Alle origini di Gomorra. Salvatore Piscicelli tra «nuovo» cinema e neotelevisione 8820751038, 9788820751036

Alla fine degli anni '70 l'Italia vive un passaggio cruciale. Non solo politico e sociale, ma anche (e sopratt

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Italian Pages 176 [172] Year 2011

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Alle origini di Gomorra. Salvatore Piscicelli tra «nuovo» cinema e neotelevisione
 8820751038, 9788820751036

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Cinema e storia 17 Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 12/10/2019

Collana diretta da Pasquale Iaccio

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Francesco Crispino

Alle origini di Gomorra Salvatore Piscicelli tra Nuovo cinema e Neotelevisione

ISSN 1828-8413

Liguori Editore

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2. Nuovo cinema napoletano

I. Titolo

II. Collana III. Serie

Aggiornamenti: ————————————————————————————————————————— 17 16 15 14 13 12 11 10 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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INDICE

XI

Prefazione di Franco Monteleone

1

Capitolo I Tra cinema e televisione Per un’estetica intermediale 1; Un’anima divisa in due 3; La nuova gioventù 6; Modi di produzione 9.

13

Capitolo II La televisione come materiale nel primo cinema di Salvatore Piscicelli Le origini della “doppia anima” 13; Il cinema militante e il ritrattismo antropologico 17; Immacolata e Concetta 25; Bestiario metropolitano 45; Le occasioni di Rosa 53; Le nuove occasioni 72.

79

Capitolo III Perché la televisione italiana ha smesso di produrre talenti Un’altra storia possibile 79; Dal cinema alla fiction 81; Governare il cambiamento 84; Il “nuovo cinema napoletano” 89.

93

Appendice Le sceneggiature desunte 95; Filmografia, 119; Bibliografia 125.

135

Indice dei nomi

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ABBREVIAZIONE CL CLL CM FI INQ. INQQ. MCL MDP MF MPP PA PAN. PP PPP SEQ. SEQQ.

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campo lungo campo lunghissimo campo medio figura intera inquadratura inquadrature mezzo campo lungo macchina da presa mezza figura mezzo primo piano piano americano panoramica/panoramiche primo piano primissimo piano sequenza sequenze

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Se penso che il passato non poteva andare diversamente, vuol dire che anche il presente non può andare diversamente. E allora sono un conservatore. Ma cosa vuol dire essere un conservatore? Che lascio fare a quelli che comandano, e questo non è accettabile. Se penso che si può cambiare il rapporto di forza sociale, religioso, politico, ideale, vuol dire che penso che una cosa può cambiare. Cosa vuol dire cambiare? Vuol dire scegliere tra varie possibilità. Ecco perché la Storia si fa con i “se”. Il passato è chiuso, ma il presente e il futuro si fanno con i “se”. Vittorio Foa

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Questo libro è il risultato dell’elaborazione della mia tesi di dottorato di ricerca. Nelle diverse stesure prodotte ho dunque avuto il supporto di molti amici e collaboratori, che ringrazio per le indicazioni e i consigli, molti dei quali mi sono stati utili per arricchire il testo. Desidero, però, ringraziare in modo particolare Salvatore Piscicelli e Carla Apuzzo, che mi hanno aiutato fin dalla prima ora, dimostrando sempre grande disponibilità e mettendomi a disposizione tutto il materiale inedito, poi confluito nella ricerca. Senza il loro ausilio questo libro non sarebbe stato possibile. Con loro, ringrazio anche Giannantonio Marcon, Paolo Russo, Adriano Aprà, Paolo Bertetto, Stefania Carpiceci, oltre naturalmente a Pasquale Iaccio e l’editore Liguori per aver apprezzato e reso “visibile” questo studio. A Vito Zagarrio, il primo ad essere convinto della bontà della ricerca, va poi un ringraziamento speciale per avermi spronato a portare avanti questo lavoro, soprattutto nei momenti difficili. Il ringraziamento più grande va a Franco Monteleone, il confronto con il quale è stato fondamentale per far lievitare il discorso e i cui preziosi quanto puntuali consigli sono stati per me indispensabili. Infine, ringrazio Lino Miccichè, da cui ho appreso il metodo di analisi filmica. A lui questo libro è dedicato.

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PREFAZIONE di Franco Monteleone

Questo libro di Francesco Crispino non è solo un eccellente saggio di filmografia. Il suo merito sta anche – e forse soprattutto – nell’aver saputo individuare l’originalità della correlazione “disarmonica” che si è venuta formando tra la personalità di un regista come Salvatore Piscicelli e il suo retroterra socioetnografico, l’area della provincia napoletana, ricca di fermenti autenticamente popolari, che negli anni centrali della seconda metà del secolo scorso viene interessata da un intenso stravolgimento del suo tessuto sociale. Come è noto, si verifica allora in quei luoghi un repentino cambiamento della loro tradizionale fisionomia agricola. Il nuovo insediamento industriale dell’Alfasud, che manca ovviamente di una radicata cultura operaia, si affianca allo stabilimento dell’Italsider di Bagnoli – rimodellando l’intero bacino produttivo regionale – proprio nel momento in cui la vecchia e solida cultura operaia dell’altoforno meridionale stava scomparendo per effetto della crisi siderurgica. Da sedimento di miti, di riti e di memorie ancestrali, quell’area finisce per trasformarsi in un perverso crogiuolo di neosviluppo, che assume tutti i caratteri della cosiddetta postmodernità, fondati sulle logiche di una tumultuosa quanto sregolata crescita economica. Questo saggio sul cinema di Piscicelli è quindi una suggestiva “carrellata” sull’immagine di quella instabile marca territoriale, campana e non solo napoletana, che andava delineandosi fra gli anni settanta e i primi anni ottanta del secolo scorso. Ne scaturisce il ritratto di un ampio insediamento urbano, una estesa periferia che mostra già il degrado della sua condizione sociale, il malessere dovuto alla precarietà del lavoro, il diffondersi di quella marginalità di ampie fasce di popolo, frutto di un incrocio atavico fra sensitività,

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PREFAZIONE

animosità, astuzia, precarietà e delinquenza che da sempre ne aveva connotato il destino. Il libro mette in evidenza anche il contesto più specificamente cittadino entro il quale avviene la maturazione professionale e artistica di Piscicelli: il periodo giovanile della formazione nella Napoli dei quartieri, il suo approdo alla professione di cineasta, il suo incontro con il mezzo televisivo, la sua esperienza esistenziale dell’area da cui proveniva, Pomigliano d’Arco, e infine il suo approdo a Roma, esito indispensabile per il successo. È un contesto che l’autore di questa prefazione ben conosce, per averlo vissuto come dirigente della neonata Terza Rete regionale della RAI, e che Crispino descrive assai bene ricollocandolo all’interno dell’indagine che egli compie sulle opere del regista. È un contesto che, da allora, ha continuato a caratterizzare la cosiddetta “grande” Napoli, sia per la ricchezza espressiva della sua creatività che per la notorietà assunta dai suoi protagonisti: Roberto De Simone, Mario Martone, Annibale Ruccello, Enzo Moscato, cui faranno poi seguito i Corsicato, gli Incerti, i Sorrentino, i Capuano; oltre naturalmente alla folta schiera dei musicisti e dei comici, Pino Daniele, James Senese, Giuliana De Sio, Massimo Troisi, ecc. Salvatore Piscicelli fa parte di questa generazione. Nel 1980 il regista di Pomigliano esordisce sullo schermo con il film Immacolata e Concetta, nel quale si nota subito il lavoro di scavo che egli compie nel sottosuolo antropologico napoletano, colto in un passaggio storico caratterizzato da sommovimenti d’ogni genere, nell’arte e nello spettacolo, così come nella politica e nella malavita, in un intreccio che finirà per connotare una intera epoca, ed esprimerne tutta la dolente singolarità. È un cinema che non si limita al risultato estetico ma che si declina come prodotto naturalistico di un preciso territorio, fisico e mentale, del quale compie una analisi persino impietosa ma sostenuta sempre dalla volontà di comprendere e, in qualche modo, risarcire quello stesso territorio dalle offese della storia. In realtà, per quasi un secolo, non è stato proprio questo il tentativo che si riscontra in tutta quella vasta e variegata produzione cinematografica che ha avuto in Napoli il suo set di elezione; e che, nonostante le numerose derive oleografiche e popolaresche, ha addirittura prodotto un vero e proprio genere cinematografico? Come disse una volta Ettore Scola, Napoli e la Sicilia non sono soltanto spazi territoriali ma autentiche categorie dell’anima. Non a caso la vastissima produzione cinematografica napoletana – fin dai tempi della Dora Film di Elvira Notari, al periodo fascista, al neorealismo, comprese le pellicole di

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PREFAZIONE

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estrazione popolare e locale – si è sempre distinta per la presenza di una forte condizione esistenziale, narrata sia nei generi tipici del dramma che in quelli del melodramma, modulata sia sui toni della passione che della gioia o della speranza; e, infine, inevitabilmente setacciata attraverso il filtro dello stereotipo, cui sempre si ricorre per guardare una realtà che non si vuol vedere, che si vuol mascherare, e che in qualche caso si tenta persino di cannibalizzare. Da tutto ciò Piscicelli prende ovviamente le distanze, così come venti anni prima le aveva prese Franco Rosi con La sfida. È lo sguardo nuovo con cui si comincia a prendere coscienza della città e del suo popolo. Incalzato dalla risonanza scandalosa della vita pubblica, del clientelismo, della corruzione, della Camorra, quello sguardo è a sua volta all’origine di un inedito cinema d’autore che, pur non disdegnando la pluralità dei generi, predilige tuttavia la presa di posizione di un vero “cinema politico”. «Il panorama di quegli anni – osserva Dario Minutolo in un suo articolo della rivista “Nord e Sud”, interamente dedicata a un secolo di cinema napoletano – è quello della colata cementizia che si abbatte sulla città di Napoli deturpandone la bellezza e devastandone il sottosuolo… e che ne condiziona forzatamente lo sviluppo attraverso un costante e irrimediabile peggioramento della vivibilità, della convivenza civile, dell’igiene». Napoli non sarà mai più la stessa: alla nostalgia per l’armonia perduta descritta da Raffaele La Capria, si aggiunge la mutazione fisica della città, lo stravolgimento dei luoghi e dei tempi del suo vivere, in un crescendo perverso che giunge sino al terremoto del 1980. È a questo punto che, nel nuovo stadio temporale dell’industria audiovisiva italiana, entra prepotentemente in scena la televisione, fino ad allora guardata con sospettosa indifferenza. Per molti registi italiani, soprattutto giovani o di recente formazione, già con l’inizio degli anni settanta il cinema per le sale non era più l’unico approdo del mestiere. Sempre più sono gli strumenti dell’antropologia culturale che presiedono al discorso filmico. È da quel momento che la televisione, ancora monopolio della RAI, inizia infatti a perseguire un meritevole esperimento di “politica degli autori”, con risultati ampiamente riconosciuti anche sul piano internazionale. Dopo Immacolata e Concetta, Piscicelli propone, inoltre, alla Terza Rete napoletana una breve serie di ritratti, intitolata Bestiario metropolitano, ove è racchiusa tutta la sua poetica. Alla televisione gli autori cominciano ad attribuire un compito di responsabilità intellettuale che, sul piano politico, era stato il frutto della riforma dell’azienda

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pubblica. La televisione divenne, in quegli anni, una solida scuola di mestiere e un promettente tirocinio di creatività grazie a un uso più responsabile e più pluralistico del mezzo che, dopo solo un decennio, sarà poi stravolto dalle logiche della competizione e del mercato. Da questo punto di vista Bestiario metropolitano può addirittura essere visto come un primo esempio di «intermedialità». Per molti anni il rapporto tra cinema e televisione in Italia non era stato agevole. Ma il bisogno di narrazione e di racconto non poteva sottrarsi al progressivo spostamento, avvenuto in tutto il mondo, dalla ristretta occasione della sala cinematografica alla ricchezza dell’offerta in piena luce dei canali tv. Uno sviluppo che certamente non è stato privo di conseguenze sulla forma e sul linguaggio del nuovo “romanzo popolare”. E dopo i primi anni di esercizio, quando il film d’acquisto viene usato con parsimonia e scelto casualmente nei repertori più popolari, la programmazione di cinema si fa più attenta, fino ad assumere dignità da cineforum. Alla casualità si sostituisce la filosofia della qualità, anche se ancora in una logica di “scaffale”, e il film conquista definitivamente il primato sui generi prediletti dal pubblico televisivo. Tra gli organismi rappresentativi del cinema e la società pubblica di radiotelevisione vengono pattuiti i primi accordi. Il cinema italiano ottiene che sia protetto il circuito della produzione e della distribuzione; in cambio la tv ottiene prezzi di acquisto più vantaggiosi. È un accordo tra “vicini di casa” che tentano di non darsi fastidio e di sfruttare i reciproci vantaggi. La tv rimane chiusa nella sua certezza di cittadella monopolistica, che indubbiamente vede accrescere la sua potenza, il cinema rimane fermo alla consapevolezza di essere l’unico mezzo espressivo in grado di raccontare il Paese. Nel 1968, con Odissea prodotta da Dino De Laurentiis, si era aperta la fase dell’integrazione. Forse la fase più creativa e produttiva nella storia italiana dei rapporti tra i due mezzi. «Sicuramente nei dirigenti di quel periodo – disse in un’intervista Angelo Romanò – c’era anche una concezione della RAI come strumento insostituibile, capace di interpretare, utilizzare e valorizzare, in un progetto di cultura e spettacolo, tutte le risorse che la società poteva offrire. Da qui l’impulso ad affacciarsi su un campo, quello cinematografico, verso cui la RAI, un’azienda tradizionalmente implosa su se stessa, aveva sempre nutrito un atteggiamento di diffidenza». La RAI produsse allora programmi di particolare impegno culturale, ancora liberi dai condizionamenti del mercato e dalle rappresaglie dell’audience: una fase di ricerca e di invenzione esaltante, dalla quale

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nacque anche l’esperienza meritoria dei cosiddetti “Programmi Sperimentali”, realizzazioni a bassissimo costo, vera e propria palestra di esercizio per registi esordienti, alcuni dei quali (come Gianni Amelio) spiccheranno il volo. Una stagione breve, dopo la quale la RAI assumerà sempre più il ruolo di produttore di film destinati ai tradizionali circuiti delle sale. Fu proprio il successo del primo film a puntate a determinare legami più stretti – produttivi, linguistici e distributivi – fra cinema e televisione. Un processo che aveva visto nascere I clowns di Federico Fellini, La strategia del ragno di Bernardo Bertolucci, I recuperanti di Ermanno Olmi, San Michele aveva un gallo di Paolo e Vittorio Taviani. Un processo che aveva inoltre sottratto al cinema, in quanto apparato, uno dei suoi autori più noti e apprezzati in tutto il mondo, Roberto Rossellini. E che farà approdare al piccolo schermo anche Michelangelo Antonioni, con Il Mistero di Oberwald. È in questo clima che inizia a maturare l’autentica vocazione di Salvatore Piscicelli, del quale Francesco Crispino coglie perfettamente la parabola espressiva, tutta racchiusa nel tentativo di rappresentare quella forma di “intermedialità”, fra televisione e cinema, che allora sembrava annunciare una fase promettente di esiti professionali e artistici nella produzione italiana di immaginario. Dopo la riforma della RAI, questa linea già matura di proposta cinematografica sembra continuare indipendentemente dai condizionamenti finanziari e commerciali. Nascono così, nella seconda metà degli anni settanta, grandi film come Padre Padrone, L’albero degli zoccoli, Ligabue, Prova d’orchestra. Il cinema autonomamente prodotto dalla RAI esibisce con orgoglio il suo marchio in giro per il mondo e nei grandi festival internazionali. Con la fine del decennio, sia in Italia, ma un po’ dappertutto in Europa e in America, il modello televisivo si trasforma radicalmente. La tv si accorge che il cinema è un compagno di viaggio molto più utile di quanto non si immagini. La tv è attratta inoltre dalla qualità di un sistema linguistico ed espressivo del quale invidia il “rango” culturale, ovvero tutto quanto costituisce l’esito di quel processo di produzione di immaginario che il cinema aveva messo in atto nel corso della sua evoluzione. La tv, dunque, non solo cita ampiamente il cinema ma se ne appropria come modello semiotico. E, d’altra parte, il cinema usa la tv per sperimentare nuove forme espressive e rintracciare nuovo pubblico. Va ricordato che il comparto dell’industria cinematografica italiana aveva vissuto, per tutti gli anni settanta, una crisi non trascurabile, maturata da una lenta ma costante diminuzione degli spettatori e

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dell’offerta. Quella crisi fu poi bloccata con soluzioni parziali (film a basso costo, argomenti di evasione, sfruttamento di personaggi resi popolari dalla tv). Ma in realtà una politica di autentico respiro produttivo e innovativo, a favore della quale spingevano i numerosissimi convegni di quella stagione, finì per avere pochi esiti, anche se di grande risonanza e prestigio. Alla fine il risultato fu la scelta di una versione autoctona dello schema produttivo hollywoodiano: al cinema la commedia all’italiana, allora in voga, soddisfatta dei rientri del solo mercato interno; alla tv il grande neosceneggiato filmato, spesso coprodotto, e il telefilm a basso costo. L’integrazione fra cinema e televisione, dagli ottanta in poi, si compie sul terreno di quest’ultima, sia nei palinsesti che nella strategie dell’audience. Ma il film non è più un’opera accanto ad altre opere. Il film entra nella nuova dimensione del mercato duopolistico televisivo ed è obbligato a rispettare le regole del “central storytelling system”, tipico della fiction, ovvero quel sistema che sta alla base della supremazia della “televisione generalista” rispetto a qualsiasi mezzo di comunicazione di massa. Forse era fatale che la televisione fosse destinata a diventare il grande mezzo di diffusione del cinema, così come la radio era divenuto il grande mezzo di diffusione della musica. Tuttavia, alla radio la musica è rimasta pur sempre musica, mentre alla televisione – alla fine di questa lunga storia – il cinema è diventato televisione. L’analisi che Francesco Crispino compie sui contenuti e sul linguaggio delle opere di Piscicelli ci avverte infatti che il tentativo intrapreso da alcuni autori nel percorrere una strada diversa da quella che sarà poi effettivamente battuta nell’incontro fra cinema e televisione, in realtà non è riuscito. Non per colpa degli autori, ovviamente, ma a causa della macchina produttiva dei grandi networks televisivi che, negli ultimi venti anni, ha finito per imporre le sue condizioni, non solo sull’informazione, non solo sull’intrattenimento, non solo sulla fiction, come del resto era legittimo, ma soprattutto su quel delicato comparto cinematografico che si era sempre distinto per una cifra stilistica e creativa ad alta caratura “artigianale”. Era stata questa la forza del cinema italiano, che aveva spesso consentito ai suoi grandi (e piccoli) autori di affermarsi con opere profonde e, talvolta, eccelse. Nel successivo processo di sviluppo “industriale” del cosiddetto “audiovisivo” è poi avvenuto qualcosa di irreparabile, almeno in Italia: sono scomparsi i veri produttori; sono andate di conseguenza affermandosi le leadership di Mediaset e RAI, che hanno imposto il

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condizionamento del marchio televisivo come garanzia di affermazione del prodotto filmico. E il “cinema” non ha retto a una forma di dipendenza che, per la maggior parte dei casi, era solo finanziaria o speculativa. Eppure proprio la televisione, tra la fine dei settanta e per tutto il decennio degli ottanta – come s’è ricordato – era diventata il maggior produttore di cinema, e che cinema!, nel nostro Paese. Se ciò fosse continuato ad accadere, se cioè televisione e cinema avessero perseguito in autonomia la loro strada, cercando alleanze su progetti di grande creatività (per fare solo qualche esempio, da La nave va a La meglio gioventù), l’Italia avrebbe potuto contare su una produzione di cinema, e di fiction, meno scontata ed esangue di quella che, purtroppo, sia gli schermi delle sale che quelli della tv consentono oggi di vedere a tutti noi, spettatori disincantati del XXI secolo.

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CAPITOLO I TRA CINEMA E TELEVISIONE

Per un’estetica intermediale La convinzione che mai come in questo momento – a un decennio dall’inizio del nuovo secolo – sia utile approfondire il dibattito, recentemente assopitosi, sulla possibile intermedialità tra cinema e televisione è alla base di questo libro. Esso viene concepito nel momento in cui si iniziano a percepire gli effetti a medio termine della rivoluzione culturale (prima che mediatica) prodotta dalla conversione digitale. Considerato che ormai cinema e televisione non sono più da considerarsi «canali diversi di comunicazione, ma due stati dell’audiovisivo»1, appare indispensabile dare nuova linfa a una discussione che, soprattutto negli anni novanta, sembrava essersi arenata. Occorre ripensare ad un’estetica che incroci i diversi medium, ma senza privarli delle loro caratteristiche peculiari, senza cioè far loro assumere funzioni ancillari (come è stato per la tv italiana nei confronti del cinema fino ai primi anni settanta, e così come appare adesso per il cinema nei confronti della televisione), senza produrre un’estetica di “primo” e di “secondo” grado; l’una dominante e l’altra derivata. Pur trovandoci di fronte ad una serie di passaggi epocali (dal prime time televisivo al my time del singolo spettatore, dal “consumer” al “prosumer”), è ormai assodato che la qualità media dell’offerta cinetelevisiva della pay-tv è anch’essa livellata su quella della tv generalista2. Riaprire il dibattito sul rapporto 1 P. Ortoleva, Condannati a convivere? Questioni di confine tra i due media, in “LINK, Idee per la televisione”, n° 3, 2005, p. 194. 2 Tra le rare eccezioni, sia per la qualità del prodotto, sia per la sua intrinseca caratteristica crossmediale (prima romanzo, quindi film per la sala, infine serie televisiva), vale la pena citare le due serie di Romanzo criminale – la serie, prodotte da SKY, la prima (di 12 puntate) per la stagione 2008-2009, la seconda (di 10 puntate) per la stagione 2010-2011.

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ALLE ORIGINI DI GOMORRA

cinema-televisione significa allora provare a riattivare il dialogo tra due medium che, per troppo tempo, si sono vicendevolmente vampirizzati in una totale deregulation etica, e quindi estetica3. Di fronte alla rapidissima trasformazione della fruizione domestica audiovisiva, sia nella qualità delle immagini che in quella del sonoro, è fin troppo facile prevedere per l’immediato futuro uno scenario in cui il rapporto cinema/televisione/pc sia lo snodo cruciale dell’estetica del “Terzo Millennio”. Non è un caso che, prima della rivoluzione, cineasti sperimentatori e profetici come David Lynch e Lars Von Trier abbiano intuito, già all’inizio degli anni novanta, la tendenza dell’iconosfera contemporanea (e in quest’ottica sono da tenere infatti in grande considerazione sia il modello Twin Peaks che quello The Kingdom); non è un caso che, per restare in territorio nazionale, un’opera anfibologica dalla genesi difficile, prima ripudiata e poi portata come fiore all’occhiello dalla RAI che l’aveva prodotta – ovvero La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana – abbia riscosso un grande successo di critica e di pubblico tanto nel passaggio in sala che in quello via etere4. Così come non è un caso se il concetto di serializzazione – che in principio fu delle altre arti, quindi del cinema, poi Grundform televisiva – sembra dominare anche il mainstream cinematografico con la sempre più frequente produzione di vere e proprie issues seriali. Solo per citare alcuni esempi che hanno caratterizzato l’ultimo decennio si pensi all’operazione Matrix dei fratelli Wachowski, a quella di Peter Jackson con The Lord of the Rings, o a quella di Quentin Tarantino con i due “volumi” di Kill Bill. Senza poi considerare che, se tale rappor3 Il dibattito sui rapporti tra il cinema e la televisione in Italia si accende alla fine degli anni settanta, proprio in coincidenza della crisi del cinema e l’emergere di un nuovo sistema televisivo. Significativi sono i due convegni organizzati a Saint Vincent e all’Hotel Hilton di Roma nel 1978 e 1979 sul tema dai più che eloquenti titoli: Film in tv: cinema tradito? e Quella parte di cinema chiamata televisione. Il dibattito è dunque centrale negli anni a cavallo tra la fine del decennio della contestazione e quello del riflusso, tuttavia destinato a sgonfiarsi in coincidenza della crisi endemica del cinema nostrano anni ottanta e a sparire nel panorama aperto dalla legge Mammì. Timidi, ma estremamente interessanti, sono però alcuni segnali di una sua ripresa con il Terzo Millennio, che testimoniano se non altro la volontà di tornare a riflettere sull’argomento, come i convegni organizzati a Roma nel 2002 dalla rivista “Gulliver” (Cinema e televisione) e dal Dipartimento Comunicazione e Spettacolo dell’Università di Roma Tre (CineMaTv), così come dal 2005 al 2007 al teatro Palladium di Roma (Switchover) sempre dallo stesso Dipartimento dell’Università romana. Per una panoramica di natura storica sui rapporti cinema/televisione rimando al saggio di E. Torelli, Gli schermi convergenti, in Televisione ieri e oggi, a cura di F. Monteleone, Marsilio: Venezia, 2006. 4 C’è da dire che il film di Giordana ha mietuto successi ovunque (ad esempio vincendo la sezione ‘Un certain regard’ del Festival di Cannes del 2003) ed è oggi una delle opere più importanti del decennio appena trascorso per numerosi critici e secondo l’opinione di prestigiose riviste internazionali (come l’americana Newsweek.com ad esempio).

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TRA CINEMA E TELEVISIONE



to non sarà messo a confronto con le nuove forme di spettatorialità interattiva (tv via cavo e on line, playstation, Youtube, Second Life, Facebook, Twitter, etc)5, rischia di produrre una siderale distanza dai fruitori audiovisivi del Terzo Millennio. La scelta di campo si è dunque concentrata su quello che, a tutti gli effetti, è il fenomeno mediatico più importante degli anni settanta, allorché prende forma la «sostituzione rispettosa»6, cioè il passaggio di testimone che avviene tra il cinema (che fino alla metà del decennio è ancora il medium di riferimento) e la televisione (che, appunto, proprio dalla metà del decennio lo sostituisce). Un passaggio di testimone che, seguendo il “principio di filogenesi dei media” di Enzenberger, coincide con l’inizio della fase di “regolamento dei conti” secondo cui il nuovo medium, modellatosi su quello precedente, cerca di annientarlo definitivamente, estirpandolo dal suo contesto originario, alienandolo7. È dunque dall’analisi di questa zona ancora franca, dove cioè il tentativo di costruire un territorio comune è ancora argomento vivo, che forse bisogna ripartire per riproporre un’estetica intermediale.

Un’anima divisa in due Gli anni settanta sono un decennio che sembra caratterizzato da due spinte di segno completamente opposto: una verso il “nuovo cinema” e una verso quella “pulsione di morte” che, nelle giovanissime generazioni dell’epoca, non aveva nessuna speranza palingenetica (si pensi al No Future su cui si è edificata l’intera ideologia punk, fenomeno largamente diffuso eppure in gran parte sottovalutato, perlomeno in ambito nazionale). È sintomatico in tal senso che, probabilmente condizionati dagli eventi e dal clima che hanno caratterizzato la società italiana di quegli anni, molti fra coloro che sono intervenuti nel dibattito sulla crisi che ha investito la nostrana produzione cinematografica, a cominciare dalla seconda parte del decennio, hanno utilizzato, spesso in chiave metaforica, termini come “morte”, “cadavere”, “omicidio” et 5 Per una panoramica sulle nuove forme di condivisione di esperienze audiovisive rimando all’articolo apparso sulla versione on line di “Filmakersmagazine”, http://www. filmmakermagazine.com/summer2008/audience.php. 6 Cfr. F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Marsilio: Venezia, 1992-2005, p. 405. 7 Secondo Hans Magnus Enzensberger infatti «nell’evoluzione dei media vige il principio che ogni nuovo medium si orienta all’inizio su uno precedente, prima di scoprire le proprie possibilità e, in un certo senso, realizzare se stesso».

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similia. Una terminologia rivelatrice di posizioni che, non solo sembravano individuare, in realtà un po’ troppo pessimisticamente, una fine, un terminus ad quem nella produzione cinematografica italiana di qualità, ma affermavano anche l’impossibilità da parte del cinema di riformularsi, negando in tal modo l’ontologia stessa dei media. Alcuni iniziarono già nel 1975 quando, con la legge 103 del 14 aprile – condivisa dall’opposizione, con la sinistra che si astenne praticamente in blocco – sottolinearono la “morte” della televisione sottoposta al controllo governativo e l’inizio di quella sottoposta al controllo parlamentare (legge che, di fatto, ha dato il via al deleterio fenomeno consociativo); e proseguirono nel giugno dello stesso anno quando, in seguito ai risultati delle elezioni amministrative che videro contemporaneamente il netto regresso della DC e l’avanzata del PCI, tanto da sfiorare lo storico “sorpasso”, pensarono che fosse arrivata la “fine del mondo”; e ancora, pochi mesi dopo, quando individuarono nell’omicidio di Pasolini l’atto simbolico di una tragedia che stava mettendo in scena non solo i “cadaveri” del glorioso cinema dei Padri (la morte dell’autore di Salò o le 120 giornate di Sodoma fu preceduta di pochi mesi da quella di Germi e De Sica e seguita, di lì a poco, da quella di Visconti e Rossellini) ma quelli di un’intera cultura8. Altri proseguirono l’anno successivo, quando videro nella sentenza n. 202 della Corte Costituzionale, che liberalizzava l’etere, l’atto di morte del monopolio televisivo della RAI; o quando presero coscienza del mutamento della strategia della lotta armata dei gruppi terroristici, i quali, presagendo l’immanenza della sconfitta, avevano iniziato a “colpire al cuore” (il procuratore Vittorio Occorsio fu ucciso da un commando di Ordine Nuovo, il procuratore Francesco Coco da uno delle Brigate Rosse). Innestati in tale scenario, alcuni fenomeni che si susseguirono nel triennio 1977-1979 appaiono oggi veramente simbolici per la formazione dell’immaginario collettivo: la fine di “Carosello” (l’ultima trasmissione è del 6 gennaio 1977), che dà il via ad un nuovo modello di fruizione ischemica9; l’uccisione di Aldo Moro (maggio 1978); la 8 Mai del tutto sopite, le polemiche sui “fatti dell’idroscalo” hanno recentemente trovato nuove conferme confortando le ipotesi di chi lo ha sempre considerato un omicidio politico. Al punto che il ministro della giustizia Alfano, su richiesta di Walter Veltroni, ha riaperto l’indagine nel marzo del 2010. Sull’omicidio Pasolini si veda l’articolo di Gianni Borgna e Carlo Lucarelli in cui si tenta una ricostruzione complessiva dell’evento, http:// temi.repubblica.it/micromega-online/cosi-mori-pasolini. 9 In tal senso, appare fin troppo profetico e lungimirante il pensiero che espresse in merito Federico Fellini: «Le continue interruzioni sono un arbitrio sia verso l’autore che verso

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dichiarazione di Enrico Berlinguer sul fallimento del compromesso storico (aprile 1979). Tali fenomeni a molti sembrarono essere il risultato non solo dell’esaurirsi della spinta rivoluzionaria e riformistica iniziata con la contestazione studentesca del ’68 – che proprio nel 1977 viveva l’ultima stagione di intensa partecipazione popolare – ma anche la testimonianza inequivocabile della fine di un mondo, i crepuscolari bagliori di un’epoca, le epifanie di una frattura. E, siccome il triennio in questione fu anche quello in cui il cinema italiano sprofondava in una crisi profonda a più livelli, a molti sembrò legittimo interpretare tali fenomeni come prodotti di una stessa matrice, come effetti di una medesima causa. Se da un lato può risultare indubbiamente affascinante cercare una corrispondenza tra i fenomeni sociali e politici con quelli mediatici ed estetici che caratterizzano il periodo, dall’altro si rischia di farsi sfuggire la complessità della trasformazione che sembra caratterizzarli, riducendo tutto all’ibridazione (linguistica, percettiva) che inizia a produrre, e di non riuscire a individuare il terminus a quo con cui si sviluppa una nuovo modello di comunicazione10, e quindi una nuova interpretazione del cinema. Proprio attraverso il rapporto che istituisce con il nuovo medium, e contrapponendogli un diverso tipo di fruizione più avvolgente e allargata11, il testo audiovisivo inizia un processo di distacco dalle derive extratestuali che determina una legittimazione della sua centralità12. lo spettatore che viene abituato ad un linguaggio singhiozzante, a sospensioni di attività mentale che ne faranno un impaziente, incapace di concentrazione, di fare collegamenti. Lo stravolgimento di qualsiasi sintassi articolata ha come unico risultato quello di creare una sterminata platea di analfabeti pronti a ridere, ad esaltarsi, ad applaudire tutto quello che è veloce, privo di senso e ripetitivo». 10 Il triennio in questione è infatti denso di avvenimenti simbolici anche in tal senso. Si pensi, ad esempio, all’introduzione della televisione a colori (1977), o alla fondazione di Reteitalia da parte di Silvio Berlusconi (1979). 11 Sono proprio di questi anni le prime sperimentazioni del dolby surround. Film come Star Wars (1977) o Apocalypse now (1979) possono considerarsi infatti opere fondative di quell’effetto-bagno [Jullier] che caratterizzerà il cinema postmoderno e che, attraverso un nuovo modo di utilizzare il sonoro, allargherà lo spazio della fruizione, cambiandone radicalmente le modalità. 12 A ricordare come fosse diverso il rapporto tra lo spettatore e il testo cinematografico mi sembrano significative le parole di Gianni Amelio in proposito: «A quei tempi era un’abitudine entrare al cinema in qualsiasi momento: ognuno decideva il proprio orario e il film iniziava dal punto che il caso ti faceva capitare sotto gli occhi. Chi sa se era davvero un danno grave. O se il film, ricostruito arbitrariamente, si lasciava indietro ogni debito letterario per proporsi come immagini e suoni allo stato puro, capaci di emozionare anche scomponendo l’ordine narrativo». Cit. in G. Amelio, Il vizio del cinema. Vedere, amare, fare un film, Einaudi: Torino 2004, p. 220.

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La nuova gioventù L’interazione tra il cinema e la televisione, all’inizio del decennio, si articola secondo un asse bipolare che ha la propria matrice comune nella “politica degli autori”13. Una matrice destinata però a generare equivoci. In tal senso, se si guarda al cinema degli esordienti degli anni settanta si possono cogliere i sintomi di una mutazione in atto. È sintomatico ad esempio come molti dei nuovi registi cinematografici del periodo e, a parte rare eccezioni, tutti quelli di un certo rilievo, nascano e maturino da un rapporto che inizia e che si sviluppa con la televisione. Come è sintomatico che, se molti di quelli che esordiscono all’inizio del decennio vengano fuori dalla palestra dei “Programmi Sperimentali” la cui vena si esaurisce già a metà decennio14, molti di quelli che lo fanno all’indomani della liberalizzazione dell’etere provengano da esperienze radicalmente diverse. Molti dei comici che tra la fine degli anni settanta e primi anni ottanta passano alla regia vengono infatti dal grande successo di Non stop15, trasmissione andata in onda nel 1977 sulla RAI per la regia di Enzo Trapani, la cui rottura del codice televisivo tradizionale (si trattava di uno spettacolo senza conduttore, incentrato su una serie di performances che si susseguivano una di seguito all’altra senza soluzione di continuità) ha senz’altro influenzato l’estetica del loro cinema, caratterizzata sostanzialmente da un azzeramento della complessità della struttura narrativa e dalla sostanziale povertà dell’affabulazione linguistica. Ma se, per gli osservatori stranieri più attenti, già dalla metà del decennio iniziano Les Années Moretti16, ci si accorge subito che, al di là 13 «Da una parte, prodotti seriali di fattura cinematografica, che rappresentano l’evoluzione dello sceneggiato classico; dall’altra, lungometraggi tradizionali con duplice uscita (domestica e di sala) da cui emerge, più marcatamente il legame tra cinema e televisione», in E. Torelli, Gli schermi convergenti, cit., p. 195. 14 Sull’esperienza dei “Programmi sperimentali” si veda F. Pinto, G. Barlozzetti, C. Salizzato (a cura di), La televisione presenta…La produzione cinematografica della RAI 1965-1975, Marsilio: Venezia, 1988, pp. 75-82; I. Cipriani, La svolta televisiva, e I. Moscati, F for Fake in tv, in Il cinema del riflusso. Film e cineasti italiani degli anni settanta, a cura di L. Miccichè, Marsilio: Venezia, 1997, pp. 45-57 e 67-73; I. Moscati, La trasgressione televisiva, Bulzoni: Roma, 1977; F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, cit.; sugli esordi cine-televisivi di Gianni Amelio, Giuseppe Bertolucci e Paolo Benvenuti rimando al mio, Gli autori del nuovo cinema e la televisione, XIII vol. della Storia del cinema italiano 1977-1985, a cura di V. Zagarrio per il CSC, Marsilio-Edizioni Bianco & Nero: Venezia, 2005. 15 Si tratta di Carlo Verdone, Massimo Troisi, Alessandro Benvenuti, Francesco Nuti, Lello Arena, Enzo De Caro. 16 Cfr. A. Bichon, Les Années Moretti. Dictionaire des cinéastes italiens, 1975-1999, Acadra Distribution. Annecy Cinéma italien: Leschaux, 1999.

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di un paio di esperienze di coproduzione negli anni ottanta (RAI Uno in Sogni d’oro, Reteitalia in Bianca), il cinema di Nanni Moretti, cioè forse il prodotto di maggior rilievo internazionale espresso dal cinema italiano in questi anni, poco ha a che fare con la televisione. Individuato il contesto, era dunque necessario estrapolarne il caso paradigmatico. Per questo ho pensato di esplorare, in questo libro, un genere particolare di autore, nel quale si individuassero le caratteristiche di un passaggio fra due epoche. Una figura che rappresentasse al meglio il rapporto tra i due medium, il cui percorso fosse non solo riconoscibile ed espressione dello Zeitgeist, ma che si muovesse anche entro una prospettiva anfibologica. Il percorso cioè di un autore appartenente alla generazione della contestazione e della lotta in cui ci fosse, più o meno consapevolmente, il tentativo di quella contaminazione linguistica che è una delle caratteristiche della coeva prospettiva postmoderna17, e che in qualche modo rappresentasse una “buona pratica” intermediale. C’è da dire che in questo contesto sono diversi i casi degni di rilievo, e un’analisi esaustiva ne avrebbe dovuto prendere in considerazione più di uno. Tanto che la focalizzazione sulle opere degli esordienti del periodo, in cui emerge una proposta di questo tipo, evidenzia alcuni percorsi esemplari e/o sintomatici (molti dei quali provenienti dall’esperienza già citata dei “Programmi Sperimentali” di Italo Moscati e Mario Raimondo: su tutti quelli di Gianni Amelio, Giuseppe Bertolucci e Paolo Benvenuti), tralasciando inevitabilmente altri pur degni di interesse. Come quello estremamente significativo di Peter Del Monte18, o come quelli, a loro modo curiosi, dei debuttanti provenienti dalla rivista “Cinema&Film”: Luigi Faccini (Niente di meno niente di più) e Adriano Aprà (Olimpia agli amici)19. 17 Per una ricognizione critico-teorica complessiva sul postmoderno si vedano J. F. Lyotard, Le condition postmoderne, Édition de Minuit: Parigi, 1979 [trad. it. La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli: Milano, 1981]; D. Harvey, The Condition of Postmodernity. An enquire into the Origins of Cultural Change, Blackwell: Oxford, 1990 [trad. it. La crisi della modernità. Alle origini dei mutamenti culturali, Il Saggiatore: Milano, 1997]; AA. VV., Immagini del post-moderno, Cluva: Venezia, 1983; P. Johnson, Writings, Oxford University Press: Oxford, 1979 [trad. it. Verso il Postmoderno. Genesi di una deregulation creativa, Costa & Nolan: Genova, 1985]; M. A. Rose, The Postmodern and the Postindustrial. A critical Analysis, Cambridge University Press: Cambridge, 1991; G. Canova, L’alieno e il pipistrello, Bompiani: Milano, 2000. 18 Dopo il saggio finale per il CSC datato 1969 (Fuori campo), nel 1970 Del Monte realizza il mediometraggio Le parole a venire. 19 A questi due andrebbe aggiunto anche il nome di Maurizio Ponzi che realizza Stefano jr (1969) dopo alcuni documentari-inchiesta girati tra il 1966 e il 1968 (Il cinema di Pasolini, Verso Rossellini, Visconti) e I visionari (1968), il suo primo lungometraggio premiato a Locarno.

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Questa iniziale scrematura non prende volutamente in considerazione i percorsi di quegli esordienti che, nonostante esordi di un certo interesse e filmografie cine-televisive di rilievo, non presentino evidenti caratteristiche di intermedialità. Tra questi vale la pena citare quantomeno Giacomo Battiato (esordiente nel 1973 con Dentro la casa della vecchia signora), Mario Brenta (nel 1974 con Vermisat), Gian Luigi Calderone (nel 1970 con l’interessante Bella presenza cercasi), Alessandro Cane (nel 1970 con La stretta), Fiorella Infascelli (nel 1980 con Ritratto di una donna distesa), Marco Leto (nel 1972 con Donnarumma all’assalto), Salvatore Maira (nel 1976 con Colpo di scena: ovvero gli inganni del palcoscenico), Alberto Negrin (nel 1972 con il film-inchiesta Racket), Salvatore Nocita (nel 1977 con Ligabue), Mario Orfini (nel 1972 con Explosion), Luigi Perelli (nel 1969 con Un padre, un bambino), Giuliano Petrelli (nel 1976 con il misconosciuto L’occhio dietro la parete, che anticipa di oltre 30 anni le pulsioni voyeuristiche dei reality show), Biagio Proietti (nel 1979 con Senza parole), Mimmo Rafele (nel 1973 con Domani), Luca Ronconi (nel 1974 con Orlando furioso), Nino Russo (nel 1972 con Da lontano). La scelta di campo ha portato anche ad escludere i percorsi di quei registi che, pur non esordendo in ambito televisivo o con una produzione RAI alle spalle, svilupperanno in seguito un rapporto con la televisione. Tra questi ci sono casi eclatanti, come quello di Sergio Citti (esordiente nel 1970 con Ostia e che nella prima metà degli anni ottanta realizza, grazie alla RAI, quelle che sono probabilmente le sue opere di maggior spessore: Il minestrone e Sogni e bisogni), Fabio Carpi (nel 1972 con Corpo d’amore), Marco Tullio Giordana (nel 1980 con Maledetti vi amerò), Emidio Greco (nel 1974 con L’invenzione di Morel), Carlo Vanzina (nel 1976 con Luna di miele in tre); ma anche Aldo Lado (debuttante nel 1971 con La corta notte delle bambole di vetro), Francesco Massaro (nel 1972 con Il generale dorme in piedi), Enzo Milioni (nel 1978 con La sorella di Ursula), Pier Giuseppe Murgia (nel 1975 con il documentario L’ultima foresta), Luciano Odorisio (nel 1979 con Educatore autorizzato), Pino Passalacqua (nel 1970 con In tre verso l’avventura), Sergio Martino (nel 1969 con Mille peccati, nessuna virtù), Paolo Pietrangeli (nel 1977 con Bianco e nero), Paolo Poeti (che nel 1976 firma sotto pseudonimo Inhibition), Faliero Rosati (nel 1978 con Morte di un operatore), Nello Rossati (nel 1971 con Bella di giorno, moglie di notte), Enrico Maria Salerno (nel 1970 con Anonimo veneziano), Sauro Scavolini (con Amore e morte nel giardino degli dei).

