rinnovamento delle istituzioni contemporanee. 5 La vicinanza a Boris Souvarine, all’ambiente della rivista «La critique sociale» e al suo Cercle communiste démocratique sono stati l’occasione di importanti confronti e riflessioni per Simone Weil, ma anche un momento cruciale per ridefinire e perfezionare le sue posizioni rispetto alla sinistra rivoluzionaria, sindacalista e trotzkista, con cui aveva lottato e riflettuto fino a quel momento. Sull’ambiente intellettuale nella Francia degli anni Trenta si vedano i volumi di Domenico Canciani, Simone Weil. Il coraggio di pensare. Impegno e riflessione politica tra le due guerre, Edizioni Lavoro, Roma 1996, nonché l’edizione ampliata Domenico Canciani, Simone Weil. Le courage de penser, Beauchesne, Paris 2011. 6 Penso, ad esempio, al progetto di articolo del 1933, Simone Weil, Réflexions concernant la technocratie, le national-socialisme, l’U.R.S.S. et quelques autres points, in Ead., Écrits historiques et politiques. L’engagement syndical (1927-juillet 1934) cit.; tr. it. di L. Basile, Riflessioni sulla tecnocrazia, il nazional-socialismo, l’URSS ecc., in Oppressione e libertà, Orthotes, Napoli-Salerno 2015, pp. 43-46. Ma penso anche al concetto di «oppressione in nome della funzione» che analizza, sempre nel 1934, in Simone Weil, Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale, in Écrits historiques et politiques. L’expérience ouvrière et l’adieu à la révolution (juillet 1934-juin 1937), in Œuvres complètes, tome II, vol. 2, textes rassemblés, introduits et annotés par G. Leroy et A. Roche, Gallimard, Paris 1991, pp. 9-127; tr. it. e cura di G. Gaeta, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano 1983.
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avevano dato vita alla rivista «La révolution prolétarienne», Simone Weil aveva scelto di impegnarsi sul fronte sindacale e non su quello del partito, che, non a caso, criticherà duramente fino agli ultimi anni della sua vita7. Solo alcuni anni più tardi, nel 1936, il governo di Léon Blum accenderà le speranze del Fronte Popolare francese, e, ovviamente, di Simone Weil, che, dopo il suo fallimento, non a caso, criticherà Blum evocando nuovamente Machiavelli: Un’intelligenza non può essere per nulla vigorosa senza un po’ di cinismo, e il cinismo raramente si accompagna allo spirito civico. Mussolini ha letto e meditato Machiavelli; lo ha compreso e non ha fatto che metterlo in pratica. Léon Blum non si è certamente formato sulla lettura di Machiavelli, quel fisico del potere politico. Una tale formazione gli avrebbe impedito di trascurare alcune massime luminose che stanno all’esercizio del potere come il solfeggio al canto8.
Tale critica rivela un tratto peculiare della riflessione politica di Weil, che definirei un «pensare nella congiuntura», come Althusser affermerà proprio a proposito di Machiavelli: pensare nella congiuntura, infatti, significa «tener conto di tutte le determinazioni, di tutte le circostanze concrete esistenti, passarle in rassegna, farne il 7
Come precisa Giancarlo Gaeta, «nella tradizione antiautoritaria e individualista del sindacalismo rivoluzionario d’anteguerra, ripresa dai militanti de “La révolution prolétariénne”, Simone trovava confermato il suo rigetto per gli apparati di partito e più in generale per la forma partito, in quanto strutturalmente incapace di garantire fino in fondo l’interesse dei lavoratori» (Giancarlo Gaeta, L’ideale di una società libera, in Leggere Simone Weil, Quodlibet, Macerata 2018, p. 67). Sulla critica weiliana ai partiti politici mi sono soffermata in Rita Fulco, Una filosofia in atto e pratica: i partiti politici e la degenerazione della democrazia, in Soggettività e potere. Ontologia della vulnerabilità in Simone Weil, Quodlibet, Macerata 2020, pp. 84-93, a cui mi permetto di rinviare. 8 Simone Weil, Ébauches et variantes. V. Méditation sur un cadavre, in Écrits historiques et politiques. Vers la guerre (1937-1940), in Œuvres complètes, tome II, vol. 3, textes établis, présentés et annotés par S. Fraisse, Gallimard, Paris 1989, p. 289 [traduzione mia]. Il progetto di articolo sulla fine del governo Blum era stato redatto da Weil nel 1937, tentando di analizzare le cause della débâcle: cfr. Simone Weil, Méditation sur un cadavre, ivi, pp. 74-77. Simone Weil conosceva bene l’introduzione di Mussolini al Principe di Machiavelli, nella traduzione di Noël Pinelli (Hellen et Sergent, Paris 1928), ma anche nella versione in italiano apparsa sulla rivista «Gerarchia» dell’aprile 1924, dalla quale, probabilmente, traduce l’ampio brano commentato in Simone Weil, L’Europe en guerre pour la Tchécoslovaquie?, in Écrits historiques et politiques. Vers la guerre (1937-1940) cit.; tr. it. di D. Zazzi, L’Europa in guerra per la Cecoslovacchia?, in Simone Weil, Sulla guerra. Scritti 1933-1943, a cura di D. Zazzi, Pratiche, Milano 1998, p. 80.
