Alfabeto. Con scritti e testimonianze sull'autore
 9788882128197, 8882128199

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Flavio Baroncelli

ALFABETO CON SCRITTI E TESTIMONIANZE SULL'AUTORE a cura di Giosiana Carrara

ALFABETO CONSCRITTI E TESTIMONIANZE

i

Attraverso il suo Alfabeto e grazie ai contributi di al--.

cunidei suoi amici e colleghi, fra i quali spiccano im-

portanti nomi della filosofia, della critica cinemato- grafica e del giornalismo italiano, si vuole qui trac-

ciare un profilo delfilosofo Flavio Baroncelli dal qua- -.

le emerganotantol'attitudine critica e il talento ar- è tistico quanto la concretezza della persona,la car-.nalità deitratti e l'inarrestabile tendenza dalla provo- =

cazione istrionica e alla presa in giro: ovverosia, per

seguire la lezione di Tatti Sanguineti, il raffinato eser-cizio del «menabelino». In sintesi, e con:le parole del: suo alter ego David L.H. Marlowejr.: «La sua ideg era che la filosofia poteva fare davvero qualcosa per= l'umanità soprattutto perché .sia per produrla che per consumarla (due attività divertentissime) si consumano molte ore/uomo e pochissimo petrolio».

Testi di Cristina Amoretti, Giovanni Assereto, Franco Astengo, Giorgio Baruchello, Enrico Biale, Pietro Cheli, Ferdinando Fasce, Gianni Francioni, Enrico Ghezzi, Alberto Ghibellini, Alberto Giordano, Emilio Mazza, Valeria Ottonelli, Irene Ottonello, Simone Regazzoni, Tatti Sanguineti, Chiara Testino,

Salvatore Veca e Carlo Augusto Viano

Flavio Baroncelli

ALFABETO CONSCRITTI E TESTIMONIANZESULL’AUTORE a cura di Giosiana Carrara

interlinea lineaj edizioni

LICEO CIASSICO G_CHIABRER

rr i

Edizione promossa dal Liceo Classico “Gabriello Chiabrera” conil contributo della Fondazione “De Mari” di Savona © Novara2011 interlinea srl edizioni

via Pietro Micca 24, 28100 Novara,tel. 0321 612571

www.interlinea.com, [email protected] Stampato da Tipolitografia Bacchetta snc, Albenga (SV) ISBN 978-88-8212-819-7

Qualsiasi riproduzione, anche parziale, dei testi che compongonoil libro dovrà essere preventivamenteautorizzata periscritto dall’editore In copertinae all’interno: disegni di Flavio Baroncelli progetto grafico di Elisabetta Fordiani

SOMMARIO

Introduzione (GIOSIANA CARRARA) ALFABETO

»

17

SCRITTI E TESTIMONIANZE SULL’AUTORE GLI ANNI SAVONESI

Uncervello meraviglioso che nonsi è mai dimenticato di possedere un corpo (GIOVANNI ASSERETO)

Baroncelli, ricordi tra ragazzi (FRANCO ASTENGO)

Il Barone rosso (TATTI SANGUINETI)

»

119 123 131

»

139

» »

LA STORIA E LA FILOSOFIA

La cecità di Hume (CARLO AUGUSTO VIANO) Flavio Baroncelli, i “poveri” e la storia della filosofia (GIANNI FRANCIONI)

Un americanista (FERDINANDO FASCE)

A proposito di razzismo,tolleranza,identitàe laicità (SALVATORE VECA)

» »

»

144 153 157

A LEZIONE DA BARONCELLI

Noi Pufendorf siamo così. A lezione da un professore che schivava la banalità (PIETRO CHELI)

Memoriecollettive di un “maestro” unico

» »

IL RIFLESSO DELL'’ARMADILLO

curioso per noi (ENRICO GHEZZI) Il giorno dell’Armadillo (EMILIO MAZZA) Principali pubblicazioni di Flavio Baroncelli Notizie sugli autori

» »

» »

163 168 179 183 195 199

INTRODUZIONE

In trent'annidi carriera, il prof. David L.H. Marlowe jr. aveva sperimentato più volte gli effetti che l'affermazione «Diprofessionefaccioil filosofo» produce su una qualsiasi conversazione tra persone normali. In treno, per esempio.Il silenzio. Non imbarazzato, o perplesso, o minaccioso,o curioso. Unsilenzio nel quale a volte gli era sembrato di indovinare unasorta di riconoscimento di un suo speciale diritto al riserbo. Come quando uno ha appenadi-

chiarato di essere in lutto.

(F. BARONCELLI, Cosa fanno ifilosofi)

Immaginandosi seduto nel suo ufficio di «consulenze morali», con i piedi ben piazzatisulla scrivaniae il cappello calato sugli occhi,il prof. David L.H. Marlowejr. indaga su una questione decisamente oscura: «Come maii filosofi sono convinti di occuparsi di cose che riguardano davicinotutti gli uomini “in quantotali” e, tuttavia, agli uominireali interessano così poco le cose che interessano ai filosofi»? David L.H. Marlowe jr. è perplesso. Per il momento conclude commentando che «deveesserci una differenza profonda tra gli uomini“in quantotali”, che difficilmente prendonoil treno, e gli uomini reali»; ma subito dopo considera che su questa faccenda,un giornoo l’altro, varrebbe la penadi scriverci un paper. In realtà, sulla questione dei modiin cuila filosofia ha da parlare delle cose che interessano davicino tutti gli uomini, possibilmente facendosi anche capire, Marlowejr. s'è arrovellato pertutta

la vita. Specie ogni volta che, smessi i panni del detective privato frutto di un’ibridazione tra la fantasia di Chandler e l’acume dello scettico David Hume, l’alter ego di Marlowejr. è tornato a indossare le vesti di Flavio Baroncelli, professore di Filosofia moraleal-

l’Università di Genova. E, assecondandola sua indole, ha indagato più sulle domandedella gente,e sulle modalità di costruzione di

un nuovosistemadivaloricivili, che sulle ieratiche risposte da offrire ad hoc intorno a questioni profonde del tipo «cos'è il bene e cosa è il male». Chiè Flavio Baroncelli? Di professionefilosofo, nasce a Savona nel 1944, insegna a Genova matiene lezioni anche a Trieste, Cosenza, Madison,negli Stati Uniti, Reykjavik, Glasgow e in Norvegia. Viaggia molto, soprattutto in motocicletta, preferendoglialti-

8

GIOSIANA CARRARA

piani anatolici ad altri più frequentati paesaggi. Si occupa di tematiche storico-filosofiche ed etico-politiche di cui dà conto in numerosi articoli comparsi su riviste specialistiche o pubblicazioni daititoli intriganti, come per esempio: Ur inquietantefilosofo per-

bene. Saggio su David Hume (1975), Il razzismo è una gaffe. Eccessi

e virtà del politically correct (1996) o Viaggio al termine degli Stati Uniti. Perché gli americani votano Bush e se ne vantano (2006). Scrive su quotidiani e periodici quali “la Voce” di Montanelli e “l'Unità”, “Diario” e “Village” e, soprattutto, “Il Secolo XIX”.

Muorea Genovanel 2007, dopo una grave malattia che lo obbliga a seguire lunghecuresia in Italia sia, per alcuni mesi, a Little Rock, in Arkansas. A due anni dalla sua scomparsa esce Mi manda Platone, una raccolta di articoli giornalistici comparsi fra il 1992 e il 2006, vivacissima perla brillantezza dello stile e l'ironia sottesa alla coerenza dell’argomentare. Alfabeto si collega a questa scelta editoriale ma cerca innanzi tutto di rispondere a una nuovaesigenza. Quella di presentare Flavio Baroncelli, alias Marlowe jr., anche a un pubblico di lettori non necessariamente “addetti ai lavori” per cogliere dall’internoil suo mododiintenderee di fare filosofia. Composto a più manie colricorso a materiale diversificato,il libro, oltre agli scritti dell'autore,

ospita anchei contributi dei suoi amici, fra i quali spiccano importanti nomidella filosofia, della critica cinematografica e del giornalismoitaliano; a confermadel fatto che, per quanto poco cono-

sciutoa livello massmediatico, Baroncelli è stato invece stimato da

unapartesignificativa del mondodella cultura e dello spettacolo.

Alfabeto è un’antologia composita, di natura “mista”; una sorta di

monografia ibridata da cui emergonotantol’attitudinecriticae il talento artistico quanto la concretezza della persona, la carnalità deitratti, l’inarrestabile tendenza alla provocazioneistrionicae alla presa in giro o,per essere filologicamentecorretti, all’esercizio del «menabelino» (secondo la lezione di Tatti Sanguineti). Il libro è suddiviso in cinquesezioni. La primaospita una scelta degli scritti di Baroncelli che va da racconti e articoli a carattere pubblicistico a lettere inviate ad amici, da poesie e relazioni tenute a convegnia recensionidi libri o mostre di pittura, fino agli interventi a Fahrenheit, la trasmissione di Radio 3, alternati a schizzi e disegni di mano dell’autore. Gli scritti sono ordinati mediante parole-chiave che si susseguono se-

INTRODUZIONE

9

condol’ordine alfabetico. A ogni parola, connotata in senso tematico, corrispondeun testo, talvolta breve e incisivo (per esempio la poesia Fu0), talaltra più articolato (come Differenze) o in altri casi espresso in forma drammatizzata (Nascere Nero). Abbiamovoluto costruire un “alfabeto” piuttosto che un “dizionario” o un “lessico” baroncelliano per fedeltà al modo di pensare di Flavio. Nei

suoiarticoli, infatti, sovente si trovano termini comerelativismo o

razzismodifficili da spiegare unavoltapertutte e peri quali — comescrive Armando Massarenti nella prefazione a Mi manda Platone — «la chiarezza può non essere una questione di definizioni».

Così, mettendo da parte esaustività e pretese definitorie, dai brani

esaminati sono emerse parole o espressioni che da un lato riman-

danoa temie interessi specifici di Baroncelli (come Hume, Laici, Tolleranza o “razzismo”, seminascosto alla voce Gaffes); mentre,

dall’altro, attingono a un vocabolario usuale e quotidiano (Motoci-

cletta, Paure, Villeggianti, ecc.) o a eventistorici e fatti di cronaca

(Undici settembre, Oro di Mosca). Perchéè propriola vita di tuttii giorni che genera l’occasioneperriflettere al di là dell’ovvio e che permette di entrare nel «vero gioco della filosofia». Unpiccolo saggio ‘del gioco baroncelliano della filosofia è offerto dagli interventi tenuti a Fahrenheit e raccolti alla voce Zoo-

mate radiofoniche. L'espressione nasce dall’accostamento della

scrittura di Flavio Baroncelli a quella tecnica cinematografica che dalla panoramica a campolargo sposta velocementein avanti l’obiettivo, restringendoil campovisivo al particolare, sino a cogliere singoli dettagli e a evidenziarne la nuda e viva concretezza. Da «grande filosofo ma anche grande osservatore», come lo hadefinito Piero Dorfles nella trasmissione Per un pugno di libri, Baroncelli non si accontenta delle teorizzazioni generali che provengono da sistemifilosofici troppo semplici e lineari o èccessivamente complessi. Piuttosto, nutrito dalla diffidenza tutta humeana verso il

pensiero “forte”, predilige l'osservazione di fenomeniusuali,strettamente intrecciati al “senso comune”. Li coglie a partire dalla realtà quotidiana, che avvicina mediante esemplificazioni puntuali

estremamente analitiche. Procede così dal macro al micro e viceversa con la dimestichezza di un cineasta, un fotografo o un versa-

tile disegnatore di fumetti (le lunghe strisce western che disegnava all’età di otto o nove annisui marginiritagliati dei quotidiani non sembrano forse storyboard, minuziose sequenze di scene pronte

10

GIOSIANA CARRARA

per essere filmate?). In questo modo può decostruire dall’interno presunzioni congiunteall’ovvio o smontaresistemi valoriali predefiniti affinché, da quel materiale ordinario di intenzionie azioniosservabili, sia possibile ricavare nuovi pezzi perl'ideazione diun diverso impianto normativo di valori e di virtù. Senza peròfarli necessariamente corrispondere a un piano,un intelligent design precostituito, ma tenendo sempre conto della responsabilità individuale chesta alla radice d’ogni scelta. Tuttavia, così comela zoo-

mata, rappresentando un movimento virtuale e anomalo perl’oc-

chio umano,è tecnica che, per lo meno nel cinema, ha incontrato unacerta resistenza, anchelo stile di scrittura di Baroncelli, con i

suoipassaggilogici, ellittici, serrati e così poco prevedibili, in tempi culturalmente normalizzanti non ha registrato quella notorietà che è frutto di un più facile consenso.

Le sezioni successive contengonoscritti e testimonianze che

tratteggiano quadri della vita e dell’attività intellettuale di Flavio Baroncelli; nell'insieme permettono di articolare la sua biografia, profilano l’area dei suoiinteressi e, nel caso dei contributi di Car-

lo Augusto Viano, Salvatore Veca, Gianni Francioni, Ferdinando

Fasce ed Emilio Mazza, ricostruiscono specifici itinerari di ricerca.

In particolare la secondasezione,intitolata Gli annisavonesi,si apre con un ritratto intenso e toccante composto da Giovanni As-

sereto, cheripercorrei luoghidegli incontri con Flavio dal periodo della frequentazione della scuola media Boselli e del liceo classico Chiabrera, sino agli anni della malattia nella casa di Piana Crixia.

Prosegue con Franco Astengochericorda l’attività sportiva condivisa con Baroncelli nei tornei di hockey su prato, collocandola sullo sfondo della Savona degli anni cinquantae sessanta, in tempiin cui la cantieristica e l'industria pesante trainavano l’economiacittadina. Si chiude con l’esperienza del volontariato nel Servizio Ci-

vile Internazionale, raccontata con tratti di comicitàirresistibile da Tatti Sanguineti.

Laterza sezione, incentrata sui temie gli interessi storico-filosofici, ricostruisce la genesi della formazioneintellettuale dell’autore riflette sui suoi più recenti sviluppi. Carlo Augusto Viano,in

un contributo illuminante, prende le mosse dalla tesi di laurea su

David Hume per mostrare comedallo studio delfilosofo scozzese Baroncelli abbia tratto elementidi ricerca nuovi e poco frequentati dalla storiografia filosofica degli anni settanta. Nello specifico,

INTRODUZIONE

11

l'intuizione del povero nei terminidi «l’altro invisibile», colto an-

cora in modo marginale da Humee oscurato dalla celebrazionesei

e settecentesca del commercio internazionale e dell’industria, di-

venta invece il punto di partenza delle analisi storico-politiche di Baroncelli. Gianni Francionisi riallaccia a questi temiin un articolo a carattere biobibliografico rigoroso e accurato,in cui sottolinea l’inesauribile curiosità di Baroncelli per autori minori della cultura politico-filosofica dell’età modernae la sua capacità di interrogare i testi operandooriginali intersezionifra le varie discipline. FerdinandoFascesi sofferma sullo sguardo di Flavio, sulla sua capacità di «produrre uno scarto»nella visione del reale e di mostrare le cose da una prospettiva sempre inconsueta, anche in forza del suo «buon senso scozzese e savonese». È il caso delle considerazioni sul politically correct, nate dall'esperienza nel campus di Madison, o di quelle sugli americani bianchi e poveri degli ex Stati sudisti che votano Bush e ne vannoorgogliosi. Nella finzione di un seminario sui temi del razzismo, della tolleranza, dell’identità e della lai-

cità, Salvatore Veca ripropone frammentidi un discorso filosofico perennefra lui e Baroncelli,i cui rap finiscono inevitabilmente per essere tradotti da Veca'in teoria. La quarta sezione introduce l’immagine di Baroncelli “maestro” nel ricordo di alcuniex allievi. Pietro Chelis’intrattiene sul-

l’attività giornalistica di Flavio e, di scorcio, tratteggia la Facoltà di

Lettere e Filosofia di Genovaagli inizi degli anni ottanta quando, in ambientiseriosi e paludati, la figura di Baroncelli, con indosso «quella maglietta a strisce orizzontali, un po’ da rugby» che parlava della morale di Pufendorf, «sembrava uno scherzo». L’interven-

to collettivo degli allievi mette a fuoco la sua lezione di stampo socratico, ma cerca anchedi venire a capo del paradosso pedagogico baroncelliano per eccellenza. Flavio avrebbe potuto essere un vero maestro, se non fosse che proprio ciò che più si amava dilui — l’ironia, la brillantezza dell’argomentaree la lucidissima capacità di sintesi — non poteva servire da modello. Infatti, «questo genere di doti non solo non si poteva “imparare”, ma non poteva neppure

essere esercitato intenzionalmente, perché sarebbe stato come sforzarsi di essere spontanei». Tuttavia Baroncelli ha creato “una rete”, ossia un sistema di scambiintellettuali fra persone di diversa provenienza e formazione che, insieme, possono però coltivare interessi, discipline e stili di pensiero anche moltodifferenti fra lo-

12

GIOSIANA CARRARA

ro; e questo perché — comeerasolito sostenere — «è proprio dalle contaminazionidisciplinari che spesso nascono le avventureintellettuali più belle». La quinta e ultima sezione richiama nel titolo una nota immagine tratta dal Viaggio al termine degli Stati Uniti. Si tratta dell’armadillo che, «quando avverte un rumore sospetto,si alza sulle zampe

posteriori per vedere cosa sta succedendo» anche nel momento in cui, trovandosi su un’autostrada americana, «in questo modo,az-

zera le possibilità di non essere investito». L'animale finisce così per soccombere proprio a causa del suo istinto naturale che, a dispetto dell’astuzia della specie, cozza contro la sua sopravvivenza non corazzandolo sufficientemente a fronte degli sviluppi della modernità. Tracce metaforiche di questi “riflessi atavici” compaiono nell’articolo di Enrico Ghezzi che, dal ricordo del primo incontro con Baroncelli avvenuto a un esame di Filosofia, modella la

fluidità della materia memoriale. Viene da pensare a quel giocoirriflesso di corrispondenze e poi di riconoscimenti, ricordi, curio-

sità e passioni condivise o disputate, che sta alla base di un’amicizia duratura, nutrita dalla comune passione per film tanto rari quanto belli e dal gusto perl’inventaripotesi irrealizzate. Il titolo della sezionecaratterizza infine Flavio Baroncelli stesso peri diretti accostamenti ai «riflessi d’armadillo dell’autore» che Emilio Mazzarileva con intelligenza e arguziain un prezioso contributo in cui ripercorre i principali temidella carriera letteraria del filosofo. Alfabeto è nato dall’intenzione di presentare Flavio Baroncelli a tutti coloro che ancora non lo conoscono e, al contempo, è moti-

vato da almeno duealtre ragioni. La primasi collega all’auspicio che, in tempi nontardivi, si possa raccogliere l'ampia produzione scientifica e letteraria di Flavio in nuove pubblicazioni, suddividendola — come suggerisce Emilio Mazza — magari per temi quali la povertà,il razzismo, la tolleranza o componendoun nuovo vo-

lume su David Hume che disponga in modo funzionale i diversi articoli. La seconda è legata al desiderio che, sul modello del pensiero di Flavio Baroncelli, si riscopra un mododifare filosofia più critico e corrosivo ma anche più curiosoe attento a comevive la

gente reale, alle cose che pensa o che dice anche senza pensarci; per osservare con sguardo nuovole preoccupazioniche ci tormentanoo le gioie checi sollevano, gli animali di cui ci serviamo e le

INTRODUZIONE

13

coltivazioni di cui abbiamo cura, sino a distinguere ciascuna delle

nostre produzioni, comprese quelle che riguardano la nostra vita

politica. Perché crediamo chelafilosofia, oltre a divertire chi la

pratica, possa ancheapportare grandi benefici. E in questo ci sentiamo in perfetta sintonia con David L.H. Marlowe; soprattutto quando,fra la «masticazione di una buonabiro giapponese»e l’assaggio degli «avanzi di lezione sulla lavagna che [non dimentichiamolo!] gli erano semprepiaciuti», era solito sostenere a tale proposito una sua particolare convinzione:

La suaideaera chela filosofia poteva fare davvero qualcosa per l'umanità soprattutto perché sia per produrla che per consumarla (dueattività divertentissime) si consumano molte ore/uomo e pochissimo petrolio. In questo, era un classico: in fondo,la fissazione deifilosofi antichi era semprestata quella: consumate, o Greci, meno olive, meno pane, menofichi; abbandonate questi lussi orientali; in questo modo non dovrete più fare guerre di rapina. E tutti saremo un po’ più felici.

gennaio 2011

GIOSIANA CARRARA

Rivolgiamo un ringraziamento soprattutto a Emilio Mazza peri suoi consigli e peril prezioso contributo nella stesura della bibliografia, a Pier Luigi Ferro per la consulenzae la paziente disponibilità alla realizzazione del progetto e a Gigi Marra e Roberto Venturino per i provvidenziali interventi informatici. Ringraziamoinoltretutti i colleghie gli amici di Flavio che ci hannoincoraggiato fornendoinformazionie notizieutilissime, in particolare: Alessandro Cassinis e la redazione di “Il Secolo XIX”, Pietro Cheli, Paolo Comanducci,Silvano Godani, Stefano Guccini, Realino Marra, Valeria Ottonelli, Sonia Pastorino, Simone Regazzoni e Umberto Scardaoni. Infine, un grazie di cuore ad Annalisa Siri Baroncelli senza la quale questo libro non si sarebbe maipotutorealizzare.

NOTAAI TESTI

Nella scelta degli articoli di Flavio Baroncelli che costituiscono l’A/fabeto abbiamo considerato soprattutto la produzioneletteraria e giornalistica a carattere occasionale o divulgativo. Ogni brano è preceduto dal titolo in corsivo e, in uscita, riporta l'indicazione del giornale o della rivista su cui è stato pubblicato con la relativa data. Quandosi sono notate discordanzefra l’articolo dattiloscritto il file presente nel computer dell’autoree il testo a stampa,ci siamoattenutialla versione originale, tenendo conto delfatto che, per esigenze di pubblicazione, giornali o riviste possono operare tagli. Quando invece non è stato possibile verificare se e dove un determinato brano è stato pubblicato, ci siamo limitati a precisare il titolo e la data con cui compare nella cartella del computer di Flavio. Infine, in mancanza di datazioniattendibili, abbiamoscelto di riportare soltanto l’anno indicante il periodo di composizione più probabile seguito da un punto interrogativo. Per i riferimenti agli scritti accademicie scientifici si è rimandatoalla bibliografia finale che è stata interamente curata dalla moglie di Flavio, Annalisa Siri Baroncelli, e che rap-

presentail primotentativo di riordino delle principali pubblicazioni.

ALFABETO

Analitici Filosofi alla lavagna. Se Zenone, Platone, Leibniz, Aristotele o sant’Anselmoritornassero in vita domani, per un unico motivo non

potrebbero tenere una relazione al convegno di Genova: perché non c’è più posto, e già molti contributi sono stati rimandati ad altra data. Eppurese li mandassimo a un convegno su Heidegger o su Hegel, o li mettessimoalle prese con un libro di Derrida, di Rovatti o di Foucault, non capirebbero di cosasi tratti. Perchéla filosofia analitica,

qualsiasi cosa essasia,è la filosofia più tradizionale. Però, date le sue relazioni speciali — in qualche caso mitiche, in qualche caso reali — con le scienze dure, emana un forte odore di modernità. Negli anni

sessantae settanta in Italia pareva che puzzasse anchedi capitale e di imperialismo. Sicché la si leggeva quasi clandestinamente,intristiti dal timore di tradire la classe, e dagli errori di traduzione(ricordo “gli scolari”, invece che “gli studiosi”, di Russell: mi chiedevo se anche lui, come Wittgenstein, avesse fatto il maestro elementare). Sembrava

un residuo dell'occupazionedegli alleati, comele jeep e i Ford a muso lungo.In effetti è naturale pensare chel'origine sia anglosassone,o meglio inglese; ma un ottimo candidatoalla primogenitura è Frege (Friedrich Ludwig Gottlob: indovinate di dov'era). Anche sulle date non v'è accordo e, se qualcuno afferma con sicurezza qualcosa di preciso, probabilmente è perché vuole espellere dal club certi figuri presenti o passati che giudica indegni. Infatti, nell'ambiente, “filosofo analitico” tende a significare anche “filosofo decente”: primadi rassegnarsi ad ammettereche il professor X è sia un filosofoanalitico, sia un pasticcione raccomandato,si fa di tutto perfargli restituireil distintivo.

Riconoscerei filosofi analitici comunquenonè difficile, perché tutti hanno almenotre dei seguentitic:

a) Non direbbero mai “gettato” ed “esistentivo”, e trovano che

“destinale” abbia un suono gastroenterologico; ma usano, anche quandononè il caso, prizza facie, “se e solo se”, “implementare”; e

anche “lessicografico” e “indessicale”; senza accorgersi che sembranorispettivamente un esameclinico e una medicina.

18

FLAVIO BARONCELLI

b) Chiedono ansiosamentechesi metta loro a disposizione unalavagna anche solo per rispondere alla domanda «comesta?» perché, nonsi sa mai, potrebbe essere comodo esprimersi con una formula.

c) Adornanoi loro scritti di matrici, calcoli e diagrammi;in

questo modoa volte ottengono cheun solo errore di stampa renda del tutto incomprensibile un discorso che si potrebbe esprimere in parole piane. d) Si vestono come pensanochesi vestanogli scienziati e quindi, dato chegli scienziati ormai si vestono in qualsiasi modo, non hanno unostile di abbigliamento definito; ma loro, gli analitici, sonocosì esageratamente aloro agio chesi intuisce comunque che

imitano un modello rassicurante. Ufficialmente l’aspetto fisico non conta, ma unabella faccia da grifo — come quelle di Bertrand Russell, Norberto Bobbio e Uberto Scarpelli — non guastaaffatto, specialmente se si accompagnacon unapipa spenta.

e) Scrivono il più chiaramente possibile, ma — soprattutto da giovani — rendonolavita difficile al lettore perché appena qualcuno inventa una parola nuova l’uso si espande con rapidità inverosimile, e nessuno hail coraggio di chiedere cosa voglia dire, proprio perché i discorsi analitici sono chiari per definizione. Alcuni s’imbattono nella spiegazione di un termine solo dopoaverlo usato per annitirando a indovinare. Il guaio è che, mentrein casi analoghinella filosofia non-analitica basta leggere Heideggere si trova tutto, i filosofi analitici sono democratici, e l'inventore di una

parola può anche essere uno che ha pubblicato unsolo articolo e poisi è arruolato nella guardia costiera. f) Spesso definiscono,all’inizio dei lavori, i termini più comuni;

e qui si danno duecasi. Possono dichiarare un senso da ritenere valido nel corso del testo,e questo è il caso migliore; però possono anche appellarsi al linguaggio comune,e allora sono guai, perché l’uso comune,in genere,risulta un misto di ciò che percasosi ricordano in quel momento,e di ciò che, secondoloro, dovrebbees-

sereil significato di un terminese la gentenon fosse stupida.

8) Hannola maniadi separarei discorsi con lettere: a), b), c), eccetera. A volte cambianolettera a caso, come

h) Quelli che vanno a capo perfar capire che stannoscrivendo

una poesia.

Latolleranzaè il valore più diffuso e sentito; per questo ai con-

vegni, invece di scambiarci cortesie e critiche velate, tendiamo a

ALFABETO

19

picchiarci dove fa male. Una delle caratteristiche che più fanno onoreall'ambiente è che, comparativamente, la percentualedi filosofe analitiche attive ai convegnisi può giudicare buona. Il.numero delle giovani donne che terranno comunicazioni a Genova,

poi, fa pensare chesi tratti anche di una percentuale in rapidacrescita. I motivi? Forse uno è chela filosofia analitica comporta un sacco di manie buffe, ma meno atteggiamenti sacerdotali di altre formedi filosofia; e le donnefin dapiccole sonorassegnateall’idea di non poterfareil prete. “la Voce”, 13 ottobre 1994

Bellezza La vigna di un Galantuomo. L'altro giorno ho incontrato G. Scrivo “G” come Gentiluomo, o Galantuomo. Nonscrivo il nome perché forse «andarea finire sul giornale» potrebbe metterlo un po’ in imbarazzo. Avevaun canestrinosottoil braccio. Mi ha mostrato il contenu-

to, dicendomi «questa è la mia vendemmia». Erano tre grappoli d’uva. Il resto lo avevano mangiatocaprioli, cinghiali e altri animali selvatici. Non abbiamoparlato molto perché non sapevo proprio cosadire per consolarlo. In genere, se non sbaglio, ne raccoglie una

decinadi quintali, che porta giù a spalla per un sentiero ripidissimo. Mihadetto «io lassù non ci vado più». Forse ci andrà anche l’anno prossimo, nonso, lo spero. Quasi tutti i giorni, su per unasalita che mitoglievail fiato perfino quando ero ragazzo.A coltivare la vigna, a zappare, a togliere ognifilo d’erbaccia senza mai usareniente di chimico, a curare peschi,fichi,

cachi, ma poi anchei roverie i pini, con una cura e un ordine e un amore che non hannonientea chefare con il valore economico del raccolto. La sua vigna — più avanti cercheròdi spiegarmi meglio, perché questo è un punto importante — non è solo unavigna.È il risultato di un’arte che purtroppo non ha un nome,è agricoltura,

sì, ma parente dell’architettura, della scultura, della scenografia. Se

ci vai, e non sei proprio del tutto insensibile, hai la stessa impressione di quando fai una curva e improvvisamente ti trovi davanti una chiesa medioevale, o un tempio grecoincastrato in unacollina, o un villaggio di pescatori in una piccola baia turca.

20

FLAVIO BARONCELLI

Nonposso credere, adesso, che non lo fermerò più per chiacchierare, io a chiedergli consigli per l’orto e il giardino, e lui che quando mi insegna qualcosa quasi quasi mi chiedescusa, e se vede che faccio unacosa sbagliata cerca di farmelo capire con tanta gentilezza che io delle volte non capisco nemmeno. Insommaadesso penso — forse sbaglio, per eccesso di speranza — che l’anno prossimo noncambierà nulla: solo, incontrandoci con la zappa in mano, passeremo un po’ di tempoin più a constatare che per continuare

a sudare bisogna essere proprio un po’ matti. Main quel momentoera proprio deciso. E in quelmomento anch’io ero molto disposto a credergli e a dargli ragione, perché nel mio piccolo anch’io avevo pensato la stessa cosa mezz'oraprima. Sonosetteo otto anniche coltivo dei peschi, che tra l’altro sono figli (degeneri) di quelli che G. ha nella vigna. Non crescono mai,e lui mi consola dicendo «per un po’ stanno fermi, mapoivedrai che partono». Quest'anno, per la prima volta, avevano delle peschine. Erano perfino troppe,per degli alberi così piccoli e scheletriti. Le ho coccolate per mesi, e poi, proprio la mattina dell’incontro con G., hofattoil giro di tutte le piante e non c’era niente, né sui raminé perterra.

Sia chiaro: la mia situazione non somiglia affatto a quella di G. Il mioorto,i mieifiori, il mio giardino fanno pena e anche un po” vergogna sempre. I campi che ho affittato a Carletto, che usa il trattore e l’aratro come strumenti di precisione, sono molto più belli delle mie rose. Insommal’animale più dannoso, per la mia terra, sono io. Forsei ghiri, le gazze, le ghiandaie,i cinghiali, i camosci, i calabroni, i maggiolini, e via dicendo, fanno anche bene a

cercare di scoraggiarmi. Mala vigna di G.no,la vigna di G. è tutto un altro discorso. Adesso,sulla vigna di G., presa anche come esempiodi altre situazionisimili, farò un ragionamento un po’ lungo, per cercare di dimostrare che la rovina della vigna di G. non solo un affare suo. Chi nonhavoglia di ragionare a lungolasci perdere. Vorrei cercare difar capire che, per assurdo, la rovina della sua vigna è più un problemapergli altri che per lui. Lui finora nehatratto tante soddisfazioni, un buon vino che sembravenire da posti ben più rinomati deinostri, e la gioia di regalare le sue pesche meravigliose, i suoifichi, i suoi cachi, a tanta gente dei dintorni. Però ci ha messo

sempre un’enorme quantità di lavoro. Insomma,le sue soddisfa-

ALFABETO

21

zioni se le paga. Io non credo che accada, ma non si può escludere che un domani,se smette di fare quella salita, sia anche un po’ sollevato nel pensare tuttala fatica che nonfa più. Peril resto del mondo,invece,la bellezza della vigna di G.era,

è gratis. Se va in rovina,peril resto del mondoè unaperdita secca. Non voglio offendere nessuno: forse nel parco ci sono poderi altrettanto belli. Ma più belli no, di sicuro. Tutte le volte che ci porto qualcuno, anche gente che di coltivazioni non capisce niente, sento semprele stesse cose. Un botto per terra quandol’ospite si siede, qualche minutodi fiatone. Poi la gente si guarda intorno, e sta zitta per un po”. Si calmala respirazione, masi calmano anche i nervi. Sembra chei cattivi pensieri non siano capacidi fare quella salita. Prima o dopotuttifinisconocoldire: «Io di qui non vorrei andarmene maipiù».

Certo, la sua parte l’ha fatta anche la natura, che ha costruito una bella conchetta riparata doveti senti protetto, e vedi senza esserevi-

sto. Mala parte più difficile l'hanno fatta G.e i suoi vecchi, rendendofertile il 1404, e perfino curando una vena d’acquaquasiinvisibile in mododanondoverportare a spalla tutta l’acqua per il verderame, e anche perchécene sia.sempre un po’ per gli animali selvatici. Ci sono,in giro per il mondo,deiposti così, che quandociarrivi stai subito bene, anchese il benessere viene un po’ rovinato dall'idea che non ci puoi rimanere tutta la vita. La gente, un po’ in tutto il mondo,in posti fatticosì ci sentiva la presenza di qualche divinità. Ci costruiva teatri, templi, chiese. Costruzioni che, am-

messo chenel frattempo nonci abbiamo aggiunto qualche palazzina, migliorano una naturagià affascinante, e ci andiamo dalonta-

no,e ci facciamo un mucchiodifotografie.

Per qualche secolo l'umanità ha apprezzato e — più o meno —

conservatoe restauratosolo le costruzioni. Poi, pocopervolta,cisi

è resi conto che anche la naturafa la sua parte nel rendere belle le cose, e sononati i parchi. Adesso la gente comincia a capire che anchele coltivazioni, spesso, fanno parte della bellezza naturale, e

spesso sonola cosa più importante. Si difende l’agricoltura anche per difendereil paesaggio. La riforma europeadegliaiuti all’agricoltura non pagherà più per la produzione di questo e di quello, maper l’opera di mantenimento che gli agricoltori (magari non tutti) svolgono. Insomma,gli agricoltori europei vengono concepiti comese fosseroi cantonierie i giardinieri del mondo.

22

FLAVIO BARONCELLI

Edeccoche,perchi ha avuto la pazienza di seguirmi, veniamo al ragionamentoprincipale. Qualcuno qualche annofa ha deciso che da queste partici so-

nodelle cose che sono belle così comesono,e ci ha fatto un parco. O almenospero che sia andata così, spero che non abbianofatto

un parcosolo così per fare, per poter dire che hanno fatto un parco. Insomma:o ci prendonoproprio peri fondelli oppureil ragionamento è stato questo: quei posti lì sono particolarmentebelli, per comeli ha fatti la natura e per come li ha modificati l’uomo. Quindi facciamo una legge in modo che rimanganobelli, perché quella bellezza è unarisorsa per la provincia la regione la nazione il mondo. E adesso torniamoalla vigna di G. Dimentichiamo, per un momento,la sciagura di quest'anno. In queste dimensioni,la cosa è dovuta anchealla siccità: nei boschi da

mangiare c’è solo roba dura come unostecco. Seci saranno altre annate come questa, avremotanti problemi che quello deicaprioli e dei cinghiali ci sembrerà uno scherzo. Per un momento, pensiamo agli anni prima quando, grosso

modo,le cose andavano in maniera sopportabile. C'è il parco, nel parco c’è la vigna di G. Ora, nella mia ingenuità io immagino che, se il parco nonè un brutto scherzo, nel parcoci gira anche, spesso, una persona che se ne cura e che lo conosce, conoscei postie la

gente. Se non hail cavallo e la divisa di giubba rossa pazienza: l’importanza è che abbia un ampio potere d'iniziativa e decisionale, che non debbachiedere tutto a Savona o a Genova o a Roma,

che possa decidere qualcosa di sensato anche se non è precisamente prescritto dai regolamenti. Chiamiamolo ranger, come quello di Yoghi. Se poi è una leggiadra fanciulla di Piana, meglio ancora, basta che funzionida ranger. “Piana notizie. Passa parola”, Piana Crixia (SV), ottobre 2003

Classici Il Maestro e Eloisa. All’inizio del secolo XII Pietro Abelardo faceva il filosofo, il teologo e lo chansonnier a Parigi con strepitoso successo. Le sue canzoni erano dedicate a Eloisa. Costei, diciassettenne, bella e peritissima in greco, ebraicoe latino,gli diedeun fi-

ALFABETO

23

glio; lui glielo restituì, lei glielo ridiede, é così via finchése lo ten-

ne Denise, sorella di Abelardo. Nel frattempo,perfacilitargli la vi-

ta, il piccolo era stato battezzato Astrolabio. Siccomeil tutore-zio di Eloisa, Fulberto,era furioso, i due si sposarono perriparare ma, accortamente, non lo dissero a nessuno. Così Fulberto, per motivi d’onoree di invidia, fece castrare Abelardo da alcuni sicari, a due

dei quali in seguito, una volta arrestati, furonoestirpatisiai testicoli che gli occhi, anche perfar contenti i numerosi fan di Abelardo. Quest'ultimo racconta nella Storia delle mie disgrazie che a quel punto Eloisa, «per mio comando, spontaneamente»si fece suora. L’apparente contraddizionesi spiegacolfatto chetra le tante invenzioni filosofiche attribuibili ad Abelardo c’è anche la coscienza morale, la quale appunto obbligaa fare le cose liberamente, come poi spiegherà meglio Kant. Kant sosterrà anche che “tu devi” in generelo dice la coscienza del soggetto stesso, e non quella di un altro; ma Eloisa lì per lì non trovò niente a ridire, anche perché non conosceva Kant e aveva una spiccata tendenza a

confondere Abelardo con Dio. L'epistolario dei duesposiè ricco dicitazionidafilosofi e padri della Chiesa. Tra i concetti ivi espressi due meritano di esserecita-

ti: 1) è sempre la donna che corrompeil maschio; 2) per un intellettuale è meglio essere castrato piuttosto ‘che diventare padre di famiglia, perché i bambini non odorano di buono.Ulteriori particolari di questa famosa vicenda si trovano nel romanzo di Luise Rinser L'amore di Abelardo (Piemme), dove chi parla è Astrolabio. Nel romanzo costui dà il suo diario a Eloisa; onestamente, però,

spiega che si tratta di un delirio, e ne sconsiglia la lettura. Il romanzononlo dice, ma Eloisa subito si accorge chesi tratta prevalentemente di lamentele scritte nel tipico stile da lite in famiglia. Domanderetoriche del tipo «è mai possibile che non ci sia una volta che lasciil bagno pulito?» Allora buttail diario in un angolo borbottando «guarda un po’se con tuttele cose che ho dafare comepriora devo perder tempoa leggere le scemenzescritte dal figlio di quel senza palle!» E fa bene, anche perché Astrolabio tra l’altro racconta con insistenza che nella sua vita ha coltivato fondamentalmente due sogni: piantare un coltello nella carotide di suo padre, e congiungersi efferatamente con la mamma.Belle cose, da dire a una priora medievale. Comunque da piccolo Astrolabio abita nella casa degli avi in Bretagna, a Le Palais, e non lo sa. Non

24

FLAVIO BARONCELLI

sa, cioè, di essere figlio di Abelardo e di Eloisa. Quanto al fatto di

abitare in Bretagna, anche questo nongli è molto chiaro. Infatti, a quindici anni, parte al galoppo verso Parigi, ma arrivaa Finisterre. Vicino a un cimiterino a picco sul mare,fissa l'Atlantico selvaggio. Nel delizioso cimiterino dormonole spoglie del nonno paterno Berengario. Apposta Astrolabio è arrivato lì. Però non lo sa. Non sa nemmenoil nomedi suo nonno. Anzi, non sa nemmenodiave-

re un nonno. Quandodapiccolo chiedeva: «maio ce l’ho un nonno?» la mammafinta gli dava un ciucciottoal sidro per farlo stare zitto. Riparte al galoppo pet Parigi, ma sbaglia un’altra volta direzione, e un’altra volta si ritrova di fronte all’oceano ruggente. La voce del sanguelo haattirato proprio lì dove Abelardo avevafatto l’abate.Si siede e, avendocapito di essere in un romanzogotico,ri-

fissa per benino i marosi furenti. Un ragazzo medievale normale avrebbe detto: «toh, sono capitato proprio qui dove miozio faceva l’abate». Malui, che credediesserefiglio di Denise, sorella di Abelardo, non sa nemmenodiavere uno zio famosissimo. Anche quan-

do da piccolo Astrolabio chiedeva: «maio ce l’ho uno zio?», finiva a biberondisidro. E così si capisce anche meglio perché Astrolabio galoppain direzione opposta, volendo andare a Parigi da uno zio di cui non sa l’esistenza e che del resto non è suo zio. Cosacivaa fare a Parigi? Forse la voce del Sanguegli dice che un giorno il suo padre vero aveva pronunciato la famosa frase «Dove altro si può vivere, se non a Parigi?» (p. 21); o forse perché il padrefinto, che con gli adolescentici sapeva fare, per dissuaderlo dall’idea di Parigi gli ha spiegato chesi tratta di una città pericolosa dove, se uno non sta attento, le ballerine lo violentano. Quandoarriva a Parigi acuta-

mente nota che nonsitratta della sfavillante Gerusalemme(p.47).

Vede da lontano Abelardo,e riconosce in lui delle somiglianze con

suo nonnoBerengario (p. 51), quello di cui (p. 20) non conoscel’e-

sistenza. Del resto a Parigi tutto è misterioso anzi enigmatico, per

dirla con Astrolabio. Per esempio,tutti quelli che lo incontranogli chiedonose ha tot anni, se viene da Le Palais, se è nipote di Be-

rengario. Adesso a Parigi puoi anche entrare in coma in mezzo al marciapiedi e nessuno ti degna di un’occhiata. Comediceva Pietro il Venerabile, Parigi non e più quella di una volta. “la Voce”, 16 dicembre 1994

ALFABETO

25

Vico, una storia che non finisce. Il giorno in cui avrebbe dovuto svolgersiil funerale di Vico, unagran lite scoppiò — almeno secondoil marchesedi Villarosa — tra i professori universitari e i membri della congregazione di Santa Sofia: nessuno voleva rinunciare all’onoredi portarei fiocchi della coltre mortuaria. Così se ne andaronotutti quanti, lasciando la salmanel cortile di casa. Se onorare una grande libro è trasmettere la voglia di leggerlo, l’aneddoto sembra una metafora del destino della Scienza Nuova. Studiosi di tutto il mondola considerano un’opera chiave della cultura europea, mai giovani la aprono solose precettati, e da adulti dimenti-

cano,insiemealle interrogazionisul verfactum, sui “ricorsi”, sul “certo” e sul “vero”, la sua esistenza. Sarà che, a forza di giurare sull’importanzafilosofica di brave persone comeGioberti, Gal-

luppi e Lambruschini, la cultura scolastica ci rende diffidenti e, quandoci presenta un genio vero, non le crediamo più. Sarà che, tra una disputae l’altra (la storia è vera scienza oppure no; Vico precorregli idealisti ed è avanti di un secolo; oppure è retrogrado, e somiglia agli idealisti solo perché ancheloro lo sono), pochi rammentano che la Scienza Nuova è un libro affascinante non perché

Vicohafilosofato sulla storia dell’umanità, ma perché quella storia

l’ha poi davvero reinventata da grandevisionario e da grandescrittore. E non è nemmenoverochela prosa di Vicosia così ardua comesi dice. È inconsueta; ma basta serenamente lasciarsene impre-

gnare per entrare in un mondogremito di cose che è peccato mortale riassumere. Costretto a compiere questo peccato,direi che Vi-

co ha studiato sistematicamente e insiemesistematicamente inventato il “pensierocollettivo”. È come riassumere Robinson Crusoe dicendo che «un tizio naufragò su un'isola, ci stette, e poi se ne andò»; ma almeno così nonsiillude la gente di poteresostituire la lettura diretta. Un conto, per esempio,è sapere che per Vico Omero fu solo «legatore o componitore di favole», un conto è leggere «che perciò i popoli greci cotanto contesero della dilui patria e ’1 vollero quasi tutti lor cittadino, perché essi popoli greci furono quest’Omero».

Sonorigogliose anchele opere cosiddette giuridiche, che giustamentegli valsero la bocciatura all’unanimità per una cattedra di Diritto civile, ma permettono di spiarlo mentre con le unghie e coi denti scavala via verso l’opera maggiore. Un’occhiata va data anche

ad alcuni poemi: così ardui, e aridi d'immagini, da fare intuire che

26

FLAVIO BARONCELLI

c'era almeno un motivo personale per cui Vico teorizzò (poeticamente) che la poesia non è cosa per gli uomini moderni. Al tempo

degli eroi, invece, qualsiasi cosa gli uominicercassero di dire, veniva

fuori in poesia, e solo in poesia. Non è l’unicofilo di nostalgia che percorre la trama dell’incivilimento. Vico distrugge il mito dell'età dell’oro, ma ha unavera passione per i tempiin cui «le madri, come bestie, dovettero lattare solamente i bambinie lasciargli nudi rotolar dentro le fecce loro propie, e appena spoppati abbandonargli per sempre». Per questo venivan su giganti: perché le “fecce” sono un portentoso concime, e perché nello «sforzarsi di penetrare la gran selva, che per lo fresco diluvio doveva esser foltissima», facevano una gran ginnastica. E, soprattutto, non venivanorepressi: «senza al-

cun timore di dèi, di padri, di maestri,il qual assiderail più rigoglioso nell’età fanciullesca». Niente male per un autore che (per la cupa gioia della cultura da liceo) a ogni passo condannai «concubiti incerti» dei selvaggi e loda la nascita del pudoree della famiglia. Vico avevabattuto il capo da piccolo, comeegli stesso racconta: «il cerusico... ne fe’ tal presagio: che egli ne morrebbeo arebbe sopravvivuto stolido». Dopotre anni di convalescenzane uscì né mortoné scemo,maintisichito e con una personalità «malinconica e acre», adatta a quegli studi cui si votò maniacalmente, e che gli procurarono pochissima gloria e ancor menoagi. Prima della caduta era «spiritosissimo e impaziente di riposo»: quasi comeun cucciolo di gigante. “la Voce”, 6 agosto 1994

Filosofo gentiluomo. L'esistenzialista Abbagnano amava la scienza e la libertà. C'era l’Italia, c’era il dopoguerra. E c'eranoi filosofi. Quasitutti gonfi di un qualche tipo di impegnoreligioso. Non necessariamente nella vita quotidiana; quasi sempre nell’esercizio della loro professione.I religiosi tout court non erano — come adesso — moltovisibili; ma erano già numerosi, anche se non tanti come

adesso; e spesso la loro pratica filosofica non si distingueva dall'impegno nell’interpretazione, nella riforma, nella diffusione del messaggio rivelato. E poi c'erano, a schiere tumultuose,i filosofi intrisi di religioni cosiddette laiche: del Progresso, della Libertà,

del Proletariato. Crociani, oppure ex crociani; anche se un buon

crocianoè difficile che diventi davvero un ex. Molti, specialmente tra i socialcomunisti, in realtà erano ex gentiliani. Malo si diceva soltanto sottovoce. La sinistra non aveva ancora riscoperto Genti-

ALFABETO

27

le. Del resto, proprio ammazzando Giovanni Gentilesi era,tra l’al-

tro, confermatala diffusissima idea chela filosofia sia sempre im-

pegnata e responsabile di ogni bene e di ogni malecivile, e che lo sia di persé. Se le parole sono pietre,le filosofie sono frane, sono dighe, sono trincee. Sono potenti, vanno prese sempre sul serio perché anchele loro conseguenze menoevidenti muovono,fermano, incanalano la storia. Della nazione, del mondo.

Torino era un centro molto importanteperla storia: sia quella fatta che quella scritta. Lo era anche per diversearti e, in generale, per la cultura postresistenziale. Vi approdò Abbagnano,un filosofo salernitano. Comecapita a certi gentiluomini del sud (compreso il Sudamerica), era più anglosassone di un lord inglese. Nel senso che solo i gentiluomini del sud riescono a rappresentare i pregi del gentiluomo anglosassone al meglio, senza necessariamente avernei difetti. A Torino Abbagnanoebbesuccessoin tutto. Era molto stimato anchedalla gente perbene, fuori dall’accademia. Perché era un gentiluomo perfetto, amabile e molto colto; perché era un bravofilosofo; e poi anche per un equivoco, credo. Era un filosofoesistenzialista. Credo che l’esistenzialismosia l’unica filosofia di cui abbia-

no parlato,e spesso, anchei film Luce. Facevano vedereParigi e un locale notturno con dentro Juliette Greco acconciata in modovagamente pre punk, e dicevano:a Parigi infuria l’esistenzialismo. Pochi sapevano di che cosa'si trattasse, ma molti con la parola “esi-

stenzialista” avevano confidenza, ed erano convinti di capirsene. A

quella parola però in generesi accostavano immaginipiuttosto melodrammatiche. Sguardi perduti nel vuoto, disperazioni senza nome, insommaeragià quasil’incomunicabilità deifilm di Antonioni e di Bergman, ma con più movimento sentimentale. E invece Abbagnanoeral’esistenzialista meno commossoche si possa immagi-

nare.Il silenzio dell’Essere nonlo affascinava e nonlo terrorizzava.

Ci vedeva un’occasione, una possibilità di esercitare la libertà di

costruire, approfittando dell’assenza del Capo, un mondodecente. Per costruire un mondo decente tutti dovevano esercitare bene la propria professione, a partire dai filosofi, che dovevano imparare meglio a usarei propri attrezzi(la logica, per esempio), e a non farsi terrorizzare dagli attrezzi degli scienziati. Della naturae sociali. Unasera,in un salotto molto “in”, «Professoresia gentile»qui, «Professore ci dica»là, lo indussero a una conferenza estempora-

28

FLAVIO BARONCELLI

neasull’esistenzialismo, che egli fece con molta grazia. L'indomani

mandò alla padrona di casa la fattura. Neanche tanto simbolica. Ché, altrimenti, anche come simbolo non avrebbe avuto efficacia.

A lezione, spiegando cosasiano i Valori, per fare un esempio comprensibile immediatamente, parlava dei soldi: la tipica cosa cui gli uomini tendonoadattribuire valore. Non mirisulta che nessun altro filosofo italiano abbia mai scelto questo esempio. In quegli anni, insomma,e fin dentro agli anni sessanta, Abbagnano fu serenamente ed efficacemente aggressivo nei confronti dell’andamento generale della culturafilosofica italiana, e del suo tradizionale amore per le maiuscole,il sudoreteorico, le aggettivazioni lussureggianti. Fece molto, con gli scritti e sponsorizzando attività organizzative, per diffondere quella cultura sociologica chei crociani, fossero o meno ex, aborrivano. E incoraggiò i contatti deifilosofi con il mondodegliscienziati. Fu il numetutelare di un effimero ma generoso movimentochesi indica come “neoilluminismo”. I volumi della famosissima Storia della filosofia da lui scritti risentono di questo suo essere schierato, sia pure in modosingo-

larmente appartato e sobrio.

Poila suaattività filosofica, nonostante sia stato lucidissimofino alla tarda vecchiaia, ebbe un'rallentamento. Diventò un fortu-

nato opinionista per la stampa quotidiana, e questo contribuì an-

cora ad allargarne la fama. Perse ogni cattiveria, e forse arrivò a sottovalutare, abituato com'era all’understatermzent, anche le stesse

operazioni culturali e accademiche da lui compiute. Nella sua au-

tobiografia non si trovano nemici, avversari, e nemmenocolleghi

di dubbio valore.

È questo Abbagnanodegli ultimi decenniche, sostanzialmente,

vienerispettato nei volumidi Storia della filosofia che, a diversi an-

ni dalla sua morte, continuano a uscire col suo nome. Sono tomi

sempre più grossi, anche perché tutti i movimentie tutti i perso-

naggi vi vengono trattati con tenero equanime rispetto. Mentre

l’Abbagnano d’annata (secondo un mio giudizio molto soggettivo, ovviamente: altri ben più blasonati degustatori la pensano diversa-

mente)era,sì, compassato e nonsi sbilanciava mainei giudizi; ma

nonesitava, quando doveva raccontareun filosofo che nongli pia-

ceva, a diventare estremamente avaro di pagine. “Il Secolo XIX”, 29 marzo 1996

ALFABETO

29

Differenze! La percezione delle differenze. Prima di tutto devo precisare che quanto segue riguarda soprattutto, se non soltanto, le cosiddette differenze “ascrittive”. Nel gergo di quanti oggi si occupano di questi problemisi chiamano così quelle differenze che — prevalentemente — non dipendonodalla volontà del soggetto. Per esempio, unonon appartiene a un sesso, 0 a una razza, per sua decisione.

È soprattutto quandosi parla di questo tipo di differenze che gli antirazzisti assumono spesso un atteggiamento sul quale voglio riflettere qui. Tale atteggiamento dà originea discorsi che suonano più o menocosì: basta conil negare,il sottovalutare le differenze; ciò è inutile e spesso dannoso. Le differenze esistono, e vannoaf-

frontate. Accade spesso a certi antirazzisti di concepire una sorta

di senso di colpa nei confronti delle differenze: l’antirazzismo le avrebbe troppo trascurate, negate, a vantaggiodi unavisione troppo ottimisticamente egualitaria dell'umanità. È un atteggiamento molto simile a quello, ancora più diffuso, che si ha nei confronti delle questioni di femminismo. Dopo un periodoin cui prevalentemente da parte progressista si negano le differenze, viene generalmente un periodo di ripensamentoin cuile differenze vengono ammesse,riscoperte, e spesso anchevalorizzate. Diper sé è un atteggiamento che non ha nulla di male. Che le differenze non vadanonegate è addirittura ovvio: una differenza o c'è o non c’è. Se c’è, e la nego, sono semplicemente bugiardo. Quantoalla sottovalutazione, di per sé è ovvio anche cheessasia,

quando davveroesiste, una forma di negazione del vero. Ed è dunque ovvio anchequi che,se si negail vero, si mente. Ed è vero che spesso i buoni, i bene intenzionati, mentono spudoratamentea fin di bene, e che quasi sempre, facendo questo, in realtà non fanno nulla di buono per la buona causa. È giusto quindi redarguizli, quandosi comportanocosì. Tuttavia accade molto spesso che la correzione diventi ipercorrezione: in questi casi, per reazione all’egualitarismo cieco e ipocrita, si rischia di finire inconsapevolmente conl’accettare la visio-

ne delle differenze creata dai razzisti. Essa si impone comequella “realistica”, dettata dal buon senso comune; come un’innegabile

evidenza dei sensi dalla quale non si può prescindere. Accade,insomma,che le differenze che oggi — doposecoli e secoli di razzi-

30

FLAVIO BARONCELLI

smo — sembrano evidenti siano accolte come oggettive, come og-

gettivamente importanti, come dati primari dai quali nessuno in buona fede ha potuto, può e potrà prescindere. Quando accade questo, il razzismosi è già assicurato un bel po’ di vantaggi. Direi anzi che oggi, in un climascientifico nel quale la biologia dà loro pochissime soddisfazioni, i neorazzisti hanno un bisognoessenziale di queste nostre bene intenzionate ammissioni, che poi sanno usare al meglio peri lorofini. Credo quindi che sia di per sé giusto dire che gli antirazzisti non debbanoessere bugiardamente e melensamenteottimisti, ma

credo anche che un atteggiamento “realistico” sia davvero sano e produttivo solo se unito a una matura consapevolezza di cosa sia davvero il percepire differenze. E capire in cosa davvero consistail percepire differenze tra gruppi umanisignifica, secondo me,capire che, nel contestoreale in cui viviamo, differenza vuole dire qua-

si sempre “differenza scoperta” (ma faremmo meglio a dire “inventata”) da qualcuno per qualche motivo.

(Si intende che,per certe differenze, questo discorso sarà valido

solo se prendiamo insieme la differenza e la sua interpretazione: ciò è evidente per esempio nel caso del sesso. Ovviamentele differenze tra maschio e femminanonsonostate scoperte dai maschilisti: ma i maschilisti hanno inventato il mododiinterpretarle, le conseguenzedatrarne,e così via.)