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Nella maggior parte dei casi gli esordi cine-televisivi del periodo non mostrano personalità di spicco in grado di evidenziare da subito uno stile personale. Quasi tutti inoltre si ispirano al cinema d’autore, «specie quelli che si raccoglievano attorno a “Cinema&Film”»20. Il mito dell’auteur sembra essere un vero e proprio segno generazionale, il cui risultato più evidente è quello di «rompere con la tradizione del cinema popolare italiano e di bloccare il ricambio tra intellettuali e pubblico»21.

Modi di produzione È noto che in Italia cinema e televisione, dopo un periodo iniziale di circa 13 anni in cui essi convivono «sulla base di accordi e compromessi che si fondano sulla necessità di non accendere uno scontro che sarebbe molto rischioso, se non distruttivo, per l’industria della produzione e distribuzione cinematografica e in parte della televisione stessa»22, con gli accordi RAI-ANICA del 1966 cambiano la natura delle reciproche relazioni. L’equilibrio fin là mantenuto si rompe a causa di due nuovi fattori: l’aumento delle quote di film destinati al piccolo schermo e il nuovo corso televisivo coincidente con la seconda fase bernabeiana, che cerca «di disegnare un sistema fondato sulla possibilità del servizio pubblico di entrare nel gioco produttivo a cominciare dai telefilm»23. Un modo di privilegiare il punto di vista produttivo, destinato poi a mutare vertiginosamente con il passare degli anni24. Come è noto, il periodo che va dalla fine degli anni sessanta ai primi anni ottanta è contraddistinto da grandi trasformazioni. Solo in ambito audiovisivo, quella più evidente e significativa è data dal fatto che il cinema passa dal primo all’ultimo posto tra i consumi culturali degli italiani. Non a caso, tra questi, è l’unico in controtendenza: mentre infatti aumenta il consumo di libri, di quotidiani, di periodici, addirittura vertiginosamente quello di radio e televisione (soprattutto 20 I. Moscati, Programmi sperimentali per la tv, intervista a cura di G. Barlozzetti e F. Pinto, in La televisione presenta…, cit., p. 76. 21 Ibidem. 22 I. Cipriani, La svolta televisiva, cit., p. 47. 23 Ibidem. 24 Con il “rapporto Martinoli-Bruno-De Rita” reso pubblico nell’aprile 1969, per la prima volta la RAI si avvicina al mercato. Esso arriva in un momento molto duro per lo scontro sulla riforma, e sottintende una chiara manovra politica: sottrarre l’azienda dal controllo del Parlamento così come chiedevano le forze politiche democratiche.

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con l’esplosione delle radio e delle tv private), il consumo cinematografico tocca il minimo storico. I successivi dati dicono che nel 1969 in Italia sono 550.884 milioni i biglietti venduti, che nel 1980 scendono a 241.891, nel 1985 a 123.113, nel 1989 a 94.786. Contemporaneamente diminuiscono le giornate di spettacolo, che passano da 1.868.308 del 1969 a 1.235.658 del 1980 (nel 1989 scenderanno a 592.717). Il dato importante che da tali dati emerge, insomma, è che si perde l’abitudine consolidata ad andare al cinema: secondo l’indagine Doxa sulle “caratteristiche, abitudini, motivazioni e aspettative” degli italiani, effettuata nel 1972, la percentuale di chi non si reca al cinema almeno una volta al mese è del 52%, del 57% nel 1977, del 65% nel 1982, addirittura dell’80,3% nel 1990. Se l’effetto è dunque il “disinnamoramento” nei confronti del cinema in generale, bisogna tener presente che tra le cause ci sono alcune radicali trasformazioni dei modelli della comunicazione: cambia il modello produttivo, cambia il modello distributivo25, cambia quello dell’esercizio26, mentre quello culturale di riferimento subisce un inarrestabile processo di appropriazione dell’immaginario da parte dell’industria statunitense (sia cinematografica che televisiva), reso peraltro molto semplice dalla mancanza in Italia di un progetto per la produzione di immaginario27. Sono fenomeni paralleli che contribuiscono a mutare definitivamente l’orizzonte cine-televisivo italiano. La prima grande trasformazione del modo di produzione è dovuta alla legge di riforma della RAI del 1975, con la quale si diversificano le posizioni editoriali della Prima e della Seconda Rete, ormai in aperta concorrenza (politica). L’azienda televisiva pubblica inizia ad “ascoltare” il mercato. Non è un caso che, proprio a partire da questa legge, si comincino a produrre film a doppia circolazione, cinematografica e televisiva.

25 Fino alla seconda metà degli anni settanta esiste una forte differenziazione tra le sale di prima visione, ubicate perlopiù nelle 16 città capozona registrate dall’Agis, e quelle di seconda o di terza. Negli anni ottanta si assiste ad un “processo concentrazionario” del mercato, in cui viene di fatto eliminata la distinzione tra il primo circuito e i successivi. 26 Nel giro di pochi anni le sale diminuiscono (nel 1969 sono 11775, nel 1980 8453, nel 1984 5628) e inizia la loro trasformazione (dovuta soprattutto all’adeguamento alle nuove tecnologie del sonoro e al cambiamento di molte di queste in multisala). 27 Già alcune ricerche coeve lamentavano tale incapacità progettuale da parte dell’industria audiovisiva italiana. Cfr. S. Fuà, F. Pinto (a cura di), Per un’analisi dei rapporti fra due industrie culturali Cinema e Tv, fascicolo I, Ricerca e Sperimentazione Programmi: Roma, 28 maggio 1979. Poi, con lo stesso titolo, in Sansoni: Firenze, 1981.

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La seconda, invece, è diretta conseguenza del documento del Consiglio di Amministrazione della RAI del 1979, nel quale si stabiliscono «le direttive editoriali da seguire nella produzione di opere in pellicola». Il documento ribadisce innanzitutto la volontà di dare spazio ai film dalla doppia versione: una più lunga, a puntate, per la televisione, e una breve, per le sale e il mercato estero. Accanto alle produzioni in esclusiva, la RAI autorizza anche la compartecipazione finanziaria ai film con doppia distribuzione, pensando di assicurarsi una percentuale degli incassi oltre all’esclusiva del passaggio televisivo del film dopo 18 mesi dall’uscita dalle sale. Con la “politica delle coproduzioni”, che apre gli anni ottanta, lo scenario è ormai completamente mutato. La RAI ha deciso che conviene più investire nei film di grande impatto commerciale, cercare partner e finanziamenti in Europa onde avviare progetti più spettacolari e abbandonare quelle poche zone di sperimentazione e di ricerca di nuove personalità autoriali. Ciò che apre gli anni ottanta non è solo il crepuscolo della lotta (armata), la riconversione politica e lo sfaldamento dei blocchi storici che preludono al craxiano «governare il cambiamento», ovvero il processo di terziarizzazione avanzata che anticipa il mutamento dello scenario politico, economico, sociale e antropologico dell’Italia che, proprio in quegli anni, si trasforma da paese esportatore in paese importatore di mano d’opera. Esso è anche, e soprattutto, il periodo in cui prende forma il trust berlusconiano che rivoluziona il sistema mediatico. Le (rare) zone di sperimentazione rimaste scompaiono rapidamente. Pochi anni dopo entra ufficialmente in funzione la “dittatura” dell’Auditel (1986). Inizia un’altra Storia. È ormai noto come negli anni del cosiddetto “impegno”, nel periodo che va dal biennio 1967/68 a quello del 1981/82, la televisione pubblica abbia realizzato una struttura produttiva in grado di garantire non solo un cospicuo numero di prodotti di elevata qualità, il cui apogeo (perlomeno quello del riconoscimento internazionale)28 è rappresentato dalla doppia Palma d’oro di Cannes 1977/1978 a Padre padrone di Paolo e Vittorio Taviani prodotto dalla Seconda Rete e L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi prodotto dalla Prima Rete, ma anche ad alimentare zone non completamente “controllate”, nel28 È significativo il fatto che, in seguito al doppio successo cannense, il listino dei film prodotti dalla RAI per tutti gli anni ottanta diventerà un elemento costante in tutti i maggiori festival internazionali di cinema.

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le quali gli esordienti potessero sperimentare, anche se con budget ridotti, diverse formule narrative, modi di produzione originali, una personale visione estetica. È a partire da tali “zone” che l’analisi di un percorso emblematico, come quello di Salvatore Piscicelli, anche per il suo definirsi proprio nel delicato momento di passaggio tra i settanta e gli ottanta, mi è sembrato importante. Grazie ad una complessa dinamica produttiva che lo porta prima a collaborare con la Seconda Rete della RAI e, successivamente, con le produzioni regionali della neonata Terza Rete – forse una delle ultime zone libere di sperimentazione –, quello dell’autore partenopeo è probabilmente il case history che meglio rappresenta le potenzialità di un dialogo tra i due media che, in quegli anni, iniziava un processo di ibridazione.

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CAPITOLO II LA TELEVISIONE COME “MATERIALE” NEL PRIMO CINEMA DI SALVATORE PISCICELLI

Le origini della “doppia anima” Salvatore Piscicelli nasce nel 1948 a Pomigliano d’Arco, il paese dell’entroterra napoletano il cui particolare sviluppo rispetto al resto della provincia e della regione si organizza su due diverse matrici. Nel secondo dopoguerra Pomigliano è infatti un paese prevalentemente agricolo, dominato dai democristiani e dai potentati locali, dove la Camorra incide ancora in minima parte; ma dove esiste anche un polo operaio, sviluppatosi a partire dagli anni trenta, quando nel paese viene posta una fabbrica adibita alla costruzione di aerei da guerra1. La città campana si è dunque alimentata attraverso una cultura dalla “doppia anima”, per così dire, che ne ha segnato lo sviluppo almeno fino agli anni settanta, quando i nuovi impianti dell’Alfasud cancellano l’antico spirito contadino2. Piscicelli appartiene dunque a quella generazione di intellettuali meridionali che hanno vissuto sulla propria pelle questo passaggio e che hanno raggiunto la loro maturità a cavallo tra gli ultimi resi1 Proprio per questo motivo Pomigliano d’Arco fu duramente bombardata durante la seconda guerra mondiale, e proprio nell’aviosezione dell’Alfa Romeo furono deportati tutti i vecchi oppositori del regime. Furono proprio loro a fondare la prima sezione operaia del Partito Comunista che non fosse del Nord. 2 Non è un caso che spesso la Fabbrica trovi spazio nella rappresentazione dei suoi primi lavori. Il suo mediometraggio d’esordio (La canzone di Zeza) termina proprio con una lunga panoramica seguita da un movimento di zoom in avanti sugli impianti dell’Alfasud, così come la Fabbrica s’intravede anche nel successivo (Carnevale popolare a Pomigliano d’Arco). Nel finale del suo primo lungometraggio (poi eliminato) era prevista la medesima location [foto 9], mentre nel secondo lungometraggio vi è interamente ambientata la seq. XXXIb [Frames 22 e 23].

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dui della cultura contadina e i successivi fenomeni di urbanizzazione massiccia, di (sotto)proletarizzazione crescente, di formazione della “megalopoli” partenopea. Per comprendere appieno il percorso di formazione dell’autore campano, si deve dunque assolutamente tenere conto del genius loci che ne ha inevitabilmente influenzato l’itinerario. Un genius loci stretto fra la tradizione operaia e quella cultura contadina, arcaica, magica, rituale, così ben indagata da Ernesto De Martino. Se questo è lo sfondo della sua infanzia e della sua adolescenza, si può facilmente dedurre quanto esso abbia contribuito a formare in modo determinante la Grundform del suo cinema, dove la rappresentazione di polarità diverse anima la dialettica discorsiva. Ed è proprio tenendo presente questo elemento della sua crescita, cioè la coabitazione conflittuale di culture socialmente e antropologicamente differenti, che si deve provare a decifrare la sua enunciazione; quella di un cinema dove la messa in forma della realtà fisica, oltre ad essere sociologicamente riconoscibile, è sempre connessa al senso del discorso. Un dato che emerge in maniera insistente dalle sue dichiarazioni, riguarda infatti questa doppia natura che contraddistingue la sua formazione cinematografica, articolata in due momenti ben precisi. Il primo è quello che appartiene alla sua infanzia (gli anni cinquanta), quando il rito popolare dello spettacolo cinematografico viene quotidianamente celebrato insieme alla madre. Il secondo è invece legato alla sua adolescenza e maturità, quando cioè, a partire dalla metà degli anni sessanta, si “ri-innamora” del cinema. Ma se la prima fase è una fascinazione viscerale e ritualistica, realizzata attraverso il cinema di genere e i suoi codici, la fase del decennio successivo è di tipo strettamente intellettuale, dove lo scoprire linguaggi differenti, autori e cinematografie del tutto inaccessibili in precedenza, gioca un ruolo fondamentale. Tra la fine degli anni cinquanta e la metà degli anni sessanta, il giovane Piscicelli sembra però allontanarsi dallo spettacolo cinematografico. Dopo essere stato in vari collegi, il figlio di «operai e contadini che andava a vedere i film di Totò e di Matarazzo», torna a casa con la voglia di scoprire un mondo che appartiene a una prospettiva completamente diversa. L’effervescente clima del Liceo “Genovesi” di Napoli (Liceo dove studiò Benedetto Croce, storicamente schierato a sinistra), contribuisce a incentivare quest’ansia di conoscenza. E, di nuovo, riscopre il cinema, ma da un nuovo punto di vista. Quello del cinéphile disposto a tutto, anche a intraprendere lunghi e faticosi viaggi verso la Cinémateque Française, luogo di culto di quei Dreamers che,

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attraverso il cinema, pensavano di cambiare il mondo3. Gli anni del “Genovesi” sono quelli in cui «la presenza della fabbrica a Pomigliano comincia a esprimersi»4, il periodo della presa di coscienza politica, dei primi bagliori della contestazione. Sono gli anni in cui Piscicelli e i suoi compagni, in aperta polemica con i propri genitori da sempre iscritti al PCI, aderiscono alla frazione estremista del partito bordighista; gli anni in cui collabora attivamente alla rivista della scuola – diretta da Vincenzo Sparagna e Pietro Doriano – e in cui scopre il teatro sperimentale. Tra il ’65 e il ’67 infatti, grazie ad Angelo De Falco, entra in contatto con il giro del Teatro Esse di via Martucci a Napoli, segue il lavoro di Roberto De Simone sul recupero delle tradizioni popolari5, incontra Ionesco6, Eugenio Barba, Grotowski, e, grazie ad un suo professore, vive da vicino la grande esperienza del Leaving Theatre7. Tutto ciò avviene mentre a Pomigliano l’accelerazione dei processi di urbanizzazione inizia a produrre il degrado della città. Con le lotte operaie cominciano le occupazioni in fabbrica, le battaglie durissime. Una storia destinata a svilupparsi carsicamente e a durare fino ai nostri giorni. Il paese cambia completamente nel giro di pochi anni, proprio mentre la sinistra conquista il comune e i figli dei vecchi comunisti assumono responsabilità di governo insieme ai socialisti. A partire da questo momento, a Pomigliano inizia un vero e proprio “movimento di resistenza” che cerca di recuperare le radici contadine come linguaggio espressivo e come ancoraggio contro la perdita d’identità causata dalla 3 Tra il I° e il III° liceo, cioè tra il 1964 e il 1967, Piscicelli intraprende tre lunghi viaggi in autostop in Europa: «in genere partivamo verso i primi di luglio, finita la scuola, l’ultimo anno c’è stata ovviamente l’apoteosi dopo la maturità classica, e per tutti e tre gli anni ho passato agosto a Parigi, dove andavo alla Cinémateque praticamente tutto il giorno». Le dichiarazione mi sono state rilasciate dallo stesso autore in un’intervista inedita. 4 Ibidem. 5 Sono questi gli anni in cui De Simone, proseguendo le ricerche sulla tradizione napoletana, arriva a fondare la “Nuova Compagnia di Canto popolare” (1967), della quale è stato l’animatore, il ricercatore e l’elaboratore dei materiali musicali per oltre un decennio. I concerti della “Nuova Compagnia di Canto popolare” ebbero luogo al teatro San Ferdinando, la sala di Eduardo ubicata nel quartiere Vicaria. In quel periodo Angelo De Falco era lo scenografo e primo organizzatore della Compagnia da cui, successivamente, si distaccò per fondare il Gruppo Operaio “E’ Zezi”. 6 L’incontro con Ionesco avvenne in una delle conferenze organizzate presso la libreria Guida. In quella occasione Piscicelli e il suo gruppo di amici chiesero al drammaturgo franco-rumeno il permesso di mettere in scena un suo atto unico. 7 Con il gruppo teatrale americano, Piscicelli rimane a stretto contatto nei 15 giorni in cui si ferma a Napoli, allorché vengono messi in scena alcuni spettacoli fondamentali per la storia del teatro, come Mysterys and smaller Pieces, The Brig e Medea nella trascrizione di Brecht («una cosa assolutamente strepitosa» secondo lo stesso Piscicelli).

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Fabbrica. L’interesse per il movimento contraddistingue il passaggio di Piscicelli alla regia e, di fatto, segna il ritorno alla città d’origine. Alla fine del liceo infatti, Piscicelli, le cui ambizioni del periodo sono orientate soprattutto verso letteratura e giornalismo, si reca a Roma in cerca di un’occupazione. Arrivato nella capitale nel 1967, trova qualche lavoretto per mantenersi (scrive qua e là, recensisce libri per il Terzo Programma radiofonico). Si iscrive all’Università, dove frequenta i corsi di Tullio De Mauro, Asor Rosa, Lucio Colletti, quello di Estetica di Emilio Garroni, ma soprattutto quello di Storia dell’Arte tenuto da Cesare Brandi, e in particolare il suo seminario su Borromini8. L’incontro con lo storico dell’arte toscano è determinante. Dai suoi insegnamenti infatti, Piscicelli preleva il concetto di “astanza” per applicarlo a quelli che diventano i suoi primi scritti di critica cinematografica9. Dalla letteratura e dal teatro sperimentali, di cui comunque continua a interessarsi e a frequentare gli esponenti (a Roma entra nel giro dell’avanguardia teatrale delle cantine romane, a contatto con la nuova spettacolarità di Mario Ricci, Giancarlo Nanni e, soprattutto, Leo De Berardinis10), il centro del suo interesse si è spostato gradualmente verso il cinema: complici la sua forsennata attività di cinéphile, le contemporanee letture di Lacan, Derrida, Deleuze e delle riviste specializzate come i “Cahiers du Cinéma” e “Cinétique” che, proprio in quegli anni, hanno un approccio molto simile a quello praticato nei suoi studi universitari. Ma è soprattutto la collaborazione che, dal 1969 al 1976, intrattiene con la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro a segnarlo in modo definitivo. A Pesaro Piscicelli affina i suoi strumenti teorici, partecipa ai dibattiti, vede tanto “nuovo cinema”, conosce personalmente Glauber Rocha, Oshima Nagisa, Rainer Werner Fassbinder. 8 Ne Il corpo dell’anima c’è un omaggio a Cesare Brandi: è una sequenza che si svolge a San Carlino alle Quattro Fontane, uno dei luoghi delle visite domenicali guidate dallo storico dell’arte senese. 9 Coniato dallo stesso Brandi, il concetto di “astanza” indica l’irriducibilità dell’opera a qualunque contenuto che non sia il suo essere qui e ora. Per Brandi vi sono due vie, due modalità in cui un oggetto può essere presente al soggetto, prima che questo lo muti in segno facendolo diventare significante: la flagranza, ovvero «la presenza che la coscienza realizza a un contatto di una realtà esistente» e, appunto, l’astanza, «la particolare presenza che la coscienza prova di fronte alla realtà pura dell’arte», cit. in C. Brandi, Le due vie, Laterza: Bari, 1966, p. 55. 10 Sempre nell’intervista rilasciata al sottoscritto, Piscicelli dichiara che «gli spettacoli di Leo [De Berardinis] sono stati molto importanti per me. Leo è stato fra i primi a contaminare la cultura napoletana, a forzarla, ad utilizzare frammenti di questa cultura inserendoli in un contesto spiazzante».

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L’incontro con il cinema giapponese, che avviene proprio a Pesaro, rianima i suoi interessi per la filosofia orientale iniziati al liceo con le letture delle opere di Tanizaki e Kawabata. Un incontro che si rivela subito decisivo, come peraltro dimostra uno dei suoi primi saggi sul cinema, incentrato sull’analisi del cinema di Mizoguchi attraverso il concetto di Sunyata, cioè una delle modalità del pensiero buddista così come era stato messo in evidenza da Linnart Mäll, lo studioso estone che Piscicelli prende come riferimento11. Il cineasta nipponico si rivelerà infatti un autore fondamentale per l’elaborazione della sua enunciazione.

Il cinema militante e il ritrattismo antropologico La letteratura, dunque, si allontana sempre di più dall’orizzonte dell’autore campano e la spinta creativa si sposta gradualmente sul cinema12. È un processo del tutto naturale, vissuto come un impulso talmente forte che lo spinge a interrompere in maniera brutale le altre attività. Anche se di reali esperienze di set fino ad allora ne aveva avuta una sola13, in realtà già da qualche tempo Piscicelli aveva iniziato a realizzare piccoli film con gli amici, aderendo anche ad una associazione giovanile di cinema militante, la “Cooperativa Officina”. Con questo gruppo di coetanei inizia a fare le prime esperienze dietro la macchina da presa14. La sua prima regia, datata 1976, è un mediometraggio. 11 Il sunya nelle matematiche indiane designa lo zero e, secondo Linnart Mäll, «nel buddismo non denota l’assenza di qualcosa, ma il togliere (…) l’opposizione tra un giudizio affermativo e un giudizio negativo, tra un + e un – », cfr. S. Piscicelli, La pratica formale in Kenji Mizoguchi, «Cinema 60», 1972, pp. 30-42. 12 Dopo aver scritto un romanzo sperimentale alla fine degli anni sessanta, peraltro mai pubblicato, Piscicelli tornerà a scrivere per la narrativa solo negli anni novanta. Pubblicherà nel 1992 una raccolta di racconti intitolata Baby Gang, edito da Crescenzi & Allendorf, e con Mondadori un romanzo nel 1996, La neve a Napoli. 13 «Di esperienze di set ne ho avute pochissime, l’unica significativa è stata quella di seguire le prime settimane del film dei fratelli Taviani Allosanfan (1974). Stavo facendo un lavoro per un libro con il loro produttore, un libro sui Taviani con sceneggiature e interviste, e il produttore Giuliani De Negri, una persona straordinaria, mi ha invitato sul set. Dove peraltro mia moglie [la sua ex-moglie n.d.a.] era l’aiuto scenografa». Intervista rilasciata al sottoscritto, cit. 14 «Lo feci con un faretto e la macchina in spalla sotto i portici, con i ragazzi che dormivano nei sacchi a pelo... con il faretto che passava e cominciavano a svegliarsi fra commenti vari, la macchina imperturbabile andava avanti, accadevano cose divertenti. Alla fine arrivava a Piazza Maggiore dove c’era un gruppo che ballava vicino alla fontana e noi stringevamo su di loro. L’idea era che ogni gruppo girasse come voleva e alla fine sarebbe venuto fuori un film... C’era del buon materiale, abbiamo fatto qualche riunione, ci sono stati dei problemi, liti, discussioni politiche».

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Prodotto in maniera assolutamente indipendente, esso segna il nuovo ritorno al paese di origine. Il titolo che inaugura la filmografia di Salvatore Piscicelli è totalmente incentrato sulla rappresentazione di una cantata popolare che si svolge durante il Carnevale in molti centri rurali campani, La canzone di Zeza. Il film si ispira alla celebrazione dell’evento che segna il passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo, nel quale la cantata individua uno dei tanti rituali di passaggio stagionale della civiltà contadina, dove le parti femminili sono assunte da uomini travestiti da donne. L’azione viene accompagnata da una banda musicale. Piscicelli, in collaborazione con Giampiero Tartagni, sceglie di raccontarla attraverso E’ Zezi, un gruppo di disoccupati organizzati che fa parte di un movimento di resistenza nato tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta a Pomigliano, il cui intento è conservare l’identità culturale arcaicocontadina della zona e farne un elemento sovversivo. Le riprese vengono effettuate il 7 marzo del 1976 alla Masseria di Visone, una contrada vicino a Pomigliano. I principali personaggi della rappresentazione sono quattro: Pulcinella, che simboleggia l’anno vecchio, sua moglie Zeza15, la loro figlia Vincenzella, e Don Nicola, studente innamorato della ragazza. Tutta la vicenda è incentrata sul dissidio tra Pulcinella e gli altri personaggi: questi infatti non vuole che la figlia sposi il fidanzato, mentre la moglie è favorevole all’unione; dopo discussioni e litigi, Nicola finisce per sparare nei genitali a Pulcinella, castrandolo. In questo modo la celebrazione del matrimonio è assicurata. Zeza può favorire il passaggio al nuovo anno, alla nuova generazione. Diverse sono le ragioni interpretative sulle quali vale la pena di porre l’accento, proprio per il peso che avranno nella successiva elaborazione del discorso cinematografico di Piscicelli. La prima, essenziale ragione, è di natura antropologica, sia per l’interesse nei confronti del recupero e il mantenimento delle tradizioni rituali ed espressive, sia per la scelta stilistica adottata (una mdp non distaccata dalla rappresentazione, ma immersa in essa). Interesse e procedura che, come si è visto, il regista deriva dalle sue esperienze teatrali condotte a Napoli tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del decennio successivo, in particolare quella vissuta con la “Nuova Compagnia di canto popolare” di Roberto De Simone16. 15

A Napoli Zeza è il diminutivo di Lucrezia. Proprio con la “Nuova Compagnia di Canto popolare”, alla cui formazione Piscicelli aveva di fatto assistito, De Simone aveva messo in scena una versione de La canzone di Zeza che aveva colpito molto Eduardo De Filippo, il quale aveva iniziato ad ospitarlo nel “suo” teatro (il “san Ferdinando”) fin dal 1971. Grazie all’entusiastico appoggio di Eduar16

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Frame 1

In tal senso è degna di nota la figura del travestito/transgender (cioè l’uomo che riveste ruoli femminili), forma residuale di quello spettacolo popolare, in cui il travestimento stesso diventa un elemento di linguaggio, che è l’opera buffa napoletana del primo ’70017. Il transgender e il travestimento sono infatti entrambi elementi che non solo ricorrono spesso nella prima produzione piscicelliana, rivestendovi sovente una funzione decisiva, ma che fanno da trait d’union fra Tradizione – in questo caso la prima opera buffa come Forma di spettacolo popolare – e (Post)Modernità. È dunque sintomatico che il cinema piscicelliano inizi proprio con un primo piano su Marcello Colasurdo vestito da Zeza, un incipit che è già una dichiarazione d’intenti [frame 1]. Ne La do (e a quello di Romolo Valli), nel 1974 De Simone riuscì a presentare un particolare allestimento de La canzone di Zeza nella sua seconda partecipazione al Festival dei Due Mondi di Spoleto (la prima fu nel 1972). In quella versione, Pulcinella era interpretato da Eugenio Bennato, Zeza da Giuseppe Barra, Don Nicola da Giovanni Mauriello, Vincenzella da Patrizio Trampetti; i costumi erano di Odette Nicoletti. 17 La stagione dell’opera buffa napoletana si divide in due periodi, prima e dopo il 1734. A partire da quest’anno, l’arrivo di Carlo di Borbone e il governo del ministro Tanucci le faranno infatti perdere la propria connotazione originaria, proprio a cominciare dalla scomparsa del personaggio grottesco del travestito (il baritenore).

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canzone di Zeza si trova inoltre metaforizzata quella che si può considerare come la figura centrale del discorso dell’autore, cioè la doppia valenza ontologica del ruolo materno: una madre castrante che, allo stesso tempo, assicura la vita18. Ma anche ulteriori aspetti appaiono interessanti, come l’ineludibile rapporto con la violenza e il sacrificio che permette al “nuovo” di avanzare (elemento che appartiene alla dimensione arcaico-contadina), ovvero l’emergere di quella dialettica Tradizione/Contestazione che riflette un dato generazionale e che costituirà il nucleo del discorso cinematografico di Piscicelli. Il lavoro successivo viene girato esattamente un anno dopo, sempre nel paese d’origine. È fin troppo facile intravedere in Carnevale popolare a Pomigliano d’Arco molti dei temi già presenti nel titolo d’esordio. Al centro della rappresentazione, infatti, troviamo ancora il gruppo musicale dei disoccupati organizzati, E’ Zezi, che in gran parte erano operai. Inoltre, sia lo sfondo (il carnevale cittadino) che il supporto in cui viene girato il film (pellicola in 16mm a colori) sono gli stessi di Zeza. Considerando che la differenza più significativa tra i due film è rappresentata dal cambiamento del modo di produzione (il progetto nasce come documentario prodotto dalla Seconda Rete di Massimo Fichera), si tratta di capire se, e in che misura, il modo di produzione finisca per orientare le scelte estetiche. Piscicelli arriva in RAI grazie alla segnalazione di Gianbattista Cavallaro, critico dell’area cattolica di sinistra conosciuto durante gli anni pesaresi. È lui stesso a indirizzarlo verso il gruppo di “Cronaca” della Seconda Rete RAI, il programma ideato da Raffaele Siniscalchi che lo curava insieme a Renato Parascandolo e Piero Dorfles. “Cronaca” era una rubrica televisiva d’inchieste realizzata con la diretta partecipazione dei protagonisti delle realtà sociali, dall’ideazione, alle riprese e al montaggio. Contava su un gruppo già costituito all’interno dell’azienda, che filmava anonimamente dei servizi il cui interesse principale erano le fabbriche19. E quando, nel 1977, scoppia la contestazione, la proposta di Piscicelli di andare a filmare quello “strano” Carnevale – organiz18 È lo stesso Piscicelli a dichiarare in un’intervista: «Il discorso che c’è, in tutti i miei film, sulla struttura matriarcale della società napoletana si è dialettizzato, appunto, nei due poli della fondazione (la donna come universo fondante) e della castrazione. Anche Napoli è così. Io trovo che le figure maschili sono in qualche modo comprimarie e non si possano leggere se non in rapporto a questa madre che castra, questa madre, amante, amica». Cit. in F. Bo, S. Cielo, Venti chilometri di cinema, «Filmcritica», XXXVI, n. 353, marzo 1985, p. 172. 19 “Cronaca” andò in onda per dieci anni sulla Seconda Rete, esattamente dal 1974 al 1984.

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zato da una frangia “autonoma” di Pomigliano – viene subito accolta. Quello dei disoccupati organizzati della cittadina campana è infatti un nuovo modo di festeggiare il Carnevale in città, con spettacoli popolari in piazza, canzoni, dibattiti, rappresentazioni montate fuori dalle fabbriche. Il progetto desta subito interesse e viene appoggiato: d’altronde siamo all’inizio del 1977 ed è grande la curiosità nei confronti della forza dirompente costituita dal movimento di Autonomia20. Il richiamo storico permette di far luce su quello che probabilmente è il pregio maggiore di questo lavoro, un documento nel quale non a caso si trova riprodotta quella particolare anima del ’77 che stava sperimentando il mutamento della comunicazione proprio attraverso la contestazione. Un lavoro che dava visibilità proprio a quegli “invisibili”, secondo una celebre definizione di Nanni Balestrini, che improvvisamente «fecero invecchiare di un secolo gran parte degli strumenti comunicativi e interpretativi allora utilizzati»21. Quegli “invisibili” per mezzo dei quali «la rivoluzione, giusta, necessaria, possibile, probabile, stava diventando performance, capacità di espressione libera»22. Carnevale popolare a Pomigliano d’Arco dura complessivamente 23 66’ , ma per la messa in onda la RAI decide di dividerlo e di trasmetterlo in due puntate24. Al di là di quelli che sono gli evidenti legami con il titolo precedente, e la capacità di cogliere lo “spirito del tempo”, il mediometraggio ha una serie di caratteristiche che si rivelano molto utili alla decifrazione del percorso cinematografico dell’autore campano. La prima è senz’altro quella determinata dalla contaminazione linguistica che vi si riscontra, a metà tra il documentario antropologico e il ritratto di marca televisiva. Piscicelli sceglie infatti di inserire una serie di interviste che, pur rimanendo strettamente

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I primi incidenti ci sono già all’inizio di febbraio (il 2), quando gruppi di Autonomia Operaia assaltano la sede del Fronte della gioventù di Roma, dando inizio a una guerriglia con la polizia; ma la vera deflagrazione del “movimento” è il 17, quando Luciano Lama, il segretario della CGIL (che ha appena concordato con il governo e gli imprenditori la sterilizzazione della scala mobile) viene duramente contestato durante un comizio all’Università di Roma. 21 M. Grispigni, Elogio degli invisibili, in AA.VV., Millenovecentosettasette, Manifestolibri: Roma, 1997, p. 31. 22 Ivi, p. 44. 23 La copia visionata, l’unica esistente, è custodita presso la sezione “Teche” della RAI: si tratta di due rulli di “positivo” in 16 mm. Il primo ha una durata complessiva di 29’, il secondo di 37’. 24 La prima puntata sarebbe dovuta essere trasmessa il 5 aprile del 1977 ma, in seguito al rapimento di Guido De Martino, figlio dell’ex segretario del PSI, viene sospesa la messa in onda e procrastinata qualche mese dopo.

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inerenti al contesto narrativo, dal momento che ne prendono spunto (le persone intervistate hanno tutte a che vedere in qualche modo con il movimento dei disoccupati organizzati) in realtà finiscono per allargare il discorso ad altre zone, quasi delle macrofinestre che, nel mutare l’andamento prosodico, ne deviano anche il senso. È il caso delle interviste, in apertura, a una serie di femministe “impegnate” che descrivono la propria giornata. Pur non sembrando magari paradigmatiche della condizione femminile, esse esprimono quantomeno la necessità di approfondire i motivi dell’insoddisfazione e, quindi, di aprire l’orizzonte del discorso. Un ulteriore esempio è costituito dalla lunga doppia intervista ad uno dei disoccupati e a suo padre (il quale si dichiara favorevole alla lotta per il lavoro, ma assolutamente contrario ai modi utilizzati dal figlio e dai suoi compagni per protestare contro la disoccupazione). L’intervista occupa gran parte della seconda parte del mediometraggio e diventa anche l’occasione per rappresentare non solo l’edipica frattura tra la generazione dei Padri e quella dei Figli, ma anche per restituire, rossellinianamente, l’immanenza di quella stessa frattura che il movimento del ’77 stava producendo attraverso la Forma della comunicazione25. L’altro elemento che caratterizza il mediometraggio del 1977 è l’evidenza con cui si manifesta il nucleo tematico che costituirà poi il contesto discorsivo del primo vero lungometraggio. L’interesse mostrato per i personaggi femminili, e per la loro emarginazione, anticipa già la vis di Immacolata e Concetta. Così come, d’altronde, lo spettacolo di musica popolare che si svolge davanti alla fabbrica, ne sembra preannunciare il contrasto dell’iconografia. In tal senso, la dichiarazione di uno dei disoccupati, che sottolinea come «la cultura popolare debba essere gestita dagli intellettuali», prefigura l’intera estetica del regista. Il biennio 1977/1978 è contraddistinto anche dall’incontro con la “Cooperativa officina”26. In quegli anni il cinema scopre, così come gran parte dell’intellettualità italiana, il valore dell’impegno politico militante, la cui cifra comune si riconosce nel tentativo di rappresentare la dinamica sociale, sia attraverso la partecipazione a interventi di 25

«Quello che qui esplode / È la sessualità-gesto-segno / Che interrompe il linguaggio / Codificato, chiuso / Nella catena di montaggio-comprensibilità», in Un altro ’68, «Corrispondente operaio», 1 febbraio 1977. 26 Tra i partecipanti alla cooperativa l’unico nome di rilievo, oltre a quello di Piscicelli, è quello di Antonello Branca, giornalista e documentarista romano che lavorò molto per la televisione e diresse un lungometraggio – Size the Time (1969) – girato in USA sulla condizione del popolo nero.

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gruppo, sia approfondendo personalmente l’esperienza con i disoccupati organizzati. Del primo caso è emblematica l’adesione al film collettivo sulla manifestazione dei 75.000 indetta dal PCI il 23 settembre 1977 a Bologna; del secondo sono un esempio i due cortometraggi in video (Tonino del Cavone e Il rifiuto del lavoro) di cui Piscicelli firma la regia. Nonostante le precarie condizioni in cui si svolsero i lavori27, i due video diventano l’occasione d’incontro con la compagna della sua vita, nonché co-sceneggiatrice e produttrice di quasi tutti i suoi film, Carla Apuzzo. Alla base dei due lavori c’è la stessa idea di partenza, l’identica voglia di realizzare dei ritratti «che raccontassero il movimento attraverso la loro esperienza personale»28. È così che Piscicelli, grazie alla scrittrice Fabrizia Ramondino29, inizia a frequentare le riunioni serali del gruppo dei disoccupati organizzati, individua due di loro e li inizia a seguire nel loro lavoro. Nel primo dei due film (Il rifiuto del lavoro) il protagonista è uno dei militanti, dal curioso atteggiamento ideologico: mentre infatti si schiera per il diritto al lavoro appoggiando il “movimento”, contemporaneamente afferma di non volerne sapere di lavorare. Nonostante il cortometraggio in video sia ormai irreperibile, s’intuisce comunque che la figura di questo ex operaio di fabbrica, ormai stanco, che preferisce scrivere poesie e guadagnarsi il minimo indispensabile facendo consegne di fiori, appare emblematica. Perché sembra impersonare quell’idea che fu dell’intero movimento, fondata sulla «pratica del rifiuto del lavoro per ricomporre il “sapere sociale” frantumato»30, ma anche perché contiene già l’idea di un cinema militante, che «lavori sulle contraddizioni, sugli aspetti polari della realtà e non sulle magnifiche sorti progressive»31. Il rifiuto del lavoro insomma appare un film sul rapporto Natura/Cultura, sull’individualità insopprimibile, sull’impossibilità della vita ad adattarsi ad uno schema ideologico. 27

È lo stesso Piscicelli a ricordare la “povertà” del supporto (furono entrambi girati in 1/2 pollice in bianco e nero) e come il secondo video non fosse stato nemmeno montato. 28 Cit. in S. Piscicelli nell’intervista rilasciata al sottoscritto. 29 Da rilevare che Fabrizia Ramondino avrà un ruolo decisivo anche nel passaggio al cinema di un altra importante figura del cinema napoletano: Mario Martone. È infatti lei a firmare, insieme allo stesso Martone, sia la sceneggiatura del titolo d’esordio del regista (Morte di un matematico napoletano), sia quella dell’episodio girato per I vesuviani. 30 F. Piperno, Sul lavoro non operaio, in AA. VV., Millenovecentosettasette, cit., pp. 142149. 31 Cit. in S. Piscicelli nell’intervista inedita rilasciata al sottoscritto.

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Il secondo lavoro (Tonino del Cavone) è invece incentrato sul ritratto di Tonino Migliore, uno dei leader del movimento dei disoccupati organizzati. Da altre dichiarazioni che Piscicelli mi ha personalmente rilasciato, si può poi dedurre un’altra qualità di questi due video, che riguarda il loro aspetto simbolico-testimoniale. Durante la lavorazione, infatti, vennero proiettati i materiali filmati realizzati nel corso delle riunioni serali. Queste proiezioni iniziarono a produrre un’estrema tensione all’interno del gruppo32, proprio perché testimoniavano la frattura che vi si stava maturando. Una spaccatura che non era solo quella prodottasi all’interno dei disoccupati organizzati, ma che, in qualche modo, rifletteva l’imminente fine dell’intero movimento del ’77. Conclude questa trilogia di ritratti un cortometraggio che prende il titolo proprio dal nome del protagonista (Marcello Colasurdo), il cantante del gruppo dei Zezi. Marcello in realtà presenta alcune differenze con gli altri due titoli della trilogia: a cominciare dalla produzione (viene infatti prodotto dalla Seconda Rete) e dal supporto con cui viene girato (pellicola 16mm in bianco e nero). L’idea nasce dal contatto tra Piscicelli e un produttore che curava i filmati di una piccola rubrica della RAI dal titolo “Passato e presente”33. È lo stesso regista di Pomigliano d’Arco a proporre l’idea che intendeva realizzare, il produttore finanzia il progetto e inserisce il lavoro nella serie della rubrica televisiva denominata “I volti”. Già protagonista, come si ricorderà, de La canzone di Zeza, dove riveste proprio il ruolo di Zeza, la moglie di Pulcinella, nonché di Carnevale popolare a Pomigliano d’Arco, Marcello Colasurdo racconta ora la sua vita e la sua esperienza con i disoccupati organizzati. È ripreso nelle sue attività quotidiane in casa (mentre cucina, mentre fa la barba al padre) e mentre prova la commedia insieme ai compagni del gruppo (Vicenzo parlami chiaro), frutto di una scrittura collettiva che mette al centro una famiglia proletaria nella quale Marcello riveste il ruolo della madre. È proprio lui a interpretare la parte di una donna, per due motivi: rispettare innanzitutto la tradizione che impone a tutti i ruoli della rappresentazione popolare napoletana di essere interpretati 32 «Una volta sono andato con loro al Comune e ho filmato il dialogo fra i rappresentanti e la base, poi ho filmato l’incontro fra i rappresentanti e il Sindaco, poi ho filmato quello che hanno raccontato alla base, e la sera nella sede ho fatto vedere il tutto. È successo un casino, perché si sono resi conto che il movimento era sul crinale». Intervista rilasciata al sottoscritto. 33 La rubrica era curata da Ivan Palermo, Stefano Munafò, Carlo Fido e Walter Preci.

