130 52 17MB
Italian Pages 140 [144] Year 2012
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CIAK SI SCRIVE / I PROTAGONISTI a cura di Simone Isola e Luca Lardieri
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Luca Lombardini
ALEJANDRO AMENÁBAR L’ultimo spettacolo
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Indice
Introduzione: Storie di fantasmi cileni
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Capitolo primo: Parental Advisory Explicit Content Ti ho vista morire: Tesis Vero come la finzione: Snuff movies
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Capitolo secondo: Do you like Hitchcock? Dietro la maschera: Apri gli Occhi e Vanilla Sky Hai paura del buio? The Others I vivi e i morti: Giro di vite legge The Others
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Capitolo terzo: The beginning of the end Al cuore Ramón, al cuore: Mare Dentro L’arte della guerra: Agorà Star system
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12 31
41 58 71
78 96 110
Capitolo quarto: Post scriptum Personaggi in cerca d’autore, una formula matematica
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Postfazione: L’uomo di Santander L’autore e l’attore. Intervista ad Antonio Noriega
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Bibliografia Sitografia Filmografia
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116
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Introduzione
Storie di fantasmi cileni
«È logico che abbia fatto io questo tipo di film sugli esseri umani e la morte. È qualcosa da sempre presente nel mio cinema. Sono interessato alle persone, a ciò che dà un senso all’esistenza o a quello che lo toglie: la morte.» ALEJANDRO AMENÁBAR
Chi è Alejandro Amenábar, cos’è e sopratutto cosa rappresenta il suo cinema oggi? Regista, sceneggiatore, compositore, produttore e montatore, non può non essere classificato come uno dei cognomi maggiormente meritevoli del termine poliedrico, se posizionato all’interno del panorama cinematografico mondiale e contemporaneo; scuola che, per capacità artistica e indipendenza tecnica, permette di rileggerlo quasi come un’anomalia, una scheggia impazzita, un regista unico. Anche per il suo pubblico. Dal 1996 ad oggi la “miseria” di cinque pellicole, nessuna delle quali passata inosservata, che si tratti del disturbante esordio Tesis o del melodramma storico Agorà, incentrato sulla figura della filosofa neoplatonica e matematica Ipazia di Alessandria, probabilmente il suo film più discusso e ideologicamente attaccato, almeno qui da noi. In Italia. All’indomani dei cortometraggi La Cabeza, Himenoptero e Luna vede la luce Tesis, risultato: ben sette premi Goya conquistati ad un anno dalla sua uscita (miglior film, miglior regista esordiente, miglior sceneggiatura originale, miglior attore rivelazione, miglior produzione, miglior montaggio e miglior sonoro). Nel 1997 è la volta di Apri gli Occhi, che gli vale il pass per Hollywood grazie al remake Vanilla Sky, prodotto e interpretato da Tom Cruise e diretto da Cameron Crowe. Apri gli Occhi, intanto, non si fa notare solo negli Stati Uniti ma anche dall’altra parte del mondo: aggiudicandosi il riconoscimento come miglior film del 1998 da parte del prestigioso Tokyo International Film Festival. L’opera della definitiva consacrazione giunge nel 2001 con la ghost story The Others, prima fatica in lingua inglese che sbanca i Goya 2002 (miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura originale, miglior fotografia, 7
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miglior montaggio, miglior produzione, miglior scenografia e miglior sonoro), oltre a conquistare tre Saturn Awards (miglior film horror, miglior attrice protagonista, miglior attrice non protagonista) e ottenere il riconoscimento del Kansas City Film Critics Circle Awards per Nicole Kidman come miglior interprete protagonista. Nel 2004 l’inatteso “giro di vite”: Alejandro Amenábar stravolge le coordinate del suo cinema abbandonando la contaminazione di genere horror/thriller e la nera favola gotica in favore dell’agiografia del tetraplegico Ramón Sampedro. Esce Mare Dentro, che si aggiudica, nell’ordine, un Leone d’argento e la miglior interpretazione maschile per Javier Bardem alla Mostra del Cinema di Venezia, il Premio Oscar come miglior film straniero, il Golden Globe sempre come miglior film straniero, due European Film Awards come miglior regista e miglior interpretazione maschile, un National Board of Review Awards come miglior film straniero. Mare Dentro viene accolto addirittura con maggior enfasi in patria, tanto da monopolizzare i premi Goya vincendone ben quattordici (miglior film, miglior regista, miglior attore protagonista, migliore attrice protagonista, miglior attore non protagonista, miglior attrice non protagonista, miglior attore rivelazione, migliore attrice rivelazione, miglior sceneggiatura originale, miglior produzione, miglior fotografia, miglior colonna sonora, miglior trucco e acconciatura, miglior sonoro). Riconoscimenti anche dall’ Independent Spirit Awards (miglior film straniero), dall’Unione Europea (David di Donatello) e, infine, il Ciak d’Oro, sempre come miglior film. Nel 2009 è la volta di Agorà che, in quanto a premi aggiudicati, non fa eccezione rispetto ai suoi precedenti: sette Goya (miglior sceneggiatura originale, migliore fotografia, miglior scenografia, migliori costumi, miglior trucco, miglior produzione e migliori effetti speciali) e un Nastro d’Argento ancora per i costumi. Conquiste e riconoscimenti a parte, comunque importanti nell’economia di un saggio al fine di ribadire e ricordare quanto il cinema di questo regista non sia mai stato solo fenomeno festivaliero o fruizione per pochi coraggiosi o esotici intimi, Alejandro Amenábar si configura, fin dagli esordi, come autore dalla forte propensione ad allestire produzioni dal respiro universale (vedi i generi attraversati, che dal thriller spazieranno fino ad arrivare al melodramma), ma ispirate da mai troppo nascosti impulsi personali e rilegate dalla già citata indipendenza artistica, la stessa che, unita ad una sapiente conoscenza delle regole classiche della settima arte, gli 8
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ha sempre permesso di occuparsi in prima persona di ogni singolo aspetto di ogni suo film, senza mai delegare ad altri i passaggi chiave riconducibili alla realizzazione di quest’ultimo, sia che si trattasse di pre o post produzione. Amenábar, come verrà poi specificato e analizzato nei prossimi capitoli, è un regista fortemente caratterizzato dalla passione per i generi, tanto cinematografici quanto letterari, contemporaneamente la sua produzione filmografica altro non è se non figlia di un’educazione alla paura appresa durante l’infanzia, vissuta in fuga dal Paese natale (il Cile) per approdare assieme alla famiglia in Spagna. Alejandro Amenábar nasce nel 1972 a Santiago del Cile: madre spagnola e padre cileno. L’anno successivo è costretto a trasferirsi in Spagna, a causa del golpe del 1973 pianificato e portato a termine con successo da Augusto Pinochet, che costringe alla resa il presidente marxista Salvador Allende, sostituisce la democrazia con la dittatura e di fatto bandisce i partiti della sinistra politica che avevano costituito la coalizione Unità Popolare, ovvero l’amalgama politica responsabile della nascita della prima nazione al mondo con un capo di stato marxista democraticamente eletto. La famiglia Amenábar, quindi, fugge da un regime che sta per nascere approdando in una nazione che vede sfiorire la sua dittatura come conseguenza della morte del suo condottiero: Francisco Franco, meglio conosciuto come il Generalísimo Franco o il Caudillo di Spagna, che passerà a miglior vita nel 1975, cioè due anni dopo il trasferimento in Spagna dell’allora giovanissimo regista. Difficile, quindi, non ipotizzare che questa esperienza abbia segnato, almeno dal racconto dei familiari, la mente del giovane Alejandro Amenábar che, non a caso, nei suoi film ha sempre riflesso l’ossessione per e della morte, dichiarando artisticamente spesso e volentieri guerra a regimi secolari e nascosti nell’educazione popolare, come nel caso di Mare Dentro e Agorà. Quello di Amenábar è un cinema dalla semplicità d’interpretazione estremamente complessa, solco interpretativo talmente buio che, qualora si volesse davve9
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ro fornire una risposta alla domanda posta in apertura, non si potrebbe fare altro se non ricorrere alle parole dell’autore in questione: «Ho sempre fatto i film che mi piacerebbe vedere al cinema». Già, perché Alejandro Amenábar è un oggetto solo in parte identificato o indentificabile, ma dalla natura ingannevole e sfuggente, come il suo cinema del resto. Cinque film, tre dei quali di diritto classificabili nel calderone thriller/horror (Tesis, Apri gli Occhi e The Others), mentre i rimanenti due sguscianti ad ogni interpretazione critica oggettiva (Mare Dentro e Agorà), a patto che non si abbia l’intenzione di scavare nell’animo di un autore mai contraddittorio e banale ma sempre sorprendente. Quello di Amenábar, nonostante le apparenze, non è un cinema di facile impatto: per comprenderlo appieno sono necessari i parametri filmologici, tanto è importante per il regista cileno d’adozione spagnola il farsi concentrico di “fatti filmici” (cioè tutto quello che vediamo sullo schermo) e la controparte ad incastro dei “fatti filmografici” (tutto quello che il film mette in circolazione). Provateci ad inquadrare Alejandro Amenábar, rimarrete spiazzati e basiti dall’immediata sorpresa generata dal fatto che un “semplice” paragone con il pur ammirato Alfred Hitchcock, o il parimenti indipendente John Carpenter (anch’esso regista di genere che scrive, dirige, musica e monta i suoi film) possa non bastare. In pochi, al giorno d’oggi, sono capaci di amplificare l’effetto che la sala cinematografica ha sullo spettatore come invece ad Amenábar puntualmente riesce, capace com’è di trasformare lo schermo in uno spazio “orientato”, dove la prospettiva o il punto di vista dello spettatore non possono, ma sarebbe meglio dire non riescono, a variare fisicamente: «O meglio, sono destinati a variare all’interno di uno sguardo prescelto da altri, capace di trasportarlo in spazi lontani senza che alcuno spostamento effettivo si compia1». Cognome all’occhiello di un’ipotetica e generazionale nouvelle vague “latina” (Almodovar, Balaguero, De La Iglesia, Cuaron e Del Toro) Alejandro Amenábar non ha mai gradito l’etichetta di cineasta facente parte di un movimento, né di regista attratto dall’idea di rivedersi iscritto ad una solo tipologia filmica: «La nostra generazione di registi non è particolarmente unita, connessa, non c’è molta comunicazione tra tutti noi. Ognuno fa per sé. A me personalmente spaventano un po’ i danni collaterali a cui una comunicazione maggiore potrebbe condur1
Roberto Nepoti, L’illusione filmica. Manuale di filmologia, Torino, Utet, 2004, pag. 33.