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rendiconto e il confronto […]. Pensare sotto la congiuntura significa letteralmente sottomettersi al problema che produce e impone il suo caso»9. È quello che Simone Weil tenta di fare anche negli anni successivi – a dispetto di quanto riterranno, nel periodo londinese, i suoi compagni di France Libre, i quali trovavano, non di rado, irricevibili molte delle sue precise e schiette osservazioni10. Weil era sempre attenta a non nascondersi le contraddizioni insite nella realtà, cercando, piuttosto, di sviscerarne tutte le possibili conseguenze e implicazioni; quindi valutando e proponendo mezzi adatti a perseguire determinati fini, rigorosamente all’interno della particolare fase storica presa in considerazione. Attitudine tipica di Machiavelli, di cui Weil ammirava la lucidità analitica, come esplicitamente emerge anche dalle lezioni di filosofia alle allieve di Roanne: «Machiavelli opera una separazione completa tra la forza e il diritto. Confondere volontariamente la forza e il diritto è il principale baluardo dei tiranni. Bisogna dunque essere riconoscenti a Machiavelli per aver compiuto questa analisi. Il suo cinismo mostra la forza pura»11. Un giudizio positivo che resterà invariato, tanto che, nel 1943, cioè circa dieci anni più tardi, ritorna sulla questione più o meno con gli stessi termini elogiativi: «L’idea di elaborare una meccanica dei rapporti sociali è stata prefigurata da molti spiriti lucidi. Senz’altro da Machiavelli. 9 Louis Althusser, Machiavel et nous, in Écrits historiques et politiques, tome II, textes réunis et présentés par F. Matheron, Stock/IMEC, Paris 1995; tr. it. di M.T. Ricci, Machiavelli e noi, manifestolibri, Roma 1999, pp. 36-37. La congiuntura, per Althusser, «non è dunque il semplice riassunto dei suoi elementi, l’enumerazione delle circostanze diverse, ma il loro sistema contraddittorio che pone il problema politico e designa la sua soluzione storica, e dunque ipso facto un obiettivo politico, un compito pratico» (ivi, p. 38). 10 Per gli scritti di New York e Londra si veda Simone Weil, Écrits de New York et de Londres. Questions politiques et religieuses (1942-1943), in Œuvres complètes, tome V, vol. 1, textes établis, présentés et annotés par R. Chenavier, J. Riaud e P. Rolland, avec la collaboration de M.-N. Chenavier-Jullien et F. Durand-Échard, Gallimard, Paris 2019; tr. it. parziale e cura di D. Canciani, M.A. Vito, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, Castelvecchi, Roma 2013; Simone Weil, Écrits de New York et de Londres. L’Enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain (1943), in Œuvres complètes, tome V, vol. 2, textes établis, présentés et annotés par R. Chenavier et P. Rolland, collaboration de M.-N. Chenavier, Gallimard, Paris 2013; tr. it. parziale di F. Fortini, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, SE, Milano 1990. 11 Simone Weil, Leçons de philosophie (Roanne 1933-1934), présentées par A. Reynaud-Guérithault, Plon, Paris 1959; tr. it. di L. Nocentini, Lezioni di filosofia (19331934), a cura di M.C. Sala, Adelphi, Milano 1999, p. 172.