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da attori uomini (come dimostra anche La canzone di Zeza) e, in secondo luogo, protestare nei confronti delle donne che non affiancano il gruppo nella loro battaglia e, quindi, provocare l’emancipazione culturale da quella norma, tipicamente borghese, in cui l’uomo non può avere il ruolo della donna. Gli aspetti rilevanti del film sono principalmente due. Il primo riguarda la focalizzazione su un personaggio che intende mettere in discussione la rigidità dei ruoli sessuali e sociali, tanto nelle sue attività quotidiane («faccio le cose che fa una casalinga»), quanto attraverso l’espressione performativa, intesa come forma di protesta. Marcello Colasurdo diventa dunque un transgender ante litteram, anticipando di fatto quell’icona del cinema piscicelliano che è appunto la transessuale. Il secondo riguarda specificatamente il sesso, in particolare l’omosessualità. Sostenendo che «il sesso non è più libero da che esiste il Padrone», Marcello si dichiara a favore della liberalizzazione sessuale e del riconoscimento della normalità dell’omosessualità, poiché «un uomo è libero effettivamente quando si è levato tutt’e pise do o’ cuollo, quando si è liberato da ogni complesso». Entrambi questi aspetti, insieme al tema del recupero della tradizione, avranno un’importanza decisiva nella realizzazione del primo lungometraggio.

Immacolata e Concetta L’idea e la realizzazione Immacolata e Concetta non avrebbe dovuto essere il suo lungometraggio d’esordio. Nel 1978 Piscicelli stava lavorando alla preparazione di un altro progetto, di cui aveva scritto la sceneggiatura e che aveva già presentato al Ministero per ottenere i contributi statali dell’articolo 28. Napoli, storie di frontiera era il soggetto di un film a episodi, tutti ambientati nella zona liminare tra l’area cittadina e quella agricola dell’entroterra: un primo tentativo di descrivere quella “nuova” Napoli, sospesa fra campagna e metropoli, che si stava configurando fin dagli anni sessanta. Mentre si sta recando a Pomigliano per effettuare le riprese di Marcello, Piscicelli viene casualmente a conoscenza dai giornali di un fatto di cronaca terminato in tragedia, di cui si sono rese protagoniste due amanti lesbiche. L’interesse per la vicenda aumenta quando

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si accorge che una di loro aveva abitato proprio nel cortile della casa di Colasurdo e apprende una serie di notizie sulla loro relazione. Al termine delle riprese di Marcello, si precipita a fare un sopralluogo nel paese in cui le due donne erano andate ad abitare. Immediatamente capisce che la vicenda si può tradurre in un film e che esso può sintetizzare tutti i temi della sua personale ricerca34. In pochi giorni, in preda al “furore creativo”, scrive il trattamento per poi confessare a Carla Apuzzo, che lo seguiva da vicino, di voler abbandonare il progetto su Napoli e di voler indirizzare i propri sforzi nella realizzazione di Immacolata e Concetta35. La sceneggiatura fu scritta durante l’estate da Piscicelli con la collaborazione di Carla Apuzzo. Grazie all’art. 28 la sceneggiatura riceve un piccolo contributo statale (50 milioni), ottenuto anche perché Piscicelli può contare su un contratto di distribuzione36. Ma il percorso produttivo però si rivela subito molto difficile. Al terzo giorno di riprese, per un’incomprensione con il giovane produttore Enzo Porcelli, Goffredo Lombardo della Titanus decide di abbandonare il progetto cui garantiva la distribuzione. È così che la prima settimana di riprese di Immacolata e Concetta si sviluppa in un clima di grande confusione e incertezza. Porcelli annuncia di poter pagare le maestranze solo a lavoro svolto, Piscicelli cerca invece di ricucire il rapporto con Lombardo. Il responsabile della Titanus, al quale il film comunque interessa, gli fa una controproposta offrendogli 25 milioni solo per la sceneggiatura. Le reali intenzioni di Lombardo sono quelle di “rimontare” il film affidandolo a Pasquale Squitieri. Piscicelli tiene duro e rifiuta. Ritorna sul set e cerca l’appoggio della troupe che, dopo una decisione sofferta, si mostra disposta a portare a termine il progetto rinunciando al pagamento settimanale. Dopo l’esame cui Piscicelli viene immediatamente sottoposto («succede a qualsiasi regista al primo film, se la troupe è una troupe degna di questo nome, gli fa l’esame»)37, e a parte qualche piccolo 34

«Tutte le cose che mi frullavano in testa sembravano cristallizzarsi in questo fatto di cronaca, nudo e crudo così com’era». Cit. in S. Piscicelli nell’intervista rilasciata al sottoscritto. 35 A quel tempo si poteva presentare al Ministero un semplice trattamento. 36 Per ottenere i finanziamenti statali, infatti, il film doveva già contare su un contratto con una casa di distribuzione. A ricordarlo è lo stesso Piscicelli: «Io non ho mai cominciato a girare un film senza avere la garanzia della distribuzione […] un’altra delle storture dell’articolo 28 è che per ottenere il finanziamento bisogna già avere la distribuzione». Cit. in A. Fago, A. Piro (a cura di), La carica dei 28, Edizioni Procom: Roma, 1987, p. 58. 37 Sempre nell’intervista che mi ha rilasciato, Piscicelli ha raccontato come ha “superato”

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problema con un operatore forse un po’ tradizionalista, con il quale finisce per litigare a causa di uno “scavalcamento di campo”38, la lavorazione procede in un clima di complicità e affiatamento. Lo si nota dagli aspetti tecnici (i movimenti di macchina, l’illuminazione), che risultano estremamente curati nonostante la precarietà produttiva. Segno che nel progetto è sinceramente coinvolta tutta la troupe, ma anche spia di un atteggiamento già indicativo del metodo di lavoro di Piscicelli, fatto «da un lato, di umiltà per imparare, rubare un po’ di segreti del mestiere» e dall’altro basato sulla fermezza di dire: «faccio il mio film come dico io, come l’ho sognato». Nonostante il film sia girato in presa diretta39, nella fase di post-produzione Piscicelli decide di doppiare la voce di Marcella Michelangeli, fortemente caratterizzata dall’accento genovese. Un particolare di rilievo perché sarà l’unico caso del suo cinema in cui l’autore rinuncia al suono della presa diretta. Grazie alla suggestiva interpretazione di Ida Di Benedetto, Marcella Michelangeli, le due donne, e al significativo apporto di Tommaso Bianco, Lucio Allocca, Lucia Ragni, Immacolata e Concetta riceve il “Gran premio della giuria” (Leopardo d’argento) al XXXII Festival di Locarno del 1979. Sull’onda di questo successo viene presentato anche a Cannes. Il coro della critica è unanimemente favorevole, al punto che il film diventa una delle poche pellicole italiane conservate al MOMA di New York. IL FILM 1) La struttura Il film è composto da 454 inquadrature, per una durata complessiva di 90’. Come evidenzia l’analisi testuale40, sono presenti 6 dissolvenze a nero41, cui bisogna aggiungere una soluzione luministica che riveste la l’esame della troupe dopo un dissidio con la Michelangeli, la quale si rifiutava di seguire le sue indicazioni per una «scena banalissima» che voleva interpretare con un’ingiustificata ironia. 38 «Lui si rifiutava di farlo, io mi sono imposto, alla fine l’abbiamo fatto, l’abbiamo montato e funziona perfettamente. Era la scena clou, in cui Immacolata e la ragazzina... Ad un certo punto entra la moglie di lui [...] non potevo spostare la macchina oltre il muro, non ero a Cinecittà dove puoi alzare la parete, e alla fine ho deciso per uno scavalcamento, ribaltando lo spazio. L’impatto di lei era ancora più forte, viene sottolineato» [Frame 10]. Ibidem. 39 Immacolata e Concetta ha il primato di essere il primo film italiano ad essere girato con la Aaton, mdp ultraleggera e silenziosissima, dunque particolarmente adatta alla presa diretta. 40 Per l’analisi testuale rimando all’appendice. 41 La prima delle dissolvenze verso il nero è inserita tra i titoli di testa e il cartello con la

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ALLE ORIGINI DI GOMORRA

medesima funzione42. È dunque grazie a tale sistema di interpunzione che si può ulteriormente suddividere il testo in 7 sintagmi narrativi, ottenendo in tal modo il seguente schema: A) B) C) D)

Immacolata (seqq. I-IV, inqq. 1-82); Concetta (seqq. V-VI, inqq. 83-113); Immacolata e Concetta (seqq. VII-IX, inqq. 114-185); I ricordi di zia Carmela e la favola dell’uccello grifone (seqq. X-XI, inqq. 185-221); E) La nuova situazione familiare (seqq. XII-XVIII, inqq. 222-286); F) Il ritorno di don Ciro Pappalardo (seqq. XIX-XXIV, inqq. 286369); G) La fine di tutto (seqq. XXV-XXXII, inqq. 370-454). Dallo schema si evince come i primi due sintagmi narrativi rivestano la funzione di prologo. Esso è scandito dai primi due cartelli ed è invece separato dal resto della narrazione dal terzo43, cui si aggiunge una delle 6 dissolvenze in nero. Il motore narrativo della vicenda occupa invece i segmenti C-E-F-G. Nel sintagma C viene presentata la situazione tra le due donne alla loro uscita dal carcere; nel sintagma E si trova invece la soluzione a tale situazione che, oltre a risolvere il primo agone narrativo, stabilisce un apparente ma sostanziale equilibrio. Il nuovo equilibrio viene spezzato in F, dove s’inserisce una nuova turbativa (il ritorno di Ciro, di cui Immacolata rimane incinta) che provoca un’ulteriore situazione conflittuale, la cui risoluzione si trova in G. In questo andamento speculare della narrazione (agone / risoluzione / nuovo agone / nuova risoluzione) assume un interesse particolare il sintagma D che ha poco a che fare con la diegesi in senso stretto. I due episodi su cui esso è incentrato sono infatti a sé stanti, scritta “Immacolata” con cui inizia la narrazione. Le altre sono tra le inqq. 82 e 83 (episodi 5 e 6), tra le inqq. 113 e 114 (episodi 8 e 9), tra le inqq. 185 e 186 (episodi 12 e 13), tra le inqq. 286 e 287 (episodi 21 e 22) e tra le inqq. 369 e 370 (episodi 27 e 28). 42 Non si tratta di una vera e propria dissolvenza a nero come le altre, bensì dell’effetto di un azione che si svolge nel profilmico, quella di Immacolata che spegne la luce dopo che la figlia si è addormentata. Essa però finisce per provocare il medesimo effetto di fotogramma nero: avviene tra le inqq. 221 e 222 (episodi 14 e 15). 43 Se i primi due cartelli hanno esclusivamente una funzione didascalica, che serve a presentare le due protagoniste prima del loro incontro, il terzo, oltre a presentare il loro rapporto, assume anche una funzione ellittico-temporale. Corrisponde infatti a tutto il tempo passato dalle due donne insieme nel carcere che, come rivela la stessa Immacolata nell’inq. 304, corrisponde a più di un anno.

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Frame 2

tanto che non interagiscono (o quasi) con il resto degli eventi ed entrambi hanno come protagonista Immacolata. Nel primo la donna si reca da zia Carmela la quale, dopo averle offerto tarallucci e vino, le ricorda episodi dell’infanzia [foto 11]. Nel secondo la donna racconta alla figlia Lucia la fiaba del “re e della penna dell’uccello grifone” [frame 2], il cui evento centrale è rappresentato da un fratricidio44. Una favola spietata e violenta che aiuta a capire il substrato culturale nel quale vivono le protagoniste e che dà subito l’idea del contesto sociale e antropologico entro il quale è cresciuta la Camorra e quali siano le fondamenta storiche della Gomorra savianea45. L’espressione 44 Il titolo della fiaba è L’auciello Crifone e la si può leggere nel libro curato da Vittorio Imbriani sui “conti” pomiglianesi. Ne sono protagonisti i due figli maggiori di un re, che intendono sottrarre una miracolosa penna al figlio minore. Secondo le disposizioni paterne infatti, chi l’avesse ritrovata sarebbe stato l’erede al trono. Piscicelli sostiene di averla sentita raccontare per la prima volta dalla voce di suo nonno Tommaso, «che la raccontava con le stesse identiche parole trascritte da Viviani». In V. Imbriani (a cura di), XII conti pomiglianesi con varianti avellinesi, montellesi, bolognesi, milanesi, toscane, leccesi, ecc., Libreria Detken e Rocholl: Napoli, 1876. 45 Piscicelli ha infatti chiarito come: «Nella cultura arcaica la violenza, la morte, il sesso etc non erano elementi di una dialettica banale, “cristiana” (Male e Bene), ma, al contrario, erano elementi che segnalavano la complessità dell’esistenza umana, dei rapporti interumani, la forza che sta dietro questi rapporti. Nella visione del mondo arcaica non c’è una separazione tra Male e Bene, ma piuttosto sono facce della stessa complessa vita umana, dove c’è anche l’idea del sacrificio. La Camorra da un lato resta in un certo senso

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di Immacolata con cui si chiude questo episodio è indicativa quanto il pianto provocato dal racconto dei ricordi di zia Carmela. La donna continua infatti a raccontare la favola («e allora ‘u rre capette tutta ‘a storia e facette accidere a tutti e due i figli») nonostante la bambina sia ormai addormentata, facendosi improvvisamente pensierosa, come se nel finale della favola vi sia celato un messaggio che lei in realtà vuol mandare a se stessa [frame 3 e 4]. L’intero episodio dunque, oltre a non far procedere di fatto la diegesi, riveste una funzione evocatrice che intende far emergere una dimensione altra all’interno della vicenda (quella della memoria, della fiaba, di un fondo culturale in gran parte inconscio) e che si pone come elemento in grado di generare la risoluzione della prima situazione conflittuale. È infatti dopo questi due episodi che Immacolata prende finalmente coscienza e cerca di mutare la (propria) situazione, invitando Concetta ad andare a vivere con lei. Una funzione evocatrice che di fatto provoca una sorta di sospensione del racconto e che, di fatto, attribuisce una potenzialità palingenetica alla tradizione orale della narrativa popolare. Diventa quindi importante andare a verificare come venga realizzato il passaggio tra gli altri sintagmi. Appare ad esempio abbastanza significativo quello tra E e F. Anche se esso non è “delimitato” da due evidenti segni di interpunzione come il sintagma D, l’episodio che riguarda il viaggio di Immacolata e Concetta al Santuario della Madonna a Montevergine sembra averne la medesima qualità extradiegetica. Una nuova sospensione che serve ad immettere alcuni dei temi che caratterizzano l’enunciazione piscicelliana. In particolare quello che, attraverso i riti e le credenze popolari (qui sull’illusione rigeneratrice del pellegrinaggio in un luogo di culto), rappresenta la dimensione magica, arcaico-contadina, che appartiene alla cultura dell’autore ed è anche una diretta filiazione dei suoi primi interessi in campo artistico. Un secondo, non meno importante, elemento è quello costituito dall’iconografia spaziale, vero e proprio luogo di produzione di senso. Uno spazio che qui è ancora tipicamente “moderno” (non fedele a questo fondo, ma ne svuota la complessità, la riduce a strumento di potere: usa questo materiale mitico come strumento di guerra e non come elemento della complessità della situazione umana e sociale. Nella visione arcaica, quando arriva il Male, non viene visto come il contrario del Bene, ma come l’altra sua faccia, e il sacrificio quindi propizia qualcosa di positivo, qualcosa che vada avanti, oltre la Morte. La ferocia della Camorra è data dal fatto che il fondo culturale è ancora quello arcaico, dove la violenza esiste come eredità culturale, solo che è sganciata dalla visione organica della vita e diventa solamente strumento di una lotta economica». Cit. in S. Piscicelli, intervista inedita.

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Frame 3 e 4

sarà più così nei suoi film successivi), incentrato sulla dicotomia città/ campagna come metafora di una dicotomia culturale pre-capitalistica, quasi pasoliniana [frame 5]46. Infine il tema del viaggio, uno dei topoi 46

È interessante a tal proposito come, sempre nella citata intervista, Piscicelli abbia sottolineato quanto tenesse presente il discorso pasoliniano, e come in quegli anni il famoso

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del cinema piscicelliano, dal momento che non solo c’è un viaggio in quasi tutti i titoli della sua filmografia, ma anche perché esso è sempre l’attraversamento di uno spazio simbolico.

Frame 5

2) I temi Fin dalle sue prime proiezioni, ciò che a molti apparve evidente fu che Immacolata e Concetta non fosse semplicemente un melodramma sull’omosessualità femminile da ascrivere al cosiddetto cinema meridionalistico47, ma un testo che richiedesse un’interpretazione ben più complessa. La sua ambientazione e gli stereotipi culturali che vi erano rappresentati, in considerazione anche della provenienza “critica” dell’autore, non ingannarono i primi recensori. Se però risultò immediatamente evidente che la sottrazione fosse una delle peculiarità stilistiche del film48, non a tutti – e comunque non subito – fu chiaro come articolo sulla “scomparsa delle lucciole” fosse per lui un vero e proprio punto di riferimento. L’articolo in questione è in P. P. Pasolini, Il vuoto di potere in Italia, «Corriere della Sera», 1 febbraio 1975. Poi in Id., Scritti Corsari, Garzanti: Milano, 1975, pp. 128-134. 47 Cfr. L. Miccichè, “Immacolata e Concetta” di Salvatore Piscicelli, «L’Avanti» 11 ottobre 1979/23 aprile 1980. Poi in Id., Il cinema italiano degli anni settanta, cit., p. 335. 48 Mentre Edoardo Bruno lo definì semplicemente come «film della sottrazione», Paolo Bertetto sottolineò come «l’operazione di Piscicelli consiste in una oggettivazione fredda che gela il materiale, toglie eccezionalità alle scene». Cfr. E. Bruno, Sorrento ‘79: indicazioni e ricerca, «Filmcritica», n. 299, ottobre 1979, pp. 354-355; P. Bertetto, Salvatore Piscicelli: l’altra faccia della sceneggiata, cit., p. 142.

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il lavoro sugli stereotipi fosse determinato da una precisa scelta estetica che aveva il proprio presupposto nella fusione di formule espressive “alte” con quelle “basse”49, esattamente come teorizzavano in quegli anni i “Cahiers”, all’epoca vero e proprio punto di riferimento per il giovane Piscicelli. Una proposta estetica che si relaziona contemporaneamente con il coevo dibattito teorico e alcune delle più originali soluzioni espressive. In Immacolata e Concetta l’autore di Pomigliano d’Arco lavora infatti sul romanzo d’appendice, sul melodramma, sul teatro eduardiano, sulla sceneggiata napoletana, sulla ricerca musicale di Roberto De Simone, sul fotoromanzo, alla stessa maniera – e quindi con la stessa filosofia – di alcuni esponenti del Nuovo cinema tedesco, in particolare Kluge e Fassbinder, autori che Piscicelli aveva conosciuto durante gli anni pesaresi50. Un’enunciazione fondata dunque sulla contaminazione, il raffreddamento, il mutamento di segno. L’operazione più esplicita in tal senso, sembra essere quella sul sesso, o sul porno come evidenziò qualcuno51. La rappresentazione del sesso trasgredisce infatti le regole stesse del genere: non solo perché nega la sessualità fallica o perché contravviene alla prima regola del cinema pornografico (non commentando nessuna delle sequenze hard con interventi musicali), ma proprio perché, avvenendo all’interno di una forma tradizionale (il melodramma, la sceneggiata) che non la prevede, «inverte gli equilibri tra “detto” e “non detto”»52. Peraltro 49 Ci fu chi notò ad esempio che «se il pregio e la novità consistono, sul principio, nell’applicazione di un codice o di codici narrativi decalcati sul mélo e la sceneggiata, sul fotoromanzo e sui testi d’appendice (con tutti gli effetti conformi: dalla gestualità alle voci, alla stessa angolazione della cinepresa), successivamente affiora la coscienza di una ben diversa complessità; o, se si vuole, dell’esigenza di una diversa complessità». Cit. in G. De Santi, Immacolata e Concetta, «Cineforum», n. 195, giugno 1980, p. 404. Uno dei primi a leggere il film in chiave postmoderna è stato Vito Zagarrio, sostenendo che il film «può essere preso come esempio emblematico della chiusura di una fase del cinema italiano “moderno” e come apertura di una nuova fase, nella proposta di un’estetica – e di un’etica, o antietica – della “post-modernità”». Cit. in V. Zagarrio, “Immacolata e Concetta” di Salvatore Piscicelli. Sceneggiate e scene madri, in L. Miccichè (a cura di), Il cinema del riflusso, Marsilio: Venezia, 1997, p. 446. 50 Alcuni sottolinearono la vicinanza, tematica ed estetica con Fassbinder, e altri ravvisarono il legame con Werner Schroeter, che proprio l’anno precedente aveva girato un film a Napoli, un melodramma intitolato Neapolitanische Geschwister – Nel regno di Napoli, che ha il merito di far conoscere Ida Di Benedetto (nel ruolo di una lesbica che tenta di far prostituire una ragazzina) a Piscicelli. Nessuno invece ha mai ricordato l’importanza che ha rivestito il cinema di Alexander Kluge nella formazione piscicelliana e che invece, dall’intervista che mi ha rilasciato, sembra aver avuto una funzione fondamentale: «Kluge era un intellettuale amico di Adorno. […] Un filosofo che fa cinema è una cosa molto interessante». 51 Cfr. P. Bertetto, Salvatore Piscicelli: l’altra faccia della sceneggiata, cit., p. 143. 52 S. Masi, Due regine pagane, «Rinascita», n° 18, maggio 1980.

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la trasgressione investe non solo il genere, ma anche la composizione (nell’esasperata formalizzazione che “raffredda” il potenziale voyeuristico delle sequenze in questione) e il linguaggio, di cui è evidente l’accentuazione simbolica (forte è la connotazione metaforica e/o metonimica di molti piani, così come sovrarappresentativo appare il carattere di alcuni raccordi). Un’operazione che s’ispira a – e in qualche modo prosegue – quella dell’ultimo Pasolini53. In Immacolata e Concetta le sequenze di sesso sono 4: la IIId (la fellatio di Immacolata a don Ciro Pappalardo davanti agli occhi di Marittella); la VIIg (il primo rapporto lesbico tra le due protagoniste); la XXI (il coito tra Immacolata e don Ciro); la XXXb (il secondo rapporto lesbico). C’è poi da dire che il film è pieno di riferimenti sessuali impliciti: a volte il sesso viene tentato e poi frustrato (come nelle seqq. Ib e XXVIb), o vi allude solo la rappresentazione mostrandone l’immediato dopo (come nelle seqq. XIVa e XXVb) oppure è fatto oggetto di allusioni verbali e/o espressive (come nelle seqq. IIc, IIIa, IIIb e XXc). In ognuno di questi rapporti comunque, siano essi esplicitati, tentati o allusi, protagonista è sempre Immacolata: è lei infatti a interagire alternativamente con Ciro Pappalardo o con Concetta. Non si trova, invece, nessun tipo di riferimento sessuale al rapporto con il marito, la cui mancanza di riferimenti sembra marcare il segno di una vera e propria assenza. L’altro dato interessante emerge confrontando i rapporti che Immacolata ha con Ciro e quelli che ha con l’amica54. I rapporti eterosessuali si svolgono in due diversi momenti e sono separati da una lunga pausa temporale: il primo inizia con il tentativo di approccio dell’uomo frustrato da Immacolata (seq. Ib), per poi passare alle allusioni (seqq. IIIb e IIIc) e quindi alla prima delle due scene hard fra i due, quella della seq. IIId; il secondo inizia con le allusioni fatte dall’uomo durante la cena ad un ristorante (seq. XXc), per passare alla rappresentazione del coito (seq. XXI) e poi a delegare l’atto al non-detto/non-visto (seq. XXVb). Oltre ad avere un’identica progressione, che peraltro conduce anche ad un esito simile (il carcere nel 53 «Furono le riflessioni seguite alla visione dell’ultimo film di Pasolini, Salò, che mi spinsero a osare, mi convinsero che si poteva tentare una rappresentazione della sessualità anche estrema». Cit. in S. Piscicelli, Cinema come progetto, intervista a cura di P. Spila, «Cinecritica», VI, n. 24, ottobre-dicembre 2001, p. 18. 54 L’unica fin qui ad aver tentato un’interpretazione del film mettendo in rilievo la differenza con cui Immacolata gestisce i rapporti eterosessuali da quelli omosessuali è Àine O’Healy, che ha infatti il merito di intuire un aspetto fondamentale del testo filmico. Si veda http:// tell.fll.purdue.edu/RLA-Archive/1999/Italian/OHEALY.HTM.

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primo caso, la morte nel secondo), quello di Immacolata nei confronti di don Ciro è sempre connotato come un rapporto di sottomissione. Non solo perché i tentativi, le offerte, le allusioni dell’uomo sembrano non lasciarle altra scelta che quella di cedergli, ma anche perché tale sudditanza è sottolineata da alcune soluzioni formali all’interno delle due sequenze hard.

Frame 6

Nella prima, la dinamica della mdp (un elaborato movimento di carrello misto a panoramica) termina con un punto di vista che, pur distanziandosi e quindi osservando freddamente la fellatio di Immacolata su Ciro Pappalardo, finisce per “schiacciarla” contro il corpo dell’uomo, ritrarla in ginocchio davanti a lui, mettendone così in risalto l’atto di totale sottomissione [frame 6]. Anche nella seconda la soluzione è simile, tanto che l’angolazione (addirittura più accentuata) e l’obiettivo grandangolare (che distorce la prospettiva) contribuiscono a comprimere il corpo dell’uomo su quello di Immacolata [frame 7]. Diversa invece è la situazione per ciò che riguarda i rapporti sessuali tra le due compagne. Qui si passa dall’ellissi narrativa, cui allude il terzo cartello, alla sequenza in cui viene rappresentato il primo dei loro due rapporti sessuali (seq. VIIg), poi ad un idillico momento post-amplesso interamente sui loro PPP che ne delega il loro momento sessuale al non-visto (seq. XIVa), quindi al tentativo di approccio

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di Concetta frustrato da Immacolata, affaticata dal rapporto con Ciro (seq. XXVIb)55, per terminare con la seconda sequenza di esplicito rapporto lesbico, dove peraltro già si respira quella mortifera pulsione che segnerà il finale del film (seq. XXXb).

Frame 7

Oltre ad avere un paradigma diverso rispetto a quella con Ciro (qui è allusione/atto/spostamento dell’atto sul non detto/frustrazione dell’atto/ atto come preannuncio di morte, là invece è prima frustrazione dell’atto/ allusione/atto e poi allusione/atto/spostamento dell’atto sul non detto), anche nella scelta del punto di vista c’è una differenza sostanziale. Mentre i rapporti sessuali con l’uomo sono osservati a distanza e marcati da angolazioni della mdp che ne connotano la sudditanza, quelli tra Immacolata e Concetta sono colti dalla mdp sempre a ridosso dei loro corpi, alla loro stessa altezza, per restituire la parità del loro rapporto. Inoltre essi sono connotati da un’accentuazione metaforica e/o metonimica che, astraendo il senso, ne suggerisce la completa libertà. Quello tra le due compagne, d’altronde, è un rapporto che non è determinato da formule economiche – come invece è quello tra Immacolata e Ciro, 55

Immacolata respinge Concetta che la vorrebbe abbracciare dicendole di non desiderare un nuovo rapporto sessuale perché «sento ancora ‘u cazzo ‘e chillo che m’abbrucia».

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dove, o prima o dopo, c’è sempre un riferimento ad uno scambio di tale natura –, e nemmeno da convenzioni sociali – come è quello mancato tra lei e Pasquale. Se dunque appare corretto parlare di rappresentazione del sesso come chiave interpretativa dei rapporti di potere all’interno della società56, ci si può spingere anche ad un’ulteriore considerazione. Durante un incontro di presentazione a Sorrento Piscicelli parlò di «spazio lacerato e contraddittorio», prodotto dalla rappresentazione dei «valori ancora legati ai residui della civiltà contadina e urbanotradizionale» insieme alle «ideologie e i comportamenti condizionati dalle nuove forme di sviluppo capitalistico, a loro volta contraddetti da idee e pratiche di rifiuto, di contestazione e autonomia»57. In tal senso, appare indicativa la sequenza in cui Immacolata rientra a casa con una serie di regali per Concetta, le dice che ha rilevato una delle macellerie di Pappalardo per poi chiederle di aiutarla (seq. XXVII). È un momento molto importante della narrazione, perché qui Immacolata esplicita un diverso modo di cercare rifugio di fronte alle difficoltà. Cercare un rifugio che chiaramente è basato su uno scambio di natura economica, quasi a voler sottolinearne l’intima connessione che esso intrattiene con un modello culturale (capitalistico) fin qui alieno dai comportamenti della donna. Immacolata, infatti, regala alcuni abiti femminili a Concetta (sempre rappresentata in abiti decisamente maschili, spesso con pantaloni e camicia) e proprio con questo gesto sembra che voglia mutarne il segno, negarne l’identità; in un certo senso, incoraggiarne anche l’adesione ad una logica economica [foto 16 e 17]58. Da tale mutamento di prospettiva nell’orizzonte culturale di Immacolata si deduce uno dei temi portanti del discorso piscicelliano. Se infatti il ricorso a quel mondo mitico – sia esso rappresentato dalla tradizione orale, dalla fiaba (come avviene nel macrosintagma D), dalla dimensione onirica59, dai riti e dalle 56 Che il sesso sia uno dei temi portanti del suo discorso, lo si evince da alcune dichiarazioni dello stesso Piscicelli. Ad esempio: «la riflessione sulla rappresentazione del sesso al cinema mi ha sempre molto interessato, perché lì si gioca un problema di sguardo e di riconoscibilità del gesto, e il sesso è una delle poche cose che implicano nello spettatore un coinvolgimento non razionale». Cit. in S. Piscicelli, Cinema come progetto, intervista cit., p. 17. 57 S. Piscicelli, Dichiarazioni dell’autore, in Incontri Internazionali del cinema/Incontro con il cinema italiano, Volume di documentazione a cura dell’Ufficio stampa degli incontri internazionali di Sorrento, 1979, p. 404. 58 Immacolata offre a Concetta l’opportunità di andare a lavorare in macelleria con lei, ma la compagna rifiuta perché, dice, non conosce il “mestiere”. 59 Durante il viaggio, la voice over di Immacolata racconta di un sogno avuto la notte

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credenze popolari (come avviene per il viaggio a Montevergine) –, è in grado di produrre sempre una presa di coscienza e soluzioni di equilibrio che sono viste sostanzialmente in maniera positiva, quando invece Immacolata si rifugia in un altro modello e abbraccia una nuova (diversa) prospettiva culturale che non le appartiene, la donna è destinata ad essere sopraffatta dallo stesso segno che lei stessa ha contribuito a modificare. Immacolata viene infatti uccisa dalla mano della compagna che, per il gesto estremo, ha cura di (tra)vestirsi proprio con l’abito ricevuto in regalo. Quello di Concetta è un gesto «colto nella sua primitività atavica e rurale» mentre mima il colpo secco di una zappa: un gesto arcaico e rituale che carica di un significato “sovrastorico” l’immagine finale del film. Nel piano conclusivo [frame 8, inq. 454], infatti, le gambe di Immacolata sono di “quinta” in basso a sinistra; Concetta invece è in FI nella parte destra del quadro, con le spalle attaccate al muro scrostato della macelleria mentre si lascia cadere a terra disperata per

Frame 8 precedente: «Stanotte mi sono sognata che stavo sopra uno scoglio, uno scoglio altissimo e sotto ‘o mare era agitato. ‘N faccia a mme ce steva n’atu scoglio, cull’erba verde, gli alberi, e Luciella ca curreva, curreva e io la chiamavo, ma ‘a voce nun m’asciva. È durato un’eternità. Poi all’improvviso era d’estate, stevm facenn ‘e buttiglie ‘e pummarola e Luciella steva seduto di fronte a me, e rideva, rideva…nun la firniva cchiù e rirere. È malu segno quann’uno rire rind’e suonn!».

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il gesto che ha appena compiuto; il punto di vista della mdp è dal basso verso l’alto, l’obiettivo grandangolare denota una visione distaccata, “raffreddata”. Un’inquadratura attraversata da una serie di tensioni in forte rapporto dialettico tra loro: tonali, cromatiche, volumetriche, spaziali, tra il campo e il fuori campo, tra la staticità del corpo di Immacolata e la dinamica di quello di Concetta, tra le linee stesse della composizione, nelle quali si scontrano l’orizzontalità (la Cultura) della prima con la verticalità (la Natura) della seconda. È una tensione dialettica che caratterizza l’intero quadro e che restituisce un’immagine dilaniata da un conflitto interno, quello tra due culture profondamente differenti, che inevitabilmente si fa portatrice di morte. Una morte che è, insieme, sfida radicale (al Sistema) e simulacro destinato a dissolvere l’oggetto di un possibile scambio simbolico60. Tali considerazioni ci portano a rilevare come in Immacolata e Concetta il discorso estetico sia intrinsecamente connesso ad un’elaborata posizione critica, e che l’enunciazione abbia i suoi presupposti proprio in quella «critica dell’ideologia e della politica, nella critica delle prospettive di lotta anticapitalistica vissuta come privazione, come sottrazione del personale, del corporeo, dei bisogni alla pratica di emancipazione»61 evocata dall’autore. Come ulteriore testimonianza, può essere utile rammentare quella che avrebbe dovuto essere la sequenza conclusiva del film secondo la sceneggiatura. Una sequenza che Piscicelli gira e poi decide di non montare – o forse sarebbe più giusto dire di “sottrarre” – proprio perché ritenuta pleonastica [foto 15]: C’è un secondo finale […]: dopo l’immagine attuale, finale del film, in cui Concetta si lascia cadere lungo il muro della macelleria, lei dopo un po’ si alzava e girava tutta la notte in macchina. All’alba, finalmente, fermava la macchina sotto la fabbrica, con questo profilo che all’alba si annunciava minaccioso, tirava fuori il cadavere, lo tirava giù sul prato, e si accasciava su di lei piangendo. Io l’avevo anche girato, poi l’ho tagliato... mi sembrava che questo sottofondo della fabbrica stesse troppo a sottolineare qualcosa che il film aveva già raccontato62.

60 Per le nozioni di simulacro e scambio simbolico il riferimento è a J. Baudrillard, L’èchange symbolique et la mort, Gallimard: Parigi, 1976 [tr. it. Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli: Milano, 1979]. 61 Cit. in S. Piscicelli in Incontri Internazionali del cinema…, cit., p. 404. 62 S. Piscicelli, intervista rilasciata al sottoscritto, cit.

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ALLE ORIGINI DI GOMORRA

Frame 9

Un ulteriore rilievo riguarda la presenza costante della televisione nel film63. Oltre a svolgere una funzione sostitutiva, ponendosi cioè come il mezzo che va a riempire il vuoto (sunya) di un rapporto sfaldato o di uno che si sta sfaldando (non a caso nei primi due dei tre casi è proprio Pasquale a seguire le trasmissioni, mentre nell’ultimo è Concetta a prenderne il posto, proprio nel momento in cui Immacolata riprende a vedersi con Ciro Pappalardo), la televisione sembra assumere una funzione simbolica. A suggerirlo è la seconda delle due sequenze, l’unica nella quale si vedono provenire delle immagini e dei suoni (nella prima, infatti, si sente solo la voce, nella terza non si vedono immagini) e nella quale, come si è detto, Piscicelli sceglie di mostrare il proprio lavoro d’esordio [frame 9]. Oltre a contenere un

63 Tre sono le sequenze dove la tv riveste un ruolo attivo. Nella prima (seq. IIa) la presenza del mezzo è relegata al fuori campo, dal momento che non entra mai nell’inquadratura. Di essa ci si accorge perché si sente provenire la voce di Mike Buongiorno che sta conducendo un telequiz (probabilmente “Rischiatutto”) e perché il marito di Immacolata le rivolge lo sguardo. Nella seconda invece (seq. XIVd) il mezzo continua ad essere oggetto della visione da parte di Pasquale, come nella precedente seq. IIa, ma questa volta esso rientra nello spazio dell’inquadratura. Con un effetto di truka le immagini che scorrono autocitano alcuni brani de La canzone di Zeza. Nella terza (seq. XXIIa) il televisore pur essendo acceso non trasmette nulla (emette solo un fastidioso rumore), a testimoniare probabilmente che i programmi son finiti. Concetta vi si trova davanti, addormentata in attesa del rientro di Immacolata.

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elemento di ulteriore richiamo a quella tradizione arcaico-contadina che è lo sfondo del film, questa è anche l’unica delle tre sequenze in questione dove la televisione assume un ruolo attivo. Non solo perché è l’unica in cui si vede ciò che trasmette, ma anche perché solo qui la televisione si pone in posizione dialettica e non come mero sottofondo sonoro. È solo quando interagisce con essa che Pasquale ha una reazione, rabbiosa e frustrata al tempo stesso (seq. XVI). Piscicelli sembra insomma proporre un modello di televisione che attivi il proprio fruitore, lo costringa a reagire, a non addormentarsi di fronte al mondo ovattato e disturbante dei telequiz. Un modello di televisione che parte infatti da una proposta antropologica. 3) La messinscena Se per ciò che riguarda i temi si può facilmente trovare più di un elemento in comune con la sua precedente produzione, per quel che concerne la messinscena i legami risultano invece meno evidenti. Innanzitutto perché il primo lungometraggio dell’autore campano è anche il primo titolo di fiction della sua filmografia, nonostante la sua attività antecedente vanti già cinque lavori. Ciò infatti comporta un differente modo di raccontare: sostanzialmente un diverso modo di utilizzare i movimenti e le posizioni della mdp e un diverso metodo di assemblare il materiale. Se, infatti, nell’attività che va dal 1976 al 1978 è possibile riscontrare la fortissima prevalenza del profilmico sul filmico e un montaggio lineare in cui le giunte hanno una funzione di mero raccordo narrativo, nel film del 1979 la dinamica della mdp e le scelte di montaggio connotano l’affabulazione. Mentre là la mdp è quasi sempre statica e i pochi movimenti che vi si rilevano sono determinati dall’azione, qui si riscontra invece un’accentuata dinamica filmica (in ben 122 delle 454 inqq.) con una cospicua presenza di movimenti “attivi” (in 71 casi su 122). La cifra stilistica del film è rappresentata dai movimenti di carrello (spesso elaborati e misti a panoramiche) e da quelli di panoramica a 180° o 360° che, come nota Vito Zagarrio64, ricordano quelli di alcune frequentazioni pesaresi. 64 «Raramente la mdp si anima in un movimento di servizio, e quando lo fa è invece soprattutto per dei movimenti di regia, come delle lente panoramiche a 180 gradi [...]. La panoramica circolare è sicuramente una delle cifre linguistiche del film; oppure è laterale, ma spesso a seguire e poi a scavalcare una delle due protagoniste, come se proponesse un prolungamento del suo sguardo». Cit. in V. Zagarrio, “Immacolata e Concetta” di Salvatore Piscicelli. Sceneggiate e scene madri, cit., p. 447.

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Frame 10

Tra la produzione dei cortometraggi e l’esordio nel lungometraggio si riscontrano due caratteristiche ricorrenti. La prima riguarda uno degli elementi che appartengono allo spazio della messinscena e che viene utilizzato sia in funzione compositiva sia in chiave semantica. In Immacolata e Concetta, infatti, lo specchio (o, comunque, la superficie riflettente) è spesso l’oggetto che catalizza lo sguardo di Piscicelli: sia nelle sequenze dove moltiplica le possibilità dinamico-compositive [come la IIIa ad esempio, frame 10], sia in quelle in cui assume una funzione discorsiva. Oltre a rivelare uno sdoppiamento, che talvolta sottolinea una presa di coscienza (inq. 223) oppure l’inizio del mutamento del rapporto (inqq. 334 e 386), spesso le superfici riflettenti sono oggetto di slittamenti dello sguardo, per comunicare la distanza dagli eventi e sottolinearne il “raffreddamento” (inqq. 50, 74 e 150), oppure di caratterizzazioni simboliche (inqq. 292 e 441)65. Queste peraltro richiamano uno dei rari movimenti attivi della mdp presenti

65

Nell’inq. 292 nel vetro della porta di casa di Antonietta, la vicina di casa di Immacolata, si riflettono le immagini di Concetta e Lucia, che scompaiono quando la donna apre la porta, preannunciando in qualche modo l’imminente distanza/perdita. Nell’inq. 441, invece, un carrello S/D sulle FI delle due compagne, riflesse nello specchio a tre ante dell’armadio della camera da letto, provoca un efficace gioco visivo che fa “scomparire” l’immagine triplicata di Immacolata per far “apparire” quella di Concetta, quasi a suggerire la scomparsa della prima per mano della seconda.