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ci: mi spaventerebbe veder sorgere una tendenza accentuata verso il thriller nel cinema spagnolo, non credo che il cinema dovrebbe essere questione di mode o di tendenze, come spesso accade negli Stati Uniti. Il bello del cinema europeo e del cinema indipendente è che è libero e deve essere aperto ad ogni tipo di universo e a qualsiasi idea originale. Non mi piacerebbe pensare che sto contribuendo alla nascita della produzione di un determinato filone cinematografico, anche perché io personalmente non mi sento legato ad un genere in particolare, nonostante i miei primi film si siano mossi tutti nell’ambito della suspense2». Amenábar, d’altronde, ha sempre avuto un obiettivo: guardare la morte attraverso la lente di una macchina da presa, arrendere ad essa gli interpreti principali delle sue storie, addirittura sfruttare il cinema, i suoi luoghi e le sue leggende come anticamera della dipartita. Questo è il cinema di Alejandro Amenábar e per questo un saggio incentrato sui suoi film non può non prendere liberamente in prestito il titolo di una celebre pellicola di Peter Bogdanovich: L’ultimo spettacolo, ciò al quale assistono i personaggi di Amenábar e che metacinematograficamente riflettono sul suo pubblico appena prima che la sala torni ad essere di nuovo illuminata. Su il sipario.
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Clarissa Mortilla, www.movieplayer.it, Intervistando Alejandro Amenábar, 2005.
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Capitolo primo
Parental Advisory Explicit Content
«Nella notte fredda e scura chi ha paura? Chi ha paura? Ha paura l’assassino d’incontrare il suo destino» Nero, di GIANCARLO SOLDI
Ti ho vista morire: Tesis L’esordio di Alejandro Amenábar è un’apologia. Del genere horror, del cinema, di chi lo guarda e di chi lo studia, o di chi s’illude soltanto di subirlo, chiudendo gli occhi mentre racconta a se stesso di non essere interessato a fruire tali, deprecabili, spettacoli. Tesis non è un semplice thriller, o meglio lo è, ma non nella forma convenzionale che il filone d’appartenenza prevede, in quanto non viene principalmente strutturato come tale e di conseguenza possiede solo in parte il fine ultimo e i mezzi del genere in questione; ovvero sfruttare esclusivamente il meccanismo classico della suspense allo scopo di creare nello spettatore un senso di spasmodica sospensione, in attesa che l’evento risolutivo si manifesti, così da liberare alla superficie dell’occhio il risultato visivo che la tensione per certi versi “erotica” dell’attesa ha, fino a quel liberatorio e al tempo stesso catartico momento, costruito lentamente nella mente di chi assiste. Tesis è tutto questo ma sopratutto di più: una sovrastruttura canonicamente cinematografica sorretta da altro, ben più profondo, ambizioso e utopicamente filosofico. Il primo lungometraggio dell’allora enfant prodige del cinema spagnolo mira direttamente al cuore della settima arte, scava a fondo e senza pudore tra i suoi segreti, tra le sue ipotizzabili storture morali e il loro inevitabile fascino, insensibile al sentimento di timore che naturalmente si dovrebbe avvertire nel momento in cui ci si accorge di quanto le mani siano sporche, a causa del lercio che si sta rimestando. Tesis è un messaggio dalla proiezione vettoriale, che utilizza il mezzo, quello del thriller, per intrattenere prima e arrivare poi alle coscienze di chi 12
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siede di fronte allo schermo. Tesis è un inganno, un magico pifferaio che abbindola, incuriosisce, seduce e poi defalca. Proprio sul più bello, quando si vorrebbe vedere ma ci si accorge che non è permesso farlo e alla fine si realizza che è meglio così: meno si “ammira” più si riesce a pensare, a congetturare, a capire il significato profondo di una pellicola così universale e complessa, dai significati profondi e multiforme. Limitati dalle esigue risorse economiche che ogni opera prima riserva ai propri autori, Alejandro Amenábar e lo sceneggiatore Mateo Gil optano per un raffinato lavoro in sottrazione e, fatte le dovute differenze tematiche, affrontano la rappresentazione della violenza negli audiovisivi né più né meno attraverso lo stesso stratagemma che permise a Steven Soderberg di conquistare la Palma d’Oro a Cannes nel 1989 con Sesso, Bugie e Videotape: fermandosi appena un passo prima dall’alzare il sipario sulla rivelazione dell’esibizione fino a quel momento suggerita, semplicemente perché ad Amenábar non sembrano interessare i sensi, bensì le percezioni cerebrali che da essi derivano («Quella che però mi sembra più interessante è quella che si può provocare in chi guarda un audiovisivo. Io sarei incapace di vedere delle immagini come quelle sottoposte ai protagonisti di Tesis, infatti non mi sono voluto addentrare in maniera diretta, ho trattato la cosa più come metafora che come indagine sul tema. Nel momento in cui si sceglie di fare un film sulla violenza filmata credo che il modo più interessante di operare non sia quello di mostrare ma bensì quello di occultare, per rendere lo spettatore cosciente della forza che delle immagini hanno sui personaggi e parlare esclusivamente di questo: della forza e dell’impatto che le immagini producono.1»). Ciò che di Tesis convince e affascina è la sua assoluta coerenza e quadratura, un piano militare di comunicazione vero e proprio, pressoché perfetto, a partire dal pugno di lettere che ne costituiscono il chiarificatore titolo, monito semplice ed efficace di quello che si andrà ad affrontare una volta spente le luci. La tesi altro non è se non un’enunciazione relativa ad un tema il quanto più personale possibile, lo stesso che il suo autore si prodiga di sostenere a 360 gradi attraverso il maggior numero di argomentazioni valide e condivisibili, senza timori reverenziali, sfruttando tutte le forzature intellettuali plausibili e immaginabili. Parimenti ad uno studente ormai 1
Ibidem.
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pronto a presentarsi con il suo biglietto da visita alla commissione di laurea, Amenábar costruisce il suo elaborato di celluloide senza lasciare nulla al caso, a partire dal titolo, che della presentazione è l’elemento di maggiore delucidazione nei confronti di chi sarà presente all’esposizione. Attraverso il canovaccio di un genere, il thriller, Tesis si prefigge l’ambizione di dissertare su uno dei lati oscuri del cinema, quello della realizzazione della violenza all’interno di un meccanismo che prevede la finzione, e per raggiungere lo scopo stabilito a tavolino ha bisogno d’intreccio, volti e ambientazione adatti affinché l’illusione si possa dire riuscita. A tal proposito non è certo un caso che l’opera prima di Alejandro Amenábar si dipani tra le mura di un’università, abbia come protagonista una giovane donna sul punto di laurearsi e si circondi di figure dall’età e dall’aspetto estetico prossimi a quello dell’interprete principale. Amenábar comprende quanto indispensabile sia, al fine di analizzarne i possibili effetti, immergere il suo esperimento in un ambiente consono all’immedesimazione dello spettatore con la materia trattata, quindi affollato di menti indaffarate a studiare la causa: il cinema e le conseguenze che la visione di questo comporta, qualunque esse siano («Cos’è il cinema. Non fraintendetemi, il cinema è un’industria che richiede denaro. Migliaia di milioni investiti nei film e recuperati con gli incassi. Nel nostro Paese il cinema non esiste proprio perché non c’è un’industria, perché non c’è comunicazione tra creatore e pubblico. Siamo arrivati ad un punto critico e il nostro cinema si salverà solo se inteso come fenomeno industriale». Così, ad esempio, si esprime il professor Jorge Castro di fronte ad una nutrita platea studentesca ad inizio film, quando la vicenda ha appena mosso i suoi primi passi e il suo ruolo di antagonista non è stato ancora svelato). Ne consegue una volontà di tornare alle radici enciclopediche e didattiche dell’arte in questione, addirittura di interrogarsi su crisi e utilità di quest’ultima (nello specifico la realtà spagnola di metà anni ’90), un centro sperimentale ricostruito all’interno di un set cinematografico che di per sé assomiglia, e non poco, ad una premessa squisitamente metacinematografica: studiare il cinema dall’interno, attraverso la raffigurazione di fronte la macchina da presa dei tratti somatici, degli impegni, delle passioni e delle folli derive appartenenti a chi un giorno del cinema vorrebbe farlo, e da protagonista per giunta (la conclusione di Castro agli studenti:«Il futuro del nostro cinema siete voi»), al fine di raccontare fascino e perdizione della settima arte. Angela (Ana 14
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Torrent, che i più attenti fruitori di serial televisivi italiani riconosceranno come l’attrice che interpretò il ruolo della sorella di Tano Cariddi in La Piovra) è una studentessa come tante altre: ligia al dovere accademico, si accinge ad ultimare una tesi di laurea incentrata sulle ripercussioni della violenza prodotta e diffusa dalle immagini tanto cinematografiche quanto televisive. Inizialmente il suo è un approccio alla materia visibilmente distaccato, non è una cinefila in quanto non dà l’impressione di essere un’avida consumatrice di film, semplicemente studia la settima arte e il suo versante maggiormente sociologico, quello che presuppone una responsabilità nel comportamento reale di chi subisce o vuole subire immagini diseducative provenienti dal grande e piccolo schermo. Angela non ama il cinema, probabilmente non lo conosce nemmeno a fondo, ma finisce per imbattersi nel suo lato nascosto: al tempo stesso quello più artisticamente sincero (nell’accezione squisitamente primitiva del termine) e intellettualmente disturbato. Le ricerche la conducono a scoprire, tra gli impolverati e bui scaffali della videoteca didattica, la presenza di uno snuff movie, la stessa mortale visione che ha portato al decesso per arresto cardiaco il suo primo relatore, l’anziano professor Figueroa. Alejandro Amenábar tratta la sua Angela nel medesimo modo in cui si occupa del suo pubblico, quasi sfruttando la sua posizione per riverberarla oltre lo schermo attraverso la volontà di accentuare un’acerba brutalità di pensiero. L’autore mette la sua interprete, e di rimbalzo il suo pubblico, di fronte alla sua giovanile presa di posizione intellettuale, una tesi appunto, sostenuta attraverso l’amalgama di concetti “alti” messi al servizio di visione “basse”. Fin dalla sua opera prima Alejandro Amenábar si dimostra regista quadrato, coeso ed energico, il suo esordio corre su binari dritti e sicuri perché forte di una base morale e filosofica talmente solida e rassicurante da poter sorregge15
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re, quasi fossero senza peso, una serie infinita di richiami e rimandi tradizionali, consolidati topoi della messa in scena finalizzati ad attrarre chi guarda affinché il messaggio possa di fatto arrivare, senza dubbi di parziale o del tutto mancata trasmissione/ricezione. Chi guarda il cinema, secondo Amenábar, è un voyeur mascherato, fintamente morigerato, in quanto legalizzato nell’atto della sua libidinosa operazione dai costumi sociali («Il film ci consente di appagare senza danni, per il tempo limitato della proiezione, pulsioni latenti che non possiamo o non vogliamo soddisfare nella vita reale2») e come tale non esita a chiederne ancora non appena l’occasione glielo consente, facendosi consapevolmente schiavo di un meccanismo che prevede, all’aumentare dello choc sospettato, consequenziale e crescente piacere nella soddisfazione del gusto della morbosa curiosità. Inseguire il reale nella finzione, questo l’asse paradossale sul quale poggia Tesis, una stortura che appartiene all’illusione originaria dell’artificio cinema, della quale lo snuff movie è la sua protesi più estrema e per certi versi allettante. Filmare la morte, quella vera. Abbattere le barriere ideologiche di un’arte principalmente d’intrattenimento al fine di pervertirla in altro, talmente estremo da immortalare l’atto definitivo per eccellenza: l’omicidio, vero, reale, non più cinematografico proprio perché capace di scavalcare la barriera tra finzione artificiale e realtà non costruita. Proprio quello che il cinefilo, quello ossessionato dal consumo di celluloide, desidera spasmodicamente: la visione dalla quale non vi è ritorno, la stessa che ogni curioso spettatore si augura d’incontrare al fine di criticarla con fare ipocrita, ciò che ogni studioso non visceralmente appassionato della materia in questione si prefigge di analizzare, al fine di dire la sua per condannarla, ma soltanto dopo averla vista, quindi all’indomani dall’aver oltrepassato quel limite, dopo averla ripetutamente osservata, vivisezionata nei singoli fotogrammi, resa tangibile dalla sua ossessiva curiosità. Accettabile alla propria coscienza, la stessa che sembra disprezzarla ma che latentemente la insegue desiderandola. Filmare la morte, inseguire la leggenda (quella dello snuff, letteralmente “spegnersi lentamente”), giocare con essa al fine di renderla cinematograficamente accettabile. Con Tesis Alejandro Amenábar dimostra non solo una sapiente dimestichezza una 2
Roberto Nepoti, op. cit., pag. 127.