In sostanza, almeno per quel che riguardatutte le differenze cui si attribuisce da parte dei razzisti la capacità di impedire una serena convivenza,le diversità sono notate oggi perchéieri sonostate scoperte, e sono state scoperte per essere sopravvalutate. In altri termini, è da prendere molto sul serio Sartre quandodiceche la persecuzione creare gli ebrei. C’è qualcosadi vero, per esempio,nel dire che alcuni sono di pelle più scuradialtri, che lo sonoi loro genitorie i lorofigli, e che questo è oggettivo e nonsi deve negare. Ma è ancora più giusto osservare cheè il razzismo ad aver inventato i neri, e che i neri, se noncifosse il razzismo, non sarebberoneri. Nel senso chetutti si accorgerebbero che, dicendo che sono “neri”, non

si dice proprio nulla di interessante, in quantoil colore della pelle nonci permetterebbe,iin un ambiente davvero nonrazzista, di raggrupparegli esseri umaniin alcun modopernoisignificativo.. Credo, insomma,chegli antirazzisti non debbanoessere troppo timidi nel dire che la natura non offre al razzismo alcun fonda-

ALFABETO

31

mento. La natura non offre un bel niente né al razzismo né all’an-

tirazzismo. È invece il razzismo che, se analizzato, si rivela come

uno strumento ideologico di straordinaria potenza:tale che a) non hanessun bisogno che una differenza sia importante, per renderla importante; b)a volte non ha neppurebisogno che questa differenzaesista; c) non ha neppurebisognodi osservare dal vero, di averea disposizione i soggetti che dovrebberoessere portatori di quella differenza. Quanto ho appena detto può sembrare azzardato. Ma credo che, pertogliersi preliminarmente l’impressione che io stia esagerando, basti pensare agli antisemiti di oggi, nel nostro Paese. Non tanto per chiedersi (avendo magarinegli occhi l'enormevarietà deitipifisici che i documentarisu Israele ci presentano) da dove abbianotrattoil tipo fisico dell’ebreo che affermano di conoscere, quanto per chie-

dersi quanti di loro abbiano davvero mai incontrato e avuto mododi

osservare un ebreoin carnee ossa. È un dato, questo del proliferare di pregiudizi, stereotipi e stimmatein assenza dei loro portatori, che dovrebbefarriflettere di più. Un dato che si manifestò in maniera eclatante, per esempio,in Inghilterra: la figura di Shylock, una delle tante caricature di ebreo cheinfestanola letteratura di quel periodo, vienecreata e diffusa in un Paese dal qualegli ebrei sonostati cacciati, e cacciati sul serio, da più di duesecoli. Illustrerò il mio punto di-vista prima con qualche semplice osservazione sul modo in cui percepiamo differenze e cataloghiamo oggetti per differenze, poi con qualche breve datostorico. Partiamo dalla semplice raccomandazione: «non si deve negare una differenza, se questa differenza è vera». Ciò è ineccepibile. Bisogna aggiungere però,e non bisognerebbe mai dimenticare,cheil fatto di essere “vera”, per una differenza, come per qualsiasi altra cosa che si possa dire del mondo,nonè poi così importante come siamo abituati a pensare. Secifosse il tempo, sarebbeinteressante spiegare come mai siamo appunto abituati a ritenere che le affermazioni vere siano da ritenere di per sé importanti. Ma il tempo non

c’è, e allora accontentiamoci di notare che ovviamente è importante che una affermazionesia vera invece che falsa, ma questo non

vuol dire che qualsiasi verità sia di per sé importante.

Siamo abituati a pensare chela verità sia rara e costi fatica, ma bastariflettere un momento,e ci rendiamo conto che anche stando

32

FLAVIO BARONCELLI

comodamenteseduti in una qualsiasi stanza possiamo produrre facilmente una caterva infinita di affermazionivere. Sia logiche che empiriche. Possiamo dire delle parole a caso e contare di quante lettere sono formate, per esempio. Oppure elencare tutto ciò che

un foglio di carta non è, da Topolino a Giulio Cesare a unaruota di

Vespa. Potrei passare tutta la vita a elencaregli infiniti itinerari che si possono percorrere per andare da Genovaa Savona. Se è davvero solo la verità che ci interessa, non abbiamo che da accomodarci. Laverità può essere molto a buon mercato. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che una verità normalmente viene detta perché qualcunolaritiene rilevante per qualcuno e per qualcosa. Ciò avviene così spesso, che tendiamo a darlo per garantito. Se qualcunoci informadi unaverità irrilevante, primaci chiediamo un po’ angosciati perché ce l’abbia detta, e poi, se ci convinciamo che davvero non v'era alcun motivo di fare quell’enunciazione, mettiamo quella personanella lista degli stolti, anchese la cosacheci ha detto era vera. Ora,il punto è che, quandosi tratta di differenze tra esseri umani, siamo atavicamente abituati a considerarle importanti. E

questo è pienamente comprensibile, perché l’umanità è sia un oggetto checi interessa molto sia un oggetto sfuggente e imprevedibile. Nel nostro passato remoto probabilmente abbiamo ancheincamerato l’abitudine a pensare che distinguere a primavista un individuo di un’altra tribù da uno della nostra è una capacità dalla quale dipendela nostrastessavita. Ciò nontoglie però chele differenze, di per sé, non sianoaffatto interessanti se non interessano per qualche motivo.E quali differenze tra gli uominici interessano oggi? Anche qui, ovviamente,si dovrebbe ripetere quanto abbiamonotato sulle verità in generale. Nonesistono due esseri umaniin tutto simili: le differenze sono sempreinfinite, e comunque immensamente superiori alla nostra

eapacità di catalogazione. Anchequi, se sono le differenze checi interessano, abbiamo solo-da accomodarci. Ce n'è pertutti per un’eternità. Potremmoper esempiocontarei capelli della gente e catalogare l’umanità secondo questi dati. Un’industria farmaceutica questidati potrebbe anche pagarceli bene. C'è solo dascegliere. E infatti scegliamo. O meglio: la nostra cultura, la nostra tradizione sceglie per noi. E che cosa ha scelto? Normalmentesi cerca distabilire una corrispondenzatra una differenza e un’altra chesi presu-

ALFABETO

33

mela debba accompagnare. Cosa corrispondenella psiche a un certo carattere esterno? Una differenzavisibile dovrebbeessere sintomodi unadifferenza invisibile. Questa è la curiosità di fondo. Mil-

lenni di fisiognomica hannoclassificato la gente sulla base di presunte somiglianze congli animali. Duecento anni di antropologia hannosoprattutto misurato crani per vedere differenze di capacità cerebrale. Questo secolo ha prodotto valanghe di dati sulle differenze nel rendimentodi fronteai test di intelligenza. Differenzetra neri e bianchi. Ma anchetra ebrei e anglosassoni. E anche tra polacchie italiani e irlandesi, doveil dato esterno cui dovrebbecorri-

spondere quello internoè... il passaporto. Tra uomini e donne.

Differenze interessanti, no? Però sulle differenze di QItra cal-

zolai e imbianchini non sappiamo nulla. Nemmenosulle differenze tra personecol naso lungo e persone col naso corto. O persone grasse e persone magre. Perché non dovrebbero essere interessanti? Non sarebbe nemmenotroppo difficile inventare giustificazioni per ricerche del genere. Ma nessunolo ha fatto, semplicemente perché finora nessuno ha mai pensato chestabilire la differenza di QItra queste categorie potesse servire a fondare alcunapratica sociale. Ovviamente, qui comein tutti gli altricasiin cuisi classificano gli uomini,le differenze vengonocercatee studiate a partire da un catalogo di popolazioni che vengono date in partenza come

omogeneeal loro interno. Un catalogo strano, dove si incontrano religioni, razze, nazioni, etnie, il tutto assemblato in una grande

confusione che solo l’abitudine ci fa percepire comesensata. Chi ha messo insieme questo catalogo? Ovviamente —- principalmente - interessi, e pregiudizi legati a interessi. La stessa cosa accadeva nella cosiddetta “scienza” antropologica che ha imperversato per due secoli misurando crani più o menoa casaccio,figlia della fisiognomica che classificava gli esseri umani secondole loro somiglianze con animali, madre del razzismoscientifico attuale. Le ricerche empiriche, si badi bene, non smentiscono quasi mai

questotipo di scienza. Se gli ebrei all’inizio di questo secolo hanno da risultare scemi, risultano scemi; e così gli italiani. Ci sarebbe

molto da dire sul fatto che continuiamo a raccontarela storia di queste indecenzesottoil capitolo “storia della scienza”. Manon c’è tempo,e allora ricaviamoil nucleo checi interessa.

Tra differenze infinite, quelle che notiamo le notiamo perché abbiamo imparato a notarle. Una volta che le abbiamonotate, anche

34

FLAVIO BARONCELLI

solo per questo tendono a sembrarcirilevanti; ma la loro impor-

tanza,la loro stessa percettibilità, è un dato storico. Lo è davvero, in un mododifficilmente credibile. Tendiamo a

non crederci proprio perché la tradizione ci ha presentato questi aspetti della nostra cultura sotto specie di natura. Facciamo fatica ad ammettere che ci siamolasciati ingannare così facilmente su argomenti così importanti. Facciamo anche fatica a rinunciare a un presunto saperechecifa sentire capaci di conoscere meglio l’umanità e, nel nostro caso, per lo più ci parla anche della nostra superiorità.

Il discorso dunque diventa di storia. Storia delle differenze.

Prendiamo per esempioil colore della pelle. Non è evidente, non è

invadente?. Chi lo potrebbe negare? Eppure Erodoto gira un po’ dappertutto e non gli viene mai in mente didire, prima di tutto: «questi sono neri, quegli altri sono bianchi». Come quasitutti gli antichi, ovviamente se ne sarà accorto, ma non gli sembrainteres-

sante. Si sa che oggiin certi circoli di afroamericaniestremisi cer:

ca di dimostrare chela cultura, non solo la specie umana, è natain

Africa da gente nera (è un tentativo del tutto comprensibile: noi che almenofino a qualche tempo fa avevamoneilibri di storia un inventore italiano per ogni invenzione, compresa la bussola, non dovremmo scandalizzarci troppo). Mail dato interessante è che ognuno,a proposito del colore della pelle degli antichi, può dire la sua, perchéin tutta l’antichità la gente al colore della pelle non fa tanto caso, e quindi le informazioni sono poche. A Erodoto gli etiopi sembranobellie alti, non neri. Certo, nel momentoin cuisifa la tratta degli schiavi, e ci sono popolazioni di vari gradi di “scuro” dai quali si traggono buona parte degli schiavi, e si tratta di popoli con tecnologie di guerra menoefficaci delle nostre, per cui li possiamo considerareinferiori, allora il colore fa comodo,e diventa importante. Ciò che è inne-

gabile è che, una volta che qualcuno lo ha estratto dalla natura e ne

ha fatto uno stigma, il colore è comododa notare e scomodo da

nascondere. La pelle, per esempio, è più scomoda da nascondere rispetto alla religione. Finchéil razzismo non sarà davvero sparito

nelle sue manifestazioni e nei suoi effetti, il colore lo noteremo sempre, e attribuiremo unacaratteristica comune importante a

persone che tra loro non pensanodi avere in comune proprio nulla di speciale. O meglio: qualorasiano esposti al nostro sguardoin-

ALFABETO

35

vadente,cheli separa e li raggruppa, impareranno danoi a pensare di essere simili. Ma noncerto perché sono obiettivamente scuri di pelle; se una squadra di militari entrasse in questa stanza e prendesse diecidi noia caso,e li chiudesse in un’altra stanza,lasciando

andarevia tutti gli altri, quei dieci si sentirebbero simili tra loro, anchese nonriuscirebbero a capire in che cosa. E nel giro di qualche secondopercepirebberol’esistenza di un “noi” e di un “loro” che prima non aveva alcuna basesu cui nascere.

Il colore, comunque, ovviamente,esiste e peri razzisti è maledettamente comodo. Ma è altrettanto vero che, in mancanza di

certe comodità,il razzismo si adatta benissimo:perfino la religione può in certo qual modocolorare, può creare differenzefisiche evidenti e inesistenti allo stesso tempo. Non sto pensandoagli ebrei, che pure sono un caso eclatante di caratteristichefisiche inventate che hannofunzionato benissimo, comesefosseroreali.

Sto pensandoai cattolici irlandesi. Questa fu, primadeineri, la prima popolazionea essere discriminata e segregata con leggirazziali. Ebbene,gli irlandesi sembravano agli inglesi completamente diversi dagli inglesi e molto simili tra di loro. Erano convinti che fossero una popolazionefisicamente distinta. Una razza, insomma. Inferiore, ovviamente. Chi ama, nonostante tutto, la storia per raz-

ze e peretnie dirà: ma è vero. Quelli erano Celti. Appunto. Come gli scozzesi. Anchela lingua gaelica testimonia quest’appartenenza. Dunque,gli scozzesi sono percepiti anche loro come una razza a

parte,e ancheinferiore,vista l’arretratezza della Scozia in certi pe-

riodi? No. Siccomegli scozzesi erano protestanti, e siccome sono

in grado di sconfiggeregli inglesi, la razza scozzese non viene mai scoperta.

Ci sarebbero moltissimealtre cose da dire, ma spero che quelle che

ho detto bastino almeno comeinvitoa riflettere. Le differenze non vanno negate,è vero. È ancheveroperò che, se uno diffida, cerca

l'origine dell’attenzione a questa o quella differenza e scopre delle cose molto più importanti delle differenze stesse. Sicché alla fine, delle differenzefisiche, se uno se neinfischia e nonaccetta di considerarle importanti, novanta su cento non sbaglia. Novanta su cento evita semplicemente di cadere in una trappola tesa qualche secolo prima. Savona, 14 maggio 1998

36

FLAVIO BARONCELLI

Egoismo Chebel legame è l'egoismo. Uno dei maggiori divertimenti deifilosofi maliziosi è semprestato notare che sarà ancheverochechitro-

va un amico trova un tesoro, ma è ancora più certo che chi trova

un tesoro — se lo fa saperein giro — si fa un sacco di amici. Sicché sono innumerevoli le varianti della seguente massima di La Rochefoucauld: «Quella che gli uomini hanno chiamato amicizia non è altro che un’alleanza, una reciproca cura di interessi e uno scambiodi servigi; insomma,unarelazionein cuil'egoismosi prefigge sempre qualche utile». Tutti i ricami su questo tema sonostati fatti o fingendodi dimenticare, o dimenticando, che Aristotele nell’Etica Nicomachea

(una delle opere più lette e scopiazzate di tutti i tempi) aveva già spiegato chei tour deforce psicofilosofici sull’egoismo presente anche nell’amicizia “pura” sono solo questioni di parole. Infatti ov-

viamentetutti — quandoci riusciamo — amiamonoistessi; ma, se

uno amatanto se stesso da soddisfare il proprio ego compiendo azioni generose, allora chiamarlo egoista in senso negativo è da cretini. Non mirisulta che qualcuno lo abbia contraddetto in maniera convincente. Peròi filosofi che, ciò nonostante, hanno cincischiato sui bas-

sifondi dell'amicizia come ragazzini ammalati di psicologismo,sono anche un po’ da capire. Infatti la completezza dei discorsi di Aristotele sull’amicizia in tutte le sue forme è sorprendente, sco-

raggiante e perfino un po’ deprimente, agli occhi di chi per mestiere dovrebbe dire qualcosa di nuovo. Aristotele ha anche inventato un paradosso di sapore borgesiano: quello dell’amico che, per amicizia,si astiene da un’azione buona onde permettereall’amico di farla. Epicuro lo batté, ma solo in velocità e stringatezza, dicendo che «ogni amicizia è di perse stessa desiderabile, anche se l’amicizia trae origine dall’utilità». Non è tut-

to, mase unoci ragionasoprane ricava moltissimo.Sepoiriflettiamoanchesul fatto che la parola turca che noi traduciamo con “amico”, richiamail concetto di due persone che si dannole spalle, ossia che — nella mischia — si fidano l’unodell’altro comedi una roccia, possiamofare un trattato sull’amicizia molto completo. Rispetto all’analisi di Schmitt sulla politicacome rapporto amici-nemici, i pur completi discorsi di Aristotele (ma ancor di più

ALFABETO

37

quelli di Cicerone nel Laelius de amicitia) hanno un po’ il difetto che,se uno li legge senza malizia, può cascare nella trappola costituita dalla domanda: «mai cattivi possono essere veramente amici tra loro?», che è un problemavero solo in minimaparte, in quanto quasi semprenasce dal fatto chei nostri nemici a volte preferiamo immaginarceli del tutto privi di virtù morali. Quello che quasi sempre mancaneidiscorsi deifilosofi del passato sull’amicizia è il prurito attuale che ci spinge a chiederci se i membri di famose coppie di amici, come Castore e Polluce o Montaigne e La Boétie, avessero dei rapporti sessuali. Non è una grave mancanza; a quelli che hanno questi problemiconsiglio John Boswell, The Marriage of Likeness (Harper-Collins): 412 pagine sui matrimoni tra maschi nell’Europa premodernacosì noiose da far passare ogni inquietudine. Per punirei curiosi, è ancheuscito unlibro sulla famosa ami-

cizia tra Edoardo II d’Inghilterra e il suo favorito Gaveston (Pierre Chaplais, Edward IIl°s adoptive brother, Clarendon Press): scruta e riscruta gli annali, pare che su quel che facevanofuori scena non

si sappia nulla di certo. Mancano i documenti. La stessa cosa che

accade con Tex Willer e Kit Carson.

“la Voce”, 26 marzo 1995

Funo

Fumo.

Le comprocolfiltro, lo strappo (alle volte coi denti), e fumo.

Spargendotabacco. E disgusto. Hofattoscattare l'allarme

su un Jumbo, fumandonelcesso,

e ho negato, piangendotra hostess ferocie steward giganti, d’aver mai fumato. i Hoingannato, fumandosepolto nelletto dadieci coperte, i detectordi più d’un albergodilusso, e ho fumatoin pigiama,cacciato di casa, in ciabatte sul ghiaccio,all’addiaccio in un clima polare, mentrein cielo le stelle

38

FLAVIO BARONCELLI

scrivevan “vietato fumare”.

A ognitiro, lo sento, accorcio

di un micronanosecondo la vita di tutta la gente del mondo.

Inquino. Lo ammetto. M’inchino a chi accusa, a chi m’odia e disprezza. Capisco e acconsento:il fumo è fascista, e la vita dimezza. Dimezza,però,soprattutto la mia. Miuccido, permette? Invidio chi smette, ma io

mi ammazzo di fumo.

Lasciatemi andare. È il modopiù onesto per abbandonare un mondoovepare che l’unica cosa importante dafare sia romperle balle a chi vuole fumare.

“Vanity fair”, 10 marzo 2005

Gaffes Dunque, siamo razzisti o siamo tutti eccezionisti? Le spedizioni pu-

nitive contro i “negri”, gli zingari e i diversi in genere sonopiuttosto numerose,se si considera che siamoil Paese avanzato con meno immigrati. Non mancain Italia nemmeno l’antisemitismo, e questo è proprio grottesco, perché nonsi sa proprio comesi faccia

in Italia a diventare antisemiti, in quanto sono pochissimigli italiani che abbiano conosciuto di persona anche un solo ebreo; spesso la gente difatto frequenta degli ebrei, ma non lo sa nemmeno. E quindi si è quasi sempre antisemiti più o meno comesi potrebbe essere antimarziani, ossia senza avere avuto la minima esperienza

di contatto. Gli annunci «nonsi affitta a meridionali»li ricordiamo

bene, e non il caso di dimenticare che, almenoall’origine, le Le-

ghe erano sguaitamente antimeridionaliste. Emilio Fede,il 21 dicembre 1994,in attesa di un collegamento con la Camera, ha passato un quarto d’ora buono a urlare in diretta: «Masai! Masai!» per insultare un funzionario dello Stato che si chiama Massai. E

ALFABETO

39

nessunoharitenuto che valesse la pena di commentarela cosa. Pochi giornifa, a Quelli che il calcio, un ministro (non ricordoil no-

me)è sbottato in un secco «Questo negro mi interrompe!»,intendendoIdris. Dopo un po’, a causa di un pallone che a momentientrava in rete, lo stesso Idris ha urlato «Dio Cristo!» L'indomanisui giornali c'erano non pocherighe sull’esclamazione di Idris, ma non ne hotrovata nessunasull’uscita del ministro (o ex ministro, nonricordo proprio). C'è anche unalarga diffusione di un razzismo-anti-

razzismo paradossale, un’invenzione tutta nostra, consistente nel

dire «Io non ho niente controi negri, perché comunque sono molto meglio dei terroni». i Eppure c’è sempre qualcuno cheinsiste nel dire che in Italia il razzismo “vero” non c’è. Data unaqualsiasi forma di razzismo presente danoi, c’è sempre un modello straniero cui paragonarlo così

feroce, ma così feroce che il nostro risulta una bazzecola, uno

scherzo, e quasi una prova di benevolenza nei confronti dei diversi. A molti anziani pare di ricordare che nonfossimorazzisti nemmenoquandocivilizzavamo l'Africa coi gas. Secondo loro eravamo imperialisti e colonialisti, ma anchetolleranti, noi italiani brava

gente. Comesei razzisti dell’Alabama avessero i denti da Dracula

e nonfossero,invece, a prima vista, anche “brava gente”. Hoquiunalettera dove, comesi dice, “c’è tutto”. Fu scritta da

un popolano italiano che, negli anni trenta, lavorava in Etiopia. Ecconeun brano:

Comevedete mieicari in confrontoa tutti i benesseri due pulci si possono anche sopportare con rassegnazione, mi rincresce solo che mi fanno un po’ schifo a sopprimerle e questo perché vengono dai neri, mosche pochissime ma molto impertinenti perché i neri non se le mandanovia anche cinqueo sei per occhio e nonle sentono comedanoii buoi in campagna,quindise una si avvicina e viene scacciata nonsi da per vinta finché non ha capito che ha da fare con un bianco... Ciau sta benee ricevi una forte stretta e una morsicatina da portareil segno... Tutti i miei baci per te perché le nere fanno venirei denti brutti. Tuo tuo tuo XY.

L'autore di queste frasi sgrammaticate ma non prive di qualità letterarie era razzista o no? Probabilmente lui pensava di non esserlo, perché sicuramentein realtà difarsi venire i denti brutti ba-

ciando le etiopi non aveva alcuna paura. Risulta da altre lettere che la moglie a queste dichiarazioni di razzismo separatista non ci

40

FLAVIO BARONCELLI

credeva per nulla, e risulta anche che il nostro eroe nonfaceva alcuno sforzo per tornarea casa, e anzi operavain segreto perché la moglie non potesse raggiungerlo. Insommacoineri e soprattutto conle nere cistava bene. Era razzista o no? E sonorazziste le miriadi di “eccezionisti” che tutti quanti conosciamo? Cosa sono gli eccezionisti? Gli eccezionisti sono di duetipi; ci sono quelli che fanno eccezioni negative, e quelli che fanno eccezionipositive. I primi dicono «Io non sonorazzista, a me vannotutti benissimo», ma poiosservano,di vol-

ta in volta, che questo preciso individuo qui, quello che abita o la-

voravicino a loro e che casualmente è anche meridionale, o nero, o

magrebino, o gay, eccezionalmentefa proprio schifo. Solo che cia-

scun singolo, ai loro occhi, fa eccezione. È un po’ comedire, per

esempio: io non penso che la popolazione x sia, razzialmente o a causadella suastoria, più stupida di noi; osservo solo che difatto,

presiuno per uno,tutti gli individui appartenenti a quella popolazione sono, singolarmente, degli imbecilli. Questo è un atteggiamento che in qualche modo scimmiotta un qualche freddo ragionarescientifico, e al suo stato puro non è molto diffuso. Molto più numerosi sonogli eccezionisti positivi, coi quali si possono fondare anche movimentipolitici. Sono quelli che dicono:«i meridionali fanno schifo». Ma poi diventano amici, mogli, mariti, amanti,

buoni compagnidi lavoro, di tutti i meridionali che incontrano. Fanno un'eccezione dopo l’altra, e non viene loro mai in mentedi cambiare la regola. A prima vista, uno pensa di poterli guarire di colpo con un’osservazione come la seguente: «guarda che tu non odi i meridionali ma,a torto o a ragione,odile regole, le consuetudini, che secondote sonotipiche della società meridionale; sic-

ché smettila di esprimerti impropriamente». E invece non è mica vero. Perchéla loro è unastrategia più sottile. In generesitratta di persone che hanno, genericamente, pauradi essereinferiori. L'idea che esistano intere popolazioni di persone che per definizione sono più mal presedi loro li tranquillizza. Però poi incontrano Carmelo. Carmelo è bello simpaticointelligente laborioso. Comesi fa a negarlo? Nonlosi nega.Si fa un'eccezione. Ma perché? Nontanto perché Carmelo è quello che è, quanto perché l’eccezionista è così bravo;intelligente e generoso da essere capace di fare un’eccezione. Sicché Carmelo riceverà un buon trattamentoa causadelle generosità dell’eccezionista, che così stabilisce un rapporto di

ALFABETO

41

superiorità morale; e l’eccezionista ha anche dei buoni motivi per

sentirsi, oltre che buono, molto intelligente. Più di Carmelo.Diriflesso, siccomeabita nella testa ben saldamente a una personacosì

generosae intelligente come l’eccezionista, anche il pregiudizio contro i meridionali acquisirà nuovo prestigio. In sostanza:gli eccezionisti positivi non sonorazzisti, ma è tutto merito loro. Dunque: siamorazzisti o no? Se lo siamo, è giusto ammetterlo

e parlarne, oppure è meglio nonsvegliare il can che dorme? Larisposta alla prossima puntata.?

“Il Secolo XIX”, 12 novembre 1995 Hume Cara Silvana,

i

con tutta probabilità, la salute incerta mi impedirà di essere presente, e ormai miha reso definitivamente impossibile preparare unarelazione. Però voglio che tu sappia quanto il tuo lavoro è stato importante per me. Cosìti scrivo questalettera.

Pare che sugli scaffali irraggiungibili molti abbiano messo Marx, Lenin, e compagni. Invece io ci ho messoi libri su Hume. Compresoil tuo, compreso il mio. E Bagolini, e tutte quelle tue belle rassegne bibliografiche. Non perché Hume non miinteressi più. Al contrario. Econo-

misti, filosofi analitici, scienziati politici continuamente scoprono

nei suoi testi nuovi modelli, nuovi schemi, nuove “leggi” da adottare e da criticare. Una scusa per rileggerne qualche pezzo non manca mai.

È che quandoguardolassù e vedoil dorso giallo (vecchia Nuova Italia) del mio libro mi vengonoin mentegli errori, le occasioni sprecate,gli infantilismi di quel lavoro che pure non rimasesconosciuto, e per la carriera fu utilissimo. Dovrei riscriverlo, anziscriverne un altro. Lo avrei anche in mente. Però, vedi, non hola for-

za nemmenodi arrampicarmi per riprenderli in mano,i nostrilibri, al fine di dare un po’ di precisioneai mieiricordi. Forse è più giusto così, è bene che mibasisulla mia debole memoria. Non c’è bisogno cheio ti racconti dove e comenel miolibroti copiai, e dove midistaccai. I tuoi punti di disaccordo, quan-

42

FLAVIO BARONCELLI

do ci serviva parlarne, li sapevamo perfettamente:30 anni fa meli spiegasti con dolce, paziente chiarezza. Le cose che voglio raccontarti oggi, invece, credo non ti siano

note. E sono più rilevanti, per me. Si tratta dell'importanza vera, essenziale che il tuo libro ebbe per l’esistenza stessa del mio e, quindi, per tutta la mia esistenza.

Sicché ti devo raccontare un po’ della miavita. Devo incominciare proprio dall’inizio, dai tempiin cui l’università italiana sembrava una cosa seria perché i professori, per una buona metà ignoranti, non aggiornati e — per fortuna — incapacidi qualsiasi gesto didattico efficace, andavanoin giro con l’aria tronfia e trattavano male gli studenti. Iscritto a filosofia, rubacchiavo dei 30 e non imparavo quasi niente. Se poi una materia miinteressava, e cercavo dicapire e di informarmi, quasi sempre prendevo dei brutti voti. Ero piuttosto infelice, camminavorasente ai muri.

Poi, inaspettatamente; siccome mi piacevanoil programmae lele-

zioni(si intravedeva,alla buonora,cheesiste il mondo,e la morale,e le

religioni dei popoli, tutte cose che poi sono sempre, anche,politica) studiai serissimamente per l’esame di Crippa. Mi interrogò per un’ora

e alla fine mi diede un bel voto. Finalmente, nei miei studi si verificò

un rapporto di causaed effetto onorevole per me,e per il docente. Poco dopobisognavachiederela tesi, e uno che sapevale cose mi spiegò che se volevo imparare a lavorare comesi deve, senza però ricavarne alcun vantaggio per un’eventuale carriera, insomma se ero serio e masochista, potevo chiederela tesi a Crippa. Siccomeerariuscito — cosa inaudita — a farmi lavorare sul serio,

RomeoCrippaera l’idolo di mia madre,la quale nell’occasione dichiarò che potevo anchechiederela tesi a un altro, però in questo casosarei diventatoun fallito. Chiesi la tesi a Crippa. Venne fuori che si ricordava di me, e che in quell’ora di interrogazione aveva capito un saccodi cose,persino che ero più portatoa fareil pittore e, forse, lo scrittore. Visto

però cheeroafflitto, comedisse lui, da «unaseria urgenzaveritativa», avrei dovuto armarmidi molta pazienza. Faticando parecchio

forse avrei anche potuto capire qualcosa di filosofia. Mentii, dicendochela fatica non mi spaventava,e gli spiegai che volevo un argomentoche si accompagnasse bene alla mia voglia di combattere peril proletariato. Escludevo Marx, troppo impegnativo.

ALFABETO

‘43

Michiese tempo per pensarci, e dopo qualche giorno mi diede quattro libroniin inglese, sua proprietà personale. Era l’opera omnia filosofica di Hume: «Lo legga direttamente e si faccia le sue idee, se poi davvero farà la tesi su Humelaletteratura secondaria dovrà studiarsela tutta, ma in seguito». Aggiunse che dovevo farmi dare in biblioteca la biografia del Mossner. Altri cinque seichili di carta. La fatica prendeva da subito a farmi male, e incominciava dalla schienae dalle braccia. Sein via delle Fontane non mibuttai sotto un autobus fu proprio perché non misentii in diritto di suicidare anche quei volumibenrilegati, che mi aveva consegnato personalmente un gentiluomoil quale si occupava seriamente di me, anche se, a mio parere,voleva trasformarmiin un reazionario. Avevosentito dire che, secondo Galvano

Della Volpe, Humeera conservatore perchéerascettico. In più, preparando l’esamedi storia con due amici, negli intervalli tra le partite a scacchi e quelle di biliardo ci eravamo accapigliati su Locke e Hume, e io avevo parteggiato per Locke.In realtà stavamo contrapponendo De Ruggiero ad Abbagnano, ma ne eravamo inconsapevoli. Di Humevisto dal vero mi innamorai, e dimenticai di chiedermise fosse più o menoreazionario. Per ignorante e comunista che fossi, l'immersione nella complessità di quella filosofia e di quella personalità mi tolse ogni tendenza a chiedermi, come invece era

d’uso presso parecchia intellettualità di sinistra, se si poteva dare la

tessera del partito a Rousseau, a Hume, a Kant o a Pascal. Quella

attribuita a Della Volpe mi sembrò improvvisamente una risposta arzigogolata a una domanda senza senso. In seguitoli lessi, quei due autorevolissimi volumi(o erano tre?). Non capii dove volessero andarea parare e daallora, ogni voltacheli trovai citati col no-

medell'autore reso messicano, e con due errori per parola nel testo (peggio chein quelle citazioniin italiano che Joyce mette in bocca ai suoi personaggi per prenderli in giro), mi sembrò che essere menzionato a sproposito da gente che non sapevaaffatto l’italiano fosse un onore che quellibro aveva ben meritato. In compenso, miveniva naturale condividere con Marx un ri-

spetto profondoper quegli intellettuali che non erano bassamente ideologi al punto da far finta che con quattro colpidifilosofia si potesserorisolvere tutti i conflitti insanabili della società, rendere universali le cose parziali, fabbricare un’unica moraleperi ricchi e per i poveri, e cosìvia.

44

FLAVIO BARONCELLI

Humeera proprio uno di quelli, anzi nel Settecento ne erail prototipo. La sua capacità di osservazione era infinita, e aveva un’intelligenza immensa. In più, come sponsordise stesso,e delle sueteorie, era un disastro. Mi identificavo con quel suo modo sofisticato, sottilmente dilapidatorio, di risultare, in definitiva, indi-

feso e autolesivo. Eppure, mi pareva perfino che fosse più intelli-

gente di Marx. Che lo battesse in umorismo e ironia, non avevo

dubbio alcuno. Ognivolta che rileggevo un passo,ci trovavo delle cose che prima mieranosfuggite. Micapita oggi ancor più di allo-

ra, anche perché sono un pochino menoignorante. Crippa mifece scrivere una cosa che chiamò quid senserim, e leggendola si confermò nell’idea che avrei dovuto fare il pittore (avevo sul serio un bel talento peril disegno, avrei potuto diventare un discretoillustratore di Tex Willer, però non so comeil professore fosse arrivato a intuirlo). Tuttavia, se proprio mi impegnavo, potevo anchefare unatesi su Hume. Insomma: per quanto lo riguardava,la tesi era assegnata. Miinsegnòa farele schede,e poifece altre due cose importanti. Midiede lo Humestorico e politico del Giarrizzo, intonso ed

elegante al punto da mettere soggezione. Era della biblioteca e guaise lo avessi sottolineato. E per la prima volta mirivolse una specie di ordine chein seguito, per circa un lustro, reiterò molto spesso: dovevo frequentare il vostro istituto. Qualche tempo doporitenni di potermi permettere di scherzare su quella sua mania. L'Inquisizione non sarebbe stata molto contenta dilui, visto che da quelle parti c'erano solo dei miscredenti, anche se lui mi diceva «vada da Bagolini». Luisorrise e finse di sorprendersi quandogli “rivelai” che Bagolini, suo amico(ecattolico sui generis, se possibile, ancor più dilui), noninsegnava più a Genova da parecchianni. Giarrizzo miriportò sull’orlo del suicidio, e questa non è un’iperbole. La sua erudizione era un modello che non avrei potuto raggiungere nemmenoin dieci vite. Sembrava che fosse stato lui personalmente a stenderei verbali di tutti i parlamenti inglesi dal Seicento all’Ottocento. Dava anche per scontato che Humecondividesseil suo spasmodicointeresse per la politica intesa comelot-

ta intra e inter partitica.

i

Se le cose stavanocosì, io non c’entravo e non volevoentrarci. Mac’era qualcosa di ancora più grave. Dovevo arrivare a fare le

ALFABETO

45

schede, punto centrale del mio processo di iniziazione, e quelle

pagine erano infarcite di cose che per me eranotutte nuove,e tutte ugualmente degnedi essere rammentate,visto che il senso generale non lo capivo. Però non potevofare delle schede lunghe come il libro. Allora credetti di poter imitareil mio relatore, senza chiedergli lumiulteriori. Neilibri che stava leggendo, Crippa infilava dei pezzi di carta

grandi comefrancobolli, riempiti di una scrittura minutissima, che

poiriusciva a leggere applicandosii foglietti sugli occhi. Ecco la soluzione, pensai. In ogni pagina del Giarrizzo mettevo anche più d’uno di quei pezzi di carta troppoesigui. Scrivevo con la matita a punta dura per riuscire a riprodurre la microscopicità della scrittura del mio maestro. Era evidente che, al contrario di lui, io non sarei mai riuscito a decifrare i miei scarabocchi, ma andai avanti

con quellafollia fin quasialla fine del libro, perché ormai ero depresso e incapace diriflettere su qualsiasi cosa.

A ventipagine dalla fine Giarrizzo, ormai cilindrico, rotolò sul

tavolo, cadde,e i foglietti furono comenevesu tutto il pavimento della camera. Seppure svuotato,il libro rimase oscenamente gonfio, come un pesce arenatosulla spiaggia da una settimana. La sua eleganza di pochi giorni prima era perduta. Per sempre. Miresi contocon orrore chesuifoglietti non c’erascritto il numerodella pagina. Questo era un difetto reso innocuodal fatto che comunquesitrattava di robailleggibile, ma io noncifeci caso e mi disperai sul serio. Anche trovare in commercio unacopia del Giarrizzo per rimediare almeno a unafrazione del malfatto risultò impossibile. Per qualche giorno in via Fontane camminai giù dal marciapiedi, accanto agli autobus, sperando che unodi essi si producesse in una scarrocciata improvvisa, e mitogliesse dai guai. Nella selva della letteratura secondaria c'erano, ovviamente, molte cose buone. Ancheil libro di Giarrizzo, del resto, a suo mo-

do era un gran libro. Il problema era un altro: raramente trovavo riscontro agli interessi che la lettura diretta mi aveva suscitato. Sembrava obbligatorio chiedersi se Humeavesse letto Berkeley, se

fosse coerente, se sua madre lo giudicasse scemoo furbo;esi do-

veva prendere parte sulle tesi di Kemp Smith, e sul famoso rapportotra trattato e ricerche, che poi per i discontinuisti era anche il rapportofra duetipi di filosofia. Tutti, allora, seguivano la nuo-

va moda: ammettevano che la morale era importante, molti si

46

FLAVIO BARONCELLI

profondevanoin riassunti, ma pochipoi cercavano di spiegare dav-

veroin che cosa consistesse quell’importanza.

A me sembrava che Hume,in tutto il Trattato, avesse composto

un grandeaffresco della sua società, scienzae filosofia comprese, e chela suafilosofia, dal primo all’ultimolibro, servisse a costruire

un modello di uomoe di rapporti tra gli uomini tale da spiegare come e perché la macchina sociale, e la morale come parte integrante dei rapportisociali, funziona, quando funziona. Con la consapevolezza che spesso non funzionaaffatto bene, e, dopo il Trattato, un conflitto psicologico tra la voglia di dirlo chiaro e tondo e la tentazione di nasconderlo, almenoai lettori che non leggonoattentamenele note e non capisconol’ironia. Le sueoscillazionitra i due partiti e tra agnosticismo e deismo, poi, non mi sembravano veri problemi: lui era ovviamente un agnostico, e uno che teneva per la modernità e per la rivoluzione scientifica; ma proprio per questo badavaaglierrori della sua parte ancorpiù chea quelli della parte avversa. Perla tesi, comunque, non ci furono grandi difficoltà; scrissi

ciò che pensavoe in notacitai tutti quanti fingendo chein ciascunoci fosse qualcosa di buono. Il lavoro fu molto lodato dai correlatori. Crippasi limitò a non criticarlo. I guai vennero quandositrattò di passare al libro. Per movimenti tettonici dell'accademia genovese assolutamente imprevedibili pochi mesi prima, ero già assistente, ma c’era un impegno d'’onore con Crippa: se non fossiriuscito a scrivere una cosa un po’ori-

ginale, mi sarei dimesso. Approvavo quelpatto con tutto il cuore. Ero sommerso da una profondainsicurezza, figlia di un isolamento causato dalla timidezza. Inventavo la storia sociale della Gran Bretagnaa partire dai romanzi, dalle poesie, dai trattatelli di economia, dai sermoniche alludevanoal poor. Ci azzeccavo a me-

raviglia, ma lo seppi solo dopo, perché allora gli studi sull’argomento erano pochi, e a me mal noti. Se trovavo qualche conferma al mio mododi leggere Hume secondoun interesse etico e politico, nonscandito dalla quotidianità della vita dei partiti inglesi, era

sfumata, periferica, indiretta. Quantoa originalità, quindi, me ne

attribuivo fin troppa. Un lettore attento potrebbe capirlo da certe notein cui cito con rispetto tesi opposte alle mie. Perfino un passo di Giulio Preti dove lui dice che l’uomo descritto da Hume è astratto. Per me quella di Humeera psicologia e sociologia di pri-

ALFABETO

47

missima classe, ma tutti citavano quel passoe lo feci anch'io. Preti mi sembrava uno moltointelligente, e su questo non misbagliavo. Però ero davvero ingenuo: non midiceva nulla il fatto che, bravo com'era, fosse ancheil tipo capace di pubblicare il Discorso sulla disuguaglianza senza le note di Rousseau. Segno sicuro del fatto - capii solo più tardi — che, a maggior ragione, nei meandri della dinamica delle passioni di Hume non doveva avere soggiornato molto a lungo. Insommaerosu una specie di mongolfiera impazzita e, perrallentare la corsa, mi attaccavoa qualsiasi ramo, ogni volta colrischio difarla rovesciare. Fuin questa deplorevole condizione che primail libro di Bagolini, e poiil tuo, divennero decisivi per darmiil coraggio di andare avanti. Per la precisione, già durante la preparazione della tesili avevo trovati consoni alle mie tendenze, e ben presto, suppongo, divenne impossibile distinguere tra ciò che avevo intuito per mio conto e quantoavevoassimilato davoi. Di sicuro, ricordo che sul punto di andare dal Capoa dirgli che rassegnavole dimissioni,rilessi sia te che Bagolini, e mi rimisi al lavoro. Bagolini metteva al centrola giustizia. Bella forza,si dirà: era un giurista. Sia comesia, anch'io pensavo che quello fosseil centroe il bancodi prova — terribile — della riflessione etica e politica del nostro autore. Bagolini, abituato a ragionamenti più lunghie più rigorosi della grande maggioranzadegli storici della filosofia, ricostruiva il funzionamento del modello di comportamentoetico humiano prendendoi testi dov'erano senza farsi sviare dai titoli dei

vari libri; e poi, con Humee ancheal di là di Hume, vedeva se

quella macchina (non un generico “sistemafilosofico”) riusciva a

funzionare. Fin qui, tutto bene, anche perché, comerisultava an-

che a me — sia pure per motividiversi — la teoria della giustizia pareva non funzionare a dovere. Solo che poi Bagolini diceva chesi trattava di un errore teorico di Hume. Bastava correggerlo con Kant, anzi (ricordo bene?) con Pantaleo Carabellese; in quel modo, rimanendola società tale e quale, tutto si metteva a funzionare a meraviglia. Era un vizio di moltifilosofi della sua generazione.Il vero problemadella filosofia occidentale era chei classici non avevano frequentatole loro lezioni, o quelle dei loro amici. Oggiio ho qualche sospetto che Bagolinivolesse anche fare un po’il verso a queisuoicolleghi. Molti anni dopo, e molti annifa, nel ristorante di un albergo di Sanremo,

48

FLAVIO BARONCELLI

durante una magnifica lunga serata con Bagolini chesi divertiva a confessarsi con me, gli esposi questo mio dubbio. Non confermò e nemmenonegò. Forse anche lui aveva dei dubbi. Di sicuro non si offese, e ricominciò a raccontarmi dei molti modi in cui, nei con-

vegnie nelle riunioni, prendeva apertamentein giro certi colleghi che erano troppo presuntuosi per rendersene conto. Però nei primi anni settanta per me Bagolini era “solo” un insigne studioso la cui fama spaziava dalla Scandinavia al Sudamerica; che fosse bravo, lo potevo constatare di persona;e quindi non avevo alcun marginedi libertà, rispetto a quei farmaci kantianifatti ingoiare a Hume. Forse era vero. Forse bisognavafar leggere Cara-

bellese a Hume. Forsesi faceva così. Forse si doveva fare così. In questo caso, però, io ancora una volta non c’entravo, non ero ca-

pace di adeguarmia quelle norme. Per questoil tuo libro fu di capitale importanza. Come mi sembrava giusto fare, tu ricostruivi con perizia instancabile i ragiona-

menti di Humesulla società. Le tue curiosità, le tue preoccupazioni,

erano davvero,per una volta, molto simili alle mie. Non miazzardavo a cercarti per discutere con te, matisentivoaffine. Lafilosofia del diritto sconfinava felicementenellafilosofia politica, e io mi sentivo a casa perché,in sostanza, per me quello era un libro socialista. Ma il tuo socialismo nonsi risolvevanel fare l'esame a Humeper vedere se meritavala tessera. Anni dopo, facendo unarassegnadi studi humiani, Dal Pra, che di Humese ne intendeva, mi dedicò poche parole madisse una cosa importante:il mio Humeeravisto in unaprospettiva marxista. Nonso cosa intendesse esattamente. Forse voleva

dire “pesantemente” marxista. Poco importa: spero che intendesse, comunque,la stessa cosa che io intendevo quando pensavo del tuo

libro che erasocialista. Era unachiave,il socialismo del lettore, per

capire problemi che Humeaveva sul serio, che gli occupavano la mente. Che lui fosse fedele alla classe dei proprietari quanto lo era stato Cicerone non v’erano dubbi, ma questo nonerail punto. Sotto i fulgori intellettuali della sua infinita ironia c’era, perché c’era intornoa lui, e c’è semprestato sotto diversi nomi, il “problema socia-

le”. Così,almeno,io ti interpretavo, anche se in questo momentotemodi.ricordare, vagamente,che tu nonfossi del tutto d’accordo su

cometi leggevo. Comunque,eri un modello che mirincuorava; e se Crippa, che nei confronti della letteratura secondaria sapeva essere anche ipercritico, mi mandavainsistentemente da voi sapendo be-

ALFABETO

49

nissimo chi avrei trovato, allora mi potevo fidare. Si poteva, insomma,fare così. Anchese fuori Genovanessunoci aveva provato,visto

che chiaramente gli unici esempidi tanti anni prima apparentemente affini erano commoventi, ma da evitare con cura: qualche volenteroso che aveva fatto di Humeunaspecie di presociologo comtiano e, “quindi”, una specie di presocialista.

In più, tu scrivevi molto bene. Scrittura analitica, sì, ma con grazia. Ne fui rovinosamente incoraggiato a non dare retta a Crippa, che miinvitava a trattenere il mio talento letterario. Andai molto oltre la misura che invecetu tenevi, ed ebbi torto. Viano midis-

se cheil mio libro «si leggeva da solo», ma non lo proposeall’Ei-

naudi. Bobbio, più tardi, disse a Tarello che era un buonlavoro,

matroppo benscritto. Adesso so perfettamente che avevano ragione loro, perché gli effetti sono sempregli stessi, perfino quando scrivo sui giornali. La gente dice «oh comescrive bene», ma perde quasitutte le complessità dei ragionamenti, a meno che non mirileggatre o quattro volte, cosa parecchio improbabile.Il fatto è che se la scrittura analitica la rendi troppo elegante, rimane un’aura di semplicità, ma i ragionamenti tendono a rimanere nascosti.

Ecco. Comedisolito giustamentesi precisa, sei una causa importante dell’esistenza del mio libro, e della mia permanenzanell'accademia, ma non hai nessuna responsabilità dei disastri da me compiuti.

Nonposso ritenerti nemmeno responsabile di una mia colpa vergognosa davvero di cui, pure, sei La Causa principale. Il professor Crippa smise di occuparsi delle novità humiane perla biblioteca di Filosofia. Era diventato, ovviamente, un mio compito.

Matu aggiornavi così tempestivamente e con scelte così perfette la vostra biblioteca, che io avrei dovuto semplicemente copiarelalista dei tuoi acquisti. Me lo proposi spesso manonlo feci mai, perché nonnesentivoil bisogno. Studiavolì davoi.

Risultato: chi, con occhio esperto, osservasse gli scaffali della biblioteca del mio dipartimento, ne ricaverebbe la certezza che, dai primi anni settanta, nessuno in quelle stanzesi è più occupato

di Hume.È unaspecie di auto darznatio memoriae che merito ampiamente.

Ti abbraccio

Flavio Baroncelli

Genova, 26 settembre 2006

50

FLAVIO BARONCELLI

Tftar' Islamico per caso nel Ramadan. Non ho maicapito perché rispetti-

no il Ramadan anchei noncredenti, o i credenti che non vanno in

moschea e non pregano quasi mai. In Italia, nessun turco, nessun marocchino è mai riuscito a spiegarinelo. Dopo una dozzina di giornivissuti a Istanbul in tempo di Ramadan,forse non hotrovato delle motivazioni chiare e razionali, ma in compensola cosa mi

sembra del tutto naturale. Ogni notte, molto prima dell’alba, dei tizi girano per le strade

battendo colpi ritmati sul tamburo. Svegliano tutti, naturalmente,

ed è proprio l’effetto che vogliono ottenere. Ognitanto,di giorno, suonanoalla porta e chiedono una ricompensa per avermi dato un servizio, ossia l'opportunità di sfruttare gli ultimi minutiin cuisi può bere e mangiare. Così incominciano a Istanbul tutte le giornate del mese di Ramadan (0 Ramazan, comelo chiamanoqui). Svegliato da quei matti così antichi, così rurali, vado in giro per questa modernissima ed efficiente metropoli prendendodieci tipi diversi di mezzi pubblici con un'unicatessera elettronica, e cerco i segni del Ramadan.

Lestradesonoaffollatissime comeal solito, e piene di un’attività

quasi isterica, ma neiristoranti ci sono pochiturchi; alcuni locali

particolarmente tradizionali sono chiusi, ma ovunque occhieggia unaparola che non avevo mai visto:iftar. Sono in mostradei cibi che non conoscevo:delle stupende focacce e un dolce bianco, leggero comeun sorriso,il g//ag. Piaccionoa tutti, main altri periodi nonsi fanno. Immagino che avrò incominciato a capire qualcosa quando non micapiterà più di pensare che questo sia un controsenso. Circa un’ora prima del tramonto, incominciano a vedersi ovun-

quesegni di agitazione. Tutti hanno in mentesolo l’;ftar, il pasto che rompe il digiuno. Ovunqueper le strade corrono ragazzi portandovassoipieni di cibo e grandi pignatte di zuppabollente,e poco pervoltati accorgiche le occupazionidi ogni giorno interessano sempre meno,l’eccitazione aumenta,e con essala voglia di scher-

zare, di ridere. Chi può lascia il lavoro, chiudeil negozio e corre a casa per fare l’;ftar in famiglia. In genere, le famiglie di parenti, di amici, di vicini, si invitano a vicenda:la famiglia si riunisce ma, se

può,si apre,si allarga. Nelle piazze principali ci sono degli enormi tendoni, dove a spese delComunesi prepara l’;ftar per centinaia di

ALFABETO

51

persone, e lì davanti si formano code lunghissime. Oggi,tra l’altro, è anche un giorno di festa nazionale,e la città è piena di bandiero-

ne e bandierine rosse, con falcetto di lunae stella. Mi pare un’im-

mensafesta dell’Unità. Il cibo è gratis, e naturalmentein codaci sono molte persone male in arnese, ma anche gente che nonè affatto povera, gente che ha motivi suoi per scegliere di rompereil digiuno in quel modo. Mi diconoche quella particolare chorb4 (zuppa) che si fa—ovviamente — solo in Ramadan è buonissima,e l’odore sembra confermarlo. Domani cercherò di ricordarmi di digiunare, e poi mi metterò in fila anch’io; o forse avrò il mio iftar nel cortile di una moschea, perché anchelì si allestisconotavoli, e tutti sonoinvi-

tati. In un caso, hovisto prepararei tavoli addirittura dentro la mo-

schea, e c’era un gatto molto interessato alla cosa. Fece tante fusa che alla fine anche lui ebbeil suo #ftar, e mangiò serenamente un

piatto di formaggio, mentre a due passi da lui un vecchioreligioso col barbone, accoccolato vicino a una vetrata del Cinquecento,leg-

gevail Coranonella luce del tramonto. Il Ramadan più forte di tutto, è capace perfino di cacciare il dio del commercio dal suo proprio tempio.Il grande bazar coperto, il mercato più grande del mondo, un’ora primadell’iftarè irriconoscibile. Clienti turchi nonce nesonopiù, e nonti fila nessuno; puoigirare senza chei negozianti ti chiedano,petulanti,se sei greco o spagnolo, per poi svelarti che a Genova, guarda caso, hanno

un sacco di amici. Quelli che non stanno chiudendoil negozio a

rotta di collo, improvvisano grandi tavolate coi colleghi, e intanto i soliti ragazzotti portano di corsa ogni ben di Dio. Si seggonoa tavola con dieci minuti di anticipo, e chiacchierano, maconle orec-

chie tese. Appenail muezzin comincia a cantilenare, si mettono a

mangiare; però riescono, non so come,a farlo con calma,con di-

gnità. Non ho maivisto nessuno abboffarsi come farei certamente

io, senza pudore e senza un minimodi rispetto per mestesso e per

il santo Ramadan.

No,non sonopronto per il Ramadan. Il Ramadan è unafesta di popolo che coinvolgetutti, anche gli infedeli e i fedeli poco o nulla praticanti; ma non perde mai la sua animareligiosa. Abbiamo chiesto a un panettiere comefacesse, in mezzoa tutte quelle profumatissime tentazioni,a rispettareil digiuno. Ci harisposto: «È Allah stesso che mi chiude la bocca; io cosa posso fare?» “Il Secolo XIX”, 1° novembre 2005

52

FLAVIO BARONCELLI

Laici E se Oscar Luigifosse coerente? Comepresidente della Repubblica, personalmente avrei preferito Mustafa Kemal Pascia Atatiirk. Ma miconsolo, e vorrei consolare anche molti amici che stimo molto,

i quali sono depressi perché abbiamo un nuovopresidente che non

nascondeil suo fervente cattolicesimo. Ammetto chela cosa, alla

lunga,rischia di diventare un po’ noiosa. Anche Pertini era noioso quandorecitava ogni giornola parte dell’ex muratore. Ma non è la noia il problema dei miei amici, i quali sono convinti che sia impossibile, per uno che cita continuamente la Madonna, comportarsi come un buon presidente di uno Stato laico. Non so se Scalfaro sarà un buon presidente; ma non vedo nulla di necessariamente pericoloso nel fatto che abbiascritto libri sulla Madonna e sugli annunci di Fatima, o che chieda spessoe volentieri l’aiuto di Dio.Se le preghiere possono “dargli morale” nell’affrontarei difficili doveri di un buon presidente di uno Stato laico, per me ne può dire fin che vuole, e quando vuole.