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nel suo cinema precedente: la lenta panoramica S/D che dalla MF di Marcello Colasurdo si sposta sulla sua immagine riflessa. Si può dire che nel cinema di Piscicelli lo specchio/sdoppiamento sia spesso una traccia perturbante, una premonizione dell’abisso66. L’altro elemento è rappresentato dalla modalità in cui vengono utilizzati i dettagli, i particolari e i piani ravvicinati. Essa ha infatti spesso un’accentuazione metaforica e/o metonimica, che assume la doppia funzione di sospendere il tempo della narrazione e di optare per «un montaggio che rifiuta di elidere i tempi morti, e che costringe a una riflessione continua sull’immagine»67. È così che l’inserimento dei piani ravvicinati travalica il valore diegetico, cristallizzando l’oggetto della rappresentazione oltre lo spazio e il tempo in cui è immerso. Una “cristallizzazione” del senso che si realizza attraverso una deterritorializzazione e una caratterizzazione extratemporale. Tutto ciò avviene in particolare nelle sequenze dell’Amore (seqq. VIIg e XIVa) e della Morte (seq. XXXIIb), composte quasi esclusivamente da PP e PPP. Si tratta di sequenze che astraggono il rapporto con il contesto narrativo, che vengono sottratte alla determinazione dello spazio e del tempo, con l’effetto di cristallizzare il legame Eros/Thànatos in una dimensione sovrastorica. Il cospicuo numero dei piani ravvicinati presenti nel film e la loro posizione, quasi sempre strategica all’interno della sequenza, rivela poi un’altra peculiarità del testo. Una sorta di insert portrait di origine fotoromanzesca che, mettendo da parte la diegesi, costringe alla riflessione sull’immagine. Un modo che sembra rifarsi direttamente alle precedenti esperienze dell’autore dove, come si è visto, proprio il ritratto è il centro irradiatore del discorso. Nel lungometraggio del 1979 però, il carattere simbolico di tale scelta arriva a definire il dato socio-antropologico in chiave sovrastorica, quasi a voler rappresentare i personaggi del film nella loro condizione di subalternità e marginalità senza tempo: la sottomissione della donna nei rapporti con l’uomo, quella dell’essere umano nei rapporti di natura “economica”, l’omosessualità come in-determinazione sociale. 66 «La figura del doppio, strettamente legata a quella della morte e della magia, pone da sola tutti i problemi dell’interpretazione psicologica e psicanalitica. […] Tutta la nostra cultura è piena di questa ossessione del doppio separato, fin sotto la forma più sottile che le ha dato Freud in Das Unheimliche, nell’angoscia che scaturisce dalle cose più familiari, dove sorge con intensità tanto maggiore in quanto nella sua forma più semplice: la vertigine della separazione». Cit. in J. Baudrillard, L’èchange symbolique et la mort, cit., pp. 154, 156. 67 V. Zagarrio, “Immacolata e Concetta” di Salvatore Piscicelli. Sceneggiate e scene madri, cit., p. 449.

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La trasgressione del testo non è solo tematica, ma anche linguistica. Nel film si trova un frequente ricorso allo “scavalcamento di campo”, che denota da parte del regista un proposito, dichiaratamente stilistico, di contravvenire a una delle regole principali del linguaggio cinematografico. Oltre a quello citato da Piscicelli68, in cui peraltro non si verifica un vero e proprio scavalcamento, sono ben 3 i casi in cui è possibile rilevare tale soluzione linguistico-espressiva: il primo è tra le inqq. 94 e 95 (Concetta chiede al proprio capo di poter assentarsi dal lavoro per poi armarsi e ferire il marito della propria compagna), il secondo tra le inqq. 230 e 231 (Immacolata invita Concetta ad andare a vivere a casa sua), il terzo tra le inqq. 307 e 308 (durante la cena al ristorante “La taverna” tra Immacolata e Ciro, sequenza che segna il loro riavvicinamento). Interessante è sottolineare come in tutti e tre i casi la trasgressione linguistica abbia sempre una precisa funzione espressiva, quella di sottolineare un atto trasgressivo del codice sociale e/o morale. Trasgressione che riguarda anche la contaminazione tra modelli e pratiche “alte” e “basse”. Il regista campano mescola la recitazione del teatro popolare napoletano, fortemente caricato di espressività, con una messinscena in stile “giapponese”, nella quale il Sunyata si realizza attraverso lo svuotamento dello spazio, del gesto attoriale, la sottrazione degli elementi del décor; o anche il frequente ricorso ad inquadrature con un punto di vista dal basso, in posizione tatami (in tal senso, la già citata inquadratura 454 appare ancora esemplare: Concetta si lascia scivolare a terra, “svuotando” simbolicamente il muro della macelleria sul quale cerca un appoggio alla sua disperazione). La contaminazione tra diverse forme è anche il primo degli elementi che portano ad una sorta di straniamento (ovviamente lontano da qualsiasi interpretazione brechtiana)69. Da Brecht in realtà Piscicelli non mutua (quasi) nessuna delle pratiche stranianti che ne contraddistinguono l’idea di teatro70, anche se condivide con lui ciò che la messinscena 68

Si veda la nota 45. Zagarrio, ad esempio, parla di tecniche simili: «[Piscicelli] mette insieme i toni enfatici del teatro napoletano[…] con le tecniche di estraniamento mutuate da Brecht, molto probabilmente proprio attraverso la frequentazione del nuovo cinema tedesco». Cit. in V. Zagarrio, “Immacolata e Concetta”…, cit., p. 451. 70 Si potrebbe ad esempio pensare come pratica “brechtiana” il modo in cui vengono utilizzati cartelli e insegne: la prima e l’ultima sequenza del film iniziano sulla “Macelleria” di Immacolata, luogo dove si consuma (ciclicamente, sembrerebbe suggerire il testo) la tragedia. In realtà invece, mentre nel teatro del drammaturgo tedesco i cartelli hanno un intento didascalico, qui sembrano avere una caratterizzazione più metaforico-concettuale. 69

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dovrebbe produrre sullo spettatore: evitarne il coinvolgimento emotivo e costringerlo a prendere posizione. Un elemento straniante è ad esempio quello costituito dalla musica, non a caso anch’essa frutto di una contaminatio. Piscicelli affida i commenti musicali ad un gruppo (il “Tempo argentino”) che unisce il sound jazzistico a quello del tango classico, mentre all’inizio e alla fine del film inserisce due forme di canto popolare campano (Fronne e Tammurriata)71. Anche nella gestione degli interventi musicali è dunque evidente l’intenzione di connotare la ricerca espressiva alta con quella popolare (il tango, peraltro, era il ballo più in voga a Napoli negli anni cinquanta e sessanta). Sono i sintomi di una incipiente postmodernità espressa su una base tematica e iconografica ancora moderna (che risulta ancora evidente, ad esempio, nella contrapposizione città/campagna o in quella tra logica capitalista/logica arcaicocontadina). Uno schematismo forse troppo esplicito, ma che nel suo modo di far convivere due modelli (l’Aut/Aut moderno con l’Et-Et postmoderno), fa di Immacolata e Concetta un oggetto fondamentale per la decodifica del contesto culturale in cui viene prodotto. Un testo che, proprio attraverso l’incertezza che rivela, diventa imprescindibile per comprendere l’inizio, in Italia, della cultura della crisi.

Bestiario metropolitano Il premio al Festival di Locarno, e l’ottima accoglienza della critica riservata a Immacolata e Concetta, forniscono la spinta propulsiva dei successivi progetti. È così che, proprio nel momento in cui si trasferisce a Napoli per riprendere in mano la sceneggiatura di Napoli, storie di frontiera e presentarla al Ministero, si concretizza in breve tempo un progetto propostogli da Enrico Zummo per la neonata Terza Rete regionale della Campania, la cui direzione era affidata a Franco Monteleone72. Un programma in più puntate ideato proprio insieme a 71 Le due canzoni furono non a caso registrate da Giovanni Coffarelli, un contadino di Somma Vesuviana “scoperto” da Roberto De Simone, nonché uno degli ultimi eredi della tradizione di canto popolare campano. 72 La nascita della sede RAI di Napoli fa parte del progetto di decentramento ideativo e produttivo avviato dalla televisione pubblica tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta. Il progetto prevedeva che ci fossero quattro centri di produzione (Roma, Milano, Torino e Napoli) in grado di creare dei palinsesti per la radio e la televisione. Sulla nascita della Terza Rete della Campania cfr. F. Monteleone, Napoli e la RAI: Donnarumma non va più all’assalto, «Nord e Sud», 47(4), 2000, pp. 252-250.

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Zummo che, tentando di riproporre l’esperienza fatta con i disoccupati organizzati, presentasse una serie di ritratti legati insieme dalla comune appartenenza alla metropoli-Napoli. Ritratti di persone a loro modo rappresentative di un mondo, di uno sfondo socio-culturale estremamente eterogeneo e complesso come quello partenopeo. Ottenuto un budget di modestissima entità (equivalente a circa 3 milioni complessivi) e una mini-troupe (un operatore e uno “specializzato di ripresa”73, cui si aggiunge la collaborazione gratuita di Carla Apuzzo), l’autore di Pomigliano d’Arco gira 6 di questi ritratti tra il gennaio e il marzo del 1980 su un supporto video analogico (Beta). Ad ogni ritratto Piscicelli dedica 3 giorni di riprese, per un totale complessivo di 18 giorni di shooting, per poi successivamente montarli nella sala di montaggio riservata al tg locale. Ognuno di essi ha una durata di circa 30’ e diventano altrettante puntate di Bestiario metropolitano, un programma che va in onda, con cadenza settimanale, sulla Terza Rete della Campania tra il 18 settembre e l’11 novembre dello stesso anno. Il primo di questi ritratti s’intitola Il teatrino di casa Bianco: qui Piscicelli entra personalmente in scena e organizza un’irruzione nella casa di uno degli interpreti del suo lungometraggio d’esordio. La sua intenzione è quella di ritrarre, nella sua realtà quotidiana, Tommaso Bianco (che riveste il ruolo di Ciro Pappalardo in Immacolata e Concetta), attore formatosi alla scuola di Eduardo De Filippo, ma che ne Il teatrino afferma di sentirsi più vicino a Raffaele Viviani. Giocando sulla diversità culturale dei due grandi drammaturghi (Bianco sottolinea come Viviani, a differenza di Eduardo, non sia nato a Napoli, bensì a Castellammare), egli mette in luce la doppia anima (della teatralità) partenopea, divisa tra una radice piccolo-borghese e una proletaria, di cui proprio Eduardo e Raffaele Viviani sono i massimi esponenti. È così che l’incontro tra Piscicelli e Bianco finisce per diventare una riflessione sul rapporto tra il Teatro e la Vita, tra la finzione e la realtà, ma anche sulla peculiarità della scena napoletana. Nel secondo episodio Piscicelli incontra Salvatore Tavassi, un giovane tossicodipendente che guida la telecamera sui luoghi in cui ha trascorso la propria gioventù (il Petraio, sulla collina del Vomero, e Riva fiorita a Posillipo). Attraverso di essi, Tavassi traccia l’itinerario della propria esperienza con droghe di ogni genere: dall’hashish, all’LSD, all’eroina. Questo percorso tocca il suo apice nell’incontro con l’amico 73

L’operatore era Giorgio Magliulo, mentre il secondo collaboratore doveva ricoprire più ruoli (l’elettricista, il macchinista, l’autista nonché il fonico).

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LA TELEVISIONE COME “MATERIALE” NEL PRIMO CINEMA DI SALVATORE PISCICELLI

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Roberto [frame 11], in cui il rito del “buco” – visto per la prima volta alla tv nazionale! – è restituito in tutta la sua integrità e senza alcun filtro linguistico. Dalla preparazione delle siringhe al momento in cui l’eroina fa effetto, la telecamera costruisce un lunghissimo pianosequenza della durata di quasi 5 minuti e mezzo74.

Frame 11

L’episodio I muschi e le erbe è soprattutto un film sull’emarginazione, condizione cui Tavassi ha dovuto far fronte fin dalla propria adolescenza, e sull’ontologica contraddizione del “tossico”, diviso tra l’ideologia della Morte e la speranza nella Vita (che nel caso di Salvatore è riversata tutta sulla figlia, Noemi). Il secondo ritratto è dunque una preziosa indagine analitica sui comportamenti sociali dell’epoca che, nello scoprire qualche luogo nascosto di Napoli, sembra già preannunciare il contesto de Le occasioni di Rosa. Nell’episodio Terrazza a ponente l’incontro è con Vittorio Baratti, un raffinato collezionista d’arte, proprietario di uno splendido ap74

C’è da dire che il lungo pianosequenza è interrotto per due volte dall’inserimento di un PP del figlio di Roberto.

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partamento a Posillipo posto sopra una rocca di origine romana. È lui che, nella prima parte, fa da guida in una lunga passeggiata sotto “Pusilleco” alla scoperta dell’antica Napoli, svelandone curiosità archeologiche e mostrando preziosi reperti. Il filmato si conclude sulla terrazza della villa, dove Baratti riunisce per una colazione un gruppo di amici, tutti esperti e/o amatori d’arte. Prendendo spunto dalla grande Mostra “Arte del ’600 a Napoli”, tenutasi a Capodimonte, il gruppo intavola una discussione che, partendo dalla particolarità di tale esperienza artistica e dall’eredità storica dei Borboni, finisce per diventare una vera e propria riflessione sulle origini della “napoletanità” e sulle peculiarità della cultura partenopea. Da notare che Vittorio Baratti avrà un piccolo ma significativo ruolo ne Le occasioni di Rosa. Sarà infatti uno dei “clienti” della protagonista. Bbubbone ha come protagonista Sergio Maria Boccalatte, un albergatore con la passione per il teatro (il titolo del filmato è infatti tratto dall’omonimo spettacolo teatrale scritto, messo in scena e interpretato proprio da Boccalatte e di cui si vedono alcuni brani). La telecamera lo segue durante una sua giornata: dal faticoso risveglio mattutino alla passeggiata al cimitero fuori città, dal suo passaggio in albergo fino alla flânerie notturna che lo porta da “Raffaele tazza ‘e cafè”, bettola del rione “Sanità” dove cena insieme ad alcuni “femminielli” [frame 12]. L’incontro con i transessuali occupa tutta la seconda parte di Bbubbone e qui Boccalatte sembra quasi farsi da parte, lasciando spazio ai suoi compagni notturni. A loro chiede infatti di raccontare le proprie storie, le operazioni che decidono di affrontare per la loro trasformazione fisica, le loro esperienze di prostituzione e le perversioni in cui si imbattono. C’è di tutto, persino una situazione bunueliana, quando uno di loro ricorda di essersi dovuto vestire con un abito da sposa e sdraiare dentro una cassa da morto per soddisfare il desiderio del suo cliente. In questo filmato si respira già l’aria del secondo lungometraggio piscicelliano, sia perché – come ha rivelato lo stesso autore75 – Bbubbone fu una sorta di provino per Sergio Boccalatte (che infatti avrà una parte importante ne Le occasioni di Rosa), sia perché l’incontro con le transessuali servirà come fonte d’ispirazione per uno degli episodi più significativi del film del 1981. 75 «Il pezzo intitolato Bbubbone fu concepito come una specie di provino-scandaglio per l’attore Sergio Boccalatte». Cit. in S. Piscicelli, dichiarazioni dell’autore sul catalogo del Festival di Salsomaggiore 1983.

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LA TELEVISIONE COME “MATERIALE” NEL PRIMO CINEMA DI SALVATORE PISCICELLI

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Frame 12

Visione privata è invece la storia di Antonio Rialdi, un italiano di madre greca che gestisce il cinema “ItalNapoli”, piccola sala d’essai partenopea. Nella sala vuota, con le immagini di Un americano a Parigi di Vincente Minnelli che gli scorrono silenziose alle spalle, Rialdi rievoca la propria vicenda: dall’iniziale amore per il cinema, sbocciato in una sala all’aperto ad Atene verso la metà degli anni trenta, alla fuga in Italia durante la guerra, all’esercizio della piccola sala al Corso Vittorio Emanuele a Napoli. Il racconto della tragedia familiare dell’esercente si mescola a un appassionato atto d’amore verso il cinema, mentre le immagini di Rialdi vengono di tanto in tanto contrappuntate da quelle del proiezionista che, in stretto dialetto napoletano, commenta sarcastico il racconto del suo datore di lavoro. La sua diventa così la storia paradigmatica della passione spettatoriale per la settima arte. Quella passione di estrazione popolare che, a partire da metà degli anni settanta, sembra svanire con la crisi del cinema e che Rialdi vorrebbe invece tenere ancora viva (non a caso il filmato termina con una significativa invettiva: «Noi faremo la battaglia con il coltello tra i denti»). Il sesto e ultimo filmato, Sax solo76, cerca di individuare le complesse radici della musica di un grande jazzista napoletano, James Senese. 76

Sax solo in realtà era stato programmato come quarto, ma problemi tecnici ne hanno fatto slittare la messa in onda.

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È sicuramente uno dei più interessanti ritratti della serie per almeno due ragioni. La prima è che, oltre a rivelare l’interesse dell’autore di Pomigliano per le prime sperimentazioni italiane di metissage musicale (in questo caso l’armonia jazzistica americana contaminata con la componente melodica partenopea che contraddistingue il caratteristico sound di Senese)77, il video riesce a restituirne l’aspetto avanguardistico e contemporaneamente la profonda fisicità del sassofonista («La musica parte da un fatto fisico, dal sentimento», egli sostiene). In secondo luogo, Sax solo preannuncia una delle più celebri sequenze de Le occasioni di Rosa, la “passeggiata” della ragazza all’inizio del film. Esattamente come Rosa, in alcune sequenze del filmato Senese viene ritratto mentre cammina o mentre suona il suo strumento nel mega-quartiere popolare che sta sorgendo tra Secondigliano, Miano e Casoria. Si tratta di sequenze particolarmente significative. Oltre a documentare l’urbanizzazione in fieri di un quartiere che diventerà lo sfondo di molto cinema partenopeo successivo [frame 13]78, Piscicelli tende soprattutto a sottolineare il rapporto decisivo tra le sperimentazioni dell’avanguardia musicale partenopea e la cultura popolare da cui nasce e con cui interagisce (non a caso il filmato inizia con il ritorno del sassofonista napoletano nel suo quartiere natio). Lo fa con alcune panoramiche che “legano” Senese, e il suo tipico sound sperimentale, ai grandi palazzoni del quartiere in costruzione: mirabile sintesi di una società in cui vitalità e degradazione sono effetti della medesima matrice culturale [frame 14]. È dunque evidente quanto il corpus di questi sei ritratti, oltre ad avere una propria logica strutturale, sia concepito come un’indagine sulle origini e sulla trasformazione che sta subendo la cultura napoletana nel passaggio agli anni ottanta. Un’indagine che utilizza due principali direttrici – quella socio-antropologica e quella linguistica, basata sull’intermedialità – dalle quali scaturisce un documento prezioso per capire le contraddizioni che caratterizzano l’esplosione del “fenomeno-Napoli”. In tal senso Bestiario metropolitano va considerato 77 Il metissage musicale sarà infatti l’anima del terzo lungometraggio di Piscicelli, Blues metropolitano. Tra l’altro James Senese sarebbe dovuto esserne uno degli interpreti, ma vi rinunciò per avere litigato con Pino Daniele e con il suo produttore. 78 Molto del miglior cinema italiano ambientato a Napoli ha come sfondo proprio le “vele” di Secondigliano, da alcuni titoli di Vincenzo Marra (Estranei alla massa e Vento di terra) al Gomorra di Matteo Garrone. Si veda F. Crispino, La regia dei nuovi esordienti, in La meglio gioventù. Nuovo cinema italiano 2000-2006, a cura di V. Zagarrio, Marsilio: Venezia, 2006; F. Crispino, Gomorra, in Non solo Gomorra, a cura di D. Monetti, L. Pallanch, P. De Sanctis, Edizione Sabinae: Roma, 2008.

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LA TELEVISIONE COME “MATERIALE” NEL PRIMO CINEMA DI SALVATORE PISCICELLI

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Frame 13 e 14

non solo una delle punte più elevate della ricerca televisiva dell’epoca, ma anche come un tassello fondativo di quello che successivamente sarà il “nuovo” cinema napoletano. È importante inoltre notare come, per certi versi, la serie si ricolleghi a Immacolata e Concetta, sia direttamente (come nel caso de Il teatrino di casa Bianco) sia indirettamente, poiché tutti i lavori sono attraversati dal desiderio di “giocare” sul terreno del “cinema diretto”, esattamente come i lavori di preparazione al film del 1979: Tonino del

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ALLE ORIGINI DI GOMORRA

Cavone, Il rifiuto del lavoro e, soprattutto, Marcello. Per altri versi, invece, è rilevante osservare come la serie, dove Piscicelli inizia a mescolare istanza documentaria e messinscena, si distingua dalla precedente produzione televisiva e anticipi la produzione cinematografica successiva. Da ciò emergono alcune considerazioni: la prima riguarda in generale lo spostamento dell’interesse del regista dalla campagna verso l’area metropolitana, che infatti diventerà gradualmente lo sfondo dei suoi lavori successivi; la seconda interessa invece specificatamente Bestiario metropolitano, che si rivela il fondamentale trait d’union tra la primissima produzione dell’autore e quella immediatamente successiva; la terza, infine, mette bene in evidenza la prassi “intermediale” con cui Piscicelli intende e definisce il rapporto tra cinema e televisione. La coincidenza con la preparazione del suo secondo lungometraggio, infatti, gli fa “funzionalizzare” una parte del lavoro televisivo ai fini del progetto cinematografico79, senza che ciò faccia perdere l’autonomia linguistica ed espressiva ai rispettivi prodotti. Pur essendo consapevolmente connotato di una “peculiarità archivistica”80, il corpus dei sei ritratti raggiunge in alcuni momenti un livello d’indagine – sociale, antropologica, addirittura psicoanalitica (ne I muschi e le erbe) – assolutamente sconosciuto ai coevi programmi televisivi. Quello di Piscicelli rimane dunque un esempio di televisione assolutamente innovativo nel panorama della tv nazionale, capace di indagare e raccontare personaggi rappresentativi della nuova marginalità (le transessuali, i “tossici”) pur conservando sempre uno sguardo autoriale. L’aspetto più interessante di Bestiario metropolitano è però, a mio parere, il fatto che esso si pone come materiale di preparazione, nonfinito. Un materiale la cui intima natura sta proprio nel prendere forma sia dagli stadi precedenti (Immacolata e Concetta) che da quelli successivi (Le occasioni di Rosa) della prassi artistica di Piscicelli. Ed è proprio tale indefinitezza, che ne caratterizza i presupposti e lo sfondo, a rendere seducente l’intero corpus di Bestiario. Proprio perché il suo anomalo costituirsi come forma-in-movimento, non solo lo fa andare ben oltre le intenzioni dell’autore, ma lo fa anche (auto)dotare di una dinamica centrifuga che, frazionando, dilatando, talvolta dissolvendo il senso, arricchisce di inedite polisemie tutti e sei i ritratti che lo costituiscono. 79 «Funzionalizzai alla sua preparazione parte del lavoro di Bestiario. Alcune sequenze di Rosa sono vere e proprie citazioni». Ibidem. 80 Cfr. F. Bo, S. Cielo, Venti chilometri di cinema, «Filmcritica», XXXVI, n. 353, marzo 1985; p. 173.

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Le occasioni di Rosa L’idea e la realizzazione Dopo il lungometraggio d’esordio Piscicelli vuole approfondire l’elaborazione espressiva già contenuta in Immacolata e Concetta, nonché mettere più a fuoco il proprio interesse per l’area metropolitana e per il suo anomalo, quanto caotico, sviluppo81. Già dalla fine del 1979 è a Napoli per allestire una pièce teatrale scritta con Carla Apuzzo, la cui vicenda ha ancora come sfondo il territorio arcaico contadino ai confini della provincia napoletana (Bassa Campania)82. Riprende inoltre in mano Napoli, storie di frontiera, la cui prima stesura era costruita su alcuni episodi tratti da racconti scritti nel corso degli anni settanta. Il comune denominatore di questa nuova avventura era rappresentato da due elementi: il primo scaturiva dall’ambientazione (le locations previste riguardavano quella zona di confine tra la periferia e la città che Piscicelli ben conosceva); il secondo dal genere (il noir) in cui si innervavano le storie. Tuttavia, lavorando alla vecchia sceneggiatura, qualcosa non lo convince più. La connotazione noir inizia lentamente a sfumare, mentre prende corpo la vicenda di una giovane operaia, che si prostituisce per tentare di abbandonare la fabbrica in cui lavora83. L’incontro con Sergio Boccalatte diventa una fonte d’ispirazione 81

«Dopo Immacolata avevo voglia di fare un film sulla città». Cit. in F. Ferzetti, Conversazione con Salvatore Piscicelli, cit., p. 34. 82 Costruito in due atti, Bassa Campania si svolge “in un piccolo paese non identificato dell’entroterra napoletano”. La scena è suddivisa in tre zone (una grande cucina-soggiorno centrale, un letto a due piazze nella parte destra, lo scorcio di un cortile delimitato da un muro nella parte sinistra) e ha come protagonisti quattro personaggi: la madre; Luisa, la figlia maggiore; Bruno, il marito di Luisa; Maria, la sorella minore. Le indicazioni riportate nel testo non prevedono alcun fondale perché «è importante che lo spazio della messa in scena risulti artificiale, ma al tempo stesso è fondamentale che i vari elementi di arredo e gli oggetti di scena siano del tutto realistici», che la parlata dialettale sia quella dell’entroterra a nord-est di Napoli ed è significativo come ci sia il divieto categorico di utilizzare brani o canzoni della tradizione musicale napoletana. Per la prima rappresentazione al Teatro Nuovo di Napoli (dicembre 1980), Piscicelli utilizza infatti brani della Fantasia per violino e piano op. 47 di Schoënberg per intervallare le scene. È una vicenda di tradimenti (Bruno tradisce la moglie con la sorella), di vita (Maria rimane infatti incinta), e di morte (la madre vuole che lei abortisca e Luisa si suicida) che ha molti elementi in comune (tematici e formali) sia con Immacolata e Concetta sia con Le occasioni di Rosa. 83 «La prima idea è stata quella di concentrarsi su questa ragazza, per cui sono andato a Napoli e ho cominciato un po’ a girovagare nella periferia». Cit. in S. Piscicelli, nell’intervista rilasciata al sottoscritto. Da notare che anche in Bassa Campania c’è un significativo riferimento alla Fabbrica: Maria infatti riferisce alla madre di volersene andare di casa proprio perché in fabbrica può guadagnare più di quanto non faccia a casa facendo la sarta.

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fondamentale per dare profondità alla storia84. Durante la stesura di questa nuova sceneggiatura, la vicenda della giovane ex-operaia prostituta s’intreccia con quella di Boccalatte, mescolandosi persino alle ispirazioni che gli provengono dalla frequentazione della periferia85. Il lavoro intrapreso per Bestiario metropolitano contribuisce così a definire perfettamente lo sfondo della vicenda, oltre a fornire preziose indicazioni sul casting. La nuova sceneggiatura viene scritta tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980. Ottiene un finanziamento ministeriale di 100 milioni, ai quali si aggiunge il minimo garantito della Cineriz (per la distribuzione)86. A differenza di Immacolata e Concetta, Le occasioni di Rosa viene prodotto direttamente dalla coppia Piscicelli/Apuzzo. È questo un elemento non secondario: Le occasioni è infatti uno dei primi casi di cinema autoprodotto – quindi sostanzialmente alieno dalle dinamiche produttive del cinema nostrano – che muove da una figura nuova87, anch’essa contaminata, quella del regista-producer. L’autore non è più coinvolto soltanto nell’aspetto estetico ma anche in quello produttivo-commerciale, nonché in quello merceologico88. Per la prima volta Piscicelli utilizza la pellicola da 35mm, che gli permette di lavorare sulle sorgenti naturali di luce e ottenere una varietà e gradazione tonale molto più ampia rispetto ai lavori precedenti. Vuole ottenere «una fotografia di spazi e non di atmosfere, quasi iper84

«Sergio Boccalatte era uno che faceva l’attore, e lì nel suo giro, che non era solo un giro omosessuale, era un giro strano, piano piano si è concretizzato questo film, che è in parte ispirato alla storia di Sergio. Ho unito questo personaggio femminile che cercavo di fissare da un po’ di tempo con la storia di Sergio». Ibidem. 85 «Girovagando per Napoli, [...] mi sono reso conto che c’era un nuovo esemplare umano che circolava: questi ragazzi giovani, di vent’anni... mi ricordo che andavamo in giro per Napoli e c’era il garzone del macellaio che ti invitava a fare il tiro di coca, c’erano questi posti dove si incontravano i gay, che calavano dalla periferia, ma calavano anche da Posillipo. Il mescolamento... la politica aveva perso la presa sulla realtà». Ibidem. 86 Piscicelli è uno dei rari casi in cui l’art. 28 sia andato a buon fine. Sia Immacolata e Concetta che Le occasioni di Rosa sono infatti due film che non solo hanno restituito il finanziamento ricevuto, ma che sono riusciti addirittura a ottenere un guadagno sulla cifra finanziata. Per i dati degli incassi e dei film finanziati dall’art. 28 si veda A. Fago, A. Piro (a cura di), La carica dei 28, cit., p. 58. 87 In realtà gli esempi di cinema autoprodotto sono innumerevoli e iniziano con il cinema stesso. Quello che qui si vuole sottolineare è l’estraneità di gran parte della “modernità” cinematografica, e in special modo di quella italiana, dalle connessioni tra l’estetica e il modo di produzione che vengono realizzate da tale figura. 88 Sull’argomento Piscicelli è sempre stato esplicito: «Non si può più pensare di far cinema ignorando le regole del mercato. La figura dell’autore distaccato da tutto, che si dedica alla sola creazione, è una figura idealista, superata. Pensare un film significa pensare anche al suo budget, al fatto che è una merce, che si vende su un certo mercato e via dicendo». Cit. in F. Ferzetti, Conversazione con Salvatore Piscicelli, cit., p. 38.

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realista, con immagini ben inquadrate e molta profondità di campo, per riprendere quest’idea di forza del colore»89. A tal fine si serve della collaborazione di Renato Tafuri, del quale lo aveva molto colpito la suggestione luministica, quasi materica dei suoi lavori precedenti90. La differenza più rilevante che però va colta nella preparazione dei due lungometraggi sta nelle scelte di casting. Per Le occasioni di Rosa Piscicelli decide di servirsi, nella maggior parte dei casi, di attoripersone per «innervare dei personaggi reali in una struttura finzionale che a sua volta veniva direttamente da una certa realtà»91: Marina Suma viene scelta casualmente e il suo fidanzato di allora diventa subito il compagno di Rosa. Questa scelta comporta un diverso metodo di lavorare con gli attori, rispetto a quello usato in Immacolata e Concetta. Nel lungometraggio del 1979 non c’era solo una sceneggiatura ben definita, ma anche attori consapevoli dei personaggi che interpretavano. Nel nuovo film Piscicelli decide invece di dare agli interpreti solo poche indicazioni, di dar spazio alla loro spontaneità «alla loro, se si può dire, ingenuità recitativa, senza dare troppe indicazioni di carattere generale, cogliendo poi quello che mi sembrava più opportuno per lo sviluppo del personaggio»92. Tenuti all’oscuro del 89

Ivi, p. 40. Piscicelli aveva conosciuto il direttore della fotografia attraverso Giuseppe Bertolucci (con il quale aveva realizzato Oggetti smarriti) e aveva molto apprezzato la luce degli interni di Calderon, film tratto dall’opera teatrale pasoliniana e realizzato da Giorgio Pressburger, in cui Tafuri aveva utilizzato l’illuminazione dei neon in forma espressiva. Un tipo di illuminazione che, fino ad allora, era un vero e proprio tabù per i direttori della fotografia della “vecchia scuola” e che serve come punto di partenza per pianificare il progetto luministico-cromatico de Le occasioni. Come precisa lo stesso Piscicelli: «Quando gli feci leggere la sceneggiatura, Tafuri immaginò un film con la luce calda, meridionale (citò Donna Flor e i suoi due mariti) e in questa chiave mi fece vedere il Calderon. Io gli dissi che volevo l’esatto opposto: luce fredda, profondità di campo, nettezza di sguardo. Poi lo condussi a Napoli in giro per la periferia (tra l’altro era un giorno senza sole, il che aiutò). Ne rimase abbastanza sconvolto (Renato era di origine napoletana, ma ignorava del tutto quel tipo di contesto) e capì quello che volevo. Non che l’elemento caldo dovesse mancare, ma andava inscritto, quando serviva, in una trama fredda. Va aggiunto che, in fase di stampa, chiesi alla Technicolor di sottoporre il film al trattamento ENR, messo a punto dal tecnico del colore Ernesto Novelli per Apocalypse Now, che consisteva in un passaggio della copia, dopo il bagno del colore, in un bagno del bianco e nero; col risultato di ottenere dei neri più fondi, più contrasto e incisione, una leggera desaturazione del colore, in definitiva un maggior grafismo dell’immagine: tutte cose che esaltavano la scelta stilistica di base». 91 Piscicelli ha precisato di aver «cercato per quanto possibile di far interpretare questi personaggi a della gente la cui situazione personale si avvicinava o addirittura coincideva con quella della finzione, giocando su questo equilibrio instabile fra realtà e finzione. Nel film ci sono due o tre personaggi che interpretano se stessi, ma con una quota di messa in scena abbastanza violenta da escludere ogni rischio di verismo». Cit. in F. Ferzetti, Conversazione con Salvatore Piscicelli, cit., p. 36. 92 Cit. in S. Piscicelli, intervista rilasciata al sottoscritto, cit. 90

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progetto complessivo, e del percorso drammaturgico del personaggio, essi soggiacciono ad una evidente frustrazione (che deriva dalla continua incertezza del ruolo, del percorso drammatico, dell’orizzonte interpretativo), dalla quale essi vengono quindi caratterizzati proprio in quanto personaggi: non a caso il paradigma frustrazione/incertezza è una delle cifre discorsive del film. IL FILM 1) La struttura Il lungometraggio è composto da 372 inquadrature, per una durata complessiva di 86’93. A differenza del film precedente, dove scandisce la ripartizione sintagmatica della struttura narrativa94, qui il fotogramma nero è presente solo in due casi, in coincidenza dell’inizio e della fine della fabula95. Oltre a rivestire una funzione strutturale, che intende separare nettamente la diegesi dai titoli di testa e di coda, esso ha quindi anche una funzione discorsiva. Il nero/buio, elemento nel quale coincidono il terminus a quo e il terminus ad quem della story, sembra avere un significato che oltrepassa quello meramente diegetico-strutturale96, e fa pensare ad un suo coinvolgimento simbolico: negazione di un preciso codice iconico (la solarità, il colorismo dell’ambientazione napoletana)97 e insieme strumento espressivo in chiave discorsiva. Nel primo caso esso sembra appartenere direttamente (e completamente) alla narrazione, dal momento che la vicenda inizia proprio da una stanza buia. In tal senso è importante notare come sia da considerarsi diegetica anche la lunga assolvenza luministica, ottenuta con la lenta e progressiva penetrazione della luce all’interno dell’inquadratura (prima da una porta, poi dalla finestra del bagno la cui serranda viene alzata da Rosa)98, e come

93

È da precisare che la durata della versione video, uscita nel marzo 2010 a cura della Ripley’s Home Video, è invece di 85’. Per l’analisi testuale rimando invece all’appendice. 94 Vedi supra pp. 25-26. 95 Anche in Bassa Campania il nero/buio scandisce il cambio tra una scena e l’altra. Anzi, le indicazioni del testo teatrale prevedono l’inserimento di stacchi musicali non appartenenti «alla tradizione musicale napoletana». 96 Nel primo caso il fotogramma nero con cui si apre il film appartiene direttamente alla diegesi in cui, la lenta e progressiva penetrazione della luce (prima da una porta, poi dalla finestra del bagno, la cui serranda viene tirata su da Rosa) nell’appartamento dove la ragazza vive insieme alla madre e al fratello, danno l’effetto di una lunga assolvenza dal nero (inqq. 1 e 2). 97 In tal senso, va ricordato anche il contributo della livida fotografia, dalla luce al neon che “raffredda” gli interni, alla “velatura” e al filtraggio del sole nelle riprese in esterno giorno. 98 Inqq. 1 e 2.

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essa stia proprio a significare la lenta “nascita” del personaggio, appena emerso dal buio della fabbrica attraverso il rifiuto del lavoro. Nel secondo, invece, pur non appartenendo direttamente alla narrazione, il “nero/ buio” sembra esserne comunque un effetto. La luce anche in questo caso va via progressivamente: per prima è Rosa a “scomparire”, quando spegne l’interruttore della lampada del letto dove è sdraiata [frame 15]; e successivamente Tonino e Gino, riflessi nello specchio della camera in CM. Anche in questo caso è chiaro il carattere simbolico del fotogramma nero. Verso di esso, infatti, spinge una pulsione che identifica una polisemica Fine/Morte – del feto, del/i rapporto/i, del personaggio, della possibilità esistenziale di Rosa, del film. Nel sottolineare come il buio sia ciò da cui i personaggi provengono, ma anche ciò a cui essi ritornano, sembra esserci l’intenzione di suggerire un’ipotesi circolare alla struttura del film: una Ringkomposition che autorizza una interpretazione in chiave ideologica ed esistenziale. La ciclicità del percorso drammatico dei personaggi connota infatti un mondo dal quale non si può uscire e, in definitiva, esprime l’universale storia dell’Uomo che, avendo mancato le occasioni offertegli dalla Storia (dalla Vita), è condannato a ritornare nel buio dal quale proviene.

Frame 15

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Anche se non ci sono marche linguistiche che ne facilitano la ripartizione, come in Immacolata e Concetta, si può comunque ottenere un’ulteriore suddivisione del film in sintagmi narrativi, che risulta così diviso in 12 capitoli: A) Rosa (seqq. I-V; inqq. 1-39) B) Tonino (seqq. VI-VII, inqq. 40-57); C) Pasquale e le transessuali (seqq. VIII-IX, inqq. 58-65); D) Gino (seqq. X e XII, inqq. 66-85 e 113-129); E) Angelo (seqq. XI e XIII, inqq. 86-112 e 130-145) F) Affari sporchi (seqq. XIV-XV, inqq. 146-169); G) Rosa se ne va di casa (seqq. XVI-XIX, inqq. 170-194); H) La proposta di Pasquale (seq. XX, inqq. 195-203); I) La preoccupazioni di Gino (seqq. XXI-XXII, inqq. 204-243); L) La solfatara (seq. XXIII, inqq. 244-254); M) Progetto per una nuova family (seqq. XXIV-XXXI, inqq. 255330); O) Le occasioni mancate (seq. XXXII-XXXV, inqq. 331-372). Seguendo tale ripartizione è più semplice accorgersi della peculiarità dello schema narrativo. Esso fa coesistere un modello classico, quello che definisce rigorosamente il testo in tre atti99, con uno decisamente (post)moderno, anti-tradizionale, sconcertante, che lascia aperte tutte le storie iniziate e che fa della permeabilità con il contesto una delle sue caratteristiche più evidenti. Dopo i primi cinque capitoli, ognuno dedicato alla vaga descrizione di uno o più (come in C) personaggi, la focalizzazione si concentra infatti su una di queste vicende, quella che ha come protagonisti Rosa, Tonino e Gino. Gli altri personaggi, pur continuando ad essere oggetto della rappresentazione100, sono invece progressivamente marginalizzati. Di qualcuno non si sa nemmeno che fine faccia (Pasquale), altri sono destinati a scomparire (Angelo), altri ancora ritornano come una eco di ciò che il film ha mostrato in precedenza (Monica). Fin dalle intenzioni iniziali della sceneggiatura, d’altronde, c’era già 99 Il primo atto (capitoli A-E) ha la funzione di presentare i personaggi e il contesto nel quale agiscono, il secondo (capitoli F-J) li raffigura nei loro tentativi di modificare le proprie situazioni, il terzo (capitoli K-L) è quello che si concentra sulla vicenda di Rosa, Tonino e Gino. 100 Pasquale riappare nel capitolo H, Monica nel capitolo L, mentre Angelo riappare in G, in I e in K, mentre in J è addirittura il protagonista insieme a Rosa.

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l’idea di adottare un doppio registro strutturale, “chiuso” e “aperto” al tempo stesso101. Una metodologia sperimentale di ricerca narrativa che, permettendo di raccontare una storia in maniera tradizionale, non impedisse di farlo con estrema libertà. Nell’idea di contaminare i registri strutturali, oltre che i generi (il melò, il noir, il comico, il drammatico, l’intimismo minimalista), il testo viene quindi connotato da una scrittura autocontraddittoria. In tal senso si può dire che Le occasioni di Rosa sia un esempio di “testo incerto”: perché vi si ravvisa una generale, ontologica incertezza, sia dei personaggi e del contesto in cui agiscono, sia dello sguardo che li ritrae. 2) I temi Molti sono i temi che legano Le occasioni di Rosa a Immacolata e Concetta. Quelli più evidenti sono il sesso, il denaro, i rapporti di potere all’interno di una coppia; ma non va trascurato il contesto ambientale, vero e proprio specchio dell’anima. Quest’ultimo sembra addirittura essere strutturato, nell’iconografia del film, in modo molto più consapevole rispetto al lungometraggio precedente (dove peraltro non era l’elemento centrale). Qui invece il rapporto tra il personaggio e lo sfondo in cui agisce è uno dei motivi che maggiormente caratterizzano l’enunciazione della testualità filmica. Lo testimoniano in particolare alcune sequenze dove è proprio la forma dello sguardo a costruire il legame: sia con un frequente uso dei campi (CM, MCL, CL, CLL), sia utilizzando talvolta i movimenti di macchina per sottolineare lo slittamento scopico che esalta il passaggio tra il personaggio e il contesto ambientale. La prima sequenza è quella della flânerie di Rosa (seq. II), contraddistinta da movimenti di camera-car, da un’alternanza di campi e piani a media distanza (girati con obbiettivi panfocali che esaltano il rapporto tra Rosa e lo sfondo) e connotata «dalla libido dell’attraversamento urbano»102: nelle prime tre delle cinque inquadrature della sequenza Piscicelli mette Rosa al centro del quadro per poi distanziarsene (inqq. 11 e 13) o, addirittura, “superarla” e concentrarsi sui palazzi di Secondigliano che appaiono sullo sfondo (inq. 12) [frame 16, 17 e 18]. Nei due piani successivi sono le vie e i grandi palazzi del quartiere popolare della periferia napoletana (già protagonista di Sax solo) a diventare oggetto dello sguardo. 101 «Fin da quando abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura ci siamo messi alla ricerca di una struttura che fosse rigida e al tempo stesso abbastanza elastica». Cit. in F. Ferzetti, Conversazione con Salvatore Piscicelli, cit., p. 43. 102 P. Bertetto, Salvatore Piscicelli: l’altra faccia della sceneggiata, cit., p. 144.