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volta accomodatosi dietro la macchina da presa, ma soprattutto una coscienza e una decisione di pensiero già sviluppata e formata, decisamente abbastanza per un regista di fatto alle prese con il suo primo lungometraggio. Il rischio è quello d’invischiarsi in una palude di chiavi retoriche e situazioni ben conosciute dall’appassionato, Amenábar lo aggira con maestria, mettendo sul banco un lucido talento, tanto avvezzo al ricercato esercizio di stile quanto attento ad eludere le trappole che tale operazione comporta, nonostante i limitati mezzi economici a disposizione e qualche comprensibile spigolosa angolatura non ancora smussata dalla gioventù allora imperante (nello specifico un’eccessiva lunghezza, 125 minuti che rivelano una palese mancanza di capacità di sintesi). Dettagli sullo sfondo, perché la lezione dei classici viene sciorinata con preparata diligenza, su tutti il primissimo Dario Argento, chiamato in causa una volta sì e l’altra pure nelle sequenze domestiche: tanto diurne quanto notturne; così come il “depalmiano” L’Angoscia, del catalano Juan Josè Bigas Luna, può essere annoverato tra le remote fonti d’ispirazione (un singolare esempio di barocchismo alla ispanica, una sorta di film nel film, all’interno del quale la protagonista Zelda Rubistein deve vedersela con un assassino ispirato dalla trama di una truculenta pellicola horror. Quasi ci si trovasse dinanzi ad un precursore del franchaising Scream ideato dal duo Wes Craven-Kevin Williamson); ma la maniera, almeno quella ricalcata con fare esclusivamente omaggiante e calligrafico, non è un vocabolo che appartiene al dizionario di Amenábar, il quale imposta il canovaccio narrativo di Tesis su una affascinante atmosfera metropolitana, ad un passo dalla claustrofobia indotta una volta che l’obiettivo inizia ad aggirarsi per i corridoi universitari, alla quale giovano una sapiente costruzione delle psicologie dei personaggi e soprattutto una salutare rinuncia all’effetto granguignolesco. Stratagemma quest’ultimo che consegna alla suspense le chiavi per terrorizzare lo spettatore esclusivamente attraverso la certezza del non visto e la sensazione dell’immaginato. Un modus operandi classico, di attenta scuola “hitchcockiana”, che Amenábar mette in pratica con preparata maestria, inseguendo linguaggi cinematografici tradizionali ma sempre efficaci: «Il film orienta il desiderio del pubblico nella direzione precisa in cui si orientano i protagonisti ed è a partire dalle difficoltà per la realizzazione di questo desiderio condiviso che la narrazione crea i suoi momenti cruciali. Dai tempi di Griffith, il 17
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ritardo nel conseguimento degli obiettivi e la catena di avversità che ne condiziona la risoluzione non soltanto si impongono come base per l’articolazione del racconto classico, ma costituiscono una delle condizioni fondamentali per raggiungere il successo nella sua ricezione. Se la narrazione filmica nell’insieme è determinata dal movimento dei personaggi posseduti dal desiderio, è logico che l’esasperazione delle difficoltà per realizzarlo sia diventata la forma più caratteristica della suspense3». Realizzare un desiderio. Attori e pubblico vogliono quindi la stessa cosa, Alejandro Amenábar ne è consapevole e non è un caso che prima di addentrarsi nella sottotrama di Tesis rompa il ghiaccio con un’efficace presentazione di chi prenderà parte alla vicenda, così da gettare le corrette basi empatiche tra pubblico e interpreti attraverso la riuscita caratterizzazione di questi ultimi («Noi ci identifichiamo con i vari personaggi, viviamo la loro stessa vita, ma tuttavia in modo non pericoloso: perché il piano della realtà cinematografica è un altro piano, perché vi è cioè un distacco fra questo piano e quello della realtà effettiva […]. La situazione cinematografica […] possiede tutta la sua efficacia emotiva proprio in forza della possibilità d’identificazione che essa presenta4»). Da un lato Angela, studentessa modello tutta casa e libri, dall’altro Chema, nerd solitario con una viscerale passione per il cinema di serie Z. Quella effettuata dal cineasta ispanico non è affatto una scelta causale, in quanto Angela e Chema rappresentano il campione in carne ed ossa delle categorie alle quali si rivolge il film. Tesis è cinema dalle ambizioni intellettuali, ma che si nutre di quanto il cinema stesso spesso e volentieri relega a visioni sconsigliate o, nel migliore dei casi, adatte esclusivamente ad un pubblico alla ricerca di emozioni forti e a buon mercato, che non bada alla forma, bensì soltanto ad una stomachevole sostanza adatta a soddisfare pruriti e bisogni di un pubblico di seconda e dimenticata lega. Da sottolineare, a tal proposito, il primo incontro tra i due. Angela viene scoperta dalla macchina da presa mentre è intenta a fare un break dalle lezioni nell’area bar della facoltà di Scienze della Comunicazione, sola al suo tavolo e assorta nella sinfonia classica che proviene dal suo walkman. Chema, dal canto suo, le viene incontro, anch’esso con le cuffie alle orec3 4
Xavier Perez, La suspense cinematografica, Roma, Editori Riuniti, 2001, pag. 30. Ivi, pag. 52
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chie, dalle quali fuoriesce una valanga di accordi distorti dal tipico stampo heavy metal. Paradiso e inferno, quiete contro baccano, cultura “alta” contrapposta ad intrattenimenti musicali sulla carta decisamente più “bassi”. Non una parola, soltanto un gioco di sguardi e di intese, cesellate da un montaggio musicale: la coppia, naturalmente, funziona proprio perché composta da elementi agli antipodi, quindi straordinari nella loro attraente diversità, l’incrocio dona equilibrio alla pellicola spostandola quel tanto che basta dalla parte degli appassionati di cinema di serie B, che si rivedono in Chema, nei suoi tic, nelle sua sboccata arroganza, nella sua “illegale” collezione di vhs, scientificamente collezionate e catalogate, custodite al sicuro di un appartamento buio, polveroso, traboccante chincaglierie cinefile d’ogni genere, dove gli scaffali coccolano la polvere mai rimossa. Obiettivo dichiarato di Amenábar è quello di gettare i due, Angela e Chema, nella più riconoscibile delle situazioni “hitchcockiane”, ovvero quella che prevede il protagonista suo malgrado coinvolto in un susseguirsi degli eventi inatteso, indesiderato e più grande di lui. Una volta attivata l’empatia con lo spettatore al regista non resta che introdurre il tema, la videocassetta snuff, e procedere con lo sviscerare i vari gradi d’applicazione della suspense cinematografica: «La produzione di sequenze in cui sia attivata la sospensione per simpatia prevede che lo spettatore formuli costanti ipotesi che, a partire dal limitato margine di conoscenza concessogli, fanno sì che s’interroghi con urgenza sulle possibilità che l’eroe ha di realizzare i suoi desideri. Noel Carrol sostiene in tal senso che “la suspense si verifica quando un risultato morale è improbabile e, al contrario, non si verifica quando un risultato immorale è probabile”5». Alejandro Amenábar, quindi, utilizza per la sua opera prima uno stratagemma finalizzato alla tensione emotiva dello spettatore riconducibile alla macro classificazione effettuata da Jacques Gerstenkorn e inerente alle categorie della suspense: “le grandi minacce”, che Xavier Perez ribattezza con l’espressione “spada di Damocle”: «Qualunque segmento classico si può iscrivere nel primo modello, quello della “grande minaccia”, un effetto di “spada di Damocle” che può assumere forme di lotta corpo a corpo, di inseguimento, di attesa di un gesto o di una parola che permettano il com5
Gino Frezza, Fino all’ultimo film, Roma, Rditori Riuniti, 2001, pag. 224.