Eppure le preoccupazioni dei miei amici sono comprensibili; sentono Scalfaro enunciareteorie attendibili sulla laicità dello Stato, maun attimo dopogli sentono dire «certe cose le capiscono so-

lo la Madonna, e la mamma»; e così, anche ammettendoche abbia tutte le intenzioni di essere un presidente “laico”, pensano che,se

riuscirà a esserlo, vorrà dire che avrà compiuto ogni(santo) giorno

acrobatiche, miracolose incoerenze, al limite della schizofrenia. E

questo li preoccupa, perché ritengono chesi tratti di una “doppia vita” insostenibile. Non pretendonochesi escludanoi cattolici dalla presidenza; sanno che ci sonotanti cattolici in questo Paese, e che anche(se non soprattutto) un presidente laico ne dovrebbe comunquetenere conto. Solo che, dicono,se proprioci vuole un cattolico, allora è meglio un cattolico meno devoto. Il fatto è che, dall’esterno del mondocattolico, comedall’ester-

no diqualsiasi cultura, non si capisce molto di quel che avviene all'interno, e questo soprattutto perché si immaginache la gente che vive là dentro debbasentire il dovere di adattarsi a schemidi coerenza che sono quelli che noi, dall’esterno (senza conoscere bene nemmenoi principi con cui si dovrebbeessere coerenti) pensiamo che adotteremmo,se fossimoall’interno. Decidiamorispetto a cosa gli altri dovrebberoessere coerenti, e intendiamo la coerenza co-

ALFABETO

53

me un comportamento goffamente, stolidamente rigido. Nel caso dei cattolici, tendiamo a pensare che l’unico tipo di coerenza sia quello di chi cerca di fondare uno Stato teocratico. Preferiamo, ovviamente,i cattolici tolleranti ma, se un cattolico si dimostratol-

lerante, tendiamo a pensare che lo sia perché èpoco cattolico, e magari un po’ protestante. Questo è proprio quanto hanno sempre

cercato di dimostrarei cattolici intolleranti o, comesiusa dire og-

gi, “fondamentalisti”. È una concezione del tutto strumentale ed

esteriore della coerenza religiosa, ed è stata forgiata soprattutto per scopi polemici; ma è così facile e appare così ovvia chei laici tendonoa farla loro. I filosofilaici del Sei e Settecento sapevanobenissimochei protestanti non erano affatto, da un puntodivista dottrinale, più tol-

leranti deicattolici, e che la (relativa) maggiorelibertà religiosa esistente in paesi come l'Olandae l'Inghilterra era dovutaa partico-

lari vicende storiche, ed era affidata alla forza e alla-prudenza del

“magistrato civile”. Manoi ce lo siamo dimenticato, e quindi da un cattolico tollerante ci aspettiamo che non faccia molto casoai santi e alle madonne. A suondilogica, capita anche che, quando veniamoa sapere che in alcune culture cristiane noncattolichei fedeli credono che Dioli abbia dall’eternità già destinati all’inferno o al paradiso, e che quindinoncisia più nientedafare, ci stupiamo che non decidano, per questo, di darsi ai piaceri più sfrenati. Per motivi molto simili, certi religiosi pensano ancor oggiche deilaici non ci si possa mai fidare. Secondoloroi laici, se sono coerenti,

non debbonoaverenéfreniinibitori, né rispetto peri patti; ma ovviamente questo significa solo che queireligiosi immaginanodise

stessi che, se non credessero cheesistonoil paradiso e l’inferno,allora sarebbero coerenti, e incomincerebbero subito a rubare galli-

ne e a rincorrere la perpetua. L'assegnazionedi criteri esterni di coerenza (e relativa incoerenza, naturalmente) alla gente diversa da noi è uno deisistemi. più sicuri per fare previsioni e anche ricostruzioni storiche sbagliate. Qualche volta capita che un gruppo adotti davvero un criterio di coerenza dottrinale e comportamentale che anche dall’esterno sembra perfettamentein ordine con la logica; masitratta di casi sciagurati. Voltaire racconta di una piccola setta danesei cui adepti volevano produrre il maggior bene possibile peril loro prossimoe, sapendoche tutti i bambini che muoiono subito dopo il battesimo

54

FLAVIO BARONCELLI

vannoin paradiso, «andavano sgozzandotutti i bambinie le bambine chepotevanoincontrare». Voltaire racconta l'episodio nel Trattato sulla tolleranza; ne cutò nel 1949 un’edizione quel Togliattiil quale, riponendo ogni fiducia soltanto nel marxismo, per coerenza avrebbe dovuto ignorare o condannare Voltaire e tutto quantol’illuminismo, come fanno ancor oggi molti intellettuali più o meno imparentati con Marx. Ma Palmiro nonha fatto così. Per UgoIntini Togliatti, dato che giustificava Stalin, e credeva nel comunismo, non

può coerentementeessere stato un protagonista della formazione di uno Stato passabilmentelaico e tollerante in questo Paese; e i comunisti, in genere, non possonoaverlottato perle libertà democratiche. D'altra parte, chi vuole affermare l’importanza di Togliatti come democratico tendea fare l'operazione inversa. Finché arriva lo storico Andreucci(ve lo siete già dimenticato? Quello della lettera sui pri-

gionieri italiani in Russia!) che, tramite sopraffine operazioni di alta filologia, scopre che Togliatti, inteso come Palmiro, era “doppio”. Colpa del Camarlinghi editore che, per toglierselo di torno, gli pagavai viaggi a Mosca,si dirà. Masoprattutto colpa del suo maestro, il Ragionieri, il quale si dimenticò di dirgli che uno,per studiare Pal-

miro, dovrebbe interessarsi anche un po”, che so io, di Alcide, di Winston, di Franklin Delano, di Charles. Così facendo,l’Andreucci,

che (anchese la cosa da parte sua può sembrareincoerente) è un ragazzo intelligente e simpatico, si sarebbe prima o poi accorto che, delle due l’una:o i politici son tutti “doppi”, e allora non vale la penadi ridirlo per ciascuno di loro, oppure sono anchegli occhiali con cui li si studia che fanno vedere doppio. 7 giugno 1992

Motocicletta Samsun, Anatolia. Abbiamo dedicato diverse serate alle chiacchiere su questo viaggio, rompendole scatolea tutti coi nostri progetti, coi

ricordi di Turchia del viaggio precedente,e con le carte geografiche aperte sui piatti del dolce. Eppure ho sempre continuato a considerare soltanto come eventuale questa partenza. I viaggi in motoli considero sempre un po’ precari, e mi piacerebbe partire senza che nessunolo sappia, come quandosipassain silenzio sotto le case andando per funghi, in modoche,se si ritorna senza avere trovato niente,

ALFABETO

55

nonsi deve rendere conto a nessuno. Ogni volta il mio presupposto è che succederà qualcosa che mi impedirà di partire; se poi non succede, è tanto di guadagnato. Ciò vale per ogni tipo di appuntamento: sono sicuro che qualcosa andrà storto, che qualcuno non ha capito l’ora o il posto. Poi, quando vedoarrivare la gente, mi stupisco e sono felice, come il cane quandotorni a casa dopodieci minutie lui ti fa le feste comesefossi Ulisse in trasferta da vent'anni.

Bruno arriva come una bomba,saluta, scende e subito si mette a

trafficare nell'impianto elettrico senza nemmenotogliersi il casco; mi chiede una chiave da non so che numeroe un po’ di nastro; c’è qualcosa di precario da rendere solo leggermente menotraballante. Io da stamattina alle cinque appena alzato (non “appenasveglio”, perché, comeal solito, non ho dormitoperl'ansia) mi sono messo indossole

cose da viaggio e, quindi, ho caldo, sudo, misentola pelle grigia di sigarette e di sonno. Come sempre, non ho ancoradeciso se partire quasi alla tedesca o optare peril nostro consueto motociclismo dal volto umano. «Quasi alla tedesca» vuol dire che uno fermacongli appositi attacchile valigie, il bauletto e la borsa da serbatoio; così almeno la moto è elegante: per sembrare davvero un motociclista tedesco mancasoloil fisico e la tuta di pelle nera.I più ipocriti riesconoa far credere che a loro non è nemmeno mai venuto in mente che gli attacchi delle borse possano schiantarsi a 150 all’ora. Il motociclismo dal volto umano invece comportadi lasciare sfogare le proprie ansie, legando tutti gli accessori con degli elastici multicolori(si comprano sempreuno per volta, ogni volta in emergenza) per paura chegli attacchi di fabbrica non tengano.Alla fine la moto sembra avvolta in una di quelle reti per fare la spesa che usavano unavolta.

In genere io parto quasi tedesco, mi macero nella preoccupazione

per qualche chilometro, e alla prima sosta mi converto al volto uma-

no. Quest'anno di diverso c’è che hoinvestito alcune migliaia di lire

in vere cinghie da portabagagli, quelle che scorrononella fibbia; sono più comodedegli elastici, e non hanno ganciche tentino ogni volta di strappare gli occhi alla gente. Le ho messee tolte decine di volte, nascosto nell’afa del box,per tutta la giornata di ieri. Decido di usarle subito; almeno eviterò di guardare ogni dieci secondi nello specchietto retrovisore se c'è ancorail bauletto. Certo, se avessi in-

vestito diecimila lire tutte insieme, adesso avrei delle cinghie dello stesso colore. Invece anche questa volta sono riuscito e mettere insieme una carnevalata. Pazienza, nella vita non si può averetutto.

56

FLAVIO BARONCELLI

Finalmente ci muoviamo; nessun messaggero è arrivato trafelato a dire che va tutto a monte. La moto è pesante e mi sembra inguida-

bile; quando freno sembra che tutto, menola ruota anteriore, mi si

appoggi sulle spalle; ma ormai so bene checon i chilometri miabi-

tuerò, e tornerà a sembrarmileggera. Il sudore comincia ad asciugarmisi addosso tra un semaforoe l’altro; sto veramente male, ma so

chetra un po’ tutti questi processi di scambio termico andranno a regime, e comincerò anchea nonsentire la stanchezza della notte in bianco, Mano a mano, mentre controllo ancora unavolta brancican:

do il contenuto della borsa daserbatoio, sento che il groppodi ansia più durosi sta sciogliendo; ma so che, perché io mi renda conto di essere davvero in viaggio, e cominci a non pensare più a cose comeil

gas lasciato aperto, bisogna aspettare alcuni punti strategici. Secondo la direzione che si prende,il confinefrancese, i passi appennini-

ci, la salita del Bracco. Allora divento uno normale, anzi una bestia

instancabile e avida di chilometri. Mentre imbocchiamol’autostrada, mi do ancora qualche manata per controllarese ho il portafogli, il contenitore dei travellers e il passaporto, e finalmente riesco a scacciare l’idea di avere lasciato il computer acceso. Seguendo la motodi Brunonella curva dolce del raccordo, mi accorgochegià la motohaperso peso e sta andando esattamente dovevoglio io, senza che io miaccorgadi guidarla. Incomincio sentire la gioia fisica del viaggio che misi insinua dentro, la tranquilla tenacia delle cinghie che avvolgono i bagagli e la presa morbida delle gomme appenarodate. Copio la guida di Bruno davanti a me, e decido di permettermi di essere finalmente allegro, anche se so che bisogna rassegnarsi ad attraversare tutta la noiosissima val Padanaai 110. AI primoautogrill Bruno hagià bisogno di benzina. Mi va bene per dare un'ultima (spero) controllata ai documenti e per prendere un caffè. Gianni ancora una volta pone il suo problema della carta igienica. Ha letto su una guida di quarant'annifa che oltre Istanbul non senetrova.Sta anche per salire in moto col casco messoal contrario, la visiera posata sulla nuca; tenta di allacciare il sottogola e

nonsi accorgedella differenza. Gli giriamoil casco dalla parte giusta comese vestissimo un manichino;lui sta fermo conil collo tutto al-

lungato come un pollo; mapoi anche cosìil cinturino dobbiamoallacciarglielo noi come a un bambino piccolo, ancheperevitare chesi strozzi. Imbocchiamola galleria che per mesignifica avere davvero lasciato la casa:la luce là in fondoè l’uscita di unaprigione; una vol-

ALFABETO

57

ta o l’altra alla fine ci troverò un vecchio questurino bonario che mi dirà «non fare più fregnacce, che nonvoglio vederti più». Invece comeal solito ci sono solo altre curve assurde per un’autostrada, e al-

tre valli che sembrano musei della prima industrializzazione.

Stiamo andandoverso est. Le moto sono ringiovanite, sembra che

vogliano arrivare in mezzo al Tibet senza fermarsi; facciamo centinaia di chilometri senza fatica. Questo è l'importante; stiamo en-

trando proprio nella pancia dell'Asia. Minore, ma Asia. Abbiamo appena passato un bivio in mezzo a un deserto. Sulla destra, un rettilineo andavaa ficcarsi in montagnelontane. Il cartello diceva: «Teheran». Così, come dalle nostre parti può esserciscritto «Acqui Terme». I Tir, che vanno conle armie tornano conla droga, prendevano quasitutti di là. Infatti adesso, nella nostra direzione,sia-

mosoli. Che voglia ho avuto di scalare due o tre marce, sorpassare Bruno, piegare a destra e aprire il gas verso Teheran. Non tanto per la Persia, ma per l’Afghanistan,l’uomochevolle farsi re, Sean Connery, Michael Caine, Kipling. Bruno mi avrebbe seguito tranquillo; poi ci saremmoaffiancati, un gesto senza neppurealzare la visiera, e via. Sarà per,l’anno prossimo. L'importante è che siamo davvero in Asia. A un paesaggio da Tamerlanoci siamoarrivatifin troppo presto; appena fuggiti da Ankara. Teniamo un po’ verso

nord perché vogliamo vedere il mar Nero dalle parti di Trebisonda, una specie di manovradiversiva per non allarmare il grande Ararat. Mala direzione è, in generale,l’est.

Però forse oggi faremo una deviazione per Hattusas, la capitale degli Ittiti. AI museo di Ankara abbiamovisto delle belle sculture ittite, dei monumenticon deileonie deitori belli grassi e buffi. Mi

sono diventati più simpatici, gli Ittiti. Prima mi davanofastidio, cometutte le cose di cui ci si è messi a parlare solo dopo che ho smesso di andarea scuola. Città sepolte, popoli, civiltà, carcasse di dinosauri, crani di uominipreistorici: tutte le scoperte nuove di questo tipo mi seccano perché sono un po’ dei tradimenti, comele domandefuori programma. La regola è, ovviamente,che il mondo è lì perchéla scuola lo riassuma,tu lo studi, ti interrogano,ti rima-

ne una vagoricordo di qualche pagina sporcad’inchiostro. E poi le vacanze. Non c’è nemmenoil bisogno cheil mondoesista. Scuola, esami, vacanze; scuola, esami, vacanze. Con questiritmi, alcunifi-

losofi tedeschi che erano anche professori universitari hanno in-

58

FLAVIO BARONCELLI

ventato l’idealismo. Invece non solo poiscopri che a scuola di certe cose che già si sapevano nonte ne hannoparlato: c’è anche questo fatto che il mondo,perfino quello passato, cambia. Comunque Hattusas dalla guida risulta il tipico posto che mi dà fastidio. Da

solo non ci andrei mai; soprattutto non farei una deviazione di trenta chilometri di sterrato per andarci. Cinte di mura,sassi che miricordano semprele rovine della casa di Toni, che ingombrava-

no un lato della nostra casa di Piana e che in buona parte mi sono dovuto portare via io con la carretta. Ti rigiri la guida mille volte tra le mani per capire se stai guardando le fondamenta dei cessi pubblici o quelle del palazzo reale. E sudare, sudare senza speranza di bere perchéle città le facevanoin posti scomodie secchi, per nonrovinare i campi buoni. O forse c’erano delle sorgenti, e allora in quei postiin genere la città non c’è più perchéle sorgenti si sonoseccate. O spostate. Ecco un’altra attività destabilizzante che mi disturba. Comunquela regola nei posti archeologiciè la disidratazione. Sono sicuro che nemmenoi turchi oserebbero violare le cose ittite con dei beichioschifioriti di ombrellonie dibirra. Credo che riconoscano agli Ittiti uno status di pre Ottomani, o qualcosa del genere. Le rovine romane, se appena non sono protette da squadre di archeologi mitteleuropei, le violano, e come. Per esempio Pamukkale, un posto che potrebbe sprofondare perché comunqueogni italiano ne ha due-tremila diapositive. Un fiumedi acqua calda che scendendo per delle balze rocciose su un fronte di un chilometro le ha marmorizzate di bianco e di azzurro,

scavando miriadi di laghetti. Doveva essere magnifico. Natural-

mente i Romanici hannofatto le terme;e i turchi moderni anche.

Sopra quelle romane. Dueo tre ettari di ristoranti e alberghi, l’acqua calda incanalata perché si nasconda negli alberghi invece che scorrere giù per il monte. Qualche raro canale porta un po’ di acqua anche nel vecchio percorso. Dalle condutture cola giù peril monte portando coppette di plastica e bicchieri di carta. Comein tutte le stazioni termali e climatiche del mondo,la cosa è organiz-

zata in mododafarsentire al gitante giornaliero la sua condizione di intruso. Il posto ha legami speciali, organici, amichevoli, solo con chi ha prenotato in un albergo.I gitanti poveri si rotolano in quelle poche pozze fetide, tra le cicche. L'acqua è appenatiepida, quanto la possonoscaldareil sole e le migliaia di persone chevisi acculano facendo pipì. Un divertimento dasoldatiin licenza,e in-

ALFABETO

59

fatti c’è pieno di soldati con lo sguardo spersodichi noncela fa a convincersi che valeva la pena di uscire dalla caserma. Ridono un po’ tristi, fanno il bagno vergognandosi delle mutande d’ordinanza, passeggiano tenendosi per mano e guardanole donnein costume. Mapoco,di sbieco, senza speranze.I soldati fanno l’amoreso-

lo nei racconti di Vittorini. I turisti stanziali sulle terrazze non guardano mai le balze marmorizzate brulicanti di marmaglia. Guardano lontano dentro gli occhiali da sole. Il gitante ricco almeno può andare a bere unabirra sotto un ombrellone lamentandosi della presenza di tutti gli altri ombrelloni e di tutte le altre bottiglie di birra. L'ho fatto anch'io. Dalla guida si capisce benissimo che ad Hattusas tutto questo nonè successo, anche pervia dello sterrato. Roba da amatori. Bruno

faceva cross e ama lo sterrato; appena le ruote cominciano ad anda-

re come vogliono, comese al loro postoci fossero dei cotechini, lui

si eccita e apreil gas, e ride. Io no. Mi dàfastidio, anche se non cado,

non capire perché. Perché non cado. Secondo me, teoricamente, sullo sterrato non si può che cadere, ricadere, cadere, ricadere. E,

siccome sono un animale pressappochista ma teorico, non riesco a immaginare di non cadere. Così vado avanti coi muscoli tesi, cercando con lo sguardo almeno unazolla erbosa su cui atterrare. Il motore riprende fin troppo bene. All’uscita delle curve arrivo addosso a Brunoin un attimo. Sento anche qualchepiccola vibrazione al serbatoio. Può-anche darsi che Hattusas sia davvero un posto suggestivo. Maio ho sentito le campanelle delle pecore sedutosugli spalti tiepidi di Micene, e vedevo le ombre deifalchi che facevanocerchisu dei burronipienidisterpi. Dietro di me c’era la valle morbida e verde che porta ad Argo, al mare, come una lunga rincorsa per volare fino a Troia. Cosa ci può essere d’altro di suggestivo al mondo? Però in Turchia spessose ti dicono che un posto vale la pena poi è bello sul serio. Afrodisia, per esempio. Rovine non troppo rovinate tra montagne quasi disabitate, una tartaruga

nuovasul sentiero, le rane nell’Odeon. La locanda sperduta nella

campagna era come un museo del ’68, piena di professorifrancesi conla barbetta quadratae gli occhiali montati in metallo, e di can-

tanti pop americani.

Sonoin quarta. Chissà quant'è che vado così. Forse da Ankara; in quella specie di raccordo infernale, col motore sempresu di giri per scappare dai camion, midevoessere abituato alla violenza.Sì,

60

FLAVIO BARONCELLI

ero proprio in quarta. Ecco. Ora va meglio, la quinta mi dà quel ronzio calmo che risparmia benzina e motore. No, nonè solo que-

sto. È un ritmoche haa chefare con quello dell’universo,l’armonia del mondo,la musica delle stelle di cui i filosofi hanno blatera-

to tanto; gli ingegneri giapponesi l’hannoriprodotta. È il rumore giusto, e basta. Eccoli. C’è un Tir a un chilometro da mee a sette-ottocenta metri da Bruno,ci viene incontro un po’in discesa. È al massimo, sembrache scivoli su un cuscino d’aria, e forse davvero vola da una bucaall’altra; accanto a lui ne sta spuntando un altro. Mi sembrava enormeil

primo,quello chegli si affianca sembra suo padre.È il re dei Tir, ma l’altro non lo riconosce e accelera, non vuole cedergli il passo. Lampeggiano, strombazzano. Questo vuole dire che Bruno sta lampeggiando sempre più furioso per segnalare la sua presenza. Lo faccio anch’io, con la convinzione con cuipotrei dichiarare nome e nume-

ro di matricola a un rinoceronte chesta per caricarmi. Loro rispondonocongioia a quello che prendono perun saluto, suonano intere

batterie di trombe, accendonoi fari che hanno piazzati anche sulle corna,e intanto pestanotutte le loro zampesull’acceleratore, mettono il turbo, sgranano le marce,forse fanno anche broorm broom con

la bocca, e.magarinel retro hanno ancheil nonnochebutta palate di carbonenella caldaia. Brunosta lì in mezzofinoall'ultimo momento, poischizza sulla ghiaia della banchina comeun topo, voltandosi a guardarli passare. Forse sta bestemmiandotutte le loro ascendenze, ma lorosi sbraccianoa salutarlo, la testa fuori dal finestrino. Mi

cerco un rifugio, e pianto le piote nella ghiaia, perché ho la sensazione che anche con lo spostamento d’aria mi possano mandaregiù per la scarpata. Passano, sempreaffiancati, scrollandoil culo e scalciando come vacche impazzite;gli autisti hannosorrisi dentosissimi sotto deiveri baffi da uomo. Sonoal colmo dell’allegria e della gentilezza, ma a Bruno hannofatto più feste, forse per via della schivata

ritardata cheli ha divertiti. Già l’anno scorso ho smesso di imprecare, di fare gestacci. Vedo che anche Bruno sta perdendola baldanza e la voglia di commentare: dalla posizione del casco indovinochesta guardandola ghiaia come se contasse scarabeistercorari; poi piano piano si rimette in strada. Ripartiamo. Bruno glielo fa sempre, lo scherzo di schivarli all'ultimo momento, per vedere se ne troviamo uno che frena. Bruno può fare tutto quello che vuole, comunque,

ALFABETO

61

perché in moto c’è nato, e anche perché Gianni,dietro di lui, non si

spaventa di nulla, perché di nulla si accorge. Sta rannicchiato dietro la schiena larga del suo pilota, abbrancando un suo zainetto giallo pieno di cose pesanti e taglienti. Non può appenderselo alle spalle altrimenti il contenutosi perde, in quantoil fondoè scucito. E allora se lo tiene stretto al petto e ci posa il mento sopra, e premeforte, perchéil suo meraviglioso zainetto perde anche dalla parte superiore. Ne haun altro nuovo e vuoto, malo tiene, dice, per le emergen-

ze. Infatti per lui andarein giro pertutta la Turchia comese avesse fatto la spesa in un supermercato dove hannoesaurito le borse di plastica non è un’emergenza. Ènormale. Anzi, ogni tanto dice «questa dello zainetto è una soluzione fantastica». Ognitantoli affianco e lo guardo. Non haalcuna espressione,a parte il fatto che strizza gli occhi comesestesse cercando il cammello in una tempestadi sabbia. Se lo sfioro alzandola punta dello stivale fin sotto il suo naso,si capisce che non dorme:si gira, fa un bel sorriso, riavvinghia più stretto il suo paccogiallo e lacero, e poi ripiombain quel suo comaparticolare. Quando commentiamoil paesaggio,si scopre che invariabilmentelui nonhavisto nulla.Il falsopiano davantia noi ora è vuoto, in pace. Sale verso deimonti fatti di rocce rosse e verdi. Verdi. Nonè robavegetale. Non c’è proprio niente che crescalì. Sono rocce verdi, verdi sul serio, con qualchestriatura che sembradi sale. Lo dicono che i Tir vanno conle armi e tornano con la droga, ma non

pensochela cosasia da prenderealla lettera; però ognisera, a cena, almenounodi noi questa cosadei Tir la lascia cadere là comesefosse ovvia. Forse ci sentiamo un po’ meno miserabili che se rischiassimodiessere spianati da dei Tir carichi di pollame. Brunorallenta, vuole che lo affianchi. Fa il segno della fame. Stiamo

entrandoin un villaggio piatto e povero. La strada è larghissima, e per di più haai lati delle distese di sabbia che la dividonodalle case, che sono basse e ingrigite di polvere. Posteggiare all'ombra sarà un problema;i solchi scavati dai camion sembrano trincee. Almeno a uno come meche in moto noncisa andare. Di pubblico pare proprio chenoncisia niente, maalla fine del paese vediamodelle tettoie

e deitavolini, tra due distributori di benzina. Come semprela gente

ci guarda molto masenzadisturbare e, se incontri uno sguardo,ti

prendi un sorriso. Mangiamodelle cose un po’ diverse, perfino più semplici del solito. Non hannofrutta e ci sembra un po’assurdo per-

62

FLAVIO BARONCELLI

chésotto la tettoia attigua c’è un fruttivendolo fornitissimo. Ci compriamo un melonee il gestore della trattoria invece di offendersi lo prende e dopo un attimoce lo serve affettato, anche con.la buccia staccata comein un ristorante accurato. Qui quasi ogni volta che hai

relazioni con la gente finiscono per riconciliarti col mondo. Senti

menola stanchezza, non sei mai teso. Qualche commentosui Tir; la

nostra impressione è che quegli stessi che rischiano ogni volta di sfracellarti, se ti vedessero in difficoltà, caricherebbero la moto sul

cassonee ti offrirebbero pranzo e cena. Chiedo dov'è il bagno, mi accompagnanoperun centinaio di metrifino ai gabinetti pubblici. È un locale sotterraneo piuttosto grande, nuovo, modestoe pulito. Mi ricorda, anche per l’odore di creolina, i gabinetti di quando andavo all’asilo dalle Suore della neve; però in un angolo c’è anche un casotto di legno che ha un’aria ancorpiù familiare. È identicoai cessi che una volta c'erano in campagnaneipressi delle letamaie, Con la porta di sacco e tutto. È un cesso, senza dubbio. Chissà cosacifa lì

in mezzo a quelli moderni; mi sembradi essere in una specie di museo. Pensoalle centinaia di museidella civiltà contadina che ci sono da noi. Mano, questo è proprio un villaggio piccolo; e poi nemme-

no un maestro di scuola turco può essere così ironico. No, è gente

praticae intelligente. Forse lo hannoaggiunto peri contadinivecchi, chesi trovassero a loro agio. Forse i contadini vecchi scendevanole scale, si guardavanoattorno,e poila facevanoin un angolo;così gli amministratori hanno messoil cesso di legno, perché un cartello sarebbestato inutile. Escludola possibilità di chiarire la cosain turco. In genereci capiamoa gesti, e in questo caso forse è meglio evitare.

La moto davanti alla mia si inclina sulla sinistra, poi dolcemente a destra ed ecco cheallunga le marce verso Hattusas. Io raggiungo lo stesso risultato con meno eleganza e molta apprensione, mail ghiaione profondo un metro che in generecostituisce il fondo delle strade nonasfaltate in Turchia non c’è. È stata asfaltata. E nemmenotanto di recente. Sembra una normale strada provincialeitaliana. Un po’ stretta, con curve dolcie visibili. Sarà una trappola? Mezzochilometrodi asfalto e poi l’inferno? In Grecia questo succede spesso. Risaliamo una valle non molto ampia, tutta di campi dolcemente ondulati. Là in fondotrale stoppie ci sono moltissimi punti neri. Si muovono, becchettano; sono tacchini, a centinaia.

Ancoratacchini: mai visti tanti, e poi macchie bianchedi greggiin

ALFABETO

63

mezzoal giallo, e questa strada che vorrei non finisse mai. Sembra che la moto la conosca.I colori si stanno ammorbidendo,il moto-

re se possibile sembra andare ancorapiù sciolto, forse perchéfa già un po’ menocaldo. Ci sono semprepiù alberi; siamo quasiin fondoalla valle, passiamo sempre più vicino a un ruscello, con intorno del verdein cui pascolanole solite mucchette giocattolo. Passiamo davanti a un campeggio quasi vuoto dominato da un edificio che chiamerei coloniale. Perché somiglia alle colonie, disseminate nei punti più brutti della spiaggia di Savona, dove le fabbriche lom-

barde mandavanoi bambinia fare il bagno ore,colfischietto. Squallido e vasto, squadrato e biancastro, finestre grandi e senza tende. Ecco, l’ho guardato così bene che non misono accorto che

Brunoha giratoseccoa sinistra; ora mitoccafare ungiro nella distesa di ghiaia davanti alla colonia, che poi è un albergo-ristorante, e naturalmentelì davanti a prendereil fresco ci sono dueo tretizi antipatici che aspettano che cada per avere qualcosa da raccontare. Non mela cavo senza avere dato due o tre pedate nella ghiaia; e,

infilando un ponticello asfaltato, a stento mi trattengo dal dare un’accelerata da bullo disperato, di quelle che confermanoil mio

imbarazzo. Meno male chehoglistivali coi tacchi, altrimenti non

ci arriverei mica così bene, a pedatare per le ghiaie. Si intuisce che le rovine sono da queste parti, ma non c’è botteghino. Solo una catena posata per terra. Cominciala noia, almeno per me. A mezzacostacisonole solite pietre più o menoin fila. Le forme naturali dei massi piantati qua e là dalla natura sono molto

più interessanti. Niente dibello, soloil fastidio di togliersi il casco e

non sapere dove metterlo. Ci sono deitratti di tornantechein primasi fanno appena. A un certo punto Bruno misi ferma davanti, l’incosciente, per curiosare oltre un muro. Colfreno anteriore tutto tirato, la moto scivola indietro. Non miera mai capitato. Riescoa ri-

partire con una certa destrezza, e questo mi mette un po’di allegria. Però. C’è davvero una cima di questacollina che sembravatutta sformata. E lì ci sono le mura, non alte mafatte con pietre im-

mensee di beicolori, giallastre e rosa. Ci sono davverole porteri-

prodotte in tuttii libri, e nessun turista. Dall'altra parte una valle

molto più grande, contutti i colori che può prendere un paesaggio secco. I monti tutto attorno sono lontanissimi ma si vedono bene,

netti, alti, appuntiti. La città si vede davvero, adesso, e si capisce qualcosa anche senza perdersi a dipanare la guida. Incominciamo

64

FLAVIO BARONCELLI

tutti a stare bene, a immaginarci guardie alla portae Ittiti semplici che tornanola sera da quei campi. Intanto lentamentesta avviandosi un tramonto tranquillo. Quasitutti i posti archeologici sono più belli al tramonto, e in moto questa è l’orain cui si arriva a vederele cose. Perché di viaggiare di notte non te lo puoi permettere. In questi posti la notte è piena di camione di caniche saltano in mezzoalla strada. In Grecia nonci sonoi cani, ma in compensoci sonole voragini in mezzo all’asfalto. La prima occhiata a Micene, a Delfi, a Efeso, a Olimpiae a tantialtri posti l'abbiamo sempre data a quest'ora. Si arriva nel pomeriggio non troppo tardo perché trovare una camera è davvero indispensabile. Cisi toglie l’ansia, e poi sonoore lunghee quiete,e si può girare tra le rovine senza tu-

risti, col fresco coipipistrelli. Oggi abbiamofatto un po’ tardi mà non importa: la colonia è sicuramente mezza vuota, un letto è assicurato. Verso est sotto di noila città è accoccolata in un grembo oscuro;tra pococi sarà anchedelfresco. Intornoil sole scalda an-

cora i campidi stoppie per decine e decine di chilometri. Ecco, è come Micene, uno dei pochi posti che davveroti ispirano rispetto per la gente che c’è stata, senza che tu debbasforzarti per rammentare ed evocare. Qui come a Micenec’è qualcosa di preciso,di ancora presente. Non tanto immaginiquelli di una volta, quantoti senti tu a casa tua, uno di loro. È una cosa semplice, non retorica

comesuona a dirla. Come semprenei posti troppo belli, ho una grandegioia fisica che però è brulicante di piccole ansie. Forse è semplicemente la pauradi abituarsi a star bene e di dovere poiinvece tornarea casa a guardarela televisione. Cerchiamoil posto delle incisioni rupestri seguendo un viottolo strettissimo; passiamo accanto a case immerse in improvvise fre-

scure di grandi fichi accoglienti. All’imbocco di un ponte, freno

appena in tempo per non prendere in pieno un trattore gommato

che prendela curva allegro in mezzo alla strada, in modo dariuscire a fare la salita in velocità. Trascina un carro difieno enorme e ce lo strofina tutto addosso. Traballo, ma il buon vecchio tacco da

cowboytiene, piantato sul ciglio della strada. Il torrentello lì sotto è amichevole, quasi invitante. Credo proprio che abbiamoragione.

Nonè cattiveria; nessuno può esserecosì cattivo. È che, come dice Bruno,per loro le moto o nonesistono oppure sono oggetti picco-

li e leggeri che fanno molto chiasso, molto fumo e pocastrada. Il concetto prevale sull’immagine reale delle nostre moto, insomma.

ALFABETO

/

65

Guardano unmezzo veloce, pesante,silenzioso, e continuanoa ve-

dere una piccola due tempi d’oltrecortina puzzolente. A parte il fatto che un camion e un trattore qui sono un capitale molto più

grosso che danoie, se vogliono farlo rendere, devono correre sem-

pre disperatamente. Inoltre spesso è roba vecchia e ansimante, che se si ferma forse non parte più. E per di più non sanno guidare. E poi forse sono anche un po’ bulli. Insomma dobbiamorischiare la pelle e non possiamo nemmenoarrabbiarci. Veniamogiù lenti dalla collina. Quelli del posto tornanodal lavoro concarri, trattori e mandrie su perla stradastretta, e questa è

proprio l’ora in cui anche nelle nostre campagnela gente si sente già a casa e nonsi cura moltodi tenerela destra. E poi è anche bello non occuparsi della guida, e guardare la valle sempre più dolce conla luce che cala piano, e curiosare intorno per vederese c’è un posto che ci attira per mangiare, lasciando che la moto dondoli tranquillamentein discesa.

Questa serata davvero sta calando sul mondoconla dolcezza di

un massaggio. Ci fermiamo davanti a una casetta nuova, ben co-

struita su un crinale, con intorno un ordine accuratodi fiorie di al-

beri da frutta; c'è un’insegna che promette della birra. Dentro è qualcosa di mezzotra una birreria nordica e un soggiornoorientale; il padrone è ovviamente un a/mzanci, ossia un ex emigrato in Germania che ha imparatoa scegliere della buona musica europea di sottofondo. È molto alto magro scavato hai baffi folti e rossi. La birra sembra meravigliosa, e sul tavolo ci sono anche abbon-

danti pistacchisalati; beviamo più delsolito guardandodalle finestre la campagnache sta prendendodeitonigrigi e azzurrini.Stiamotutti immensamente benee parliamo benedella birra del posto e del proprietario. Magari avesse anche delle camere; nonce le ha; non fa neppure da mangiare. Io vorrei non uscire più, perché stanchezza e birra mi fannogirarela testa, e potrei tranquillamente lasciarmi cadere la moto sui piedi, come un ubriacosi piscia sulle scarpe. Ricominciamoa scivolare giù per il pendio, e Bruno preso da gioia improvvisa e confessando di avere bevuto un po’ troppo viene giù a zigzag sfiorandoi paracartridi destra e di sinistra. Gianni urla e lo picchia ma ride; credo che non abbia affatto paura; poi spunta una macchinadi sorpresa da una curvae allora Brunorico-

mincia ad andare giù normale; chiacchierano in continuazione, come sempre appenasi va piano. Lo si vede da come Brunogestico-

66

FLAVIO BARONCELLI

la e tendeil collo all’indietro. Chissà cosa si raccontano. Ovviamente le camere ci sono e costano anche poco, mala situazione è davvero da colonia, o da caserma. Le finestre dannosu qualcosa di mezzo tra un corridoio e una veranda, dove c’è anche una lungariga di lavandini comuni. Urlacchiamo e scherziamo come dei ragazzini, forse proprio per questa sistemazione un po’ daostello,e il fatto che a Gianni abbiano dato una branda chevain mille pezzi appenacisi siedeci fa ridere comedeicretini per dieci minuti. Dal momento dello schianto a quando ho smesso di strisciare in mezzoalla strada hofatto in tempoa fare un saccodi cose. Mi sono voltato a gridare «bastardo!» tutto dentro il casco al guidatore del mini busche, appostatoin un prato, mi è saltato addosso improvvisamente; mi sono sentito ridicolo per averlo fatto; ho percepito benissimo che misi fracassava una gamba,e ho sentito tutto il male del

mondo;e volando hocercato o avuto l'impressionedi cercare di vedere cosa succedeva ad Annalisa,e poiil fastidio di strisciare sull’asfalto; quando si cade-in moto è sempre così, non capisci perché

continui a strisciare; vorresti smettere, ma se cerchi di smettere, se

cerchi di aggrappartiall’asfalto, ti accorgi subito che è peggio;e intanto nuovi bruciori che si aggiungono,ben distinti, al male enorme della gamba. Avevo anche un po’ di senso di colpa per come vedevo la scena, appunto comesefacessi unascenafinta, al rallentatore; mi sembravachein tuttala situazioneci fosse qualcosa di retorico, e mi venivano in mentele scene dei film da Peckinpah in poi, quandola gente salta in aria. Non avevo mai capito che quel rallentatore era la soggettiva del tizio chesalta in aria, adesso lo so. Poi un attimodi riposo, come un rosposull’asfalto, disturbato dai miei lamenti come se li facesse un altro, e dalla consapevolezza che ancheil braccio destro era spezzato. E semprei dolori tutti ben distinti, non cheil più grosso ti nascondagli altri, ma invece è comese fosse un elenco di pene,letto con pedanteria da un cancelliere con gli occhiali spessi, lettoe riletto. Poi comincio a reagire, quasi mi sollevo sul gomitosinistro, e vedo che hoancorail guantoalla manosinistra, e quello sulla destra no, e il dito medio della destra è schiacciato, mi dàfastidio

il tipico dolore a martellate del dito schiacciato e quello più fine,salato, dell’unghia rotta; la cosa più importante mi sembra deciderese rimettermiil guanto destro o togliermi ancheil sinistro, per simmetria. Bruno è agitatissimo, io sto cercando di togliermi il casco ma

ALFABETO

67

nonciriesco,il cinturino mi tira sulla gola e sto per perdere la calma, meno male chelui si.è allenato a metterlo e toglierlo a Gianni, in un

momento milibera; Annalisa mi è intorno, sembrachestia bene. La rassicuro un po’ e le raccomando i documentie i soldi, le dico di

staccarmiil marsupio. Posso dedicarmi al mio male, magari cercare di svenire. Ma arriva tanta gente e uno o due mivorrebberoalzare,

io devosvegliarmi per impedirglielo, mi dispiace essere brusco, comunquecisi capisce bene; non è che pensialle regole del pronto soccorso ma non sopportol’idea che mi muovano perché so che mi farebbe male;lo fanno poiin tanti, molto delicatamente, tante mani,

e mi posanoin una 131 familiare dove devo strisciare col gomitosinistro per andarein fondo. C’è un vantaggioa essere fuori casa, che posso raccomandare a Bruno e Annalisai soldi, il mio marsupiopienodi soldi, senza offendere quelli che ci aiutano. Ho ragione a volere che non pensino solo a me che poi non è molto utile, ma che non misi perdanotutti quei soldi che ho alla cintura. Sono spaventati, tutte le facce che vedo sono spaventate, mi guardanogiù e poiin faccia comesefosserostupiti che sono vivo, e qui già comincioa prefe-

rire il mio dolore a quello di Annalisa e Bruno,e li tranquillizzo, mi

pare anche di cercare di sorridere. Non chesia unoeroico,anziin genere sono un cacasotto, ma unavolta che unacosa è successa tan-

to vale sorridere,e poi, in certi casi come questo, è probabile che le

cose possanosolo migliorate. Miportano a un ospedaletto che certo non era un tendone ai margini di un campo ma ormaipoicosì melo ricordo; una dottoressa giovanissima e un’infermiera anche lei implume,belle tutte e due, sono spaventate e Bruno la dottoressa che mi guarda imbambolata dalla soglia la prende di pesoe la portalì che sta per svenire, allora si sveglia, forse ricorda improvvisamente una lezione al-

l'università, parla decisa e poco dopo l’infermiera sale anchelei nella macchina, fa bene avere una bella donnavicino, specialmen-

te se ti fa un’iniezione di qualcosa che calma, ma poi quandola macchinariparte anche quel po’ di paceva via, perché nelle curve midevotenere per non sbattere ancheseil guidatore la porta molto bene,e poi non vorrà cinquantamila di risarcimento, ma Annalisa, meno male, riuscirà a dargliele. Attraversiamo la città, per questo aumentanogli scrolloni; io cerco di pensare ad altro ma riesco solo a sentire il male e non sono tanto preoccupato anche perché miviene da consolare quelli preoccupati per me e un po’ci

68

FLAVIO BARONCELLI

credoai mieistessi sorrisi. Non ne posso più e dopo saprò che ab-

biamofatto settanta chilometri perché la dottoressina, Dio la be-

nedica,si è spaventata e mi ha mandatodritto all’ospedale universitario di Samsun cheè il migliore, quello per i più gravi. Non so bene come, sono menolucido, a un certo punto siamoall’ospeda-

le grande, mi tiranoi pantaloni,io in inglese gridodi tagliarli, fac-

cio il gesto della forbice, anche se sono nuovie mi dispiace molto,

e sospetto che ci sia qualcosa di retorico;lo stivale viene via bene perché è maciullato anchelui, forse un po’ mihasalvato. Mi viene in mente che non ho le mutande e mi vergogno, evidentemente do i numeri perché prendoin considerazione dispiegargli a tutti che è perevitare chela circolazionesi blocchineiviaggi lunghi, un ottimo consiglio di Andrea,forse se gli spiegassi che Andreadirige unagrossafiliale di una bancariacquisterei prestigio io e il mio misero scroto pendulo, insomma sono un po’ preoccupato che mi trattino come uno senza mutande, ma intanto mi fannole analisi

comesefossi un pezzo che scorre a una catena di montaggio, forse quelli che mi manipolano adesso non hanno visto quando mi

hannotolto i pantaloni, sono meno cosciente e mi scrollano, uno

congli occhiali, in inglese chiaro e forte, vuole sapere l’età e un po’

misecca coni suoi urli, siamo già sotto le luci rotonde come nei

film di chirurgia, e lui ha la stessa faccia di quello che dirigeva mentre veniva fuori che ero senza mutande, e sembra unosevero,

mapoisorride e mi dice «ti mettiamonella stessa stanza con tua moglie»; io subito sono solo stupito, ma immediatamente dopo è come se mi avesse fatto una morfina perché vuole dire che sono brava gente che gliene importa qualcosa che noi stiamo bene, da questo momentosto benee mifido, poi dice «questa cosa ha spaventatote e tutti quelli che ti hanno visto perché non ve ne intendete, ma noi abbiamocapito che non è tanto grave,si può aggiustare»; io lì per lì mi accorgo solo ora che poteva essere grave, per esempio avrei potuto perdere la gamba, ma comunquela notizia è buona, gli credo e adesso sento solo il male fisico, e sembra che

cresca: lui o è fortunato capisce tutto e midice: «e quella è l’anestesia», indicandomi che mi stanno facendo un’endovenae io nep-

pure mene accorgevo,altro che la mia solita paura delle iniezioni. Così guardandol’ago con tanta riconoscenza mi addormento. “La rosa purpurea del Cairo”, aprile 1993

ALFABETO

69

Nascere nero

La vecchia e la Navratilova Dio: Senti un po’ qui, o anima chese’ là giù nascosta (ir Para-

diso spesso si parla come Dante): sì, tu, Ermenegildo! Vieni qui e stammia sentire. Caro Ermenegildo, è venuto il tuo turno. Devi nascere, ti piaccia o no; tra nove mesi o poco più; e io, una volta

tanto, non vorreilasciar fare tutto all'ufficio P (Nota deltraduttore: ufficio Provvidenza). Ti do unascelta: preferisci essere partorito e allevato dalla Navratilova o da unaeterosessuale ottantenne? Ermenegildo: Be’... Nonci sono proprioaltre possibilità? D: Questanon è unarisposta. Anzi, ti dirò che mi hai già un po’ seccato, perché sto facendo unaspecie di sondaggio d’opinione,e tu subito sei fuori tono. Leggendoi giornali in questi giorni non riesco maia capirese la gente fa certi discorsi perchéce l’ha con gli omosessuali o perché si preoccupa davvero del bene dei bambini. Quindi mi interessavasapere il parere di voi nascituri. Comunque, già che ci sono, fammiun po’ vedere (armzeggia col computer). Ci sarebbe una coppia eterosessuale... Giovanissimi... Sì, questi si amano molto, non fanno contraccezione e oltretutto sono africa-

ni... Giù in terra ci tengono particolarmentealle nascite africane...

Non miè chiaro perché, ma comunquerientra nella loro autono-

mia... Vediamo... Volevo solo un attimo vedere se questi due sono Tutsi o Hutu, perché magariti interessa. E: Meglio lasciar perdere. È proprio tutto il Rwanda che miinteressa poco. Non che sia razzista; sai comesi dice: «Fedee innocenza son reperte / solo ne’ parvoletti; poi ciascuna /pria fugge che le guance sian coperte». Io non sono nemmenoancoraun pargoletto,figuriamocise ho dei pregiudizi; ma non sono mica scemo. In generale, così comel’ufficio P ha conciatoil mondo,nascere nero è unagran disgrazia. In Rwandapoi... Insomma,se davvero posso scegliete, preferirei evitare. D: Be”, senti, io qualche coppia bianca piena d’amoree di fede, colta ricca sana e che promette unavita farcita di concordia di benessere di salute e di affetto ce l’ho; ma, a scegliere una destinazione, co-

sì sono capacitutti. Forse nonhai ancora capito bene: non è chetu sia un raccomandato. Voglio solo usarti per il mio sondaggio, perché anch'io, vecchio comesono, faccio un po’ fatica a metterminei pannidi un nascituro. Insomma:scelta secca. La vecchia o la Navratilova?

70

FLAVIO BARONCELLI

E: La vecchia... Cosa fa, micucei vestitini con già applicatoil nastro del lutto? Allora mandami direttamente all’orfanotrofio e facciamolafinita... Poi magari come prima parola mi scappa «nonna!» e quellasi intristisce. La Navratilova... È piena di soldi... Forse mi vorrebbe anche benee, adesso che non vince più, avrebbe anche tempo da dedicarmi... Però, tutti quei muscoli... Be”, se ci si mettesse d’accordo

che quanto a darmiil pettorale è meglio lasciar perdere... Ma poii compagnidi scuola... Avere un genitore solo che non sai bene di che sessosia... Senti, dovrei chiamarla mammao papà? D: Masai che sei un bel rompicoglioni? Io non capisco perché la gente vi voglia. Comunque,eccoti un’altra possibilità, cosìti le-

vi dai piedi: un uomo e una donnabianchi, giovani, lui lavora fuo-

ri casa, lei fa la casalinga. Hanno unalindacasetta in un’ubertosa pianura, su unacollina finta, col prato verde ben pettinato, l’alano

di gessoe il sentierino serpeggiante in pietra fumo di Londra...

E: Benissimo. Mi vanno benissimo. L’alano poi ci penso io a

farlo fuori con un martello, tempotre o quattro anni.

D: Bene,adesso inoltro la decisioneall’ufficio P (Batte sulla ta-

stiera del computer). Intanto vediamo un po’. come vivono. Guarda, li vedo e li‘sento chiaramente. Lui sta entrando in casa proprio adesso. Accendonola televisione, mangiano.Il telegiornale parla della Navratilova. Lui dice che son tutte... come? Mi sembra che dica vagasse, ragasce: qualcosa così. E: Avrà detto bagasce. Ba-ga-sce. Poiti spiego, adesso vai avanti che miinteressa. D: Lei sembra un po’ timida, madice cheforse sonofatti loro. Chela Navratilova le sembra una brava persona. Che l’importante è che ai bambinisi voglia bene. Lui grida «lo credo chedici così: sei una frocia anche tu». Le rinfaccia una volta che l’ha vista per manoconl'Emilia. La picchia. Be’, mica tanto forte. L'ha sbattuta sul divano. Lei piange. Ohe, ma che due turbolenti!

E: (urlando): Senti, ci ho ripensato! Basta con la casetta linda!

Voglio nascere in un campodatennis come Panatta!

D: Vediamo... Mi dispiace. Il computer qui midice che è troppotardi. Tra un po’ di giorni, appenail feto sarà in gradodiriceverti, farai le valigie. Speriamo che la gravidanzalo intenerisca un po’, quell’uomo.E chelei la smetta di piangere. Tutto è bene quel «che finisce bene. Però:haivisto il tuo paparino? Un fulmine. Sono

ALFABETO

71

semprelì che si lamentano, maio il mondol’ho fatto davvero perfetto. Be’, quasi. Insomma: sfido chiunque a farne uno migliore. Nonfare quella faccia: devi imparare a vedereil lato buono delle cose. Esempio: guarda tuo padre:sta già finendo di mangiare.Stasera ha perpetuato il miracolo della vita, e gli rimane anchetuttoil tempo di andarsia fare la partita al bar. Sì, il mondodipersé sarebbe quasi perfetto: i papàcolpisellino, le mammesenza. E tutte queste lesbiche non so proprio da dovesian saltate fuori. 6 settembre 1994

Oro di Mosca Abbasso il moralismo, viva l’oro di Mosca

Carissimi compagni: Fassino, D'Alema,Bertinotti, Occhetto, eccetera.

È più o menoda Natale che mirincorre uno strano sogno. E ve lo racconto, questo sognorincorrente, perché vorrei da voi un’interpretazione autentica.

Comincia con voichesiete in riunione. Mala riunionesi tiene in San Pietro,tutti assiepati proprio sotto il cupolone. E nonsi sa perché.

Avete facce tra il diafano e il lampadato, e dal suono sembra

cherecitiate litanie, ma nonsiriesce a capire nulla. All’improvviso la telecamera onirica guardadritto su, e si vede una specie di nuvoletta. Una lenta zoommata. Sulla nuvoletta si

muovono barcollando Churchill, Roosevelt, Stalin, e Benedetto

Croce. Lui ha un cappottino napoletano e trema dal freddo,ha il naso rosso e perscaldarsisi versa in continuazione del vino da un caraffone, e anchegli altri gradiscono, nonostante dei lunghi cappottoni con mille e più bottoni ciascuno. Dalassù,le vostre litanie sî vedono: come unaspecie di nebbiolina rosa. I quattro ridacchiano, si danno pacchesulle spalle, si vede che hanno in mente qualcosa di losco. C’è poi tutto un lento esasperante gioco di dita e di bottoni, incomprensibile finché una gran pioggia di goccioloni dorati invade l’atmosfera. Per una decina di minutile vostre teste tintinnano, come se un bimbopisciassesulle

palle di vetro dell’albero di Natale. Sembra che manco ve ne accorgiate, maall'improvviso ecco che comeun sol santo vi mettete a correre fin sul sagrato. Chi cade in ginocchioni, chi abbraccia una

72

FLAVIO BARONCELLI

colonna,chi sbatte la fronte direttamente sulle sacre pietre. Solo unodi voi rimanein piedi, e grida straziandoil cielo: «Popolo italiano! Siamo qui per ammettere gravi colpe di collateralismo. Tutto cominciò a imputridire quando al papà Cervi le cooperative rosse passarono sotto banco mezza forma di parmigiano!» Allora si vede tutto un tramestio che prende delle camionetteal buioe poi giù già per tutto il colonnato. Improvvisamentesi capisce che Berlusconi, con migliaia di poliziotti, vi teneva come d’as-

sedio con un grande megafono in mano, e intorno c’era davvero tutto.il popoloitaliano o giù di lì. Altro che riunione. I vostri non erano interventi un po’ lagnosi. Stavate semplicemente pregando. la genteera così tanta che fuorifaceva perfino caldo. A questo puntotutti guardano Silvio: che si fa? E lui: «Tutti a caccia di Cervi! Dobbiamotrascinarlo in tribunale!» Mille auto ruggiscono,stridono, spariscono fumando. Alloratutti voi vi ricomponetee rispettando i turni, chi tonando

come Jacopone, chi belando francescanamente, chi con una vocetta

raucaantipatica da Savonarola,fate agli italiani più o menoil seguen-

te discorso: «... E adesso che siamotra noi, parliamodi coseserie.

Dovetesapere che quel sapore di merda cheavete in boccaviene dalla merda. Ma non daquella che pensate voi, sbagliando per colpa nostra. Sì, siamo un popolo abbastanza ben piazzato nelle graduatorie mondiali dei mangiamerda immorali. Mail problema che davveroci soffoca non è mica questo. Altro è lo stercogiallo pestifero che vi occludegli occhie le orecchie,e vi fa parlare a bocca storta. Chi lo produceè il Moralismo. Il moralista non la fa mica da accoccolato. La fa dai trampoli. Contutto quelche segue. Un esempio? Il moralismo è quandosi dice chei delitti sono tutti eguali e i morti anche, nella guerra partigiana. E nonsi riesce più a vedere che se un partigiano stuprava una contadina magarii suoi compagnilo fucilavano, mentre al repubblichino era più facile che i camerati gli aggiungessero una seghinadi festeggiamento. Il moralismoè che gli affari sonoaffari e basta, come diceva mia

cugina quandoera costretta a indaffararsi con l’orrendo affare del suo marito vecchioricco e laido.

Unavolta eravamodiversi per davvero. E noi dell’oro di Mosca si pensava semplicemente e speriamo chece ne sia davvero, e tanto. E delle cooperative anche: che crescessero e finanziassero il parti-

ALFABETO

73

to. Non eran micatanti i minchioni che credevano che per compe-

tere con lo Stato, gli americani e le parrocchie bastassero davvero

le frittelle delle feste! E allora, quand’è checi siamo rincoglioniti? Be’, comeal solito si potrebbe anche partire da molto lontano, mala cosa più grossa è successa ai tempi di Tangentopoli. Anzi un po’ prima.

Craxivoleva sorpassarcie i socialisti cominciarono a ballonzolarci attorno tutti lustri di soldi e‘a braccetto con troie da ricchi. L'odio fu immenso, profondo comese venisse dalla Bibbia,e i no-

stri capi, alcuni ancora qui presenti, invece di chiarire le cose, quell’odio così bollente che ancora non s'è del tutto spento lo fecero proprio, lo miseroin poesia, lo trasformarono in Moralismo. QuandoCraxifece il suo famosodiscorso sui costi dellapoliti-

ca, noiinvece dimisurare la diversità da quantoalto si tenevail na-

so avremmodovuto fare un discorso molto semplice: “Ah Pallino,

Craxino, Bettino chedir si voglia, tu parli bene mai conti non tornano mica. Qui vedi un po’ che c’è unadiversità.

Bene,tanto peril fitto delle sezioni, tanto per i manifesti, tanto

per il cappuccino quandosivolantina nell’albe gelide. Masi arriva sì e no al 20-25 per cento deisoldi chevisiete fregati. E il resto, chesi fa? Lo si va a recuperare dalle chiappe delle vostre marchette di lusso?

Facciamo poii conti sul Pci. Noi s’arriva a giustificare fino all’80%. Più o meno. Cosa facciamo? Cistate a mandare al fresco il 75% deivostri eroi, e noiil 20% deinostri? i Che poi ci sarebbe ancheil discorso della diversità di provenienza. Non è chefregare direttamente al popolo italiano sia proprio la stessa cosa che spremere le cooperative, che poi è anche unapartita di giro perché da quegli sfigati dell’Unipol,se unocisi va a rovinarsiil lusso della sua prima macchinina,perchéci va, se non perchécosì pensa che un po’ di queisoldi vanno al partito?”» Silenzio. Cinque minuti di silenzio e le stelle scintillano sinistre,

minacciose. Poiunadelle vostre voci riprende, lentamente, comein un lon-

tano intento di parodiare Prodi: «... ma da stasera, se volete,si cambia. Ossia si ritorna un po’sani di mente.

74

FLAVIO BARONCELLI

L'Unipol abbassa i premi, diventa ancora più grandee il popolo ne godeditasca e di cuore.

Chi deve andare in gattabuia ci va, e se poiin realtà l’ha fatto

peril partito si avrà i nostri onori pubblicamente. La morale torna a essere una cosa da personeserie, una cosa agibile. Il moralismo lo cancelliamo via. Dovessimo ancheusare la scolorina su qualche foto di Enrico Berlinguer». La vocetace. Un mormorio immenso invade l’universo, comese miliardi di

«amen»fossero sussurati quasi all’unisono. E si spegne lentamente, senza che se ne accorgano quattro serene suorine conle scarpe lucide nere grosse e tondele calze celesti e la gonna carta zucchero. A braccetto e passo di marcia, se ne stanno sparendo dietro un angolo, e nel primo silenzio assoluto tutti sentono che stanno cantando in coro, aggraziate birichine: «Bandierarossa/ alla riscossa / se questo sogno / trionferà». “Il Secolo XIX”, 22 gennaio 2006

Paure

Alienati. Una paura dell’altro mondo Su alcuni argomentiè da sciocchi non porre domande, eppure dare delle risposte è veramente da deficienti. David L.H. Marlowejr.

Unventilatore estenuato appeso al soffitto e un boccale di birra tiepida su un tavolo bagnaticcio. Ecco ciò che gli mancava per identificarsi totalmente in un personaggio da disperati Mari del Sud, o da Louisiana in putrefazione. In compenso sulla scrivania c’era uno dei primi Pentium costruiti dalla Intel. Pompava calore come unastufa. Giocherellava con Internet,il prof. David L.H. Marlowejr., e si comportava come un vero pervertito. Iniziava lo scaricamento di files enormie poi, in pieno download, interrompeva tutto con una cliccata. Tali atti di depravazione gli davano un minimodisollievo. Maproprio un minimo.

ALFABETO

75

Il segnalatore di nuova postaelettronica gli feceun punto esclamativo. Era il suo amico Hassan, da un campusstatunitense nel centro del nulla. Anche Hassan avevascelto di passare quell’agosto alla scrivania, e stava stoicamente assaporando un veloce disfaci-

mento. Per eccesso di calura, da quelle parti gli impianti di condizionamentoeranosaltati quasi ovunque. Gli sudavanogli occhi e — precisava — anche i polpastrelli. Concludevacosì: Miconsolo perché in compensohovisto ID4. Se fossi su un’isola greca a bere vino gelato non avrei potuto farlo. Chissà come misentirei sperduto. Certamente avrei anche deisensidi colpa.