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Frame 16, 17 e 18

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La sequenza segue quella in cui Rosa comunica alla madre la propria intenzione di non voler più andare in fabbrica: l’inizio della lacerazione. Il raccordo tra le due sequenze iniziali lega dunque il dramma familiare, privato, al contesto da cui nasce ed entro il quale si sviluppa: un quartiere dormitorio, privo di infrastrutture, in cui molti altri drammi simili si celano dentro gli enormi edifici, dove l’alienazione sociale, la spersonalizzazione dell’individuo, sembrano essere diretta conseguenza di un’errata pianificazione urbanistica e architettonica.

Frame 19 e 20

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Anche la sequenza XXc è sintomatica in tal senso. Mentre durante un viaggio in automobile Pasquale espone a Tonino il piano per un ricatto, la mdp alterna piani a media distanza, all’interno della vettura, a campi lunghi del suo itinerario all’esterno. Tra questi è importante notare la dinamica della mdp dell’inq. 202, nella quale un movimento combinato di carrello e di panoramica a 180° dall’automobile si sposta sul paesaggio circostante per andare a inquadrare la vallata nella quale troneggia, proprio di fronte al mare, l’enorme stabilimento dell’Italsider di Bagnoli [frame 19 e 20]. Dove però tale discorso si fa più evidente è nella seq. XXIII, quella in cui Rosa e Angelo si recano alla solfatara di Pozzuoli. Sequenza chiave perché, oltre a rendere un omaggio al Rossellini di Viaggio in Italia103, è quella che mostra in profondità tutto il paesaggio del film, «dalla periferia fino a questo fondo arcaico, a questo ombelico che affaccia sui nostri inferi, la solfatara, quella ferita di vulcano che se ne sta là»104. Articolato in due scene, l’episodio è costruito sulla totale assenza di dialoghi e su un primo piano sonoro dei rumori d’ambiente in presa diretta. Tuttavia dal punto di vista filmico le due scene sono costruite in maniera differente. La prima scena si svolge all’interno del

Frame 21 103 Piscicelli considera il capolavoro di Rossellini «il solo film che io conosca, girato da un non napoletano, che riesca a penetrare senza preconcetti e grazie alla sua sola sensibilità lo strato arcaico della cultura napoletana». Cit. in F. Ferzetti, Conversazione con Salvatore Piscicelli, cit., p. 39. 104 Ivi, p. 44.

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Frame 22 e 23

vagone di un treno. Essa è connotata da un contrasto statico/dinamico dove la presenza tra Rosa e Angelo (ritratti immobili e pensierosi di fronte al finestrino) si contrappone al paesaggio che scorre oltre di loro [frame 21], e in cui si vede il mare per la seconda volta (inq. 247)105. È utile ricordare, in proposito, che Le occasioni di Rosa è il primo film napoletano in cui il mare si (intra)vede raramente, in cui si rifiuta l’uso cartolinesco così presente nella tradizione del cinema

105

Il mare si vedrà una terza volta, in lontananza, nell’inquadratura che precede il finale (seq. XXXVIa).

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d’ambientazione partenopea. Espediente che nasce dall’intenzione di sottrarre Napoli all’invadenza del suo stereotipo e a darle una “nuova” immagine, meno folkloristica e più inquietante106. La seconda sequenza è invece costituita interamente da campi (CM, MCL, CL) e da movimenti di mdp fortemente descrittivi dove la solfatara è il principale oggetto dello sguardo, fino a diventarne, in taluni casi (inqq. 250 e 254), anche l’unico. Anche la sequenza in cui Rosa va a trovare la madre, all’uscita della fabbrica (seq. XXXIb), serve a enfatizzare nuovamente l’attraversamento nell’hinterland, in un paesaggio decisamente diverso rispetto a quello della periferia, un paesaggio dove si fondono (ancora) le due anime della campagna partenopea: da una parte le antiche case contadine, quasi tutte abbandonate e fatiscenti, dall’altro la fabbrica dell’Alfasud, enorme cattedrale nel deserto [frame 22 e 23]. Cercando consiglio e conforto nella madre cui confida di essere incinta, Rosa tenta un riavvicinamento a quella cultura contadina dalla quale proviene. Una cultura le cui risposte tuttavia non sono più soddisfacenti (nella seq. successiva infatti, la madre la spinge ad accettare il figlio, perché «i figli aggiustano tutto!»). È quindi “normale” che Rosa cerchi le risposte altrove, cioè in una cultura diversa, capace di esprimere l’avvenuta mutazione; e non a caso, per l’interruzione di maternità, cerca conforto in Monica, il personaggio-simbolo del cambiamento di questo orizzonte culturale. L’ultimo caso è rappresentato dalla seq. XXXVa che, pur sembrando a prima vista di mero raccordo, ha un valore profondamente simbolico, perché mette in collegamento il “buio” (esistenziale) nel quale è raffigurata Rosa nella seq. precedente [all’interno dell’ambulatorio dove aspetta di avere l’aborto, frame 24] con il buio che cala sulla città. Nel secondo lungometraggio di Piscicelli emerge dunque un paesaggio profondo, che si fa specchio dell’inconscio di coloro che lo attraversano. Anche ne Le occasioni di Rosa, quindi, al centro della rappresentazione si trova una figura femminile, nonostante Rosa sia in realtà molto diversa da Immacolata e da Concetta, inserita in una dimensione corale sostanzialmente assente dall’orizzonte delle due protagoniste 106 Nella sua recensione al film, Valerio Caprara se ne accorge subito. Rilevando appunto come Le occasioni di Rosa sia il film che «mette un punto e a capo alle stucchevoli polemiche su “come filmare Napoli”»; cit. in V. Caprara, Un’occasione ancora da cogliere, «Il Mattino», 11 ottobre 1981.

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Frame 24

del lungometraggio precedente. Rosa è infatti una donna mutante che, proprio per questa sua caratteristica, autorizza ad una considerazione che nasce dal confronto tra il cinema di Piscicelli e quello di Mizoguchi o, meglio, tra le protagoniste del loro cinema. Una considerazione che naturalmente muove tenendo ben presente la fascinazione avuta sul giovane Piscicelli dal regista de I racconti della luna pallida di agosto107, e che ipotizza una filiazione generazionale tra i modelli delle figure femminili che popolano il loro cinema. Quello del cineasta nipponico ne privilegia sostanzialmente tre: la ribelle, la principessa e la sacerdotessa108. Se si prende in esame il cinema piscicelliano, oltre a constatare quanto esso sia declinato al femminile esattamente come quello di Mizoguchi, vi si ritrovano più o meno gli stessi modelli. Naturalmente cambiano i contesti. Il giappone medievale, dell’epoca Tokugawa o 107 Della fascinazione che ha avuto il cinema di Mizoguchi sul giovane Piscicelli si è detto a proposito di uno dei suoi primi scritti critici, cfr. S. Piscicelli, La pratica formale in Kenji Mizoguchi, cit. 108 Come evidenzia Dario Tomasi la ribelle più rappresentativa è l’Omocha di Gion no Shimai – Le sorelle di Gion (1936), l’archetipo della seconda, «costituito da donne aristocratiche costrette a prostituirsi o a confrontarsi con gli aspetti più bassi della società che le circonda ma che nell’animo rimangono pure e incontaminate», è probabilmente la protagonista di Saikaku Ichidai Onna – Vita di O-haru, donna galante (1952), mentre quello della terza, la donna in grado di divenire per il proprio uomo una «guida spirituale, morale e talvolta anche finanziaria» è rappresentato dalla protagonista di Taki no Shiraito – Il filo bianco della cascata (1933); cfr. D. Tomasi, Un’eclettica coerenza: il cinema di Kenji Mizoguchi, introduzione alla rassegna “Bellezza e crudeltà: il cinema di Kenji Mizoguchi” organizzata dall’Istituto giapponese di cultura di Roma (8 febbraio-31 marzo 1999).

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post-Hiroshima, è sostituito dal paesaggio culturale dell’Italia centromeridionale negli anni post-miracolo economico. Ma se mettiamo da parte lo sfondo, vediamo delinearsi non solo alcuni tratti comuni, ma anche le stesse dinamiche da cui queste figure sono agite. Nel caso di Immacolata e Concetta, ad esempio, si incrociano caratteristiche prelevate da tutti e tre i modelli (la ribellione, il sacrificio, il rito ancestrale) che sono divise tra le due protagoniste. In altri casi, invece, elementi mutuati da più di un modello sembrano coesistere nello stesso personaggio: è il caso della protagonista di Regina (1987), o di Luana, la ragazza «un po’ ribelle, un po’ puttana» de Il corpo dell’anima (1998) che, nel legame erotico-trasgressivo stabilito con Ernesto, finisce per diventarne una sorta di guida spirituale. Tra tutte queste Rosa è però quella che sembra meglio incarnare la contaminazione tra i tre modelli: ribelle, principessa e sacerdotessa. Naturalmente non è una donna aristocratica, dato che la sua origine proletaria le nega questa caratteristica; eppure della principessa sembra avere la medesima regalità, suggerita dal modo in cui viene ritratta nel suo incedere (seq. II) e dalle frequenti angolazioni dal basso che ne esaltano la figura. Come O-haru, Rosa è costretta a confrontarsi con gli aspetti sordidi della società, con la prostituzione, con la droga, con la riduzione dei sentimenti a pratica economica. Dalla sacerdotessa, invece, Rosa sembra mutuare i comportamenti rituali (il modo con cui si spoglia davanti al cliente nella seq. Vb), alcuni residui magico-arcaici (il viaggio alla solfatara), l’attitudine contemplativa (ne è chiaro sintomo il suo modo di osservare silenziosamente la pioggia che sbatte contro i vetri della sua camera nella seq. XIXa), la devozione all’uomo che ama e del quale segue sostanzialmente le indicazioni. Della ribelle Rosa assume poi il carattere; oltre al gesto finale con il quale, peraltro, rimette in discussione la sua stessa adesione agli altri modelli109. 109 A confortare quest’ipotesi interpretativa c’è una significativa dichiarazione rilasciatami dall’autore: «Nell’approccio che ho avuto con la cultura orientale, la cosa interessante è che, scavando e andando in profondità, ho ritrovato poi una serie di cose che appartengono invece alla cultura contadina, un po’ arcaica, di cui io ho visto certe tracce e che comunque fa parte del mio DNA. In particolare questo riguarda la figura femminile. Da noi la figura materna è, in un certo senso una figura doppia, com’è nella mitologia, in tutte le mitologie tradizionali, cioè una madre che nutre, che protegge, ma anche l’aspetto oscuro, distruttivo, la voragine che ti inghiotte. È una componente fondamentalmente: la cultura contadina tradizionale era contraddistinta da una sorta di matriarcato, da questa figura femminile madre e divoratrice al tempo stesso, che sono poi i fondi mitologici che trovi in Congo, in India. Ho conosciuto una donna che era un’adepta della dea Kali che, appunto, ha il corrispettivo da noi nella Madonna Nera. È la figura doppia, una specie di strega; un giorno siamo riusciti ad organizzare un viaggio in un tempio, perso nella

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Rosa è la protagonista di un dopo, di un contesto storico-culturale nel quale la tragedia è già avvenuta, nel quale si è ormai verificata quella mutazione socio-antropologica annunciata dal Pasolini (pre)corsaro. Il personaggio-persona agisce in un contesto in cui sono ancora evidentissime le divisioni fra le classi; dove sembrano persino aumentate le differenze, ma dove si sono moltiplicati i luoghi di compenetrazione e di rimescolamento sociale e culturale. Donna mutante, perché si trova ad agire in un orizzonte che sta mutando e di cui è diretta emanazione, Rosa è insomma uno dei primissimi prodotti del “nuovo” contesto metropolitano e delle sue contraddizioni. Un contesto ambientale in cui un certo tipo di struttura familiare tradizionale convive con la prostituzione, con lo spaccio della droga e di conseguenza con le modalità affettive che tale contiguità genera (ne è un esempio il modello di family tentato da Rosa prima con Tonino e Angelo, poi ancora tra i due fidanzati e Gino). È proprio qui sta la sostanziale differenza tra Rosa e le donne di Mizoguchi: perché l’ambiente contaminato in cui essa vive – dove «la tragedia, l’orrore, sono ormai talmente quotidiani che non c’è più nessun punto di riferimento, i comportamenti più normali e più trasgressivi si accavallano, si sovrappongono fino a confondersi»110 – sembra averle fatto perdere definitivamente quella purezza che invece le protagoniste del cineasta giapponese riescono a mantenere nonostante i turbinosi accadimenti a cui la vita le sottopone. Il tema della perdita della purezza avvicina Le occasioni di Rosa a un’opera cinematografica di tutt’altra cultura, di un’epoca (anche se di poco precedente) che reca la forte impronta di Pier Paolo Pasolini. Esattamente come in Mamma Roma, anche ne Le occasioni la perdita della purezza avviene in coincidenza con il progressivo inurbamento di cui sono protagonisti Ettore e Rosa111. In tal senso, è possibile campagna, dove c’era una festa di Kali, e lì ritrovai più o meno lo stesso tipo di contesto di cultura magica che io ho visto alla festa della Madonna dell’Arco, il lunedì in albis, nei primi anni cinquanta, quando arrivavano le donne, dopo chilometri a piedi, al santuario e facevano il gesto della donna dionisiaca di alzarsi la gonna per mostrare la fica…ed era un gesto rituale quando si arrivava.. io ho visto queste donne arrivare davanti al Santuario e fare questo gesto e poi accasciarsi svenute. Questo naturalmente è il fondo mitico che poi si traduce in figure femminili le quali, ovviamente, sono intrise del momento storico». 110 F. Ferzetti, Conversazione con Salvatore Piscicelli, cit., p. 37. 111 Sul valore “ideologico” della città in Mamma Roma si veda L. Miccichè, Cecafumo: un’inquadratura ideologica, in Id., Pasolini nella città del cinema, Marsilio: Venezia, 1999. Per una ricognizione sul rapporto spazio della città/spazio fuori della città nel cinema pasoliniano si veda F. Crispino, Spazio e architettura urbana nel cinema di Pier Paolo Pasolini, in M. Rocca-Longo, T. Morosetti (a cura di), Metamorfosi della città: spazi urbani e forme di vita nella cultura occidentale, Edizioni associate: Roma, 2003.

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interpretare la seq. XXXVa come una sorta di richiamo al – e di ricontestualizzazione del – discorso pasoliniano: l’entrare dentro la città come evento che genera una irrimediabile perdita. Per completare il discorso e per comprenderlo meglio, è utile analizzare il rapporto che Rosa intrattiene con il mezzo televisivo. Al di là del rifiuto del lavoro e dell’indipendenza economica, al di là cioè dei motivi per i quali inizia a prostituirsi (capitoli A e G), tra i pochi interessi che la ragazza sembra nutrire, c’è proprio la televisione. È su di essa infatti che Rosa finisce per trasferire la propria attitudine contemplativa (nelle già citate seqq. XIXa e XXIII, ma anche nella seq. XIIIc). Nel corso del film più volte Rosa è messa in rapporto con il mezzo, ma i casi che vale la pena prendere in considerazione sono quattro: –

– –



il primo è quello in cui la ragazza si trova con Tonino nell’appartamento di Gino per sniffare coca ed eroina (seq. Xb)112. Qui l’unico oggetto che cattura l’attenzione della ragazza, mentre esplora l’abitazione dell’uomo, è proprio lo schermo televisivo nella camera da letto. Ne è infatti talmente attratta che non resiste alla tentazione di mettersi a guardare le immagini che vi appaiono [frame 25]; il secondo è ancora più sintomatico: nella seq. XXVII Rosa e Gino si recano in un grande centro di arredamenti dove la ragazza ha un sussulto di interesse solo quando deve scegliere la tv “a colori”; il terzo si trova nella seq. XXIX, quando i novelli sposi Rosa e Tonino entrano per la prima volta nella casa messa a loro disposizione da Gino. Anche qui l’unica preoccupazione di Rosa è quella dell’apparecchio televisivo: lei vorrebbe metterlo in camera da letto, Tonino in salotto; il quarto, nella seq. XXXa, inizia con l’immagine della ragazza in CM con un’angolazione laterale dal basso mentre guarda un film teletrasmesso, dalle cui immagini è talmente assorbita da non far caso al rientro serale di Tonino [frame 26].

Vi sono tuttavia delle importanti differenze in questi quattro casi. Nella seq. Xb Rosa è attratta dalle trasmissioni televisive ma vi rinuncia immediatamente, spegnendo l’apparecchio e baciando il ragazzo che le si avvicina; al contrario, nella seq. XXXa, la mdp li ritrae in un

112 Nella seq. precedente lo spacciatore vende ai tre un miscuglio di entrambe le “polveri” – «tre più uno» dice infatti un personaggio: vale a dire tre parti di cocaina e una di eroina. Come ha precisato lo stesso Piscicelli «era abbastanza usuale all’epoca sniffare questo miscuglio».

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Frame 26

rapporto ormai “raffreddato”: Rosa sta guardando la tv e non esprime nessun entusiasmo vedendo rientrare il marito. Tonino addirittura nemmeno la saluta, ed essa riprende immediatamente a guardare il televisore. La rappresentazione della televisione ne Le occasioni di Rosa è dunque molto diversa da quella di Immacolata e Concetta. Nel film del 1981 la tv è vista come un vero e proprio feticcio: il segno del nuovo che sta avanzando in una cultura, come quella napoletana, costruita sulla contraddizione tra una radice arcaica e il feticismo, appunto, della modernità. 3) La messinscena Se in Immacolata e Concetta il procedimento del cinema postmoderno è già in nuce, ne Le occasioni di Rosa esso diventa evidente. Il “lavoro” cui viene sottoposta l’inquadratura parte sempre da riferimenti cinematografici: i temi e alcuni personaggi sono quelli cari a Oshima e a Fassbinder (le transessuali, ad esempio, s’ispirano al/la protagonista di Un anno con 13 lune); Rosa, come si è detto, sembra condensare i modelli femminili celebrati da Mizoguchi; alcuni episodi sono degli espliciti omaggi (quello della solfatara a Rossellini) o degli evidenti richiami (in quello della “passeggiata” di Rosa sembra di rivedere il Godard di Due o tre cose che so di lei); forti sono i legami con Mamma Roma e con il discorso pasoliniano; il lavoro sulla composizione del quadro in taluni casi sembra rifarsi al cinema di Ozu, più esattamente nel connubio tra angolazione della mdp in posizione tatami e la sua

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staticità che esalta quella che definirei una “spoliazione significante” del quadro. C’è però da dire che l’immagine di Piscicelli non è mai pura citazione. Essa è sempre rielaborata e risignificata, laddove «sono l’evidenza, la flagranza dell’immagine e della storia a contare, l’essere-là del film»113. È dunque nella continua tensione tra le due componenti della pulsione scopica (l’atteggiamento fenomenologico e la ri-organizzazione filmica del materiale) che l’immagine è nuova e, al tempo stesso, definitiva. Proprio perché riesce non solo a distanziarsi, ma anche a prendere il sopravvento sui suoi stessi riferimenti. Nonostante siano pratiche discorsive della messinscena piscicelliana, ne Le occasioni di Rosa la contaminazione e la ricontestualizzazione dei materiali non emergono in maniera chiara, probabilmente perché a velarle è proprio l’immanenza dello sguardo. Uno sguardo contemporaneamente interno ed esterno al racconto, che mostra senza prendere posizione: «uno sguardo quasi zen, nel senso barthesiano e non religioso del termine»114. Uno sguardo che – è doveroso ricordare – si avvale della preziosa collaborazione di Renato Tafuri e di Carlo Tafani (operatore di macchina). La qualità iperrealista della messinscena è infatti data soprattutto dalla luce: dalle dominanti tonali cui vengono sottoposti gli interni, dai cromatismi contrastati che formalizzano gli esterni, dal buio come sottrazione espressiva, non solo luministica, dello statuto stesso dell’immagine115. Come si è detto, il film inizia e finisce con due significativi fotogrammi neri. Ma è spesso dal buio che emergono, e nel buio ripiombano, i suoi protagonisti. Come in Immacolata e Concetta, va poi ricordato che in molti casi, al centro della messinscena, vi sia lo specchio. Nel cinema di Piscicelli esso non è mai un semplice elemento decorativo con cui l’immagine reale s’interroga magari contraddicendosi, come ad esempio accade nel cinema di Visconti; oppure un mezzo per dilatare il quadro e poi scomporlo fino a perderne i confini, come avviene nel cinema di Welles; oppure «una porta chiusa», cioè un oggetto che delimita lo spazio senza moltiplicarlo, come ad esempio in Douglas Sirk. Nel cinema di Piscicelli lo specchio è un elemento attraverso il quale si libera un’energia cinetica (pulsionale) all’interno del quadro. Qui ci sono in-

113

F. Ferzetti, Conversazione con Salvatore Piscicelli, cit, p. 42. Ivi, p. 39. 115 C’è chi ha giustamente sottolineato come il «ricorso ossessivo a quella negazione dell’inquadratura che è il fotogramma nero» sia una cifra stilistica del film. Cfr. P. Bertetto, Salvatore Piscicelli…, cit. 114

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fatti almeno 7 casi in cui esso rivela il – e rimanda al – fuori campo116, costruendo una dilatazione frustrata dello sguardo. La pulsione scopica è infatti animata da due vettorialità uguali e contrarie: una centrifuga, che porta l’occhio oltre il margine dell’inquadratura, e una centripeta, che ve la immette nuovamente dentro. In questo equilibrio formale, derivato da una dinamica scopico-spaziale, il margine del quadro tende ad essere sempre superato, annullato, de-significato. Esattamente come in Immacolata e Concetta – e come sarà ancor più evidente in Regina, film nel quale tale caratteristica viene estremizzata117 – anche ne Le occasioni di Rosa lo sdoppiamento cui è sottoposta l’immagine è insieme frantumazione dello sguardo e manifestazione del perturbante. In tal senso appare sintomatico che il film si chiuda proprio su uno specchio, unica fonte di luce all’interno dell’inquadratura (Rosa è sul letto e ha appena spento la luce) destinata a restituirle i corpi riflessi di Tonino e di Gino, fisicamente fuori dal quadro [frame 14]. È l’immagine del rimosso che sembra voler galleggiare nel (e quindi resistere al) buio/nero (del fotogramma, dell’inconscio). La dinamica del filmico è contraddistinta da 97 inquadrature in cui si rilevano movimenti di mdp. Circa la metà di questi (47) sono filmicamente “attivi”, manifestano cioè più chiaramente intenti discorsivi invece che seguire semplicemente l’azione. Ripartendo tale cifra nelle tre parti in cui si è diviso il testo, il dato emergente è che, procedendo nell’affabulazione, la mdp perde in dinamicità. Delle 145 inqq. della prima parte (sintagmi A-E), in più di un terzo di esse vi si ritrova una dinamica del filmico, con una percentuale di circa il 60% di movimenti attivi (31 inqq. su 52). Nella seconda parte (sintagmi F-J) essa si rileva in 25 delle 109 inqq., con una percentuale di movimenti attivi che scende a circa il 30%. Nella terza parte (sintagmi K-L) scende ulteriormente: la si trova solo in 21 inqq, anche se la percentuale dei movimenti attivi risale però al 45% circa (10 su 21). Se nella prima parte vi sono intere sequenze dove il discorso è costruito dalla dinamica del filmico118, nelle parti successive questa dinamica si fa più rarefatta, 116

I casi in questione si trovano nelle inqq. 2, 76, 84, 106, 109, 299 e 372. Nel film del 1987, oltre alla forte presenza di specchi, lo sdoppiamento cui è sottoposta l’immagine della protagonista assume anche altre forme. La casa di Regina è completamente tappezzata dalle sue foto e dalle locandine teatrali dei suoi spettacoli; inoltre la donna possiede una telecamera con cui si registra per poi ri-guardarsi con il videoregistratore. 118 È il caso della citata sequenza della “passeggiata” di Rosa (seq. II) filmata interamente con dei camera-car, oppure della seq. nella bettola di “Raffaele tazza ‘e caffè” (seq. XVIII), interamente costruita con movimenti di panoramica e transfocate miste a carrelli ottici sui PP di Pasquale e dei transessuali che dialogano; oppure ancora nella seq. in cui Gino 117

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concentrando in poche sequenze il proprio carattere discorsivo119. Ne deriva che, a una prima parte in cui la mdp segue le vicende dei vari personaggi e a cui corrisponde uno sguardo dinamico e decisamente connotativo, alle successive ne corrisponde invece uno più denotativo e progressivamente meno dinamico. Riprendendo uno dei dati emersi dalla divisione strutturale – il progressivo concentrarsi della narrazione su una delle vicende rispetto alla prima parte caratterizzata dal continuo spostamento di fuoco120 – si può quindi dire che ad esso corrisponda la progressiva rarefazione della costruzione filmica. Infine, altro elemento da considerare è la musica. Nei 12 interventi musicali extradiegetici presenti nel film si avverte infatti il medesimo procedimento di rarefazione sopra individuato121. I temi (Quadri sonori – Klangbilder, Fantasia elpana e Attraction n° 2) sono tutti composti da Helmut Laberer, al quale viene affidata anche l’esecuzione. La scelta di un percussionista era stata fatta da Piscicelli osservando il particolare modo di Laberer di lavorare sui rumori. Nelle intenzioni del regista occorreva che la musica «fosse un po’ come un’eco di un’altra materia, un’eco dei rumori del film, i rumori della città»122. È utile sottolineare, a tal proposito, che in due soli casi (il settimo e l’undicesimo) gli interventi musicali sono in corrispondenza di sequenze ambientate nel contesto urbano o suburbano.

Le nuove occasioni Le occasioni di Rosa fu accolto con interesse dalla critica e premiato dal pubblico. Dovranno però passare quattro anni prima che Piscicelli possa tornare sul set. Lo farà dirigendo Blues metropolitano (1985), patchwork antirealista che va considerato come il suo “film d’addio” a porta a casa Tonino e Rosa per sniffare la “roba” appena comprata (seq. XXIII) in cui la dinamica è costruita con movimenti, spesso combinati, di panoramica e carrello. 119 In particolare tutti i movimenti “attivi” della seconda parte sono concentrati nella seq. XXIII (il viaggio in macchina di Tonino e Pasquale) e nell’episodio della visita alla solfatara di Rosa e Angelo; nella terza parte, invece, sono più sporadici e disseminati lungo più sequenze, e quasi sempre per riprendere e sottolineare parti del discorso già messe in evidenza in precedenza. 120 In tal senso, appare emblematica la citata seq. XVIII. 121 Il primo è tra le inqq. 11 e 16, il secondo tra la 24 e la 26, il terzo tra la 34 e la 35, il quarto tra la 49 e la 54, il quinto nell’86, il sesto tra la 93 e la 94, il settimo tra la 138 e la 145, l’ottavo tra la 149 e la 151, il nono tra la 201 e la 202, il decimo sulla 298, l’undicesimo tra la 352 e la 353, il dodicesimo tra la 365 e la 366. 122 F. Ferzetti, Conversazione con Salvatore Piscicelli, cit., p. 46.

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Napoli, nonché il capitolo conclusivo di una trilogia sulla città partenopea. Inizialmente ambientata nella campagna circostante (Immacolata e Concetta), poi in quel terrain vague che era la periferia metropolitana dei primi anni ottanta (Le occasioni di Rosa), la storia si trasferisce dentro la città. Che diventa la vera protagonista. Lo spazio urbano/suburbano non è tuttavia il solo elemento che collega i tre film: nell’ultimo ritornano infatti molti dei temi affrontati in precedenza. Anzi, vengono elaborati e approfonditi due elementi che ne Le occasioni non sono pienamente espressi: la struttura corale e la sperimentazione dell’architettura narrativa. In Blues metropolitano essi si incrociano nell’adozione di una struttura rizomatica123, in cui i personaggi sono abbandonati al loro vagabondare (sessuale e territoriale), per poi essere continuamente ripresi e rimessi in connessione. Sono le elaborazioni, le tracce di una progettualità discorsiva che era già iniziata fin dai primi cortometraggi. Blues metropolitano è il titolo che simbolicamente chiude la parabola cine-televisiva dell’autore, segnandone di fatto il congedo da una progettualità intermediale. Il terzo lungometraggio di Piscicelli è uno dei primi titoli finanziati da Reteitalia124, la società che alla metà degli anni ottanta segna l’ingresso del gruppo Fininvest nella produzione di lungometraggi. Prima di questo film Piscicelli lavora a diversi progetti. E su almeno uno di questi vale la pena soffermarsi. Quello che avrebbe dovuto essere il suo terzo lungometraggio e che, sebbene in forma diversa, ancora una volta intendeva mettere in gioco il rapporto tra il cinema e la televisione. Tra il 1981 e il 1983, Piscicelli scrive tre soggetti. Il primo riguardava il personaggio di “Rankxerox”, il geniale “coatto sintetico” inventato da Andrea Tamburini e disegnato prima da Tamburini stesso con Andrea Pazienza e poi da Tanino Liberatore125. A proporglielo è infatti Vincenzo Sparagna, suo amico fin dai tempi del liceo e direttore di Frigidaire, il periodico a fumetti sulle tavole del quale appare 123 Sono portato a considerare il film più adattandolo alla terza tipologia di labirinto secondo la classificazione operata da Eco, piuttosto che un «falso labirinto» come fa Fabio Bo. Riprendendo il modello epistemologico reso celebre da Gilles Deleuze e Felix Guattari, Eco definisce il “rizoma” il labirinto che non ha né un dentro né un fuori e dove ogni punto può essere connesso a qualsiasi altro. Cfr. U. Eco, Sugli specchi e altri saggi, Bompiani: Milano, 1995; F. Bo in Salvatore Piscicelli: corpi e luoghi, cit., pp. 115-120. 124 Come ricorda Elisa Torelli, gli incerti esordi di Reteitalia furono segnati da «una sostanziale ambiguità produttiva» che non definì una vera e propria linea editoriale, tanto che insieme al film di Piscicelli furono finanziati film molto diversi fra loro, da Bianca di Nanni Moretti a Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo. Cfr. E. Torelli, Gli schermi convergenti, cit. 125 Cfr. F. Scòzzari, Prima pagare poi ricordare, Castelvecchi: Roma, 1997, p. 172.

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il personaggio126. Purtroppo, per una serie di motivi (le contingenti difficoltà finanziarie della Gaumont interessata al progetto, la diffida dell’omonima industria di fotocopiatrici diretta ad impedire che venisse usato il nome del personaggio per il film, il trasferimento parigino di Pazienza che Piscicelli avrebbe voluto coinvolgere nella supervisione), il soggetto venne poi abbandonato. Il secondo era sui cosiddetti “muschilli”, i ragazzi utilizzati dai pushers della Camorra per il trasporto e lo spaccio al dettaglio della droga. Verrà ripreso più tardi quando, rielaborato, diventerà la sceneggiatura di Baby Gang (1991), il quinto lungometraggio piscicelliano dal quale nacque anche una raccolta di racconti dall’omonimo titolo127. Il terzo era per un film di genere, un lavoro a cui il regista di Pomigliano d’Arco sembra tenere in maniera particolare visto che, tra il 1981 e il 1982, lo trasforma in sceneggiatura sempre insieme a Carla Apuzzo con il titolo provvisorio di Samurai. Il progetto sembra concretizzarsi quando subentra la RAI, che appare seriamente intenzionata a produrlo, ma che poi si ritira ad appena un mese dall’inizio delle lavorazioni. Nonostante il film non sia stato più realizzato, oggi ne resta la sceneggiatura, pressoché definitiva, da cui si capisce che, nelle intenzioni, anche Samurai doveva essere un “testo transgender”, cioè un film che tentava l’ennesima operazione di contaminazione, quella fra generi, mescolando il noir con il melò, il gangster con il road-movie128. Tutto ciò sullo sfondo delle ultime stagioni della lotta armata nell’Italia centro-meridionale, con l’intenzione di osservare il fenomeno nel suo lato anarchico-romantico, così diverso dallo schema militare di tipo brigatista129. Il protagonista, Bruno, appartiene a una non ben identificata falange rivoluzionaria. Dopo avere scontato cinque anni di carcere, viene contattato per compiere un’esecuzione ai danni di un “traditore”, probabilmente un pentito. Nel frattempo una giornalista tenta di estorcergli delle notizie e un malavitoso cerca di intimorirlo per servirsi della sua competenza sugli esplosivi. Ciò scatena l’ira di Bruno che lo uccide 126 Lanciato sulle colonne di «Cannibale» nel 1978, Rankxerox si afferma proprio sul periodico diretto da Sparagna. 127 S. Piscicelli, Baby Gang, Crescenzi&Allendorf: Roma, 1992. 128 Divisa in 84 scene per 210 pagine, la versione della sceneggiatura consultata è quella di proprietà dell’autore, assolutamente inedita. 129 Come ha sottolineato lo stesso Piscicelli al sottoscritto, «il terrorismo è stato schiacciato sul militarismo delle Brigate Rosse, laddove invece, soprattutto al Sud, aveva altri connotati, un po’ diversi: […] l’ideologia è venuta dopo, si è amalgamata con motivi di carattere più sociale ed esistenziale».

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insieme alla sua amante transessuale. L’uomo si unisce poi a una coppia di rapinatori (lo “zingaro” e Maria) durante una rapina in banca, e con essi fugge nell’Italia meridionale. Con Maria Bruno intrattiene una relazione, che s’intensifica quando lo “zingaro” viene ucciso dalla polizia durante un’operazione di trasporto di droga. I due, diventati amanti, continuano la fuga tra rapine e regolamenti di conti, fino a quando l’uomo viene contattato per l’esecuzione. È così che si reca a Capri dove, nella villa di Tiberio, si svolge la sparatoria finale: Bruno riesce ad uccidere il “traditore”. Ma anch’egli perde la vita. Maria arriva a tragedia avvenuta. Trova i due cadaveri uno accanto all’altro e fugge. L’ultima indicazione è per la mdp che, dopo aver seguito per un tratto la donna, sofferma l’ultimo sguardo su Villa Jovis. C’è subito da dire che, dopo due lungometraggi “al femminile”, questo lavoro avrebbe dovuto avere come protagonista assoluto un uomo, anche se nella seconda parte Bruno viene affiancato da Maria, figura che, a leggere lo script, sembrerebbe dotata di una propria consistenza. Il secondo rilievo è rappresentato dal ritorno di temi e/o situazioni (la piccola malavita, il viaggio, il sogno130) o di personaggi già presenti nei lavori precedenti. Proprio a proposito di questi ultimi, è interessante notare che – esattamente come ne Le occasioni di Rosa – attraverso le figure dei transgender la contaminazione trovi una sua realizzazione anche sul piano della sessualità. Il terzo rilievo è rappresentato dall’ambientazione, non più completamente localizzata nell’area urbana/suburbana partenopea, bensì frastagliata tra una prima parte romana (scene 1-34), una seconda on the road nel sud d’Italia (scene 35-68), un breve ma significativo inserto su Napoli (scene 69-70) e un finale ambientato a Capri (scene 71-84). Nonostante muti lo sfondo rispetto ai lavori precedenti, non cambia però l’idea di far assumere al paesaggio un ruolo decisivo. Dall’analisi della sceneggiatura si rilevano infatti molte indicazioni che lasciano trapelare le intenzioni di un’iconografia ambientale in chiave discorsiva. In alcuni casi sembra fin troppo evidente la scelta che le locations debbano suggerire un legame tra il testo e il contesto131. Inoltre, sono 130

Nella scena 78 Maria racconta un sogno che ha avuto a Bruno: esattamente come quello raccontato da Immacolata, anche questo termina con qualcuno che ride: là era Lucia, la figlia di Immacolata, qui si tratta di una tigre. Vengono a mente le parole che dice Immacolata a Concetta: «è malo segno quann’uno rire rind’e suonn!», perché anche in Samurai esso è un preannuncio di morte. 131 Nella scena 14 ad esempio la “Galleria dell’orrore” del Luna Park fa da sfondo all’incontro tra Bruno e l’uomo che lo incarica dell’esecuzione del traditore.

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molti i riferimenti a un paesaggio in mutazione, all’inglobamento della campagna nel contesto metropolitano, alla progressiva urbanizzazione cui è sottoposto lo spazio: sfondo che ricorda quello de Le occasioni. Tra tutti questi riferimenti, vale la pena di soffermarsi soprattutto sull’ambientazione scelta per la parte finale, Villa Jovis. Qui si svolge la sparatoria nella quale perdono la vita Bruno e il “traditore”, la villa di Capri dove Tiberio si rifugiò negli ultimi anni della sua dittatura, il luogo da dove continuò a governare mantenendo i contatti con Roma mediante le torri di segnalazione e un servizio di corrieri. In questa parte della sceneggiatura le indicazioni delle posizioni e dei movimenti della mdp sono estremamente precise, segno di una chiara idea di messinscena132. Tanto lo sfondo, che lo sguardo e la sua dinamica, fanno presumere l’intenzione di collegare, insieme, la tragedia e il teatro entro il quale essa si svolge. Si sa che proprio a Villa Jovis Tiberio si ritirò lasciando il governo a Seiano, pronto ad istituire un duro regime di polizia e, attraverso l’indiscriminata applicazione della lex maiestatis, ad attuare una repressione spietata condannando a morte molti innocenti. Tenendo presente questo dato – che fa di Villa Jovis il simbolo dello Stato lontano e assente – Samurai intendeva suggerire un evidente legame tra i corpi dei due uomini e il complesso imperiale: nello sguardo dall’alto che ne schiaccia i corpi senza vita al suolo è possibile cogliere bene il senso del testo, se si tiene in considerazione il fatto che la sceneggiatura venne scritta durante la fase crepuscolare della lotta armata: c’è un imperatore (uno Stato) che si rifugia in un esilio volontario, che perde così il diretto controllo del governo e che, di conseguenza, favorisce una repressione reazionaria manifestata da uno stato di polizia che non sembra risparmiare nessuno. In tal modo, il contesto ambientale non esprime più solo una funzione iconograficodiscorsiva, ma a questa ne aggiunge anche una critico-interpretativa. L’ultimo sguardo sulla Villa rivela infatti la contraddizione del regista

132 Dopo la morte dei due uomini, si ha infatti questa successione di indicazioni: 1) un’inquadratura dall’alto con panoramica circolare sulla zona dove sono a terra i due cadaveri; 2) un rapido movimento di dolly a inquadrare la loggia imperiale dalla quale arriva un gruppo di persone attirate dagli spari: tra loro Maria; 3) un piano ravvicinato della donna; 4) un campo totale dall’alto sulla zona dove giacciono i due cadaveri; 5) un movimento a scendere sul cadavere di Bruno e poi una panoramica a inquadrare il primo piano di Maria; 6) una dissolvenza incrociata; 7) di nuovo il primo piano di Maria, il volto appena rigato di lacrime, che si allontana correndo dalle rovine; 8) un movimento di mdp che la precede per qualche secondo, poi carrella indietro velocemente fino a riguadagnare col movimento indietro l’intero complesso del palazzo tiberiano; mentre ancora dura il movimento, dissolvenza su nero; 9) titoli di coda.

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(dell’intellettuale) ridotto a voyuer, incapace di impedire che gli uomini si uccidano barbaramente. Attribuendo una funzione (anche) critico-interpretativa al contesto ambientale, si potrebbe prendere in considerazione un ulteriore aspetto che lo script di Samurai mette in evidenza. Dal protagonista, infatti, emergono gli elementi della sua formazione: Bruno viene dalla campagna, anzi da un luogo che «già non sembra più campagna» perché sta diventando città, come dimostrano sia l’episodio del viaggio alla casa d’infanzia, dove va a trovare la madre (scene 7 e 8), sia quello ambientato in una spiaggia del sud in cui Bruno confessa a Maria le sue origini, lasciando anche trapelare una delle cause della sua rabbia (scena 39)133. Nell’eziologia della sua adesione alla lotta armata, dunque, vi si riconosce proprio quel vuoto di valori prodotto dall’incompleta transizione da una società rurale ad una industriale, nella quale le inclinazioni terroristiche avrebbero poi trovato terreno favorevole134. Anzi, il testo sembra voler aggiungere qualcosa a quest’ipotesi, cioè il contributo decisivo che l’anomalo sviluppo ambientale e l’urbanizzazione selvaggia ha dato alla radicalizzazione della protesta nel fenomeno terroristico. Un’ipotesi che sarà confermata solo da studi successivi135.

133 «Io sono nato in campagna e il mare l’ho scoperto troppo tardi. Questa è una cosa che mi dispiace. È come se mi avessero rubato qualcosa». 134 Secondo l’interpretazione di Franco Ferrarotti del 1978, ad esempio, la violenza è determinata dalla crisi che si crea nel momento in cui il mondo rurale non è più ad offrire protezione e sicurezza, mentre la cultura industriale non è ancora consolidata. Cfr. F. Ferrarotti, Riflessioni sul terrorismo italiano.Violenza comune e violenza politica, in «I problemi di Ulisse», 32, n. 86, 1978, pp. 123-136. 135 Il primo studio approfondito sul fenomeno terroristico di sinistra risale all’inizio degli anni novanta, quando si afferma che «molti dei reclutati però avevano vissuto di recente emigrazione e urbanizzazione. […] Fenomeni di mobilità geografica sono state molto diffuse fra coloro che venivano reclutati nelle organizzazioni clandestine». Cit. D. Della Porta, Il terrorismo di sinistra, Il Mulino: Bologna, 1990, p. 142.