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piersi di un desiderio o, infine, di una qualunque situazione drammatica che comporti un contrasto tra la situazione vissuta dal personaggio e quella che noi desideriamo per lui e in cui, che vi sia o no un’esplicita corsa contro il tempo, si vive sempre un desiderio di soluzione urgente. È nella natura spaziale e temporale della situazione che questo desiderio prende forma, ed è lì che noi dobbiamo trasferire il nostro interesse6». Come sarà a questo punto ben chiaro, il desiderio inseguito come una chimera dai protagonisti di Tesis, e di rimbalzo dagli spettatori del film, risiede in superficie nell’individuazione dell’autore del film snuff e del suo mandante, in profondità nella ricerca di una risposta al perché tali immagini riescano nell’impresa di attirare, vuoi per gusto o per studio, spettatori più o meno insospettabili; al fine di riflettere sul significato della morte attraverso immagini estreme, in contrappeso tra liberatoria catarsi e semplice gusto per il macabro. A chi, insomma, spetta il compito di farsi carico di un fardello ideologico tanto pesante quanto sfuggente alla presa, in bilico tra rifiuto ipocrita della realtà (la sferzata finale atta a smascherare la falsa morale dei media generalisti e di conseguenza a ricontestualizzare i confini etici di chi si siede sul divano per assistere a tali informazioni) e consapevole accettazione di un destino illuminato e intellettuale (le due figure degli insegnanti Figueroa e Castro, la prima introduttiva, la seconda per certi versi risolutiva). Un carico di lavoro non da poco, che Amenábar centellina in Tesis a partire dalle prime inquadrature, che ci mostrano Angela intenta a raggiungere l’università via metropolitana. Un tragitto semplice e ormai familiare, ripetuto fino alla noia durante gli anni di studio, quel giorno interrotto da un lugubre fuori programma. Il suicidio di un uomo costringe il personale di bordo a interrompere la corsa del treno e dirottare i passeggeri, Angela lascia il suo posto e s’incammina verso l’uscita della stazione: di fronte a lei un capannello di curiosi non appena varcata la soglia del vagone, incuranti delle raccomandazioni degli addetti ai lavori, si accalcano con gli occhi rivolti ai binari. Angela è visibilmente combattuta, cerca di distogliere lo sguardo ma alla fine cede alla tentazione e si affaccia verso il cadavere presumibilmente straziato della vittima senza però riuscire a guardarlo: una mano la trascina via, incitandola a circolare. Una sequenza, quella iniziale, 6
Ivi, pag. 118.
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che rappresenta il bignami intenzionale dell’intero percorso filmico di Tesis, step di partenza nell’evoluzione del quale Amenábar introduce temi e tecniche che verranno sviscerati con più dovizia di particolari durante il dipanarsi della vicenda («Se c’è qualcosa che mi porta a seguire una traiettoria, è provare a mostrare un luogo figurato dove non ci sono né buoni né cattivi, bianco o nero... questo aspetto mi attrae ed attira la mia riflessione: cos’è buono? Cos’è cattivo? Angela è attratta da un lato oscuro, qualcosa che è sempre presente nei miei film7»). È chiaro fin da subito quanto il regista intenda riflettere sulla morte e sulla sua raffigurazione/rappresentazione, scandagliando il binomio repulsione/curiosità tanto negli atteggiamenti quotidiani del singolo (l’episodio alla stazione), quanto in una situazione prettamente cinematografica come quella relativa alla scoperta di uno snuff movie. Amenábar dichiara il suo obiettivo praticamente a partire dai titoli di testa, coinvolge subito chi guarda prendendolo per mano, e se per dare risposta all’interrogativo maggiormente filosofico/morale del film bisognerà attendere le ultime battute (perché ciò che dovrebbe trasmettere disgusto si trasforma in una calamita d’attrazione anche nell’animo e nella mente di chi si fa portatore, come Angela, di un pensiero morigerato?), è chiaro fin da subito quali siano gli escamotage e le scelte stilistiche adottate dall’autore per attirare lo spettatore. Il progetto Tesis viene concepito come una privazione dello spettacolo visivo attraverso il reiterato utilizzo del fuori campo: lo scopo di Amenábar, quindi, corrisponde alla ferma volontà di frammentare ciò che Metz definiva significante “percettivo”, sottraendo a questo le potenzialità visuali al fine di esaltarne le potenzialità uditive. «Per giungere al destinatario il cinema organizza una complessa trama di significati, diretta alla nostra vista e al nostro udito e che combina sistemi linguistici fortemente codificati (il linguaggio orale, registrato sulla banda sonora, o il linguaggio scritto su qualche supporto che sia captato visivamente dalla cinepresa). In tal modo esibisce un amplissimo universo di oggetti visivi e di suoni che, pur essendo stato sottoposto ad una radicale e discriminante selezione, è per eccesso non del tutto agguantabile a causa del tempo di percezione, irreversibile, di cui lo spettatore dispone […]. Ogni spettatore abituato a guardare e a decodificare testi filmici riconosce quelle figure che la retorica del film indica 7
Clarissa Montilla, art. cit.
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come prioritarie (di solito i personaggi, ma anche determinati oggetti, suoni e persino contrassegni stilistici) e concentra la sua attenzione su di esse. Occultare informazioni in maniera dissimulata è relativamente facile per la narrazione cinematografica, ma è altrettanto facile sottolineare questo occultamento: basta evidenziare un fuori campo, annunciare che una determinata informazione sta per prodursi e poi differirla o non darla8». Amenábar, quindi, alletta chi guarda ma non lo soddisfa appieno nell’immediato (come da rispettoso allievo qual è di Hitchcock, maestro parecchio restio a mostrare l’atto violento: «Secondo me l’orrore va suscitato nella testa dello spettatore, senza metterlo necessariamente sullo schermo. Tempo fa ho girato un film, piuttosto ironico, intitolato Psycho; molti, dopo averlo visto, hanno commentato: “È terribile”, “Che orrore”, e così via. Per me, però, contiene degli elementi cinematografici davvero eccezionali. Non era altro che un grosso scherzo, e sono rimasto inorridito nel vedere che in parecchi l’avevano preso sul serio. Doveva far urlare e strillare il pubblico e via dicendo, ma non più di quanto avrebbe urlato e strillato andando sulle montagne russe. All’inizio di questo film c’è una scena spaventosa in cui una ragazza viene uccisa nella doccia; l’ho concepita molto violenta apposta. Poi, però, nel resto del film, c’è sempre meno orrore fisico, eppure la tensione nella mente degli spettatori aumenta in modo considerevole, perché l’ho trasferita dallo schermo alla loro testa.9»), piuttosto lo solletica fino a quando è concesso dal suo voyeurismo, lavorando in sottrazione con lo scopo di stimolare, attraverso il non visto e quindi il personale ponderato, le coscienze degli spettatori attraverso la sensazione stimolata dall’immaginazione, percorso questo che i filmologi definirebbero “sinestesico”: «Pur privo di materialità (“esiste” come sappiamo, solo nella proiezione), il film è un oggetto sensibile e acquista valore significativo attraverso i sensi. […] Tutta la persona dello spettatore è coinvolta nell’attività, se le motivazioni e le aspettative personali orientano la scelta di assistere ad una particolare proiezione cinematografica, una volta in sala è il film ad orientare la fruizione: l’oggetto prende il sopravvento, disponendo intorno al soggetto un mondo che lo sollecita a reagire10». 8
Xavier Perez, op. cit., pag. 26. Annamaria Martinolli, www.fucinemute.it, Alejandro Amenábar e Alfred Hitchcock. I due volti della paura, 2001. 10 Roberto Nepoti, op. cit., pag. 54. 9
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Quello adottato dal regista è un modus operandi decisamente classicheggiante: suggerire anziché mostrare, seguendo l’esempio della tradizione hollywoodiana, che nel fuori campo come principale produttore di suspense trovò uno specialista in Jacques Tournier, celebre regista di scuola RKO famoso per l’attitudine a potenziare questa tipologia di messa in scena, grazie ad un pugno di film (Il bacio della pantera, Ho camminato con un zombie, L’uomo leopardo) durante i quali mai si assisteva fisicamente ai crimini commessi, bensì se ne avvertivano le conseguenze di tensione attraverso l’omesso e il non visto. In Tesis Amenábar stipula una sorta di contratto creativo con il destinatario della pellicola, ben conscio del fatto che: «Se analizziamo lo sviluppo di un racconto dal punto di vista della trasmissione delle informazioni, si deve constatare che esso, fondamentalmente, funziona attraverso un meccanismo di domanda e risposta. La narrazione termina quando la domanda “e che cosa avviene dopo?” non ha più significato, quando tutto il potenziale dei significati esposti dal “c’era una volta” si è risolto nella felice chiusura “e vissero felici e contenti”. Fino ad allora, il destinatario non smette di sentire un instancabile desiderio di sapere: ha accettato il contratto iniziale che lo invitava alla progressiva consunzione (e parallela consumazione) del racconto, e non si arrende fino a quando l’opera non ha terminato la sua esposizione informativa con il soddisfacimento, se non di tutte le domande almeno di quelle che, generalmente, egli considera sufficienti a ritenere concluso il suo rapporto con il film11». Una convinzione che se applicata a Tesis certifica quanto Amenábar, nonostante si trovi alla sua prima esperienza con il lungometraggio, abbia già fatto sue le basi per così dire “proppiane” del racconto per immagini, tanto da giocare con chi guarda, sapendo in partenza di riuscire nell’intento di soddisfarlo comunque, anche se nella maniera meno diretta e quindi più sottile possibile, in quanto: «Lo spettatore è soltanto una mente condotta attraverso i sensi, fin dal primo stimolo audiovisivo, al fine di ampliare le conoscenze circa il determinato mondo della finzione che il racconto cinematografico illumina nel suo inarrestabile proseguire12». Tale atteggiamento assunto da parte del regista viene palesato nel momento in cui Angela e Chema s’imbattono per la prima volta nella 11 12
Xavier Perez, op. cit., pag. 48. Ivi, pag. 73.