ID4? Mai sentito. David L.H. Marlowejr. ebbe l’impressione di essere l’unico al mondoa non saperne nulla. Puntualmente, fu assalito da rimorsie daterrori di origine incerta. Ormai della paura del nulla non si vergognava più. «È tipico dell’uomo debole e malato avere paura dell’ignoto» avevano scritto almeno millefilosofi ripetendo Seneca chestava ripetendo chissà chi. Tuttavia David L.H. Marlowejr. aveva da tempo deciso che,piuttosto chefar-

si intimidire dalle dichiarazionifilosofiche, valeva la penalasciarsi spaventare dal buio, dal vuoto, dall’ignoto, dalla solitudine e da

quant'altro di solito terrorizza la gente normale. Doveva al più presto mettersi in pari col resto del mondo su questa faccenda dell’ID4. Una-ricerca repentina — sorprendentemente agile per un uomo della sua corporatura — chiarì che ID4 era un evento centrale dell’estate Usa, ma era anche soltanto un

film: The Independence Day.

“Solo” un film? Le recensioni, a centinaia, cominciavano così:

«Se siete stati incatenati in fondo a una caverna, o in una galassia lontana, o magari in coma profondo, per almeno un anno, ebbene allora non sapeteniente di ID4,il film più reclamizzato, anticipato, e adesso ancheil più visto e redditizio di tutti i tempi». Un film di alieni abbietti come quelli di Orson Welles(30 otto-

bre 1938, Halloween; milioni di ascoltatori non credono a quel che la trasmissione Mercury Theatre on the Air dice, ossia «stiamo

trasmettendo una drammatizzazione di La guerra dei mondi di

H.G. Wells». Preferiscono spaventarsi a morte, così poi per tutti

gli anni della guerra fredda nonsi smetterà un attimo di produrre film di alieni terribili come i comunisti. E di incontrare Ufo).

76

FLAVIO BARONCELLI

Perché independence day? Gli alieni di 1D4 hanno la mania delle celebrazioni storiche: si fanno sconfiggere proprio nel giorno

della dichiarazione d’indipendenza.

«Hocapito.Il 4 è per via del 4 luglio», rimuginò,«4 luglio 1776.

Poi, qualche anno dopo,il 14 luglio,ci si sono messii francesi. Da questi popoli bisogna impararetutto. Le coseserie si fanno in luglio, e in agostosi va al mare.In ottobre,poi,si torna a scuolafreschie riposati. Se i bolscevichi avessero fatto la rivoluzioneil 24 luglio, e in ottobrefosserotornati a scuola freschi e riposati, forse le cose peril comunismosi sarebbero messe meglio,alla lunga. Del resto sono pochi quelli che si curano davvero del lungo periodo. Prendi questi qui conil loro ID4. Stanno facendo soldi a camionate, come nessun altro film; ma quandositratterà di fare la secondaversionesi renderanno conto che ID5 nonhasenso,e butteranno dal trentesimopia-

nol’intelligentone che ha puntato su questo acronimo». Mandò un messaggio ad Hassan, chiedendogli un resoconto personalizzato del film. Spense il computer,e si avviò versol’uscita. Lungouncorridoio scandito da grandi finestre senza persiane, ebbe l'impressionecheil sole, acquattato riella foschiagiallastra, gli tirasse unaserie diterribili zampate. Raggiunse l’aria condizionata del bar, sentì distintamenteil sudorechegli si ghiacciava attornoai timpani, chiese unabirra gelata, e si mise a sfogliarele riviste. Si accorse che, a sua insaputa, da mesi, anche in Italia, le persone sve-

glie sapevanotutto di The Independence Day. Si riavventò all’aperto, provandole precise sensazioni di un dado di margarina tolto dal frigo e gettato in una padella rovente. Raggiunseil suo studio e trovò la risposta di Hassan: È unodei film più idioti che si possano immaginare,anchese c’è di buonochevedi esplodere la Casa Bianca. Ma c’è poco da scherzare. Prende tutti. Fa paura. Mentreero lì, la sentivo nella pancia. All’uscita ridacchiavo, però ogni tanto la pancia mi obbligava a guardarein cielo, e la luna mi faceva unacattiva impressione. Aveva un’aria sospetta, nascondeva qualcosa. E questa paura mipiaceva. Ricordi quandodapiccoli si finge di essereciechi,o ci si rinserra sotto le coperte immaginandodi essere prigionieri in fondo a una miniera? Qualcosa del genere. Orate lo racconto e poi tu mi spiegherai come mai più la gente sa quanto è mal scritto e più ci va, più lo percepisce comeillogicoe più si spaventa,più si spaventa e più è contentadiesserelì.

A questo punto David L.H. Marlowejr. interruppe la lettura e mandòall’amico un primo pezzo di risposta:

ALFABETO

77

Bella domanda. Bella domanda davvero. Peccato chese lo stiano chiedendo

dai tempi di Aristotele come mai la gentesi diverta a spaventarsi. Come mai,

per esempio, vada a vedere disgrazie a teatro. I più codinise la sono sempre cavata dicendo che la gente ama esaltare il proprio senso morale vedendo compiere azionieroiche,i più cinici osservandochea tutti, in fondo, piace as-

sistere alle scene che succedono quandogli altri ricevono una brutta notizia.

La mia opinione su queste coseè che,in generale, le disgrazie piacciono perché l’immedesimazione è superficiale. Sappiamo benissimo, in fondo, che, con una singola eccezione, il mondo è composto dagli altri, di cui ci importa pochissimo. Ci penserò ancora, manonti aspettare molto di più.

Ripresela lettura. Dunque un’astronave poco più piccola della luna si avvicina alla Terra. Un corpo così grande come minimo dovrebbe provocare un po’ di maree, ma in-

vece non succedeniente; si nascondedietro la luna e nessunocifa caso, finché

delle astronavi piccole (appena 16 miglia di raggio) cominciano a gironzolare sulle città. Perché? Per preparare la distruzione del mondo. Capito? Hanno un'astronaveche potrebbefarcifuori tutti soltanto facendoil giro del palazzo

con la marmitta aperta, e perdono tempoa fare progetti. Comunquea questo

puntosi è già intuito che questofilm: a) copiadi sana pianta almenoventifilm di fantascienza del passato(gli autori dicono che lo fa in segno di omaggio, insommacitazioniintelligenti tipo architettura postmoderna), ma; b)ci tiene a prendere posizione chiaramente contro la fantascienza ottimista. La chiusura di un ciclo, qualcosa di epocale. Che l'abbiano pensato prima o meno,tutti crederanno di avere partecipato attivamente a questasvolta della pubblica emotività. _ Sulla terra, dico nelfilm, c’è un saccodi gente chesi è rovinata la fantasia vedendogli Et buoni, ed è convinta che anche questi marziani qui siano deifilantropibisognosi di coccole. All’inizio è di questo parere ancheil presidente. Cheè presentato in sostanza comeil capo carismatico del mondo, esattamen-

te come Clinton quando detta legge sul commercio degli altri. Ma è noto che Bill havisto il film e si è divertito molto, e forse si è anche esaltato. Lì per lì comunqueil presidente sembra un fesso senza palle, e i repubblicani,

tutti contenti, pensano che sia Clinton. Lo pensano anche i democratici, ma

sono più in imbarazzo.E infatti fesso lo è senz'altro, se anche dopochele più grandi città del mondosonodistrutte sai lui di cosa si preoccupa? Dinon fare allarmismo, di non creareil panico. Poi però col tempole palle le tira fuori, e partecipa personalmentealla riscossae allavittoria, e allora si capisce come mai fin dall’inizio gli hanno conferito le caratteristiche migliori di Reagan e Clinton (ossia le medaglie da eroe di guerra del primoe la testata di capelli del secondo:ti confesso che questa l’ho presa da una recensione).

Il messaggioetico-politico è quasi chiaro. Questi U.S. spoliticizzati, scettici nei

confronti del governo, entusiasti di nulla, possono in fondo avere fiducia. Qualsiasi presidente americano è comunque sempre americano: può anche sembrare un idiota ma,sele cosesi fannoserie, alla fine se la cava da eroe. E

78

FLAVIO BARONCELLI

ciò vale, ovviamente,sia per qualsiasi americano che per la nazione in genere (che poi è comedireil morido,se nonsi va troppo peril sottile). Buone notizie sia per uno spettatore repubblicano sia per uno spettatore democratico.

Gli U.S. possonostare tranquilli purché nonstiano tranquilli, possono essere buoni purché non siano fessi. Secondo me (malo sai: io sono africano e, come tale, forse anche un po’ paranoico) non essere fessi per questi qui significa smetterla di sopportarei neri cattivi e i bianchi alleati dei nericattivi,e i lati-

ni, e gli immigrati in genere, e i musulmani, insommatutta la roba indigesta

che invece secondoi politically correct è buona,basta farci la bocca. Però su questo c’è discussione. Con chice l'hannogli autori? Oppure:che immaginario socio-politico hanno indovinato nella testa dei potenziali spettatori, azzeccandoci, evidentemente?Ti elencole ipotesi che si fanno, premettendo che a me sembranosia un po’ ovvie, sia un po’ contraddittorie. Dunquesi dice che la guerra fredda non c’è più, ma senza nemico esterno non si può stare, quindi bisogna inventarselo. Percuisi ritorna ai marzianicattivi degli anni cinquanta. Sembra logico, a prima vista, ma comefilosofo della scienza a me sembra veramente un'ipotesi 44 boc molto imbecille. Primasi fanno i mar-

ziani cattivi perché C'Èla guerra fredda, poisi fanno i marzianicattivi perché NON C'Èla guerrafredda. T'ho già detto che secondo mei marzianicattivi sono i nemici interni che alcuni pazzi fuori moda ritengono buoni come Et. Noineri, e simili. Quasi tutti però pensanochegli alieni sianoi terroristi. Ma forse è anche vero che da questo punto di vista il film è così lasco e generico che ciascuno può vederci quello che vuole.

Il testo continuava ancora, ma David L.H. Marlowejr. dovette smettere perché improvvisamentesi era fatto quasi buio, e in quello stesso istante l'aveva colto un reumatismo cocentealla spalla destra. Riusciva a malapena a muovereil mouse. Nonsi stupì di notare che l’umidità si era coagulata in un temporale imminente. Decise di andareal bara farsi darela solita pastiglia contro i reumatismi. Attraversò la strada sotto unoscroscio tropicale, e tutte le sue giunture reagironoall’impacco di acqua tiepida con gemiti insopportabili. La barista era appesa alla leva del caffè. «La pastiglia, professore? Quandohovisto il tempo, ho immaginato che sarebbe venuto. Io l’ho già presa. Che idea rimanere in città. Avremmo dovuto andare in vacanza». David L.H. Marlowejr. ebbe un sentore dolciastramente preoccupante: chelei volesse dire «in vacanza insieme».Ingoiò la pastiglia senz'acqua. Era una suaspecialità, di cui andava blandamentefiero. Chiese: «Malei, perché tiene aperto? Fauncaffè allo spazzino, unoal tassista, uno a me, e pagatutta quest’aria condizionata. Che senso ha?»

ALFABETO

79

«Avrei dovuto andare in vacanza con miasorella, suo marito i suoifigli, ma sono andati in Madagascar. Con l’aereo». «Paura di volare?», chiese il professore, pentendosi subito per paura che la donna cogliesse un doppio senso daletteratura sessantottina che lui non aveva voluto metterci. «In un certo senso. Agli altri dico così perché mi vergogno, ma a lei lo posso dire: ho paura del check-up, sa, magari mi dicono delle cose in inglese, e io cosa faccio?» Marlowesi trattenne a stento dal girare dietro il banco per abbracciarla. Pensò che con tutti quei reumatismi sarebbe venuta fuori una scena penosa. Disse piano, cercando di sorridere dolcemente: «check-in,

check-in». Tornato nel suo studio, si accorse che il temporale aveva spento il computer. Il file di Hassan non aveva subito alcun danno:

Forse la fine del comunismo c'entra in questo senso: fino a pochi anni fa da queste parti si poteva pensare che al mondole cose non andavano bene perché c’eranoi russi. Adesso le cose non vannoaffatto meglio,e allora il rischio è quello di essere costretti a pensare che il male sia in noi, nel nostro sistema. In fondo l’esistenza del socialismo reale era un bel vaccino contro qualsiasi tentazione di comunismo. Maorail sistemasi rivela per quel che è, senza ripari: qualcuno può farsi venire in mente che non funziona. Questo bisogna a tutti i costi impedirlo, e a livello di saggistica sono già andati molto avanti. Spuntano come funghi, per esempio, libri che dimostrano che i poveri(soprattutto i neri) sono geneticamente scemi e che non c’è niente da fare. Le fondazioni scientifiche contro il welfare state sono sempre più numerose, e semprepiù opulente. È curioso:i ricchi diventano molto generosi, quandosi tratta di finanziare ricerche contro la generosità. Certa gente è disposta a cedere molto di quello che possiede, purché venga dimostrato che è giusto che abbia molto, mentre altri non hanno un tubo. Il messaggio delfilm, nella sua genericità, ha questo di chiaro, direi di universale: chi è diverso è brutto, chi è brutto è anchecattivo, i guai del mondosono colpasua,e la deve pagare. E quelli non diversi che non la pensano cosìsaranno anche brave persone, ma sono oggettivamentetraditori della patria. Bene,ti risparmio il resto della trama anche perché prima o poi lo andrai a vedere anche tu. Non mitrattengo però dal segnalarti che, se gli extraterrestri non avessero usato dei computer con il sistema uguale uguale a quello che usiamonoi, non saremmoriusciti a sconfiggerli. Forse,sottosotto,il film vuole dire che la Microsoft ha già invaso l’universo, anche se noi non lo sappiamo.

Nonè un'ipotesi molto più stupida di quelle che ho buttato giù pocofa, e del-

le quali mi vergogno. Sì, perché le ho fatte meccanicamente, tipo catechismo, comediresti tu, che sei un vecchio papista italiano, anche se hai un nome americano e io non ho mai capito perché.

80

FLAVIO BARONCELLI

Comunquele mie ipotesi non spieganol’unica cosa che mi incuriosisce davvero: per quale motivo, proprio mentre notavo quanto puerile fosse l’impalcatura fantascientifica del film, mi emozionavo mi spaventavo mi divertivo come un bam-

bino. Mi sonoanchereso contoche ufficialmente non ci credo ma,se appena mi lascio andare, vorrei perdutamente credere nell'esistenza degli extraterrestri. Buoni cattivi che siano. Non so perché, ma mi sembradi intuire che non faccia molta differenza. Come diceva Einstein: l'universo e la stupidità umana sono le due uniche cose infinite. Non sono proprio sicuro a proposito dell'universo. Nonti abbraccio perchéfaccio schifo; quiil sole si sta levando alto nelcielo, e ormaisu ciascun tasto c’è un grottesco laghetto di sudore. Davoiè quasi sera: approfitta del fresco perfar lavorareil cervello, e spiegami questi misteri del cuore umano. Altrimenti cosa ci stannoa farei filosofi morali? Hassan

PS.

Ti rammento che qui oltre la metà della popolazione crede all’esistenza degli Et, ed è convinta cheil governo li conosca benissimo, e ne abbia anche degli esemplari chiusi in cantina. Dal 1947 non hanno maicessato di credere che siano atterrati a Roswell, nel New Mexico. E sull’Area 51, una base militare nel Nevada, circolano le voci più fantastiche. Sono due luoghi-culto da fare invidia ai vostri santuari. Del resto non è micafacile distinguere benetrai superstiziosi e i ricercatori seri in questo campo. Ovviamente,i ricercatoriseri dipendono,perla loro esistenza materiale e per la loro stimadise stessi, dalla speranza-paura chele intelligenze extraterrestri esistano. Il Seti, unistituto di ricerca serissimo (in teoria privato, ma collabora con la Nasae anchecon qualcunolì in Italia, mi pare a Bologna) chesi occupadi auscultare l'universo per captare segnali di intelligenze extraterrestri, ha rilasciato un comunicato. Siccome è rappresentato nel film, ufficialmente si preoccupadi precisare alcune inesattezze: non abbiamotelescopi nel Messico, i nostri computer non sono messi in quel modo,in cuffia auscultiamo solo musica, e così via. Ma questo non il vero messaggio. In realtà, con l’aria di scherzare, ringraziano davvero per la pubblicità, e vogliono fare sapere che esistono, che sono reali. O meglio: vogliono diventare reali, agli occhi del pubblico, quantoil film e i suoi extraterrestri a otto tentacoli. Holetto un altro loro documentoin cuisi chiedono molto seriamente cosa succederebbe alla gente se qualche segnale fosse davvero captato. Si ripromettonodi studiare la cosa sulla base di esperienze storichesimili: scoperta di nuoveterre, di nuovisistemiscientifici, nascita e cadutadireligioni... E dimenticano che per la maggior parte della gente questo non è un problemain quanto la massa direbbe semplicemente: Finalmente î governi si sono decisi ad ammetterlo! Del resto il Seti è a Mountain View, e indovina a che indirizzo?!

In via degli Atterraggi! Miè venuto in mente quel famosofisico torinese di cui mi raccontasti.

David L.H. Marlowejr. uscì dall’università deserta pensando a Tullio Regge, uno dei suoi miti personali anche perché aveva avuto la fortuna, a una cena,di assistere a unasuaesibizione di ventri-

ALFABETO

81

loquospecializzato in latrati. Dovette smettere perché un cane che era presente stava per impazzire.

A quel grandedellafisica — ai tempiin cui in Belgio venivano giù marziani comese piovesse — era stato affidato dal Parlamento europeoil compito di organizzare un osservatorio sulle intelligenze non umane. Regge in sostanza non volevasi sprecassero soldi per queste vaghe aspettative, ma non poteva dirlo apertamente. Anchepervia dellacriticità scientifica: per molti scienziati è «pro-

babile» che esistano altri mondi abitati da esseri intelligenti, e ci hannofatto anche un’equazione famosa, quella di Drake (anchese

poi la concreta possibilità di comunicare, o addirittura di incontrarsi, è tutto un altro discorso). Allora aveva proposto di promuovere il Sepra, un ente francese addetto alla bisogna e che avevail vantaggio diesistere già, a consulente europeo. Bene: per il solo fatto di essersi occupato della cosa, era statoaffiliato in contumacia a tutte le organizzazioni ufologiche dei dintorni, e i media si erano

messi a dire che secondo Tullio Regge, premio Einstein perlafisica, i marziani esistono e hanno le orecchie come i dobermann. La serranda del bar era già abbassata. La barista era lì davanti; aspettava il tassì. Si fermò a farle compagnia,e lei ne fu visibilmente contenta perché David L.H. Marlowejr. le piaceva. Ufficialmente però doveva trovare un’altra scusa, e allora gli confessò che aveva paura. «Eppure guardi», disse aprendoil portafogli, «guardi quil’incasso di oggi: c’è appena tanto da pagareil taxi». David L.H. Marlowe jr., che quando non sapevacosa dire biascicava scemenze, sentenziò: «Il nonno di uno scrittore che ho stu-

diato al liceo diceva che la pauraè fatta di niente». Arrivòil taxi, e il professorerifiutò un passaggio. Avrebbe do-

vuto scendere per primo e, nonostante l’attenzione con cui aveva

scrutato il comportamento dei personaggi nei film, non era mai riuscito a capire comesi fa in questicasi: si dà un bigliettone esagerato al tassista? Si scende senza pagare? Si mormora un penoso «ci aggiustiamo poi domani?» Il taxi partì masi fermò dopo due metri. La barista si sporsee gli chiese: «Professore, mail niente,lui, di cosa è fatto? Di paura?»

Allibito, invecedi farle un complimento emise un’altra sciocchezza: «Nonsaprei. Comunquenonerail nonnodello scrittore. Era suo padre».Il tassì si allontanò e dopo un centinaio di metri accese le luci di posizione. Chetristezza. Le giornatesi facevano già più brevi.

82

FLAVIO BARONCELLI

Remigando lentamente verso casa nell’umidità crescente della sera, ripensò al messaggio di Hassan, e improvvisamentesi accorse che anchelui, lo scettico David L.H. Marlowejr., sarebbe stato fe-

lice di sapere che gli Et esistono. Non importa se buonio cattivi, purché non tropposimili a noi. Dovette confessarea se stesso che se nonci credeva nonera pervia del suo pensiero critico, ma per via del suo pessimismo, del suo umornero.

Giuntoa casa, bevve un bicchiere di latte appena appenaacido,

accese il computere il ventilatore, e cominciò a battere larisposta per Hassan: Ti sei risposto da solo, ma nonte nesei accorto. unaquestionereligiosa. Lo so, lo so che quasi tutti hanno sempre detto che la religione è figlia della paura, e non viceversa. Ma alcuni hanno anche precisato chela religione, nascendo dalle paure, serve a farle aumentare. In compenso deresponsabilizza l’uomoreligioso.

Peril resto, è roba che devi capire tu meglio di me, perchési tratta appuntodi

potentissime ipotesi sagacemente costruite dalla saggezza popolare in modo che non siano falsificabili. Ricordi quando passandovicino all’Olimpo, così bello ma anchecosìbasso, ci chiedevamo comefacessero i Grecia farci abitare gli dei? Tu, da americano infedele, dicesti che sarebbe bastato un pastore all’inseguimento di una pecora smarrita per scoprire che nonc’era un fico secco e far caderetutta la baracca. L'Olimposarebbe diventato un bel posto per laicissimi pic-nic. E non voglio rammentarei tuoi lazzi, sempre sul tema picnic, in quell’altro posto in Turchia che per combinazionesi chiama anch'esso Olimpo. Dove vengonofuori dal monte quelle mitissimelinguette di fuoco azzurro, e che dicono abbia dato origine a Chimera,il mostro che sputavafiammee che poi Pegasofecefuori. Bene: allora, nella nostra ignoranza, e anche perché tu non collaboravi, non riuscimmoa spiegarcicosa aiutasse i Grecia tenerein piedi i loro miti. Nelcaso dei marziani, invece, c’è tutto quello che serve per capire come mai questa, senza chenessunola chiamicosì, è la religione più diffusa di questo tempo. È utilissima per chi voglia rimanere bambino,ossia ritenere di avere a chefare, fondamentalmente, non con un mondoschifosamenteinerte e sordoin cui dipendi solo da te, ma con unavolontà, un’intenzione simile a quella dei genitori onnipotentidell’infanzia. Ed è incrollabile, come credenza. L'idea chei governi nascondanola verità è geniale: per definizione, più gli scienziati ufficiali e le autorità ti dicono che nonè vero,e più ti convinci che sono dei bugiardi, e che è tutto vero. Sicché i marziani meno esistono,e più esistono.

E perchéci servono anchei marzianicattivi? Perché l'importante, appunto,è non esseresoli e responsabilizzati. L'importante è checi sia un piano fatto da qualcun altro, che ci coinvolga senza la nostra piena comprensionee la nostra

piena responsabilità. Unavolta ho letto un battuta di un grande astronomo, Fred Hoyle: C'è un pia-

no coerente nell'universo, anche se non so a che cosa miri. Per lui (spero) era

ALFABETO

83

unafacezia control’idea dell’esistenza di una Mente, di un Architetto dell’Universo. Eppure,in pieno illuminismola religione razionale era fatta proprio così. David Humemiseun discorso esattamente uguale in bocca a un suo personaggio, per prenderlo in giro; e tutti ancora adesso lo prendonosul serio,

soprattutto gli storici della filosofia angloamericani, secondo i quali lo stile scherzoso è stato inventato da loro e nessuno lo ha maiusato prima.

Ti horisposto coituoi pensieri. Socrate al mio confronto era un noioso ubriacone. Quasi soddisfatto, diedeil via al messaggio. Il software mise in

moto il modem, che cominciò a pigolare come unanidiata di pulcini di gabbiano.Il rumore del modem gli piaceva molto; ma, mentre il suo messaggio già serpeggiavain giro perla rete di reti di reti alla ricerca del computer di Hassan, gli venne in mente un importante poscritto. Aprì un altro messaggio e scrisse:

Dimenticavo. Come dice una grandefilosofa amica mia, la paura è fatta di niente, ma il niente è fatto di paura. Nondimenticarlo mai. Tuo

David L.H. Marlowejr.

“Village”, ottobre 1996

Pittore Daniel Bec, la morte e il lupo. Su Daniel Bec nel corso di due de-

cenni hannoscritto i migliori critici italiani; per questo, quando (sorpreso dall’avvicinarsi rapido della data di una mostra) mi chiede qualche paginadi fretta, io grullo mi sento orgoglioso della stima che mi dimostra e, quindi, contento. Ma l’allegria dura poco perché, appena mi metto scrivere, misi para davanti agli occhiil fantasma di un imbecille cui io mi sento ancora unavolta in dovere di spiegare delle cose ovvie. L'imbecille è quello con cui non si riesce mai ad arrivare a parlare di come Daniel dipinge, perché è troppo indaffarato a dichiarare che ciò che egli dipinge lo scandalizza, lo imbarazza,lo rattrista (in particolare, vuolfar saperea tutti che a lui i nudi maschili fanno schifo, ma per sicurezza ci mette anche la sofferenza, le rughe e qualche colore livido). Magari a scuola gli hanno dato dei bei voti perché sapeva spiegare beneil

84

FLAVIO BARONCELLI

Caravaggio la sua rivoluzione vera o presunta, ma oggiè diverso; oggi la vita è tutta come un salotto di pelle appena uscito nuovo nuovo dal negozio, e un pittore come Bec non dovrebbeesistere. Questointerlocutore che non riesco a togliermi dalla mente mi avvelena la vita: gli altri, quelli che amano l’arte di Daniel, mi pare nonabbianoaffatto bisogno diaiuto percapirla; e allora a chefine scrivo? In questocaso, per di più, il mio imbecille privilegiato me lo immagino mentresta affermando, con forte accento genovese e l’aria di chi ne sta dicendo una proprio buona, che al convegno sulla morte lui non ci viene perché porta male. Quanto alla morte, ci sono già le agenzie di pompefunebri, gli obitori e il fuggevole sospetto chegli altri siano mortali. Fin troppo. Cosagli devodire, al mio vitalissimo imbecille? Di andare a vedere come in alcuni punti della Corsicala gentesi sceglie il posto per la tombadi famiglia, sperando che, seduto su uno scoglio di Capo Corso, incominci a sospettare che forse la morte in qualche senso appartiene alla vita? Oppure, visto che non gli voglio bene, devo consigliarlo di andarsia rileggere i Sepolcri di Foscolo, poesia di cui apprezzo il contenuto macheritengoilleggibile? Sono — in parte — responsabile dell’abbinamento convegno sulla morte-mostra di Bec, sicché mi tocca anche di pensare cheforse,

da amico, una connessionesimile avrei dovuto impedirla, invece di promuoverla. In effetti io avevo pensato, come sfondoperil convegno, ai quadri di Bec in generale — per una ragione che spiegherò tra poco — ma mene erano venuti anche in mente alcuni particolarmente adatti a illustrarlo; ne ricordo, per esempio, unoispirato a unaveglia funebre provenzale, che sarebbe stato di un certo interesse per gli etnologi presenti. Ma organizzare unaretrospettiva tematicanoneracosa checisi potesse proporre nel poco tempoa disposizione, sicché invece che quadri sulla morte abbiamo quadri con la morte. Frase che non vuole evocare chissà che cose profonde, mavuolsignificare semplicemente quel che dice, ossia che nei quadri di Bec presenti in mostra c’è, anche, la morte. E questa è la ragione per cui secondo me qualsiasi quadro di Daniel va bene, particolarmente bene, per far da sfondo a questo convegno. Qualche secolo fa uno avrebbe potuto uscire e prendere a caso un po’ di quadri di qualsiasi buon pittore, per uno scopo del genere. Oggi noncredosia altrettanto facile trovare pittori che dipinganolavita senza rimuovere unacosa che, comela morte, ne fa così ovviamen-

ALFABETO

85

te parte. In questo senso, mi pare proprio che si possa dire che Daniel risulta a molti strano perché è un po’ più normale della maggioranzadella gente,e deipittori. È ossessivo nel rifiuto di vivere la vita e la pittura come se davvero bastasseil telecomandoperelimi-

nare dal mondoil dolore, la mancanza,la fine. Dire che i suoi quadri sonointrisi di morte o dire che sonointrisi di vita, o di amore,fa

lo stesso. È vero ma suonatantoretorico,e preferirei non dirlo, perché credodi far torto alla sua pittura che è, molto manifestamente,

la pittura di un uomostraordinariamentecolto, maalla fin fine è an-

che di una semplicità e di un’umiltà infinite. Mi viene in mente una parabola; come tutte le parabole, forse non c'entra o forsesì, comunquela racconto. Tanti anni fa abitavamoin una casa-bottega,e Daniel per aver luce lavorava in una vetrina che dava su una piazzetta infestata da bambini intorno ai cinque-sei anni. Ogni tanto qualche bagarillo si mettevaa berciare, per esempio,chei cani(certi mastinacci che in quel periodo entravano nei quadri a rappresentare la morte intesa come violenza) non son micafatti così. Daniel prendeva molto sul serio quelle critiche, e non di rado, avendole

trovate giuste, portava le opportune correzioni. È meglio che mi fermi, perché di parabola in parabola potrei ritrovarmi a parlare di quella volta che Daniel Bec ammansìil lupo. Anche se come bugia questa avrebbeil pregio di introdurre un discorso che su Daniel andrebbe fatto molto seriamente: quello della religiosità laica dei suoi quadri. Un altro accostamento di presunti opposti; del resto di ossimori sono piene le pagine critiche su Daniel Bec, e non perché i suoicritici siano stati colti da una specie di contagio barocchistico,

maperchénoiritroviamo, nella nostra cultura, comescissi e spesso

opposti, tutti quegli elementi che nel suo camminospirituale Daniel ha fuso,e restituisce integri nella sua pittura. Sicché la sofferenza che l’imbecille (come si vede, non riesco a dimenticarlo, anche se

son sicuro che lui certamente non mista leggendo) prova di fronte ai suoi quadri, e che frettolosamente chiamaossessione, necrofilia,

scandalo, deriva soprattutto dal disagio di trovaresintetizzate in un unico oggetto di percezione realtà che è abituato a trovare separate

in bell’ordine, su diversi canali non comunicanti. Hoscritto parole come “integrare”, “sintetizzare”. Non so comesostituirle, ma sono devianti. Per Daniel non si tratta di mettere insieme pezzidistinti; è comese vivesse in un altro mondo, do-

ve le cose non sono ancorascisse; e non è neppure tanto un come

86

FLAVIO BARONCELLI

se. La suaritrosia, la sua ricerca di unasolitudine che nongli è affatto sempre cara, fanno parte di qualcosa che non saprei come chiamare se non dicendo ascesi. Quando, da amico, mi viene in mente chesi tratti di masochismo, mi basta guardare un suo quadro, guardare come dipinge per capire che ne vale la pena. Dico comedipinge perché alla fine poi dei soggetti, interessanti e sempre nuovi come sono, mi importa poco, se non altro perché delle sueidee si potrebbe parlare con un bicchiere in mano,e lo si fa. E l'impressione di qualcosa che viene prima delle scissioni c’è anche nella conversazione, quandoti capita per esempio di averdi fronte una specie di Pascal non cattolico, o un Platone del Medioevo albigese, o altri mostri del genere.Il fatto è che senza quei contenuti Bec non dipingerebbe così, e non dipingerebbeaffatto. Unavoltasi poteva parlare di surrealismo,poi di espressionisti, poi di Bacon,ecc. Poi ci furono momentiin cuisi sentiva il suo amore per Piero Della Francesca, e man manola specificità dei

modelli si andava attenuando, e Bec somigliava sempre di più a nessuno. Ora credosia del tutto evidente cheil processo diascesi rispettoalle scissioni, alle classificazioni, è completamente matura-

to anche sul piano del mododi dipingere. Bec somiglia a un Pittore, se nella nostra cultura c’è ancora posto per uno,e basta. 7 novembre 1988

Quesiti morali Cosa fannoi filosofi. In trent'annidi carriera, il prof. David L.H.

Marlowejr. aveva sperimentato più volte gli effetti che l’affermazione «Di professione faccioil filosofo» produce su una qualsiasi conversazione tra persone normali. In treno, per esempio.Il silenzio. Non imbarazzato, o perplesso, o minaccioso, o curioso. Un si-

lenzio nel quale a volte gli era sembrato di indovinare unasorta di riconoscimentodiun suospeciale diritto al riserbo. Come quando uno ha appenadichiarato di essere in lutto. Gli era anche capitato di chiedersi come mai filosofi sono convinti di occuparsi di cose che riguardano davicino tutti gli uomini “in quantotali” e, tuttavia, agli uominireali interessano così poco le cose che interessano aifilosofi. In generela suariflessione si esauriva così: «Deve esserci una differenza profondatra gli uomini “in quantotali”, che dif-

ALFABETO

87

ficilmente prendonoil treno,e gli uominireali; un giornoo l’altro devoscriverci su un paper» (ossia un saggio: ma ognunohai suoi

vezzi). D'altra parte aveva anche un’altra lunga esperienza: quella di congressi pluridisciplinari, trasmissionitelevisive e simili, in cui rappresentanti di altre scienze se ne uscivano,verso la fine dei la: vori, in battute di questo genere: «E ora che abbiamo esaurito le tecnicaglie, ossia abbiamo detto comefunzionail mondo,è il filo-

sofo che deve dirci quale sia il Senso di tutto questo, quali sonoi Valori da perseguire, Perché viviamo e Dove andremoa finire». E

così dicendogli affidavano cinque minuti di tempo, durantei quali poteva scegliere: o dire che il bene in genere è consigliabile rispetto al male, o dichiarare che il presente fa pena, ma fa sempre menopenadel futuro. Mentre prima era meglio. I suoi ricordi di conferenze brulicavano di signore in pelliccia di visone e di austeri professionisti in pensione e cappotto di cashmerechegli chiedevano dirivelare il modoin cuila Filosofia,dilì

a poco,avrebbesalvato il mondo. Una volta aveva osato chiedere: «da cosa?», e tutti si erano offesi. Aveva anche alcuni amici ingegneri e informaticii quali, quando veniva loro in mente un problemao un progetto completamente strampalato, cercavano — del tut-

to in buonafede- di convincerlo che, in quantofilosofo, avrebbe

dovuto buttarcisi a capofitto. Credeva, insomma,di essere preparato a tutto. Ma quel giorno la padrona del bar sotto Puniversità era riuscita a stupirlo. Le ave-

va confessato di insegnare Filosofia morale e poi, alla domanda

«cos'è la filosofia morale?»aveva risposto «risolvo problemi morali. Sa, ci sono problemifiscali, psicologici, psichiatrici e via dicendo. Per ognunodi questi problemi c’è un professionista. Io mi occupo professionalmente di problemi morali. Se scopre di avere qualche problema morale, melo dica. Tantoio passo di qui tutti i giorni». Stava già immaginandosiseduto,coi piedi sulla scrivania e il cappello sugli occhi, in un ufficio di “consulenze morali”, quando la barista esclamò: «Hocapito, professore! Per esempio unosi rompe una gamba: quello è un problema morale». Condannatoa saltare il pasto perché doveva ancora compilare le domandedi fondi per la ricerca, era rientrato subito in ufficio.

Per una mezz’ora si dedicò soprattutto alla masticazione di una buonabiro giapponese. Quando,arrivato alla casella «Scopo della ricerca», si rese conto chestava perscrivere «salvare le gambe del-

88

FLAVIO BARONCELLI

la barista», intuì che era meglio fare un breveintervallo, e inco-

minciò a girellare per il dipartimento deserto. Si fermò davanti a

unoscaffale, dedicato alla “metafilosofia”, che conosceva poco. A parte il metano e alcuni metacarpi, non c’era mai stato niente, nella sua vita, che incominciasse con “meta” e che non fosse unafre-

gatura. Del resto sapeva che la prima cosa che spieganoi libri di “metafilosofia” è che, mentre «Cos'è l'economia? O l’ingegneria? O la fisica?» sono domandeche nonfannoparte né dell'economia né dell’ingegneria né della fisica, «Cos'è la filosofia» è una domandachefa parte della filosofia. Le vecchie trappole. Dici che nonbisognafarefilosofia? Ma nonti accorgi che dicendo questostai facendofilosofia? Un tormentone, come quello dello scettico che,se affermacheè scettico, allora afferma qualcosa, e nonè più scettico.

«Noifilosofi a volte — ammise — somigliamo a quei bambini che fannoil gioco più irritante del mondo:ripetere esattamente quello che dice l’interlocutore». Eppure... non si può mai dire. Un giorno forse avrebbeletto tutti queilibri, e allora la barista avrebbe avuto il fatto suo. Gli venne in mente Paperino che consulta decine di libri per trovare una buona battuta con cui sgominare un vicino di casa maleducato,e alla fine la trova: «Ah, è così?» Le risposte fa-

mosedeifilosofi che gli venivano in mente nonerano poitantodiverse. Cos'è la filosofia? E Moore, mostrandogli scaffali della sua biblioteca: quello chec’è in questilibri. Bella forza. Avrebbero dovuto chiederglielo in una stazione della metropolitana. E Whitehead:i filosofi non fanno altro che note ai Dizloghi di Platone. Comeseil problemafosse spiegare cos'è la filosofia a uno che conosce Platone. Prese un volume nuovo nuovoe lo sfogliò. Un saggioeraintitolato Può la filosofia esistere? La risposta, motivatissima, era «No». Un altro concludeva: «Lafilosofia non serve a nulla, e que-

sto è il principale vantaggio che essa presenta». Un altro parlava di Quine. Quine gli era simpatico. Una volta aveva assistito a una conferenza di Strawson,altro grande vecchio, e miglior nemicodi Quine. Alla fine parecchi giovani lupetti lo avevano bombardato, com'è d’uso in ambientefilosofico, di domandeterribili e irrispet-

tose. Strawson avevarisposto con altrettante battute che non c’en-

travano niente, ma che erano tutte contro Quine. Marlowe,indi-

gnato, aveva poirifiutato di andare al party con Strawson. A lui, digiuno di qualsiasi nozione scientifica approfondita, erano simpa-

ALFABETO

89

tiche le scienze, ed era felice di sapere che nel mondotantissimifilosofi se ne occupano molto da vicino. E Quine, in un momentoin

cui lo scientismo neopositivista era messoin pericolo dalla filosofia del linguaggioe davarie altre insidie («congiure clericali», secondo Marlowe; e quando diceva queste parole gli venivano sempre in mentei cattolicissimi coniugi Anscombe:diecifigli), aveva fatto la cosa giusta: una rivoluzione preventiva. Sciabolando quae là, aveva tagliato la testa ad alcuni dogmi del neopositivismo facendocredere che fossero fondamentali. E poi avevapreso il potere. Da quel momento, generazioni e generazioni di giovanifilosofi, invece di accomodarsi come accadeva prima nel vagone-salotto del treno delle scienze, avevano presoa viaggiare proprio insieme agli scienziati. Ma, caro Quine, comefai allora a distinguerela tua filosofia dalle scienze? Insinuavano, metafilosoficamente, i reazionari. E

Quine, regale: me neinfischio. Del resto Ryle, un personaggio verso il quale Marlowecoltivavasentimenti ambigui(per i suoi ambigui rapporti con l’ambiguo Wittgenstein: altre congiure) a chigli chiedeva comefacesse a distinguere la sua attività di filosofo del “linguaggio comune” da quella deilinguisti professionali, avevarisposto: «Dall’odore». Infilò il libro — più o meno - al suo postoe, ciondolando,arrivò nelle stanze degli storici della filosofia. Si fermò difronte a unalavagna, cercandodi decifrare una scritta in greco antico. Di quella frase, che Porfirio attribuisce a Teofrasto, gli aveva parlato un col-

lega che da mesi ci stava perdendoil sonno. Secondo comericostruisci il testo, Teofrasto diventa o un animalista arte litteram,ti-

po Regan Singer, o un perfetto imbecille (certi suoi amici, raffi-

nati filosofi del diritto, avrebbero seraficamente osservato: non è

un’alternativa). Sullo sfondo,il fantasma di un qualche copista medioevale che forse, non potendo credere che qualcuno pensisul serio che dobbiamo essere giusti con gli animali, aveva tolto un “non”. Beati gli storici, specialmente quelli della filosofia antica — pensò —, giocanotutto il giorno a I/ nomedella rosa, e in più, quando ne azzeccano una, un testo che prima non si capiva diventa chiaro. E questo è progresso, accidenti; lento finché vuoi, ma progresso. In più, quando gli racconti una novità che hailetto in Rorty, in Parfit, in Elster, ti rispondono ghignando: lo aveva già detto Platone. E così l’unico progresso possibile rimaneil loro. Preseil gesso e aggiustò la frase. Almenofinoall’inizio della pros-

90

FLAVIO BARONCELLI

simalezione,sull’intelligenza del compagnoTeofrasto, materialista analitico avanti Cristo, non ci sarebbe stato alcun dubbio. Gli avanzi di lezione sulla lavagna gli erano sempre piaciuti. Con pochicolpi di cancellino, alcuni diventavano affascinanti come frammenti di Saffo. Quelli della sezione di logicae filosofia della scienza, poi, non avevano nemmenobisogno del cancellino.

Netrovò uno delizioso: «Se i canguri non avessero la coda,si ri-

balterebbero». Di chi era? Forse di David Lewis,l’essere più simi-

le a una pera Williams che Dio abbia mai creato (comprese le pere Williams: un altro problema peri logici?), piazzato a Princeton perché giovanissimo aveva avuto l’idea di spiegare cos’è una convenzioneattraverso la teoria dei giochi (secondo Marlowe, di come

funziona una convenzione ne sappiamo tanto come prima: mal’idea era buona). O forse di Frank Jackson? Altro tipo abbastanza lanciato sui “condizionali controfattuali”, e, per di più, professore in Australia. Lo preseil solito attacco di invidia: «Si divertono un mondo,questiqui. Si divertono e in più hannola coscienza a posto

perchéi loro studenti, a forza di chiedersi — come Bertrand Russell -— cosa voglia dire, nella Francia repubblicana, “Il re di Francia è

calvo”, finiscono col trovare lavoro più facilmente degli altri nel settore informatico». Aggiunse sulla lavagna il suo condizionale controfattuale preferito: «Se mia nonna avesse le ruote, sarebbe unacarretta», e andò a bighellonare nelle stanze diteoretica. I teoreti erano divisi quasi esattamente a metà. Una metà era composta,in realtà, di storici in libera uscita, liberi di innamorarsi

mano a manodi autori recenti, possibilmente affascinanti ma poco invadenti, tipo Ricceur, o magari di scoprire che un qualche classico era assolutamente insuperato. Da questo atteggiamento a volte — non spessissimo — potevavenir fuori qualcosa di originale. Siccome non avevanoun preciso programmadi storia da svolgere, alcunidi loro facevano slow reading, lettura lenta. «Comenei seminari tedeschi», dicevano per giustificarsi, dato che si tratta di una pratica che, se fatta bene, è divertente oltre che istruttiva. Sì, rispondeva Mar-

lowe: comenei seminari tedeschi e comein internet. Su internet la lettura lentasi fa per corrispondenza, a gruppidi interesse. Dopoil libro della Ishiguro, anche Leibniz è popolaresu internet. Ishiguro. Gli sembrava un bel nome da sponsor. Avrebbe comprato volentieri una telecamera, o un fuoristrada, marca Ishiguro. In aula, comun-

que,lo slow reading viene meglio. Si prende un pezzodi classico, ma

ALFABETO

91

veramentetosto,e lo si legge commentandoe discutendoal ritmo di unapagina ogni due mesi. Alcuni suoi colleghi lo facevano così bene chei loro studenti aprivanola boccaall’inizio dell’anno e la chiudevano verso maggio. L'altra metà dei teoreti era costituita dai postmoderni. Direttamente o indirettamente, seguaci di Heideggere parenti di Foucault, Lyotard, Baudrillard e, soprattutto, Derrida. Ecco:

quelli sì che sapevano rispondere alle domande della gente. Anche se in questo c’era qualcosa di paradossale. Perché la gente vuole certezze, e i postmoderni, avendo sgominato la Metafisica, sono convinti che non esistano né il Mondonéil Soggetto e chesia idiota pensare a una Ragione sola che valga per schiavi, padroni, uomini, donne, eschimesi e newyorkesi. Non è esattamenteciò che la gente vorrebbe sentirsi dire. La gente ce l’ha col relativismoe conlo scetticismo; è convinta che siano la causa del consumismo. O del comu-

nismo? Secondo Marlowe,nella popolarità dei postmodernic’era un

trucco. In realtà la gente fa la domanda «Professore,la filosofia ci

salverà?» in tono drammatico, ma questole basta già per acquietar-

si. Le risposte non le sta mica a sentire attentamente. E, siccomei

postmoderni parlano un linguaggio paramitologico,il suono delle loro parole ha un effetto galvanizzante o calmante, secondoi biso-

gni. Delresto, già la netta divisione delle varie epoche ‘contanto di date precise, meglio che nel Bignami, haun effetto lenitivo: «Siamo nell’epoca postmoderna, e almeno su questo non ci piove». Comunque, anche i postmoderni avevano, secondo Marlowe,

una loro funzione positiva. Specialmente quelli che, negli Stati Uniti, continuavano a romperei coglioni conla lotta di classe. Il vero grande difetto dei teoreti era, insomma, che non usano mai la

lavagna. Tutt’al più scrivonotitoli dilibri consigliati, tutti tedeschi. Lo scherzo di aggiungere a unalista un’opera di Schwarzenegger lo aveva già fatto da giovane,e i librai intorno all’università non lo avevano apprezzato. Sicché scrisse: «Per i postmoderni. Ho scopertoil vostro trucco:il genere umanovi chiede LA FILOSOFIA CHE DÀ LA RISPOSTA CHESALVA,e voi lo accontentate SALVANDOLO DALLA FILOSOFIA CHE DÀ LA RISPOSTA».

Esaustoe tutto sporcodi gesso,se ne tornònelle stanze dei mo-

ralisti. Su unalavagna c’era tutta una tiritera semiformalizzata, un’e-

sercitazione di un suo studente che s’era messo in testa di dimostrare, tramite un ragionamento ecologico, che gli animali futuri hanno più diritti degli uomini contemporanei. Per punizione gli

92

FLAVIO BARONCELLI

aveva ordinato dicercare,e studiare, il rapporto di Mary Warnock sulla fecondazione e l’embriologia,e tutti gli articoli di bioetica di Philippa Foot. «Guarda come mi sono ridotto. Dire ai medici quando devonostaccare la spina, e agli allevatori che devono fare divertire le vacche. Peggio di don Camillo». Era rimasto, anniprima,il solo a dire cheil lavoro del filosofo consiste nello studiare le

morali dal di fuori, e non nello spiegare alla gente cosa è benee cosa è male. Poi, aveva ceduto quando perfino Hare,l’ultimo sacerdote della metaetica, aveva incominciatoa fare etica applicata. Anche la metaeticasi era rivelata una fregatura. Vedendogliscritti di Hare, si era un po’ stupito anche perché credeva che l’autore non fosse più in circolazione. Ci sono deifilosofi che diventano importanti quando sono ancora così giovani, che ti sembra impossibile che siano ancora lì. ComeBerlin, classe 1909: aveva una casaa Pa-

raggi, maci stava poco perché gli mancavail dibattito filosofico. Ma quelli erano davverofilosofi, mica professori di filosofia comelui.

Geni, gente lontana. Luisi sentiva più vicino, seppure su un piano inferiore, a lavoratori accaniti come Rawls, che mette insiemeun li-

bro,dritto nel cuore dei nostri problemidi giustizia, in media circa ognidieci anni. Noiosissimo ma dadiscutereperaltri venti. Noncheil suo progetto fosse diventare come Rawls.Il suo ultimoprogetto,in realtà, era stato ben modesto:capire l’apprezzatissimo Natural Reasons di Susan Hurley. Progetto fallito. Lo aveva

anchetutto sottolineato e sporcatodicaffè e latte, ma non erariu-

scito a capire dî cosa trattasse. Prese le domandedi fondi, le riempì impetuosamentedi progetti formidabili, firmò per bene,e le gettò nel cestino. «Per un altro an-

no, poverae nudavai filosofia», pensò. Del resto,la sua idea era che

la filosofia poteva fare davvero qualcosa per l’umanità soprattutto perchésia per produrla che per consumarla (dueattività divertentissime) si consumano molte ore/uomoe pochissimo petrolio. In questo, era un classico: in fondo,la fissazione deifilosofi antichi era sempre stata quella: consumate, o Greci, meno olive, meno pane,

menofichi; abbandonate questi lussi orientali; in questo modo non dovrete più fare guerre di rapina. E tutti saremo un po’ più felici. Scesee dissealla barista: «Hovistocheil locale qui vicinolo affittano. Potrei aprirci un ufficio. con su scritto: PROF. L.H. MARLOWE ]JR.: RICERCHE ETICHE E PROBLEMI MORALI. Unascritta di

quelle sul vetro smerigliato. Lei cosa ne dice? Farei affari?»

ALFABETO

93

«Guardi professore,io glielo dico, poi faccia comevuolelei. Si lanci. Sonosicura chefarà un sacco di soldi. Contutte le corna che ci sono in giro...»

“Village”, aprile 1996

Romanzi

Lettera a Emilio. Leggere o rileggere romanzi. Colsolito furore acquisito da bambino quando,già a causa di una malattia, leggeresignificava viaggiare, essere via dalla stanza, vivere altre vite. Non c’era alcun senso nell’interrompere la lettura prima della fine, se non per poche ore di sonno. E nemmenoce n'era bisogno. Qualche conclusione.

Da qualche decennioi bestseller internazionali (e anche nazionali) “di qualità” vengonoscritti avendo in mente esclusivamentei critici, o i redattori delle case editrici, che poi è la stessa cosa.

Con buoneragioni.. i 1) Il libro si vende, purchésia pubblicizzato a dovere e piaccia ai critici.

2) I lettori di qualità comprano e poi leggiucchiano, saltano quasi tutto. Mai incontrato uno che, dopoavereesaltato — cheso io — il norvegese che popolarizzala filosofia, dimostri di sapere un po” di filosofia. E nessuno che fa mai un commentosugli innumerevoli sistemifilosofici di cui sono infarcite le scheletriche avventure western di Mac Carthy. 3) Importantecheil libro sia grosso. In aereo, se uno legge un libro piccolo viene guardato con compassione. 4) Divagazionidifilosofia mediocree risaputa,ricordi del bimbo che immagina l’adolescentee dell’adolescente che rammentail bimbo nei minimi particolari (cavolo, che memoria!), racconti di sogno (che maleducazione!), tediose riflessioni sulla morte, non

hannoaltro senso che questo: fare diventare un racconto di venti pagine un romanzone.

Tutto questo si può provare sia pensando alla percentuale oramai di scrittori che sono professori universitari (l’unico frutto godibile

94

FLAVIO BARONCELLI

di questa modaè ancora I/ nome della rosa), sia, in negativo, guardandocosa succedea quei pochiautori italiani che davvero hanno storie da raccontare e le raccontano bene (Franchini, Barbujani). Nonsonoaffatto conosciuti.

Lo schemaè quello di Cervantes, se vogliamo. Insomma,il romanzo da Stevenson alla fine dell'Ottocento è stata una bella parentesi chiusa. Cervantes però ci metteva dei racconti, nelle digressioni; Sterne a

volte era davvero spiritoso, Rabelais anche,e tutti e tre avevano più o menonascoste venesatiriche. Per esempio, Don Chisciotteall’ini-

zio instaura nella mente di Sancio la credenza nell'isola futura con argomentazioni tipiche della teologia. Tuttavia, ammettiamolo:già queitre capolavori sonolibri che troviamoperlo più insopportabili, sono emblemi della nostra appartenenza, manonli legge nessuno. Leggendoil Don Chisciotte trovo mille cosine che, se gli intellettuali davvero lo leggessero, sarebbero continuamentecitate. Sicché comprare Saramago è comefare l'abbonamento al Genoa e poi, con una scusa con l’altra, non andarealle partite. Una tassa

di appartenenza. Che tutto questo sia colpa di Joyce (per modo di dire, ovviamente: poisotto c’è la storia, main superficie lui è la chiave di volta). Il quale scrisse un romanzo molto bello, l'Ulisse. E uno quasi bello, Dedalus. Lostile dell’Ulisse, nelle sue fasi più alluvionali, sembra facilmente imitabile. Maselo imiti fino in fondorifai l'Ulisse. E ti fre-

ghi perché ti accorgi che Joyce le banalità da descrivere le sceglieva con arguzia infallibile. Sicché si ricorre anche a Dedalus, ossia un po’ di scrittura piana, con dentro quel cazzo di sognochefeci a tre anni, e le prediche dei frati, e le discussioni interminabili su Dio,e la teoria estetica.

Solo che Joyce era intelligente davvero, e in Dedalus c’è una storia densa di abbandonodella religione, e perfino un’esposizione di alcuni punti di san Tommaso che è unadelizia. Dimenticavo:è tanto vero chesotto gli scrittori e le case editrici c’è la storia, che in realtà in America (più al nord che al sud) c’è un

geniale imitatore di Joyce, Faulkner, che però ha dentrodi sé un po’ del sangue dei perfettamente ottocenteschi London,Steinbeck, ecc.

ALFABETO

95

Ci vuole un popolo che abbia qualcosa da dire? Forsesì, visto che nella cinquantina di opere che ho letto ultimamentesi salva Oz,a patto di dargli una bella prosciugata. Del resto, le cose più belle (anche nel cinema) degli ultimi decenni me le hannoofferte algerini, tunisini, turchi, e così via. (Ma questi non sonoin gara perché

micali horiletti). Certo che in qualche momentoe in qualche posto è più facile scrivere romanzi. Vittorini fece forse il suo pasticcio peggiore con Uomini e no, ma si riesce a leggerlo — saltando molto — per quel

tanto (quaranta pagine) per cui è un racconto di guerra partigiana in città.

Così fotse anche Fenoglio, senzabisognodi saltare. E qualche pezzo di Pavese. E di Pasolini, ma siamo semprelì: è gente che ha un popolo da amare o da odiare o da descrivere. Cosa salvo? Be”, non sonogiudizi assoluti. Il mondo che prendoin considerazione è una borsata della Coop con dentrolibri che avevofrettolosamenterifiutato, e libri maipresi in considerazione.

Libri che non richiedono nemmenodiessere prosciugati: Il Gattopardo.

E basta.

Uno può anche pensare alle Memorie di Adriano, mase si è appena letto I/ Gattopardo allora si capisce chele riflessioni sulla morte del principe di Salina sono quelle di un uomo,quelle (lunghe,insistenti) dell’imperatore sono quelle di un professore. Quindi sì alle Merzorie di Adriano, ma con unabella asciugatura.