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Come nella meccanica propriamente detta, la nozione fondamentale sarebbe quella di forza»12. La congiuntura nella quale Weil si trovava richiedeva di analizzare, criticare, ma anche utilizzare la forza, nel modo più lucido possibile13. Soprattutto, richiedeva di riflettere sulla possibilità che un soggetto politico diverso da quello dei governi totalitari e dei loro sostenitori riuscisse a emergere e agire in modo efficace. In sostanza, la questione era quella delle condizioni materiali di esistenza di un popolo, in una congiuntura in cui l’azione non poteva che declinarsi in termini tragici14. La scelta di commentare il tumulto dei Ciompi è, dunque, compiuta da Weil in modo assolutamente scientifico, in quanto rispondente alla congiuntura che la vedeva coinvolta. L’epoca presente aveva bisogno, per compiere una lucida auto-analisi, di leggere Machiavelli e, in particolare, di riflettere sul tumulto dei Ciompi, primo esempio di sollevazione proletaria della storia, secondo Weil15. Tutta la prima parte del commento è dedicata a chiarire, con grande precisione, la collocazione dei Ciompi all’interno della variegata stratificazione di “classe” nella Firenze del tempo. Seguen12 Simone Weil, Y a-t-il une doctrine marxiste? Ébauches d’une autre rédaction, in Écrits de New York et de Londres, vol. I, Questions politiques et religieuses (1942-1943) cit., p. 607. 13 Si vedano, in questo orizzonte, le acute riflessioni di Roberto Esposito, Forze e Nel pugno di Amore, in Id., L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 20142, rispettivamente pp. 63-71 e 101-109. 14 Lo dice molto bene Valérie Gérard: «la resistenza a un’aggressione militare e la rivolta contro l’oppressione sono posizioni politiche necessariamente tragiche, in quanto battaglie imposte dall’avversario e in quanto obbligano a ricorrere a un’arte politica che rischia di essere in contraddizione con gli scopi della lotta politica condotta. […] La forza del pensiero di Simone Weil è, in effetti, quella di affermare insieme, da un lato, la necessità e la difficoltà per un gruppo di costituirsi come forza politica e, dall’altro, la sua propria reticenza ad accettare questa necessità» (Le contradictions du pouvoir politique, in Valérie Gérard (dir.), Simone Weil, lectures politiques, Éditions Rue d’Ulm, Paris 2011, pp. 116117, traduzione mia). 15 Le cronache dell’epoca che narrano questo evento sono raccolte nel tomo XVIII, vol. 3, del monumentale Rerum italicarum scriptores: cfr. Gino Scaramella (a cura di), Il tumulto dei Ciompi. Cronache e memorie, Zanichelli, Bologna 1917-1934, diponibile online (https://www.centrostudimuratoriani.it/strumenti/ris-2-tomo-18-1-2-3/). A proposito della denominazione “Ciompi”, nonché della genealogia e delle implicazioni di questo racconto all’interno dell’opera di Machiavelli, molto interessanti sono le analisi di Jean-Claude Zancarini, La révolte des Ciompi: Machiavel, ses sources et ses lecteurs, «Cahiers philosophiques (SCEREN)», 2004, halshs-00419112fit., pp. 9-22, disponibile online (https://halshs. archives-ouvertes.fr/halshs-00419112/document).
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do Machiavelli, Weil propone un’analisi delle singole arti e dei gruppi di lavoratori non appartenenti a nessuna arte; mette in evidenza, inoltre, quei rapporti di potere che, di fatto, collocavano i Ciompi tra i più reietti della popolazione fiorentina. Machiavelli è, per Weil, colui che, per primo, ha preconizzato e descritto proprio la lotta di classe: «tre secoli prima che la dottrina del materialismo storico fosse elaborata, ha comunque saputo, con l’eccezionale penetrazione che gli è propria, discernere le cause dell’insurrezione e analizzare i rapporti di classe che ne hanno determinato il corso»16. È anche per questo motivo che il tumulto appare come un vero e proprio evento. Un evento che si è prodotto secondo una certa forma, individuabile da caratteristiche che, nel fluire della storia, costituiranno poi, secondo l’interpretazione di Weil, delle regolarità. L’individuazione di forme ripetute in eventi eterogenei e lontani nel tempo è una scelta ermeneutica di Weil, che attua una problematica serie di slittamenti semantici che caratterizzeranno altre letture marxiste di Machiavelli, focalizzate sui medesimi snodi17. L’anacronia del vocabolario weiliano va di pari passo con l’obiettivo della comprensione e interpretazione del contemporaneo, costituendone, anzi, la struttura portante18. L’utilizzo, nel commento al racconto di Machiavelli, di termini come “piccola, media e grande borghesia”, “proletariato”, “lotta di classe”, o di asserzioni in cui passato e presente vengono sovrapposti in modo palese – in questo quadro vanno