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videocassetta illegale. Allo sguardo dello spettatore viene concesso il minimo indispensabile, appena qualche passaggio, mentre l’intera impalcatura sensoriale dell’accaduto spetta al controcampo effettuato sui primissimi piani dei due studenti, che fruiscono della violenta visione mentre intorno a loro riecheggiano le grida della vittima filtrate dalle casse audio del televisore. La zona di tensione di Tesis, quindi, non è fisica, bensì astratta, percettiva e sensoriale, di certo non tangibile. Sullo schermo potrebbe accadere qualunque cosa, ma la rappresentazione di ciò non viene assegnata allo sguardo, ma all’immaginazione. La visione per così dire in compagnia, a ragion del vero, non è che una conferma di quanto tentato in precedenza da Angela la quale, prima di cedere alla curiosità di Chema tenta, invano, di assistere al contenuto della vhs in casa, da sola, approfittando dell’assenza dei genitori. La voglia di guardare e al tempo stesso l’impossibilità di farlo (ovvero il sottile gioco tra psicologia reale e artificio meccanico indirizzato alla suspense sul quale si regge buona parte dell’equilibrio filmico) sono talmente alte e contrastanti da convincere la studentessa ad uno stratagemma: registrare su di un’audiocassetta le grida provenienti dal televisore, così da poterle ascoltare in cuffia: privandosi delle immagini ma non delle sensazioni che queste suscitano. Chiaro, a questo punto, il riuscito intento di Amenábar: Angela e Chema altro non sono che spettatori, di cui Tesis si serve per mettere in pratica il suo raffinato quanto più personale possibile esercizio di stile, votato a trasformare l’intera pellicola in un gigantesco meccanismo metacinematografico, nel gioco dei ruoli del quale agli interpreti spetta il medesimo trattamento di chi assiste trepidante dall’altra parte dello schermo: ascoltare, non vedere, immaginare, spaventarsi o addirittura terrorizzarsi, sopratutto quando si è soli. L’ambizione del regista va decisamente oltre l’artificio, perché in Tesis è il cinema tutto a venir coinvolto, tanto sul versante tecnico quanto sul fronte filosofico. 24
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Un processo di assorbimento pressoché “circolare”, dove c’è persino posto per lo studio delle macchine da presa e per i loro mille, trasversali utilizzi. Chema, dopo aver visto e rivisto il filmato proibito, individua in un taglio di montaggio la prova che per le riprese sia stato utilizzato il modello di camera XT-500 (motivo del sospetto l’optional dello zoom digitale assicurato da quel modello specifico di cinepresa), risale alla produzione copiosa e nascosta di snuff movie visionando i filmati delle telecamere di sicurezza a circuito chiuso, le stesse che immortalano Angela mentre sfila dal videoregistratore di facoltà la vhs che ha ucciso il corpo ancora caldo del professor Figureoa. Sempre Angela, infine, si presta al depistaggio relativo all’intervista fittizia per racimolare notizie sulla scomparsa compagna Vanessa, finendo inquadrata lei stessa nell’obiettivo potenzialmente assassino, prima di capovolgere definitivamente la ruolizzazione spettatore-interprete entrando lei stessa, per ben due volte, sul set di uno snuff, finendovi immortalata ma con miglior sorte della collega uccisa. Tutto questo senza dimenticare la ripresa notturna di un segretamente invaghito Chema, che coglie notte tempo il profilo di Angela mentre riposa. Ciò che interessa ad Amenábar non è tanto mostrare l’incubo agli occhi di chi guarda, bensì insinuare il dubbio, trasportando lo spettatore in una sorta di zona franca dove realtà e finzione giocano a prendersi e a cedersi vicendevolmente la scena, perfettamente sincronizzate; sfruttando appieno tutte le potenzialità che la macchina cinema consente, utilizzando per questo scopo tecniche risapute ai più (la suspense) e mitologie più o meno popolarmente riconosciute (lo snuff). Nonostante un’enciclopedica conoscenza di segni e simboli, Amenábar sembra sfruttare le conoscenze cinematografiche a sua disposizione piuttosto che replicarle in maniera calligrafica, in quanto lo scopo ultimo della sua prima fatica dietro la macchina da presa non è affatto quello di spiazzare percettivamente chi assiste (o almeno non esclusivamente), bensì un più profondo ragionamento metacinematografico, atto a condurre all’interno stesso della macchina cinema, delle sue esigenze, delle sue difficoltà, delle sue utopie più o meno immorali; e di conseguenza ad analizzare il riverbero di queste ultime, che si riflette inevitabilmente sui suoi fruitori e sul loro gusto, rivelato o nascosto che sia. Quando Angela mette per la prima volta piede nell’appartamento di Chema, s’imbatte in una polverosa collezione di cianfrusaglie cinefile e, appena prima che il compagno di studi le consigli di guardare il docu25
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mentario “Fresh Blood” per farsi un’idea sui video che lui stesso può fornirgli per ultimare la tesi, si lascia sfuggire un: «Ma c’è davvero qualcuno che guarda questa roba?» – pretestuosa, presuntuosa e ignorante domanda alla quale Chema risponde laconico: «Tu per esempio». Un passaggio che precede di qualche sequenza il “sermone” che il professor Castro sciorina ad Angela pochi minuti prima che Chema la allerti, via telefono, riguardo i pericoli che corre ad interagire con la persona che in quel momento ha davanti: «La violenza è comunque una cosa innata nell’animo di tutti. Non possiamo pensare di censurarla in ogni tipo di film» e ancora: «Il regista deve riuscire a capire quello che il pubblico vuole avere, questo è il principio base di ogni forma di spettacolo». Dietro il battibecco tra due colleghi costretti ad interagire attraverso quello che nasce come indesiderato e coatto scambio di informazioni, o meglio ancora tra le righe di una brevissima lezione personale di un professore ad una studentessa, si annida buona parte della morale stessa del film, che Amenábar estrinseca tra i passaggi di un riuscito scambio di battute. Il cinema e i suoi derivati sono hobby per voyeur, una dipendenza legalizzata, all’aumentare dello choc promesso dalla visione cresce esponenzialmente la curiosità, e di conseguenza l’irreprimibile desiderio da parte del fruitore di assistervi, consequenzialmente vengono meno quei freni inibitori derivanti da una presunta morale che guida la scelta delle pellicole: «Si può affermare che in Tesis gli snuff-movie siano quello che Hitchcock chiamerebbe mcguffin... un pretesto per criticare, denunciare e riflettere sul contenuto e sul trattamento che alcuni programmi televisivi operano sulla violenza. Affrontare questo tema in un’atmosfera televisiva avrebbe reso il trattamento del tema in una forma troppo ovvia. Esistono molti film in cui si denuncia la televisione, anche fatti molto bene, ma ritengo che sia troppo ovvio criticare qualcosa che è assolutamente criticabile: non è necessario denunciare ciò che tutti i giorni vedo in tv perché già sappiamo che si tratta di spazzatura. Caricare il film di questo elemento mi sarebbe sembrato piuttosto facile e per questo ho preferito provocare la riflessione, guardare da vicino l’impatto della violenza sullo spettatore. Ciò che è assolutamente criticabile e condannabile è la drammatizzazione della violenza attraverso un mezzo informativo, ciò che io chiamo lo snuff-sentimentale13». Per risve13
Clarissa Montilla, art. cit., 2005.
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gliare questo latente desiderio basta poco, la traccia di una tesi di laurea o l’incontro con un coetaneo dai gusti e dalle passioni diametralmente opposte alle tue, in questo caso Chema: Caronte solitario, emarginato e collezionista pronto ad aprirti gli scaffali di nastri fino a poco prima proibiti, ma non per questo segretamente desiderati. E cosa c’è di più estremo e liberatorio di uno spettacolo violento, senza censure, presumibilmente “reale” o abbastanza simile al concetto di realtà per liberare la catarsi spettatoriale fin lì inconsapevolmente repressa? Un interrogativo che introduce e al tempo stesso chiarifica, come meglio non si potrebbe, la principale peculiarità di Tesis, oltre che offrire il primo e concreto spunto di riflessione intorno a tutta la produzione cinematografica di Amenábar che, come il suo esordio dietro la macchina da presa certifica ha inteso, fin dai suoi primi, giovani passi, riflettere sulla visone della morte attraverso i meccanismi e le chiavi di lettura insite nella settima arte. Quello messo in atto dall’autore è un certosino lavoro determinato a coinvolgere, all’interno delle dinamiche filmiche, ogni potenzialità insita nella macchina cinema. Prezioso, in questo caso, il percorso effettuato intorno ai generi e alle loro regole. Non c’è dubbio che Alejandro Amenábar, prima che regista, nasca cinefilo: tanto nell’onnivoro e formativo consumo di film quanto nella dimostrazione di una mentalità estremamente aperta, indirizzata a carpire i segreti dei vari filoni cinematografici e quali strade filosofiche, attraverso la loro applicazione filtrata da una coscienza autoriale, possano rivelarsi il più congeniale possibile ad un percorso estremamente personale. Tesis ne rappresenta il primo vagito, esordio che per certi versi si fa già portatore di sospetti definiti, di obiettivi preposti e strategie limpide tramite le quali raggiungerli, la dichiarazione d’amore adolescenziale e studentesca di un innamorato del cinema, talmente grande e spassionata da tentare di varcare i confini predefiniti, quasi a voler sconfinare nella realtà attraverso teorie destinate inizialmente alla finzione. Perlomeno sulla carta. Non un testamento insomma, ma una concreta dimostrazione di un cinema pregno di personalità, dal quale è impossibile non partire se si intende arrivare al cuore di Mare Dentro e Agorà, pellicole decisamente più sfuggenti e molto più in vista del lontano esordio, nonostante ciò legate a quest’ultimo da un resistente filo rosso. Non esiste fatica cinematografica firmata da Alejandro Amenábar tra le righe della quale non si palesi la presenza 27
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della morte, vera ossessione del cineasta spagnolo e Tesis non fa certo eccezione. Per questo motivo il suo esordio non eccede in barocchismi tecnici, limitandosi a mettere in pratica la lezione hitchcockiana senza per questo estremizzarla alla maniera di un De Palma, regista che per la convinzione metacinematografica propria di molte delle sue opere più conosciute, avrebbe tranquillamente potuto dirigere un film come Tesis, magari accentuandone persino virtuosismi e cura dei particolari, senza però riuscire a trasmettere lo stesso tipo di messaggio ed emozioni: in quanto figlie di una sensibilità e di una missione autoriale decisamente agli antipodi rispetto a quella del maestro americano. Lo scopo di Alejandro Amenábar è quello di contestualizzare la dipartita all’interno di un contesto cinematografico, immortala le gesta o il destino di personaggi ad un ciuffo d’erba dal trapasso, creature concepite nella mente dell’artista dal riverbero dei fantasmi di un passato lontano ma mai volutamente rimosso. La dimensione per certi versi funerea del cinema, prima che in The Others, occhieggia già in Tesis, dove il legame tra scomparsa e luoghi di fruzione della macchina cinema è fin troppo significativo e evidente. I film vengono conservati al buio, quasi si trovassero non in una videoteca, bensì in un loculo, avamposto sepolcrale accessibile soltanto a pochi eletti: l’archivio universitario è un ambiente nascosto, privo di luce, dove è possibile che un insegnate perda persino la vita svolgendo buona parte del suo lavoro: guardare un film. Una chiave di lettura rafforzata dalla presenza di un vecchio scantinato, raggiungibile scendendo ancora più in profondità, quasi ci si trovasse di fronte alle segrete di un vecchio maniero (spazio che Angela e Chema esplorano mentre quest’ultimo racconta alla prima la favola della principessa e del ranocchio, guarda caso un’altra storia di morte: «Oltre ad essere una scena utile dal punto di vista narrativo, per mostrare ciò che Chema prova per Angela, mi interessava approfondire il tema della luce come elemento fondamentale. Credo che la luce, assieme alla morte, sia un tema ricorrente nei miei film, molto importante anche a livello espressivo ...la luce che finisce poco a poco... un racconto che mi piacque molto e che mi fece piangere tanto da piccolo fu proprio La piccola fiammiferaia di Andersen, in cui la protagonista finisce lentamente tutti i fiammiferi e muore di freddo14»), dove è allestita la stanza di montaggio affinché le pellicole 14
Clarissa Montilla, art. cit.