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CAPITOLO III PERCHÉ LA TELEVISIONE ITALIANA HA SMESSO DI PRODURRE TALENTI

Un’altra storia possibile Nelle prime esperienze audiovisive di Salvatore Piscicelli sembrano dunque condensati una serie di elementi che mettono in luce alcune caratteristiche fondamentali della ricerca espressiva in ambito cinetelevisivo italiano. Non solo perché il suo primo cinema “prende forma” dalle esperienze televisive precedenti, ma anche (e soprattutto) perché, nel suo caso, la dimensione intermediale assume aspetti di assoluta originalità. Negli esordi dell’autore di Immacolata e Concetta e Bestiario metropolitano cinema e televisione dialogano infatti su un terreno paritetico, alimentandosi vicendevolmente attraverso lo scambio con altri medium (teatro, letteratura, musica), con discipline assai poco frequentate (la filosofia orientale, l’antropologia) e fondendosi in una prospettiva postmoderna. Un’esperienza che mira alla creazione di prototipi, pur conservando un’identità autoriale riconoscibile nella sperimentazione delle strutture narrative, nell’inserimento di temi e/o personaggi tipici del “nuovo” che irrompe sulla scena socio-antropologica (la rivoluzione sessuale, il transgender), nella ricerca di desuete figure stilistiche (dalla posizione della mdp, che a volte richiama la tradizione nipponica, alla scelta dei movimenti del filmico e degli accoppiamenti suono-immagine), nella nuova iconografia, infine, del territorio napoletano visto come specchio della sua doppia anima. Una proposta e un’identità che, di lì a poco, con la rapida trasformazione dell’orizzonte mediatico, saranno destinate a smarrirsi. Il caso di Piscicelli appare dunque esemplare per comprendere il clima e la proposta culturale vissuta dai due medium audiovisivi in Italia nel difficile passaggio verso gli anni ottanta. Una proposta culturale

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che, come si è visto, alla fine degli anni settanta è ancora estremamente vitale ma che, con l’insorgenza del duopolio, subisce una drastica trasformazione. È proprio in questo periodo che la tv pubblica smette di incentivare percorsi autoriali, preferendo sostanzialmente evitare la formazione di “zone” produttive in grado di raggiungere una propria autonomia e, di conseguenza, imprimervi una direzione espressiva1. È a partire da questo momento che la televisione italiana rinuncia a quella vocazione che era carsicamente emersa nel periodo precedente e smette di produrre talenti. Se infatti si guarda oltre il blackout che si verifica negli anni ottanta, contraddistinti dal lento ma progressivo imporsi della fiction seriale «come strumento principe della differenziazione dell’offerta di rete per target d’ascolto»2, ma anche dalla trasformazione del prodotto cinematografico in un prodotto sempre più connotato da «spiccate caratteristiche televisive»3, complici il fallimento della Gaumont Italia e l’ingresso della Fininvest nell’industria cinematografica (fondazione di Reteitalia, 1984), anche dopo la legge Mammì (legge n. 223 del 1990) sono rarissimi i casi di personalità registiche emerse da esperienze cinetelevisive. Tra queste, si può dire anzi che l’unica di un certo rilievo sia probabilmente quella di Gabriele Muccino che, dopo alcuni anni di formazione in RAI, arriva al cinema alla fine degli anni novanta4. Il percorso paradigmatico di Piscicelli, insomma, fa emergere un dato che sembrerebbe sostanzialmente dar ragione a chi ritiene gli anni settanta il decennio dell’utopia irrealizzata e dell’occasione mancata. È evidente come nel riflusso post-’77 sia andata smarrita quell’identità autoriale che appartiene alla filogenesi del nostro cinema e che sembra anche provocare un profondo senso di colpa generazionale5. Ne è 1 In tal senso va senz’altro segnalata l’esperienza di produzione della nuova RAI TRE di Angelo Guglielmi che, a partire dalla fine degli anni ottanta, contribuisce a rilanciare il cinema italiano e a rinnovare il quadro generazionale finanziando opere prime e seconde. 2 E. Torelli, Gli schermi convergenti, cit., p. 204. 3 G. P. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Laterza: Roma-Bari, 2004, p. 383. 4 Gabriele Muccino comincia a collaborare poco più che ventenne con la RAI, realizzando cortometraggi per “Mixer”, “Ultimo minuto” e un cortometraggio con Stefania Rocca (Io e Giulia), quindi dirige alcuni episodi di Un posto al sole prima di passare, dopo alcune esperienze nel documentario e un cortometraggio (Max suona il piano) per il film collettivo Intolerance, al suo primo lungometraggio (Ecco fatto, 1998). 5 A tal proposito mi sembrano significative le parole di Giuseppe Bertolucci, uno dei registi che esordì con i “Programmi Sperimentali” della RAI: «Tutti noi che abbiamo debuttato intorno agli anni ’76-’77, ci sentivamo addosso una specie di senso di colpa proprio per non riuscire ad essere una generazione come quella dei fratelli maggiori che ci avevano preceduto, così ben riconoscibile e compatta». Cit. in F. Montini, P. Spila (a cura di), Una marginalità consapevole. Intervista a Giuseppe Bertolucci, «Cinecritica», XIV, 23, ottobre-dicembre 1991, p. 9.

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testimonianza il fatto che, a parte il caso un po’ particolare di Nanni Moretti, nessuno degli esordienti del decennio riesce a porsi come esempio e come punto di riferimento per la generazione successiva, così come erano riuscite le precedenti con quelle a loro posteriori6. Con l’inizio degli anni ottanta, l’omologazione culturale profeticamente denunciata da Pasolini diventa assoluta, al punto da far scomparire definitivamente dalla tv italiana le poche zone in cui fosse ancora possibile un margine di sperimentazione. L’effetto della “nuova” (perché finalmente pacificata) ideologia catto-comunista della RAI post-bernabeiana7, con il suo esito normalizzante, non lascia più spazio a quella creativa “anarchia sperimentale” – favorita dai budget ridotti – che era stata l’esaltante denominatore comune di tali esperienze. Fu indubbiamente una bella stagione. Di pochi soldi, è vero, ma di molte illusioni benefiche: una “carta bianca” che avvicinava gli esordienti della televisione italiana a quei registi statunitensi che avevano trovato condizioni simili durante la Golden Age della tv made in USA, giustamente definita come «un imbuto di sperimentazioni tecniche e linguistiche, un bivio dove la Storia avrebbe potuto imboccare una strada differente», un percorso dell’audiovisivo in cui la naïveté si coniugava con la creatività e le difficoltà tecnico-produttive stimolavano il talento8.

Dal cinema alla fiction Nel caso di Piscicelli, il rapporto cinema-televisione si è quindi arenato proprio in coincidenza del mutare dell’assetto e della strategia dell’intera produzione cinetelevisiva. Il suo caso appare perciò emblematico 6 È il caso di sottolineare che in realtà non c’è stata una “generazione successiva”: le nuove personalità d’autore, o presunte tali, emergono infatti solo all’inizio degli anni novanta, in quell’eterogeneo movimento che, dall’espressione usata da Nanni Moretti a Toronto nel 1993, fu definito l’Italian Renaissance. Si veda M. Sesti (a cura di), La “scuola” italiana. Storia, strutture, immaginario di un altro cinema (1988-1996), Marsilio: Venezia, 1998; V. Zagarrio, Cinema italiano anni novanta, Marsilio: Venezia, 1998 [e segg. ed.] 7 È doveroso evidenziare – nonché curioso notare – come la contemporanea presenza di due ideologie totalizzanti, quella cattolica e quella comunista, sia stata interpretata anche come la principale causa della trasformazione della protesta nel fenomeno del terrorismo italiano. Cfr. G. Bocca, Il terrorismo italiano. 1970/1978, Rizzoli: Milano, 1978 e Id., Moro, una tragedia italiana. Le lettere, i documenti, le polemiche, Bompiani: Milano, 1978. 8 Cfr. V. Zagarrio, Teseo e Arianna. Per una controstoria del rapporto cinema/televisione, in Id. (a cura di), Cinema/Tv, “Promessi sposi”. Le relazioni pericolose tra i due media dalle origini a oggi, IULM: Milano, 1995.

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per una intera generazione di autori che aveva iniziato a muovere i primi passi in tale ambito e che poi si è trovata improvvisamente espropriata di tutte quelle opportunità attraverso le quali poter maturare un proprio linguaggio intermediale. Se appare corretto lamentare, da parte della generazione di quei registi che esordiscono negli anni settanta, una sostanziale incapacità di imporre – se non di elaborare – una riflessione estetica intermediale, è altrettanto doveroso sottolineare come la cattiva gestione dell’indirizzo di ricerca da parte dell’apparato televisivo di fatto glielo impedisse. Il dato forse più sconsolante è che, in linea generale, la televisione italiana non si dimostra più interessata a far maturare uno scambio dialettico, tanto meno a investire su quei metteurs en scène esordienti che avevano dimostrato notevole originalità. È così che molti progetti vengono bloccati in corso d’opera. Il progetto di Samurai fu, in tal senso, sintomatico. Con la dinamica del “riflusso” scompaiono le occasioni espressive per chi non si adegua alle “nuove” norme estetiche. È questa la grave impasse che la produzione televisiva subisce a partire dai primi anni ottanta, quando l’intero sistema viene impostato su un’economia in gran parte compradora – che peraltro determina un immaginario fortemente dipendente, serializzato e modellato su una bassa qualità media dei prodotti9 – mentre la struttura si concentra ipertroficamente su poche imprese produttive, merceologicamente ed esteticamente nazional-popolari10. Inizia allora la politica delle “coproduzioni”; e tutto contribuisce a determinare la definitiva eliminazione di quell’area dove sarebbe stato ancora possibile realizzare, se non proprio una riflessione in chiave intermediale, quantomeno dei prototipi da testare e/o immettere sul mercato. Un altro elemento da tenere in considerazione è il rapporto del contesto con le “aree di sperimentazione”. Il decennio in cui esordisce Piscicelli è infatti un periodo delimitato e perfettamente diviso da precise scelte estetiche che sono espressione diretta di formule politicoeconomiche di diverso segno. Quella con cui inizia fa riferimento allo “storico” ordine di servizio RAI del 1969, che introduce per la prima volta il principio di lottizzazione politica all’interno dell’azienda tele9

È questo infatti il momento in cui il mercato televisivo viene letteralmente invaso dai telefilm e dalle soap-operas statunitensi, dalle telenovelas sudamericane e dall’animazione giapponese. 10 Sono da citare in tal senso quella che fu allora definita come “la più grande impresa della RAI”, cioè le 9 puntate di Marco Polo (1981) per la regia di Giuliano Montaldo e le 4 puntate di Cristoforo Colombo per la regia di Alberto Lattuada, costato circa 22 miliardi di lire nel 1985.

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visiva11. Più o meno coeva è la decisione da parte dell’emittente di Stato di intraprendere le prime produzioni in ambito cinetelevisivo. La formula con cui si conclude è, appunto, quella catto-comunista che inizia con la fine degli anni settanta per protrarsi nel decennio successivo. Le poche zone di sperimentazione espressiva (come il “Servizio Programmi Sperimentali” nel quinquennio 1968-1973, talune zone della Seconda Rete alla fine degli anni settanta e i primissimi anni ottanta della Terza) appaiono e scompaiono in coincidenza con il generarsi e l’estinguersi dei due cicli di protesta prodotti dai movimenti del ’68 e del ’77, che la sentenza n. 202, con cui viene liberalizzato l’etere, sembra perfettamente dividere in due fasi che presentano la medesima dinamica: un periodo iniziale di grande fermento e di forte proposta culturale, cui segue un drastico ridimensionamento. Quasi a legittimare, se mai ce ne fosse bisogno, che la sperimentazione di una nuova forma estetica è l’effetto della contestazione nata da una precedente espressione politica. In altre parole, quando il PCI diventa partito filo-governativo viene liquidata la spinta critica del cinema italiano, che per tutti gli anni settanta aveva dinamizzato la società. Appare più che evidente che, se da una parte alla RAI si dà il via al fenomeno dei cosiddetti “ibridi”12, dall’altra la teorizzazione del cinema “medio”, la promozione di quel cinema carino che doveva tornare ad avere un rapporto con il pubblico, di quell’estetica minimalista che dominerà gli “schermi opachi” del cinema italiano anni ottanta, sono sostanzialmente i prodotti di scelte politico-economiche che il cinema eredita attraverso la penetrazione linguistico-stilistica televisiva durante tutto questo periodo di “guerra mediologica” che si è svolta nel nostro Paese13. Un’operazione che si potrebbe definire come una sorta di “appropriazione dell’immaginario” 11 L’Ordine di servizio del 1969 stabiliva un rimpasto radicale di tutte le cariche direttive, le moltiplicava in modo innaturale e imponeva una ridistribuzione del potere interno. Lo stesso presidente della RAI dell’epoca lo ha definito come «l’ordine di servizio che determinò la struttura dell’azienda per i successivi vent’anni». Cit. in E. Bernabei, G. Dell’Arti, L’uomo di fiducia, Mondadori: Milano, 1999, p. 184. 12 Del fenomeno degli “ibridi”, film concepiti in una doppia versione (una più breve destinata alla sala, una più lunga destinata al passaggio televisivo) che già nella sua stessa definizione porta con sé tutta la difficoltà dell’operazione, gli esempi più rilevanti sono Fontamara di Carlo Lizzani, Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi, La storia di Luigi Comencini. Cfr. F. Petrocchi, G. Cereda, Il cinema della televisione italiana. La produzione RAI e Fininvest 1976/1994, RAI-ERI: Roma, 1996, p. 17; F. Monteleone, Storia della televisione italiana, cit.. 13 L’espressione venne formulata da Enrico Manca in un celebre incontro fiorentino di metà degli anni ottanta, cioè proprio durante gli anni della sua presidenza RAI.

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e che da qualcuno fu percepito come «un vero e proprio cinecidio»14. Nello spazio di poche stagioni cambiano i modi di produzione, di distribuzione e di esercizio, muore l’interesse per la novità, per la ricerca, vengono emarginate le espressività differenti, alle quali si preferiscono quelle degli autori più normalizzati e meno innovativi. In pratica, proprio mentre si inizia a delineare il passaggio dalla paleo alla Neotelevisione, in ambito cinematografico si ritorna al cinéma de papà, cioè proprio quel tipo di cinema che le generazioni precedenti avevano combattuto e in parte emarginato.

Governare il cambiamento Tutto ciò non vuol dire che queste esperienze non abbiano avuto un’incidenza sull’estetica cinematografica successiva, a cominciare dal fatto che fu proprio la generazione degli esordienti cinetelevisivi anni settanta a introdurre la figura, sostanzialmente nuova, dell’autore-producer15. Nel breve volgere di poche stagioni il panorama cinematografico muta completamente: gli autori si trovano costretti a dover fare i conti con un mercato che non “chiede” più, allorché molti produttori subiscono un drastico ridimensionamento, quando addirittura non falliscono, e la televisione diventa il referente primario (unico) per “chiudere” i progetti. La maggior parte delle esperienze d’esordio sono così contraddistinte da un modo di gestire il rapporto tra l’estetica e il modo di produzione assai differente rispetto a quelle dei “padri” e dei “fratelli maggiori”, quando regista e produttore erano termini dialettici di un’unica formula espressiva. Ognuno di loro, naturalmente in maniera diversa, era costretto a confrontarsi direttamente con entrambi gli aspetti, in molti casi adeguando l’uno all’altro, quindi costruendo un orizzonte immaginario che scaturisse da una differente metodologia discorsiva. In tal senso Piscicelli è stata una vera e propria figura-prototipo. Il suo modo di proporsi e di proporre uno stile personale, comunque in grado di confrontarsi con il mercato a 14 Cit. in L. Miccichè, Il lungo decennio grigio, in Id (a cura di), Schermi opachi. Il cinema italiano degli anni ottanta, Marsilio: Venezia, 1998; p. 5. 15 Appare significativa a tal proposito la dichiarazione resa da Piscicelli sulla difficile preparazione di Samurai e i rapporti con la RAI che doveva finanziare il progetto: «lì abbiamo cominciato a capire che i tempi stavano cambiando, che l’ipotesi dell’autore-producer restava corretta mentre non lo era più quella del cinema indipendente, nella misura in cui il mercato andava sfaldandosi». Cit in F. Ferzetti, Conversazione con Salvatore Piscicelli, cit., p. 40.

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partire dalla richiesta e dalla gestione dei contributi statali, ha aperto una strada che sarà seguita (necessariamente) da altri registi della sua e, soprattutto, delle generazioni successive16. Tale dinamica ha in comune un elemento con l’ulteriore rilevante fenomeno espresso dal rapporto cinema-televisione nel contesto in cui agisce Piscicelli, vale a dire quello dei “nuovi comici” (o “malincomici”, come qualcuno li ha poi definiti). Fenomeno che prende forma dagli esordi di Maurizio Nichetti (Ratataplan, 1979), Carlo Verdone (Un sacco bello, 1980), Massimo Troisi (Ricomincio da tre, 1981) e Alessandro Benvenuti (Ad ovest di Paperino, 1981) e che prosegue con l’emancipazione registica di Roberto Benigni (Tu mi turbi, 1982) e Francesco Nuti (Casablanca Casablanca, 1984), i cui successi al botteghino nelle stagioni delle vacche magre fanno da apripista al fenomeno di trasformazione cui in questi anni va incontro la “commedia all’italiana”17. Il fenomeno mette in evidenza una nuova figura: quella dell’attore comico pronto a mettersi dietro la macchina da presa, magari dopo essersi cimentato anche nella scrittura del soggetto e della sceneggiatura e che, in questa forma di ibridazione postmoderna, racchiude in sé – o perlomeno vorrebbe farlo – più di un “sapere” espressivo. Tutto ciò rappresenta un forte segnale di rottura e di discontinuità nell’ambito di quel macrogenere che è la commedia all’italiana, poiché ciò che accomuna la nuova generazione di comici rispetto a quelle precedenti è la negazione della sua consolidata struttura, costruita su una rigida divisione di ruoli e di compiti. Una negazione che nasce da una consapevolezza che proprio la nuova generazione di comici-registi ha maturato nella stagione della contestazione e della lotta: quella di non volersi integrare, dal momento che, in qualche modo, “integrarsi significava negarsi”. Questo fenomeno produce due effetti, uno in parte conseguenza dell’altro: viene scardinata la figura del regista-metteur en scène, il

16 La Sacher film di Nanni Moretti e di Angelo Barbagallo alla fine degli anni ottanta è forse il caso più eclatante, perché è quella che nel corso degli anni riesce a svilupparsi sui tre fronti (produzione, distribuzione ed esercizio). Bisogna però perlomeno ricordare la Esterno Mediterraneo di Massimo Troisi, la Ama di Pupi Avati, la Bambù film di Maurizio Nichetti, nonché “Ipotesi cinema” di Ermanno Olmi che, pur non appartenendo alla generazione di Piscicelli e Moretti, diventa un punto di riferimento per esperienze produttive e formative molto importanti. 17 C’è da ricordare che, accanto ai nomi di Verdone, Troisi, Nichetti e Nuti, almeno inizialmente, vengono inseriti nel nuovo fenomeno anche i primi due lungometraggi di Nanni Moretti (Io sono un autarchico e Ecce bombo). Saranno i suoi lavori degli anni ottanta a chiarire che il suo è un caso completamente diverso da quello dei “malincomici”.

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vero mediatore stilistico delle diverse spinte che hanno contribuito al successo del genere18, mentre il depauperamento linguistico che ne deriva (che di fatto si traduce nell’azzeramento della profondità dell’immagine e della discorsività del montaggio) impone in poche stagioni un “non-linguaggio” di origine televisiva. Ciò che accomuna tutti questi aspetti è il fatto di essere insieme causa ed effetto dello sgretolamento cui è sottoposta la macchina-cinema. Un dissolvimento strutturale prima che linguistico: iniziano a saltare le figure mediatrici, si affermano quelle ibride, il know-how acquisito da alcune categorie professionali sembra improvvisamente perdersi, non avere più peso. Se dunque è vero che in questi anni inizia la terza fase del rapporto tra il cinema e la televisione – quella della “sostituzione rispettosa”, secondo la storica classificazione di Gianfranco Bettetini19 – bisogna necessariamente tener conto che, ad una sostituzione di tipo produttivo (sia la RAI, fin dagli anni settanta e poi, nel corso del decennio successivo, sia Mediaset “prendono il posto” dei produttori), corrisponde persino una sostituzione nella quantità e nei modi della fruizione. Un diverso modo di fruire il testo audiovisivo che, se da una parte contribuisce a far perdere molti spettatori alla sala, rende però più coinvolti, attenti e in qualche modo più consapevoli, quelli che continuano a sceglierla. In tal senso, l’espressività dei registi che esordiscono nel corso del decennio dei settanta è riconducibile sostanzialmente a due fenomeni che, se apparentemente sembrano molto diversi fra loro – se non addirittura in antitesi – in realtà sono prodotti del medesimo mutato atteggiamento nei confronti della struttura narrativa. Se da un lato, infatti, quello dei “malincomici” sembra azzerarne la complessità – trovando il proprio minimo comune denominatore in una struttura di tipo episodico, incentrata completamente sulla qualificazione delle gags –, dall’altro il fenomeno del cosiddetto “nuovo cinema”, che di fatto s’identifica nella nuova generazione degli autori, sembra invece caratterizzarsi per la sperimentazione e la ricerca di nuove e più complesse architetture narrative. A quella, sconcertante, de Le occasioni di Rosa che prelude a quella, polifonica e decentrata, di Blues metropolitano si potrebbe infatti affiancare quella “a grandi temi” di Se non è ancora felicità 18 Il macrogenere in questione è infatti il prodotto della sinergia tra la lungimiranza dei produttori, la genialità di una generazione di sceneggiatori, la forte presenza scenica di un gruppo di attori organizzata in un vero e proprio Star-System, nonché di un folto gruppo di ottimi caratteristi. 19 Cfr. G. Bettetini, Cineteleindipendente, «Il Sole 24 ore», 17 marzo 1987.

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(1976) e, ancora di più, quella “alfabetica” di Panni sporchi (1980) di Giuseppe Bertolucci – che peraltro preludono alla sperimentazione più elaborata delle “storie a intersezione multipla” del suo successivo Segreti segreti (1985); ma anche alla ricerca costruita sui richiami e sugli echi de La città del sole (1973) di Gianni Amelio. Il fattore però più importante che accomuna le esperienze dei “nuovi” autori riguarda il sonoro20. La generazione che esordisce negli anni settanta impone definitivamente la “presa diretta” nell’ambito della cinematografia nazionale, e quindi contribuisce a modificare l’abitudine tutta italiana di ricorrere sistematicamente ad una fase di post-sincronizzazione dove il doppiaggio era un momento pressoché imprescindibile21. Secondo tale prospettiva, i primi lavori per la televisione di molti registi sono da considerarsi decisivi, proprio perché creano i presupposti per la rottura con il passato e per la riformulazione del sistema espressivo. Esso viene di fatto rimodellato su un’adesione all’effetto di reale (immagine+suono), reso possibile da un altro e diverso modo di concepire il testo audiovisivo. Un’idea di scrittura che ha il proprio côté teorico nell’assioma della Novelle Vague, e delle sue diverse declinazioni, basato sulla contemporaneità della registrazione sonora e di quella visiva, mentre quello pratico (la garanzia della sua praticabilità) si trova nella formazione e nello sviluppo di una differente cultura audiovisiva. Quella prodotta dalla televisione italiana è infatti una cultura che prende le distanze da quella cinematografica nello statuto stesso della relazione suono/immagine: là il sincronismo è un dato ontologico e originario, qui invece esso presuppone una rielaborazione – nei casi migliori (quello di Fellini su tutti) una reinvenzione – a posteriori. Naturalmente nella storia del cinema italiano non mancano film in cui si è fatto uso del sonoro in presa diretta, ma si tratta di casi sporadici e occasionali che hanno solo contribuito ad alimentare l’equivoco ereditato dal neorealismo. Anche se quella comune etica dell’estetica postulava l’abbandono dei dialoghi letterari e la rinuncia all’italiano puro e asettico del doppiaggio, in realtà non riuscì a farne veramente a 20 Gli studi specifici sul suono in ambito audiovisivo sono pochi e di recente acquisizione. In ambito cinematografico Michel Chion è stato il primo ad approfondire e a tentare di sistematizzarne l’apporto: cfr. Michel Chion, L’audio vision. Son et image au cinéma, Nathan: Paris, 1990 [tr. it L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau: Torino, 1997]. 21 Da sottolineare come Le occasioni di Rosa sia il primo film italiano integralmente in presa diretta. Neanche una battuta fu doppiata e anche tutti i rumori e gli effetti sonori (solitamente realizzati in studio dai rumoristi anche per i film in presa diretta) furono registrati sul set.

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meno, in particolare del secondo, dal momento che pochissimi furono i titoli “neorealistici” in cui fu utilizzata la colonna audio originale. Merito dunque della generazione degli esordienti cine-televisivi degli anni settanta se si è riusciti a risolvere questo storico paradosso che ha caratterizzato la nostra cinematografia per oltre quarant’anni. Ciò che cambia, con il nuovo modo di utilizzare il sonoro22, è la fenomenologia stessa del dato reale che, se da un lato incentiva uno sguardo rigorosamente documentario, dall’altro lo deforma con messinscene estetizzanti, incerte, iperrealistiche. Ciò che sembra dunque accomunare l’esperienza di Piscicelli agli esordi più significativi del periodo è la continua oscillazione tra il documentario e la fiction, la sperimentazione di possibili formulazioni narrative in cui si trovino ad interagire, talvolta sfaldandosi vicendevolmente, contesto realistico e impianto drammaturgico. Da questo dato emerge un’ulteriore linea di interpretazione, a partire dalla considerazione che la televisione italiana negli anni settanta diventa l’unico (o comunque il più valido) spazio in cui è attiva una progettualità documentaria, nonché il solo vero referente del suo già esiguo mercato. Come anche altri autori che esordiscono con la televisione in questo periodo, Piscicelli inizia il suo percorso cinematografico da un’idea documentaria che, nel corso del tempo, poi modifica e adatta a progetto di finzione. Un itinerario simile a quello di molti “padri” e/o “fratelli maggiori” del cinema italiano, che tuttavia se ne differenzia per il contesto entro cui si sviluppa. Sia essa di natura giornalistica (come ad esempio Gianni Amelio), oppure vicina al cinema diretto di ispirazione francese (come quella di Giuseppe Bertolucci), o addirittura storico-archivistica (come quella di Paolo Benvenuti), o di semplice controinformazione militante (Piscicelli), l’istanza documentaria è all’origine di quasi tutti gli sguardi emergenti del periodo. Sguardi perfettamente coscienti che, se non sempre si generano con la televisione, dalla televisione comunque vengono alimentati. Il case history dell’autore di Pomigliano d’Arco mette infine in luce un dato che meriterebbe senz’altro maggiore approfondimento. Un dato che mostra quanto, nel decennio degli anni settanta, la televisione assorba l’attitudine documentaria del nostro cinema. Su questa tendenza pesa la figura di Roberto Rossellini, la cui esperienza 22 Il film con cui inizia questa tendenza è Strategia del ragno (1970), il primo film di Bernardo Bertolucci girato interamente in presa diretta. Non a caso, uno dei primi titoli prodotti dalla Tv italiana.

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televisiva ha un’evidente ascendenza in molti dei percorsi autoriali che iniziano in questi anni e che, come si è visto, viene anche talvolta esplicitamente citato (il viaggio alla solfatara de Le occasioni di Rosa). Se però è vero che durante il decennio la televisione garantisce spazio a nuovi autori, conservandone l’attitudine documentaria, è anche vero che questi spazi vengono rapidamente fatti scomparire. Sono convinto che proprio questa scomparsa sia una delle principali cause della sostanziale opacità dello sguardo delle successive generazioni di registi italiani23. Non è un caso che la maggior parte di questi provengano dalla (e si formino sulla) immagine piatta e artefatta della neo-pubblicità. Un’immagine che i “consigli per gli acquisti” (e quindi la televisione come mezzo che irresponsabilmente ne impone la Weltanschauung) trasformano radicalmente, facendola regredire a una visione di superficie (e superficiale). È così che si arriva agli anni ottanta. All’epoca dell’ottimismo, dell’edonismo reganiano e degli sguardi vuoti.

Il “nuovo cinema napoletano” La figura di Salvatore Piscicelli non solo è emblematica di uno snodo cruciale secondo una prospettiva intermediale, ma è anche fondamentale per comprendere le origini e le radici di uno dei fenomeni di maggior rilievo – se non forse l’unico di un certo rilievo – della recente produzione cinematografica italiana. Quello che qualcuno ha definito, un po’ semplicisticamente, il “nuovo cinema napoletano”, o addirittura “la nuova scuola napoletana”, è infatti un fenomeno che, grazie alla capacità di autorigenerazione tipica della cultura partenopea, è stato in grado di assumere una propria consistenza espressiva in un panorama cinematografico che, a partire dagli anni novanta, si è andato sempre più delocalizzando da Cinecittà24. Tutto ciò naturalmente al di là delle naturali differenze espresse dalle opere e dai percorsi artisticoespressivi degli autori che vengono fatti rientrare in tale classificazione. 23 Non è un caso che, con il mutamento dello scenario e del mercato documentario negli anni novanta, tra le ultime generazioni di registi italiani siano emersi o stiano emergendo personalità autoriali il cui sguardo ha radici “documentaristiche”. Solo per fare qualche esempio, si pensi a Matteo Garrone, Davide Ferrario, Guido Chiesa, Daniele Ciprì e Franco Maresco, (tutti esordienti negli anni novanta), o ai nomi dell’ultima generazione come Vincenzo Marra, Daniele Vicari, Daniele Gaglianone, Alessandro Angelini, Giorgio Diritti, Saverio Costanzo, Pietro Marcello (tutti esordienti nel nuovo millennio). 24 Cfr. V. Zagarrio, Il cinema italiano degli anni novanta, cit..

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In questo fenomeno è infatti possibile inserire personalità registiche molto diverse fra loro, che è doveroso suddividere in almeno due generazioni successive a quella di Piscicelli25: quella che esordisce negli anni novanta (Mario Martone, Antonio Capuano, Pappi Corsicato, Stefano Incerti, Giuseppe Gaudino, Nina Di Majo, Gianfranco Pannone, la stessa Carla Apuzzo – che, con il suo Rose e pistole, è probabilmente il più puro esempio di postmoderno nel cinema napoletano – etc) e che nel 1997 provò addirittura a radunarsi intorno a un film-manifesto (I vesuviani)26, e quella le cui prime opere appartengono già al nuovo Millennio (Paolo Sorrentino, Vincenzo Marra, Francesco Patierno, Luca Miniero, Diego Olivares, Marcello Garofalo, Bruno Oliviero, Silvana Maja ecc27). Ben tre generazioni di autori, quindi, che in trent’anni hanno contribuito a cambiare radicalmente la rappresentazione della città partenopea. Diviso tra folklore e meridionalismo, almeno fino agli anni settanta, il territorio del napoletano non era mai stato messo in scena attraverso un’iconografia e un sistema espressivo che fossero l’emanazione delle sue profonde contraddizioni28. Va inoltre osservato che il cinema prodotto a Napoli nell’ultimo trentennio è da considerarsi uno straordinario fenomeno non solo per gli sguardi originali e le personalità autoriali che sono stati in grado di emergere dalla morta gora dell’ultima produzione cinematografica nostrana, e nemmeno per l’indubbia attrattiva che ha avuto nei confronti di autori cinematografici stranieri (come dimostrano le recenti, oltreché estremamente interessanti, esperienze di Abel Ferrara con il suo Napoli, Napoli, Napoli e John Turturro con il suo Passione) quanto

25 Oltre a Piscicelli, tra i registi napoletani esordienti della “sua” generazione, è necessario ricordare, oltre al nome di Massimo Troisi, quello di Antonietta De Lillo, il cui esordio è del 1985 (Una casa in bilico). 26 Per una ricognizione sul “nuovo cinema napoletano” degli anni novanta si veda D. Minutolo, Il cinema all’ombra del Vesuvio. La topografia come “forma simbolica”, in V. Zagarrio (a cura di), Il cinema della transizione, Marsilio: Venezia, 2000, pp. 325-340. 27 A questi bisogna aggiungere almeno altri quattro registi partenopei, le cui opere prime però si differenziano dalle altre per il fatto di non essere ambientate nella loro zona d’origine: Davide Marengo (Craj, ma anche il successivo Notturno bus), Antonio Bocola (Fame chimica), Libero De Rienzo (Sangue, la morte non esiste) e Pietro Marcello (Il passaggio della linea, ma anche La bocca del lupo). 28 Anche nel cinema di Francesco Rosi, cioè nel cinema di uno dei maggiori rappresentanti del cosiddetto “cinema meridionalistico”, alcuni lavori del quale (I magliari, Le mani sulla città, Cristo si è fermato a Eboli) hanno il grande merito di contrapporre una visione critica della cultura partenopea a quella folkloristica fin lì prevalente, la chiave socio-politica prevale sostanzialmente su quella antropologico-magica. Un aspetto che, come si è visto nel caso di Piscicelli, è fondamentale per comprendere le contraddizioni del territorio.

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per il gran numero di collaboratori che hanno saputo distinguersi nei più diversi campi della realizzazione filmica. Una serie di personalità – dagli attori (Anna Bonaiuto, Toni Servillo, Silvio Orlando, Valeria Golino...), ai direttori della fotografia (Pasquale Mari, Cesare Accetta, oltre al “milanese” Luca Bigazzi che vi ha vissuto parecchio tempo...), agli sceneggiatori (Domenico Starnone, Ivan Cotroneo, Massimo Gaudioso, Gino Ventriglia), ai montatori (Giogiò Franchini), agli stessi produttori sia eredi di una grande tradizione (come Aurelio De Laurentiis), sia emergenti (Nicola Giuliano, Giorgio Magliulo, Angelo Curti, Ida Di Benedetto29) – che a Napoli ha contribuito a formare un humus cinematographicus pressoché unico in Italia; anche se, paradossalmente, molti di loro hanno poi dovuto allontanarsene per potersi affrancare dalla logica perversa che la governa. Una lontananza che, peraltro, accomuna chi, per scelta, come Eduardo, o suo malgrado come Roberto Saviano, ha saputo raccontarla meglio. Come ha suggerito Erri De Luca, la cui vicenda esistenziale è peraltro molto simile a quella dell’autore di Immacolata e Concetta, Napoli è una città che, per la sua alta densità di popolazione, per il suo intervenire fisicamente nelle relazioni, per la sua vulcanica “eruttività”, è portata ad espellere naturalmente i corpi che a tale logica non si adattano30. Non è un caso che essa sia stata l’unica città italiana ad essersi liberata da sola dall’occupazione nazista, durante le famose quattro giornate (27-30 settembre) del 194331. Piscicelli è infine una figura chiave anche per riuscire a comprendere il passaggio tra la vis espressiva del nuovo cinema napoletano e la grande cultura teatrale e musicale della città, che hanno entrambe antiche radici ma che, negli anni settanta, toccano punte di sperimentazione e di ricerca di assoluto rilievo (Roberto De Simone, il jazz-rock di James Senese, così come il teatro della “nuova spettacolarità” di

29 A questi nomi bisognerebbe aggiungere anche quello di Conchita Airoldi che, anche se non è di origine napoletana, partecipò alla realizzazione di Immacolata e Concetta come segreteria di edizione. Anzi, si può dire che il film di Piscicelli in qualche modo ne cambiò il suo percorso all’interno dell’industria cinematografica: da attrice nei primi anni settanta a produttrice a partire da metà degli anni ottanta. 30 Napoletano di origine, Erri De Luca ha deciso di «autoespellersi» dalla città proprio nel 1968, cioè più o meno nello stesso periodo in cui Piscicelli decide di trasferirsi a Roma. Il bel neologismo “napòlide” (che secondo De Luca indica colui che è nato a Napoli ma che, essendosene staccato, ha perso diritto di cittadinanza) è introdotto proprio da uno dei libri che lo scrittore ha dedicato alla sua città d’origine; cfr. E. De Luca, Napòlide, Dante & Descartes: Napoli, 2006. 31 Si veda http://www.chetempochefa.rai.it/TE_videoteca/1,10916,1095683,00.html.

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ALLE ORIGINI DI GOMORRA

Falso movimento32). Anzi, si può dire che Piscicelli sia da considerarsi come una sorta di padre spirituale di questo eterogeneo gruppo di autori33: sia per le sua pioneristica esperienza come regista-producer (fu immediatamente seguito da Antonietta De Lillo e Giorgio Magliulo, che proprio con Piscicelli aveva collaborato in Bestiario metropolitano come operatore34); sia per la nuova iconografia e la propensione antropologica che emergono dai suoi primi lavori e che diventeranno gli elementi su cui si fonderà lo sguardo delle generazioni successive; sia infine per la sua capacità di elaborare materiali di diverso tipo attraverso diversi medium espressivi e che, ancora oggi, rappresenta una delle poche significative esperienze intermediali del cinema televisivo italiano.

32 Prima di assumere il nome di “Falso movimento” nel 1979, il gruppo fondato da Mario Martone, Federica Della Ratta, Andrea Renzi, Angelo Curti e Pasquali Mari, aveva preso prima il nome de “Il battello ebbro” e poi di “Nobili di Rosa”. A metà degli anni ottanta “Falso Movimento” si fonderà con il Teatro dei Mutamenti, guidato da Antonio Neiwiller, e il Teatro Studio di Caserta, capeggiato da Toni Servillo, per dare vita alla formazione dei “Teatri Uniti”. 33 Anche Valerio Caprara è d’accordo nel definire Salvatore Piscicelli l’autore chiave del “rinascimento” del cinema napoletano; cfr. Valerio Caprara, Il buono, il brutto, il cattivo: storie della storia del cinema italiano, Guida: Napoli, 2006, pp. 213-222. 34 Una casa in bilico di De Lillo-Magliulo, nel 1985 proseguiva la strada aperta da Piscicelli proponendo un modo alternativo di produrre, legato alla realtà del territorio.

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La canzone di Zeza, Marcello Colasurdo [foto di Carla Apuzzo, © 1978 Carla Apuzzo]

La canzone di Zeza, un momento della rappresentazione [foto di Carla Apuzzo, © 1978 Carla Apuzzo]

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La canzone di Zeza [foto di Carla Apuzzo, © 1978 Carla Apuzzo]

Marcello, Marcello Colasurdo [foto di Carla Apuzzo, © 1978 Carla Apuzzo]

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Immacolata e Concetta, Ida Di Benedetto, Biancamaria Mastrominico, Salvatore Piscicelli e Lucia Ragni nella preparazione della seq. XVb [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

Immacolata e Concetta, il capolettricista Ennio Di Stefano e Ida Di Benedetto nella preparazione della seq. XXXb [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

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Immacolata e Concetta, Salvatore Piscicelli, Tommaso Bianco e Ida Di Benedetto nella preparazione della seq. XXc [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

Immacolata e Concetta, Salvatore Piscicelli, Emilio Bestetti (di spalle), il truccatore Sergio Angeloni (terzo da destra), Ennio Di Stefano e la segretaria di edizione Conchita Airoldi nella preparazione della seq. XIX [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

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Immacolata e Concetta, Salvatore Piscicelli, Ida Di Benedetto e il fonico Remo Ugolinelli (riflessi nello specchio) e l’elettricista Italo Di Stefano nella preparazione della seq. VII [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

Immacolata e Concetta, in primo piano il direttore della fotografia Emilio Bestetti, l’operatore Giorgio Aureli, Ida Di Benedetto e Salvatore Piscicelli, in secondo piano gli elettricisti Italo ed Ennio Di Stefano nella preparazione della seq. VII [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

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Immacolata e Concetta, Nina De Padova e Ida Di Benedetto nella seq. X [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

Immacolata e Concetta, Marcella Michelangeli nella seq. VIb [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

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Immacolata e Concetta, Salvatore Piscicelli (secondo da destra) e Ida Di Benedetto (prima da destra) nella preparazione della seq. XIX [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

Immacolata e Concetta, Marcella Michelangeli (a sinistra) e Salvatore Piscicelli (terzo da destra) nella preparazione della seq. Vb [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

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Immacolata e Concetta, Marcella Michelangeli nella sequenza finale non montata [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

Immacolata e Concetta, Marcella Michelangeli e Ida Di Benedetto nell’inq. 401 [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

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Immacolata e Concetta, Marcella Michelangeli e Ida Di Benedetto nel finale dell’inq. 401 [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

Immacolata e Concetta, Ida Di Benedetto nell’inq. 225 [foto di Carla Apuzzo, © 1979 Carla Apuzzo]

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Bestiario metropolitano, James Senese [foto di Carla Apuzzo, © 1980 Carla Apuzzo]

Bestiario metropolitano, Sergio Boccalatte [foto di Carla Apuzzo, © 1980 Carla Apuzzo]

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Le occasioni di Rosa, la locandina del film [foto di Rino Petrosino, © 1981 Falco Film]

Le occasioni di Rosa, Don Rafele (in secondo piano a sinistra) e una transessuale (Patrizia) durante la preparazione della seq. VIIIc [foto di Antonio Casolini, © 1981 Falco Film]

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Le occasioni di Rosa, Martin Sorrentino (Pasquale) e Ciro Riccardi (Angela) durante la preparazione della seq. VIIIc [foto di Antonio Casolini, © 1981 Falco Film]

Le occasioni di Rosa, Marina Suma nell’inq. 324 [foto di Antonio Casolini, © 1981 Falco Film]

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Le occasioni di Rosa, Marina Suma nell’inq. 327 [foto di Antonio Casolini, © 1981 Falco Film]

Le occasioni di Rosa, Angelo Cannavacciulo e Marina Suma nell’inq. 372 [foto di Antonio Casolini, © 1981 Falco Film]

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Le occasioni di Rosa, Marina Suma nella seq. Vb [foto di Antonio Casolini, © 1981 Falco Film]

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Le occasioni di Rosa, Marina Suma nell’inq. 188 [foto di Antonio Casolini, © 1981 Falco Film]

Le occasioni di Rosa, Gianni Prestieri e Marina Suma nell’inq. 253 [foto di Antonio Casolini, © 1981 Falco Film]

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Le occasioni di Rosa, Marina Suma, Salvatore Piscicelli e il macchinista Mario Pizzi (alla sua destra) durante la preparazione della seq. II [foto di Antonio Casolini, © 1981 Falco Film]

Le occasioni di Rosa, Salvatore Piscicelli (al centro) e l’operatore Carlo Tafani (sul dolly) nella preparazione dell’inq. 298 [foto di Antonio Casolini, © 1981 Falco Film]

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APPENDICE

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LE SCENEGGIATURE DESUNTE Questa sezione è dedicata alla trascrizione dei due testi filmici di Salvatore Piscicelli presi in analisi. Le versioni cui si fa riferimento sono quelle indicate dall’autore come definitive e circolate nelle sale. La trascrizione tiene conto della divisione in inquadrature e dà un’interpretazione della divisione in sequenze. Nelle seguenti ripartizioni ho infatti inteso le sequenze come segmenti narrativi che, pur presentando delle discontinuità di spazio e/o di tempo, hanno una propria organicità. Da queste suddivisione è poi possibile operare un’ulteriore suddivisione in sottosequenze (o scene) che scandiscono le diverse sequenze. Nella parte finale di ogni segmento vengono segnalati gli elementi sonori e quelli linguistici che caratterizzano le sequenze, mentre vengono definiti “attivi” i movimenti della mdp che si sganciano da quello dei personaggi, manifestando in tal modo una chiara intenzione dell’enunciazione.