Di Mac Carthy non sochelibro scegliere perché bisognerebbe poter scegliere solo la scenografia, quella frontiera blu chesi è inventato e che forse negli anni a venire qualcuno copierà per scrivere sull’Afghanistan. Il resto, mediocrità appena sopportabili. I/ sabato, per esempio. O insopportabili. Saramago, anche se Ricardo Reis è un buon Ulisse fatto su ordinazione perl'azienda di turismo di Lisbona. 24 agosto 2006

96

FLAVIO BARONCELLI

Storia La Storia e le nostre storie. Corrono tempi gramiperla Storia. Po-

chi decennifa, qualsiasi cosa combinasse, innumerevoli ammiratori la dotavano di un’iniziale maiuscola: il minimo, per chi sovrintende ai destini degli uomini. Astuta, provvida, beffarda o crudele,

era semprela Storia. Oggi non fa più “audience”: eppure in questi pochi anni ha messo in scena drammicolossali, grandiosi, sorpren-

denti, sconvolgenti e costosissimi. Ci mostrano a lungo tragedie spaventose, ma in esse non vediamotraccia di Storia. Eppure la Storia si era trovata così bene coi morti della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche; aveva mostrato la propria potenza, e confermatoo falsificato un buon numerodi teoremisull’uomoe la società. Anche la storia di oggi sembra essersi occupata, come le accade quando entra in frenesia, di un buon numero di dottrine

sociali; ma ha esagerato; e così ha perso molti punti. Per esempio, facendocrollare l’imperosovietico, ha “dimostrato” che hannora-

gione queiliberisti i quali affermano che nessun cervello elettronico potrà mai conteneree trattare le informazioninecessarie per far funzionare un’economia pianificata. Bel colpo; ma poi è andata avanti; e ora questa faccendasovietica sembra dimostrare che hanno torto anchei liberisti, in quanto il mercato selvaggio sembra molto più abile nello sviluppare mafie che nel mostrare sapientemente alla gente cosa si debba produrree a chi si può venderlo.In molti Paesi vi sono sicuramente individui razionali che, razionalmente, sperano che unadelle bande armate che combattonotraloro e controresiduidi Stato abbia rapidamenteil sopravvento, scopra diessere l’unico Potere, e debba poi mantenerel’ordine,e illuminarele strade. Unastoria così dimostra troppo, ed è forte più che mai la tentazione di vederla come una divinità grottescamente impotente,in balia di eventi ridicoli che, come la bellezza di Cleopatra,o la scarsa decisione di quanti montarono nel ’91 il golpe contro Gorbaciov, producono beffardamenteeffetti epocali. In realtà i fatti non dimostrano maiun bel nulla: tuttalpiù alcuni si mettono in mostra, sporgonoil capo;e le teorie sull’uomoe sulla società, sempre in agguato, ghermiscono al volo quelli che fanno loro comodo. Oggi, però,le teorie svolacchiano di malavoglia su una distesa di fatti che offre uno spettacolo in sé molto in-

ALFABETO

97

teressante, ma troppotriste e anche troppo vario perché qualcuno

possa vederci una trama.È difficilesottrarsiall’impressione chesia davverola storia, la storia di questi anni(o forse è il modoin cuila televisione ce la mostra?) ad averuccisola Storia. Certo:da più di un secolo quasi tutte le nuoveteorie filosofiche sparano contro l’hegelismo. Forse l’hanno un po’ fiaccato. Ma mi pare chesia solo da poco, e non per motivi squisitamenteteorici, che l’hegelismo nonabita davvero più qui. Le centinaia di studiosi che leggono appassionatamente le sue pagine ci offrono sempre nuovi Hegel, e prospettive diverse in cui vedere un grande genioal lavoro. Per riproporcelo, però, dovranno sempre più ricomporlo comeunautore diverso da quello che ha dato luogo all’hegelismo che anche i profani hanno subito: una teoria che ha convintoil mondoche la Storia ha un nerbo e un carattere. Da sempre i marxisti dicono che non dobbiamofraintendere:sono gli uomini a fare la Storia; ma, appunto,quella frase la intendevamo comunque in modo da rendere plausibile la Maiuscola. Oggi davvero non ce la facciamo più, e non ce la facciamo più nemmenoa ipotizzare che questa impotenzasia solo provvisoria. Fino a pochi annifa, per esempio, per prendere sul serio, come problemisociali, i problemi di autori come Hobbes e Hume,per i quali davvero sono gli uomini e solo gli uomini a doversela cavare (e non è assolutamente detto che se la cavino), ci voleva o una grande

passionefilologica, o un temperamentoteoreticisimmoe stralunato. I più pensavano che fosse ovvio che Hobbes era troppo pessimista e Humetropposcettico. Chiunquesapevache,in realtà,gli uomini ce la fannoa collaborare, e a dare un valoremoralmente obbligantealle re-

gole del gioco sociale. Sicché bastava renderli un po’ più realistici,

Hobbes e Hume, ed ecco che l’uomosi ritrovava una bella coscienza

kantiana. Ma poi anche Kant era un po’ troppotragico, con quei de-

stini progressivi così poco garantiti, e allora diventava soprattutto

un'ultima breve rampa.Poi(sia pure deprecandounavolta al dì il mito del Progresso) si pedalava in discesa. In questi anni siamo cambiati davvero; si provi, per esempio, a leggere Contratto e convenzione. Razionalità, obbligo e imparzialità in Hobbes e Hume, di Tito Magri (Feltrinelli), e a riflettere sulle immagini che evoca. Lì Hobbes e Humesi ammazzanodi fatica per mostrare che individui razionali, consapevoli che collaborare, e darsi delle regole, è nel loro interesse co-

mune, possonoriuscire a farlo. E che possono dimostrarea se stessi

98

FLAVIO BARONCELLI

che ciò è tanto utile a ciascuno da diventare giusto, e quindi moralmente obbligatorio. Non ci riescono; c'è sempre qualcosa che non funziona; e Magri spiega, usandole attuali teorie della scelta raziona-

le, che non è colpa né di Hobbes né di Hume,né del fatto che essi

non avevanopotuto leggere gli autori dell'Ottocento e del Novecento. Qualche anno fa, leggendo un libro così, uno avrebbe pensato di se stesso: sto giocando con la teoria dei giochi. Oggi, invece, quandosi ipotizzano gruppi di uominibeneintenzionatiche difficilmente riescono a inventare (e non riescono mai a giustificare) unastabile strategia collaborativa, è fin troppo chiaro che si parla della nostra storia, anche di quella che vediamo ogni giorno in TV, 1994? Tolleranza Linguaggio politically correct e tolleranza. A proposito della political correctness (correttezza politica) di cui hanno parlato Bacigalupo e Guala su queste pagine, vorrei aggiungere che il campusuniversitario statunitense è un esempio di comunità doveil problema della tolleranza e della non discriminazione è moltosentito e curato. L'obbligo di agire ed esprimersi in modo politically correct è solo una delle prove dell’esistenza di una grande attenzione perquesti temi;si

tratta infatti di unastrategia tesa a ottenere unasorta di «indifferen-

zain vista dell’uguaglianza». È il linguaggio, per intenderci,in cui i neri e gli indiani sono «membridi gruppi sottorappresentati»,il presidente è chaîrperson (e non più chaîrman) e il soggetto generico è sempre, ossessivamente, “egli” o “ella”. Per il nuovo venuto adeguarsi all’inizio è scomodo,e fastidioso; sembra di dover essere ipo-

criti dalla mattina alla sera. Il linguaggio politically correct è costitui to da eufemismi; la principale caratteristica di questi eufemismi è però che, eufemisticamente, è proibito chiamarli “eufemismi”, in quanto così facendo si ammetterebbe chele parole chesi evitano sono sentite come parolacce. C'è poi un corollario del linguaggio politically correct che all’inizio lascia molto perplessi. Lo straniero che cerca di armonizzarsi con le regole del posto impara ben presto che lì bisogna cercare di afferrare subito i nomi delle persone per-

ché,se si è costretti a rintracciare un individuo, non si può, se non violandoseverissime regole non scritte, cercarlo sulla base della sua

ALFABETO

99

descrizione. Non si può dire «è passato di qui un minuto fa un nero alto così?», anchese il personaggio in questioneè il capo degli studenti che studiano solo nelle stanze riservate ai neri e va in giro con

un cartello che dice «io sono nero (o magari, provocatoriamente, ne-

gro), e menevanto, e approfitto dell'occasione per rammentarvi che il nostro dipartimentodi studi etnici ha dimostrato che eranoneri anche la Sfinge e Aristotele». Praticamente non si può usare nessun aggettivo che faccia rientrare una persona in unaqualsiasi categoria: c’è sempreil rischio di farsi sorprendere a usare unostereotipo aggressivo. Unoche cerchi una famosa docente femminista che si vanta tutto

il giorno di essere femminista,e in classe non fa altro che variazioni a

proposito di questa sua identità, non può permettersi di chiedere: «comediavolo si chiama quella famosa femminista?» Siccomenessuno saquali siano gli aggettivi permessi, alla fine non se ne usa nessu-

no; bello e brutto ovviamente non si usano, e allora per sicurezza

nemmeno grasso e magro, giovane e vecchio, pallido e abbronzato. Solo le vecchie volpi del campussi azzardano a entrare in qualche particolare; ma lo fanno soprattutto con gli amici intimi. Lo straniero, poverino,finisce col non specificare mai e col non chiedere mai nemmenosesi sta parlando di una donnao di un uomo;cosa che, ovvia-

mente, quandosiparla inglese,è facile che rimanga nascosta. Sembra un atteggiamento inutilmente persecutorio nei confronti di qualsiasi realtà e sincerità; solo dopo qualche tempo sicapisce che, pur rimanendo semprebuffo,è utile. A forza di censurarsi a proposito del fatto che John è nero, quandolosi incontracisi accorge chesi fa più attenzione a quello che dicee si ha una tendenza menoforte a interpretare quello che dice come unacosacheè,sì, una cosa, ma,in-

nanzitutto, è una cosadetta da un nero.A forzadi fingere con se stes-

si e con gli altri di non notarese unapersonaè bella o brutta,cisi rende conto che è perfettamenteinutile notarlo di ogni persona, come se noi fossimoi giurati di un premio di bellezzae tutti gli altri i candidati. Tornandoin Italia, o anche solo uscendo dal campus,cisi accorgechela volgarità e l'aggressività del modo di esprimersi comune, per esempionei confronti delle donne, non sonoaffatto miti inventa-

ti da quattro femministe isteriche; e che l’educarsi a non verbalizzare

certe differenze finisce con l’incidere sul modoin cui le percepiamo. Io credocheil linguaggio politically correct sia un serio tentativo di renderela gente più tollerante. Questo non lo si può capire se si pensa che le differenze siano qualcosa di oggettivo, se si pensa

100

FLAVIO BARONCELLI

cioè «quello è nero e basta, mica posso vederlo bianco; e poi a me i neri piacciono più dei bianchi: perché non posso dire che è nero?» oppure: «quella ha il naso come una melanzana: è un dato esperienziale evidente e innegabile: perché non dovrei notarlo?» Il fatto è che sono molto pocodiffuse delle conoscenzefilosofiche di base che non sono nemmenotroppodifficili da capire e sarebbero moltoutili. Sarebbe per esempioutile che la gente sapesse che un qualsiasi oggetto, e quindi anche una persona, può essere descritto in miliardi di modidiversie tutti astrattamente corretti, e che solo il motivo per cui una descrizione ci serve rende la descrizione scorretta o corretta. «Perché parlandomi di Sam midici subito che è nero? Perché non mihaidetto invece che suona benissimoil flauto? Il suo colore è importante? Lo so che non hai niente contro i neri, che anzi haidei pregiudizipositivi (a proposito: dovresti evitare anche di coltivare “stereotipi positivi”) nei loro confronti; ma cosa c'entra adesso il colore? Stiamo forse accingendocia regalargli una camicia,e ci serve quindi sapere qualecolore gli stia bene?» Questo atteggiamento ovviamente non eliminai problemireali, né esclude che la gente possa, ove lo ritengautile, rivendicare e mettere in mostra la “propria” identità e la “propria” diversità; ma cerca di ridurre al minimo la produzionee l’enfatizzazioneselvaggia di stereotipi e di diversità non necessarie perle necessità della vita e nonaccettate daisoggetti “diversi”.

Naturalmente si potrebbe anchefare dell’ironia sul fatto che la grande quantità di energie e di danarispesi in tolleranza è possibile perchéil carzpus è unaspecie di isola utopica, se confrontato alla società esterna. Si potrebbe anche aggiungere cheè nell’interesse economico immediato dell’università chetuttofili liscio e nessun grup-

posi senta discriminato. Maè proprio per questo insieme di motivi che non saprei dove andare a trovare un esempio migliore di comunità tollerante, o che almenotenta contuttele forze di esserlo. 16 gennaio 1993

Undici settembre Riflessioni di tempo di guerra su un’intelligente ipotesi del compagno Chezzo. In questo momento che incominciala guerra sarebbe bello dire: «Ben, meno male checi sono i compagni, unabella cuccia cal-

ALFABETO

101

da, una bella manifestazione tutte facce pulite e menti semplici e

limpide». Sarebbe bello, mentrefai caso che anchei nostri più umili lettori di agenzie cambiano vocesulla faccendadell’elicottero, comedire, sono morti una dozzina con un elicottero (voce addolorata),

manonvi preoccupate, perché è stato un incidente (voce allegra), e chebel sollievo per le vedove che penseranno «cicca cicca Saddam, cicca cicca Saddam, sono morti ma tu non c'entri un cazzo». Sarebbe, ben non esageriamo: non bello, ma un po’ consolante,

almeno. E un po’ lo è, ma c’è unacosa che mifa girarei coglioniin modo supplementare: che se vado a manifestare magari incontroil compagno Chezzo.Sì, lo so, nonè certo il problema più grave. Diciamo così: mettiamo chela faccia di Bush che guardadi lato, e un

po’ in alto (mai una volta che capisca dov’è precisamente che deve guardare: mapoitutto si aggiusta perché invocal’aiuto di Dio, insomma guardavain alto solo un po’ in anticipo). Dicevo, mettiamo

chela faccia di Bush tutto il resto della missionedi civilizzazione, e i morti,e i patriottismi, e il settimo cavalleggeri, e Dio che li deve aiutaretutti,il tutto servito a casa ognitre secondi, sia una merdain-

telligente di precisione da novecento chili che ti devi mangiare ogni giorno: ebbene per me è comesesu quella merdaintelligenteci fosse un piccola mosca abelinata. Insomma manteniamoil senso delle proporzioni, ma la moscac’è, proprio lì in cima,e si chiama Chezzo.

Il compagno Chezzo. Lo chiamo compagnoperchélui è convinto di esserlo, e ormai non c’è nessun posto da cui uno lo puoi espellere; e lo chiamo Chezzo perché ha imparato da Paolo Rossia

dire chezzo, chezzo, non cazzo, che così si capisce meglio cheè di

sinistra. Il compagno Chezzo. Ancora un mesefa si è alzato e ha detto a un pubblico secondo lui fatto tutto di imbecilli in quanto non sono suoi amicistretti: «Belin, ma possibile che non lo sapete che cinquemila ebrei non sono andatia lavorare nelle torri l’11 settembre?» L'hosentitoio, l’abbiamosentito tutti, lì, noi imbecilli, e a richiu-

dere la bocca in modo normale ci sono volute delle ore. Ha avuto un casino di mesiperriflettere su questa stronzata, Chezzo. Deve averla elaborata per bene, per ricordarsela dopo tanto tempo; è questo che mi disturba. Immaginare cosa diavolo si immagina,lui, nella sua testa. Cinquemila, capito? Cosa immagina Chezzo nella sua testina che ogni minutoci scappa un’analisi, mentre con le sue zampine impasta

quei novecento chili di merdaintelligente? Questo. Più o meno.

102

FLAVIO BARONCELLI

Cifu chilo disse alla moglie. Entrò, posò cartella e cappello, baciò fuggevole e disse: «Sai cara, c'è una buonanotizia, domani non vadoa lavorare». «E perché?», chiese la moglie un po’ incazzata perché, essendo nemica di Chezzo, bisogna capire che è troia e che ci avrebbe avuto un appuntamento con l’amante,per l’indomani. «Come perché? Nonlo sai che domanifannosaltare le torri?» «Che strano,caro:la televisione non lo ha detto».

I più prudenti, naturalmente, si ricordarono di dirglielo, alla

moglie: «Guarda cara che non lo devi dire a nessuno». «Belin, caro, ci mancherebbe, non sono mica abelinata», fu unanimela ri-

sposta. «Vuoi mica che lo dica anche al nostro vicino lì davanti, che poi magari si salva anche lui?»

Ci fu chi nonlo disse, vuoi per cautela, vuoi per farsi i cazzi

suoiil giorno dopo senzala famiglia. E cifu chi nonlo disse perché lì per lì gli era passato di mente. ci fu anchechise lo dimenticò proprio del tutto, e andò lavorare, ed è per questo che centinaia di ebrei sono poi morti nelle torri, cosa che poi fece comodoai reazionari per negare questa verità che il compagno Chezzohain testa. «Se non vuoifar sapere unacosa,dilla a cinquemila persone,e se hanno famiglia è meglio», disse il capo dei servizi americanial capodeiservizi israeliani. «Belin, m'hai tolto la parola di bocca», disse il capo deiservizi israeliani a quello dei servizi americani. E poi aggiunse, mentre stava per andarsene: «Ancora due cose:ricordati di tenere d’occhio il compagno Chezzo,che è unochie per certe coseci ha un’intuizione terrificante. E poi, tutti e due vediamo un po’ di ricordarci, domani, di evitare il Wwt». «Eh,sò», dis-

se il capo dei servizi americani: «Sarà meglio che mifaccia un nodo al fazzoletto, perché se mi dimentico poi domanisai cherisate si fa il. compagno Chezzo». E incominciò a ciancicare con movimentiinsulsi un fazzoletto tutto sporco di mucointelligente. 21 marzo 2003

Villeggianti Una volta c'erano î villeggianti sì bwana, si accomodi bwana. L’anno scorsola festa del mio paesesi è tenutaalla fine di giugno.I tigli, alti e imponenti da quando l’Anas ha “dismesso” di tosarli, erano al

ALFABETO

103

colmo della fioritura. Quest'anno hannoritardatoa liberareil loro

profumodi miele giusto di una settimana, perchéla festa è iniziata ni primidi luglio.I tigli hanno ragionea regolarsi così: se nonlo facessero,il presidente della Pro Locoli abbatterebbe a calci. Anche

il tempoci temee ci rispetta; tutti gli anni. Ogni tanto due gocce di pioggia, ma solo per smorzare la polvere. L'unico che nonci rispetta è un famoso demografo passato da Genova poco tempofa. Alle sette c’è una coda lunghissimaal ristorante. Sembra un po’ un giudizio universale, con gli eletti e i dannati. Le persone sedute

mangiano,felici, distogliendo lo sguardodalla disperazionedi quelle in piedi, che hanno occhida uccelli da predae caviglie frementi. Guardo le ragazze del paese che scodinzolanotra i tavoli a prendere ordinazioni. Una volta per vedere delle ragazze così bi-

sognava andare almeno a Finale, dove d’estate c’era pieno di tedesche. Corre voce che Giancarla, gran direttora, le mandi tra i tavo-

li a farsi vedere solo finché non hanno trovato un buonpartito. Dopopassanoin cucina. Naturalmente non è vero.

Vado in paninoteca, dove un noto avvocato mifa un panino. Un po’ troppo buono; temo che sia un panino da raccomandato; mi sembra impossibile cheli faccia tutti così. Evito di indagare, e miseggo a guardare la gente. Tanta gente. Tantissima. Nonsi direbbe proprio che da queste parti siamoin via di rapida estinzione, comeha pronosticato il famoso demografo passato da Genova. Tra breve spariremodalla carta geografica, secondolui. Mi fa un baffo, perché so che i demografi sono gli unici scienziati moderni che riesconoa sbagliare più previsioni dei meteorologi, e degli economisti. In genere ragionano comeil mio amico Giambertoa otto anni. Aveva la febbre. Alle 16 erano 37 gradi e mezzo. Alle 17 trentotto. Alle 18 trentotto e mezzo. Fatto un rapido calcolo, Giamberto annunciò alla famiglia che entro le 23 sarebbe morto.È diventato un bravissimo matematico.

Per ore,in attesa dell’estinzione, guardo e ascolto la gente che

passae ripassa, e ho l'impressione di notare qualcosa di importan-

te. Però non so cosa. Gli italiani sono diventati belli e sanie dritti,

maquesto lo sapevo già. Ci dev'essere qualcos'altro. Questafolla ha qualcosadi strano. Dopodueorecapisco: non riconosconéturisti né paesani. Una

volta c'erano i paesanie c’eranoi villeggianti.I villeggianti si rico-

noscevano subito, e si vedeva anche da lontanoche sapevanodies-

104

FLAVIO BARONCELLI

sere diversi, più o meno comel’uomo bianco. Mancava poco che girassero constivali e frustino. Venivano spesso trattati con deferenza; sì bwana, si accomodi bwana; se posso ti frego, io povero

contadino; ma proprio perchései superiore,e io hoil diritto di risarcirmi vendendoti caro questo pollo marcio. Una volta mica tanto tempofa. Diciamo trentacinque anni fa. Se un’autosi fermava a chiedere un’informazione, rispondevamosull’attenti e poi raccon-

tavamo tutti la nostra avventura. Nonso cosasia successonel frattempo. Devo essermidistratto. E

ora, improvvisamente, una domenica sera mi rendo conto che non

riesco a capire da dove vengala gente. Soprattutto i giovani, ma anche le persone di quaranta-cinquant’anni. Non riesco a distinguere né nativi né uomini bianchi. Non è solo questione di vestiti, maan-

che di modi di camminare,di atteggiarele spalle, di gesti, di modi di

parlare. Sonotutti diversi, ma individualmente. Nonsi differenziano

a branchi, a prima vista, per occupazioneo luogo di residenza. Riconoscoi discendenti di un signore che, quandovoleva andarea vedere la sua cascina, si faceva venire a prendere (ancora circa sessant’anni fa) dai mezzadricol carro. Sul carro ci mettevano, i mezza-

dri, le loro lenzuola buone, che non si sporcasseil vestito bianco..I suoi discendenti sonoricchi, colti, vivono in una grande città (sono

anche simpatici e lavoranoalla festa); ma quel che micolpisce stase-

ra è che non avrei modo,se non conoscessi tutti di persona,di di-

stinguerli dai discendenti dei mezzadri di un tempo. Deveessere quella cosa che chiamano omologazione. Dicono che è unabrutta cosa. Dicono che si perdela diversità e che la diversità è unaricchezza. Sarà. Trent'annifa certi miei amicial sabatosi sentivano un po’ troppodiversi, così si bruciavano le mani conla calce perfaresparirei calli. L'indomani si mettevano una camicia bianca troppo stirata, dei pantaloni luccicanti, compravano un pacchetto di sigarette americane e andavanoalla spiaggia a presentarsi come in-

gegneri. Avevano le mani bollite, camminavano comese avessero avuto un sacco da un quintale in spalla, e stavano zitti per non dire strafalcioni.Qualcuno faceva penosi tentativi di parlare nel dialetto della riviera, e poi gli scappavano dei sacramenti in piemontese. La ricchezza emotiva del dialetto serviva, più che altro, a bestemmiare

la sorte cheli aveva fatti nascere in campagna. Forse la loro diversità era — agli occhi di un etnologo — unaricchezza, ma loro non se ne accorgevano. Anch’io — pur essendo

ALFABETO

105

paesanosolo a metà — non avevo proprioidea di quantitesorifos-

sero nascosti nei nostri sensi diinferiorità. Quando tornavo a

scuola, al ritorno da quattro mesidi paese, giravo perla città sfiorando le serrande dei negozi per paura che qualcuno mi vedesse. Certo essere diversi, ma da quell’altra parte, quella del cittadino, dell’ingegnere vero, del villeggiante, doveva essere divertente.

Perfino un povero,se cittadino, veniva qui, magari ospite di parenti, e si sentiva un po’ superiore, quasi come un ricco. Ecco un

senso molto semplice e però squallido in cui la diversità funzionava davvero un po’ da ricchezza. Un tizio era molto invidiato perché abitava a Sanremo.Tutti fiori dappertutto a Sanremo,diceva.

Portammoungiorno un mioprozio, suo vecchio amico,a trovar-

lo. In 600. L'amicofacevail portinaio e abitava in uno scantinato,

e non c’eraun fiore nel giro di un chilometro. Tornammoin paese — un viaggio di due ore — senza scambiare nemmenounaparola. Il mio prozio guardavafisso davantia sé, e non faceva più caso nemmenoa quello che — dopo tutto — rimaneva pur sempreil suo primo viaggio in macchina. L'amico, ormai vecchio, in paese non ci tornò più. Non ho mai visto,fuori dai libri di etnologiae di storia sociale,

una diversità che non fosse intesa come marchio di superiorità o

inferiorità. E così questafolla di individui senza diversità evidenti, senza marca e senza marchio, mipiace. Proprio tanto. No, non so-

no così stupido da pensare ché siano tutti felici. Ma almeno non hannoun sovrappiù di vergogna garantita in partenza, per nascita.

Anzi: finalmente, dopo tremila anni di poesia falsa e bugiarda, la gente che abita in campagna (almeno da queste parti) ha davvero dei vantaggisu quella che abitain città. E lo sa. Anche per questo il demografoci faun baffo. “Il Secolo XIX”, 9 luglio 1995

Zoomate radiofoniche’ La Filosofia, la realtà contemporanea. Care ascoltatrici e cari ascol-

tatori di Fabrenbeit. Dato che proprio celebre non sono, ritengo giusto che questa prima lettera serva a darvi un’idea di comesiafatta la testa del voxtro interlocutore di questa settimana.

106

FLAVIO BARONCELLI

Vi scrivo da Genova dove insegno Filosofia all’università, sono

quasi quarant’anni che facendo Filosofia mi diverto come un matto. Mi rendocontocheil divertimento chesilega alla libera attività critica, ossia al pensare più chiaramente possibile, non ètra gli aspetti più noti della Filosofia. Al contrario, è diffusa l’idea delfilosofo che ammaestra severamente, dà risposte suggestive ‘a temidi paurosa complessità, allude a sapienze misteriose e solenni. Queste immagini sono così potenti da ingenerare perfino neifilosofi professionali delle aspettative balorde che incidono sul modoin cuisi scrivonoe si leggonoi testifilosofici. C'è unastoria, quella dei “castelli di Yale”, che rende un’idea

abbastanza precisa di ciò che ho in mente. Negli anni della contestazione, anniintellettualissimi e molto filosofici, negli ambienti universitari tutti leggevamo un'elegante traduzione Einaudidella

Dialettica dell'illuminismo di Adorno e Horkheimer, forseil libro

più famosodella Scuola di Francoforte. In quel testo si parlava tra l’altro della produzione in serie, meccanica, di massae si faceva l’esempio dei “castelli di Yale”. Dove sono esattamente, come sono fatti i “castelli di Yale”?

Nonsocosaavessero in mentegli altri lettori, nessuno osavarivelare la sua ignoranza e certamente molti assorbivano quel passo senza farsi proprio nessun problema. Per conto mio, mi attestai sull’ipotesi di una schiera di piccole costruzioni disneyane costruite in un parcoperfarci giocare i bambini. Passarono vent’anni prima che nell'ambientesi venisse a sapere che queicastelli non sonoa Yale e non esistonoaffatto. E allora? In tedesco, quella lingua di Hegel e di Marx che allora, nell'ambiente della sinistra intellettuale, si venerava come rivoluzionaria, schloss

vuol dire sia castello che serratura. L’autorevole‘traduttore aveva scartato inconsciamentele serrature Yale, quelle a causa delle quali su molte porte c’era scritto: «Yale, si chiude da sé». Le aveva esclu-

se perchéun oggetto così comune,così basso, non gli sembrava de-

gno di un discorsofilosofico sofisticato, né si curò di chiedersi cosa ci facessero a Yale dei castelli costruiti in serie. Del resto,si sa, in un

libro di filosofia micasi può capiretutto, parola per parola. Per molti anni leggemmo, discutemmo, citammo la Dialettica dell'illuminismo senza far caso a quella stravaganza pergli stessi motivi percui il traduttore, che pure era personacoltissima,l’aveva inconsapevolmentepartorita.

ALFABETO

107

Affacciandomitra i merli scintillanti di un “castello di Yale” vi faccio ciao con la manoe mi augurochele 24 ore che ci separanodalla prossimalettera siano pertutti noi serenee ilari come quelle che, secondoil grande Spinoza,la Fildsofia può assicurare. Vostro,

Flavio Baroncelli La politica della memoria. Care ascoltatrici e cari ascoltatori di Fabrenheit, domenicascorsail calciatore Di Canio ha nuovamente fatto il saluto romanoal popolo adornodi svastiche, cui affermadi appartenere. Nonostante la sua calvizie, quando dice che appartiene a quei branchi gremiti di giovani è il caso di crederci. Ovviamente lui è un capo e magarista già prenotando preferenze per unacarriera politica. Ma, mentalmente, non sembra davvero molto diverso da loro. È difficile rendersene conto, perché parla in modogarbato e compito e da un secololosi ascrive alla categoria

dei calciatori anziani, mail centrocampista carismatico della Lazio

è un uomogiovane. Questo significa che la sua educazione è avvenuta pochi decenni fa, quando già andava ponendosi nei termini attuali il problema della memoria con la maiuscola. E dunquei suoi comportamenti, insieme a quelli del suo popolo, sono anche indizi di come funzionala strategia della memoria nel nostro Paese. Ora,ciò che colpisce uno come me, educato ai tempiin cui le questioni di classe venivano messeal centro della storia del nazifascismo in modo perfino esagerato, è il cortocircuito che avviene nella mente di questi disgraziati tra odio per gli ebrei e necessità del nazifascismo. Sembrachegli ebrei siano il loro unico problema e, quando qualcunosiribella ai loro gesti, la colpa è sempre della lobby ebraica. L'ebreoè il centro ditutto, il resto conta poco, sta

sullo sfondo. Si badi che l’isolamento del nemico è unastrategia di costruzione del proprio immaginario essenziale per un rigoglioso sviluppo della psiche fascista, perché al fascista piace fare l’eroe, piace presentarsi come unavittima dell’intero sistema; mail suo mondo è veramente perfetto se i suoi nemici mentali sono bencircoscritti.

L'ideale è cheil persecutore da cui difendersi sia di fatto una minoranza poco difesa. È infatti piuttostonaturale cheil fascista sia ancherazzista.

108

FLAVIO BARONCELLI

Per questo è essenziale che nel discorso comune nessunavitti-

ma, nessun obiettivo polemico deifascisti sia mai lasciato solo. E

per questo mi preoccupo quando, pensandoalle giornate della memoria, mi rendo contodi quantosia difficile impedire chela figura dell’ebreo dell’olocausto rimanga sostanzialmente isolata. È difficile porre questo problema, anche perché c'è subito chi ha voglia di mettersi a recriminaresu chi lascia solo chi,e su chi in realtà

vuole rimaneresolo e via dicendo. Sono discorsi dannosi come guerre tra poveri. Sarebbe molto benericonoscereil problemae affrontarlo per quello che è: un problemadi interpretazione dellastoria,sì, maoggi, soprattutto, un problemadi strategia della comunicazione. Nelsalutarvi faccio un proponimento: mi metterò a studiare comesi deveil tifo calcistico politicizzato. Esistono delle ricerche,

mafinora le ho un po’ trascurate perchéi tifosi mi mettono troppa tristezza. Spero che Fabrenheit mi aiuterà a colmare questa mialacuna grave e anche paradossale per uno studioso del razzismo. Di Canio, per conto suo, ha promesso che d’orain avanti salu-

terà sempre come una comparsa del film Scipionel’Africano. È dunque probabile che prima o dopo costringa qualcuno ad affrontare il tema dell’apologia del fascismo. Sarebbe un reato — comedice Michele Serra — anchese nella repubblica dell’obliosi fa finta di nonsaperlo. Semprevostro,

Flavio Baroncelli Il concetto dinotizia. Cari ascoltatori di Fabrenbeit, in codaalla lettera di ieri, che era sui saluti romani del giocatore Di Canio, ho ascoltato le dichiarazioni del suo presidente, Lo Tito. Per favore, ridatemi Di Canio!

E poi c’è la multa, modica peraltro, dell’autorità sportiva per esposizione da parte deitifosi di simboli rievocativi di discriminazione. Mi sembradi capire chesitratti di svastiche e di altri simboli evocativi di questo tipo. Ridatemi Lo Tito! Anzi, facciamocosì, tenetevi tutto, almeno per qualcheora:attualità, agenda,notizie. Attualità. Se uno nonsi informa,si sente male, senso di vuoto.

L'aveva pur detto Hegel che leggereil giornale è comedire la pre-

ghiera. Infatti, se vai in vacanza e noncisonoi giornali,ti senti in

colpa; poi torni, comprii quotidiani, per sbaglio vai in bagno col

ALFABETO

109

giornale abbandonato il mese prima e per dieci minuti leggi senza rendertene conto. Se poifai dei pasticci con la TV il videoregistratore, è ancor peggio, perchélì non esiste l’ingiallimento della carta, e gli spot pubblicitari contagianoconil loro dinamismoil telegiornale registrato per sbaglio sei mesifa. L'agenda. Mettendo insieme Marcuse, Chomsky e Beppe Grillo, potremmodire che l’agenda di ciò che dobbiamosapere e discutere giorno per giorno è costituita da una combinazione, anche

un po’casuale,di fattori disparati che vengonodasoggetti diversi. C'è l’onesto, il capace lavoro di molti professionisti dell’informa-

zione, ma poi ecco la censura, l’autocensura, le veline, quelle di

unavolta,l’omertàtra ceti dirigenti, la stupidità, l’ignoranza,la pigrizia mentale.

Sì, lo so che mentre miesibisco in questi esercizi di esagerata

saggezza, ancheun po’ risaputa, l’etere è sconvolto da un uragano di nuove urgenze. Volete che non miinteressi l’arresto di Fiorani, per esempio? Certo che mi interessa. Sono un animale hegeliano, ogni giorno sgrano il mio rosario; però ogni tanto cercodi tirare le sommedi tutta questa fatica. Cerco di valutarela validità del flusso della comunicazione. Non dalla sua quantità e vivacità o dal suo, vero o presunto, quoziente di libertà, ma dai risultati.

Vale a dire che mi chiedo cosa sappiamo,cosa ricordiamo cosa invece dimentichiamoa gioco lungosu realtà essenziali, su dati senzai quali diventa impossibile riflettere sensatamentesulle scelte importanti della nostra epoca. Disolito ho delle brutte sorprese. Cistate a fare un esperimento? Rispondete a questa domanda: quandoè natoin Italia il sistema sanitario nazionale? In altri ter-

mini, quanti anni sono chenel nostro Paese c’è l’assistenza sanitaria gratuita per tutti?

Provate a rispondere, ma di botto, senza prima scavare per mezz'ora nella memoria. Nella lettera di domanitroverete il mio commento. Cordialmente vostro,

Flavio Baroncelli

Il welfare. Cari ascoltatori, riprendo la domandaconcui si chiude-

va la lettera di ieri: quanti anni sono che in Italia c’è l'assistenza gratuita?

110

FLAVIO BARONCELLI

È unquesito che da qualche settimana pongoa tutti quelli che micapitano tiro. Di solito le persone con meno di 45 annirimangonoperplesse comedifronte a una scoperta: le Asl non sono state create da Dio. Poi ci provano: 1948? 1950? L'idea è cheil Sistema Sanitario Nazionale faccia tutt'uno con la repubblica. Ladatavera è 1978. Questo vuol dire, per esempio, che meno di trenta annifachifiniva gli studi perdevail diritto alla mutua del padre, e sperimentavala paura di imbattersi in una malattia prima che in un lavorochegli desse diritto alla cura. Quell’Italia così arcaica, o forse così americana, così moderna,era qui solo ventisette

annifa, anchese è cadutanell’oblio.

È strano, perché da anni ormaila più importante discussione pubblica è proprio quella sul welfare state. Il tema è in agendatutti i giorni. Migliaia di interventi, milionidi parole intelligenti, sofisticate. Si parla di due modelli, di due blocchistorici diversi. L'Ita-

lia viene collocata tra i Paesi a welfare state, quelli che dovrebbero

modernizzarsi, aprirsi a qualcosadi diverso. È rarissimo che qualcuno rammenticheil cuorestesso del wel-

fare state, l'assistenza gratuita, solo ventisette annifa non c’era.

Avere questo dato a disposizione della nostra coscienza in ogni

momento, come ovvio, immediato, saperlo almeno come sappiamo

cheesiste la giornata dei nonni, vorrebbe dire non perdere mai la

consapevolezza che, come le abbiamo conquistate, le cure gratuite

pertutti, così le possiamo perdere. E invece siamo chiamati a giu-

dicare, a scegliere, tra diversi modelli di società, con quel dato es-

senziale sepolto in un angolo remoto della coscienza. È un esempio di comela comunicazione pubblica possa mettere ripetutamente all’ordine del giorno un argomento senza fare emergere,o addirittura seppellendo,dei dati essenziali. Per questo da una parte è doveroso sincronizzare la propria agenda mentale con quella della discussione pubblica, ma dall'altra bisognerebbe anche potersi appartare in un angolo silenzioso, dove si possa ascoltare il mondo direttamente. È impossibile. Serve a qualcosa, però, ascoltare attentamente

ciò che si pensa quandosi è meno immersinelflusso mediatico. E, ovviamente, serve leggere dei libri, magari evitando quelli chesi presentano cometroppoattuali. Comunque, a me piacerebbe che ogni anno il presidente della Repubblica celebrasse con un discorso la data di nascita del siste-

ALFABETO

11

masanitario nazionale. Dico sul serio, forse perché sono stato per due mesi in uno dei migliori ospedali degli Stati Uniti. Allora era l’unico posto al mondo dovepotevofare degli esami molto speciali, che per ora servono a pochissime persone. Era stupendo. Posso assicurarvi però chein sostanza medici e infermieri e cure non erano migliori di quanto a Genova miviene garantito gratis. Unadifferenza miha colpito: là gli utenti sono molto menoinclini di noialle lamentele generiche. Perché? Perché sanno quanto siano preziose le cure. Lo sanno a loro spese perché paganoe, anche quandosiano coperti da un’assicurazione,il sistema impedisce loro di dimenticare quanto costa curare la gente. Noi, siccome non paghiamo, tendiamo a credere chesia gratis, e quindi dovuto. Proprio per questo tendiamo nonsolo ad approfittare, ma anche a lamentarcidalla mattinaalla sera. Faremmo meglio a piantarla. Protestiamo, denunciamo, portiamoin tribunale i fannulloni,i ladri, gli incapaci. Ma, per favore,

non partecipiamo al coro dei belati generici contro l’assistenza pubblica. Potrebbe costarci molto caro. Semprevostro,

Flavio Baroncelli L'intelligenza collettiva. Care ascoltatrici e cari ascoltatori di Fab-

renhett, è strano: nei Paesi comel’Italia, dove i processi di modernizzazione sono andati molto avanti, si assiste a due fenomeni che

a prima vista sembrano contraddirsi. Ci sono tantissimicittadini ci-

vili, ben intenzionati, istruiti e capaci dibrillanti prestazioniintel-

lettuali. Eppure sembra che governareil Paese sia un’impresa quasi impossibile. Probabilmente qualcuno penserà che mi sono bevutoil cervello. Dovesonotutte queste persone in gamba? Capisco questa perplessità.

Accendiamo la Tv e vediamo deibivacchidi bruti che ci vengono presentati sia come specchio del reale sia comecollezione di modelli; andiamo in giro e il panorama umanoci sembra deprimente. È vero. Ma bisognatenere conto del fatto che in quasi tutti gli ambienti, dalla riunione di condominioalla crociera, dal tre-

no al grande magazzino, gli individui in gamba si comportano in modo molto meno appariscente degli incapaci, dei cafoni e dei prepotenti. Sonoaltre le esperienze che testimonianol’esistenza di molte persone di grande qualità.

112

FLAVIO BARONCELLI

Quandohoa che fare con gli studenti in aula, ma perfino agli esami, spesso mi capita addirittura di commuovermi, perché lo spettacolo offerto da una giovaneintelligenza in azione può emozionare come la musicao la poesia. i Poicoi colleghisi finisce sempre per lamentarsi dell’abbassamento del livello medio, vero o presunto, e dell'incredibile insi-

pienza dei menopreparati, vera e tutt'altro che presunta. Mal’esistenza di un’élite molto cospicua di cervelli brillanti è un dato di fatto evidente. Avrete capito poi che sono curioso come una scimmia sicché sento, guardo e leggo qualsiasi cosa; badate, nonhoscritto che capisco qualsiasi cosa. Mi interessano anche moltoleinterazionitra i media e il pubblico. Evito di soffermarmisugli interventi in trasmissione del popolo di Fabrenhett. Se dicessi comeli giudico, passerei per un ruffiano. Allora, abbandoniamo per un momentoil nostro confortevole covo. Viassicuro che, ad esempio,le lettere che la gente mandaalle riviste di hobbistica, dal motociclismo all’informatica, esibiscono

spesso un livello di scrittura e di argomentazioni molto alto. Solo

vent’annifa questa era una prerogativa delle riviste americane. Og-

gi non c’è quasi più differenza. Torniamo al problemainiziale: possibile che la diffusa presenza di cittadini in gambanorì rendapiù facile elaborare e portare avanti delle scelte collettive tendenti al bene comune? È forse meglio avere un popolodi bruti? Be”, molto dipende da cosa si intende per bene comune, e quindi non c’è dastupirsi se la millenaria discussione su questo tema è molto interessante, ma fornisce poche certezze. In tempi relativamente recenti è nato un mododi affrontare problemi di questo tipo molto intrigante. Qualche, intuizione geniale si trova già neifilosofi a partire da Blaise Pascal, David Hume, Condorcet, eccetera; ma è soprattutto al giorno d’oggi-che si fanno studi sistematici, sofisticati e divertenti a partire da due constatazioni:

1) nel passaggio dalle scelte razionali individuali a quelle collet-

tive succedono delle cose maledettamentestrane;

2) non sempre ragionare correttamente è la strategia migliore per arrivare a un buon risultato. Se la cosavi incuriosisce, potete cominciare dal web. Cercate con Google, per esempio, la rivista “Networks”, il numero 5 del

ALFABETO

113

2005. Altre parole per trovare roba buonain fretta sono: errore, deliberazione, “uniba”, che poi è l’Università di Bari. Ripeto: Networks, plurale, o ancheerrore, deliberazione, “uniba”.

Vi ringrazio dell’attenzione. Spero ci sarà un’altra occasione in futuro per incontrarvi epistolarmente. Io in questi giorni non misono annoiato, comesperodivoi. Vostro,

Flavio Baroncelli

! Comunicazione tenuta da Flavio Baroncelli al convegno Bar-Bar: la diversità nella cultura occidentale, organizzato il 14 maggio 1998 a Savonadal liceo classico G. Chiabrera. 2 La puntatasuccessiva,intitolata Siarzo razzisti passivi. Ma prontiad esplodere, è stata pubblicata in EF BARONCELLI, Mi manda Platone, il melangolo, Genova 2009, pp. 127129.

.

? Il testo chesegueè stato scritto da Flavio Baroncelli e inviato alla professoressa Silvana Castignonein occasione del convegnodi studi organizzato in suo onore dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genovail 27 ottobre 2006 (cfr. E BARONCELLI, Lettera a Silvana Castignone, in Filosofia e realtà del diritto. Studiin onore di Silvana Castignone, a cura di I. Fanlo Cortés e R. Marra, Giappichelli, Torino 2008, pp. 19-25). 4 Parola turca indicante il pasto consumato al tramonto che rompeil digiuno giornaliero durante il Ramadan. 5 Interventiletti alla trasmissione Fabrenbeit di Radio 3, dal 12 al 16 dicembre 2005.

SCRITTI E TESTIMONIANZE SULL’AUTORE

GLI ANNI SAVONESI

In alto: foto della classe I B del liceo Chiabrera di Savona, anno scolastico

1960-1961. Flavio Baroncelli è al centro nella prima fila; qui sopra: Hockey Club Savona, anno 1964. In piedi da sinistra: Tino Sanguineti, Marco Pinna,

Bruno Mantero, Enzo Bani, Bruno Sasso, Mimmo Console, Nini De Martini, Giovanni Assereto. Accosciati: Adelio Anfosso, Bruno Camoirano, Antonio

Ferrero, Riccardo Jani e Flavio Baroncelli

Giovanni Assereto

UN CERVELLO MERAVIGLIOSO CHE NONSI È MAI DIMENTICATO DI POSSEDERE UN CORPO Unodeiricordi più belli legati a Flavio mi riporta a un pomeriggio di fine estate, oltre vent'anni fa. Siamo a Piana e decidiamo di andare a

vedere se è nato qualche fungo. Giriamo due tre boschi senza trovare nulla, come c’era da aspettarsi: è piovuto pochissimo, la terra è secca. Stiamo per tornarcenea casa, ma facciamo un ultimotentativo,

in un castagneto che sua nonna Maria considerava “buono”. Lì abbiamo unodi quei colpi di fortunache nell'esperienza di un cercatore non sonofrequenti: i porcini vi sono nati, bellissimi, in quantità eccezionale, e noi siamo i primi ad essere arrivati sul posto. Stiamo a guardarli ammirati — il bosco è fatto un po’ ad anfiteatro, si ha un’ottima visione d’insieme — poi ne raccogliamo finché riusciamoa trasportarne. Quandoci mettiamosulla via del ritorno abbiamoindosso,

al posto delle camicie che ci siamo tolte per farne delle sporte improvvisate, una di quelle felicità infantili che sono le migliori possibili. La sera ne mangeremosinoa strafogarci, ma è un dettaglio che non aggiungenulla alla nostra gioia. Qualche anno dopo, in un momento di discorsi oziosi cioè fondamentali, conoscendo benissimola risposta

Flavio michiederà: «Maci stancheremo mai di andare per funghi?»

Unaltro ricordo, nitido benché sia passato più di mezzo secolo,

ha comesfondol’ingresso delle mie scuole medie — le Paolo Boselli di Savona — nei minuti che precedono l’entrata. A quelle scuole sono arrivato da poco, mentre Flavio, più grande di due anni, è già un veterano e soprattutto è famoso anchetra noipiccoletti per la sua bravura scolasticae peri suoi bellissimi temi, che i professori menzionano comecelebri opereletterarie. Sulla rampa di accesso,tra i molti bam-

bini che chiacchierano, giocano si rincorrono,ce n'è uno — biondo, riccioluto, bello — particolarmente scalmanato,infatti è rosso e suda-

to più di tutti gli altri. Prima che qualcuno mene dia conferma indo-

vino, non so come né perché, chesi tratta del mitico Baroncelli. È

unascoperta fondamentale: quel celebre primodella classe (anzi, della scuola) non è un secchione pallido e ingobbito, bensì un ragazzino scatenato. Per così dire, me ne innamoro.

Qualche anno dopo, quando sonodiventato un ginnasiale timido e imbranato (i miei compagnie, quel che più conta, le mie compa-

120

GIOVANNIASSERETO

gne di classe fortunatamente non se ne accorgono, macosìè), acca-

de che un giorno,all’uscita dalla scuola, mi trovo a fare la stessa strada di Flavio, venuto ad abitare vicinissimo a me. Con mia sor-

presa il compagno più grande mi rivolge la parola, cominciamo a chiacchierare, dopo qualche tragitto insieme siamo diventati amici. Comeè ovvio a quell’età, parliamo molto dei massimisistemie dei destini del mondo;io mi abbeveroalla saggezza di chi è maggioree autorevole, lo eleggo a guidaspirituale, e in qualche modo non smetterò più di considerarlo tale negli anni a venire, per quanto possano divergerei nostri caratteri e le nostre idee. Allora mi entusiasmasoprattutto il fatto che Flavioil sapiente,il ragionatoresottile, il lettore onnivoro da cui imparoa conoscere autori di cui ignoravo persino l’esistenza, è anche colui che prima mi coopta in una scalcinata ed estemporanea compaginecalcistica del liceo, poi decide di reclutarmi per la squadra di hockey di cui fa parte, anzi neè il capitano: una formazione che disputa un vero campionato, che va anche a

giocarein città abbastanza lontane (Torino, Genova, Novara, Vigevano) compiendotrasferte avventurose (almeno per me), talvolta

persinotrasgressive. La vicenda hockeystica rappresenta unafelice, totale conferma di quella prima impressione sorta davanti alle scuole medie: il giovaneintellettuale che mi fa da mentore nell’adolescenza è nel contempo uno che prende moltosul serio allenamenti e partite, che prova un gran gusto nel movimento,nel gioco,nell’attività fisica, nel cameratismoe nello scherzolegatiallo sport. È lo stesso piacere che provoio, madi cui — perunatipica distorsione mentale di quell’età — cominciavo quasi a vergognarmi, come di faccenda troppobassa, materiale: grazie all’esempio dell'amico più grande capisco che invece è cosa lecita e buona, non necessariamente in contrasto conl’uso del cervello o con l’amoreperla cultura. Più tardi, quando entrambisiamoarrivati all’università, ecco una

nuovacooptazione iniziazione, ancora più coinvolgente: quella nel mondodel volontariato e dei “campi di lavoro” estivi del Servizio Civile Internazionale. Lui ne ha fatto un primo, positivo assaggio e fa proselitismo nei confronti degli amici più giovani, a partire dal sottoscritto. Siamo a metà degli anni sessanta, stagione di slanci, di picco-

le e grandi utopie: partire per qualche regione più o meno lontana dovelavorare pergli altri e aiutare i più sfortunati sembra un nobile obiettivo. Ma non bisognaraccontarsi bugie: è anche un modo per andarsene dacasa, fare vacanze semigratuite, conoscere gente nuova,

UN CERVELLO MERAVIGLIOSO

121

soprattutto ragazze, meglio se straniere, cometali — secondole nostre fantasie provinciali — naturalmente disponibili; un intreccio, quello tra slanci solidaristici e appetiti avventuroso-sessuali, difficile da sciogliere, anzi da nonsciogliere affatto, perché a ben vederebellissimo, quasi perfetto. Così una brevestagione magica,vissuta in parte a con-

tatto con Flavio,in parte sotto il suo controllo a distanza, è appunto quella delle partenze verso destinazioni doveci sarà da lavorare di pala e piccone,tagliare tronchi, riempire gabbioniper costruire argini, azionare betoniere, cucinare e lavare piatti per unaventina di persone, incontrare giovani di Paesistranieri, desiderare — per lo più invano, manon proprio sempre — fanciulle dai nomi esotici. Quelle esperienze rappresentano una tappa fondamentale della

nostra amicizia, delle nostre riflessioni, della mia formazione. Sap-

piamo entrambi che con quelle poche settimane di lavoro manuale non cambieremoil mondo,che anziper lo più facciamocosedi scarsa utilità (una parziale eccezione sonoforse gli interventi in occasione di qualche grande calamità naturale: l'alluvione di Firenze nel 1966,il terremoto del Belice nel 1968, quando anche l’operadi noi ragazzisi rivela importante); ma sappiamo anche che il senso della cosasta altrove, come Flavio midice e spesso miscrivein bellissime, interminabili lettere pienedi riflessioni acute, di umorismocaustico,

di giudizi feroci, di turpiloquio e disegni osceni; lettere che mi arrivano negli anni durante e dopol’università, quando viviamo quasi semprein città diverse e-per lunghi momenti gli scambiepistolari sono l’unico mezzo di dialogo. Il senso, dicevo, sta nel trovare e pro-

vare un antidotoallo studio teorico,alle elucubrazioni degli intellet-

tuali (anche di quelli in erba come noi), alle tentazioni di sputare

sentenze sul mondo dal comodoosservatorio di un’aula universita-

ria, di una biblioteca, di un circolo culturale. .Lafisicità, la carnalità,il desiderioe il piacere di usareil corpo,di

immergersi in una concretezza nonlibresca, di sperimentare qualche lavoro materiale, perfino di incanaglire un poco, sono ingredienti basilari di quell’antidoto: Flavio ne ha sempre avuto consapevolezza — peristinto direi, per impulso naturale — e ha cercato di trasmetterla a chi gli era vicino. Parallelamente — le duecose,seci siriflette, sono legate in modoindissolubile — ha sempre tenuto in grande considerazione il modo di pensare di chi nella vita materiale era prevalentemente calato: contadini, artigiani, operai. E riteneva che la “cultura degli incolti”, almeno quandosonointelligenti, non fosseaffatto infe-

122

GIOVANNI ASSERETO

riore a quella deicolti, specie se questi ultimi (e Dio sa quanto spesso accada!) sono stupidi. Uno deisuoiinterrogativi ricorrenti era: «perché io ho dovutostudiare anni per conoscere e capire cose che mia nonna, donna di campagnaignorante, sapeva e capiva benissimo?» Lafisicità, dunque: non quella sublimata dell’intellettuale snob che la domenicavaa fare dell’alpinismo e ad ammirare la natura selvaggia, ma piuttosto quella quotidiana, plebea, di chi conduce esistenze “normali”, di chi lavora con le proprie mani, di chi coltiva un campo o maneggia attrezzi, di chi non ha troppo tempoperle astrazionie le finezze dell'intelletto, ma non per questo smette di pensare, di riflettere sulla realtà che lo circonda. Ecco, se dovessi esprimere con pocheparolein che cosa Flavio è stato un personaggio eccezionale, direi che lo è stato anzitutto nella sua capacità di coniugare una cultura vasta, poliedrica, raffinata (filosofia, letteratura, belle arti, musica) con i dati della quotidianità e del vivere comune;di ren-

dere accessibile a chiunque ogni concetto astratto riempiendolodi cose concretee tangibili, di esempi tanto semplici quantofolgoranti; di elaborare con un linguaggio “basso” (anzi, talvolta decisamente triviale, almeno nel discorso orale o nelle lettere agli amici) pen-

sieri sublimi. Un cervello meraviglioso che nonsi è mai dimenticato di possedere un corpo, con tutte le sue pulsioni e magari le sue bassezze, e che ha semprevoluto dialogare con i suoi simili anche sulla base di questa corporeità. Un intellettuale che sapeva ragionare. comele persone semplici, perciò in grado di difendersi dalle prigioni mentali in cui spesso restano intrappolate le personecolte. Unodegli ultimi ricordi che hodilui, splendido e insieme doloroso, risale a un giorno d’estate di cinque anni fa. Con un viaggio in bicicletta per stradine di campagnae sentieri malagevoli — un piccolo exploît di cui, in omaggio appuntoallafisicità, mi sento in quel momento molto orgoglioso — sono andato a trovarlo a Piana. So bene che da tempoè malato, e ho quasi paura di incontrarlo, ma quandolo vedononcredoai miei occhi: vestito solo di un paio di vecchie braghecorte, abbronzato, sudato, con i muscoli ben tonici,si aggira felice nel terreno vicino alla sua casa, indicandomi con orgoglio di contadinoi fiori e gli ortaggi che sta coltivando. È un’immagine luminosa, anche se dopo ne verranno purtroppo altre più cupe. In quel momento mi sembradi ritrovare lo stesso Flavio di tanti anni prima:il giocatore di hockey, il cercatore di funghi, o magari quel bel

bambinoscalmanato davanti alla scuola media, con la sua mentevi-

vacissima che non si sarebbe mai ridotta a purospirito.

Franco Astengo

BARONCELLI, RICORDI TRA RAGAZZI

Comesuccede raccontando certe storie da romanzo d’appendice, mi piacerebbe partire da lontano, dalla Savona della metà degli anni cinquanta,unacittà diversain cuii fuochidell’industria ardevano ancora anche se con poca speranza; unacittà di provincia, ep-

purericcadi dibattito culturale e politico con spunti divivaceoriginalità. UnaSavonaassai diversa da quella di oggi: noi eravamo ragazzi di periferia (poche centinaia di metri — per carità! — per arrivare al centro e raggiungere la scuola) e ci sentivamotali. La periferia, allora, era proprio tale perchéil tessuto urbanoera tagliato seccamente in due e ampiamente chiazzato, dalla nostra parte di Ponente, dal verde diorti e creuze. Dovevamoattraversare un ponte per approdare nella parte storica di Savona: per Flavio il ponte della Consolazione; per chi scrive quello della Centrale, che divi-

deva corso Vittorio Veneto da corso Colombo.

Questo passaggioci unificava nella visione — appunto — un po’

da lontano delle zoneritenute più importanti del nostro tessuto ur-

bano; maci concedeva, una volta rientrati dalla nostra parte, un

vantaggio: quello di essere di casa nei luoghi dove, comesi poteva, si praticava lo sport improvvisato dai ragazzi di quei tempi. Parlerò di sport, dunque, ma con l’idea dello sport in quanto fattore “marginale” in una vita ricca e importante come quella di Flavio. Lo sport non solo comepalestra agonistica, ma anche come fattore divita, di comunicazione,di integrazione; più avanti, forse,

si capirà ancor meglio cosa intendo quandoaffronterò l’argomento direttamente nel merito delle cosefatte.