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sulla morte, cioè gli snuff, possano essere rifiniti e confezionati prima di venir immessi sul mercato clandestino ma estremanente redditizio. Per Amenábar, sarà a questo punto chiaro, il cinema non rappresenta altro se non una riflessione sulla morte, da estrinsecare fin dall’esordio attraverso le modalità, i generi e i meccanismi stessi che la settima arte mette a disposizione dei propri autori. Da qui la riflessione sullo snuff, leggenda mortale per eccellenza, armata da una posizione di studio ed esperienza riassunta nella figura del professor Castro, docente di Psicologia degli Audiovisivi di giorno, mandante e montatore di filmati brutali e illegali di notte, lo stesso materiale commissionato prima e pagato a peso d’oro poi da un pubblico esigente, intorno ai gusti del quale il dotto professore può mettere in pratica, estremizzandola, la sua corretta ma in questo specifico caso distorta convinzione: «Bisogna dare al pubblico quello che chiede». Alejandro Amenábar, attraverso l’interpretazione di Xabier Elorriaga, introduce la metafora portante del film (tutti amiamo latentemente la violenza e sopratutto desideriamo guardarla, a patto che i canali di fruizione siano accettati e legalizzati. Non ci mettano, in conclusione, a confronto con la nostra coscienza superficiale, la stessa che punisce noi e il nostro desiderio), prima di lasciarla deflagrare nell’algida sequenza finale ambientata nelle corsie di un ospedale, sui letti del quale inermi ma per nulla scioccati pazienti si accingono a guardare alcuni estratti dei video sequestrati dalla polizia e introdotti dalla monotona e per nulla turbata voce della conduttrice televisiva; e arricchisce Tesis di una nascosta sfumatura personale. Non è un caso che Xabier Elorriaga, mefistofelica mente nella cui filosofia deviata si annida il senso stesso dell’opera prima di Amenábar, interpreti il ruolo di un personaggio dal cognome Castro. Difficile non scorgere in questa singolare coincidenza un volontario richiamo al primo ministro cubano, rivoluzionario sì ma anche “leader 29
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maximo”, quindi figura borderlaine a quella del dittatore, guarda caso la stessa tipologia di carica autoproclamata che ha segnato l’infanzia di Amenábar fino alla fuga dal Cile di Pinochet per approdare alla Spagna del dopo Franco. Fidel Castro presta il suo cognome ad una delle figure chiave del suo esordio, proprio lui, quello che i detrattori definiscono come longevo perché forte di un reiterato utilizzo della forza mista a metodi coercitivi e repressivi. Un capo di stato votato alla protezione di quanto conquistato attraverso la creazione di vere e proprie categorie riconducibili a nemici cubani, nello specifico: contro rivoluzionari, fascisti o agenti della CIA. Un primo ministro spesso sotto bersaglio delle critiche da parte di associazioni per la tutela dei diritti umani, che gli imputavano di reprimere sistematicamente il dissenso politico mediante processi e carcerazioni arbitrarie, sorveglianza e licenziamenti a motivazione politica: accuse alle quali Castro replicava con la giustificazione che la sua Cuba non ha mai detenuto prigionieri politici, bensì criminali che hanno commesso atti contro-rivoluzionari fomentati da rifugiati aizzati dalla CIA. Una figura controversa, che solo nel 2010 ha in parte rinnegato quanto segue: «Agli omosessuali non dovrebbe essere concesso di stare in posizioni dove potrebbero essere capaci di mal influenzare i giovani. Nelle condizioni in cui viviamo, a causa dei problemi che il nostro Paese deve affrontare, dobbiamo inculcare ai giovani lo spirito della disciplina, della lotta, del lavoro [...]. Noi non arriveremmo mai a credere che un omosessuale possa incarnare le condizioni e i requisiti di condotta che ci permetterebbe di considerarlo un vero Rivoluzionario, un vero Comunista aggressivo. Una deviazione di questa natura si scontra con il concetto che abbiamo di ciò che un militante Comunista deve essere15». Posizioni che non devono aver lascito indifferente il giovane Amenábar, sopravvisuto al Cile di Pinochet e scampato alla Spagna di Franco, rigurgiti di un passato mai dimenticato riversati in Tesis tramite l’interpretazione di Xabier Elorriaga: alias il professor Castro, uomo insignito del potere di parlare da un pulpito, di istruire menti vergini pronte ad assorbire le sue concezioni come spugne. Uomo di cultura di giorno, trafficante di morte di notte, quando si spengono le luci dell’università e si accendono quelle del suo laboratorio nascosto. 15
Fonte: wikipedia.
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Vero come la finzione: Snuff movies Gli snuff ritraggono l’uccisione di un essere umano: un sacrificio umano (senza l’ausilio di effetti speciali o d’altri espedienti) compiuto in forma di film e diffuso tra una rozza minoranza a scopo d’intrattenimento. Killing for Culture: Death Film from Mondo to Snuff, DAVID KEREKES E DAVID SLATER
«Lo scenario prevede che la vittima, posta dinanzi a una macchina da presa, subisca sevizie ed abusi fino al raggiungimento del suo reale decesso. Per coloro che ancora ne ignorassero l’esistenza, questa è, in sintesi, la filosofia degli “snuff” (anche noti come real thing), filmati clandestini destinati a documentare, per un pubblico assai ristretto e dai gusti molto particolari, la prevaricazione totale dell’essere umano, codificando la sua morte come atto di gratificazione sessuale16». Queste le premesse: chiare, nude e crude, brutalmente semplici, proprio come l’universo al quale intendono fare riferimento. Entrare nel contesto snuff non è cosa agevole e priva di ripensamenti, ma in questo caso necessaria, almeno se si vuole comprendere fino in fondo il senso di Tesis: pellicola che possiede un significante autoriale preponderante, direttamente riconducibile all’Amenábar pensiero, ma al tempo stesso può farsi vanto di un significato altrettanto degno di nota, a sua volta ricontestualizzabile in un preciso e riconoscibile filone cinematografico: pregno di titoli forti, ma dal valore critico prevalentemente indiscutibile, intorno ai quali vale la pena concedere qualche pagina di considerazione. Gli snuff movies sono una leggenda metropolitana, o almeno ad oggi non vi è prova concreta della loro esistenza, nonostante nulla vieti che i metodi di realizzazione e di relativa distribuzione immaginati dalla fantasia cinematografica non possano di fatto essere messi in pratica. Anzi, nulla di più facile potrebbe accadere. Basti pensare alla semplicità di un triangolo che prevede un mandante economicamente in grado si sborsare cifre elevate, degli autori senza scrupoli e una o più vittime inconsapevoli. Detto e sostenuto ciò non è scopo ultimo di questo paragrafo addentrarsi nei meandri della rete, mettere mano a vecchi casi di cronaca che pure farebbero pensare a... (spulciando bene se ne troverebbero anche in Italia), non c’è, insom16
Daniele Aramu, Snuff movies: Ciak... si muore! «Nocturno Dossier 4», pag. 52.