IMMACOLATA E CONCETTA I 22 cartelli dei TITOLI DI TESTA si succedono sulle note di una cantata popolare napoletana (Fronne). DISSOLVENZA A NERO Ancora un cartello sul quale appare scritto: IMMACOLATA. Continua la cantata in napoletano. Seq. I, inqq. 1-12, L’INVITO A PRANZO – Seq. Ia, inqq. 1-9. Est/Int notte. La macelleria di Immacolata. Don Ciro arriva in automobile, Immacolata gli dice che non riesce a pagare il debito che ha nei suoi confronti e lui le risponde che, essendo una donna dalle molte risorse, non le dovrebbero mancare i mezzi, come «ai vecchi tempi». Immacolata gli chiede di essere accompagnata a casa.

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APPENDICE

Seq. con pochi movimenti di macchina (uno solo “attivo”: inq. 1, con una pan. A/B e S/D che lega l’insegna della macelleria all’arrivo di Don Ciro). – Seq. Ib, inqq. 10-12, Est. Notte. Strada di fronte alla casa di Immacolata. Don Ciro e Immacolata arrivano in automobile, lei lo invita a pranzo per l’indomani annunciandogli una sorpresa. L’uomo le mette una mano tra le cosce, Immacolata gliela sposta dicendogli che se gli fa piacere, l’indomani al pranzo può portare con sé anche la moglie. Seq. II, inqq. 13-20, LE DISPOSIZIONI PER IL GIORNO DOPO – Seq. IIa, inqq. 13-16, Int. Notte. Casa di Immacolata. Dopo essersi pettinata davanti allo specchio, Immacolata informa il marito (Pasquale) di aver invitato Don Ciro a pranzo per l’indomani. In sottofondo sonoro la televisione accesa trasmette la voce di Mike Buongiorno, mentre sono due i movimenti di mdp, entrambi a seguire quelli della donna. – Seq. IIb, inq. 17, Est. Notte. Cortile della casa di Immacolata. Immacolata scende le scale della sua abitazione e va a bussare alla porta della vicina di casa (Antonietta), da cui apprende che Lucia, sua figlia, sta dormendo e che è meglio non svegliarla. È un’inq. costruita con un elaborato movimento di mdp (carrello + pan.) – Seq. IIc, inqq. 18-20, Int. Notte. Casa di Marittella. Immacolata va a trovare la vicina e le fa capire che può trovare lavoro alla figlia; la donna le dimostra gratitudine sapendo che la figlia «non tiene mestiere». L’inq. 19 è costruita con un movimento “attivo” di mdp (pan. S/D e poi carrello in avanti). Seq. III, inqq. 21-75, L’INTRIGO DI IMMACOLATA – Seq IIIa, inqq. 21-36, Int. Giorno. Sala da pranzo della casa di Immacolata. A pranzo con Immacolata ci sono Pasquale, Don Ciro e sua moglie (donna Sisina) e Marittella, la figlia della vicina. Dal dialogo si evince che Pappalardo è un giocatore e un incallito fumatore, mentre Immacolata esalta le qualità della ragazza («è completa!»). Durante tutta la seq. si alternano movimenti di carrello all’indietro (inqq. 21, 23, 29, 36) o laterali (inq. 26) tutti “attivi”, a piani ravvicinati statici. – Seq. IIIb, inqq. 37-43, Int. Giorno. Cucina della casa di Immacolata. Immacolata è con Pappalardo che prepara il caffè. L’uomo si lamenta che «non si quaglia niente». Immacolata, dopo averlo rassicurato

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LE SCENEGGIATURE DESUNTE

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sulla ragazza, gli chiede però come comportarsi con la moglie. Lui le risponde che donna Sisina di solito si addormenta dopo pranzo. – Seq. IIIc, inqq. 44-57, Int. Giorno. Sala da pranzo della casa di Immacolata. Dopo aver preso il caffè, Pasquale esce di casa, Immacolata e Marittella vanno in cucina a lavare i piatti, mentre donna Sisina chiede al marito se le piace la ragazza o se invece continua a piacergli Immacolata («quella è stata sempre ‘na zoccola»). Un unico movimento di macchina “attivo” (inq. 50) contraddistinta da una pan S/D/S con un lieve carrello all’indietro sul finale. – Seq. IIId, inqq. 58-75. Int. Giorno. Cucina e camera da letto della casa di Immacolata. Immacolata invita Marittella a essere “gentile” con Pappalardo perché le «po’ creà una posizione». Dopo averla lasciata con l’uomo in camera, controlla che donna Sisina stia dormendo e si mette ad origliare. Quando sente Pappalardo lamentarsi, però, rientra in camera e, per dimostrazione, inizia una fellatio sull’uomo davanti agli occhi della ragazza. Donna Sisina entra e li scopre. La sequenza che alterna una dinamica elaborata e “attiva” della mdp (due movimenti di carrello misti a pan. nelle inqq. 63 e 69 e una pan. B/A che “scopre” nello specchio l’entrata di donna Sisina nell’inq. 74) a momenti di sospensione creati dall’inserimento di piani ravvicinati (8 su 17 inqq.). Da notare anche i 3 piani con angolazione dal basso (inqq. 60, 62 e 66) e i 3 piani con angolazione dall’alto (la parte finale dell’inq. 69, la 71 e la 74). Seq. IV, inqq. 76-79, L’ARRESTO – Seq. IVa, inq. 76, Est. Notte. Una strada del paese. Immacolata litiga con Pasquale e si apprende che è stata denunciata e che si sta nascondendo. Il marito la invita a costituirsi. – Seq. IVb, inqq. 77-79, Est./Int. Notte. Casa di zia Carmela. Immacolata bussa alla porta di zia Carmela, che la accompagna in una stalla dove, le dice, può passare la notte. – Seq. IVc, inqq. 80-82, Est./Int. Alba. Casa di zia Carmela. La mattina seguente arrivano i carabinieri e arrestano Immacolata. Sono tre i movimenti di mdp nell’intera sequenza: il carrello laterale misto a pan. dell’inq. 76 e quelli di pan. delle inqq. 78 e 82. DISSOLVENZA A NERO Appare un cartello con la scritta: CONCETTA

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Seq. V, inqq. 83-97, CONCETTA SE NE VA DAL LAVORO – Seq. Va, inqq. 83-90, Est. Giorno. Campo di campagna. La nipote di Concetta arriva sul campo dove la donna sta facendo la raccolta e la avverte che è venuto il marito di Angelina a fare lo smargiasso armato di coltello, dicendo che la sta cercando per ucciderla. L’unico movimento della mdp è la pan. S/D dell’inq. 83 che “scopre” la campagna mentre segue la nipote di Concetta. – Seq. Vb, inqq. 91-97, Est. Giorno. Cortile di una casa di campagna. Concetta chiede al suo datore di lavoro un permesso. Prende la macchina e se ne va. Qui ci sono diversi movimenti di pan. (inqq. 91 e 97), talvolta misti a carrello (inqq. 93 e 96) che, pur seguendo l’azione, “scoprono” il contesto. Da notare lo “scavalcamento di campo” tra le inqq. 94/95. Seq. VI, inqq. 98-113, IL DUELLO – Seq. VIa, inqq. 98-99, Int. Giorno. Casa di Concetta. Concetta prende una pistola e la arma. Inizia una musica di commento. – Seq. VIb, inq. 100, Est. Giorno. Strada del paese. Concetta cammina seguita da un movimento di panoramica che “scopre” il contesto. – Seq. VIc, inqq. 101-103, Int. Giorno. Bar del paese. Concetta entra e ordina un caffè. Un uomo si alza dal tavolo, le si avvicina, la guarda ed esce. La musica prosegue fino all’inq. 102. Due i movimenti della mdp, di cui uno “attivo” (il carrello misto a pan. dell’inq. 103). – Seq. VId, inqq. 104-113, Est. Giorno. Cortile fuori dal bar. L’uomo minaccia Concetta e, quando lei gli dice che è venuta a dare «soddisfazione» ad Angelina, tira fuori un coltello. Lei gli spara, ferendolo ad una spalla. DISSOLVENZA A NERO Appare un cartello con la scritta: IMMACOLATA E CONCETTA Seq. VII, inqq. 114-158, RINCONTRARSI FUORI DAL CARCERE La prima parte della sequenza è costruita in montaggio alternato tra le azioni delle due donne. – Seq. VIIa, inqq. 114-115, Est. Giorno. Piazzale antistante il carcere. Concetta esce di prigione. Sull’inq. 115 inizia un commento musicale mentre una pan. segue il movimento di Concetta. – Seq. VIIb, inq. 116, Int. Giorno. Camera del ‘Soggiorno Luna’. Imma-

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LE SCENEGGIATURE DESUNTE

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colata è seduta su un letto. Mentre continua la musica iniziata nella seq. precedente, un movimento di pan. misto a carrello di 360° alla fine “scopre” Immacolata, mentre sul finire del movimento inizia la voice over di una lettera dal carcere di Concetta. – Seq.VIIc, inq. 117, Est. Giorno. Una strada di città. Concetta cammina su una strada mentre prosegue la sua voice over da cui si apprende che le due sono rimaste in cella per più di anno e che, nel momento in cui Concetta scrive la lettera, si trovi ancora sola. Prosegue la musica iniziata nella seq. VIIa. Seq. VIId, inq. 118, Int. Giorno. Camera del ‘Soggiorno Luna’. Immacolata è in camera, mentre prosegue la voice over di Concetta che si dice impaziente di rincontrarla. La chiama «Amore mio». Prosegue anche la musica. – Seq.VIIe, inq. 119-121, Est. Giorno. Strada di città. Concetta entra in uno stabile e suona il campanello del “Soggiorno Luna”. Prosegue la musica, mentre si notano due movimenti di carrello misti a panoramica. – Seq. VIIf, inqq. 122-135, Int. Giorno. Camera del ‘Soggiorno Luna’. Concetta entra nella stanza dove Immacolata la sta aspettando. Dopo un breve dialogo, si iniziano a baciare. La seq. è caratterizzata dalla forte presenza di piani ravvicinati (11 su 14 inqq.), mentre si notano 4 movimenti macchina (1 solo “attivo”: il carrello misto a pan. dell’inq. 132). – Seq.VIIg, inqq. 136-151, Int. Giorno. Camera del ‘Soggiorno Luna’. Le due donne hanno un rapporto sessuale in una totale assenza di dialogo e di commento musicale. Tutta la seq. è costruita su piani ravvicinati e dettagli (fa eccezione la MF dell’inq. 150), mentre c’è un unico movimento di mdp: è la pan. di 180° dai corpi delle due allo specchio che li riflette (inq. 150). – Seq. VIIh, inqq. 152-158, Int. Giorno. Camera del ‘Soggiorno Luna’. Le due donne si rivestono. Mentre Concetta melanconica mostra il suo disappunto per il fatto di trascorrere un’altra notte senza la compagna, Immacolata si dice convinta che si deve trovare una soluzione per la loro situazione. Forte prevalenza di piani ravvicinati statici (6 su 7 inqq.). L’unico movimento di mdp è rappresentato dalla pan. dell’inq. 152 che segue la dinamica di Immacolata. Seq. VIII, inqq. 159-167, IMMACOLATA E PASQUALE – Seq. VIIIa, inqq. 159-167, Est./Int. Giorno. Spogliatoio. Mentre si sta cambiando alla fine della sua giornata di lavoro come manovale, Pa-

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squale è avvicinato da Giovanni e ha una reazione rabbiosa nei confronti dei colleghi che lo scherniscono sul fatto di essere stato “cornificato” da una donna. Quando Giovanni gli ricorda che la notizia è ormai di dominio pubblico, Pasquale si dice intenzionato ad ucciderla (Immacolata o Concetta?). Due soli movimenti di mdp (entrambi di pan. che seguono la dinamica dei personaggi). – Seq. VIIIb, inq. 168, Est. Giorno. Cortile della casa di Immacolata. Al suo rientro a casa, Immacolata viene a sapere dalla vicina che il marito è rincasato «scuro, scuro». Elaborato movimento di carrello avanti e poi indietro misto a pan. – Seq. VIIIc, inqq. 169-182, Int. Giorno. Casa di Immacolata. Mentre Immacolata dà da mangiare alla figlia, Pasquale rientra, la minaccia e la schiaffeggia. La donna gli dice di non aver bisogno di lui, mentre, al contrario, è lui ad aver bisogno di lei perché la casa in cui abitano è la sua. Seq. contraddistinta dalla forte presenza di piani ravvicinati (ben 12 su 14 inqq). Due movimenti di carrello, uno in avanti (inq. 177) e uno all’indietro (inq. 181), in particolare il secondo fortemente connotativo; due anche le pan. (inqq. 169 e 174). Seq. IX, inqq. 183-185, ANCORA SEPARATE Int. Giorno. Casa di Immacolata. Concetta informa l’amica che non riesce a trovare un lavoro fisso e che si accinge a partire per una settimana per andare a lavorare in una masseria. Immacolata, triste, commenta «‘N ata semana luntano». Un unico movimento (la pan. dell’inq 185) a seguire la dinamica di Immacolata. DISSOLVENZA A NERO Seq. X, inqq. 186-197, LA VISITA A ZIA CARMELA Est./Int. Giorno. Casa di zia Carmela. Immacolata va a trovare la zia che le offre tarallucci e vino mentre rievoca un episodio della sua infanzia che la fa commuovere. Poi le ricorda il suo affetto nonostante la gente sparli. Seq. filmicamente statica (fa eccezione la pan. dell’inq. 186) e contraddistinta da un cospicuo numero di piani ravvicinati (9 su 12 inqq.) Seq. XI, inqq. 198-221, LA FAVOLA DELL’UCCELLO GRIFONE

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LE SCENEGGIATURE DESUNTE



– Seq. XIa, inqq. 198-202, Int. Notte. Casa di Immacolata. Lucia chiede a Immacolata come mai non le racconta mai le favole. Un unico movimento di mdp: il carrello avanti dell’inq. 202. – Seq. XIb, inqq. 203-208, Int. Notte. Camera da letto di Lucia. Immacolata mette a letto la figlia e le racconta la favola del pecoraro e dell’uccello grifone, ma viene interrotta dal rumore della porta. Due i movimenti di carrello misti a pan. – Seq. XIc, inqq. 209-211, Int. Notte. Cucina della casa di Immacolata. Immacolata informa Pasquale che gli ha conservato pasta e fagioli. Lui le risponde in malo modo. – Seq. XId, inqq. 212-221, Int. Notte. Camera da letto di Lucia. Immacolata riprende a raccontare la favola a sua figlia fino a quando questa non si addormenta. Due i movimenti, entrambi di carrello, uguali e contrari, in apertura e chiusura di sequenza, mentre prevalgono ancora i piani ravvicinati (7 su 10 inqq.). Quando Immacolata esce dalla stanza spegne la luce, che ha la funzione di uno: STACCO A NERO Seq. XII, inqq. 222-234, LA DECISIONE – Seq. XIIa, inqq. 222-223, Int. Alba. Camera di Lucia. Immacolata si sveglia (ha dormito nel letto della figlia) e si specchia nel bagno. Inizia una musica di commento. Seq. dinamica (movimenti di pan., nell’inq. 223 misti a carrello e piani ravvicinati). – Seq. XIIb, inqq. 224-228, Est. Alba. Strade del paese. Immacolata attraversa il paese deserto, sul fondo s’intravede la città. Il commento musicale continua fino alla fine della sequenza, che è costituita esclusivamente da CM descrittivi (in 4 inqq. su 5 vi sono movimenti di panoramica). – Seq. XIIc, inqq. 229-234, Int. Alba. Casa di Concetta. Immacolata va a trovare Concetta e dopo averle comunicato il suo disagio («Nun ce a faccio cchiù») la invita ad andare a vivere con lei. Seq. contraddistinta da movimenti di panoramica che seguono l’azione (inqq. 230, 231) o combinati con carrello (inq. 232). Forte presenza dei piani ravvicinati (5 su 6 inqq.) Seq. XIII, inqq. 235-243, L’ARRIVO DI CONCETTA Int. Giorno. Casa di Immacolata. Concetta arriva a casa di Immacolata. Seq. in cui la dinamica della mdp è “attiva” nelle inqq. 240 e 243

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(movimento di carrello misto a pan.), mentre nell’inq. 235 la pan. segue l’azione. Seq. XIV, inqq. 244-261, LA NUOVA SITUAZIONE – Seq. XIVa, inqq. 244-245, Int. Notte. Camera di Immacolata. Le due amanti sono a letto insieme. In PPP Immacolata dice a Concetta di volerle bene. – Seq. XIVb, inqq. 246-249, Int. Notte. Cucina della casa di Immacolata. Pasquale rientra a casa e vede che gli è stato preparato un lettino. La mdp è mobile, ma sempre a seguire il movimento di Pasquale (pan. in tre inqq. su 4). Da notare una soggettiva di Pasquale, una delle rare situazioni in cui la mdp sposa un punto di vista diverso da quello delle due protagoniste. – Seq. XIVc, inqq. 250-253, Int. Notte. Camera di Immacolata. Immacolata e Concetta sono ancora insieme e si dicono felici. 4 PPP statici. – Seq. XIVd, inqq. 254-261, Int. Notte. Salone della casa di Immacolata. Pasquale guarda la televisione (che trasmette brani de La canzone di Zeza). È nervoso, rompe un bicchiere contro la parete e va in bagno a masturbarsi. C’è un solo movimento di mdp (la pan. dell’inq. 261 che segue il movimento dell’uomo) e ancora una soggettiva di Pasquale. Seq. XV, inqq. 262-267, LA CADUTA DI LUCIA – Seq. XVa, inqq. 262-265, Int/Est. Giorno. La strada antistante un magazzino. Immacolata viene avvertita che la figlia è caduta da un’impalcatura. Un movimento di mdp: la pan. dell’inq. 262 che segue il movimento dell’uomo che porta la notizia a Immacolata. – Seq. XVb, inqq. 266-267, Est. Giorno. Cortile della casa di Immacolata. Immacolata corre a casa e trova la figlia sdraiata su una barella. Un movimento di mdp: la pan. dell’inq. 266 a seguire il movimento dei personaggi. Seq. XVI, inqq. 268-274, PASQUALE CONTRO CONCETTA Int. Notte. Casa di Immacolata. Pasquale rientra e trova Concetta che dorme nel letto che è stato il suo, e la frusta con la cinghia. Seq. dinamica, con 4 movimenti di macchina, di cui due “attivi” (la pan. dell’inq. 268 e il movimento di carrello+pan. dell’inq. 272).

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LE SCENEGGIATURE DESUNTE



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Seq. XVII, inq. 275, IN OSPEDALE Int. Giorno. Sala d’aspetto d’ospedale. A tre giorni dall’incidente occorso alla bambina, Immacolata esprime a Concetta il desiderio di andare a monte Vergine per chiedere una grazia alla Madonna. Movimento combinato di carrello+pan. Seq. XVIII, inqq. 276-286, IL VIAGGIO A MONTEVERGINE – Seq. XVIIIa, inqq. 276-280, Est Giorno. Strada provinciale. Seq. dislocata in posti diversi e in tempi differenti: è il viaggio di Immacolata e Concetta in macchina verso Monte Vergine. Dopo aver fatto rifornimento di benzina, Immacolata racconta di aver sognato un uccello che rideva, e che quando c’è un uccello che ride nel sogno sia un brutto segno. L’ultima parte della battuta conclusiva della seq. precedente finisce in voice over sull’inq. 276, proprio mentre entra un intervento musicale presente fino all’inq. 278. Qui, dopo aver per qualche istante lasciato in primo piano sonoro il cinguettio degli uccelli della campagna, riprende la voice over di Immacolata che inizia a raccontare il sogno avuto. Seq. contraddistinta da campi (4 su 5 inqq. + il finale della quinta) e da movimenti di panoramica che hanno la funzione di descrivere il contesto ambientale, sospeso tra la città e la campagna. – Seq. XVIIIb, inq. 281, Est. Giorno. Santuario di Monte Vergine. Immacolata e Concetta guardano la campagna circostante. Una pan. inizialmente segue il movimento delle due per poi “scoprire” la campagna. – Seq. XVIIIc, inqq. 282-286, Est. Giorno. Strada provinciale. Durante il viaggio Immacolata si sente male, le due si fermano ad un bar dove Immacolata va in bagno a vomitare. DISSOLVENZA A NERO Seq. XIX, inqq. 287-294, LUCIA TORNA A CASA Est. Giorno. Cortile della casa di Immacolata. Immacolata e Concetta riportano a casa la bambina, che ha la gamba bloccata da un ferro al polpaccio. Appena arrivata, Lucia vuole salutare la vicina di casa Antonietta. Pasquale, vedendo il loro arrivo, va incontro alla figlia. Seq. con 4 movimenti di mdp, 3 di pan. (inqq. 287, 290, 293) e 1 di pan.+carrello (inq. 291).

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

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Seq. XX, inqq. 295-310, IMMACOLATA RINCONTRA DON CIRO – Seq. XXa, inqq. 295-299, Est. Notte. Macelleria di Immacolata. Immacolata rincontra don Ciro Pappalardo. Seq. statica contraddistinta dai piani ravvicinati (4 su 5) – Seq. XXb, inq. 300, Int./Est. Notte. Automobile di Ciro. Ciro e Immacolata sono in macchina. Lei lo informa che per la bambina non ci sono speranze e che la settimana successiva la porteranno in un istituto specializzato. Lui si dice disposto ad aiutarla. Al termine dell’inq. inizia una musica extradiegetica. – Seq. XXc, inqq. 301-310, Int. Notte. Ristorante “La Taverna”. Immacolata e don Ciro si fermano a mangiare, lui vorrebbe riprendere i rapporti, ma lei gli ricorda che il loro ultimo incontro le ha fatto trascorrere più di un anno in galera. Don Ciro la rassicura dicendo che in passato le cose si sono fatte senza cautela, che ha appena aperto una macelleria e che ha bisogno di aiuto. La musica iniziata sul finire della seq. precedente continua fino all’inq. 302. Seq. completamente statica e dove prevalgono i piani ravvicinati (7 su 10). Seq. XXI, inqq. 311-317, A LETTO CON DON CIRO Int. Notte. Camera d’albergo. Dopo aver fatto l’amore, don Ciro chiede conferma a Immacolata se è vero che sta insieme a una donna. Lei gli risponde di non volerne parlare. Seq. dominata dai piani ravvicinati (6 su 7) con un solo movimento (la pan. dell’inq. 314). Da notare l’angolazione in contre-plongé dell’unico piano a media distanza (inq. 312). Seq. XXII, inqq. 318-343, LA GELOSIA DI CONCETTA – Seq. XXIIa, inqq. 318- 331, Int. Notte. Casa di Immacolata. Immacolata rientra a casa e trova Concetta addormentata davanti al televisore. Quando si risveglia vuole sapere dove la compagna sia stata, Immacolata non le risponde. 3 movimenti di pan. che seguono l’azione (inqq. 318, 322, 324) e uno misto a carrello (inq. 321). Forte presenza di piani ravvicinati (10 su 14 inqq.). – Seq. XXIIb, inqq. 332-343, Int. Notte. Camera da letto della casa di Immacolata. Concetta piange, gelosa di Immacolata, e non si acquieta nemmeno quando la compagna la rassicura dicendole che è solo a lei che vuol bene. Il loro dialogo è interrotto dall’arrivo della figlia di

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LE SCENEGGIATURE DESUNTE



Immacolata, che si affaccia alla porta della stanza. 3 i movimenti: 2 movimenti di carrello misti a pan. (quello dell’inq. 334 e quello, molto elaborato, dell’inq. 337) e uno di sola pan. (inq. 342). Seq. XXIII, inqq. 344-349, PASQUALE RIENTRA UBRIACO Int. Notte. Casa di Immacolata. Pasquale rientra a casa nel cuore della notte, è ubriaco e non si regge in piedi. Immacolata si sveglia e lo trova accasciato a terra. Due movimenti di carrello (inqq. 347 e 348) e prevalenza di piani a media distanza (4 su 6 inqq.). Seq. XXIV, inqq. 350-369, LUCIA VA IN ISTITUTO – Seq. XXIVa, inqq. 350-355, Est. Giorno. Cortile della casa di Immacolata. Immacolata informa Antonietta che la figlia entrerà presto in un collegio per ricevere cure appropriate. Si dice fiduciosa almeno di un miglioramento. Un solo movimento (il carrello dell’inq. 350) e prevalenza di piani ravvicinati (4 su 6 inqq.). – Seq. XXIVb, inqq. 356-369, Int. Giorno. Casa di Immacolata. La figlia di Immacolata è preparata da Concetta per essere portata in collegio. L’accompagna Antonietta, la vicina di casa. Due soli movimenti, entrambi “attivi” di carrello+pan. (inqq. 362 e 366). DISSOLVENZA A NERO Seq. XXV, inqq. 370-384, LA PROPOSTA DI CIRO – Seq. XXVa, inqq. 370-373, Int. Giorno. Macelleria di Immacolata. Dopo aver scaricato il cibo per la macelleria di Immacolata, un fattorino l’avverte che la sera passerà don Ciro «come al solito». – Seq. XXVb, inqq. 374-384, Int. Notte. Camera da letto. Immacolata e Ciro sono a letto insieme. Lui le propone di rilevare una delle sue macellerie, ma lei gli risponde di voler tenere la sua per conservare l’indipendenza. Seq. XXVI, inqq. 385-391, IL RIFIUTO DI IMMACOLATA – Seq. XXVIa, inqq. 385-390, Int. Notte. Casa di Immacolata. Immacolata rientra a casa e trova Concetta a letto. Due movimenti di mdp: uno di carrello misto a pan. (inq. 386) e uno di semplice pan. (inq. 390).

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APPENDICE

– Seq. XXVIb, inq. 391, Int. Notte. Camera da letto della casa di Immacolata. Le due sono a letto: Concetta si avvicina a Immacolata ma questa la ferma dicendo che non ha voglia di fare l’amore. Un carrello laterale sui MPP delle due. Seq. XXVII, inqq. 392-405, IL VESTITO DI CONCETTA Int. Notte. Casa di Immacolata. Immacolata rientra a casa. Dice a Concetta che è andata a trovare la figlia e che l’ha trovata meglio. Poi le fa indossare un abito, delle scarpe e una borsetta che le ha portato in regalo: è la prima volta che si vede Concetta vestita in modo femminile. Immacolata poi le dice che ha rilevato una macelleria a Napoli, a metà con Ciro Pappalardo, e le chiede di farle compagnia. Concetta è scettica perché dice di non saper fare il mestiere. Alla fine dell’inq. 397 inizia un commento musicale extradiegetico che si protrae fino all’inq. 401. Seq. molto dinamica con ben 8 movimenti: 3 di semplice pan. (inqq. 392, 393, 394) e 5 di pan.+carrello (l’elaborata inq. 397, la 398, la 400, la 401 e la 402). Seq. XXVIII, inqq. 406-409, IMMACOLATA È INCINTA Est./Int Giorno. Ambulatorio medico. Immacolata va dal suo medico, gli porge i risultati delle analisi e gli dice che ha un ritardo di 10 settimane. 2 movimenti di pan. (inqq. 406 e 407). Seq. XXIX, inqq. 412-423, IMMACOLATA INFORMA CIRO – Seq. XXIXa, inqq. 410-412, Est. Notte. Strada di campagna. Immacolata sta aspettando, arriva la macchina di Ciro, vi sale. Un solo movimento (la pan. a seguire dell’inq. 412). – Seq. XXIXb, inqq. 413-423, Est.Int/ Notte. Strade di campagna. Immacolata informa Ciro di essere incinta, ma anche che vuole abortire. L’uomo invece si dimostra assolutamente intenzionato a tenere il bambino. Un solo movimento (la pan. dell’inq. 419) e prevalenza dei piani ravvicinati (7 su 11). Seq. XXX, inqq. 424-441, I DUBBI DI IMMACOLATA – Seq. XXXa, inqq. 424-436, Int. Notte. Casa di Immacolata. Immacolata rientra a casa e comunica a Concetta di essere incinta, di non volere il figlio e le chiede di aiutarla ad abortire.

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LE SCENEGGIATURE DESUNTE

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4 movimenti di mdp: 3 di semplice pan. (inqq. 427, 429, 434) e uno misto di carrello+pan. (inq. 435). Prevalenza dei piani a media distanza (9 su 13). – Seq. XXXb, inqq. 437-441, Int. Notte. Camera da letto di Immacolata. Dopo reciproco cunnilingus, le due donne, una accanto all’altra sotto le coperte, guardano lo specchio dell’armadio. A questo punto, inizia la voice over di Immacolata che dice di non poter fare a meno di pensare ad un uomo quando è con la compagna, e di non poter fare a meno di pensare a Concetta quando si trova con un uomo. Un solo movimento, ma estremamente espressivo: il carrello dell’inq. 441 sullo specchio che provoca una “scomparsa” di Immacolata dal quadro con la corrispondente “entrata” di Concetta. Seq. XXXI, inqq. 442-443, I DUBBI DI CONCETTA Int. Notte. Casa di Immacolata. Concetta è assorta e pensierosa. All’inizio dell’inq. 442 interviene un commento musicale, mentre entrambe le inqq. sono contraddistinte da movimenti di carrello combinati a pan. Seq. XXXII, inqq. 444-454, L’ESTREMO GESTO – Seq. XXXIIa, inqq. 444-446, Est. Notte. Cortile della casa di Immacolata. Piove, Concetta esce di casa e prende la macchina. Indossa il vestito che le ha regalato Immacolata. Continua la musica iniziata nella seq. precedente, un solo movimento di pan. (inq. 446). – Seq. XXXIIb, inqq. 447-454, Est./Int. Notte. Macelleria di Immacolata. Dopo aver ucciso la compagna, Concetta, disperata, inizia a piangere gettandosi addosso a un muro scrostato. 3 movimenti di mdp: la pan. dell’inq. 448 e i 2 movimenti di mdp “a spalla” (inqq. 451 e 453). Sul finire dell’inq. 454 inizia un canto popolare napoletano (Tammurriata) sul quale scorrono i TITOLI DI CODA

LE OCCASIONI DI ROSA Dopo i cartelli dei TITOLI DI TESTA, una DISSOLVENZA A NERO porta alla Seq. I, inqq. 1-10, ROSA LITIGA CON LA MADRE Int. Giorno. Casa di Rosa. Rosa litiga con la madre, la quale le rifaccia

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

APPENDICE

di averle chiesto 30.000 lire e di essersi voluta licenziare. La ragazza le dice di non voler più tornare a lavorare in fabbrica. Seq. in cui prevalgono i piani a media distanza (7 su 10). Seq. II, inqq. 11-15, LA “PASSEGGIATA” DI ROSA Est. Giorno. Strade di Scampia. Rosa passeggia per le strade della periferia di Napoli. La seq. è commentata da un intervento musicale extradiegetico ed è contraddistinta da movimenti di camera car, alcuni misti a pan. (inqq. 12, 14, 15). Da notare la pan. dell’inq. 12 che da Rosa sposta lo sguardo sui palazzi. Seq. III, inqq. 16-23, TONINO Est. Giorno. Uno sfasciacarrozze. Rosa si reca dal suo ragazzo (Tonino), che lavora presso uno sfasciacarrozze e gli chiede 30.000 lire. Lui le risponde di non aver soldi e si raccomanda di non venirlo più a disturbare al lavoro. Mentre il commento musicale della seq. precedente termina in coincidenza con l’inizio del dialogo (inq. 16), la seq. è contraddistinta dal perfetto equilibrio tra campi e piani a media distanza e da un unico movimento, quello combinato di carrello indietro+pan. dell’inq. 16. Seq. IV, inqq.24-33, A CASA DI ANGELO – Seq. IVa, inqq. 24-25, Int. Giorno. Un bar. Rosa sta telefonando. Riprende lo stesso commento musicale extradiegetico della seq. II. – Seq. IVb, inq. 26, Est. Giorno. Strada di un quartiere. Rosa entra dentro il portone di un palazzo. – Seq. IVc, inqq. 27-32, Int. Giorno. Casa di Angelo. Rosa entra dentro un appartamento, mangia un pezzo di ciambella e va verso la camera di Angelo dicendogli che sono le 11. Lui è a letto e le dice di non «scassa’ ‘u cazzu» perché ha lavorato tutta la notte. Rosa prende qualche indumento femminile da un armadio. Tre i movimenti: due di pan. a seguire la dinamica dell’azione (inqq. 27 e 32) e uno misto di pan.+carrello (inq. 29). Da notare anche due angolazioni dal basso della mdp (inqq. 30 e 32). – Seq. IVd, inq. 33, Int. Giorno. Casa di Angelo. Rosa, in PPP di fronte allo specchio, si mette il rossetto. Seq. V, inqq. 34-39, ROSA SI PROSTITUISCE – Seq.Va, inqq. 34-35, Est. Giorno. Strada di periferia. Rosa si prostituisce in una zona ai confini della città: arriva una macchina, Rosa vi sale.

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LE SCENEGGIATURE DESUNTE



La seq. è commentata da un intervento musicale extradiegetico ed entrambe le inqq. sono contraddistinte da movimenti di pan. – Seq.Vb, inqq. 36-39, Int. Giorno. Un appartamento. Rosa entra con un cliente in una stanza, prima entra in bagno, poi si inizia a spogliare davanti a lui. Seq. filmicamente dinamica, contraddistinta dall’elaborato movimento di carrello+ pan. dell’inq. 36 e da due pan. che seguono Rosa (inqq. 37 e 39). Seq. VI, inqq. 40-41, GLI “AFFARI” TRA TONINO E PASQUALE Int. Giorno. Sfasciacarrozze. Tonino discute su uno stereo di origine giapponese con Pasquale, il quale vorrebbe che lui glielo rivendesse a 300.000 lire. Tonino gli risponde che è un oggetto di nessun valore e che chi glielo ha dato, lo ha «imbrusato». Due movimenti di pan. che seguono l’azione. Seq. VII, inqq. 42-57, I GIRI NOTTURNI DI PASQUALE E TONINO – Seq. VIIa, inq. 42, Int. Notte. Casa di Tonino. Tonino esce di casa e avverte la madre che non tornerà a dormire per la notte. Piano a media distanza con movimento di carrello misto a pan. – Seq. VIIb, inqq. 43-48, Int. Notte. Bisca. Tonino sta con Pasquale e si avvicina ad un tavolo da biliardo dove sta giocando Giovanni, il quale si dice felice di vederlo. I due si appartano e Giovanni gli dice di non preoccuparsi dei soldi che gli deve e che glieli restituirà tra una settimana. In cambio lo invita a “prendersi” Marisa, la donna che, nel frattempo, gli si è seduta accanto. Seq. filmicamente dinamica, contraddistinta da movimenti di semplice pan. a seguire (inqq. 43, 46 e 47) e da uno combinato di pan.+carrello (inq. 44). – Seq. VIIc, inq. 49, Est. Notte. Strada di periferia. Tonino, Pasquale e Marisa ora si trovano in macchina. Pasquale offre del whisky dalla bottiglia alla ragazza e poi chiede divertito all’amico dove l’abbia trovata. Inizia un commento musicale. – Seq. VIId, inq. 50, Est. Notte. Cinema a luci rosse. I tre entrano dentro un cinema “a luci rosse”. – Seq. VIIe, inqq. 51-57, Est. Notte. Strada sterrata di Casalnuovo. La macchina con Pasquale, Tonino e Marisa arriva in una zona appartata in cui si intravedono dei container dove vivono i terremotati. Tonino scende e lascia dentro l’amico e la donna, che iniziano a baciarsi.

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APPENDICE

Quindi improvvisamente torna, fa scendere Marisa e la fa fuggire puntandole contro una pistola e poi rimettendosi alla guida. Pasquale, divertito, lo definisce uno «scassacazzi». La musica iniziata nell’inq. 49 si protrae fino alla 54. Tre i movimenti: i due combinati di carrello+pan.+dolly (inqq. 51 e 54) e quello di pan. che segue l’azione dell’inq. 56. Seq. VIII, inqq.58 – 68, DA RAFFAELE “TAZZA ‘E CAFFÉ” – Seq.VIIIa, inqq. 58-59, Int. Notte. Locale di Raffaele. Pasquale entra nel locale di Raffaele dove vorrebbe mangiare (è l’una e mezza di notte). Ma l’uomo dice che se vuole mangiare deve aspettare, perché si deve assentare con l’automobile. Pasquale dice di volerlo seguire. Un movimento di carrello avanti+pan. (inq. 59). – Seq.VIIIb, inqq. 60-63, Est. Notte. Lungomare di Napoli (via Partenope). Raffaele e Pasquale incontrano tre transessuali che si prostituiscono. Le fanno salire sull’automobile di Raffaele. Un solo movimento di mdp (la pan. dell’inq. 60). – Seq. VIIIc, inqq. 64-68, Int. Notte. Locale di Raffaele. Pasquale e le tre transessuali parlano e scherzano tra loro mentre mangiano. Seq. filmicamente molto dinamica, contraddistinta da movimenti di semplice pan. (inqq. 64, 67 e 68), talvolta misti a movimenti di zoom e cambiamenti di fuoco (inq. 66). Prevalgono decisamente i piani ravvicinati (4 su 5). Seq. IX, inqq. 69-85, A CASA DELLE TRANSESSUALI – Seq. IXa, inqq. 69-71, Est./Int. Giorno. Casa di Rosa. Tonino va a prendere Rosa e la madre di lei gli chiede di convincerla a tornare in fabbrica o di trovarsi un lavoro, per non rimanere «sbandata». Un solo movimento di mdp (la pan. dell’inq. 69). – Seq. IXb, inqq. 72-82, Est./Int. Giorno. Appartamento delle transessuali. Tonino e Rosa arrivano in un appartamento dove ci sono due delle tre transessuali viste nella seq. VIII insieme a Pasquale. Rosa si apparta con una di loro, Monica, mentre Tonino osserva Pasquale che insegna all’altra a ballare sensualmente. Sull’inq. 77 parte una musica emessa da un radioregistratore avviato da Pasquale. Seq. molto dinamica, soprattutto nella prima parte: due movimenti di carrello+pan. (inqq. 73 e 77) e due di semplice pan. (inqq. 72 e 76). Da notare la prevalenza dei punti vista con angolazioni dal basso (8 inqq. su 11).

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LE SCENEGGIATURE DESUNTE



– Seq. IXc, inqq. 83-85, Int. Giorno. Camera da letto di Monica. Rosa è in camera con Monica a fumare uno spinello. Quando Monica le fa vedere un vestito, lei glielo chiede in prestito. Seq. statica (si nota solo un leggero assestamento panoramico nell’inq. 83). Seq. X, inqq. 86-112, A CASA DI GINO – Seq. Xa, inqq. 86-89, Est./Int. Notte. La casa dello spacciatore. Tonino arriva in macchina di notte presso un’abitazione fatiscente e vi entra. Con lui ci sono Gino e Rosa, che rimangono ad aspettarlo fuori. Una volta all’interno, compra dell’eroina di qualità “brown” da un uomo. L’intera durata dell’inq. 86 è sostenuta da un intervento musicale extradiegetico. – Seq. Xb, inqq. 90-112, Int. Notte. Casa di Gino. Mentre Tonino prepara l’eroina da sniffare, Rosa fa un giro per la casa e si ferma nella camera da letto a vedere la televisione. Dopo aver sniffato l’eroina, Rosa e Tonino si mettono ad amoreggiare sul letto di Gino, il quale li osserva eccitato. Rosa infastidita si alza e se ne va, mentre l’uomo cerca uno sguardo complice negli occhi del ragazzo. Un intervento musicale extradiegetico occupa le inqq. 93 e 94. Seq. contraddistinta dal lento movimento di carrello combinato con pan. che occupa le inqq. 98, 100, 102 e 104; c’è anche una pan. a seguire l’azione (inq. 90). Seq. XI, inqq. 113-119, ANGELO LICENZIATO Int. Giorno. Casa di Angelo. Angelo rientra a casa e sveglia Rosa e Tonino. Gli dice che è stato licenziato e che bisogna festeggiare. 3 i movimenti: 2 di semplice pan. (inqq. 114 e 116), uno di pan.+ carrello (inq. 113). Seq. XII, inqq. 120-129, IL REGALO DI GINO – Seq. XIIa, inq. 120, Int. Giorno. Sartoria di Gino. Tonino va a trovare Gino nel suo negozio – Seq. XIIb, inqq. 121-122, Int./Est. Giorno. Strade di città. Gino e Tonino sono su un’automobile. Tonino vorrebbe conoscere la sorpresa promessagli da Gino, ma l’uomo gli dice che non è ancora il momento e che la conoscerà solo dopo una visita al cimitero. – Seq. XIIc, inqq. 123-124, Est. Giorno. Cimitero. I due arrivano al cimitero: Gino dice che fa sempre dire una messa in onore della madre morta. Due movimenti pan. che seguono l’azione.