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Weil, Un tumulto proletario nella Firenze del XIV secolo cit., p. 312. A proposito della lettura weiliana di Machiavelli, Zancarini ritiene che «le sue considerazioni sull’interesse del testo sono emblematiche delle letture radicali di Machiavelli. Il senso che Weil tende a conferire all’evento poggia su una concezione decisamente teleologica della storia. […] il vocabolario per la descrizione del corpo politico utilizzato da Machiavelli è tradotto in un vocabolario di analisi marxista […]. Queste caratteristiche della lettura marxista radicale, spinte alle loro più assolute conseguenze dall’intelligenza brillante di Simone Weil, non cambieranno praticamente più» (La révolte des Ciompi: Machiavel, ses sources et ses lecteurs cit., pp. 17-18, traduzione mia). Un’interessante posizione, critica, rispetto all’interpretazione delle Istorie fiorentine proposta da Zancarini, è quella di Francesco Marchesi, che si sofferma in modo dettagliato anche sull’analisi e sull’interpretazione del tumulto dei Ciompi: cfr. Francesco Marchesi, Movimento apparente, in Riscontro. Pratica politica e congiuntura storica in Niccolò Machiavelli, Quodlibet, Macerata 2017, in particolare le pp. 241-265. 18 Sull’importanza degli anacronismi in filosofia si è soffermato Roberto Esposito, Anacronismi, in Termini della politica, vol. II, Politica e pensiero, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 161-174. 17
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inserite affermazioni come quelle sul “proletariato appena formato”, che, ritirandosi a Santa Maria Novella, ha dato vita a «un governo extra-legale che somiglia singolarmente a un soviet»19 – caratterizzano la lettura radicale di Simone Weil. Nonostante l’evidente parteggiare di Weil per i “proletari” della Firenze del XIV secolo, la sua lettura dell’evento del tumulto dei Ciompi è stata interpretata anche come una narrazione volta a dimostrare che – a partire dall’inflessibilità di alcune leggi che determinano, di fatto, i fenomeni sociali – le insurrezioni originate “dal basso”, dai più poveri tra gli operai, come era il caso dei Ciompi, siano destinate fin dall’inizio a fallire20. Non credo che l’obiettivo di Simone Weil fosse questo, ma certamente la lucidità con cui decostruisce l’immagine stereotipata di una Firenze come Repubblica di artigiani mira a mettere in luce, con la più grande precisione possibile, quali rapporti di forza abbiano determinato la sconfitta del popolo minuto. Il dato a suo avviso più evidente è che le corporazioni del XIV secolo fossero del tutto differenti da quelle medievali, che, a partire dal XII secolo, erano riuscite a ottenere un reale peso politico nelle amministrazioni cittadine, consentendo ai lavoratori una partecipazione concreta all’interno delle singole arti. A suo avviso Firenze era, infatti – ulteriore e deliberato anacronismo semantico –, «direttamente nelle mani del capitale bancario, commerciale e industriale»21, mentre le corporazioni erano, sostanzialmente, «non delle corporazioni, ma dei sindacati patronali»22. Nessuna cessione, dunque, all’immagine utopica di una classe proletaria capace di determinare le sorti dello Stato. Il popolo minuto era sbeffeggiato, disprezzato da tutti, e il fatto che i tintori si fossero, in quella circostanza, alleati con esso, non segnò una svolta nello status quo delle forze in gioco. Si trattò esclusivamente di opportunismo. Weil vuole offrire degli elementi di riflessione ai suoi compagni di lotta: in tutta Europa il ruolo del Partito Comunista, come anche del sindacalismo rivoluzionario, per non parlare di quello dei socialisti riformisti, avrebbe dovuto essere determinante nella lotta contro i 19
Weil, Un tumulto proletario nella Firenze del XIV secolo cit., p. 311. Cfr. E. Jane Doering, Un soulèvement à Florence, in Deux chemins divergents vers le surnaturel. Simone Weil et Raïssa Maritain, «Cahiers Simone Weil», 1, 2015, pp. 21-25. 21 Weil, Un tumulto proletario nella Firenze del XIV secolo cit., p. 306. 22 Ibid. 20