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ma, l’intenzione, pur allettante, di andare volontariamente fuori tema al fine di addentrarsi nel reale assoluto, magari andando alla ricerca del famigerato dossier aperto a metà degli anni ’70 dall’FBI e chiuso comunque per mancanza di prove; parimenti non vi sarà accenno o approfondimento alcuno nei confronti di episodi potenzialmente fuorvianti, come il suicidio di Bud Dwyer o l’omicidio di Emilio Nuñez. Stesso dicasi per la cronistoria delle imprese riconducibili ad assassini seriali come Armin Meiwes, Charles Ng e Jeffrey Dahmer: poco più che psicopatici convinti di aver filmato le loro gesta di morte al fine di guadagnarne del denaro attraverso la vendita. Ciò che interessa davvero è comprendere i perché e i per come di una mitologia che ha innegabilmente influenzato la stesura di pellicole di un certo rilievo, per chiudere il cerchio ritornando all’esordio dietro alla macchina da presa di Alejandro Amenábar: senza dubbio uno degli esperimenti meglio riusciti intorno al tema. Rimarrà deluso, quindi, chi approccerà a queste righe aspettandosi l’indice dettagliato di quanto immortalato in Emanuelle in America di Joe D’Amato o una meticolosa ricostruzione della «famigerata e disturbante» serie giapponese Guinea Pig; non certo per mancanza di rispetto o considerazione nei confronti dei film appena citati, oppure a causa di una discutibile scelta morale dell’autore, ma semplicemente perché il punto è un altro, distante dallo studio di pellicole confezionate affinché il sentito dire e il macabro immaginato venga esclusivamente replicato con dovizia di rivoltanti particolari. Cosa c’è di così affascinante e curioso nella leggenda degli snuff movies? Con tutta probabilità la meta sempre inseguita dal cinema, ovvero la prevaricazione della finzione che sfocia nella bruta realtà. Un’utopia che diventa concreto ed estremo dato di fatto. Gli snuff movies permettono di riflettere sul cinema e al cinema stesso consentono di autoanalizzarsi: tanto nella sua filosofia quanto nella sua attuazione pratica e squisitamente tecnica, senza tralasciare il ruolo svolto dallo spettatore, il quale chiede un determinato tipo di visione e spesso e volentie32
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ri lo ottiene. Un tema da prendere con le dovute molle, vuoi per il rischio di sfociare nel torbido o, peggio ancora, nel già detto, vuoi per la complessità di un’analisi estremamente schietta alla superficie, ma comunque multistrato da possedere altrettanta importanza critica e intellettuale una volta scesi nelle sue profondità di pensiero. Alle fondamenta del fenomeno snuff persiste senza dubbio l’attrazione nei confronti di una elementarità di realizzazione prima e fruizione poi, che risulta esserne il tratto distinguibile e al tempo stesso l’elemento di maggior attrazione: sapere cos’è la pochezza dello snuff sia in termini di allestimento che di attese e aspettative della visione rappresenta la sua vera forza, nessuna etica, nessuna estetica; tutti sono al corrente di come si realizza, tutti sanno cosa avverrà, eppure non esiste persona al mondo che, messa di fronte la possibilità di poter assistere a tali spettacoli, non tentennerebbe al pensiero di poterli guardare. Un intrattenimento aspettacolare, per un pubblico che chiede il massimo dal minimo: nessuna tecnica, alcun fronzolo anzi, più sporco e selvaggio è maggiore sarà il tasso di attrazione/gusto nel vederlo. Questo, in breve, ciò che intendeva comunicare Alejandro Amenábar attraverso la caratterizzazione del personaggio di Angela protagonista in Tesis, perché la complessità dell’interesse, manifesto o nascosto, nei confronti degli snuff movies, ha a che vedere direttamente con la psiche dell’animo umano, mai libera dalle sue inibite pulsioni come quando si trova a scioglierle in una sala buia, al cospetto di uno schermo cinematografico. L’animo umano è di natura voyeurista, si nutre dello spettacolo altrui, del pettegolezzo, di ciò che riesce a scorgere dal buco di una serratura. Lo snuff, così come i film costruiti attorno a tale fenomeno, regalano allo spettatore il piacere massimo, il godimento irripetibile, perché gli consentono di sganciarsi da una serie di confini morali che quotidianamente lo frenano e più la visione rasenta la realtà, o addirittura promette di raffigurarla senza fronzoli e artifici del caso, più la curiosità e il desiderio crescono. Per essere compresa a fondo, quindi, la leggenda metropolitana meglio conosciuta come snuff movie deve essere analizzata e studiata sui due versanti che corrono paralleli: la posizione dello spettatore e quella del cineasta. Il primo si vede servita su di un piatto d’argento la possibilità di essere veramente se stesso, di scendere a compromessi con il suo lato oscuro o con la sua naturale tendenza a trarre soddisfazione dalla visione altrui (in questo caso la più estrema), mentre il secondo può finalmente cimentarsi con l’utopia del 33
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cinema: cercare di ricostruire la realtà, quella vera, attraverso i meccanismi della finzione. Mettere al servizio del primo qualsivoglia espediente metacinematografico che la settima arte gli consenta di utilizzare, sfruttare insomma il cinema, le sue tecniche e le sue ossessioni al fine di dirigere opere per certi versi se non definitive comunque straordinariamente ambiziose in quanto ad intenzione di raggiungere il fine ultimo del lavoro dietro la macchina da presa, se non addirittura di scavalcarlo. Fare, in conclusione, del cinema attraverso il cinema, in un processo di condivisione mai così circolare e definito. Lo spettatore, dal canto suo, vede liberarsi di fronte a sé la via di sfogo a tutte le sue naturali pulsioni e inclinazioni. Lo fanno, una volta autorizzati a guardare dalla conduttrice televisiva, gli spettatori di Tesis, mettendo in atto un piacere passivo desiderato da chiunque e che molto, se non tutto, ha a che vedere con l’estrema sintesi dell’atto, scevro da qualsivoglia artificio filmico: oggetto grezzo dall’enorme attrattiva, tanto cinematografica quanto televisiva: «La commistione tra il bisogno di conoscere legato all’informazione e la ricerca della partecipazione emotiva personale della fiction. Da qui la televisione del dolore. Con la sua solida base produttiva e finanziaria. Il dolore fa audience, fa aumentare a dismisura il valore commerciale (in spazi pubblicitari) di una trasmissione. Nessuna mediazione, nessuna delicatezza. Quello che serve è la lacrima, lo strazio, lo scoop dato in diretta. La cronaca nera che diventa un reality show, ma senza la finzione del reality commerciale. La televisione del dolore costa poco e produce tanto denaro. E ha poco a che fare con la deontologia della professione giornalistica17». Perché: «Da quando la guerra in Vietnam è entrata nei salotti di tutto il mondo, attraverso il tubo catodico, le soglie del rappresentabile (e del tollerabile) sono andate in tilt, si sono viste costrette ad assetarsi costantemente sui nuovi parametri, spezzando per sempre il legame “mitizzante” fra la realtà narrata e le teorie della comunicazione. Chi di noi, davanti al quotidiano rosario di arti amputati e macerie fumanti, gentilmente offerto da tutti i canali all’ora di pranzo, non ha continuato a chiacchierare dell’Inter con il proprio partner? E vogliamo parlare del conseguente rovescio della medaglia? Vogliamo discutere per un attimo di pornografia televisa? Di buchi di palinsesto che vengono riempiti con buchi della serratura?18». Teorie che Tesis 17 Piero Orsatti, www.gliitaliani.it, La televisione del dolore e i cronisti che si fanno sbirri, 2010. 18
Andrea Bruni, Il cameraman e l’assassino, «Nocturno Dossier 4», pag. 62.
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contempla nel suo ambito intellettuale e mette concretamente in atto attraverso un finale praticamente orfano di battute, cristallino nella sua chiarezza nonostante la mancanza di spiegazioni espresse a voce. Sono le regole dello spettacolo, quelle sintetizzate in precedenza dal professor Jorge Castro, le stesse, ad esempio, che muovono la ricerca dei fruitori di pellicole pornografiche, macrogenere dai più ritenuto poco degno di nota ma sempre richiestissimo, sopratutto nella sua forma più amatoriale possibile. Anche in questo caso meno artificio c’è, maggiore è il desiderio di assistervi in quanto percepito come vero, reale, tangibile e, perché no, un giorno addirittura riproducibile da quello che una volta era un semplice guardone, pardon spettatore. Cinema dilettantesco, più che economico, fatto con poco o nulla ma estremamente reale nella sua messa in scena che, all’aumentare della rozzezza dei mezzi utilizzati, accresce l’interesse dello spettatore; di atti, in fondo, sempre si parla, che siano sessuali o mortali poco cambia. L’importante è che possano attrarre un pubblico di insospettabili, pronti a cibarsene tramite succulente portate una volta messi nella condizione di farlo. A tal proposito non risulterà casuale apprendere come la leggenda fenomenologica degli snuff movies sia legata a doppio nodo al cinema a luci rosse, o quanto meno al suo versante più estremo, clandestino e violento, quasi si volesse, con tale parallelismo, elevare al cubo una sorta di pornografia della violenza: tema intorno al quale si sono misurate alcune delle pellicole ispirate agli snuff più famose e meglio riuscite. Un percorso cronologico solo all’apparenza forzato, che si può far risalire al 1960, anno in cui Michael Powell dirige una sceneggiatura di Leo Marks dal titolo Peeping Tom, letteralmente guardone o voyeur, come ribattezzato nella versione francese. La sensazione prevalente è che se non proprio nella trama (un cineoperatore dall’infanzia difficile allestisce una macchina da presa dotata di un marchingegno capace di uccidere le ragazze che riprende facendo sì che queste vedano il proprio volto appena prima di morire), Tesis guardi molto al modello in questione, uscito nello stesso anno di Psycho e ricco di spunti metacinematografici ai quali il giovane Amenábar deve aver necessariamente prestato attenzione e tratto spunto: «Sin da quando ho iniziato a girare cortometraggi mi sono occupato della realtà vista da una videocamera: è come se l’immagine ripresa fosse ancora più reale della realtà, questo aspetto mi ha sempre interessato ed inoltre lo trovo molto espressivo». 35
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L’occhio che uccide (questo il titolo italiano) è immerso in un’atmosfera rarefatta e paranoica, come l’esistenza stessa del protagonista, costantemente soggiogata alla fruizione di immagini alle quali sono sottoposte persino le emozioni: provate “in differita”, figlie di un momento secondario al vissuto umano, cioè quello della visione, e mai dell’immediatezza dell’accaduto. Un prototipo, utile per rintracciare l’origine del già accennato e più volte ribadito gioco di specchi tra realtà e finzione, con la seconda ossessionata dal tentativo di inseguire la dimensione della prima sfruttando le peculiarità del mezzo cinematografico. L’occhio che uccide non è propriamente un film sugli snuff, ma sarebbe errato non considerarlo almeno tra i precursori del filone in questione: vuoi per alcune confessioni insite nelle battute chiave del protagonista Brian Esdale, indubbiamente vicine al teorema di Tesis («tutto quello che filmo lo perdo»), vuoi per uno status di culto guadagnato a fatica con il trascorrere degli anni. Peeping Tom, infatti, venne accolto così dalla critica non appena uscito: «L’unica maniera veramente soddisfacente di disporre L’occhio che uccide è prenderlo con la paletta e buttarlo subito nel gabinetto più vicino, tirando l’acqua. E anche così se ne continuerebbe a sentire la puzza19». Parole al vetriolo finalizzate a marchiare la pellicola come esclusivo e mal riuscito tentativo di exploitation, sorte comune a molti dei suoi successori, spesso bollati come immondizia cinefila per ciò che impunemente mostravano. Primo tra tutti Last house on dead end street, uscito nel 1973 e trasformatosi, per interi lustri, in vera e propria preda per collezionisti, a causa di una versione definitiva raramente mai così simile ad una chimera. I registi Victor Janos e Richard Maller mettono mano al primo canovaccio snuff che la storia del cinema ricordi (la delusione di un cineasta per il falso mondo dello spettacolo trova sfogo nell’esperimento di ritrarre morti reali all’interno di un’abitazione), dando alle stampe un film dai toni più che forti, dove il linguaggio tipico dello snuff («convenzionalità cinematografica alla ricerca della “real experience”, dal metacinema all’occhio della macchina da presa e dello spettatore, dalla ricostruzione alla rappresentazione20») sovrasta quello del modus operandi presunto mainstream. Last house on dead end street è un trionfo di riprese dilettantistiche, con il super 8 a farla da padrone, le luci accecanti e artificiali e un evolversi degli 19 20
Alex Stellino, L’Occhio che uccide, «Nocturno Dossier 4», pag. 54. Pier Maria Bocchi, Last house on dead end street, «Nocturno Dossier 4», pag. 55.