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

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– Seq. XIId, inqq. 125-129, Est. Giorno. Gino fa vedere finalmente la sorpresa promessa a Tonino: si tratta di una moto di media cilindrata. Seq. XIII, inqq. 130-145, ANCORA DA ANGELO – Seq. XIIIa, inqq. 130-137, Int. Notte. Casa di Angelo. Angelo è sdraiato sul letto insieme a Rosa. Le racconta il perché è stato licenziato dalla nave sulla quale lavorava. Arriva una telefonata di Pasquale che li invita ad andare la sera al concerto. Due movimenti di mdp: il movimento combinato di carrello e pan. dell’inq. 130 e quello di pan. dell’inq. 134. – Seq. XIIIb inqq. 138-144, Int. Notte. Casa di Angelo. Angelo sta dormendo nel salotto, accende la luce e va in cucina a bere. Quindi torna nel salotto e inizia a preparare uno spinello. Rosa si mette a fumare insieme a lui. L’intera seq. è commentata da un intervento musicale extradiegetico mentre ci sono 3 movimenti di mdp: due di carrello (quello laterale al buio dell’inq. 138 e quello avanti, misto a pan., dell’inq. 140) e uno di semplice panoramica. Forte prevalenza dei piani a media distanza (6 su 7). – Seq. XIIIc, inq. 145, Int. Notte. Casa di Angelo. Rosa è seduta sul letto e non prende sonno. Accanto a lei Tonino che, invece, dorme profondamente. Termina il commento musicale iniziato nella seq. precedente. Seq. XIV, inqq. 146-159, GENTE DI MALAFFARE – Seq. XIVa, inq 146-148, Est. Notte. Cinema a luci rosse. Tonino si trova di fronte all’entrata di un cinema a luci rosse. Esce Giovanni e gli dice di non aver trovato la persona, ma che deve stare tranquillo: entro quella sera stessa avrà i soldi che gli deve. – Seq. XIVb, inq. 149, Est. Notte. Strade di città. Tonino e Giovanni sono sulla moto di Tonino. – Seq. XIVc. inqq. 150-159. Est/Int. Notte. Edificio in costruzione. Tonino e Giovanni arrivano con la moto, entrano in un edificio e vi trovano tre uomini che stanno giocando a carte. Tonino viene ingannato, malmenato a tradimento e gli viene anche sottratta la moto regalatagli da Gino. Sull’inq. 149 inizia un commento musicale che si protrae fino all’inq. 151. Solo due movimenti: quello di camera-car dell’inq. 149 e la pan. dell’inq. 159.

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LE SCENEGGIATURE DESUNTE



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Seq. XV, inqq. 160-169, ANCORA A CASA DI GINO – Seq. XVa, inq. 160, Est./Int. Notte. Cabina telefonica. Tonino fa una telefonata. – Seq. XVb, inqq. 161-169, Int. Notte. Casa di Gino. Tonino è con Gino che vuole denunciare il furto della moto, ancora intestata a proprio nome. Il ragazzo non vuole e, in uno scatto d’ira, lo schiaffeggia. Assestamenti panoramici nelle inqq. 161, 163, 165 e 167; un carrello+pan. nell’inq. 169. Seq. XVI, inq. 170, A PRANZO DA ANGELO Int. Giorno. Casa di Angelo. Rosa, Tonino e Angelo mangiano insieme. Lei dice a Tonino che intende trasferirsi definitivamente a casa dell’amico e lo invita a fare lo stesso. Seq. XVII, inqq. 171-175, ROSA VA VIA DI CASA Int./Est Giorno. Casa di Rosa. Dopo aver fatto la valigia, Rosa se ne va di casa. La madre vorrebbe sapere qualcosa di più della persona con cui va ad abitare. La ragazza sale in macchina con Tonino. Un solo movimento di mdp (la pan. dell’inq 172). Seq. XVIII, inqq. 176-181, ROSA ALLARGA IL “GIRO” Int. Giorno. Bar. Rosa è con l’uomo con cui si è prostituita, visto nella seq. V. Si mette a giocare a flipper e, dal momento che ha bisogno di soldi, gli chiede se può farle telefonare da qualche amico interessato alla sua attività. Seq. XIX, inqq. 182-194, CONVIVENZA A TRE – Seq. XIXa, inqq. 182-191, Int. Notte. Casa di Angelo. Rosa rientra a casa tutta bagnata dalla pioggia. Angelo e Tonino stanno cucinando e la invitano ad unirsi a loro, ma la ragazza dice di non avere fame. Una volta in camera guarda, pensierosa, la pioggia che sbatte contro il vetro della finestra. Sequenza in cui prevalgono i piani ravvicinati (6 + 1 dett). – Seq. XIXb, inq. 192-194, Int. Giorno. Casa di Angelo. Angelo non trova più dei soldi che tiene nel cassetto e chiede a Rosa se li ha visti. La ragazza si metta a cercare e li trova nel giacchetto di Tonino. Due i movimenti: quello di pan. dell’inq. 193 e il carrello avanti dell’inq. 194.

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

APPENDICE

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Seq. XX, inqq. 195-203, LA PROPOSTA DI PASQUALE A TONINO – Seq. XXa, inqq. 195-197, Est. Giorno. Strade di Coroglio. Un’automobile guidata da Tonino si ferma accanto al portone di un palazzo. Con lui c’è Pasquale, il quale gli sta raccontando di un medico danaroso. I due entrano nel palazzo. – Seq. XXb, inq. 198, Int. Giorno. Camera oscura. Pasquale e Tonino controllano i negativi di alcune foto. Pasquale gli continua a parlare del medico che frequenta Monica e che le fa dei piccoli regali. Seq. XXc, inqq. 199-203, Est. Giorno. Strade di Bagnoli. Pasquale espone il suo piano a Tonino mentre viaggiano in automobile: intende ricattare il medico di cui ha alcune foto scattate insieme a Monica, e vuole coinvolgere l’amico chiedendogli di intervenire in maniera decisa «per far veder che non paziamm’». Sulle inqq. 201 e 202 s’inserisce un commento musicale extradiegetico. Seq. contraddistinta da due camera-car a precedere l’andatura dell’automobile (inqq. 199 e 201), da due all’interno dell’automobile (inqq. 200 e 203) e da un movimento misto di pan.+carrello (inq. 202) che ha la funzione di “scoprire” il paesaggio circostante: un’enorme fabbrica (l’Italsider di Bagnoli) proprio di fronte al mare. Seq. XXI, inqq. 204-224, LA PROPOSTA DI GINO A ROSA – Seq. XXIa, inqq. 204-210, Est. Giorno. Casa di Angelo. Gino attende che Rosa esca di casa. L’avvicina e le dice che le deve assolutamente parlare. Seq. statica (fa eccezione il movimento di camera-car dell’inq. 206) dove prevalgono i piani ravvicinati (5 su 7 inqq.) – Seq. XXIb, inqq. 211-224, Est. Giorno. Un caffè all’aperto. Gino e Rosa stanno mangiando babà. Lui le dice di essere preoccupato per Tonino e che lo vorrebbe aiutare, perché gli vuole bene come un padre. Quindi le chiede di essere sua alleata e non sua rivale. Seq. filmicamente statica, dominata dai piani ravvicinati (12 su 14 inqq.). Seq. XXII, inqq. 225-243, IL LAVORO DI ROSA – Seq. XXIIa, inq. 225, Int. Giorno. Casa di Angelo. Rosa è a letto quando rientra Tonino. Lei gli dice di aver incontrato Gino e che le ha offerto due babà. – Seq. XXIIb, inqq. 226-243, Int. Giorno. Casa di Angelo. Rosa è in casa con Angelo quando arriva un nuovo cliente. Dopo avergli offerto da bere, Angelo li lascia soli.

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LE SCENEGGIATURE DESUNTE



Seq. contraddistinta da movimenti carrello all’indietro, talvolta semplici (inq. 230), talvolta misti a movimenti di pan. (inqq. 227 e 233); si rileva inoltre un lieve movimento di dolly nell’inq. 235. Forte prevalenza dei piani ravvicinati (10 su 18 inqq.), con discreta presenza di angolazioni dal basso o dall’alto. Seq. XXIII, inqq. 244-254, ALLA SOLFATARA – Seq. XXIIIa, inq. 244, Est. Giorno. Viale di città. Mentre passeggiano mangiando un gelato, Rosa dice ad Angelo che il cliente precedente lo aveva scambiato per suo fratello. – Seq. XXIIIb, inqq. 245-247, Int./Est. Giorno. Carrozza di un treno. Dietro Rosa e Angelo scorre il paesaggio. Un solo movimento della mdp (la pan. dell’inq. 247), ma è da considerarsi comunque una seq. molto dinamica per il movimento dello sfondo che scorre in profondità di campo. – Seq. XXIIIc, inqq. 248-254, Est. Giorno. La solfatara. Rosa e Angelo vanno a visitare la solfatara che si trova alla periferia di Napoli. Seq. senza dialoghi e contraddistinta da 3 movimenti di pan.: due descrittivi (inqq. 250 e 254) e uno che segue semplicemente l’azione (inq. 249). Seq. interamente costituita da campi. Seq. XXIV, inqq. 255-271, LA PROPOSTA DI GINO A TONINO Int. Notte. Sala di un ristorante. Dopo aver regalato a Tonino un anello, Gino gli propone di rilevare la gestione di un garage di sua proprietà, che per lui sarebbe finalmente un lavoro “pulito” e che lo toglierebbe dai loschi traffici nei quali è coinvolto. In cambio gli chiede di sposare Rosa e di avere un figlio da lei. Seq. completamente statica in cui prevalgono i piani ravvicinati (13 su 17 inqq.). Seq. XXV, inqq. 272-282, LA PROPOSTA DI TONINO A ROSA Int. Notte. Casa di Angelo. Rosa e Angelo sono a casa: lui le spiega a cosa serve il sestante che tiene nel cassetto. Rientra Tonino che, dopo aver schiaffeggiato Rosa, le chiede di sposarlo. 4 i movimenti di mdp: 3 di carrello (semplice nell’inq. 277 e misto a movimenti di pan. nelle inqq. 274 e 276) e un movimento di semplice pan. (inq. 272). Seq. XXVI, inqq. 283- 293, IL COMPLEANNO DELLA MADRE DI ROSA

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

APPENDICE

– Seq. XXVIa, inqq. 283-284, Int. Giorno. Casa della madre di Rosa. Rosa e Tonino vanno a casa della madre di Rosa per festeggiare il suo compleanno. Lei gli dice che sono invitati al ristorante dal suo compagno. – Seq. XXVIb, inqq. 285-293, Est. Giorno. Sala di un ristorante. Tutta la famiglia di Rosa e Tonino sono riuniti al ristorante. La madre è commossa dalla notizia che la figlia si sposa. Il suo compagno le ricorda che sono tre anni che lui le chiede di fare la stessa cosa. A parte il movimento combinato di carrello+pan. dell’inq. 285, la seq. è statica ed è contraddistinta dalla forte prevalenza dei piani ravvicinati (8 inqq. su 9). Seq. XXVII, inq 294-297, LA NUOVA CASA Est./Int. Giorno. Centro arredamenti. Rosa va con Gino in un grande centro di arredamenti per la casa. Vedono qualche esposizione, ma Rosa sembra interessata solo a trovare una televisione a colori. Due movimenti di carrello+pan. molto simili (inqq. 296 e 297). Seq. XXVIII, inq. 298, IL MATRIMONIO Est. Giorno. Piazzale antistante il Maschio Angioino a Napoli. Da una data (11 luglio 1981) ricavata dal taglio delle foglie in un’aiuola, la mdp con un movimento di carrello+pan. scopre Rosa e Tonino vestiti da sposi. La seq. è commentata da un intervento musicale. Seq. XXIX, inqq. 299-306, A CASA PROPRIA Int. Giorno. Appartamento di Tonino e Rosa. Tonino e Rosa entrano nella casa regalata loro da Gino. La iniziano a girare, Rosa cerca la televisione che vorrebbe mettere in camera, mentre Tonino è del parere di metterla in salone. Due i movimenti di macchina: la pan.+carrello dell’inq. 300 e la semplice pan. dell’inq. 299. Seq. XXX, inqq. 307-322, LE ATTENZIONI DI GINO A TONINO – Seq. XXXa, inqq. 307-312, Int. Notte. Appartamento di Tonino e Rosa. Tonino rientra a casa mentre Rosa sta guardando la televisione. Suonano alla porta: è Gino che gli dice che vuole accompagnarlo al garage l’indomani, perché ha delle buone notizie da dargli. – Seq. XXXb, inqq. 313-319, Int. Giorno. Appartamento di Gino e appartamento di Tonino e Rosa. Gino entra nella casa dove vivono Rosa e Tonino, che è al piano sotto la sua, e li sveglia portando loro dei babà. Poi chiede a Tonino se Rosa è incinta: lui gli risponde di non saperlo.

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LE SCENEGGIATURE DESUNTE



Un solo movimento di mdp (la pan. dell’inq. 313). – Seq. XXXc, inqq. 320-322, Est./Int. Giorno. Garage di Gino. Gino mette al corrente Tonino dei lavori che intende sostenere, il ragazzo propone di affiancare un’officina al garage. L’uomo gli chiede un preventivo e dimostra di essere contento che Tonino si sia messo di «buona voglia» sul lavoro. Seq. XXXI, inqq. 323-330, ALL’USCITA DELLA FABBRICA – Seq. XXXIa, inqq. 323-324, Int. Giorno. Casa di Tonino e Rosa. Dopo aver fatto una telefonata, Rosa si pettina davanti allo specchio. – Seq. XXXIb, inqq. 325-329, Est. Giorno. Piazzale antistante la Fabbrica dell’Alfasud. Rosa va a prendere la madre all’uscita della fabbrica per cui lavora. Seq. contraddistinta completamente da campi con due soli movimenti di macchina: la pan. dell’inq. 325 che, seguendo l’azione di Rosa, “scopre” il paesaggio, e il carrello dell’inq. 328. – Seq. XXXIc, inq. 330, Int. Giorno. Casa della madre di Rosa. La madre dice a Rosa che si deve riguardare e che deve fare attenzione al figlio che verrà. Avendo un marito giovane, dice, il figlio in arrivo è una benedizione. Seq. XXXII, inqq. 331-334, ROSA È INCINTA Est./Int. Notte. Casa di Angelo. Rosa va a trovare Angelo che le dice di aver trovato una nave su cui imbarcarsi e che starà via per tre-quattro anni. Rosa gli confessa di essere incinta. Due i movimenti di macchina: quello combinato e molto elaborato di pan.+carrello dell’inq. 334 e quello di dolly dell’inq. 333. Seq. XXXIII, inqq. 335-347, ROSA INFORMA TONINO – Seq. XXXIIIa, inqq. 335-336, Int. Notte. Appartamento di Tonino e Rosa. Rosa rientra a casa e si mette seduta sul divano in attesa del marito. Un solo movimento di mdp: la pan. dell’inq. 336. – Seq. XXXIIIb, inq. 337, Int. Notte. Appartamento di Gino. Tonino è a casa di Gino che sta preparando una striscia di cocaina (?). L’uomo gli consiglia di scendere nel suo appartamento. – Seq. XXXIIIc, inq. 338- 347, Int. Notte. Appartamento di Tonino e Rosa. Quando rientra Tonino, Rosa lo informa di essere incinta. Il ragazzo non si mostra entusiasta e, anzi, chiede a Rosa perché non ha avvertito Gino della notizia. Rosa vorrebbe sapere prima cosa ne pensa lui e Tonino le risponde di fare ciò che vuole.

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

APPENDICE

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Prevalgono i piani ravvicinati (tutti su Rosa) e c’è un solo movimento di mdp: la pan. dell’inq. 339. Seq. XXXIV, inqq. 348-362, LE ATTENZIONI DI GINO A ROSA – Seq. XXXIVa, inqq. 348-352, Int. Giorno. Camera da letto di Rosa. Rosa è a letto e riceve la visita di Gino, che le porta i giornali raccomandandosi di stare riguardata. Quindi arriva Tonino, ma tra i due sposi non sembra esserci intesa. Rosa rimane sola e pensierosa. Un intervento musicale extradiegetico inizia sull’inq. 352, l’unica che presenta un movimento di mdp: un carrello avanti. Prevalgono i piani ravvicinati (4 su 5 inqq). – Seq. XXXIVb, inqq. 353-355, Int. Giorno. Appartamento di Tonino e Rosa. Dopo aver telefonato a Monica dicendole di passare da casa sua alle 5, Rosa si guarda la pancia allo specchio. Un nuovo intervento musicale inizia sull’inq. 353 e si protrae per tutta la durata della seq. – Seq. XXXIVc, inqq. 356-359, Int. Giorno. Appartamento di Tonino e Rosa. Gino cucina del pesce per Rosa e le propone di farle un po’ di compagnia nel pomeriggio. Ma quando lei gli risponde che intende uscire, lui le ricorda che deve stare riguardata. – Seq. XXXIVd, inqq. 360-362, Int. Giorno. Appartamento di Tonino e Rosa. Rosa si prepara per uscire e chiede a Gino di metterle lo smalto ai piedi. Seq. XXXV, inqq. 363-364, L’ABORTO – Seq. XXXVa, inq. 363, Est. Giorno. Strada di città. Un lungo carrello a precedere accompagna la camminata di Rosa e Monica. – Seq. XXXVb, inq. 364, Int. Giorno. Ambulatorio. Monica e Rosa sono in attesa che la ragazza sostenga l’operazione di interruzione di gravidanza. Monica cerca di rassicurarla. Seq. XXXVI, inqq. 365-372, RITORNO AL BUIO – Seq. XXXVIa, inq. 365, Est. Notte. Cala la notte su Napoli, ripresa in CLL con mdp a “passo uno”. – Seq. XXXVIb, inqq. 366-372, Int. Notte. Appartamento di Tonino e Rosa. Rosa è a letto; accanto a lei ci sono Tonino e Gino, che la inizia a insultare per il gesto compiuto. A quel punto Tonino inizia a malmenare Gino, mentre Rosa spegne la luce. Sul seguente STACCO SUL NERO scorrono i TITOLI DI CODA

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FILMOGRAFIA

LA CANZONE DI ZEZA Regia e fotografia: (16mm, colore) Salvatore Piscicelli e Giampiero Tartagni; in collaborazione con: Adriana Bellone, Cristina Ruiz, Nieves Zenteno; interpreti: Marcello Colasurdo (Zeza), Luigi Cantone (Pulcinella), Ugo Basile (Vicenzella), Matteo D’Onofrio (Don Nicola), Pasquale Terracciano (Sarchiapone); produzione: L’Officina cinematografica; origine: Italia; anno: 1976; durata: 36’. CARNEVALE POPOLARE A POMIGLIANO D’ARCO Regia: Salvatore Piscicelli; fotografia (16mm, colore): Giovanni Mercuri, Luigi Verusio; fonico: Claudio Gambini; produzione: RAI DUE – Gruppo Cronaca; origine: Italia; anno: 1977; durata: 66’; teletrasmesso in due puntate. IL RIFIUTO DEL LAVORO Regia: Salvatore Piscicelli; fotografia (video, b/n): Giannantonio Marcon; fonico: Carla Apuzzo; produzione: Cooperativa Cinema Democratico; origine: Italia; anno: 1977. TONINO DEL CAVONE Regia: Salvatore Piscicelli; fotografia (video, b/n): Giannantonio Marcon; fonico: Carla Apuzzo; produzione: Cooperativa Cinema Democratico; origine: Italia; anno: 1977. MARCELLO Regia: Salvatore Piscicelli; fotografia (16mm, b/n): Giannantonio Marcon; fonico: Carla Apuzzo; montaggio: Carlo Schellino; con: Marcello Colasurdo; produzione: Cooperativa Cinema Democratico Milano; origine: Italia; anno: 1978; durata: 22’.

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

APPENDICE

IMMACOLATA E CONCETTA – L’ALTRA GELOSIA Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto: Salvatore Piscicelli; sceneggiatura: Carla Apuzzo, Salvatore Piscicelli: fotografia (super16mm, colore): Emilio Bestetti; montaggio: Roberto Schiavone; scenografia: Giovanni Dionisi; costumi: Franz Prestieri; suono in presa diretta: Remo Ugolinelli; musica: Fronne e Tammuriata, canti popolari napoletani eseguiti da Giovanni Coffarelli (voce e nacchere) e Franco Salierno (tammorra); brani tratti da Raices 1 e Raices 3 di Gustavo Beytelmann e Pesada di J. José Mosalini ed eseguiti da “Tiempo Argentino”; interpreti: Ida Di Benedetto (Immacolata), Marcella Michelangeli (Concetta, doppiata da Ilde Maria Renzi); Tommaso Bianco (Ciro Pappalardo), Lucio Allocca (Pasquale), Lucia Ragni (Antonietta), Biancamaria Mastrominico (Lucia), Nina De Padova (zia Carmela), Linda Moretti (Sisina), Cetty Sommella (Marittella); produzione: Enzo Porcelli per Antea Cinematografica; origine: Italia; anno: 1979; durata: 92’. Premio Speciale della Giuria (Leopardo d’argento) al XXXII Festival Internazionale del Film di Locarno; Premio France Culture al Festival di Cannes 1980, Premio Ubu e Premio Bolaffi come miglior film italiano 1980. BESTIARIO METROPOLITANO Regia: Salvatore Piscicelli; fotografia: Giorgio Magliulo; programma ideato da: Salvatore Piscicelli ed Enrico Zummo; produzione: RAITv-Rete 3 (regione Campania); 6 puntate di 30’ teletrasmesse dalla rete regionale dal 18 settembre al 11 novembre 1980. LE OCCASIONI DI ROSA Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto: Carla Apuzzo, Salvatore Piscicelli; sceneggiatura: Carla Apuzzo, Salvatore Piscicelli; fotografia (35mm, colore): Renato Tafuri; montaggio: Franco Letti; costumi: Franz Prestieri; suono in presa diretta: Hubrecht Nijhuis; musica: Quadri sonori e Fantasia elpana di Helmut Laberer, Attraction n° 2 di Gerardo Rusconi e Helmut Laberer; interpreti: Marina Suma (Rosa), Angelo Cannavacciulo (Tonino), Sergio Boccalatte (Gino), Gianni Prestieri (Angelo), Martin Sorrentino (Pasquale), Antonella Patti (Anna), Ciro Ricciardi (Monica), Enzo Salomone (l’uomo del biliardo), Vittorio Baratti (un cliente), Pina Ferrara (Marisa), Angelo De Falco (Peppino); produzione: Carla Apuzzo, Salvatore Piscicelli, con la collaborazione di Enea Ferrario, per la Falco Film; origine: Italia; anno: 1981; durata: 86’.

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FILMOGRAFIA



BLUES METROPOLITANO Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto: Carla Apuzzo, Salvatore Piscicelli; sceneggiatura: Carla Apuzzo, Salvatore Piscicelli; fotografia (35mm, colore): Giuseppe Lanci; montaggio: Raimondo Crociani, Antonio Di Lorenzo; scenografia: Massimo Perna, Antonio Bosco; costumi: Franz Prestieri; suono in presa diretta: Mario Dallimonti; musica: Joe Amoruso, Pino Daniele, Tony Esposito, Little Italy, Anthra; interpreti: Stefano Sabelli (Tonino Tarallo), Sergio Boccalatte (Ciro Cerasuolo, il ricco napoletano), Paolo Bonetti (Gigino Giordano, l’organizzatore), Ida Di Benedetto (Elena, la signora), Tony Esposito (Tony), Barbara D’Urso (Francesca, la moglie di Tony), Diego Pesaolo (Riccardo), Peppe Lanzetta (Mimmo, il musicista), Marina Suma (Stella), Marina Viro (Susy), Maria Basile (Rosetta), Stefania Bifano (Dada), Maurizio Capone (Tex, il percussionista), Nino Bellomo (Mario-Patrizia), Marta Bifano (Marta), Angelo Cannavacciulo (Pasqualino), Lino Mattera (Don Vittorio), Luigi Petrucci (l’architetto Ruoppolo), Viola Prestieri (Viola), James Edward Sampson (Solomon), Anna Walter (Ines), Patrizia Spinosi (Ida), Carlotta Ercolino (Luisa), Gianni Prestieri (Joe), Isabella Salvati (Adelina), Bianca Sollazza (zia Regina), Cetty Sommella (la segretaria), Francesca Thermes (la cantante), Giorgio Verdelli (il presentatore), Pino Daniele (se stesso), Tullio De Piscopo (se stesso); produzione: Claudio Bonivento per la Numero Uno Cinematografica; origine: Italia; anno: 1985; durata: 111’. REGINA Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto: Carla Apuzzo, Salvatore Piscicelli; sceneggiatura: Carla Apuzzo, Salvatore Piscicelli; fotografia (35mm, B/N): Tonino Nardi; montaggio: Salvatore Piscicelli, Domenico Varone; scenografia: Luciana Vedovelli; costumi: Franz Prestieri; suono in presa diretta: Franco Borni; musica: Helmut Laberer; interpreti: Ida Di Benedetto (Regina), Fabrizio Bentivoglio (Lorenzo), Giuliana Calandra (Lalla), Mariano Rigillo (Paolo), Marika Ferri (Diana), Claudia Giannotti (Sofia), Anita Laurenzi (la madre), Paolo Hermanin (Andreas); produzione: Carla Apuzzo per Falco Film; origine: Italia; anno: 1987; durata: 87’. BABY GANG Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto: Carla Apuzzo, Salvatore Piscicelli; sceneggiatura: Carla Apuzzo, Salvatore Piscicelli; fotografia (35mm, colore): Franco Di Giacomo; montaggio: Franco Letti; scenografia e costumi: Franz Prestieri; suono in presa diretta: Roberto Petrozzi; musica:

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

APPENDICE

Rosario Del Duca; interpreti: Marco Testa, Daniele Marchitelli, Iaia Forte, Claudio Boccalatte, Gennaro Cannavacciuolo, Pina Cipriani, Rino De Masco, Liliana Del Basso, Andrea Mandolini; produzione: Carla Apuzzo per Falco Film; origine: Italia; anno: 1992; durata: 82’. TUTTI NEL BOSCO Regia: Salvatore Piscicelli, Carla Apuzzo; montaggio: Massimo Palumbo Cardella; ricerche: Rosina Balestrazzi Giudici; produzione: Beppe Attene per Lantia Cinema & Audiovisivi e RAI per la serie “Alfabeto italiano”; origine: Italia; anno: 1998; durata: 50’. IL CORPO DELL’ANIMA Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto: Salvatore Piscicelli; sceneggiatura: Carla Apuzzo, Salvatore Piscicelli; fotografia (35mm, colore): Saveria Guarna; montaggio: Salvatore Piscicelli; scenografia e costumi: Franz Prestieri; suono in presa diretta: Roberto Petrozzi; musica: brani di musica classica selezionati dal regista; interpreti: Roberto Herlitzka (Ernesto), Raffaella Ponzo (Luana), Ennio Fantastichini (Mauro), Sabina Vannucchi (Gemma), Gianluigi Pizzetti (Sandro), Massimo Bando, Daniela Mango, Ermanno Ribaudo; produzione: Enzo Gallo per Metropolis film; origine: Italia; anno: 1999; durata: 105’. Premio della rivista “Duel” – Miglior film italiano 1999. QUARTETTO Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Salvatore Piscicelli; fotografia (DV-CAM trasferito su 35mm, colore): Saverio Guarna; montaggio: Salvatore Piscicelli; scenografia e costumi: Nicoletta Taranta; suono in presa diretta: Roberto Petrozzi; interpreti: Anna Ammirati (Eva), Beatrice Fazi (Angelica), Maddalena Maggi (Francesca), Raffaella Ponzo (Irma), Valeria Cavalli (Sofia), Francesco Venditti (Guido), Leonardo De Carmine (Roberto), Ida Di Benedetto (Elena), Armando De Razza (Aldo), Roberto Herlitzka (Paolo), Susanna Marcomeni (Adele); produzione: Paola Ermini per Làntia Cinema & Audiovisivi; origine: Italia; anno: 2001; durata: 100’. ALLA FINE DELLA NOTTE Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Salvatore Piscicelli; fotografia (35mm, colore): Saverio Guarna; montaggio: Salvatore Piscicelli; scenografia: Rossella Guarna; costumi: Nicoletta Taranta; interpreti: Ennio Fantastichini (Bruno Spada), Ida Di Benedetto, Anna Ammirati, Ricky

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FILMOGRAFIA



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Tognazzi, Elena Sofia Ricci, Stefania Orsola Garello; produzione: Enzo Gallo per Centrale d’essai srl; origine: Italia; anno: 2002; durata: 95’. LA COMUNE DI BAGNAIA – UN FRAMMENTO DI UTOPIA Regia, fotografia (video, minidv) e montaggio: Carla Apuzzo, Huub Nijhuis, Salvatore Piscicelli; produzione: Falco Film, Belart Film; origine: Italia/Olanda; anno: 2005; durata: 95’. LA CANZONE DI MARCELLO Regia, riprese (video, minidv) e montaggio: Salvatore Piscicelli; musica: Marcello Colasurdo e Paranza; con: Marcello Colasurdo; produzione: Carla Apuzzo per la Falco film; origine: Italia; anno: 2006; durata: 50’.

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

APPENDICE

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Videografia Immacolata e Concetta, Ripley’s home video, 2007. Le occasioni di Rosa, Ripley’s home video, 2010.

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INDICE DEI NOMI

Accetta, Cesare 91 Adorno, Theodor 33 n. Alfano, Angelino 4 n. Allocca, Lucio 27 Ama produzioni 85 n. Amelio, Gianni XV, 5 n., 6 n., 7, 87, 88 Angelini, Alessandro 89 n. ANICA 9 Antonioni, Michelangelo XV Aprà, Adriano 7 Apuzzo, Carla 23, 26, 46, 53, 54, 74, 90 Arena, Lello 6 n. Auditel 11 Avati, Pupi 85 n. Airoldi, Conchita 91 n. Balestrini, Nanni 21 Bambù Film 85 n. Baratti, Vittorio 47, 48 Barba, Eugenio 15 Barbagallo, Angelo 85 n. Barra, Giuseppe 19 n. Battiato, Giacomo 8 Baudrillard, Jean 39 n., 43 n. Benigni, Roberto 85 Bennato, Eugenio 19 n. Benvenuti, Alessandro 6 n., 85 Benvenuti, Paolo 6 n., 7, 88 Berlinguer, Enrico 5 Berlusconi, Silvio 5 n., 11 Bernabei, Ettore 83 n.

Bertetto, Paolo 32 n. Bertolucci, Bernardo XV, 88 n. Bertolucci, Giuseppe 6 n., 7, 55 n., 80 n., 87, 88 Bettetini, Gianfranco 86 Bianco, Tommaso 27, 46, 51 Bigazzi, Luca 91 Bo, Fabio 73 n. Boccalatte, Sergio Maria 48, 53, 54 Bocola, Antonio 90 n. Bonaiuto, Anna 91 Borgna, Gianni 4 n. Borromini, Francesco 16 Branca, Antonello 22 n. Brandi, Cesare 16 Brecht, Bertolt 15 n., 44 Brenta, Mario 8 Brigate Rosse 4, 74 n. Bruno, Edoardo 32 n. Buongiorno, Mike 40 n. Calderone, Gian Luigi 8 Cane, Alessandro 8 Caprara, Valerio 64 n., 92 n. Capuano, Antonio XII, 90 Carlo di Borbone 19 n. Carpi, Fabio 8 Cavallaro, Gianbattista 20 Chiesa, Guido 89 n. Chion, Michel 87 n. Cinecittà 27 n., 89 Cinémateque Française 14, 15 n.

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

INDICE DEI NOMI

CINERIZ 54 Ciprì, Daniele 89 n. Citti, Sergio 8 Coco, Francesco 4 Colasurdo, Marcello 19, 24, 25, 26, 43 Coffarelli, Giovanni 45 n. Colletti, Lucio 16 Comencini, Luigi 83 n. Cooperativa Officina 17, 22 Corsicato, Pappi XII, 90 Costanzo, Saverio 89 n. Cotroneo, Ivan 91 Croce, Benedetto 14 Curti, Angelo 91, 92 n. Daniele, Pino XII, 50 n. De Berardinis, Leo 16 De Caro, Enzo 6 n. De Crescenzo, Luciano 73 n. De Falco, Angelo 15 De Filippo, Eduardo 15 n., 18 n., 46, 91 De Laurentiis, Aurelio 91 De Laurentiis, Dino XIV Deleuze, Gilles 16, 73 n. De Lillo, Antonietta 90 n., 92 Della Ratta, Federica 92 n. De Luca, Erri 91 Del Monte, Peter 7 De Negri, Giuliani 17 n. De Martino, Ernesto 14 De Martino, Guido 21 n. De Mauro, Tullio 16 De Rienzo, Libero 90 n. Derrida, Jacques 16 De Sica, Vittorio 4 De Simone, Roberto XII, 15, 18, 19 n., 33, 45 n., 91 De Sio, Giuliana XII Di Benedetto, Ida 27, 33 n., 91 Di Majo, Nina 90 Diritti, Giorgio 89 n. Doriano, Pietro 15

Dorfles, Piero 20 Eco, Umberto 73 n. Enzenberger, Hans Magnus 3 Esterno Mediterraneo 85 n. E’ Zezi 15 n., 18, 20, 24 Faccini, Luigi 7 Falso movimento 92 Fassbinder, Rainer Werner 16, 33, 69 Fellini, Federico XV, 4 n., 87 Ferrara, Abel 90 Ferrario, Davide 89 n. Ferrarotti, Franco 77 n. Fichera, Massimo 20 Fido, Carlo 24 n. FININVEST 73, 80, 83 n. Franchini, Giogiò 91 Freud, Sigmund 43 n. Gaglianone, Daniele 89 n. Garofalo, Marcello 90 Garrone, Matteo 50 n., 89 n. Garroni, Emilio 16 Gaudino Giuseppe 90 Gaudioso, Massimo 91 Gaumont 74, 80 Germi, Pietro 4 Giordana, Marco Tullio 2, 8 Giuliano, Nicola 91 Godard, Jean-Luc 69 Golino, Valeria 91 Greco, Emidio 8 Grotowski, Jerzy 15 Guglielmi, Angelo 80 n. Imbriani, Vittorio 29 n. Incerti, Stefano XII, 90 Infascelli, Fiorella 8 Ionesco, Eugène 15 Ipotesi Cinema 85 n. Kawabata, Yasunari 17 Kluge, Alexander 33 Jackson, Peter 2 Lacan, Jacques 16 La Capria, Raffaele XIII

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INDICE DEI NOMI

Lado, Aldo 8 Lama, Luciano 21 n. Lattuada, Alberto 82 n. Leaving Theatre 15 Leto, Marco 8 Liberatore, Tanino 73 Liceo “Genovesi” 14, 15 Lizzani, Carlo 83 n. Lynch, David 2 Laberer, Helmut 72 Lombardo, Goffredo 26 Magliulo, Giorgio 46 n., 91, 92 Maja, Silvana 90 Maira, Salvatore 8 Malincomici 85, 86 Mäll, Linnart 17 Mammì, Oscar 2 n., 80 Manca, Enrico 83 n. Marcello, Pietro 89 n., 90 n., Marengo, Davide 90 n. Maresco, Franco 89 n. Mari, Pasquale 91, 92 n. Marra, Vincenzo 50 n., 89 n., 90 Martino, Sergio 8 Martone, Mario XII, 23 n., 90, 92 n. Massaro, Francesco 8 Matarazzo, Raffaello 14 Mauriello, Giovanni 19 n. MEDIASET XVI, 86 Michelangeli, Marcella 27 Migliore, Tonino 24 Milioni, Enzo 8 Miniero, Luca 90 Minnelli, Vincent 49 Minutolo, Dario XIII, 90 n. Mizoguchi, Kenji 17, 65, 67, 69 Montaldo, Giuliano 82 n. Monteleone, Franco 2 n., 3n., 6 n., 45, 83 n. Moretti, Nanni 6, 7, 73 n., 81, 85 n. Moro, Aldo 4, 81 n.



Moscati, Italo 6 n., 7, 9 n. Moscato, Enzo XII Muccino, Gabriele 80 Munafò, Stefano 24 n. Murgia, Pier Giuseppe 8 Nanni, Giancarlo 16 Neiwiller, Antonio 92 n. Negrin, Alberto 8 Nichetti, Maurizio 85 Nicoletti, Odette 19 n. Nocita, Salvatore 8 Notari, Elvira XII Novelli, Ernesto 55 n. Nuova compagnia di canto popolare 15n., 18 Nuti, Francesco 6 n., 85 Occorsio, Vittorio 4 Odorisio, Luciano 8 O’Healy, Àine 34 n. Olivares, Diego 90 Oliviero, Bruno 90 Olmi, Ermanno XV, 11, 85 n. Ordine nuovo 4 Orfini, Mario 8 Orlando, Silvio 91 Ortoleva, Peppino 1 n. Oshima, Nagisa 16, 69 Ozu, Yasujiro 69 Palermo, Ivan 24 n. Pannone, Gianfranco 90 Parascandolo, Renato 20 Pasolini, Pier Paolo 4, 7 n., 31, 32 n., 34, 55 n., 67, 68, 69, 81 Passalacqua, Pino 8 Patierno, Francesco 90 Pazienza, Andrea 73, 74 Perelli, Luigi 8 Petrelli, Giuliano 8 Pietrangeli, Paolo 8 Poeti, Paolo 8 Ponzi, Maurizio 7 n. Porcelli, Enzo 26 Preci, Walter 24 n.

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

INDICE DEI NOMI

Pressburger, Giorgio 55 n. Proietti, Biagio 8 Rafele, Mimmo 8 Ragni, Lucia 27 RAI XII, XIII, XIV, XV, XVI, 2, 4, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 20, 21, 24, 45 n., 74, 80, 81, 82, 83, 84 n., 86 Raimondo, Mario 7 Ramondino, Fabrizia 23 Rankxerox 73, 74 n. Rapporto Martinoli-Bruno-De Rita 9 n. Renzi, Andrea 92 n. Reteitalia 5 n., 7, 73, 80 Rialdi, Antonio 49 Ricci, Mario 16 Rocca, Stefania 80 n. Rocha, Glauber 16 Romanò, Angelo XIV Ronconi, Luca 8 Rosa, Asor 16 Rosi, Franco XIII, 83 n., 90 n. Rosati, Faliero 8 Rossati, Nello 8 Rossellini, Roberto XV, 4, 7 n., 22, 62, 69, 88 Ruccello, Annibale XII Russo, Nino 8 Sacher Film 85 n. Salerno, Enrico Maria 8 Saviano, Roberto 29, 91 Scavolini, Sauro 8 Schoënberg, Arnold 53 n. Schroeter, Werner 33 n. Scola, Ettore XII Seiano 76 Senese, James XII, 49, 50, 91 Servillo, Toni 91, 92 n. Siniscalchi, Raffaele 20 Sirk, Douglas 70 Sorrentino, Paolo XII, 90 Sparagna, Vincenzo 15, 73, 74 n. Squitieri, Pasquale 26

Starnone, Domenico 91 Suma, Marina 55 Tafani, Carlo 70 Tafuri, Renato 55, 70 Tamburini, Andrea 73 Tanizaki, Jun’ichirō 17 Tanucci, Bernardo 19 n. Tarantino, Quentin 2 Tartagni, Gianpiero 18 Tavassi, Salvatore 46, 47 Taviani, Paolo XV, 11, 17 n. Taviani, Vittorio XV, 11, 17 n. Teatro dei Mutamenti 92 n. Teatro Studio di Caserta 92 n. Teatri Uniti 92 n. Tiberio 75, 76 Titanus 26 Tomasi, Dario 65 n. Torelli, Elisa 73 n. Totò (Antonio De Curtis)14 Trampetti, Patrizio 19 n. Trapani, Enzo 6 Troisi, Massimo XII, 6 n., 85, 90 n. Turturro, John 90 Valli, Romolo 19 n. Vanzina, Carlo 8 Veltroni, Walter 4 n. Ventriglia, Gino 91 Verdone, Carlo 6 n., 85 Vicari, Daniele 89 n. Visconti, Luchino 4, 7 n., 70 Viviani, Raffaele 29 n., 46 Von Trier, Lars 2 Wachowski, Andrew 2 Wachowski, Lawrence 2 Welles, Orson 70 Zagarrio, Vito 6 n., 33 n., 41, 43 n., 44 n., 50 n., 81 n., 89 n., 90 n. Zummo, Enrico 45, 46

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Cinema e storia Collana diretta da Pasquale Iaccio

1. 2. 3. 4. 5.

6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 16. 17.

P. Iaccio, Cinema e storia, prefazione di Mino Argentieri (III ed.) P. Iaccio (a cura di), Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. Un film di Florestano Vancini P. Iaccio (a cura di), Non solo Scipione. Il cinema di Carmine Gallone P. Cavallo, G. Frezza (a cura di), Le linee d’ombra dell’identità repubblicana. Comunicazione, media e società in Italia nel secondo Novecento M. Melanco, Paesaggi, passaggi e passioni. Come il cinema italiano ha raccontato le trasformazioni del paesaggio dal sonoro ad oggi, introduzione di Gian Piero Brunetta C. Montariello, La Napoli milionaria! di Eduardo de Filippo. Dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità G. Fusco, Le mani sullo schermo. Il cinema secondo Achille Lauro G. De Santi, B. Valli (a cura di), Carlo Lizzani. Cinema, storia e storia del cinema P. Iaccio (a cura di), Rossellini. Dal neorealismo alla diffusione della conoscenza G. De Santi, Maria Mercader. Una catalana a Cinecittà F. Maddaloni, Cinema e recitazione. Dalla chiassosa arte del silenzio all’improvvisazione televisiva R. Bignardi, Carosello napoletano. Il cinema, la danza e il teatro nell’opera di Ettore Giannini P. Iaccio, M. Menichetti (a cura di), L’Antico al cinema D. Del Pozzo, V. Esposito (a cura di), Rock around the screen. Storia di cinema e musica pop P. Iaccio (a cura di), L’alba del cinema in Campania. Dalle origini alla Grande Guerra (1895-1918) F. Crispino, Alle origini di Gomorra. Salvatore Piscicelli tra “Nuovo” cinema e Neotelevisione

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