Accennavo,da questo puntodi vista, cheil rientrare al di qua

dei nostri ponti aveva un significato preciso. Lungoil fiume,infatti, sorgeva allora un campodi calcio piccolo, sghimbescio e con le porte storte: il campo del Gloria, una piccola società calcistica mandata avanti da pochi appassionati (Siccardi, Penna, Curti, “Guglie” Talassano, personaggiostorico dello sport savonese). Non avevamoancora l’età per frequentare quella società calcistica e non ne avevamo neppurel’intenzione(o l'ambizione,in alcuni casi). Quel terreno malmesso che principiava dal famoso

124

FRANCO ASTENGO

“ponte delle bottiglie” ancora di legno che univavia Trinceea via Generale Pescetto, tagliando il lungo corso Ricci, ci serviva per giocare le partite tra le classi scolastiche, assolutamente autorganizzate con grandefatica, sacrificio e incertezza. Flavio giocò a calcio, in quel frangente, poche partite: ricordo

unasconfitta con la III A per 5 a 2, poirestituita per 4 a 1 qualche settimana dopo (credo di essereil solo a ricordare questi risultati,

ma non caso,tra le tante cose fatte male della miavita, c'è anche

quella dello statistico del calcio passato). Eppure Flavio non aveva dimenticato quell’esperienza minimale. Tanti anni dopo,già affermato professore, venne a Savona per una conferenza organizzata da alcunialtri nostri ex compagnidi scuola. Eravamonella sala di un grande albergoe tutti, cerimoniosamente e con moltorispetto, si avvicinavanoall’illustre professore. Doveva parlare del Trattato sulla tolleranza di Voltaire, uno dei suoitesti prediletti, sui quali aveva studiato a lungo e prodotto fondamentaliriflessioni. Quando mi vide esclamò: «Come posso parlare di Voltaire quando davanti a me c’è Astengo che si ricorda come giocavo al calcio nel campodel Gloria?» Ci abbandonammoal flusso di queiricordi, al corso Ricci privo di macchinee lungo da percorrere, al ponte di legnosottole cui arcate ci si cambiava. La conferenza fu un successo, maquell’episodio mi rimase nella mente. Lui era così, non aveva dimenticato e non dimenticava: aveva un modolieve, scanzonato comeera nella sua natura, ma restava

tenacemente attaccato anche a quelle esperienze. Flavio ragazzo assomigliava già fortemente al Flavio uomoe maiè stato un Flavio professore. Pervengocosì a raccontare il pezzo, non breve ma importante, di Flavio sportivo: uno sportivo, se mi è concesso affermarlo, un

pocoparticolare ma “a tutto tondo”. Losport infatti gli piaceva, era parte della suavita: si discuteva soprattutto di calcio e credo di averlo convinto a simpatizzare per la Sampdoria, una cosa-un po’ strana per l’epoca in cui dominavano come sempre milanisti, juventini, interisti, con qualche chiazza

granata (si respirava ancora l’aria del grande Torino, quello di Superga) e resisteva qualche tifoso del Genoa,pervia della tradizione familiare. La Samp era un po’ una novità, con quelle maglie strane («da ciclisti», sostenevano i “cugini” in maniera un po’

BARONCELLI, RICORDI TRA RAGAZZI

125

sprezzante), un modo “moderno” di accostarsi a quello cheera già stato definito «il più bel gioco del mondo». Flavio aderì volentieri macon distacco e soprattutto con ironia. (In realtà in Italia c'era ancora unaforte concorrenzatra il calcio il ciclismo, dal puntodi

vista dello sport più popolare. Il mito di Coppie Bartali eralì, presente, a testimoniare della solita capacità di fare fazione: Guelfi e Ghibellini, giù giù fino alle forti divisioni ideologiche che, proprio in quel tempo,correvano sul piano politico. Poila bicicletta era ancorail mezzo di trasporto più popolare, anche se Vespa e Lambretta stavano imponendosi e proprio in quel 1955, l’anno della nostra conoscenza, la 600 cominciò a diventare la “macchina del

popolo”, ancora lontana però dalle possibilità economiche degli operai). Passammocosì dalla crescita di tutti gli altri interessi più o meno culturali allo sport praticato sul serio e non percaso o soltanto a livello studentesco. A questo punto, come nei romanzi d’appendice, è necessario fare un passo indietro per descrivere la pratica sportiva che ci ha accomunato per molti anni. Non facile infatti descriverla sapendo che moltissime persone ignorano quasi, o del tutto, l’esistenza dell’hockey su prato che pure è sport olimpico. Uno sport che in Italia ha semprevissuto unavita difficile per la mancanzadi attrezzature, per lo scarso interesse dei media e perla difficoltà di essere praticato. . Esistevano, al tempo del racconto, alcune “isole” in cuilo si

praticava, ma l'hockey non aveva unavera e propria diffusione na-

zionale (Genova, Torino, Novara, Bologna, Trieste, Roma, Cagliari, qualche piccola città della Lombardia e del Piemonte, come Cernuscoo Bra; poi Pisa, Macerata, un po’ di Veneto tra Padova e

Rovigo e pocoaltro). Questo volevadire gironi ridotti di numero, poche partite, trasferte lunghe, stancanti e impegnative, per poi giocare a tutto ritmo su campiperiferici davanti a pochi spettatori. Unica soddisfazione: qualche riga sul giornale (a Savona,in verità, le pagine locali dei quotidiani erano abbastanza generose e così, a distanza di tempo,siamoriusciti a ricostruire un po’ tutta la storia del nostro gioco).

Prima ancora, però, di raccontarele ragioni dell’accostamento all’hockey su prato vorrei spendere due parole sulla realtà di questo gioco, perchéè su questa che,credo,alla fine poggiavanole ra-

126

FRANCO ASTENGO

gioni di tanti sacrifici. E penso fosse proprio per questa realtà del gioco,peril suo fascino intrinseco, che Flaviosi fosse accostato al-

l'hockey su prato e per tanti anni avesse continuato a praticarlo. (L'hockey su “erba” o su “terra”, che oggisi gioca su un terreno sintetico che rende le manovre moltopiù scorrevoli e si pratica ancheall’interno dei palazzetti, evitandole pioggee i freddi invernali, è la variante dei più popolari “a rotelle” e “su ghiaccio”, noti per essere più veloci al punto da metteregli atleti nella condizione di sviluppare scontri molto spettacolari e azioni davvero mozzafiato). Ebbene, credo proprio che Flavio concorderebbe con questo giudizio: un gioco cosìdifficile da vedere, per via della pallinadi ridotte dimensionie della qualità dei terreni da gioco, mabellissimo

da praticare; un gioco che costringe a mettere a disposizionetutte

le proprie risorse fisiche e mentali con momenti emozionanti e davvero esaltanti. (Tatticamente, “ai nostri tempi” — perdonatemi l’espressione — c’erail fuorigioco a due giocatoripiù il portiere, oltre ad altre regole come quelle del famigerato “giro”, che costringevanoa un rapporto costante cervello-azione. Non si può, come

capita qualche volta nel calcio, prendere la palla e cercare di lanciarla il più possibile lontano, senza preoccuparsi di dove finisce. «Anchein tribuna!», urlavano e urlano gli allenatori nei momenti di pericolo, purein serie A, intendiamoci). Insomma,se per tanti anni abbiamocalcato i campi da gioco, un motivospecifico,legato alla realtà sportiva,ci sarà pur stato; an-

che se a Savona,fra gli hockeysti di quel periodo, è sempre stato un vezzo raccontare che l’approccio a questo sport è avvenuto quasi per imposizione daparte di un famoso professore di educa-

zionefisica.

l

Il professore in questione rispondeva al nomedi Eliseo Colla. Fisico possente, occhi azzurri, capelli tagliati alla “marine” (così lo descrive Luciano Pinna nel libro che qualche tempo fa abbiamo dedicato ai cinquant'anni dell’hockey savonese), era il classico professore di educazionefisica autoritario, impegnatoin mille attività:

lo sport savonese, in quella fine degli anni cinquantae inizio degli anni sessanta, dipendeva in gran parte da lui. Atletica (starter un po’ troppolento), tennis, pallavolo, pattinaggioa rotelle e relativo hockey, calcio (allenatore diplomato a Coverciano), ma soprattutto hockey su prato, questo sport strano che vedeva ai suoi vertici mondiali Paesi esotici come l’India,il Pakistan, la Malesia, il Giap-

BARONCELLI, RICORDI TRA RAGAZZI

127

pone,il Kenya e qualche Paese europeo manonl’Italia, che in quel momento cercava di affermarsi (eravamoin vista delle Olimpiadi di Romae la Federazione non lesinò sforzi per presentare una squadra ben preparata all'appuntamento, mai risultati non furono dei migliori). Colla dirottava i suoi alunninell’hockey, preparava squadre, organizzava tornei anche improbabili (il trofeo “dei mon” a Bardineto) e faceva in modochele squadresavonesi partecipassero ai campionati nazionali. Non è mio compito in questa sede (tra l’altro si tratta di un compito già svolto) raccontare la storia dell'hockey savonese: vi accenno soltanto per ricordare come fossero moltissimi, in quel periodo, i ragazzi che — per quella via — si fossero accostati all'hockey; uno sport dalla matrice prevalentemente studentesca, abbastanza originale a Savona, dovealtre discipline comeil calcio e la stessa atletica avevano avuto una matrice operaia. Ed è stato questo un casoparticolare che ha contraddistinto la nostra città, come

del resto Genova, nel panoramadella storia dello sport italiano. Questo afflusso di ragazzi, progressivamente scrematidalla vo-

glia, dall’attitudine, dalla perseveranza (molti abbandonavano, ma

mai comein questo caso si può ricordare comei rimasti fossero davveroi migliori, sotto molti punti di vista), diede vita ad aggregazioni straordinarie, proprio dal puntodi vista della spensieratezza,

della gioia di stare assieme, d’una amicizia che trovava lì un primo luogo di espressione mache poipotevatradursiin altri luoghi,inaltri interessi e nella capacità di vivere davvero di una generazione. In casa,perun certo periodo, godemmodi un grandeprivilegio ottenuto grazie alle entrature del prof. Colla con il comm. Del Buono(presidente del Savona Fbce del Coniprovinciale): quello di poter giocare, alla domenica mattina alle 11, allo stadio Valerio

Bacigalupo, a quei tempi un terreno ottimo per l'hockeysu prato. Ci si doveva alzare presto per affrontareil lavoro della tracciatura del campo(ben diversa da quella del calcio, con l’area rotonda) e la posadelle porte, ma ne valeva la pena. Nelle trasferte poi affrontavamoconil sorriso sulle labbra avventureincredibili: scontri con anziani professori sui treni che rimproverano i nostri atteggiamenti un po’ troppo scanzonati e goliar-

dici; viaggi lunghissimie stancanti affrontati per pura passione; incidenti stradali che costringevano la squadra a scendere in campo a ranghiridotti; treni perdutie riacciuffati.

128

FRANCO ASTENGO

Esperienze che, raccontate adesso, dannoil senso di unafatica

e di un impegnodavvero difficili da affrontare ma che, cionono-

stante, rintraccio nella memoria con gioia e soddisfazione,al di là del loro esito, soltanto perché miritrovavo a fianco dei miei com-

pagni, di coloroai quali misentivo legato da unvincolo fortedi solidarietà e di amicizia. Flavio faceva sempresentire questo vincolo con grande naturalezza, senza mai far pesare nulla, con un sorriso non metaforico sulle labbra (forse insisto troppo su questo aspetto della sua grande personalità, maè il tratto che maggiormente emergenel ricordo quando, molto spesso, mi ci soffermo sopra). Unaparticolarità dell'hockey italiano era quello delle “finali” nel periodo della maggiorcalura: ho già detto delle poche squadre, delle lunghetrasferte, della scarsa disponibilità di terreni da gioco adatti. Allora la federazionecostruiva gironi a dimensioni ridotte e organizzava tra le vincenti di questi giorni le “tremende” finali, nelle quali noi savonesi siamostati più volte coinvolti. Nel più puro dilettantismo in cui operavamo queste “finali” presentavanotre controindicazioni: arrivavano sempre nel periodo culminante.della scuolae dell’università, in tempodi esami; richie-

devano,nel caldo, uno sforzo intensissimo, quello di tre partite in

un giorno e mezzo;si giocavano sempre molto lontano,in particolare a Bologna, luogo ritenuto comodopertutta l’Italia ma particolarmente scomodoperla Liguria. Questi fattori facevano sì che si arrivasse a questo appuntamento largamente incompleti: mai la squadra che avevavinto il girone ligure-piemontese-lombardo riusciva a disputare a pieno organicola finale. Concludoallora questa disordinata rievocazione proprio conil racconto di una tra queste avventure,l’ultima alla quale partecipò Flavio. In quella stagione 1967 Flavio era già impegnato a tempo pieno con l’università e nel corso dei gironi eliminatori giocò poco:arrivammo, dunque,alla vigilia di questo girone finale da disputarsi a Bologna (campo Arcoveggio) nel weekend di San Pietro. Era il 29 giugno: non c’era ancora stato il decreto Andreotti e il giorno di San Pietro e Paolo, come Pentecoste e Corpus Domini, era consi-

derato festivo. ue Avversarie: Padova, Bologna, Triestina; un solo posto a disposizione per salire in serie A (massima categoria dalla quale eravamo

BARONCELLI, RICORDI TRA RAGAZZI

129

scesi rocambolescamente dodici mesi prima, arrivando con 45’ di

ritardo a Rosas Quartu Sant'Elena,nella periferia di Cagliari, e vedendoci così assegnare una decisiva sconfitta a tavolino. Poi c’era stato anche l’incidente stradale di Reggio Emilia). Alla vigilia di quell’impegno così importante (ecco un’altra particolarità di Flavio: per lui tutti gli impegni erano importanti, ma

nonteneva granché in conto l’avversario,la classifica, il contesto;si

trattava di situazioni che toccava a me tenere sotto controllo) ci trovammoin una duplice difficoltà. Primadi tutto una sempiterna difficoltà economica;poiil fronteggiare le assenze importanti: Jani aveva gli esami, Arecco e Pesce non potevano muoversi per ragioni di lavoro, Adelio Anfosso sarebbe arrivato a Bologna conla sua 600grigia soltanto il secondo giorno di gare.

Flavio,interpellato “strettamente”, sacrificò i suoi studi e venne

con noi a Bologna. Anche la mammadi Luciano Pinnafu convin-

ta.a far sì cheil figlio, appenadiciassettenne,si allontanasse da ca-

sa per duegiorni assiemea quei giovanotti che forse le apparivano

un po’ troppo spregiudicati. Erano davvero altri tempi.

Fu grande Flavio in quel frangente e diede prova di una forte

generosità sportiva.

Nonraccontoil resto di quell’avventura. In sostanza, sbagliammoil treno di partenza convinti di aver perduto quello “buono” per poi accorgerci, sul punto di rinunciare, che stava arrivando;ci furono il mio errore nel far scendere dal pullman di linea la squadra 2 chilometri prima dello stadio, convinto (nella mia solita supponenza!) che fossimoarrivati; ci fu la lunga marcia sotto il sole per raggiungeregli spogliatoie fare la doccia prima della partita (per la cronaca il Padova, arrivato comodamente in macchina, fu fermato sul-

lo zero a zero); lo scomodo albergo Cappello in pieno centro; l’imponente mole dell’arbitro Masarati di Ferrara che annullò un goal di Asseretonella partita con i padronidi casa del Bologna,i quali poisi imposero per 1 a 0 tranciandole nostre(legittime,visti i valori tecnici) aspirazioni di ritorno in serie A; e ancora prima della partenza ricordole 75 000lire che il signor Falco, proprietario di uno dei più importanti negozi di tessuti della città, ci diede la sera precedentela partenza e che ci consentirono di adempiere all’impegno. Restail ricordo di Flavio, con la casacca blu (in quel periodo indossavamobellissime casacche blu passate davvero alla storia, con

130

FRANCO ASTENGO

pantaloncini e calzettoni bianchi) svolazzante fuori dai pantalonci-

ni, i calzettoni abbassati senza parastinchi (“alla Sivori”, si diceva

all’epoca) che rincorre gli avversari. Sono le sue ultime immagini su di un campo dahockey: poi l’attività universitaria lo avrebbe definitivamentetagliato fuori. Nonsapevo, non potevosapere,che in quel momentostessimo vivendo un passaggio d’epoca, attraverso quel gioco che ci aveva così coinvolti nella nostra prima gioventù. Io avrei continuato an-

cora per qualche anno mentre Flavio Baroncelli avrebbefatto il professore e l'hockey sarebbe stato un ricordo: non ci sarebbero

più stati i viaggi assieme a Bra, Novara, Torino, Piacenza, Trieste e Bologna, trascorsi studiacchiando, cantando, mangiando panini

preparati dalle mamme;poii ritorni, tra tristezze e allegrie (a secondadell’esito), smorzate dalla fatica del viaggio in terza classe, su panchedilegnoe con trasbordiinfiniti. Unastagione chiusa, ma sempreviva. Hocercato di ricordare “questo” Flavio Baroncelli, tra il “ragazzo”e il “giovane”, insieme impegnato e scanzonato. i Vorrei esprimere la mia commozione: non penso diesserci riu-

scito, ma — credetemi— le immagini di quelle partite, di quei viaggi, del suo ciuffo biondo restano qui, nella mente e nel cuore.

Tatti Sanguineti

IL BARONE ROSSO

Flavio Baroncelli detto il Barone aveva due o tre anni più di me, ma quandolo conobbiio ne avrò avuti diciannove e a quella età due tre annidi differenza sonotanti. In realtà a tutti noi matricole umanistiche di Balbi/L'Annunzia-

ta, pendolantisui treni della fame che a metà dei favolosi sessanta

potevano metterci ancora un’ora e mezzaa farei 42 chilometri fra Savona-Letimbro e Genova-Principe, Flavio sembrava più grande più maturo più saggio più colto più disinistra più internazionale più abile con le parole e con le donne. Flavio era un capo prima che la parola “capo” indicasse nel linguaggio di Lotta Continua («... capi, capetti e capettini...») un nemico di classe o comunque un bruttoceffo sociale o aziendale. Anzi, fu tramite Flavio che conobbila parola leader che ora pende come una spadasulle nostre teste. Leader nella struttura del Servizio Civile Internazionale di via Tacito a Romaerail capocampodeivolontari del cantiereestivo. Maciarriveremo... Flavio era bello solare trasparente per statura rotondità e colore dei capelli. Assomigliava a un personaggio del Morello, una pubblicazione di storie d'avventura per ragazzi che stava finendoil suo ciclo e resisteva dal barbiere. Il personaggio del Monello si chiamava Superbone: ma Superbone era scemo, mentre Flavio era moltointelligente. Che Flavio avesse carisma l’avevo intuito in casa sua. Io non avevo mai visto nessuna madre di nessunodi noi, nemmenola più

instancabile e devota, parlare con tanta fierezza e orgoglio del proprio figlio. Sua madre parlava di-Flavio come se ne stesse ammirando una foto gigante. Mentre scrivo, mi arriva la notizia che è morta la madre di Nanni Moretti, Agata Apicella Moretti classe 1921. Ecco, la madre di Flavio era un po’ come la madre di Nanni: adorava quel suo figlio. La signora Apicella, però, era più trepidante e palpitante, la madre di Flavio più tranquilla. Il modoin cui Flavio esercitava la sua leadership sulle dure panchedi legno delle ex terze classi delle ferrovie di Stato o altrove nonpossodescriverlo se non con un'espressione tipicamenteli-

guredi cui ignoro l'analogoin altri dialetti: «menareil belino».

132

TATTI SANGUINETI

Flavio Baroncelli era un gran menabelino. Cosa vuol dire menareil belino?

Vuol dire sfotticchiare, provocare, correggere sul filo della

spocchia, bacchettare sulle dita, riprendere senza tregua la mezza cazzata sfuggita di bocca a qualcuno. Era una pratica pedagogica portata fra il sarcasmo e l'adozione dato che Flavio si degnavadi menareil belino solo a vittime che ne fossero degne e che in qualche modolo incuriosivanoe lo interessavano. Comel’organo genitale da cui prende origine, il menarbelino era una tecnica molto elastica per ammazzareil temposu quelle interminabile tradotte. Sipoteva menareil belino a qualcuno cominciando a Sampierdarena o magari a Varazze, per una mezzorao anche solo per quattro o cinque minuti. Questa lezionedifilosofia e di vita si allungava e si accorciava comelo sketch del Sarchiapone di Walter Chiari, figlio anch'esso di uno scompartimentoaffollato. Flavio agiva in coppia sempre con unaspalla molto diversa da lui e più defilata che spesso in quegli anni era l'elegante Riccardo Strumia. Primo figlio adottivo del Barone e in qualche modo promosso suo luogotenente e suo pard era un altro ex primo della classe, Giovanni Assereto detto Giaggi, il quale però studiava a Milano, possedeva una 500 Fiat ed era già nazionale di hockey su prato. Anche Giaggi come Flavio veniva dal Chiabrera,il liceo di Stato, mica come mecheavevo il complesso della crassa ignoranzadelliceo dei preti. Noidegli Scolopi eravamoincolti come capre e non sapevamo nulla di nulla del vasto mondo,della vita, della società, delle don-

ne. A me misalvava un poco l’amoreperil cinema, ma credo che Flavio avesse capito che quella passione non poteva bastare e che uno come me andandosolo al cinemarischiava di diventare inetto, rancido, nozionista.

E così per tutto un mese della mia prima estate da studente universitario Flavio mi prese, mi caricò sulla 500 di Giaggi e mi portò via da Savona a diventare grande. Era l'estate prima dellafine dell’avventura in Bolivia di Che Guevara. Eravamotutti un po’ guevaristi anche se scoprimmo molti anni dopoche anche per lui tutto cominciò con un viaggio su una moto. Sarebbe poi accaduto che noi borghesi diventassimo tutti troppoin fretta di ultrasinistra. Per nostra disgrazia c'erano fra di noi a Balbi troppo pochifigli di

IL BARONE ROSSO

133

operai o di impiegati come Flavio Baroncelli il quale anche negli anni più caldi rimase semprecol Pci. Nell'estate del ’66 dunque Flavio mi trasportò a sud. Cristo si era fermato a Eboli, noitre sulla 500 di Giaggi andammooltre: Lagonegro, Latronico, Terranova del Pollino. Sia a Lagonegro che a Latronico feci fermare la macchina per vomitare. Dopo la terza sosta e il terzo conatochiesi di mettere fuori dal finestrino un fazzoletto bianco per chiedere soccorso. In tutta evidenza, un'enorme

cazzata sfuggitamitra il vomitoe le bave. La 500, strapiena di bagagli, arrancava sui tornanti della Lucania come poteva e Giaggi guidavabene, non era certo il tipo che fondeva le bronzine della sua automobile solo perché uno'ci vomita dentro. Quando — chissàperché — mi vennefuori la trovata del fazzoletto miricordo bene l’espressione di Flavio chesi trattenne dallo sganasciarsie gli riconobbisotto sotto quel rictus un po’ alla Franti, che ben conoscevo, da gran menabelino. Poi, sempre trattenendoi sorrisetti, si

misea cercare un fazzoletto biancoe lo lasciò sventolare nel deserto: incontravamo una macchina ogni quarto d’ora. Flavio emetteva battutine secche e minime. Insomma mi menòtantoil belino che,

vomitata l’anima,finii per stare meglio per forza.

Eravamo andati asud conil Servizio Civile Internazionale, una

organizzazione di volontariato non violento, un po’ all'americana, un po’ mormone.Erano gli anni di Bertrand Russell, dell’escalation sul 17° parallelo e dell’obiezionecivile. Devo fare una parentesi. Io sono di novembree allora a quelli nati nel primo e nell’ultimotrimestre di una città di mare come Savona toccavano qualcosa come ventiquattro mesi di naia e perciòfareil servizio civile era un allenamento, un po’ come prepararsi ad affrontare quell’incubo checi aspettava dopola laurea, quando già magari mi fossi perso Flavio nella lunga notte del ’68 genovese, ma solo dopoaverfatto l’angelo del fango e delle macerie a Firenze e a Gibellina con il servizio civile... Ma questa è un’altra storia... Invece Flavio era lì, stivato nella 500: invece di darmila xazz4-

mina mi passava un sacchetto di plastica e mi menavail belino per la storia del fazzoletto bianco. Scoprirò molti anni dopo che quello era un trucco che Mastroianni e Fellini usarono qualche volta per tagliare Roma mentre giravano La dolce vita. Flavio aveva capito che questo viaggio in terronia nel buce del c. del mondoavrebbe potutoessereil mio Bi/dungsroman e perciò

134

TATTI SANGUINETI

non lasciò nulla di intentato affinché io non perdessi l’occasione. Daparte mia miero letto Carlo Levi, un po’ di de Martino o anche semplicementeall’andata sul treno per Balbii racconti e le inchieste sui molti meridioni del mondochesi potevano leggere allora sul quotidiano di Enrico Mattei e Giorgio Bocca. Terranova del Pollino — mi spiegò Flavio — era veramentelafine del mondo.I tedeschi, ritirandosi dopo lo sbarco degli americani in Sicilia, avevano scalato il Pollino, erano arrivati a Terranova ma,dietro la chiesa, la strada si intetrompeva:finiva lì e comin-

ciava quella montagnache oggiè un parco.I nazisti poterono solo

fare inversione a U con i panzere tornare indietro. Noi invece sa-

remmosaliti in un posto dovei cingolati non avrebbero mai potu-

to arrivare. Anzi in unafrazione, 300-400 metri più su in linea d’aria, che si chiamava Destra delle Donne. Cosa voleva dire Destra

delle Donnenonlo seppi mai e questasulla genesi del toponimo fu la sola risposta che Flavio non miseppedare. Per il resto mi spiegò tutto prima perché poi, vedendoil film, non corressiil rischio di noncapirlo. Era un vero pedagogo. Flavio c’era già stato l’estate prima, tornavalì a finire un ponte per unafrazione, Destra delle Donne appunto, che a causa di una fiumara rimanevaisolata per settimane e mesi. Noi avremmoco-

struito le spalle di questo ponte, incrementando grandi gabbie di reti di ferro pienedi sassi che noistessi avevamoricavato a colpidi mazza da enormi macigni. La comunità del camposarebbestata di diciotto-venti volontari provenienti da tutto il mondo di cui i due più anziani erano una coppia sposata di maestri tedeschi già sui quaranta. Nel gruppo di cui Flavio erailjefe c'erano anche dueitaliani reduci del campo dell’anno prima. Un certo Francesco Paternesi del Tufello e un tal Mimmo Guaragna di Potenza che poi sarebbe diventato un cantautore folk di protesta di una certa fama. In quanto a Paternesiio che non avevo mai letto Pasolini né avevo mai conosciuto un romano figuratevi se potevo immaginare cos'era il Tufello. Me lo insegnò

lui servendosi della famosa strofetta «Pierino, ragazzino del Tufello /

insisteva per sapere come era nato»... Questa canzoncina — lo dico per chi nonla conosce — dopo la rima «cicogna / vergogna»finiva con Pierino che diceva alla madre X «o me canzoni / oppuretu e papà nun sete bboni». Noil’avremmocantataper tutto il mese as-

IL BARONEROSSO

135

sieme a We shall overcome e a uno slogan americano che faceva «Hey, hey, L.B.J. / how many kids haveyoukilled today?» I nostri punti di riferimento a Terranova erano un maestro comunista dolente come un personaggio di Pavese di cui non ricordo il nome, il quale giustamente si lamentava perché cazzeggiando abusavamodel dialetto lucano, e un grossista e noleggiatore di muli da somachesi chiamava Mincuccio. La vita era dura a Terranova del Pollino e nelle sue frazioni montane, molto dura.Il vino viaggiava sui quindici gradi ed era pericoloso,il sole spezzava le schiene, i contadini di trent'anni sem-

bravano vecchi di cinquanta e più. Però il Barone sosteneva con malcelato orgoglio che lì, l’anno prima, un semei volontari l’avevano gettato lasciando qualcosa che, forse più importante del ponte incompiuto, sarebbe rimasto anche dopola fine dell’estate. Una linea di tubi per l’acqua lunga 1 chilometro che scendeva giù da unavetta del Pollino fino a Destra delle Donne. Ricordo bene la faccia di Flavio quando ci accorgemmoche, undici mesi dopo, quei tubi cingevano ora uno stazzo di capre. Semplice: d’inverno l’acquaera ghiacciata, i tubi erano scoppiati e il contadino con i tubidelservizio civile aveva recintato le capre. L'immagine di quei tubi che imprigionavano le capre era tragica nella sua nudità ed evidenza. Ma Flavio nonerail tipo dafarsi sbattere giù tantofacilmentee finse di non scompotsi. Stavamoallestendoil campo,gli altri non erano ancoraarrivati

e il giorno dopo, comein un’avventura di Tex Willer, il nostro capitano mandò dal campobase(l’ovile fatto coni tubi dell’acquedotto) all’area del ponte a metà montagna due scout: Giaggi Asseretoe il sottoscritto. Le due giovani marmotte, armatedi pala, picconee guanti da lavoro, dovevanoscavarela fossabiologica,il cesso sotto un cielo di stelle dove per un mese avrebbero cagato i venti volontari spargendopoicalce viva sui propri escrementi. Giaggie io lavorammodi picco e pala per un giornointero. Io non sapevo nemmenousare benei guantie alla fine di quella iniziatica giornata le bolle delle mie mani erano piene di siero e di sangue. Bisogna dire però chela nostra fossa era bella: troneggiava al centro di un piccolo spiazzo. Fu al tramonto che scoprimmo cheil ridente spiazzo era un’aia. Ce lo spiegò Flavio,nero nero ac-

canto a un contadino incazzato. Ma era troppo tardi e non c’era

più luce, l’avremmoricoperta la mattina dopo.

136

TATTI SANGUINETI

Io quasi non osavo guardare Flavioin faccia. Lui, da vero capo,

‘ si limitò a dire lo stretto necessario di profondescuse al contadino. È chiaro che c’era di che menarciil belino per un paio digiorni, manaturalmente Flavio non lo fece. Aveva capito che non ce n’era più bisogno e che io quel giornodi sole pieno di luglio dell’estate del 1966 avevo imparatola lezione da solo. Grazie di tutto, Flavio.

LA STORIA E LA FILOSOFIA

Carlo Augusto Viano

LA CECITÀ DI HUME

Hoconosciuto Flavio Baroncelli attraverso Hume;c’è da stupirsi? Quanti lo hanno conosciuto così, per un’associazione diventata

quasi un fatto naturale. Maiolessi il suo Hume ancora in mano-

scritto e lo discussi con lui. Non ricordo più che cosa gli dissi, né

credo di avergli dato consigliutili. Ma ricordo l’impressione globale che ebbidel suo lavoro. Mi colpì innanzi tutto il modoin cui il libro era scritto, un modoinconsueto discrivere difilosofia. Al-

lora, ma forse anche adesso,si scriveva di filosofia in modoscolastico, facendo soprattutto riassunti di testi filosofici o imitando lo

stile un po’ intimidatorioche era stato degli idealisti e che era passato ai marxisti, di gran modain quegli anni. Gliscritti degli spiritualisti erano grondanti, non so di che cosa, ma erano grondanti. E non era ancora invalsa la moda argomentativa per la quale bisognava fare il possibile per nasconderee dilazionare le cose chesi volevanodire e che avevanosuggerito le premessedel discorso. Lo stile di Baroncelli era un’altra cosa: diretto, sorprendente, con accostamenti e considerazioni inattese. Ma era inatteso anche uno

studio di Humechepartisse dai paesaggiculturali nei quali Baroncelli si era mosso. Sapevo che Baroncelli si era formato a Genova, presso una scuola filosofica che risaliva a Federico Sciacca, uno degli esponenti più attivi dello spiritualismo cattolico, nato dall’esperienza dell’idealismo e della reazione a esso. In realtà Baroncelli aveva studiato con un allievo di Sciacca, Romeo Crippa,chesi era allontanato dal maestro, praticando unafilosofia non aggressiva, ispirata a una cultura cristiana fondatasuiclassici francesi e inglesi del Seicento. Al centro deisuoiinteressi c’era il rapporto del cristianesimo con la cultura moderna classica, quella che era andata in cer-

ca di unareligiosità capacedi far propriala tolleranzareligiosa e la nuovascienza. Di qui era natol’interesse di Baroncelli per Hume.

Io erocresciuto a Torino negli anni del neoilluminismo, anchese vi

avevo partecipato poco, forse per una naturale diffidenza verso

manifesti, programmi e riesumazioni. Ma certamente a Torinosi

respirava simpatia perl’illuminismo e non soltanto nelle scuolefi-

140

CARLO AUGUSTO VIANO

losofiche. Per chi guardaval’illuminismo con occhitorinesi, magari credendo di cogliere ancora qualche refolo gobettiano, Hume creava qualche problema. Era facile imbattersi nella domanda, un po’ scolastica, «Humeera davvero un illuminista?» Allora non c’e-

ra ancora il tormento dei molti illuminismi, anche perché dell’illu-

minismo si sapeva meno, ma tenere insieme Hume e Locke sem-

brava un omaggio a unatradizione di storia della filosofia conservata nei manuali, ma non più attendibile. Che poi Lockefosseilluminista nonera affatto detto, ma chi guardavaalla sua filosofia co-

me a una componenteessenziale della mentalità illuministica diffidava un po’ di Hume. Nelle controversie filosofiche tradizionali Humeera spesso usato come unaspecie di reagente. Chi voleva mostrarele difficoltà o addirittura l’insostenibilità di cose come empirismoo illuminismo tirava fuori Hume. Si comincia con assunzioni anche moderate e sensate, poniamo con Locke, o addirittura con profondeispirazioni religiose, poniamo con Cartesio, e poi vedete dovesi vaa finire? Con Humee il suo scetticismo radicale. Per molti era il soggettivismocartesiano ad avere messosulla cattiva strada, ma pergli idealisti, che di soggettivismo facevano un gran consumo,quello di Humeera un cattivo soggettivismo, sempre in agguato senza la

sorveglianza idealistica. E i restauratori dell’illuminismo cercavano di tenersi alla larga dall’infezione soggettivistica humiana, ma anche da un’altra cosa, un po’ menoevidente e nontanto facilmente confessabile per i neoilluministi. Il fatto era che Humenonera abbastanza devoto: le sue interpretazionidella religione avevano messo in imbarazzo perfino il suo amico Smith e continuavanoa farlo coni neoilluministi. Questi eranolaici, che allora voleva dire anti-

clericali con moderazione e avversari deifilosofi cattolici, ma rispettosi della religione. Poi aveva incominciato a imperversare l'antropologia culturale, che della religione dava delle interpretazioni rispetto alle quali quelle humiane sembravano inadeguate o “ingenue”, comesi diceva.

Queste eranole ragioni di fondo, ma ce n’era un’altra, più presentabile:gli illuministi non eranostati tutti riformisti? E lo spirito riformistico non era quello che ispirava o avrebbe dovuto ispirare la borghesia moderna? Chi voleva far risorgere l’illuminismosi muovevasul filo sottile che correva sopra i due versanti della società italiana o dell'immaginechese ne creava nel dibattito ideolo-

LA CECITÀ DI HUME

141

gico,costituiti dalla cultura cattolica e dal mito marxista della classe operaia. Hume, scettico anche sui miti riformistici, sembrava

un conservatore. Hume negatore della religione e conservatore sembrava far riemergereil fantasma dello Hume sempre evocato per mostrare a quali risultati disastrosi conduca il soggettivismo modernoe l’illusionedell’illuminismoriformistico. Il merito di Baroncelli era di partire proprio di qui. La sua frequentazione della cultura cattolica gli aveva permesso di conoscere dall’internoi giochi chesi facevano intorno a Humee di avventurarsi su quel terreno. Comegli spericolati sperimentatori su Hume, Baroncelli non lo espungeva dalla cultura moderna, né lo considerava una sua degenerazione. E non cercava neppure di nascondereil suo conservatorismo. Anzi Humegli serviva per mettere in lucegli aspetti di conservazione presenti proprio nella cultura moderna. Dunque Humenonera più considerato comel’esito disastroso di questa cultura, dalla quale andava evinto, o dalla qua-

le andavanoevinti (meglio ancora) tutti i presupposti che avevano permessola sua comparsa. Reimmessonella sua epoca, Humeper-

metteva di scorgerne aspetti che le ricostruzioni storiche avevano spesso ignorato. Ciò che Hume permetteva di mettere in luce era non il soggettivismo estremo né lo scetticismo invincibile, ma lo sfondosocialein cuisi inseriva e che non riusciva a far parlare. Baroncelli era interessato alla politica: era iscritto al partito co-

munista e partecipava alla vita politica della città. In questa militanza c'era anche una forte componente culturale, che metteva in gioco il marxismo, ingrediente fondamentale dell'ideologia del partito. Del resto negli anni della formazione e dei primi lavori di Baroncelli il marxismo era un tema di discussione corrente, so-

prattutto per gli uomini della sua generazione. Ma Baroncelli aveva fatto esperienze giovanili di partecipazione sociale che andava-

noal dilà dell’orizzonte in cui si muovevala cultura comunista,al

centro della quale staval’interesse per la classe operaia e i suoi rapporti con la borghesia. Da quelle esperienze egli muoveva per cogliere realtà nascoste nelle immaginicorrenti, positive o polemi-

che, della modernità. Il problema non era di collocare Humenel

progresso che andava dalla borghesia modernaal socialismo, di sapere sela sua filosofia avesse posto le premesse per scorgere nella condizione operaia l’umanità in generale. Ciò di cui Humeaveva avvertito la presenza, ma in modo oscuro, comeun cieco avver-

142

CARLO AUGUSTO VIANO

te un oggetto, erano i poveri del suo tempo,che noneranogli operai e neppuregli antecedenti degli operai dell’età industriale matura. L'inquieta cecità di Hume cometraccia attraverso la quale osservare in modoindiretto i poveri dell’età moderna nascenteera la formula del tutto inconsueta attraverso la quale Baroncelli dava nuovi contenuti alle interpretazioni tradizionali di Hume, al suo scetticismo speculativo e al suo conservatorismo pratico. L'attenzione per i poveri diventerà il tema preferito di Baroncelli per molto tempo dopoil libro su Hume.In questo modoegli metterà a frutto sia le sue esperienze sociali dirette sia i contatti con la cultura cattolica menointeressata alle polemiche con la cultura laica. Con queste scelte Baroncelli si muoveva lungole direzioni nuovein cuisi era disposta la ricerca sul Seicento e Settecento, alla caccia di ciò che era rimasto fuori del quadro costruito se-

guendola nascita del commercio internazionale e della società industriale. Gli stessi conflitti religiosi dell’età moderna nascente, comequelli tra cattolici e protestanti, nei quali si era spesso cercata la nascita delle società borghesiliberali, potevano ora essere proiettati sullo sfondo del problemadella povertà e dei modi peraffrontarla. La presenza del marxismo nella cultura italiana aveva aumentatola sensibilità degli storici della filosofia peril contesto sociale in cui si inserivano le stesse teorie filosofiche, ma spesso i

contesti sociali eranofiltrati attraverso interpretazioni dottrinarie marxiste. Evitando semplificazioni e anticipazioni inverosimili, Ba-

roncelli allargava ancheil parco deitestifilosoficiutilizzabili per ricostruire la filosofia moderna, rileggendo in modo nuovo per esempioi testi della seconda scolastica spagnola, che la tradizione storiografica aveva spesso considerato prodotti di un ritardo culturale. Non homai sentito Baroncelli tormentarsi con il problema che aveva angustiatola sinistra italiana, se ci fosse e quale fosselo Stato modello cui guardare. Era troppospiritoso per prenderesul se-

rio la burocrazia sovietica,il pensiero di Mao o l’idealizzazione del

Vietnam alla Marcuse. Nélo interessavano le eresie marxiste. Invece, come unacertastoriografia di sinistra, cercava le figure marginali intorno e dentro il mondo opulento. Così avrebbe affrontato a modosuoil problema del multiculturalismo, passandoattraverso la considerazione del linguaggio. Era un modo moltooriginale di affrontare la “svolta linguistica”, diventata un’ossessione.

LA CECITÀ DI HUME

143

Baroncelli, con il suo mododi scrivere e di parlare per lampi improvvisi, spesso per suggerimenti, qualche volta per paradossi e provocazioni, sembravail contrario del filosofo analitico. In realtà sapeva prendere sul serio anche la filosofia analitica e cimentarsi con puntiglio sul suo terreno. Mapreferiva usare la chiave linguistica per affrontare da una prospettiva molto particolare il confrontodiciviltà e culture. Con coraggio aggrediva il problema del politicamente corretto, in un momentoin cuiesso stava finendo di essere popolare e incominciavaa suscitare motidifastidio. D'altra partelo spirito ironico impediva a Baroncelli di condivideregli atteggiamentiedificanti di sacerdoti e sacerdotesse del politicamente corretto. La riduzione della scorrettezza politica a una gaffe era la soluzione da lui proposta. Demitizzante, certamente, ma anche

sottile dal punto di vista logico, perché gli permetteva di individuare ragioni minime, ma appunto per questofortissime, per evitare le discriminazionilinguistiche: chi vorrebbe fare una gaffe? Essere semplicemente compiti non implica condividere i pregiudizi degli interlocutori.

Pertutta la vita Baroncelli è andatoin cercadell’altro invisibile, occultato da chi possedeva le chiavi della cultura, coniavai lin-

guaggi dominanti e più potenti, modellavala scrittura e lo spettacolo. In un mondo accademicodi cui conoscevatutti i percorsi e in cui sapeva muoversi con decisione, quando occorreva, ha sempre cercato di essere lui stesso invisibile, sottraendosi agli schemi e mantenendo un proprio tasso di improbabilità: era quello che gli permettevadi attirare tanti giovani intornoa sé e di lasciare un ricordo duraturo, come di un viso scorto per troppo poco tempo, macheti vien voglia di continuarea cercaretrai volti, ormai sempre più numerosi, degli amici perduti.

Gianni Francioni FLAVIO BARONCELLI,I “POVERI” E LA STORIA DELLA FILOSOFIA

Oltre a David Hume, l’altro grande interesse storico-filosofico di Flavio Baroncelli è stato il problema del pauperismo in età moderna. Nonso quale dei duesia sorto per primo:se, cioè, il tema del

poverosia, per così dire, spontaneamente sgorgato dalle idee e dalle scelte politiche di Baroncelli, spinto così a indagareil grande temadella disuguaglianza fra gli uomini, il conflitto fra le classi, lo scontro fra le ideologie contrapposte e il riverberarsi di tutto ciò nelle concezioni filosofiche; oppure se l’attenzione per questa te-

matica sia nata all’interno della ricerca su Hume, esaminando un

punto cruciale della sua teoria della simpatia. La vu/gata racconta che, da buon comunista, Baroncelli avesse chiesto a Romeo Crippa

unatesi su Marx,e ne avesse ricevuto in cambio, come più consona ai suoiinteressi, la tesi su Hume. Comechesia, si può dimostrare

che l'accumulo di letture funzionali alla tesi su Humee poial proseguimento degli studi su questofilosofo è andato, per Flavio, di pari passo con lo scavo sul pauperismo. Hume(ela filosofia britan-

nica del Settecento) da un lato,i poveri dall’altro, hannofinito così

per costituire una sorta di arsenale dal quale l’autore ha estratto pressochétuttii suoi interventidi carattere storico-filosofico. Milimito in questa sede a percorrere rapidamente questa pro-

duzione, offrendone poco più di una semplice schedatura. Discussala tesi di laurea nel 1968, gran parte degli anni successivi è dedicata da Baroncelli a rielaborarne il testo in vista della pubblicazione. Un inquietante filosofo perbene. Saggio su David Hume —ancor oggi una delle migliori monografie sul filosofo scozzese — esce nel ’75 presso La NuovaItalia di Firenze. La precedonosolo duetitoli chesi collocano nello stesso orizzonte (l’antologia degli Scritti morali di Hume, edita nel 1970 da La Scuola di Brescia, e Di una possibile lettura mistificante dei Dialoghi, pubblicato su “Proteus” nel 1972); la segue, nel ’77, un’antologia di paginedi Pascal (Solitudine e storia, per La NuovaItalia) in cuiil filosofo

francese viene presentato — lo ha ben notato Daniele Rolando — co-

me «problematicamente connesso» con Hume, addirittura come

unasorta di «anti-Hume»checercadi esorcizzare in anticipo quel-

FLAVIO BARONCELLI,I “POVERI” E LA STORIA DELLA FILOSOFIA

145

lo stesso modello di «laico per bene» che Hume proporrà delineandola figura di un «ateo gentleman lontano da ogni fanatismo», unicarisposta alle contraddizionie alle spaccature della nascente società borghese. ‘Intantonel 1974-75 Baroncelli ha cominciato il suo insegnamento universitario, come professore incaricato di Storia dell’età dell’illuminismoall’Università di Trieste (ci resterà fino al ’76-°77). Lì insegna anche il suo amico di sempre, Giovanni Assereto (incaricato di Storia delle istituzioni politiche), e in un anno accademi-

co essi decidono di dedicarei rispettivi corsi a un tema comune, quello della storia dei fenomenipauperistici e delle politiche assistenziali in Italia e in Europanell'età moderna.L'insieme deitesti e dei documenti su cuisi basano quelle lezioni prefigura l’antologia a doppia firma Sulla povertà. Idee, leggi, progetti nell'Europa moderna: già pronto alla fine degli annisettanta,il libro approda dopo varie vicissitudini a una piccola casa editrice, Herodote di Genova-Ivrea, che lo stampa nel 1983.

Assereto mi ha confermato chela scelta del tema del pauperismoperi loro corsi fu un'idea di Flavio. Ne comprendiamo meglio le ragionialla luce del capitolo del libro su Humededicato alla teo-

ria della simpatia (il titolo è Un sisterza d'amore e d'odio), che si

apre conla citazione di un passo del dottor Johnson («in Scozia ci sono molti mendicanti [...] però non sono né importuniné chiassosi. Chiedonoin silenzio, con molta modestia, e per questo, ben-

ché il loro comportamento tocchi con maggior forza il cuore di uno straniero, certamente corronoil pericolo di non destare l’attenzione dei loro concittadini») e si soffermapoisulle proposizioni del Trattato e di altri scritti di Hume che parlano della compassione e della benevolenza, o del disagio e del disprezzo, che proviamoalla sola vista di un mendicante. L'analisi di queste pagine humeane è accompagnata — come un contrappunto — dariferimenti a Defoe (Far l'elemosina nonè carità, un’operetta del 1704), allo Swift della Modesta proposta, a Mandeville, di cui viene sotto-

lineato l’insuperabile «“livello tecnico” della descrizione del men-

dicante», e alla lotta di Lord Kamescontrola tassa sui poveri; con

puntuali rinvii alla maggiore letteratura critica sulla questione del pauperismo inglese. Ma un’altra prova di un già forte interesse di Baroncelli per il tema del pauperismo è In causa pauperum. Cenni su perfezione individuale e perfettibilità sociale, intervento a un

146

GIANNI FRANCIONI

convegno su La perfezione oggi, i cui atti vengono editi nel 1977

dalla Liviana di Padova. Nell’antologia sulla povertà, oltre a una parte documentaria, compaiono pagine di Juan Luis Vives, Domingo de Soto, John

Locke, Ludovico Antonio Muratori, Simon-Nicolas Linguete altri

autori, nonché duevoci dell’Excyclopédie. Restano esclusi, comei

curatori segnalano al termine dell’introduzione,i testi più famosi(e

dunquepiù facilmentereperibili) sul tema: l’Utopia di Tommaso Moro,il Saggio sulla carità e sulle scuole di carità di Mandeville e la Modesta proposta di Swift. L'introduzione sottolinea che quel checaratterizza nel modopiù pittoresco l’età modernaè l’ossessione universale di distinguere il vero povero, che merita assistenza e carità, dal povero falso, che merita il bando o la gogna,la casa di correzione o il marchio a fuoco:il povero,cioè, che potrebbe cessare di essertale se solo lo volesse.

Ciò che complicale cose è peròil fatto che nell'Europa moderna «i poveri non sonosolo i marginalie gli esclusi (vagabondi, mal-

viventi, zingari, mendicanti, ecc.), ma anchei lavoratori manuali

delle città e delle campagne», a maggior ragione quandocolpiti da disoccupazione. Le questioni riguardanti l'insieme delle classi su-

balterne vengono cioè «pensate e governateall’interno di categorie

mentali e di strutture inventate perl'assistenza e la repressione del pauperismo».

Letraversie editoriali dell’antologia Sulla povertà fanno sì che appaiano come precedenti a essa alcuniscritti di Baroncelli che in realtà sono coevi o successivi alla raccolta e al commento del materiale. A parte Pauperismo e religione nell'età moderna, scritto ancora in collaborazione con Assereto e uscito nel 1980 sulla rivista “Società e storia” (che riprende e amplia l'affresco complessivo dell’introduzioneall’antologia), il primo da citare è un intervento

alla riunionedella HumeSociety, in occasione del congresso internazionale di studisull’illuminismo tenutosi a Pisa nel 1979. Ma di questo conoscosoloil titolo, Hurze and the poor, perché non è mai stato pubblicato e non miè stato dato dall’autore (e so che Flavio, che non neera soddisfatto, aveva “proibito” a Emilio Mazzadi far-

ne un’edizione postuma). Non è tuttavia difficile immaginare la stretta parentela di questo intervento conle paginedellibro del "75 dedicatealla teoria della simpatia. Questa comunicazione congres-

suale, peraltro, deve essere stata riversata, almeno in parte, in un

FLAVIO BARONCELLI, I “POVERI” E LA STORIA DELLA FILOSOFIA

147

articolo — Tra Locke e Smith. Alcune immaginidel rapporto col povero — comparso su “Studi settecenteschi” nel 1981. (Misia consentito di aprire una piccola parentesi per dire che sonopassati poco più di trent'anni da quandoincontraiperla primavolta Flavio. Dalla lunga chiacchierata di quel giornoe da successivi incontri sarebbe nata, nel 1981, la rivista “Studi settecente-

schi”, che Baroncelli contribuì a impostare come unospaziodi in-

dagine dichiaratamente interdisciplinare, dedicato non alla sola cultura dei Lumi, ma anchealle posizioni divergenti, o nettamente

antiilluministiche; e sempre con unaparticolare attenzione ai fenomeni cronologicamente di confine, il tardo Seicento o i primi decennidell'Ottocento). Ebbene: nel saggio pubblicato nel 1981 su “Studi settecenteschi”, ciò che interessa a Baroncelli è vedere come il problema del pauperismonella società britannica del XVIII secolo viene affrontato in testi aventi, in misura maggiore o minore, unavalenzafilosofi-

ca (dal Reportsull’assistenza e l’impiego dei poveri scritto da Locke nel 1691, alla Modesta proposta di Swift; dai Viaggi di Gulliver di Defoe ai Serzoni di Joseph Butler; fino al confronto ravvicinato fra la teoria della simpatia di Humee quella di Adam Smith). Ciò che questi testi rimandano è un mondoin cui, comeosservava Butler,i

poveri sono,in parte e ancora,i servi di casa, che stannosotto gli occhi dei padronipertutta la vita e verso i quali si riesce a mantenere benevolenza e compassione anche quando diventano vecchi e malati; e al contempo, un mondoin cui, nonostante il mutare delle relazioni fra imprenditori e lavoratori, l’assetto ancora paternalistico dei

rapporti tra le classi e la tradizione della solidarietà cristiana concorrono a produrre immagini del povero che risultano in larga parte preindustriali e “patriarcaliste”, stonatee in ritardo rispetto al progresso economico della società e alle leggi del libero mercato. La complessa figura del povero (che, se è disoccupatoe se non riesce a farsi assistere legalmente — diventando così un paper nel senso pie-

no della parola —, viene accusato di vagabondare, mendicare e ruba-

re, ed è dunqueoggetto di repressione; e che se pure è un lavoratore occupato, resta ugualmente un povero, perché non ha alcuna garanzia di poter continuare a sfamarein futuro, con la sua misera paga, i numerosifigli) influenza fortemente la discussione settecentesca sulla simpatia e sulla benevolenza, sia in quelle che appaionoteorie all’insegna di una «particolare protervia» nei confronti dei mendi-

148

GIANNI FRANCIONI

canti (vedi il caso di Locke), sia, in generale, in quelle che possono essere ricondotte a una «rassicurante retorica del bene, dell'amore

tra gli uomini garantito dalla natura», rispetto alle quali Humecostituisce comunqueunasignificativa eccezione.

Questo saggio del 1981 è articolatoin tre capitoli, che Baroncelli presenta come «frammentidi uno studio ancorain elaborazione». Nonsose la sua idea fosse un complessivo volumesu “ifilosofi e i poveri” (lo dico pensando, per analogia, a I filosofi e i selvaggi di Sergio Landucci). Certo è che quello studio complessivo Flavio non lo hapoiscritto. Ma,negli anni, ha continuatoad attingere al materiale assemblato sul tema del pauperismo. Altri due articoli — I/ povero come individuo: un’arma polemica contro la scienza della carità,

relazione letta a un convegnodi studi tenutosi nel 1984 (e pubblicata poineirelativi atti: Ragionee civilitas. Figure del vivere associa-

to nella cultura del ’500 europeo, Franco Angeli, Milano 1986), e Contro la carità discreta. Misericordia, raziocinio e volontà di non sa-

pere in una polemica cinquecentesca sulla povertà, uscito nel 1985 sui “Materiali per unastoria della cultura giuridica” — costituisconoinfatti una ripresa e un ampliamento del confrontofra duetesti esemplari, il De subventione pauperum (1525) di Luis Vives e la Deliberacibn en la causa de los pobres (1545) di Domingo de Soto; confronto già tratteggiato, seppur rapidamente, nell’antologia. C'è un altro autore che ritorna spesso negli scritti di Baroncelli, ed è Laurence Sterne. Compare già in alcunipassaggidel librosu Hume,ed è fatto oggetto di un’analisi specifica in uno dei suoi migliori interventi — Corpo e filosofia in Laurence Sterne —, letto a un convegnosu Corpoe cosmo nell'esperienza morale nel 1982, mai cui atti sono stati pubblicati solo nel 1987 da Paideia di Brescia. È una lettura ex philosophe di un autorea cui Flavioattribuisce «unaforte, profondaaffinità» con Hume, lettura chesi sostanzia, da una parte, nell’argomentatorifiuto della possibilità di una interpretazione dei suoi romanziin chiave strettamentesatirica, dall’altra nell’individuazione, in Sterne, di una presenza massicciadella filosofia:

Lafilosofia del tempoentra nelle opere di Sterne non come una dottrina su cui modellare l’uomo,[...] ma comediscussione,possibilità di letture contrapposte, di individuazione dei limiti di ogni dottrina, e infine vita della mente e dei suoi

dubbi.

E ancora:

FLAVIO BARONCELLI, I “POVERI” E LA STORIA DELLA FILOSOFIA

149

Sterne è [...] interessato al ruolo positivo di una cultura che[...] qualorasi sappia coglierla nel suo complesso(e quindi neisuoi limiti) svolge una funzione liberatoria seminando dubbisalutari nei confronti di chi pretenda di

farsi giudice delle altrui incertezze, dell’incapacità del singolo di adattarsi a modelli e compiti troppo ardui. Rimanenettoil rifiuto di ciò che deltutto palesemente è passato o compromesso col fanatismo; nessuna nostalgia per quel mondo; maperil resto, tutte le frontiere sonolabili, e tutti i giudizi rovesciabili [...] è proprio la cultura del dubbio, e della tolleranza, che bisogna far

emergere. La varietà delle interpretazioni rion equivale a un azzeramento del-

le stesse [...]: è il grand tour, attraverso le idee, comescuola ditolleranza[...] unatolleranza estesissima, o unatotale intolleranza verso chiunque pretenda di imporre modelli, doveri, atteggiamenti obbligatori.

Sterne dunque comefigura esemplare (al pari di Hume) di una «serenaaccettazione dei difetti della natura umana»: un atteggiamento — precisa Baroncelli — che nonè, nel Settecento, qualcosa che «si respira nell’aria», ma unacostruzione faticosa, e spessosolitaria, di alcuni uominiche si azzardano

a mettere periscritto che le etiche ufficiali non corrispondono quasi maiai

comportamenti umani, e che questa è una fortuna, perché sarebbero ostacoli

a unacivile e gradevole convivenza, qualora fossero generalmente applicate.

Tutto settecentesco è anche il saggio Come ci insegnarono a

piangere, comparsonegli Studi in memoria di GiovanniTarello edi-

ti a Milano da Giuffrè nel 1990, con cui Flavio rende omaggio a un suo grande amicoe a un suointeressantescritto, Le poco luminose

origini dell'illuminismo penale inglese, ricostruendo il contesto culturale del fenomeno che Tarello aveva analizzato in autori del Settecento maturo. «Studiando idee a proposito dei poveri in epoca moderna- scrive Baroncelli — ho tenuto molto presente Le poco luminose, e l'ho trovato prezioso per quelchedi esplicito e di implicito insegna sui rapporti tra problema della povertà e ideedi riforma». Gli antecedenti degli autori presi in esame da Tarello, i rozzie schietti padri dell’illuminismo penale inglese dicono chiaramente che il problemasociale è il “povero”, e cheil diritto penale è solo una parte di una

politica di prevenzione che ha come oggetto poveri e criminali; e i criminali sono, perlo più, di origine modesta.