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fascismi. Le impressioni che Weil aveva riportato dal suo viaggio in Germania – dove si era fermata soprattutto a Berlino, tra la fine di luglio e i primi di settembre del 1932 – erano del tutto opposte: nella serie di acuti e lucidissimi articoli scritti al suo ritorno, la paralisi che, per differenti ragioni, aveva bloccato l’energia rivoluzionaria – che in Germania era, a suo avviso, palpabile – le appariva sconcertante. Qui tutti i problemi che, a diversi livelli, attanagliavano l’Europa, avevano assunto proporzioni epocali, tanto da fare di essa, come aveva ben visto Trotzkij23, il baricentro della situazione mondiale: «quanti hanno riposto tutte le loro speranze nella vittoria della classe operaia, e anche quanti tengono a conservare le antiche conquiste della borghesia liberale, debbono in questo momento volgere lo sguardo verso la Germania. La Germania è il paese in cui si pone il problema del regime sociale»24. Weil osserva la Germania, l’Europa e il mondo intero a partire da quella congiuntura in cui ogni cosa sembrava ancora possibile, ma in cui le variegate e litigiose frange della sinistra europea restavano inerti, in attesa, a partire anche da decisioni prese in precedenza, che avevano tolto potere e capacità di azione alla classe operaia tedesca, nonostante essa fosse «la più matura, la più disciplinata, la più colta al mondo»25. Dunque, la descrizione della sconfitta del popolo minuto della Firenze del XIV secolo non ha importanza in quanto sconfitta, ma proprio perché Machiavelli riesce a far emergere i motivi di una tale sconfitta. Negli anni Trenta Simone Weil credeva ancora nella lotta di classe, e lo scritto del 1934 è forse una delle ultime testimonianze di questa sua posizione, lontana dal riformismo, come conferma l’ironico e severo giudizio su Michele di Lando, che, a suo avviso, fece «ciò che, al suo posto, avrebbe fatto qualsiasi capo di Stato social-
23 Cfr. la recensione di Weil all’opuscolo di Trotzkij, Et maintenant? (Rieder, Paris 1932): Simone Weil, Condition d’une révolution allemande. Et maintenant?, par Léon Trotsky, in Écrits historiques et politiques, vol. I, L’engagement syndical (1927-juillet 1934) cit.; tr. it. e cura di G. Gaeta, Condizioni di una rivoluzione tedesca, in Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano 1990, pp. 13-23. Sul concetto di rivoluzione in Weil si veda Scott B. Ritner, Simone Weil’s Heterodox Marxism: Revolutionary Pessimism and the Politics of Resistance, in Sophie Bourgault, Julie Daigle (eds.), Simone Weil, Beyond Ideology?, Palgrave Macmillan, Cham 2020, pp. 185-206. 24 Weil, La situazione in Germania I, in Sulla Germania totalitaria cit., p. 70. 25 Ivi, p. 76.
pensare l’evento nella congiuntura: simone weil e machiavelli
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democratico: si rivoltò contro i suoi vecchi compagni di lavoro»26. Emerge anche la consapevolezza che alcune regolarità nel darsi degli eventi avrebbero potuto aiutare a governarli in modo più lucido: un tumulto non accade mai all’improvviso, e ogni scelta fatta in passato influisce sull’avvenire, anche sull’avvenire dell’evento, per quanto paradossale ciò possa apparire. In questo senso si comprende perché Weil risalga fino alla tirannia del Duca di Atene, nel 1342, per spiegare il ruolo assunto dai “proletari”, ma anche per comprenderne la sconfitta. Ciò non vuol dire, però, che un evento sia totalmente padroneggiabile, come lo stesso Machiavelli, che Weil cita direttamente, insegna: «non sia alcuno che muova una alterazione in una città, per credere poi, o fermarla a sua posta, o regolarla a suo modo»27. Cosa è mancato dunque, e cosa continuava a mancare, alla sinistra, sia essa rivoluzionaria che riformista, nei convulsi anni Trenta? Forse esattamente ciò che Weil rimprovererà, nel 1936, a Léon Blum: la lucidità, la chiaroveggenza, la capacità di analizzare le contraddizioni. Mancava, insomma, il realismo e l’acutezza di Machiavelli. L’articolo pubblicato sulla «Critique sociale» voleva essere un segnavia, un’indicazione metodologica, ma anche un’azione politica, attraverso quell’opera di traduzione e di “trasposizione” che è, a mio avviso, il carattere costante, e mai abbandonato, della pratica di pensiero e della pratica politica di Weil28. Non a caso, coerentemente con quanto richiesto ai compagni di lotta, Weil deciderà, in quegli stessi anni, di ritirarsi dall’azione politica diretta, dedicandosi, da un lato, all’esperienza del lavoro in fabbrica29, e, dall’altro, alla ricerca teorica, che prenderà corpo nel suo testo più strutturato di quegli anni, cioè Réflexions sur le causes de la liberté et de l’oppression 26
Weil, Un tumulto proletario nella Firenze del XIV secolo cit., p. 311. Niccolò Machiavelli, Istorie Fiorentine, Libro III, cap. 10, in Tutte le opere. Secondo l’edizione di Mario Martelli 1971 cit., p. 1823. 28 Non a caso, nell’ultimo convegno internazionale di Cerisy-la-Salle dedicato, nel 2017, a Simone Weil (http://www.ccic-cerisy.asso.fr/simoneweil17.html), si è scelto il termine “trasposizione” come chiave ermeneutica per l’intera opera weiliana, cfr. Robert Chenavier, Thomas Pavel (dir.), Simone Weil, réception et transposition, Classiques Garnier, Paris 2019. 29 Cfr. in particolare, Simone Weil, Journal d’usine, in Écrits historiques et politiques, vol. II, L’expérience ouvrière et l’adieu à la révolution (juillet 1934-juin 1937) cit.; tr. it. e cura di M.C. Sala, Diario di fabbrica, in Simone Weil, Diario di fabbrica, Marietti, Genova 2015, pp. 15-119. 27
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sociale: «Si tratta in definitiva di conoscere ciò che lega l’oppressione in generale e ogni forma di oppressione in particolare al regime della produzione; in altre parole di arrivare a cogliere il meccanismo dell’oppressione, a comprendere in virtù di che cosa essa sorge, sussiste, si trasforma, in virtù di che cosa potrebbe forse teoricamente sparire. È questa una questione nuova, o quasi»30. Seguendo, sempre in modo critico, la lezione di Machiavelli e di Marx, Simone Weil – ben lungi da una svolta esclusivamente mistica – ha portato avanti questa ricerca fino alla fine, purtroppo avvenuta troppo prematuramente, dei suoi giorni31.
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Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale cit., pp. 37-38. Roberto Esposito, opponendosi giustamente alle interpretazioni che separano in modo netto, nel pensiero weiliano, una presunta fase “politica” da una “mistica”, sottolinea la vicinanza di Simone Weil al realismo di Machiavelli: «Naturalmente qualcosa cambia; e in maniera affatto evidente. Ma non certo relativamente all’interesse per la politica – vivissimo fino agli ultimi mesi prima della morte. E nemmeno al taglio analitico che, semmai, come si diceva, si fa più asciutto, aspro, volutamente “machiavelliano”, come dimostrano vari testi degli anni ’40 (e, prima di tutti, quello, giustamente famoso, sull’Iliade) […]. Ora ciò che va rilevato è che non solo questo spostamento non determina esiti, come dire, “recessivi”, di indebolimento, sul piano concettuale e semantico; ma al contrario implica, proprio per lo sdoppiamento prodotto, un rafforzamento, una intensificazione, dello sguardo su un oggetto ormai esterno, e, perciò stesso, meglio focalizzato» (Categorie dell’impolitico, il Mulino, Bologna 1988, pp. 217-218). Quest’attenzione di Esposito è tanto più significativa in quanto, oltre a conoscere perfettamente il pensiero weiliano, Esposito ha lavorato su Machiavelli – che è rimasto un suo punto di riferimento anche nei lavori più recenti – fin dagli esordi della sua ricerca, cfr.: Roberto Esposito, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, Liguori, Napoli 1984. Il testo sull’Iliade a cui Esposito accenna è il più importante saggio di Weil sulla nozione di forza: cfr. Simone Weil, L’Iliade ou le poème de la force, in Écrits historiques et politiques. Vers la guerre (1937-1940) cit.; tr. it. di G. Gaeta, L’Iliade o il poema della forza, in Simone Weil, La rivelazione greca, a cura di M.C. Sala e G. Gaeta, Adelphi, Milano 2014, pp. 33-64. 31
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almanacco di filosofia e politica
Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi (a cura di), Almanacco di Filosofia e Politica i. Crisi dell’immanenza. Potere, conflitto, istituzione Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi, Elia Zaru (a cura di), Almanacco di Filosofia e Politica ii. Istituzione. Filosofia, politica, storia Andrea Di Gesu, Paolo Missiroli (a cura di), Res publica. La forma del conflitto Rita Fulco, Andrea Moresco (a cura di), Sull’evento. Filosofia, storia, biopolitica
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