Il compito che Flavio si assegna è quello di compiere «una breve esplorazione» della cultura etica ottimistica che ha alimentato l’illuminismo penale inglese. E lo fa partendo da un autore scono-

150

GIANNI FRANCIONI

sciuto, Thomas O’Brien Mac Mahon,autore nel 1774 di un Saggio

sulla depravazione e corruzione della natura umana. Mac Mahonsi scaglia contro le teorie ottimistiche imperanti negli ultimi anni, e stila una lista di responsabili, che comprendefra gli altri Shaftesbury, Hutcheson, Sterne e Hume(gli ultimi due, puntualizza Baroncelli, inseriti del tutto abusivamente nel catalogo). Muovendo da qui, vengonoanalizzate confinezzale reali posizionisia di Sterne,sia di Hume;e a proposito di quest’ultimo Flavio ribadisce che «aveva tentato di studiare la natura umana senza scommettere in anticipo sull’ottimismo o sul pessimismo», costruendo «un modello di uomo che può essere benevolo o malevolo secondole circostanze e la storia personale». Esplicita poi che, se si vuole una prova della concezione nonottimistica della simpatia nella Ricerca di Hume, occorre cercarla «là dove egli si occupa del rapporto tra uominie poveri», là doveegli spiega «il problema del distaccopsicologicotra ricchi e poveri» riuscendo a evitare «una sua soluzione non meramenteverbale e ideologica». In realtà, Humeavevacercato di opporre, all’ottimismo imperante, un “pensiero freddo”. Baroncelli riassume cosa sia un “pensiero freddo” in uno squarcio che suona anche come unasua personale “professione di fede”: il pensiero freddo non ha necessariamente a che fare col cinismo e lo spirito polemico; segue come una piana conseguenza da premesse chel’autore ritiene vere,si insinua nel discorso anchea rischio di mettere in pericoloi valori in cui

l’autore stesso crede; non è accompagnato daretorica controo pervalori, per-

ché in quel momentol’autoreli ha persi di vista; spesso passa, proprio per questo, del tutto inosservato. [...] il pensiero freddo in genere non è chiassoso, ge-

neralmente dice in un linguaggio molto comuneil contrario di ciò che, proprio a causa deipregiudiziinsiti nel linguaggio comune[...], ci aspettiamo. La cul-

tura laica produce piuttosto raramente pensiero etico “freddo” [...] qualcosa cherisulta in genere sgradevole alla maggioranza, che dal pensiero etico ama essere invece riscaldata. La cultura laica [...] molto più spesso [...] è impe-

gnata a dimostrare di credere nei valori, e di poterneassicurareil trionfo, più di

unaqualsiasi cultura religiosa zelante e fanatica. Ci sono poidei periodi in cui

questo fenomenoraggiungeil parossismo;allora addio pensiero freddo, addio lucidità del pensiero ancora rozzo, addio a qualsiasi possibilità non solo di

produrne, ma anche di capire quello del passato. In periodi di questo tipo — conclude Flavio —, libri comeil Trattato di Hume,ironie rarefatte come quelle di Sterne, hanno pochissime probabilità di mantenerela loro identità.

Sterne ritorna in uno degli ultimiscritti storico-filosofici di Ba-

roncelli, a cui posso fare solo un cenno, L’incerta fortuna della cri-

FLAVIO BARONCELLI, I “POVERI” E LA STORIA DELLA FILOSOFIA

151

tica all’immaginazionismo di James Augustus Blondel, pubblicato nel 1993 su “Studi settecenteschi”, che ricostruisce un dibattito

assai acceso nell’Inghilterra del primo Settecento circa la possibilità o meno di un’influenza dell’immaginazione materna sulla conformazionefisica del feto. Ma con Sternevi ritornano un po’ tutti gli autori cari a Flavio, Hume 1% primis (comevi ritorna qualche accenno al pauperismo), a comporre ancora una volta un quadro non convenzionalein cuiostetrici, filosofi, teologi e romanzie-

ri sono sapientemente messi in campo perricostruire un capitolo nonscontato distoria della cultura. unoscritto chesi colloca un po’ al di fuori della linea di indagine che sto cercando di tratteggiare per mostrarne la sostanziale unitarietà; come lo è, e maggior-

mente, Cirici e scimmie. Osservazioni sull’anti-etnocentrismo di

Montaigne e Rousseau (comparso nei “Materiali per unastoria del-

la cultura giuridica”, sempre nel ’93: l’unico, a mia conoscenza,in

cui Flavio non metta in scena gli amati inglesi e scozzesi), unarilettura per molti versi innovativa e non convenzionale del saggio Sui Cannibali e di pagine del Discorso sull'origine della disuguaglianza. A partire dai primi anni novanta, Baroncelli sposta sempre più il focus della sua ricerca su questioni teoriche della filosofia morale e della filosofia politica contemporanee, comela tolleranza,il razzismo,la correttezza politica, ecc., fino a farne il campopressochéesclusivodeisuoi interventi. Ma continua a occuparsi di Hume (con l’introduzione ai Dialoghisulla religione naturale, curati da Emilio Mazza nel 1996 per il melangolo di Genova, e col saggio Hume and Rawls: a fable, nei New Essays on David Humeraccolti

nel 2007 da Emilio Mazza ed Emanuele Ronchetti per l’editore Franco Angeli) e a portarsi dietro il suo arsenale storiografico: non a caso, unodei suoi primiscritti teorici “militanti” — Suicidio e garanzie. Riflessioni a proposito di un libro recente, uscito nel 1989 sui “Materiali per una storia della cultura giuridica” — contiene una lettura ineccepibile di pagine poco limpide e controverse di Montesquieu (oltre, ovviamente, all’argomentazione del perchéil saggio Sul suicidio di Hume contenga «unateoria adeguata, ancor oggi degnadiriflessione»); mentre in un altro testo di carattere teorico, Etica e razionalità. Un finto divorzio? (ancora sui “Materiali”,

1997), ricompaiono Humee Joseph Butler, ma anche Luis Vives e

Domingo de Soto.

152

GIANNI FRANCIONI

Nonsose sonoriuscito a rendere un’idea — anche solo parziale — della ricchezza dei contributi storiografici di Flavio Baroncelli. A rileggerli oggi, in sequenza,si resta colpiti dalla inesauribile curiosità dello studioso per aspetti poco frequentati della cultura filosofica d’età moderna, dal gusto per autori minori e per opere poco conosciute, dalla sua capacità di interrogarei testi, dalle intersezioni disciplinari che sapeva realizzare, unite a una solida cono-

scenza della letteraturacritica. Il tutto reso con unascrittura vivacissima, niente affatto accademica talvolta irriverente. Capita anche, a rileggere questi saggi, addirittura di ridere per un momento,di fronte a certi passaggi particolarmente divertenti. Solo per un momento: prima che la commozionee latristezza per la perdita dell'amico riprendanoil sopravvento.

Ferdinando Fasce

UN AMERICANISTA

Una cosa che mi ha sempre colpito di Flavio era quante cose sapessefare, in maniera tremendamente rigorosa, ma sempre senza dare l'impressionedi sforzarsi o di prendersi tropposul serio. Flavio era anche,oltre chefilosofo, insegnante, polemista, coltivatore di rose, e tanto tanto altro ancora, anche un acuto osservatore del-

la realtà statunitense. C'era stato a insegnare, ci tornò durante la malattia, sempre traendone piccole gemmedi finezzaanalitica e interpretativa, che stupivano solo chi non lo conosceva.Per gli amici era normale, come è normale aspettarsi un palleggio impossibile da Cassano o unassolo vorticoso da Keith Richards. Così era anche per Flavio l’americanista. Anche con questilavorisi ripeteva la pratica che accompagnavala lettura di qualunque cosa scrivesse Flavio. Accadeva quello che, secondo un grandecritico americano,

dovrebbe accadere sempre coni libri intelligenti: non siamo noi a leggerli, ma, al contrario, ci leggono loro, rovistandoci dentro, sopra, sotto, con le domandecheci piantanoin testa (posto che ce

l'abbiamo, avrebbe detto subito, con la ben nota ironia, lo stesso

Flavio). Fu così con l'importante I/ razzismo è una gaffe. Eccessi e virtù delpolitically correct (Donzelli, Roma 1996). Chefu uno dei pochi tentativi di fare i conti seriamente con le “guerre culturali” che infiammavanogli Stati Uniti con particolare intensità dagli anni ottanta e che, sia pure in forme rinnovate, continuano a infiammazrli.

Basti pensare alle polemiche che vedonooggi forse un quarto della popolazione dell’Unione convinta, dalla “macchina del rumore” mediatica dei fanatici di destra del partito repubblicano,cheil suo presidente Obamasia un “pericoloso” mussulmanonon così lontano da Al-Qaida. Conle suesottili e implacabili argomentazioni,

Flavio mostrò che, era vero,il politically correct poteva diventare unaprigione del cervello. L'ossessione di evitare il linguaggio “offensivo” e parlare mordendosila lingua, sviluppata negli anniottanta per rispondereal riflusso reaganiano e neoconservatore contro minoranzee differenze, potevadiventare unacaricatura delle discriminazionireali controi portatori di quelle differenze. Ma Flavio

154

FERDINANDO FASCE

mostrava che anchei liberals maggioritari moderati, pronti a ripete-

re il loro mantra immacolato del «io sono ok,tu sei ok, viva il' mer-

cato delle idee», non facevano un buonservizio alla causa della soluzione dei problemidi unasocietà complessa e a quella di un vivere assieme menoesclusivista e iniquo di quello col quale siamoarrivati fin qui. A Flavio era bastato un anno accademicotrascorso in Wisconsin — culla del vecchio caro progressismo inizio Novecento, Stato che, nonostantela cattiva fama legata a Fonzie,si era concesso addirittura qualche giro di valzer socialista — per mettere in luce comeil politically correct fosse sintomo di un malessere profondo, da affrontare senza infingimenti, con l’usuale medicina del suo “buon senso” scozzese e savonese. Così comegli era bastato un soggiorno nel sud, dieci anni dopo,perafferrare i nodiintricati di unastoria secolare di prevaricazioni e dolori e di una più recente, ma non più “innocente”, vicenda di riscossa neoconservatrice che aveva trovato in Dubya Bush II il suo culmine. Neeranato l’amaroe scintillante Viaggio al termine degli Stati Uniti. Perché gli americani votano Bush e se ne vantano (Donzelli, Roma 2006), nel quale il sud degli Stati Uniti veniva rivoltato come un calzino, altro che magnoliee chiari di luna alla luce dei quali bruciare qualche bella croce Ku Klux Klan picchiare un nero. E diventava la metafora di un Paese che aveva coraggiosamente provato a sperimentare in maniera pionieristica la gestione delle differenze, ma che risultava ancora pesantementeattraversato da opacità e stanchezze.

In questo caso lo sguardo ironico e profondo di Flavio nonrisparmiava nemmeno l’eventuale recensore. A dueterzi del libro infatti Flavio sbottava senza mezzi termini inun «e poi mi sembra già di leggerlo, il recensore che, non avendo capito niente, mi accusa di affermare chei neri puzzano». Chiariamo subito che Flavio non diceva chei neri puzzano. Diceva, alternando come semprefioretto e sciabola,sottili esercizi sul filo del ragionamentopiù sofisticato e adorabili cachinni, che tutti un po’ puzziamo,si tratti di afrori plebei o di puzzaal nasointellettuale.Il libro era un felice antidoto contro quest’ultima, che a Flavio (e a chi scrive) risulta alquanto menosopportabile dei primi. Specie quandola esibiscono quegli «intellettuali europei», diceva lui, che commettonol’errore di identificare gli Stati Uniti con New York, «che è divertente — aggiungeva — ma nonservea capire un cavolo di niente». Occorre in-

UN AMERICANISTA

155

vece, scriveva Flavio, «far un giro anche da queste parti». Ovvero, comeavevafatto lui nell'autunno del 2004, attraversare l'America profonda e desolata del sud, popolata di agrobusiness e di non luoghi, distesa tra Arkansas e Mississippi, Clinton ed Elvis,l'industria del pollame da batteria e Graceland. Alcuni mesi trascorsi per una terapia in un famoso centrodi cura per il mieloma di Little Rock, sede negli anni cinquanta di una delle più dure battaglie peri diritti civili e contro la segregazione razziale, fornirono al nostro indimenticato amico l’occasione di un piccolo enormelaboratorio a cielo aperto per approfondire l’acutariflessione su multiculturali smoe razzismo.

Dieci anni prima,in I/ razzismo, il tema all’ordine del giorno era stato la scoperta dell’offensiva culturale della destra neoconservatrice contro tolleranza e pluralismo, fra i balbettii imbarazzati dei liberals. Nell’America del post 11 settembre la questione dei rap-

porti razziali era esaminata, per così dire, alla radice, in quel sud che «non è un puntocardinale se non accidentalmente», ma«è,invece, uno schieramento bellico. Il sud sono i Confederati, i posti

dove dominavail Kkk, le zone che più saldamente, compattamente, indubitabilmente, hanno votato per Bush». E dunqueal pro-

blemarazziale, esaminato senza sconti per nessuno,si intrecciava e

sovrapponevail nododelpersistente successo elettorale di Bush jr. anche e soprattutto presso quegli strati popolari e proletari bianchi che pure avevano patito e pativano in prima personale politiche ultraliberiste e ultraclassiste di Dubya. La risposta di Flavio, dopo una disamina lucida e appassionata negli angoli più riposti del dibattito teorico e dell’osservazione partecipante, non pareva lontana da quella che aveva dato esattamente un secolo prima una sua lettura prediletta, lo studioso afroamericano W.E.B. Du Bois. In

Souls ofthe Black Folk (1903), a proposito del razzismo dei bianchi

poveri, Du Bois aveva parlato di un «salario della bianchezza», una

«compensazione simbolica». I bianchi poveri di oggi, diceva Flavio, «pensano che sia conveniente investire in politiche che restringano le libertà delle persone che hanno una morale diversa dalla loro [...], l’impressione di essere nel giusto è una delle poche cose che possono perdere. Questo valore dimostrano di prenderlo sul serio proprio in quanto sono disposti a pagare la repressione. Indanaro». Ma Flavio,al solito, ci era arrivato con un suo percor-

so originale. Un percorso impastato di solide letture, ma anche di

156

FERDINANDO FASCE

tanta sana esperienza. Un percorso nel quale, come sempre, non c’era soluzione di continuità fra la conversazione estemporanea,il commentosul giornale, la conferenza dotta,il saggio,il libro,le lezioni, la vita di tutti i giorni. In lui tutti questi ambiti si alimentavano reciprocamente come raramente accadenel nostro frettoloso e compattimentato mondo post, dove Tizio ha letto solo quello chegli serve a ingolfare una notaa pié di pagina e Caio pure. Con Flavio no,il suo sguardo acuminato, allenato sulle aspre sottigliezze dello scetticismo humiano, era sempre in grado di produrre uno scarto,farti vedere le cose da una prospettiva nuova. Lostesso aveva fatto durante la permanenzaal sud, ingaggiando brillanti confronti dialettici con gli occasionali compagni, bianchi e afroamericani, delle lunghe giornatedi attesa negli ambulatori. Chegli facevano dire, a proposito dei «poveri bianchi» che votavano BushII, So che, in generale, a prendermelacoi poveri non ce la faccio [...]. Con que-

sti poveri americani c’è però qualcosa di più, qualcosa che non ha a che fare

conla carità, la compassione,la solidarietà. C'è che nonriesco a fare a meno di stimare uno che tende ad assumersi la responsabilità della sua vita, indipendentemente da-tutto. Credo che questo sentimento di stima [...] abbia

molto a chefare con il mio amore perl’America.

E, con la consueta onestàintellettuale, concludeva: So beneche,se facessila loro vita, in assenza di proposte per mecredibili, appetibili e comprensibili da parte dei democratici, mi comporterei comeloro.

Salvatore Veca

A PROPOSITODI RAZZISMO, TOLLERANZA, IDENTITÀ E LAICITÀ

Ecco qualche appunto per una conversazione con l’autore di Mi manda Platone. O, forse, per un seminario con Flavio e altre ami-

che e amici, comeai tempi dei mitici seminari della Fondazione

Feltrinelli, in via Romagnosi 3 a Milano, dovealla fine degli anni

settanta incontrai per la prima voltail filosofo amante di Humee dei rap. Flavio ciinvita a riflettere con sincerità sulla questione del razzismo minimo. Il razzismo passivo. Ha in menteche,in fondo,sia-

mo un po’tutti razzisti passivi. Ma pronti a esplodere. Dopotutto, la cosa non è così sorprendente. Basta aver voglia di rendersene conto. Converidicità. Lo sappiamocheil nostrolin-

guaggio, il nostro mododi vedere,il nostro mododietichettare,di

classificare, di spiegare le cose che riguardano i gruppi umanivienedasecoli e secoli di razzismo. È per questo che un grado minimodi razzismoci coinvolgetutti. Ma è passivo. Dorme.È a disposizione, in momentidicrisi, individualee collettiva. E allorasi sve-

glia e si mette all'opera per farci riconoscere il nemico. Flavio, hai ragione,e sono sicuro che saresti d'accordo con menel riconoscere che in quei momentidi crisi, individualee collettiva, fa una cer-

ta differenza se imprenditori politici della paurasi alleano conil razzismo minimo, che dorme, dandosiun gran daffareperfarlo ve-

nir fuori, buttandolo giù dal letto e strattonandolo.

Flavio giraneisuoi vicoli, a Genova. Neivicoli, ascolta conver-

sazioni fra immigrati. Parlano italiano. Flavio confessa: ne sono sorpreso. Mi aspetterei che tutti i neri, in quanto “diversi”, abbiano unalingua unica. Lui gira con un bastone per qualche malanno.Si accorge chei tagazzi italiani nei vicoli non ti vedono, non hanno cura. 1 magrebini, loro invece, sonoattenti. E a volte capita che ti fanno anche

gli auguri. Ma è difficile tirar fuori la conclusione buonista. Resta,

nonostantetutto, il razzismo passivo. Quello cheti fa dire: «Tor.

natenea casa tua». La conclusionerealistica e veridica è un’altra. È vero: sinmo fi gli di millenni di barbarie. Ma alcuni di noi lottanocontro il pro

158

SALVATORE VECA

prio razzismo. Altri lo lasciano dormire tranquillamente. E questa, Flavio, è una differenza che fa differenza. OraFlaviociinvita a riflettere con sincerità sulla questione della tolleranza. E fa una speciedi elogio dell’indifferenza. Avanza un sospetto sacrosanto neiconfronti del sospetto sulla tolleranza. Ci vuol sempre qualcosadi più. Il rispetto. Discorsi eloquentici esortano ad andareoltre la tolleranza. Sembrachela virtù elusiva della tolleranza nasconda ipocritamente una qualche formadi sottile intolleranza. Questi discorsi eloquenti, Flavio, vanno insieme agli errori del co-

munitarismo: le culture trattate come “persone”. Quandosi accetta questotipo di discorsi, la trappola identitaria è pronta a scattare. E

la tolleranza, con tutta la sua imperfezione,rischia di evaporare.

Piuttosto, dovrebbevalere l’atteggiamentoinverso:accettare di scendere a compromessi per favorire la pace fra le persone, per evitare il conflitto. Ecco le preziose ragioni prudenziali che possono sostenerela virtù elusiva. Vedi, Flavio, spesso si ha in mente chevisia un solotipo di ra-

gionia favoredella tolleranza. E si dimentica chevi è unavarietà di ragioni. Ma,in ognicaso,è difficile negare priorità alle ragioni prudenziali. Comedici tu, io ho la mania di tradurre in teoria i tuoi

rap. Ma è il tuo rap cheè alla base del miofarteoria. E il tuo rap sulla tolleranza si chiude con unabattuta che ricorda la tua ballata sul razzismo che dorme: c’è anche un’intolleranza che dorme in noitolleranti. È bene saperlo. Flavio ci invita a riflettere con sincerità sulla questione dell’identità. Flavio ora ci racconta come accaddeche trent'annifa circa uscì

dallo sgabuzzino dei termini burocratici il termine “identità”. Gli viene in mente L'identità e i tetti di Savona.» Che cosa vuoldire essere savonese? E ci ricorda le manovre persistenti della costruzio-

nepolitica di identità e l’intrappolamento delle persone che non ne possono più uscire. Comeneicasi di appartenenzaetnica. Casi in cui assistiamo, Flavio, all’inflazione identitaria e in cui

emergenetta la connessione fra identità e violenza.

E,perfinire, Flavio ci chiede di esaminare consincerità la que-

stione della domandadi eticità e della laicità. Lo fa chiamandoin causa Aristotele, il papa e la famiglia. Una semplice domanda: perché mai certi credenti, per comportarsi nel modo che credonogiusto, sentonoil bisogno che i non

A PROPOSITO DI RAZZISMO, TOLLERANZA, IDENTITÀ E LAICITÀ

159

credenti diano loro l'esempio,obbligati in questo dalla forza dello Stato? Che gusto e che merito ci sarebbe, poi? Flavio, non vorrei togliere forza alla domanda con glosseteoriche, come al solito. Mi piace sentirla risuonare così com'è, la tua

domanda. Perché risento la tua voce inconfondibile e rivedoil tuo sorriso e il tuo sguardo, mentre la formuli e ce la poni conironia.

Così, a me sembra, continueremoa ragionare insieme. Conironia,

senso dei limiti e — per quantoci è possibile — veridicità.

! Cfr. E BARONCELLI, L'identità e itetti di Savona,in ID.,Mi manda Platone,il melangolo, Genova 2009, pp. 115-119.

A LEZIONE DA BARONCELLI

Pietro Cheli

NOI PUFENDORF SIAMO COSÌ A LEZIONE DA UN PROFESSORE CHE SCHIVAVA LA BANALITÀ All’inizio degli anni ottanta, nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova, l'impegno più facile da affrontare per gli studenti era passare gli esami (e anche con una buonavotazione). Senza dubbio era molto più difficile, in quegli aristocratici quanto labirintici palazzi ai bordi del centro storico (che certo non erano stati concepiti per ospitare l'università), scoprire dove fossero le aule (alcune,in particolare quelle per i seminari difilosofia, nascoste tra mezzaninie cortiletti remoti e ignorate dalla segnaletica). Ancoradipiù trovarei libri indicati nei programmi(nelle biblioteche, dove erano semprefuoriper prestito, comenellelibrerie), capire che cosafosse scritto in gran parte di queilibri, per non dire di quanto veniva spiegato durantele lezioni. (È da allora che mi chiedo perchésia più filosofico dire “esaustivo” al posto di “esauriente” o perché quando qualcunostudia qualcosafacciapiù intellettuale dire che “se ne occupa”, ma questa è un’altra storia). Chiedo scusa se qualcuno, dopo queste prime righe, avesse la sensazione di averle già lette. Non è un’allucinazione, proprio con una descrizione molto simile degli edifici di via Balbi 4 e via Balbi 6 e dell’atmosfera che li accompagnavaall’epoca in cui ho iniziato a frequentarli come studente,aprivoil ricordo di Flavio Baroncelli uscito sul settimanale “Diario” a fine febbraio 2007. Ma, chiedo

scusa di nuovo poi starò attento a non farlo più, ogni volta che penso a Flavio non riesco a prescindere dalla prima volta che l’ho sentito parlare. Quasi un colpo di fulmine. All’epoca avevo 18 annie temo di averscelto di studiarefilosofia — tranquilli l'autobiografia è quasifinita, siamo qui per Flavio — andandoperesclusione. E, forse, perché suonava benedirlo: che

cosa studi? Filosofia? Ah, interessante... Insommanonavevo grandi motivazionio sacri fuochi ad animarmi quandodallo spensierato tran tran del liceo mi trovai sbalzato in quel mondodoveera tutto molto serio, a partire dai corsi — ne ricordoin particolare uno intitolato Augenblick e catarsi — seri comeil colbaccoin testae il vellutonedella giacca, abbigliamento che dai professori veniva trasmessoagli studenti, con i neolaureati attenti testimonial, comedi-

164

PIETRO CHELI

visa filosofica. Tutto così serio, che sembrava quasi unoscherzo en-

trare in un’aula interamente affrescata (e interamente délabré) e sentire un professore che a unalezione di Filosofia morale parlava di Pufendorf. All’epoca, scusate la pedanteria ma è necessaria, la serie di cartoni animati che aveva per protagonisti gli ominiin blu, i Puffi, spopolavain televisione e quel pensatore che nei manuali delle superiori meritava poco più di una nota(si chiamava Samuel, era tedescoe nel Seicento aveva contribuito a divulgare il pensiero di Thomas Hobbes) poteva essere il frutto di una scherzosa inven-

zione. Ma era vero, ovviamente, come vera era quella maglietta a strisce orizzontali, un po’ da rugby, che rendeva quel professore tanto diverso dai colleghi. Chi ha memoria di come fossefisicamente Flavio sa bene come un indumento del genere non fosse propriol’ideale per la sua linea. Eppure quel professore e quel Pufendorf erano quasi magnetici. Eracosì Flavio Baroncelli, un pezzo unico, dall’intelligenza ful-

minante, e complessa — era facile restare affascinati dalla capacità di sintesi quando dopolezionie lezioni su Robert Nozick,il teorico delliberalismo estremo che tanto piaceva a Ronald Reagan,diceva «per capirlo però è meglio che vi andiate a vederei film di John Wayne, ve lo spiegano molto meglio dei suoilibri» —, attento al mondoe a quanto succedeva facendo sempre rimare malinconia conironia.

Oltre la Chiesa cattolica, quella marxista e quella esistenzialista spingeva ad allungare lo sguardo. Oltre oceanoe oltre il territorio del pensieroin sensostretto. «Lafilosofia? È un genereletterario», spiegava con grave disagio di docenti/studenti in colbaccoe vellutone: «Non è serio, non è serio», commentavano a bassa voce,

scuotendola forfora. . Dagiovanestudioso si era dedicato a David Hume(a un certo punto, non ricordo bene quando, avevamo pensatodi scrivere un romanzoconil filosofo scozzese protagonista. Se non fosse che un «mapoi lo leggerebbe qualcuno?» aveva smorzato ogni entusiasmo). Da giovane, dicevo, aveva studiato Humeche lo avevaspinto al dubbio,alla diffidenza per la metafisica e, soprattutto,alla cu-

riosità per la natura umana. Era curioso, gli piaceva conoscere le persone e metterle in relazione tra loro. Da un terribile incidente

motociclistico in Turchia, lui e la moglie Annalisa, oltre a molte

ammaccature, avevano portato a casa un figlio. Poco piùche qua-

A LEZIONE DA UN PROFESSORE CHE SCHIVAVA LA BANALITÀ

165

rantennisi erano trovati di colpo genitori di un ventenne con cui era scoppiata un’intesa travolgente. Nessun miracolo, di fronte a un termine così Flavio Baroncelli avrebbe riso di gusto. Ridere gli piaceva, anche di sé: sempre a causa di quell’incidentesi era ritrovato a fare molta rieducazione,alla fine della quale uno dei medici che lo avevanoseguito si era sentito in dovere di dirgli che forse, con le conseguenze permanentialla gamba, avrebbe potutofarsi rilasciare un certificato di invalidità per concorrere ai posti “in quota”; magari ci poteva scappare un posto comebidello. Flavio avevaringraziato dicendo che era già dipendente statale, trattenendosi dal ridere, come non avevafatto in seguito raccontandolo.E così era capitato che Fulvia Bardelli, un’amicascrit-

trice specializzata in romanzirosa, alle prese conla storia d'amore

infelice di una giovane insegnante fuori sede, salvasse in quel rac-

contosolo l’arguto bidello Flavio Baroni, molto protettivo nei con-

fronti dell’animaferita. Mirendo conto però che volevo scrivere di Flavio giornalista e non ho ancorainiziato. Tenete ben presente, come ho già detto, l’intelligenza fulminante, la curiosità, il dubbio,il fatto che con

Flavio era facile ridere ed era impossibile annoiarsi. Da questo puntodivista era un perfetto collaboratore peri giornali. All’epoca della trasmissione televisiva Indietro tutta, Nino Frassica lanciò un tormentoneche partiva con un «Cechicià» che entrò con rapidità nel linguaggio quotidiano. E sul “Secolo XIX”venne stigmatizzato un professore della facoltà di Lettere che lo avevaripreso — scandalo! — a lezione. Flavio prese la palla al balzo e inviò al quotidiano genovese un articolo intitolato, più o meno, Lo confesso:sono io il Frassica di Lettere. E poiiniziava, vado sempre a memoria, più o menocosì: «Non è vero ma voglio vedere quanti colleghi mi

toglierannoil saluto perchési limiteranno a leggeresoloil titolo». Nel 1994, quandoiniziò a uscire “la Voce”, quotidiano un po’ cor-

saro che ha ballato un annosoltanto,la sua capacità di scendere in

profondità senza far mai sbadigliare conquistò anche Indro Montanelli. Avevo chiesto a Flaviose volesse scrivere di filosofia. E lui iniziò allargandoviavia gli interessi. Sinché non gli suonail telefono e un’efficiente segretaria dice: «Buongiorno professor Baroncelli, attendain linea, le passo Indro Montanelli». Flavio pensò im-

mediatamentea unapresain giro e rispose freddino sinché nonsi rese conto che la voce grave dall’accento toscano, che gli faceva

166

PIETRO CHELI

complimenti per comesapessescrivere bene, era proprio quella di Montanelli. E allora si scusò: «Temevofosse uno scherzo», «Io non sono unoscherzo»,la risposta. Seguì la convocazioneper un pranzo e la commissione di articoli sempre più strani: imperdibile un'intervista impossibile a donna Rachele che rammentava quando lei e il non ancora duceiniziavano ad amoreggiare. Naturale chiamarlo quando Enrico Deaglio mi coinvolse nell’avventura di un altro giornale eterodosso comeil settimanale “Diario”. «Noam Chomsky politico ha il vantaggio dell’orologio fermo: ogni tanto gli capita di segnarel’ora giusta», scrisse nel primo articolo, una re-

censione ‘al filosofo americano. Battuta fulminante su un tema su cui essere paludati era molto rischioso. Erail 1998 e già da qualcheanno, ben primache deflagrassero coni loro effetti devastanti sulla scena politica mondiale, studiava

i neocon,avvertendoneil pericolo e la capacità seduttiva. In questo senso ciaiutò, ci nel senso di noi di “Diario”, moltissimo nelten-

tativo di capire Bushjr. e le teorie che sostenevanolapolitica bellica degli Stati Uniti negli anni Zero del nuovo millennio. L'America, che aveva scoperto da ragazzo leggendo John Steinbeck,l'America libertaria e l'America che si ripensava,lo affascinava nelle sue contraddizioni comeneisuoi chiaroscuri. Nasconocosì, a cavallo di al-

cuni viaggi prima comeprofessoreall’Università di Madison e poi percurare il male che lo ha lentamente consumato negli ultimi anni, duelibri i cui titoli sono di per sé ragionamenti: I/ razzismo è una gaffe. Eccessi e virtà del politically correct e Viaggio al termine degli Stati Uniti. Perché gli americani votano Bush e se ne vantano. Sono la summadel suo lavoro giornalistico. Ufficialmente sono saggi, anche perché firmati da un professore di Filosofia morale. Raccolgono impressioni,riflessioni, punti di vistasbrevi storie che affrontano argomentidi attualità: poche citazioni e molto pensiero sottotraccia. Un genere di scrittura alla quale in Italia non siamo abituati, ma che da altre parti (mi viene soprattutto in mente un settimanale comeil “New Yorker”) è alla base del miglior giornalismo. Lascrittura di Flavio, infatti, benché nutrita da quelle immagini fulminanti di cui ho già parlato era molto densa. Esigeva molta attenzione, passando — termineartigianale del giornalismo:leggere con attenzione un articolo per capire se funziona, ma anche pervedereseci sonorefusi, errori di battitura — passando,dicevo, i suoiarticoli mi è capitato spesso di dover tornareindietro. Esige-

A LEZIONE DA UN PROFESSORE CHE SCHIVAVA LA BANALITÀ

167

va molto, ma dava anche molto. Una costruzione del periodo ariosa, complessa nel miglior senso del termine. Perchése scrivi ditemidiattualità il rischio di banalizzare è forte. E se c’era una cosa dacuiil professor Baroncelli invitava a tenersi lontani era la banalità. Torno ancora studente: non c’era niente di peggio che presen-

tarsi con un capitolo della tesi e sentirsi dire: «Sì, ben scritto, e ci mancherebbe,lei ha fatto di sicuro un buonliceo,però... è un po” banale». Voleva dire vai a casa.Magari mentre lui, senzacattiveria,

maconironia,sottolineava: «Perché non si sforza di ragionare un po’ di più?»

i

MEMORIE COLLETTIVE DI UN “MAESTRO” UNICO di Cristina Amoretti, Giorgio Baruchello, Enrico Biale, Alberto Ghibellini, Alberto Giordano, Valeria Ottonelli,

Irene Ottonello, Simone Regazzoni, Chiara Testino

In un articolo intitolato Le pause del maestro, poi ripubblicato in Mi manda Platone, Baroncelli si è divertito (e spesso si divertiva dav-

vero, quandoscriveva, insegnava, o dialogava con colleghi e studenti) a prendere più o meno bonariamentein girolo stile didattico di vari docenti. In particolare distinguealcunitipi di lezione:la lezione-conferenza; quella a cuore aperto o sciamanica; la lezione calma e pacata; quella dallo stile personale. «Infine — afferma — ci sonole proprie lezioni». Com’eranole lezioni di Baroncelli? Anchese nell’articolo non fornisce particolari dettagli, limitandosi, forse per modestia, a nar-

rare alcuni episodi divertenti, la sua lezione potrebbeessere defi-

nita “ironica”. Ironia oggi, specie nel linguaggio comune, viene

considerata sinonimo di umorismovivace,talvolta persino tagliente e beffardo. Mal’ironia di Baroncelli non era — almeno princi-

palmente —- questo. Erainfatti soprattutto ironia in senso greco: ei-

ronéia, una delle forme dell’astuzia che consiste nel celare la propria capacità, nel mostrarsiall’interlocutore menoabili e preparati di quello chesi è. Ironico in questo senso, a nostro avviso, Baron-

celli lo era senz'altro. ComeSocrate, durantele lezionisi divertiva

(a posteriori lo si capisce, ma sul momento ovviamente meno) a

porre domandedi vario genere, comese ancheperlui fossero stati interrogativi aperti, e invece, nella maggiorparte deicasi, ne dominavale possibilità o ne conoscevala risposta. In tal modo,ribaltando lo schemadella lezione-conferenza (quella anche di uno dei

suoi maestri, Michele Federico Sciacca), otteneva dagli studenti

coinvolgimento e partecipazione, e soprattutto “indipendente” considerazione dei problemi. Anchenei colloqui Baroncelli aveva questa dote rara. Salvo che nelle giornate in cui non eraaffatto disponibile alla comunicazione - talvolta capitava, lunatico com'era — sapeva ascoltare gli allievi con curiosità sincera fino al puntoin cuila questionefilosoficasi delineava con chiarezza. A quel punto non facevasfoggio di dot-

MEMORIE COLLETTIVE DI UN “MAESTRO” UNICO

169

trina, né anticipava deliberatamente l’interlocutore con una delle sue folgoranti interpretazioni. Anche qui socraticamente — perché è probabile che la maieuticasia l'esempio migliore cui rifarsi silimitava con domandeaccessorie o indicazioni a guidare lo studente verso una soluzione o semplicemente verso una più perspicua formulazione della questione. Descrivere Baroncelli come docente, comunque, resta un’im-

presa quasi impossibile; definire il suo mododi fare lezione non rappresenterebbe in modo fedele quanto davvero accadeva nei suoi corsi. È forse però possibile provare a dare un’idéa di quella che era l’aria chesi respirava a lezione; le sensazioni che uno come

Baroncelli era capace di trasmettere alle giovani matricole o agli studentiche seguivanoil suo corso perla secondao terzavolta, comespesso succedeva, anche quando nonc’era più in gioco nessun esame da dare. Partecipare alla lezione (utilizziamo “partecipare” non a caso perché Baroncelli non richiedeva puntualità, attenzione assoluta, studio indefesso, ma partecipazione, o almeno questaerala sensa-

zione condivisa da molti studenti), trasmetteva la netta sensazione di fare una cosainteressante; non erano ore buttate insomma. Non

tutti la pensavano così, certo, ma pochidi quelli presenti potevano essere di “questo partito”; se andavi a lezione, Baroncelli e il suo mododi fare ti piaceva, altrimenti stavi a casa e portavi il programmaall’esame. Chi partecipava avevala netta sensazionedi trovarsi di fronte a una personaintelligente e sempre pronta a proporre una prospettiva originale (non capita spesso onestamente;

può succedere di trovarsi di fronte a persone capaci, competenti,

brillanti, colte, ma è molto difficile incontrare qualcuno che sia

davverointelligente). Baroncelli riusciva a trasmettere tutto questo non perché si mettesse a discutere dei massimi sistemi o perché desse l’impressione che il compito degli studenti sarebbe stato quello di dare senso alla società; semplicemente poneva problemi mai banali su aspetti comuni. Faceva capire che proprio gli aspetti più comuni, quelli che spesso si danno per scontati, dovevano es-

sere studiati, meritavano attenzione, anche se affrontare questi

problemi non avrebbe cambiato il mondo masolo fatto un po’ di chiarezza. In nome del desiderio di chiarezza e della necessità di non dare mai nulla per scontatocisi lanciava in lunghe discussioni sul libro quinto dell’Etica Nicomachea o sulla legittimità delle pro-

170

A LEZIONE DA BARONCELLI

cedure elettorali. Fra gli studenti, forse, solo pochi si rendevano

davvero conto dell'importanza di quei temi, ma comunquela voglia di discuterne in quelle ore e anche oltre non mancava. Quasi tutti poisi chiedevano a checosa potessero servire quei lunghidiscorsiai fini dell’esame (qualchevolta la.curiosità rimaneva tale anche dopoaver sostenuto l’esame) e alcuni potevanocertoessereinfastiditi dalla feroce brillantezza con cui Baroncelli esaminavale loro proposte. Nonsi deve infatti pensare chele lezioni fossero ore di libero pensiero (chi lo credevaera subito riportato sulla terra da un'osservazione o unabattuta); tutto il contrario: gli studenti erano spinti da Baroncelli a dire la loro, ascoltati con molta attenzione

(maic’era l’impressione che quanto dicevano non gli potesseinteressare) ma anche giudicati per quanto stavano sostenendo,criticati, anche con rudezza,se le loro opinioni non reggevano. Quelle ore erano piacevoli, stimolanti ma mai facili; essere presi sul serio e

vederele proprie opinioni considerate era bello, ma sostenere quest'attenzione evitando di essere pubblicamentecriticati poteva essere impegnativo. Un bell’esercizio preso sul serio .da molti studenti e sicuramente da Baroncelli, che faceva però sempre capire

come questo fosse un “gioco”, bello, interessante e a cui dedicare

molte energie, senza però mai pensare che fosse più importante dei problemichesi stavano affrontando. Lostile di insegnamento di Baroncelli era in profondasintonia con le sue simpatie intellettuali. Chiunquesi dedichiallafilosofia ha i suoi personalissimi “eroi”. Non sempreo nonsolosi tratta di ammirare certi pensatori, siano essi passati o contemporanei,i cui in-

dirizzi teoretici, politici o etici si condividono in maniera più o meno completa.A voltesi è attratti da filosofi estremamente diversi da sé, se non addirittura contrari alle proprie posizioni, il cui acume o la cui creatività sono però troppo affascinanti per poter essere ignorati; insomma, un po’ comequelle personedi cui ci si innamora pur sapendo che non potrà mai nascere una relazione duratura e costruttiva. A quest’ultima categoria di “eroi” apparteneva Tommaso Moro,certo troppo ascetico e dittatoriale per un cultore della libertà dell’individuo come Baroncelli, ma la cui Utopia egli riteneva essere un testo fondante e sottovalutato del pensiero politico occidentale. Alla prima categoria, invece, apparteneva David Hume. Di HumeBaroncelli non aveva soltanto apprezzato la cura minuziosaper l’analisi critica del ragionamentoe le conclusioni ico-

MEMORIE COLLETTIVE DI UN “MAESTRO” UNICO

171

noclaste che ne conseguivano, ma anchel’atteggiamentoironico e consapevolmenteirreligioso che ne avevanofatto l’ateo per antonomasia tra i connazionali. Come Hume, Baroncelli sembrava

compiaciuto non solo della forza deflagrante del pensiero analitico, maanchedi quanto imbarazzo,stuporee, talora, penoso spiazzamentol'applicazionecritica dell'ingegno poteva ancorasuscitare a secoli di distanza. In un ambiente borghesee cattolico come l’ateneo di Genova del suo tempo,cheeratale più per inerzia storica che per una qualche precisa volontà, Hume sapeva ancora obbligare le menti degli studenti a svegliarsi dal loro sonno dogmatico, nonchéa osare di sapere in maniera autonomae meditata. In questo senso, Baroncelli portava avantiil progettoilluminista di emancipazione delle coscienze dal pregiudizio, dal dogmae, soprattutto, dal timoredi affrontare i dubbipiù radicali ele questioni più spinose. L'illuminismo di Baroncelli non si fermavasoltanto alla sostanza,però. Il tono e soprattuttolo stile, quella sua “penna d’oro” tanto apprezzata — se non addirittura invidiata — dai suoicolleghi, il gusto perla battuta, la sagace fusione del sacro e del profano,il rispetto e l’amore per l’umanità incarnata in ciascun individuo, la

capacità di raggiungere il pubblico attraverso gli editoriali per i duotidiani, l’uso frequente di aneddoti e metafore, sempre comprensibilissimi, erano anch'essi degni dell’età dei Lumi. Baroncelli era tanto illuminista quanto poco romantico. Lasciavaagli altri i crepuscoli, ai quali preferiva la luce piena degli affreschi di Ambrogio Lorenzetti; e gli Dei, se erano fuggiti, forse era anchel’ora. Per questo a Baroncelli, spesso inconsapevolmente,si chiedeva di raccontare la natura umana.E sifiniva per sentire par-

lare di animali, di ricci o difagiani, o di comecerte specie di uccelli

delimitano il loro territorio e violano i confini. Così che il multiculturalismote lo faceva spiegare da un etologo. Dicontro,e tanto a lezione quantonei colloqui privati, succedeva che Baroncelli parlasse di esseri umani che spacciano o hanno spacciato per naturali certe invenzionidel tuttoartificiali comele virtù (etiche o politiche), che finivi per non credere più a tua nonnae a quantoleiti raccontava su come andasse il mondo,e scoprivi che l’indigestione d’acquanonesiste; maesiste la povertà. Bisogna ammettere chesi capiva che conlafilosofia di Aristotele Baroncelli non era proprio d’accordo, così come, da buon humeano,non trovava neppure particolarmente convincenti gli argo-

172

A LEZIONE DA BARONCELLI

mentidegli aristotelici contemporanei. Aristotele gli è servito qualche volta percriticare gli atteggiamenti della Chiesacattolica e dei cattolici in Italia, ma indirettamente, per spiegare, a quelli che non perdevano occasione per definire “contro” o “secondo” natura questo o quello, che non avevano le idee molto chiare su cosa avrebbe significato esserearistotelici “oggi”. Agli studenti abituati a pensare che alcune delle cose che oggi ci sembranoletteralmente inaccettabili del pensiero di Aristotele, come la giustificazione della schiavitù, fossero semplicemente “datate” poteva capitare di sorprendersi nel sentire Baroncelli parlare di Aristotele comedi un contemporaneo. Ad esempio,insisteva sull’idea che all’epoca di Aristotele pensare di rinunciareall’istituzione della schiavitù o all’idea della famiglia, così come erano concepiteallora, sarebbestato come immaginare oggidi rinunciare alla tecnologia:gli schiavi, i subordinati, e molte altre cose, che erano come erano secondo natura, erano esattamente quello che faceva funzionarela società

così come funzionava,e non fornirne una giustificazione o dire addirittura che erano qualcosa di sbagliato avrebbe voluto dire ri-

schiare di mandareall’aria tutto. E in modo analogoaffrontavala

questione dell'intelletto attivo, che spiegava conil fatto che Aristotele, in un mondoin cui il potere di prendere decisioni era dei soli maschi adulti liberi, si era limitato a constatare chetuttigli altri esseri pensanti apparentemente non possedevanotale facoltà, sebbenefossero capacissimi, per esempio, di mandare avanti l’eco-

nomia domestica. Tutto questo, di nuovo, per natura, ovviamente.

In sostanza, Aristotele non usciva mai troppo benedalle lezioni di Baroncelli: quando non passava per un conservatore dalla scarsa onestàintellettuale, finiva per risultare soggetto ad autoinganno. Per parlare della natura, umanae nonsolo, a Baroncelli piaceva

piuttosto citare gli animali nella filosofia: gli piacevano le scimmie furbe e pigre di Montaignee gli armadilli che si incontrano per le strade degli Stati Uniti, gli piacevano tanto quanto pocasimpatia inveceriscuotevail Tempio delle Grazie. Questo non erail solo modo che Baroncelli aveva per parlare di sentimenti che sono naturali, o che sembranotali, senza però essere ovvi, ma unodei tanti; e sempre si aveva la percezionedi essere davanti a un’opera d’arte, colpiti dalla bellezza della discussione e dal gusto di avere acquistato nuova consapevolezza sulle cose, anche se spesso tale consapevolezzarichiedeva tempoe fatica. Le sue lezioni — i suoiscritti continuano a

MEMORIE COLLETTIVE DI UN “MAESTRO” UNICO

173

farlo — davano alla mente un divertimento durevole proprio perché si percepiva la giusta commistione fra semplicità e raffinatezza,e l’i-

ronia lasciava spazio all’amaro in bocca, in alcuni casi. Baroncelli

trattavale riflessioni teoriche più complicate conla stessa semplicità di comesi narranole azionie le passioni, senza essere un riduzionista. Mai la semplicità però rimaneva da sola, mai scadeva nella monotonia. Lesue lezioni nonfinivanoallo scadere dell’ora o dopo un breve saluto, ma durano come un pensiero costante, un atteggiamento mentale che capita spesso di riscoprire, che ti regala nuova consapevolezza e sembrasvelarti la bellezza del mondo. Oltre cheilluminista, Baroncelli è stato però anche storico del-

l’illuminismo. E lo è stato seguendola convinzione che soprattutto nel Settecento,e più di ognialtro luogo in Gran Bretagna,fossero state gettate le basi della modernità. Modernità ricca tanto di con-

quiste quanto di contraddizioni, come gli aveva insegnato Marx, che considerava (almeno nella maturità) non un maestro o un profeta, ma un classico da rileggere e da far conoscereagli studenti. Nona caso venneattratto dall'economia politica — scienza moderna per eccellenza — partorita dalle menti deifilosofi scozzesi(l’a-

mato Hume e Adam Smith) e, ancor prima, dall’individualismo

problematico di John Locke; tutti pensatori assurti a eroi della li-

bertà. Tuttavia, siccome anche negli eroi non mancanoi lati oscuri,

Baroncelli non poteva che proporsi di portarli alla luce: così nacqueroi suoistudi sull'immagine del povero e della povertà in età moderna,temi che proprio in Locke e Smith assumono importanza cruciale per la riorganizzazione della società. Il tutto condito da una lettura spregiudicata e divertente dei testi abbinata a un’ironia che nascondeva (ma neanche troppo) uno sguardo disincantato ai tanti miti fondativi della nostra società, come quello del progresso. Caratteristiche che lo hannoreso ancor più amato e popolaretragli allievi che hannoseguito le sue scorribande nella storia della filosofia. Altrettanto popolari eranoi suoi “pranzifilosofici”. Nulla di ufficiale o di pomposo: semplicemente, l'occasione di ritrovarsi, a Genova comea Piana Crixia, attorno a una pizza o a qualche manicaretto preparato dagli amici o insieme alla moglie Annalisae discutere, dibattere, scherzare, fare filosofia divertendosi, come lo

stesso Voltaire aveva raccomandato. Nonostantela sua grandissima popolarità fra gli studenti, peril modo di pensate, di insegnare e di interagire con gli studiosi più

174

A LEZIONE DA BARONCELLI

giovani probabilmente a Baroncelli sarebbe stato impossibile creare unodi quegli ingombrantie disciplinati oggetti accademici che si chiamano “scuole”. Se qualcunofrai suoistudenti l’ha mai chiamato “maestro”, è stato solo per scherzo, anzi per prenderlo un

po’ in giro, perché sicuramente non aveva in nessuna simpatia la

retorica e i cerimoniali delle scuole, e nessuna ambizionedi crearne una.

La difficoltà di pensare a Baroncelli come a un “maestro”, fra l’altro, aveva a chefare col suo mododi essere una fontedi ispirazione. Difficilmente, infatti, a voler prenderlo a modello, un allievo

poteva cercare di attenersi a regole che lui esplicitamente impartiva, o a un suoesplicito metodo di indagine. Baroncelli sarebbestato un perfetto esempio di virtù aristotelica, se non fosse che le ca-

ratteristiche che tutti più amavanodi lui e del suo mododi insegnare nonpotevanoservire da modello. E questo principalmente perché il suo mododi essere un filosofo brillante era inestricabilmente intrecciato contutte le sue altre doti: non solo l'ironia, ma anchela capacità di scrivere come parlava, quella di tratteggiaredistrattamente schizzi e caricature dei partecipanti a un seminario senza perdereil punto della questione,o diarrivare alla conclusione di un ragionamento saltando una decina di passaggi per poi snocciolarteli davanti se chiedevi chiarimenti. Questo genere di doti non solo non si poteva “imparare”, ma non poteva neppure essere esercitato intenzionalmente, perchésarebbe stato come

sforzarsi di essere spontanei. È forse anche per questo chei suoi

cosiddetti allievi sono così diversi da lui e tra di loro, nonostante

ciascuno di loro non sarebbe quello che è se nonfossestato peril suo insegnamento. La vera ambizione di Baroncelli, comunque, come dicevamo,

non era affatto quella di essere considerato un maestro, né tanto meno di essere a capo di una “scuola”. Piuttosto, era quella di creare una “rete”, che è cosa molto diversa da una scuola. Unare-

te è un sistema di conoscenze e scambiintellettuali, fra persone che non necessariamente sonostate allieve dello stesso maestro, e che

anzi possonocoltivarediscipline,stili di pensiero e interessi molto diversi. Creare unarete di questo genere puòessere percerti versi

più complicato che creare una scuola in senso classico; se nonaltro, obbliga a uscire dagli schemiinvalsi nell’accademia e può portare le persone a deviare dai loro interessi di studio consolidati.

MEMORIE COLLETTIVE DI UN “MAESTRO” UNICO

175

D'altra parte, creare connessioniintellettuali e reti di simpatie fra gli studiosi più giovani con cui veniva in contatto gli era particolarmente congeniale, forse anche perché era un modoper confermarela convinzione che è proprio dalle contaminazionidisciplinari che spesso nasconole avventureintellettuali più belle. Non è un caso che negli anniin cui fu coordinatore del dottorato in Filosofia

seguisse attivamente ogni seminario, anche quelliapparentemente

più lontani dai suoi principali interessi, non sottraendosi mai al confronto critico, costruttivo, ragionato, ma invitando anzi a pro-

trarre la discussione al bar o lungola stradaverso casa. Per raccontare dello stile di insegnamento di Baroncelli, del suo mododi mettere in connessionele personee le idee,e di far la-

vorarela filosofia al servizio dell’intelligenza, in queste pagine abbiamo pensato chefosse utile proprio far parlare, e con una voce collettiva, una delle molte “reti” che nel corso dei tanti di anni di

insegnamento all’università era riuscito a creare. Si tratta di un gruppodi persone necessariamenteristretto, anche soltanto a voler contare le ultime generazioni dei suoi studenti e quanti hannointeragito conlui nel periodoin cuiè stato alla guida del dottorato di

Filosofia a Genova; è costituito da alcuni fra coloro che avevano seguito le sue lezioni, da qualcunochesi è laureato conlui, daaltri che hanno studiato con lui durante il dottorato, e da altri ancora

che con lui hanno semplicemente avuto conversazioni importanti negli anniin cui si sono formati comestudiosi. Questa breve collezione di ricordie riflessionisullo stile di in-

segnamento, di pensiero e di conversazione di Baroncelli, così, è

stata composta a più mani, comeesercizio di scrittura collettiva. Un esperimento piuttosto divertente, un po’ complicato e forse difficile da collocare in un generepreciso, e che proprio per queste ragioni, come speriamo, gli sarebbepiaciuto.

1 Cfr. FE BARONCELLI, Le pause del maestro, in ID., Mi manda Platone, il melangolo, Genova 2009, pp. 49-50.

IL RIFLESSO DELL’ARMADILLO

Flavio Baroncelli a Istanbul (2005).

Enrico Ghezzi

CURIOSO PER NOI

Quelche pare nonrestare è quello cheresta. Cheresta a noitutti o a nessuno o a “me”da fare. Nonil depositato in scritture, ma l’am-

masso impervio e difficile da ricordare del detto e ascoltato e del nondetto rapido degli occhi, da rintracciare, da districare, da sbobinare da registrazioni che non esistono, dalla sbobinatura imma-

teriale e immemoriale eppure tenacissima, fatta di nulla se non di una formachesi confonde col “sé”. Forma fantomatica checi precede ci accompagnaci segue, minuscolo odradek,restoirrisorio di un’ombra enorme, di una nube dove pensieri parole sensazionisi addensano:senza nomi né proprietà, in una sorta di “sbobinatura automatica” (dedico volentieri a flavio baroncelli il gioco infantile di una parola/atto che chiamerei “natura sbobi”, versione ludica e volendoridicola del trovarsi già pensati mentresi pensa,già ricitati ricitanti mentresi pensae si dice qualcosa che riconosciamo nostro in quell’istante solo per la nostra estraneità a esso, per la nostra presenza in qualità di recettori meccanici e enzimi digerenti). Ebbil’onere e ilgodimento di essere non so quanto conosciuto macerto riconosciuto da “baroncelli”. La prima volta in cui parlammo, cinque minuti prima di un esamechelui irrideva per confondere e disperdere i timori aleggianti in corridoio. Più tardi lo stesso giorno dopo quell’esame,a discutere del mio delirio freudocartesiano che aveva reperito e annusatoal volo in tre parole parentetiche che avevo buttato lì ai margini di una generale profusioneeccessiva. Incuriosito subito,e io di lui, di questo professoreo assistente che solo dopo l’esamesi palesò, mentre mi era parso uno studente sveglissimo e agile dietro la patina di stanchezza insonnolita che lo faceva appena più antico. Lui se la ricorda (mi permetterò qui di rendergli il suo presente inestimabile, riservando a mei passati) pertuttalavita, gliela trovai ancoralegata al dito in ospedale mentre raccontavaspiritosamente saltando da un parametroall’altro una situazione che man manosi rivelava catastrofica e io e nennella restavamo sempreindietro di unabattuta nel sorridere: gli chiesi la sua età, sette o otto anni

più di me,e risposi con freschezza automatica «ah maallorasei vecchio»(lui sostiene ch’io abbia detto «un vecchio»).

180

ENRICO GHEZZI

Un gioco ricorrente divenne poi negli anni quello di favoleg-

giarci l’incontro con fanciulle immediatamente magiche intraviste in treno in istanti spaziali immaginantila tua vita cambiata di colpo, e che scendevanoalla prima fermata lasciandoti sospeso sorpreso in rimpianto irresoluto. Meno ridevamo, ma sempre ridendo,neldirci degli incroci molto più rari e imprevisti con lo sguardo di qualcuno (magari scambiato da una vespa a una moto, in un’entrata/uscita da un cinema, o neanche scambiato,solo inter-

cettato in occhi che guardavano altrove), un passante senza nome che sentivi essere un genio per sempreinquel lamposenzaparole, qualcuno concui avresti potuto voluto essere in contatto e discorrere in unarete infinita invisibile, perché sicuramente saremmo

stati d'accordo per poi accapigliarci non volendo esserlo. Incroci reali densissimi e fuggiti, mai fermati e che ci sarebbe voluta una vita intera di libri e discorsiperfissare. Cosacistoa fare quie ora, installato a mio agio nel disagio del ritardo? Paradossale, flavio ride ai miei paradossi che irride. Al

mio amore romantico,alle penee ai sospiri di cuiio solo vorreiridere.

Eccolo lì, curiosissimo di ogni dettaglio, come accadea chi ha

già intuito tutto e vuole comparareil reticolo dei disegni e delle ipotesi. Attento solidamente all’economico del vivere, meravigliosamente (h)um(e)ano nel vedere l’ideologia nei disancoraggiutopici da me amati, luddisti o situazionisti o anarcattolici.

Illuminantenell’illuminarmi su alcune mie (non precoci, direi piuttosto residue; siamotutti già troppo vecchi sempre) illuminazioni disperse, che trova nella mia tesi con gaudio che ancora mi impressiona, comela sua letizia nel sapere per caso da un membro della commissione d’esame che avevo vinto il concorso rai da pro-

grammista-regista.

Fuori dai sentieri battuti, lasciandosi guidare da una curiosità

travolgente, che lo porta a leggereil Seicento con il sublime occhio strabico di romeocrippa, a non inscuolarsi. Curiosità, passione e formadivita. Non l’arabesco eccentrico che disegna l’ombra piccina insoddisfatta dell’accademicoe del ricercatore, o il tema di un

esercizio. Attenzione continua che include l’intermittenzae la ri-

petizione frattale. Vedo flavio in via balbi, fermoa discutere,fret-

toloso di un appuntamento ma già avvinto da un altro gioco e scambio,intornoa lui sul marciapiede un’aura di stoà scheggiata o

CURIOSO PER NOI

181

diruta. Passo in vespa e mi fermo, maora ha la moto,che lo apre a nuoviviaggi con annalisa. Ci divarichiamonello spazio,lui a genova io a roma. Sul divano suo o nostro ci accapigliamosu titoli di film annosi. Una notte, prima di un convegno romano,gli consigliai Matango, capolavoro fantasmagorico diishiro honda. L'isola degli uomini mutati in fungo, colori sublimi cangianti. Lui scuote la testa, sbuffa, è mezzanotte. Due ore doposi fa trovare ancora avvinto, ci mettiamoa parlare,conintervalli e resti di cena, la matti-

na usciamo insieme,lui per il suo simposio io con martina sulle spalle peril nostro giretto tra bar e vetrine ancora chiuse. Nella distanza geografica, la rarefazione facilitava (ma no,facilita; mi rendo contooradi rientrare sempre più spesso a mia volta nel “suo” presente) il sentimento delle sue intelligenze, quasi ovviamente confermate dagli eventi. Ma torno al mattino di aldomoro rapito, la notizia arriva a metà di un esamein cui sono esaminatore al suo fianco. Ci ritroviamo a piazza deferrari. Io non socheil giorno di moro cadavere sarò per caso a roma e che quel giorno nascerà un amore (“amoro”?) grande. Lui, uno dei pochissimi (ci voleva invero genialità) a scorgere e sentire nella leggerezza greve del volontariato alle feste dell’unità semi e barlumi o odori di “socialismo realizzato”, non si lascia terrorizzare né terroristizzare.

Anche quandol’ombra del “senso comune”si restringe intorno a personesingolerare, lui non smette di annusarloe di proteggerlo, di distingueretra diversi scetticismi, avendo sostanziatoil suo aggirarsi pensando conla frequentazione del pauperismotra follia e ideologia e quella della svagatezza irriducibile di davidhume. La rete internet lo accoglie subito. Anzi, è lui che l’accoglie,

placidamente furibondo con chi dice che «in fondo c’era già» e chesi tratta solo dell’esplicitazione semplificata di attitudini e operazioni prima più virtuali e macchinose. Come ogni persona davvero capace di irridere (anche e per primase stessa), non prende nulla sottogamba, nessuna differenza, nessun guscioo strato di co-

dice rituale(i suoi viaggi americanitra la parola del politicamente correttoe la scorrettezza politica delle situazioni). Nulla nel suo gioco e lavoro raggiunge la semplificazione atroce del successo. Infatti non è successo. Succedechesia qui (lui; anch’io, forse). Colmio rimorso per nonaverintuito la portata di desiderio di ipotesi di programmi che butta lì ogni tanto. E il mio sottovalutare con sprezzaturafacile e rigore troppofantasticoil viluppodiinte-

182

ENRICO GHEZZI

ressi banali che ci scippail bellissimo progetto sull’Albergo dei

Poveri, pensato conlui e scritto minuziosamente da mee lui e infi-

ne affidato a una regìa altrui. Mibasterebbe anche, perringraziarlo a vita, il suggerimento di prendere una yamaha 500 “strada” bellissima d'occasione,cheil

suo guru informatico nontrovail tempodi cavalcare. O l’incanto in cui più si rafferma e vive per mela sua curiosità. Il giorno dopo la discussione della mia tesi (Cinema Moralia), passa da casa mia

dopo cena. Parliamo, probabilmente di Bersaglio di Nottevisto il giorno prima, poi rientra il mio babbo. Flavio, che si è stupito di un aggeggio di legno e metallo tipo meccano poggiatovicinoal telefono,gli chiede cosasia (gli avevo accennato confusamentechesi trattava di un esperimento di mio padre), lui schermendosi e un po’ arrossendo confessa che hatrovato in unarivista scientifica un modello di macchinetta «a moto perpetuo». Ma «sono balle», «è una buffonata», il «moto perpetuo non può esistere», «è un vec-

chio mito scientista».

Per me, quel momentodi utopia buffa, con la curiosità e l’inte-

resse ironico diflaviobaroncelli e il finto disinteresse del mio babbo ingegnere appassionato di fantascienza, «ma capisci che l’ha davvero costruito, per dire che è una vaccata!»è il trionfo mo-

mentaneo dell’aura utopica nell’era della sua (ir)riproducibilità tecnica. (A volte soffermarsi su uno sguardo(f)utile e assorto, son-

nacchioso e troppo sveglio, è un incidentecheval la penadi (ri)vivere).

Emilio Mazza IL GIORNO DELL'ARMADILLO'

L'unico col quale avrei potuto decidere di non andarealla presentazione del

libro di Flavio senza Flavio è Flavio. Questol'abbiamo pensatotutti.

Fuori del comune C'è un “uomodilettere” che divide gli uomini che pensano in due classi: i pensatori superficiali e quelli astrusi. Gli uni, dice,si fermanoprimadella verità, gli altri la superano. Gli astrusi sono decisamente più rari, ma anche più utili e di maggior valore. Nel caso migliore, suggeriscono spuntie sollevano difficoltà che portano a scoperte splendide; nel caso peggiore del caso migliore, perché questo accada servono abilità che forse loro non hanno, ma le

splendide scoperte si producono ugualmente nelle manidi chi ragioni più esattamente di loro. Nel caso soltanto peggiore, dicono

cose fuori del comune. E,se capirle ci costa fatica, abbiamo comunqueil piacere, altrettanto insolito, di ascoltare qualcosa di nuovo.? L'“uomodi lettere” in questione,l’unicofilosofo che io conosca,

è quello chealla fine degli anni ottanta miha fatto conoscere Flavio: David Hume. Abbiamoiniziato traducendo per il melangolo? e ci siamoritrovati al servizio di Fufa Bardelli, che ci ha adeguatamente

ripagati con Lo sguardodell'inglese, facendocifare la nostra porca figura, nel rispetto deirispettivi pesi (io, allora avevo ventichili di pancia in meno): Emilio Sartori e Flavio Baroni, portiere di notte e

bidello di scuola. In omaggio a Hume, che, con affettuosaironia, chiamavano /e bon David, Flavio è “il buon Baroni”:

Cercò Baronie lo trovò alle prese con un enorme panino che odoravadi frittata di cipolla. «Grazie di tutto, signor Baroni» gli disse, mentre lui timidamentesi cacciava nella tasca della divisa il suo pranzo gocciolante d'olio.

«Non midimenticherò maidilei». «Neanch'io, signorina Foschi».

184

EMILIO MAZZA

Pertornareai pensatoriastrusi, non so dire a quale tipo appartenga Flavio. Forsea tutti e tre: ha fatto splendide scoperte, ha suggerito spunti e sollevato difficoltà, ha detto cose piacevoli e faticose, e cose fuori del comune. So però che ha godutodi quella «specie di facoltà magica dell'animo»checi fa radunarele idee e ce le suggerisce nell’istante in cui sono necessarie.’ Ora,insieme all’umorismo e alla capacità di ragionare in radicalelibertà, in Flavio c'è qualcosa di più raro e invidiabile. È la capacità di inventare. Quasi una necessità. Inventare ipotesi e spiegazionioriginali, magari da un’angolazione anomalafiglia di un in-

conveniente fisico.* Inventare una persona, magari appena osservata (anche Flavio, comeil suo Pascal, finisce per ammetterlo: «più

sei intelligente e più trovi interessanti le altre persone»);” inventare unastoria, una ricerca, un articolo e, se necessario, perfino unaci-

tazione. «Dimmi un po’ — mi chiedeva dopoaverfinito un pezzo — è vero o no che Marx diceva così o me lo sono inventato?» Un giorno mihascritto: «dunque io ho due modi dicitare:il primo è l’invenzione. Con Adamo Smith, per esempio.Il secondo,la ripetizione esatta, credendo di dire cose mie. Con Marx».8

Armadilli perla testa Piero Dorfles, col suo Per un pugno di libri, ha riassunto il Viaggio con l’immagine dell’armadillo: Flavio Baroncelli ha cercato di capire perché gli americani votano Bush: come gli armadilli, gli americani guardano lontano e semplificano un po’ troppo le cose. Questa bellissimastoria, insiemea tante altre su comesi comportanogli

americani e come nasce unafiducia straordinaria in una semplificazione che spesso porta in Iraq,nel libro Viaggio al termine degli Stati Uniti, di Flavio Baroncelli, che è un grandefilosofo ma anche un grandeosservatore.”

A Flavio, si sa, piaceva osservare gli animali. Lungo le strade del libro li incontriamo spesso spiaccicati. Cadaveri di scoiattoli al-

la pagina76,di gatti, opossum,tassi, orsetti lavatori, cani («mai vi-

sto un canevivoin giro») e, soprattutto, armadilli, alle pagine 97 e 109. Da guidatore esperto («uno come me, modestamente, di auto

se ne intende parecchio») osserva:

IL GIORNO DELL'ARMADILLO

185

Cheanchein queste strade tortuose doveè difficile superarei 50 all’oracisiano tanti armadilli morti non depone a favore dei guidatori di qui. Possibile che non riescano schivarli? [...] Diconocheil riflesso dell’armadillo, quando sospetta checi sia un pericolo, è di sollevarsi sulle zampe di dietro per controllare meglio i dintorni. A quel punto, ovviamente,l’autoin arrivo,il cui ru-

more era appunto la causa del suo allarme,lo falcia in pieno. Con quel com-

portamento, che nel suo ambiente naturaleè andato benissimo per milioni di

anni, l’armadillo non si concedealcunapossibilità di salvezza."

Dorfles ha colto qualcosa di fondamentale, anche se in modo parziale: Viaggio al termine degli Stati Uniti d'America, infatti, avrebbe dovutointitolarsi (c’era già la copertina) I/ riflesso dell’armadillo. Poi è diventato un Viaggio al termine, tra il vecchio Céline

al termine della notte e il giovane Tibor Fischer al termine di una

stanza. Avrebbe potutointitolarsi Scusi, dov'è il centro, che voglio passeggiare?!!

Quando dico che Dorfles ha colto in modo parziale, intendo

che, per Flavio, siamo un po’ tutti armadilli, magari senza render-

cene conto. Che perfino un filosofo pensi e si comporti come la gente comuneper la maggior parte della vita, lo aveva imparato da Hume. Sulla nostra autostrada — quanto tempo passiamoin autostrada? — abbiamotuttiriflessi atavici suicidi (ma non per questo invincibili), perché «millenni fa, e per millenni, in chissà quali savane, quel comportamentohadatorisultati tali da non essere cancellato nel corso dell’evoluzione».!? Ma c'è anche qualchespecifica differenza: L'armadillosi rizza sulle zampine,lo falciano, e lui non ci può fare niente, comesingolo. Può solo morire, e delle due l’una: alla lunga o non ci saranno più

armadilli, o si selezioneranno degli armadilli un po’ diversi. Noi possiamo — a

volte sì, a volte no — confrontare la tendenza spontanea a fare un’azione con le conseguenze fisiche, economiche, morali di quell’azione. E qualche volta possiamo perfino renderci consapevoli della storia deinostriistinti.

Questo vale specialmente per noi che siamo qui: «tante brave persone, soprattutto di sinistra, le quali, in perfetta buonafede,affermanodi essere del tutto esenti dariflessi atavici». Flavio, invece,

si sente e sa di essere «molto più simile a un armadillo che a quei suoi perfettamente umani conoscenti».!“ Insomma,il libro è anche una parata deiriflessi d’armadillo

dell’autore. Se non ce la fa a prendersela con i poveri, è per via

186

EMILIO MAZZA

d’un riflesso da armadillo, che — scrive — «ho immagazzinato non

so dove,forse in savana, forse in famiglia, forse a catechismo».!5 Se non puòfare a meno di amarefiducioso l’America,e di stimare chi si assumela responsabilità della sua vita, «è anche questo un rifles-

so da armadillo».!6 Se la sinistra procedea tastoni, se i processi di riflessione autonoma sono pochie deboli e gli equivocili eliminano soprattutto gli avversari, chi si deprime,scrive, è «l’armadilloilluminista dentro di me».!” I titoli di Flavio Titoli provvisori per il Viaggio ce ne sonostati altri, come Azze-

rican Padania. Viaggio sentimentale nell’etica Dixie, che rivela me-

glio una delle intenzioni dell'autore (parlare del sud degli Stati Uniti per parlare anche del nord-est d’Italia) e uno dei suoi amori (il Viaggio sentimentale di Sterne).!8 Corpo e filosofia in Laurence Sterne è del 1982. Disolito, appena può, Flavio parla di Sterne,

perché «a volte era spiritoso davvero».!? Per esempio in Come ci insegnarono a piangere, cioè Rileggendo Tarello (1990). Il riferimento al Viaggio sentimentale, poi, avrebbe anche dovuto essere beneaugurante,visto il successo che aveva ottenuto. E Flavio era

molto orgoglioso di aver mostrato, vent'anni prima di Ginzburg, la «profondaaffinità» tra Humee Sterne.?0 Ancoratitoli: Colli rossi e rivoluzione liberista; oppure: A Little Rocksenza passare dal via; Viaggio della speranza nella città di Clinton, dove Tex dormìin una stalla; I due pard avevano ragione; 0, infine, Dollari cotonee cellule. Mi hanno detto che Carlo Viano aves-

se suggerito qualcosa di breve masettecentesco: Und malattia americana. Pietro Cheliha scritto chei titoli di Flavio sonodi persé ragionamenti. Nonsolo il Viaggio, ma anche I/ razzismo è una gaffe. Eccessie virtù del politically correct.?! È vero. È così vero che, comealtri ragionamentidi Flavio, spesso fuori del comune, main apparenza familiari,22 anchei titoli talvolta non vengonocapiti; ci è persino più facile capirli al contrario. Il ricordo su “Il Sole 24 ore” recita: «Dall’illuminismo scozzese ai saggi civili come I/ razzismo non è una gaffe».La storia degli scritti di Flavio è anche unastoria di equivoci, non necessariamente dannosi. Ad alcunidi questi, secondo Flavio, I/ razzismo deve «molti giudizi positivi, e non po-

IL GIORNO DELL’ARMADILLO

187

che recensioni favorevoli». Per questo il Viaggio mette le mani avanti: «mi sembragià di leggerlo,il recensore...»? Direcente, a proposito del suo Saggio su Hume. Un inquietante filosofo perbene, Flavio ha ricordato che per qualcuno«si leggeva da solo»(Viano, che ne avevasuggeritoil titolo) e per qualcun altro era «troppo benscritto» (Bobbio), e che di conseguenza nessuno voleva raccomandarlo a un editore (unafine simile sarebbetoccata all’Armadillo, senza l'intervento di Stefano Tettamanti).26 E Flavioriflette: avevanoragione loro, perchégli effetti sono sempregli stessi, perfino quando scrivo sui giornali. La gente dice «oh comescrive bene», ma perde quasi tutte le complessità dei ragionamenti, a meno che non mirilegga tre o quattro

volte, cosa parecchio improbabile.Il fatto è chesela scrittura analitica la ren-

di troppo elegante, rimane un’aura di semplicità, ma i ragionamenti tendono a rimanere nascosti.

Anchela scrittura filosofica, come la comunicazione politica,

non può dimenticare la sua “corporeità”, la sua “camminata” .?8 Finiamola coni titoli. Come alcunitra i presenti (Gianni Francioni, per esempio, Carlo Borgheroe gli altri autori degli “Studi settecenteschi”), Flavio si divertiva a prenderli in esame e si rammaricava che nonfacesse più parte del mestiere saper trovare quelli adatti. È buffo, perfinoi titoli che non sono stati composti o amati da Flavio (almeno non deltutto) ci sembrano ora naturalmente “suoi”, quasi

li avesse suggeriti per contagio: Un inquietante filosofo perbene, Il razzismo è una gaffe, Viaggio al termine degli Stati Uniti? Per questo era così felice quando Dorfles intonava l’Armadillo.

Arti e compagnidi viaggio: descrizioni sovversive Nel Viaggio c’è sicuramente Hume,più di quanto non sembri, come in molti scritti di Flavio, ma c'è anche Rawls. Il primo non compare

mai,il secondosi presenta soltanto nella Corclusione.?° Tra le ultime

cose pubblicate da Flavio c’è un dialogo, alla maniera di Luciano,tra Humee Rawls nei CampiElisi. La Prezzessa è una confessione: in questi giorni ho capito che Rawls e Hume sonogli unicifilosofi che mi han-

no cambiatola vita solo perchéli ho letti e ho pensato che su molte cose avessero ragione. Altri mi hanno influenzato, ma in modo diverso. Per esempio Marx, che mi aveva conquistato già molto primachefossi in grado di leggerlo.”

188

EMILIO MAZZA

Nonprendetelo tropposul serio. Qualche anno primaavevadichiarato che Philip Marlowe (Raymond Chandler) era sempre statoil suofilosofo preferito? In compagnia di Hume e Rawls ci sono anche Erodoto e Faulk-

ner. Il secondovienedalla terra deiribelli e marcia con passo eroico:

[Faulknet] conosceva un’arte davvero difficile, che forse nessun altro ha mai posseduto in quel grado sublime: quella di descrivere, seguendone con preci-

sione gli andamenti,i rapporti sociali tra bianchi ed ex schiavi, dolci o crudi che

fossero, senza mai dare giudizi di alcun tipo, ma anche senza mai smettere di farti toccare con manoil fatto chesitrattava di rapporti tra uomini. Non è banale

come potrebbe sembrare. Anzi: è quasi impossibile [...]. Riuscire a scrivere co-

me Faulkner è ancor oggi qualcosa di sovversivo, che credo non vada bene né ai

neri, né ai bianchi.”

Erodoto (mamma,un turco!), invece, è come Hume. Evocato.?4 L'arte di descrivere uomini senza mai dare giudizi, infatti, ricorda molto l’“arte di Erodoto”, così comela raccontano Ciricie scimrzie: Erodoto, un altro grandetraditore dell'orgoglio della sua stirpe. Erodoto che conosceil modo di rendere accettabili e quasi amabili tutti i popoli di cui parla, senza mai farsi sorprenderea tesserne le lodi. Erodoto che in quattro pa-

role racconta chei bellissimi Etiopi fannoreil più alto di statura; e lo dice così bene che nemmenoun lettore nano potrebbefarsi venire in mente che è una

pratica un po’ ingiusta. [...] purtroppo quella di Erodoto è un’arte segreta. Pochissimi l'hanno riscoperta, e non si insegna in nessuna università. È una

musa senza nome[...] schiva e permalosa.

In entrambii casi siamo avvertiti: si tratta di un’arte difficile e segreta che ci abbandonain fretta. Anche per questo Flavio era felice del giudizio di Dorfles: «un grandefilosofo ma anche un grande osservatore».39 Possiedel’arte.

Arti e compagnidi viaggio: consolazioni smascherate C'è un’altra arte che Flavio ritenevautile e piacevole,a sé e agli altri, e che aveva imparato da Pascal e Mandeville, prima ancora che da Marx: è l’arte dello smascheramento.?” Unodeisuoiobiettivi ri-

correnti sono le nostre forme consolatorie, soprattutto le macchine

ideologiche degli intellettuali. Quest’arte si esercita nel Viaggio e

IL GIORNO DELL’ARMADILLO

189

mette a nudo i processi consolatori della sinistra che guardaagli elettori di Bush come “irrazionali” desiderandoli “fragili” e, tra i fumidella religione, perde divista l’autentico conflitto di interessi: Per un riflesso ormai automatico, si tende a esorcizzare l’esistenza di un avversario reale, cheti sta contro perché hainteressi diversi. E alloragli elettori

di Bush sono “irrazionali”. Il che vuol dire che sono anche un po’irreali. [...]

è consolante, perché tutto sommato sembra che “irrazionale” sia un po’ parente di “instabile”, di “fragile”. [...] Mai processi ideologici consolatoriri-

servanosorprese [...] se dici del popolo cheè irrazionale, poi devi subito farti perdonare[...]. E allora i comportamenti “irragionevoli” vengono nobilitati attribuendolia formedi irrazionalità che, tradizionalmente,sonoritenutealte, decorose. Lareligione, insomma.

Smaschera, quest'arte, anche le consolazionifilosofiche di Flavio che guarda malinconicoall’occasione perduta dalla sinistraitaliana che non ha guardatoalla teoria della giustizia di Rawls, dove libertà e solidarietà sembravanostare bene insieme: Se non c'è chi queste operazionile possafare, è inutile illudersi che qualcuno le faccia e arrabbiarsi perché nessunole fa. [...] dovrei smetterla di rammaricarmi per una grande occasione culturale perduta[...]. Non senefece nulla. [...]. E dunque non c’è nulla di cui io debba rammaricarmi: siccome un’occasione è un’occasionenonin se stessa ma per qualcuno,se il qualcuno nonesiste, nessuno ha perduto un’occasione perché un’occasione non è maiesistita. Cosìsi consolanoi filosofi.”

Una delle fandonie consolatorie che più direttamente miriguarda è quella smascherata nel saggio Lo stupido come problem solver, unabella storia dell’intelligenza raccontata 4 /è Mandeville: c’è da chiedersi seriamente se connotarela stupidità come puro disvalore non rientri in un’operazione linguistica di natura consolatoria. Tipo «mele ha da-

te forte, ma io gliene ho dette tante...»

Unastoria dove si mostra come «la categoria “stupidità” [venga] inventata per iridorare pillole amarissime»(«se ci applicassimo al potere o al male, riusciremmo meglio di loro»), per poi concludere: «molte forme di quella che chiamiamostupidità [sono] proprio esattamente quel che ci vuole[...] per superare moltitipi di ostacoli»!

190

EMILIO MAZZA

“la Voce” prima del Viaggio Dietro il Viaggio ci sono sicuramente tutte le e-mail e le risposte degli amici. Nessuno che gli abbia mai detto «scrivi un libro, e smettila di intasarmi il modem». Amici «meravigliosi», «farmaci miracolosi», per il morale.‘? Anchese, qualchevolta,il morale non

ci è del tutto amico:

impara a non fare come me che hoscritto delle circolari. Un disastro. Su 30 persone, 10 rispondono avendoletto senza capire, 10 non avendo letto, 9 non

rispondono,una(tu) hannoletto e capito mati odiano.

Dietro il Viaggio ci sonosoprattuttogli articoli apparsi su “la Voce”. C'è il piacere (in parte autolesivo) di parlare bene di Berlusconi a chi — intellettuale amicoa sinistra — non puòa fare a menodi parlarne sempre male e spesso a sproposito, con l'aggravante di non rendersi conto che, per la maggior parte delle persone (che votano Berlusconi), ne sta parlando bene.Sembrano le prime prove. Anche quelli erano tempi d’elezioni. Insomma, nel 1994 Flavio aveva già scritto Perché gli italiani votano Berlusconie se ne vantano. Per esempio in Tv e propaganda elettorale (1994), dove ricorda: «abbiamobisognodi credere che,se certa gente non vota comenoi, non è perché haaltri interessi o perché ammiradi cuorei cattivi e i potenti».

Rileggere Flavio: povertà e tolleranza Il Viaggio, avverte la Prefazione, non il classico e soffocante viaggio filosofico «all’interno dei quattro muri di una camera» alla De Maistre o alla Kierkegaard: «è il modo di scrivere di uno che non smette mai di rimuginare,difrugare nelle supposizioni, di insegui-

re associazioni di idee. Per dirla con Lawrence Sterne,si tratta di

un viaggio “sentimentale”».4

Così, scorrono, se non tutti, molti temi della carriera letteraria

di Flavio. Per esempio, la povertà e Domingo de Soto, quel dome-

nicano che, alla metà del Cinquecento,ce l’ha conle riforme della

carità e offre spiegazionitristi e crudeli. Nelle epoche feudali, così comeal sud degli Stati, sopportiamo meglio la vicinanza di poveri e negri semplicemente perché siamo menoschizzinosi:

IL GIORNO DELL'ARMADILLO

191

I “moderni”, i ricchi borghesi, trovano insopportabili i poveri perché sono di-

ventati più delicati e affettati nei gusti. [...] a forza di igiene e puliziee ordini simmetrici e buon gusto quando vedono un povero provano nausea.

C'è unastrada che da In causa pauperum, cioè dal primo convegnotra studiosi di Filosofia morale in Portofino organizzato da Romeo Crippa nel 1976, porta al Viaggio del 2007; proprio dove arriva Soto passandoperi saggi Contro la carità discreta (1985) ed Etica e Razionalità (1997). Lungo questa strada incontriamo gli scritti di coppia con Giaggi Assereto dei primi anni ottanta (loro scrivevano di poveri,la Titta leggeva i Buddenbrook), Pauperismo e religione (1980) e Sulla povertà (1983), in compagnia deisaggisolisti Tra Locke e Smith. Alcune immagini del rapporto col “povero” (1981) e I/ povero come individuo (1986). In breve, c’è un libro. Soprattutto, tra le riflessioni sui poveri del Viaggio, che comprendonoi nuovi infimi proletari impopolari americani («sperduti nella loro bellissima divisa da deserto»),‘ troviamo ripensamenti

più intimi sui termini; finalmente con qualche concessioneall’interlocutore, che riportaall’Armadillo: «ammettodiavereil vizio di abusare di queste parole; disolito, le uso come ho imparatoa fare da bambino[...] il mio uso di “ricco” è unfossile linguistico». Insomma, dovremmo metterci a leggere davvero gli scritti di Flavio, che leggevamoconleggera distrazione quandoli scriveva, proprio «perché sapevamocheeralì a scriverli. Oggi dovrebbeessere più facile. Si potrebbeiniziare con povertà, certo, ma anchecon tolleranza e

razzismo. Anchei saggi degli anni novantasulla tolleranza sono giàun libro:Ifascino perverso di una definizione (1993), Il linguaggio non-offending (1994), Nuova tolleranza (1994), Sulla tolleranza (1996), Raz-

zismo e verità (1995), Il riconoscimento e i suoi sofismi (1997), Come

scrivere sulla tolleranza (1998), Marcuse, la tolleranza repressiva (1999), Razzismoe correttezza politica (2000), Il colore degli schiavi (2000) e La tolleranza dell'errore e del disvalore (2001). Allo stesso modo, un libro lo fannoi saggi su Hume:le recensioni dei primi anni settanta, L’i/lyminismo anacronistico (1975), Hume and the poor (1979), l’introduzione ai Dialoghi(1996), il dialogo tra Hume e Rawls (2003), La verità

nella tradizione empirista (2000)e, infine, la lettera a Silvana Castignonedel 2006, una sorta di “La mia vita con David Hume”. Povertà e tolleranza sono fiumiche scorronolungotutto il Viaggio, insiemeal fiume-Hume, anonimo comeil suo Trattato.

192

EMILIO MAZZA

Ho appenadetto che oggi dovrebbe essere più facile leggere

Flavio con attenzione. Ora mi accorgo, anche senzaessere un famosointellettuale, di aver fabbricato un’altra fandonia consolato-

ria. Oggi, leggere gli scritti di Flavio è diventato persino più difficile, dal momento che non c’è più nemmenolui a chiederci di leggerli.

L'unico con cui sarei comunque andato alla presentazione del libro di Flavio senza Flavio è Flavio. Macchine perl’ansia un po” imperfette non ci saremmo

certo lasciati sfuggire l’occasione. E poi, Flavio è sempre stato un egocentrico

molto generoso.

! Ho letto questo testo al Teatro Modena di Genova,il 23 maggio 2007, quando, con Luca Beltrametti, Pietro Cheli, Ferdinando Fasce e Giorgio Scaramuzzino, abbiamo

presentato il Viaggio al termine degli Stati Uniti d'America. Perché gli americani votano

Bush e se ne vantano, Donzelli, Roma 2006.. 2 D. HUME,Su/ commercio, in ID., Opere filosofiche, a cura di E. Lecaldano, Laterza, Roma-Bari 1987, vol. III, pp. 263 -264, 3? D. HUME, Dialoghi sulla religione naturale, con in appendice Frammento sul male, a cura di E. Mazza, introduzione di F. Baroncelli,il melangolo, Genova 1996. 4 L. SANMARINO,Lo sguardo dell'inglese, Mondadori, Milano 1998, p. 197 (per Flavio Baroni,vedi ibi, pp. 21, 28, 60-61, 65, 73, 97, 120, 141, 172-173, 193, 196-197). Nella versionedel 2005 il Vigggio era dedicato a «Fulvia Bardelli, attrice; Bruno Bianchi, motociclista; Mariangela Ripoli, filosofa». 5 D. HUME,Trattato sulla natura umana, in ID., Operefilosofiche, vol. I, p. 36. 6 F. BARONCELLI, Viaggio al termine..., pp. 11-12, 207. Peripotesi e spiegazionivedi, ibi, pp. 89, 92, 97, 102-103, 135-136, 158, 164, 166. ? Ibi, p. 202; In. Introduzione a B. PASCAL, Solitudine e storia. Antologia degliscritti,

a cura di F. Baroncelli, La NuovaItalia, Firenze 1977, p. IX.

8 Flavio Baroncelli a Emilio Mazza, 14 gennaio 2005. ? Per un pugnodilibri, Rai3, 19 novembre del 1996. Baroncellisi chiedeva il perché dell’enfasi sulla semplificazione; la rispostasi trova, credo, nella «presunzione semplificante» di marxisti e liberisti (F BARONCELLI, Viaggio al termine..., p. 37). 10 Ibi, pp. 109, 146. Sull’armadilloe il suo riflesso vedi, ibi, pp. 97, 197-200, 206. 11 Sulla ricercadel centro vedi ibi, pp. 57-61, 63, 77, 80, 82, 85, 165.

12 Ibi, p. 197. ! Ibi, pp. 197-198. xIbi, p. 198.

15 Ibi, p. 200.

16 Ibi, p. 200. 17 Ibi, p. 206. 18 Ibi, p. 11

19 F. Baroncelli a E. Mazza, 24 agosto 2006(cfr. la voce Romanzialle pp. 93-95 di questo volume). 20 F. BARONCELLI, Corpoe filosofiain Laurence Sterne, in Corpoe cosmo nell’esperienza morale, a cura di F. Baroncelli e D. Rolando,Paideia, Brescia 1987, p. 269; ID., Come

IL GIORNO DELL’ARMADILLO

193

ci insegnaronoa piangere. Rileggendo Le poco luminoseorigini dell'illuminismo penale inglese di Giovanni Tarello, in Studi in memoria di GiovanniTarello, vol.I (Saggistoricî), Giuffrè, Milano 1990, p. 50. 2 P. CHELI, Flavio Baroncelli, in “Diario della settimana”, 2 marzo 2007, pp. 64-65 (cfr. inoltre il contributo di P. Cheli in questo volume). 2 È il caso del “pensiero freddo”: Edward Moore,scrive Flavio, quasiscrivessedi sé, «dice in un linguaggio molto comuneil contrario di ciò che, proprio a causadei pregiudizi insiti nel linguaggio comune(e dell’idea preconcetta che abbiamo della fonte del messaggio), ci aspettiamo» (cfr. F BARONCELLI, Comeciinsegnarono..., p. 50). 2 “Il Sole 24 ore”, 25 febbraio 2007, p. 37 (corsivo mio). Nel bel Ricordo di Salvato-

re Vecail titolo è, come prevedibile, riportato correttamente. 2 F BARONCELLI, Viaggio al termine..., p. 33. 25 Ibi, p. 160.

26 Dal testo inviato alla professoressa Silvana Castignone in occasione del convegnodi

studi organizzato in suo onore dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova il 27 ottobre 2006(cfr. la voce Humealle pp. 41-49 di questo volumee la bibliografia finale).

2? Cfr.a p. 49 di questo volume.

28 F. BARONCELLI, Viaggio al termine..., pp. 136, 195-197. 29 Sono sempregli scritti di Flavio a ispirare i titoli: Hume, «un onesto seguace di

Hobbes»che tentava di «esprimere in modorassicurante realtà inquietanti» diventa Ur

inquietantefilosofo perbene. Saggio su David Hume (La NuovaItalia, Firenze 1975, pp. 2, 202); l'affermazione «per risultare bene educati in un ambiente multietnico[...] abbiamosolobisognodi [...] abituarci a concepireil razzismo come qualcosa che, prima di tutto, è una gaffe» diventa I/ razzismo è una gaffe. Eccessie virtù del politically correct

(Donzelli, Roma 1996, p. 90); I/ riflesso dell'armadillo. Viaggio al termine degli Stati

Uniti d'America diventa Viaggio al termine degli Stati Uniti. Perché gli americani votano Bush e se ne vantano.

30 E. BARONCELLI, Viaggio al termine..., pp. 206-207.

31 In., Premessa aRawls e Hume. Una favola, Dipartimento di Studi Socialie Politici, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Studi di Milano,La filosofia èpolitica. Seminario in onore diJohn Rawls, 31 gennaio 2003; ID., Rawls and Hume:a fable, in New Essays on David Hume, a cura di E. Mazza ed E. Ronchetti, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 259-263. 32 E BARONCELLI, Lo stupido come problem solver, in “Ragion pratica”, VII (1999), 13, p. 244. Flavio si era anche inventato un investigatore, professore scettico, comelui (vedi In., Viaggio al termine..., pp. 187, 205), di nome David, come Hume:«il prof. David L.H. Marlowejr.»; e gli aveva fatto raccontare anchelafilosofia (cfr. le voci Paure e Quesiti morali alle pp. 74-83 e 86-93 di questo volume). ®In., Viaggio al termine..., pp. 101-102. Per Faulkner vedi, ibi, pp. 41, 98-101, 156, 163, 179. 34 Per le argomentazioni humiane vedi ibi, pp. 90, 185, 187-188, 190; soprattutto quella sulle regole generali, ibi, pp. 111-112. 3 In., Cinici e scimmie. Osservazioni sull’anti-etnocentrismo di Montaigne e Rousseau,

in “Materiali per unastoria delle cultura giuridica”, XXIII(1993), 1, p. 41; ERODOTO, Storie,tr. it. di A. Izzo D’Accini, note di D. Fausti, Rizzoli, Milano 2005, vol.I, p. 187; vol. II, p. 33. 36 Nel Viaggio, Baroncelli dichiara: «certe manifestazioni dell’umanità da sempre le osservo,le origlio, le spio per curiosità da guardone, ma a questa passionecol tempos'è appiccicato una specie di senso del dovere professionale» (F BARONCELLI, Viuggio al termine..., p. 95; cfr. inoltre ibi, pp. 96, 114). Dice anche: «è una mia vecchia abitudine guardare più la gente, gli animali,le coltivazioni, le case e le aziende, che le opere d’ar-

194

EMILIO MAZZA

te e le meraviglie della natura. Da quelle parti, però, non c'era scelta: se quell’abitudine

non l’avessi coltivata da sempre, avrei dovuto inventarmela»(ibi, pp. 42-43). Maquesta è unapiccola bugia, perché duranteil viaggio non può fare a menodi osservare fiumi e pianure(bi, pp. 83, 89, 91, 96, 107-108, 110-111, 141, 162,181). 37 In., Introduzione a B. PASCAL, Solitudine e storia. Antologia..., pp. 5, 104.

38 E. BARONCELLI, Viaggio al termine..., p. 187.

>Ibi, p. 206.

40 In., Lo stupido... p. 243. Nel Viaggiosi tratta di quelle «prestazioni cerebrali (per

lo più inutili) che noiintellettuali siamo abituati a valutare comesignificative» (ID., Viaggio al termine..., p. 171). 4 In, Lo stupido..., pp. 244, 246.

42 In., Viaggio al termine..., p. 10.

4 Flavio Baroncelli a Emilio Mazza, 9 novembre 2004. 4 Vedi FE. BARONCELLI, Mi manda Platone, il melangolo, Genova 2009, pp. 87-90, 141-142.

4Ibi, p. 141.

4 ID., Viaggio al termine..., p. 11.

® Ibi, p. 160.

48 Ibi, pp. 193-194, 201.

4Ibi, pp.144,146. Sulla povertà vedi ibî, pp. 144-147, 168, 178, 191, 193, 198, 200.

PRINCIPALI PUBBLICAZIONI DI FLAVIO BARONCELLI

Libri D. Hume,Scritti morali, traduzione, introduzione e note a cura di F. Baroncelli, La Scuola, Brescia 1970.

Un inquietante filosofo perbene. Saggio su David Hume, La NuovaItalia, Firenze 1975.

B. PASscAL, Solitudine e storia. Antologia degliscritti, scelta, introduzione e note a cura di F. Baroncelli, La NuovaItalia, Firenze 1977.

(con G. Assereto) Su/la povertà. Idee, leggi, progetti nell'Europa moderna, Herodote, Genova-Ivrea 1983.

Il razzismo è una gaffe. Eccessi e virtà del politically correct, Donzelli, Roma 1996.

Viaggio al termine degli Stati Uniti. Perché gli americani votano Bush e se ne vantano, ivi 2006.

Mi manda Platone, a cura di A. Siri Baroncelli e E. Mazza,il melangolo, Genova 2009.

Articoli e saggi Luigi Bagolini: una fenomenologia del discorso politico, in “Ethica”, 7

(1968), pp. 143-153.

Humetra sistemae ricerca, in “Ethica”, 8 (1969), pp. 141-145. Il naturalismo di P Romanell, in “Ethica”, 9 (1970), pp. 67-72.

La filosofia del diritto nella sua storia, in “Ethica”, 10 (1971), pp. 223-227. Rivoluzione o metanoia? Fenomenologia di una speranza, in “Proteus”, III

(1972),8, pp. 123-135.

Diuna possibile lettura demistificante dei Dialoghisulla religione naturale

di David Hume, in “Proteus”, III (1972), 9, pp. 35-49. Primi dubbi sul “sistema”: l’illuminismo anacronistico di David Hume,in

“Rivista di filosofia”, LXVI(1975), 1, pp. 141-155. In causa pauperum. Cenni su perfezione individuale e perfettibilità sociale, in La perfezione oggi, a cura di R. Crippa, atti del primo convegnotra studiosi di Filosofia morale (Portofino 13-16 maggio 1976), Liviana,

Padova 1977, pp. 161-179. Filosofi e risorse, in La dimensione dell’economico. Filosofi ed economistia confronto, a cura di R. Crippa,atti del secondo convegnotra studiosi di Filosofia morale (Teolo 18-20 maggio 1978), ivi 1979, pp. 235-250.

Sogno, utopia, illuminismo, in “Il piccolo Hans:rivista di analisi materia-

listica”, 23 (1979), pp. 141-156.

196

PRINCIPALI PUBBLICAZIONI DI FLAVIO BARONCELLI

La didattica del “Pensiero filosofico e scientifico” nella scuola superiore riformata, in “Quaderni CIDI”, IV (1980), 6, pp. 162-176. (con G. Assereto) Pauperismo e religione nell'età moderna, in “Società e storia”, III (1980), 7, pp. 169-201.

Tra Locke e Smith. Alcune immagini del rapporto col “povero”, in “Studi settecenteschi”, 2 (1981), pp. 135-163.

La droga, il sesso, l’Iliade e l'Odissea, in Piacereefelicità: fortuna e declino,

a cura di R. Crippa,atti del terzo convegnotra studiosi di Filosofia morale (Chiavari-S. Margherita Ligure 15-17 maggio 1980), Liviana,

Padova 1982, pp. 247-263.

Contro la carità discreta. Misericordia, raziocinio evolontà di non saperein una polemica cinquecentesca sulla povertà, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, XV (1985), 1, pp. 3-49.

Il povero come individuo: un'arma polemica contro la scienza della carità, in

Ragionee civilitas. Figure del vivere associato nella cultura del ’500 europeo, a cura di D.Bigalli, atti del convegno di studio (Diamante 7-9 novembre 1984), Franco Angeli, Milano 1986, pp. 151-164.

Corpo filosofia in Lawrence Sterne, in Corpo e cosmo nell'esperienza mo-

rale, a cura di F. Baroncelli e D. Rolando,atti del quarto convegnotra studiosidi Filosofia morale (Pietrasanta 30 settembre-2 ottobre 1982),

Paideia, Brescia 1987, pp. 249-270. Suicidio e garanzie. Riflessionia proposito di un libro recente [R. MARRA,Sui-

cidio diritto e anomia, ESI, Napoli 1987], in “Materiali per unastoria della cultura giuridica”, XIX (1989), 2, pp. 497-519.

Comeciinsegnarono a piangere. Rileggendo Le poco luminoseorigini dell’illuminismo penale inglese di Giovanni Tarello, in Studi in memoria

di Giovanni Tarello, volume I (Saggi storici), Giuffrè, Milano 1990

(Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Genova), pp. 19-59. Il centralino infinito, in “Entropia”, 19 (1991), pp. 74-85. Ipparchia di Maronea,in in “Entropia”, 19 (1991), pp. 134-139. L'incerta fortuna della critica all'immaginazionismo di James Augustus Blondel, in “Studi settecenteschi”, 13 (1992-93), pp. 113-148.

Tolleranza. Ilfascino perverso di una definizione, in Analisi e diritto. Ricerche digiurisprudenza analitica, a cura di P. Comanduccie R. Guastini,

Giappichelli, Torino 1993, pp. 229-248.

Cinici e scimmie. Osservazionisull’anti-etnocentrismo di Montaigne e

Rousseau, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, XXIII (1993), 1, pp. 25-42. Filosofia o filosofie di...?, in Formedelsaperefilosofico. Filosofia “prima” e filosofie “seconde” nel pensiero contemporaneo, a cura di L. Malusa, CUSL, Genova 1994, pp. 177-192. Hannole culture diritti sugli individui? Sul liberalismo olistico di Charles Taylor, in “Ragion Pratica”, II (1994), 2, pp. 11-31. Il linguaggio non offending come strategia di Tolleranza, in “Materiali per unastoria della cultura giuridica”, XXTV (1994), 1, pp. 11-56.

ALFABETO

197

The Odd Consequences ofCharlesTaylor's Liberalism. And a Comment on Walzer's Comment, in “Planning Theory”, 12 (1994), pp. 109-126. Nuova tolleranza e tolleranza, in “Bollettino filosofico. Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria”, saggi in onore di Ernesto Fa-

giani, 11 (1994), pp. 61-84..

Lettera aperta ad un maestro della Grunfphilosophie, in Analisi e diritto. Ricerche digiurisprudenza analitica, a cura di P. Comanduccie R. Guastini, Giappichelli, Torino 1994, pp. 85-96. Impressioni ed idee sulla ventunesima Hume Society Conference, in “Ri. vista difilosofia”, LKXXVI(1995), 1, pp. 107-124. Differenza ed etica della tolleranza. Un concetto classico ed illuministico, nato con lo stato liberale ed oggiin crisi, in “AdOvest, Quaderni del-

l'Associazione per lo Sviluppo Culturale e Scientifico nel Cuneese”, 3

(1995), pp. 8-18. Razzismoe verità, in “Ragion Pratica”, III (1995), 5, pp. 79-97.

Introduzione a D. HUME, Dialoghi sulla religione naturale, con in appen-

dice Frammento sul male, a cura di E. Mazza,il melangolo, Genova 1996, pp. 7-26.

Due domandesulla tolleranza, in “Nuova Secondaria”, XIII (1996), 8, pp. 24-28.

Sulla tolleranza, in “Nuova Secondaria”, XIV, (1996), 2, pp. 55-58. Giustizialismo, in “Ragion Pratica”, IV (1996), 7, pp. 119-137.

Postfazione a L. SPOONER,La costituzione senza autorità. No Treason No.6, a curadiV, Ottonelli, il melangolo, Genova 1997, pp. 103-108.

Etica e razionalità. Un finto divorzio?, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, XXVII (1997), 1, pp. 230-260. Il riconoscimento e isuoi sofismi, in La tolleranza e le sue ragioni: un approccio pluridisciplinare a un principio controverso, a cura di F. Manti, “Quadernidi Bioetica”, 6 (1997), pp. 120-147.

Come scrivere sulla tolleranza, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, XXVIII (1998), 1, pp. 49-68.

Trent'anni dopo. Marcuse, la tolleranza repressiva e gli speech codes, in “Ragion Pratica”, VII (1999), 12, pp. 31-56. Lo stupido come problem solver, in “Ragion Pratica”, VII (1999), 13, pp.

243-248. Razzismo correttezza politica: la riscossa della natura, in I confini della globalizzazione. Lavoro, culture, cittadinanza, a cura di S. Mezzadra e A. Petrillo, manifestolibri, Roma 2000, pp. 183-212. Il colore deglischiavi, in L’identità, il multiculturalismo, i diritti umani, a curadi C. Pitto, atti della IX Cattedra “Antonio Guarasci” 1999, Università della Calabria, Fondazione Antonio Guarasci, Cosenza 2000,

pp. 207- 238.

L'architetto tra etica ed estetica. Dall'ordine scomposto di Daniello Bartoli agli iperluoghi contemporanei, in La geografia dei saperi, a cura di D. Ferraro e G.Gigliotti, Le Lettere, Firenze 2000, pp. 469-489.

198

PRINCIPALI PUBBLICAZIONI DI FLAVIO BARONCELLI

La verità nella tradizione empirista. Proposta per un modulo didattico, in Il concetto di verità nel pensiero occidentale, a-cura di M. Marsonet,il

melangolo, Genova 2000, pp. 45-60.

Giudizio, giustizia, giustizialismo, in Il giudizio. Filosofia, teologia, diritto, estetica, a cura di S. Nicosia, Carocci, Roma 2000, pp. 321-339. Liberalismo e multiculturalismo, in Liberalismo e società giusta, a cura di M.Marsonet, Name, Genova 2001, pp. 47-59. Liberalismo e multiculturalismo, in Atti della Accademia Ligure diScienze e Lettere,s.VI,vol. III (2000), Accademia Ligure di Scienze e Lettere,

Genova 2001, pp. 349-361.

Multiculturalismo efemminismo, in Donne efilosofia, a cura di M. Marsonet, Erga, Genova 2001, pp. 160-171.

Il chiliagono della politica mondiale e la povertà della nostra immaginazione, in “Ragion pratica”, IX (2001), 16, pp. 135-138. Gli omosessuali, in La diversità in età moderna e contemporanea, a cura di L. Cavazzoli, Name, Genova 2001, pp. 183-195.

(con W. Lapini) Ipparchia diMaronea,sorella diMetocle cinico, sposa di Cratete tebano, e ilperfido Teodoro, in “Maia”, LIII (2001), pp. 635-642.

La tolleranza dell'errore e del disvalore, in Tolleranza e libertà, a cura di V. Dini, Elèuthera, Milano 2001, pp. 257-276.

Le quattro indegnità deiliberali irresoluti, in “Teoria Politica”, XVII

(2001), 3, pp. 23-47.

:

Ricordo diSalvatore Rotta; in “Materiali per unastoria della cultura giuri-

dica”, XXXIII (2003),1, pp.3-12.

L'onore dei Labdacidi:religione, politica efamilismo nell’Antigone di Sofocle, in Antigone. Il mito, il diritto, lo spettacolo, a cura di M.Ripoli e

M. Rubino, De Ferrari, Genova 2005, pp. 21-44.

Rawls and Hume:afable, in New Essays on David Hume, a cura di E. Mazza

e E. Ronchetti, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 259-263.

Lettera a Silvana Castignone, in Filosofia e realtà del diritto. Studi in onore

di Silvana Castignone, a cura di I. Fanlo Cortés e R. Marra, Giappi-

chelli, Torino 2008, pp. 19-25.

In corso di pubblicazione: Aristote maître secret du ’68, in Formes de la représentation de la contesta-

tion politique en Italie, France et Allemagne aux années 1960-1970, a cura di G. Gargiulo e O. Seoul, Peter Lang Publishing, Lausanne.

Notizie su Flavio Baroncelli si possono trovare su questisiti:

http://www.dif.unige.it/dot/baroncelli/ http://skemman.is/stream/get/1946/1538/5839/3/Mikael.pdf

NOTIZIE SUGLI AUTORI

FLAVIO BARONCELLI(1944-2007), filosofo, ha insegnato Filosofia moralee Filosofia politica all’Università di Genova e nelle Università di Madison (Wiscon-

sin), Glasgow e Reykjavfk. I suoi principali interessi includono Hume,le ideo-

logie relative alla povertà in epoca moderna,alcuniautori del Sei e Settecento e temietico-politici comeil nessoliberalismo-tolleranza,il razzismoe il linguaggio

politicamentecorretto. Ha collaborato con diversi quotidiani e periodici, fra cui

“Il Secolo XIX”, “l'Unità”, “la Voce” e “Diario”. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Un inquietante filosofo perbene. Saggio su David Hume, La Nuova Italia, 1975; I/ razzismo è una gaffe, Donzelli, Roma 1996; Viaggio al termine degli Stati Uniti, ivi 2006 e Mi manda Platone, il melangolo, Genova 2009.

CRISTINA AMORETTI, postdottoranda presso l’Università di Genova dove at-

tualmente insegna Metodologia delle scienze umane. Si occupa di epistemo-

logia,filosofia della mentee filosofia della scienza. Ha pubblicato I/ triangolo dell’interpretazione (2008) e Piccolo trattato di epistemologia (2010).

GIOVANNI ASSERETO,ordinario di Storia modernapresso l’Università di Genova. Le sue principali ricerche riguardano Genovae la Liguria dal Settecento all’unità; le politiche assistenziali in Italia e in Europa nell’età modernae la storia dell’amministrazione nell’Italia moderna. Trai suoilibri, (con M. Doria) Storia della Liguria (2007) e Le metamorfosi della Repubblica (1999). FRANCO ASTENGO,politologo e studiosodi storia dello sport. È stato compagno di scuola di Flavio Baroncelli. Ha pubblicato (con L. Pinna) 50 anni di bockey a Savona (2006) e ha collaboratoalla realizzazione dell’Annuario stati-

stico del calcio Ligure (2007).

GIORGIO BARUCHELLOè professore ordinario di Filosofia presso la Facoltà di Discipline Umanistiche e Scienze Sociali dell’Università di Akureyri in Islanda, dovevive e lavora dal 2003. Si occupadi eticae filosofia politica, con particolare attenzioneai temi della storia dell’idea di crudeltà, dello sviluppo sostenibile e della giustizia sociale attraverso la rifondazione dell'economia. ENRICO BIALEè assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale. Si occupa di giustizia sociale con particolare attenzione alla relazione tra mercato e democrazia. Amala letteratura contemporanea, in particolare quella statunitense. PIETRO CHELI, giornalista e scrittore. Ha lavorato a “il Giornale”, “la Voce”, “Glamour”, “Diario” e “Gioia”. Attualmente collabora ai programmi di Ra-

200

NOTIZIE SUGLI AUTORI

dio 3 ed è vicedirettore di “Amica”. Ha pubblicato con altri autori I calendario del laico (1998), con Ivano Fossati Carte da decifrare (2001) e con Guido Barbujani Sono razzista ma sto cercando di smettere (2008). FERDINANDO FASCEè professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Genova, dove insegna anche Storia dell'America del Nord. Si è oc-

cupato di storia del lavoro, delle migrazioni, della cultura d’impresa e della

pubblicità commerciale e politica negli Stati Uniti e in Italia nel Novecento. Frai suoilibri: La democrazia degli affari (2000), An American Family (2002), I presidenti USA (2008) e, con Paride Rugafiori, Dal petrolio all'energia (2008). GIANNI FRANCIONIè ordinario di Storia della filosofia presso l’Università di Pavia. Specialista della filosofia del Settecento, ha dedicato numerosilavoriall’illuminismo lombardo e a Cesare Beccaria. Inoltre si è occupato di Antonio Gramsci e ha curato, fra l’altro, la pubblicazione di Quaderni dal carcere e (con G. Cospito) Quaderni di traduzioni per l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (2007). È fondatoree direttore dellarivista “Studi settecenteschi”. ENRICO GHEZZIè critico cinematografico e regista. Entrato in Rai nel 1978, è l'inventore del contenitore televisivo notturno Fuori orario. Cose (mai) viste e uno deicreatori di Blob. Nel 1985 ha ideato la maratonatelevisiva di 40 ore

non-stop La magnifica ossessione. Ha diretto il Festival cinematografico di Taormina dal 1991 al 1998. Trai suoilibri: Stanley Kubrick (1977), (con altri autori) I/ libro di Blob (1993) e Stati di cinema. Festival ossessione (2002).

ALBERTO GHIBELLINI, dottore diricercain Filosofia, è attualmente professore a contratto di Storia del pensiero politico presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova. ALBERTO GIORDANOè assegnista di ricerca presso il Dipartimento Giuridico-Politico dell’Università di Milano. Fuori dal lavoro, coltiva una carriera parallela di musicista (dilettante) e si batte, con scarsirisultati, peri diritti degli animali. EMILIO Mazzainsegna dal 1995 alla Libera Università di Lingue e Comunicazione (Iulm) di Milano. Studia il Settecento e David Hume.-Hacuratoin-

sieme a Flavio Baroncelli l'edizione dei Dialoghi sulla religione naturale (1996), con Emanuele Ronchettiil volume New Essays on David Hume (2007) e con Annalisa Siri Baroncelli Mi manda Platone (2009).

VALERIA OTTONELLIè ricercatrice presso l’Università di Genova, dove insegna Filosofia politica ed Etica pubblica. Si occupadel diritto di migrazione e

di teoria normativa della democrazia.

IRENE OTTONELLOè borsista postdocpresso il Dipartimentodi Filosofia del-

l’Università di Genova. Si occupadi filosofia politica, psicologia moralee teoria etica, conparticolare attenzione alle teorie di J. Rawls e di I. Kante al co-

struttivismo etico:contemporaneo.

ALFABETO

201

SIMONE RAGAZZONIinsegnaEstetica presso l’Università di Pavia. È autore dei seguenti volumi: La decostruzione del.politico. Undici tesi su Derrida (2006), La filosofia del dr House (2007, coautore), Nel nome di Chora. Da Derrida a Platonee al di là (2008), La filosofia di Lost. Philosophy fiction (2009), Pornosofia.

Filosofia del Pop porno (2010) e Per Derrida. Decostruzione, biopolitica, democrazia (2011).

TATTI SANGUINETIè critico cinematografico, attore e sceneggiatoretelevisivo e radiofonico. Hapartecipato alla trasmissione radio Hollywoodparty e a programmi televisivi con Chiambretti. Ha svolto ruoli organizzativi alla Mostra

del Cinema di Venezia e ha curato le rubriche di critica cinematografica per

“la Repubblica”, “l'Espresso”, “Panorama”. Ha partecipato comeattore a numerosifilm,tra i quali I/ caizzano (Moretti, 2006) e Le rose del deserto (Monicelli, 2006).

CHIARA TESTINOsi è laureata a Genova con Flavio Baroncelli, si occupadi filosofia moralee filosofia politica e attualmenteè assegnista di ricerca pressoil Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale di Vercelli. SALVATORE VECA,ordinario di Filosofia politica all’Università di Pavia e vice-

direttore dello Iuss di Pavia, dal 2000è rettore del collegio Giasone Del Mai-

no. Si è occupato di teoria della conoscenza, epistemologia, rapporti trail materialismo dialettico e le scienze economiche,sociali e politiche e del plu-

ralismo comevalore perla teoria della democrazia. Fra le numerose pubbli-

cazionicitiamo Dell’incertezza (1997), La filosofia politica (2002) e La bellezza

e gli oppressi. Diecilezionisull'idea di giustizia (2009). È stato direttore scientifico e poi presidente della Fondazione Feltrinelli.

CARLO AUGUSTO VIANO, ordinario di Storia della Filosofia all’Università di

Torino, si è occupatodi filosofia antica e di filosofia moderna pubblicando opere su Aristotele e su John Locke. Importanti sono anchei suoi studi sul-

l’etica e le teorie utilitaristiche. Si è inoltre dedicato a promuovere la costruzione di unabioeticalaica. Frai suoitesti più recenti: Le imposture degli antichi e i miracoli dei moderni (2005) e Stagionifilosofiche. La filosofia del Nove-

cento fra Torino e l’Italia (2007). Con Pietro Rossi ha diretto la pubblicazione di una grande Storia della filosofia.

GIOSIANA CARRARA si è laureataall’Università di Genova con Flavio Baron-

celli ed è dottore di ricercain Filosofia. Insegna Storia e filosofia al liceo Chia-

brera di Savonae, fuori dal lavoro,si occupadi storia delle idee e di etica dei regimialimentari. Ha inoltre pubblicato articoli di storia contemporaneae di microstoria.

Hofattoscattare l’allarme / su un Jumbo, fumandonel cesso, / e ho negato,

piangendotra hostess feroci e steward giganti, / d’aver mai fumato