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eventi in perenne flashback e flashforward. Janos e Maller gettano le basi per merito di un’atmosfera che travalica la truculenta messa in scena, aprono delle porte insomma, le stesse varcate pochi anni più tardi da Michael e Roberta Findlay, autori di Snuff o Slaughter, senza dubbio il perno portante di questo paragrafo. «Un film che poteva essere girato solo in Sud-America, dove la vita umana vale... ZERO!» – «Gli eventi più sanguinosi che siano mai accaduti DI FRONTE ad una macchina da presa!21». Questi gli “invitanti” slogan che accompagnarono l’uscita in sala del film, dichiaratamente ispirato alle gesta omicida della famiglia Manson. Snuff è una pellicola seminale, in quanto si cimenta fin dal titolo con il fenomeno che intende illustrare, oltre che per essersi consegnato alla storia a causa della presenza di un medico (accompagnato da due agenti dell’FBI) seduto in sala durante una proiezione ad Indianapolis, con il compito di certificare se le morti ritratte sullo schermo fossero vere o presunte tali. Decessi che naturalmente si rivelarono cinematograficamente fasulli. Michael e Roberta Findlay celebrano una sorta di funerale inerente alle folli derive della filosofia hippie, in quanto il protagonista di Snuff (tale Satan) altro non ricorda se non un emulo di Charles Manson che, una volta messo piede nella villa di Beverly Hills appartenente ad un produttore cinematografico invischiato in un illegale traffico d’armi, fa strage di ogni singolo abitante ripreso da una videocamera. Un chiaro riferimento “al caso Polansky”, ribadito dall’ultimo omicidio messo in atto da Satan che, spalleggiato dalla fedele congrega di donne motocicliste, si accanisce su una giovane attrice in attesa di un bambino, rimandando immediatamente la memoria all’omicidio Sharon Tate. Due gli elementi che avvicinano Snuff a Teisis: Michael e Roberta Findlay girano la pellicola ad inizio anni ’70 tra l’Argentina e il Cile, praticamente nella terra natale di Alejandro Amenábar, e inseriscono all’interno della loro controversa opera la chiave di lettura metacinematografica, modalità secondo la quale vengono ripresi gli omicidi che, guarda caso, verrà riproposta anche nell’esordio del regista cileno ma d’adozione iberica. Fin qui sinonimo di film “spazzatura”, lo snuff vede nobilizzate le sue potenzialità “autoriali” sul finire dei ‘70, precisamente nel 1978, quando viene utilizzato come espediente narrativo in Hardcore, seconda performance dietro la macchina da presa di Paul Schrader, cognome manifesto della new hollywood nonché sceneggiato21
www.tempimoderni.com, L’origine degli snuff movies, 1999.
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re di TaxiDriver. Hardcore è una pellicola che nel suo piccolo ha fatto storia, frantumato determinati tabù e trasformatasi in punto di riferimento per futuri esempi del filone in questione (8mm di Joel Schumacher su tutti). Il film resoconta il dramma umano di Jake Van Dorn, rigido e autoritario industriale che si vede costretto ad affidarsi ad un detective privato per rintracciare la figlia Kirsten, partita e mai più tornata da un viaggio sotto le festività natalizie. Hardcore, oltre a scomodare il sottobosco a luci rosse per affiancarlo a quello dello snuff, si cimenta con una delle ossessioni del suo regista: la religione, sottotrama che deve aver affascinato non poco Alejandro Amenábar. Da buon calvinista qual è Schrader affolla la sua opera seconda di rimandi spirituali: Gordon C. Scott (che interpreta il magnate Van Dorn) dà vita ad un personaggio ligio ad una ferrea condotta religiosa, il film propone un preambolo ambientato alla vigilia di Natale, con tanto di discussioni intorno alla Bibbia e saluti ad una bambina in procinto di trasformarsi in giovane donna, in partenza per un incontro californiano della gioventù calvinista dal quale, naturalmente, non farà più ritorno. Più che sullo snuff Hardcore è un film sulla simbologia dello snuff, un profondo contrasto tra morale autoimposta e castrante repressione di pulsioni che, inevitabilmente, sfociano nella discesa agli inferi alla quale si sottopone il protagonista, costretto dall’amor paterno a cimentarsi con una realtà animale che ha sempre fuggito, pur contemplandone l’esistenza. Gordon C. Scott/Jake Van Dorn abbandona la sua sicura esistenza di Grand Rapids, Michigan (bambini che giocano, vicini cortesi, vialetti lindi e pinti) per scendere nella sua personale Sodoma e Gomorra, dove la notte si sostituisce al giorno e gli unici volti potenzialmente amici si configurano nelle interpretazioni di Peter Boyle (il detective privato) e della squillo Nicki, ovvero due abitanti di quel mondo sommerso che lo stesso Van Dorn ha sempre disprezzato e fuggito. Paul Scharder utilizza Hardcore come piede di porco per forzare il contrasto etico tra vita di provincia e esistenza metropolitana, ma sopratutto firma un bio38
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grafia religiosa di se stesso, credente come il personaggio di Scott ma al tempo stesso accanito critico della condizione di obbligato isolamento figlia dell’ortodossia del proprio credo. Una chiave di lettura quest’ultima che, materia snuff a parte, deve aver interessato non poco Amenábar, in quanto regista da sempre interessato alle dinamiche religiose, profondamente convinto com’è di quanto deleterie possano essere alcune forme o manifestazioni riconducibili a fondamentalismi metafisici, i quali, non a caso, saranno portante chiave di violino delle sue ultime produzioni. Da non sottovalutare, comunque, quanto in Tesis ritorni l’identico sentimento di attrazione/repulsione proposto da Paul Schrader in Hardcore, quanto i protagonisti delle pellicole in questione si assomiglino sentimentalmente nell’affrontare un mondo che giudicano senza mezzi termini deviato, salvo rimanerne invischiati una volta entrati in contatto con esso. Tanto che Hardcore e Tesis in alcuni tratti sembrano parlare la stessa lingua, guidati con mano sicura da due registi all’epoca con un diverso bagaglio d’esperienza alle spalle (il già noto Scharder contrapposto al praticamente esordiente Alejandro Amenábar) ma comunque avvicinabili per una comune prerogativa: quella che prevede di occuparsi non solo della regia, ma sopratutto della sceneggiatura dei propri lavori, particolarità che consente di innervare le pellicole di una personalità e di un’anima che inevitabilmente finisce per riflettersi sulle immagini in movimento, proiezione schermata di una poetica chiara e, proprio per questo, capace di arrivare dritta al cuore di chi guarda. Se in Hardcore Paul Schrader riflette pregi e difetti di una condivisa situazione esistenziale legata alla percezione religiosa della vita, dando così alle stampe un’opera in grado di parlare di e anche per lui, parimenti si comporta Amenábar, che non a caso in Tesis tratteggia la vicenda di due suoi coetanei, iscritti alla stessa università che lo aveva formato come studente. Come accennato ad inizio paragrafo, le pellicole più o meno forzatamente classificabili alla voce del presunto filone interessato al fenomeno leggendario degli snuff movies sono numerose. Obiettivo di questo spazio, però, non è la ricostruzione enciclopedica e cronologica dei film a tema, bensì il ricorso ad alcune operazioni che, fermo restando quanto esposto a proposito di Tesis, possono essere ricondotte ad antesignane dell’esordio dietro la macchina da presa di Amenábar. Gli appassionati, a tal proposito, citerebbero come veri e propri capisaldi imprescindibili 52 Gioca o muori di John Frankenheimer, Il cameraman e l’assassino, persino Videodrome di David Cronenberg, ma 39
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tenendo bene a mente Tesis come punto di riferimento esistente un film che non può non essere citato, ovvero quel Mute Witness, coproduzione tedescoamericana del 1994 uscito in Italia con il titolo Gli occhi del testimone: «Per certi versi viene anche da pensare a Deliria di Soavi – la scena della chiave che Billy tenta di recuperare potrebbe essere un’allusione nemmeno troppo nascosta. Weller gioca con il voyeurismo dello spettatore, in modo equiparabile a quello di Amenábar, anche se in entrambi i casi è difficile stabilire quanto la scelta appartenga alla poetica dell’autore e quanto agiscano necessità censorie esterne22». Quello diretto da Anthony Weller è un piccolo e dimenticato gioiello color giallo, contraddistinto da una regia efficace, un’atmosfera cupa e ansiosa e da calibrati momenti di suspense. I punti di riferimento stilistici, inoltre, sono i medesimi che contraddistingueranno Tesis:Alfred Hitchcock e il primo Dario Argento, citati, amalgamati e omaggiati sopratutto all’interno dello straordinario crescendo raccolto nei primi, mozzafiato, quaranta minuti di racconto, durante i quali la tecnica visionaria del regista italiano si incastra alla perfezione con il climax di tensione frutto delle lezioni di celluloide riconducibili al maestro inglese. Infine l’ormai consueta lettura metacinematografica, appartenente ad una trama che ruota attorno alla macabra scoperta di una giovane attrice muta che, rimasta chiusa negli studios, scopre suo malgrado come i set vengano utilizzati la notte, cioè come ambientazione per dei film snuff. Chiusura di panoramica affidata ad una pellicola che sfugge alla classificazione in questione, ma che a proposito di Tesis, e più in generale intorno a pellicole che riguardano il filmare la morte, deve essere necessariamente citata. Parliamo di Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, pellicola circondata da un’aura mitica e nefasta intorno alla quale non staremo a resocontare, ma che possiede il seme della critica mediatica insita nell’esordio di Alejandro Amenábar, il cui divulgativo e generalista finale è diretto discendete del documentario romanzato da Deodato: uguale il messaggio, identico l’obiettivo da colpire attraverso le immagini, cioè le “immacolate” coscienze altrui. Sarà un caso se Chema, al momento di guardare la videocassetta sottratta da Angela e contenente la registrazione dello snuff, indossa una maglietta raffigurante la locandina di Cannibal Holocaust? 22
Davide Pulici, Gli occhi del testimone, «Nocturno Dossier 4», pag. 63.
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Capitolo secondo
Do you like Hitchcock?
«Il risveglio dal sogno, forse uccide mai tradisce» Strategie, AFTERHOURS
Dietro la Maschera: Apri gli occhi e Vanilla Sky «Apri gli occhi». Tre parole ritmate, ripetute come un’ipnotica cantilena: una, due, tre, quattro volte. «Apri gli occhi», e il percorso autoriale di Alejandro Amenábar intraprende, dopo i sentieri tecnicamente metacinematografici attraversati in Tesis, i labirintici percorsi del cinema della mente, introspettivi e ricostruiti all’interno di piani di realtà concentrici. Un tragitto dove le percezioni sensoriali attraverso le quali coinvolgere lo spettatore non sono più affidate alla messa in pratica dei meccanismi della suspense, all’artificio dell’attesa o del fuoricampo, bensì si trasformano nel linguaggio stesso del film, fagocitando con fare cannibale la grammatica della pellicola, che a sua volta disorienta e intriga: sospesa com’è tra la continua ricerca di bilanciamento tra i concetti di sogno e realtà, presente e passato, bellezza dell’animo e mostruosità fisica, amore e solitudine, allucinazione e concretezza. Se Tesis inseguiva l’illusione della rappresentazione della realtà attraverso i paradigmi della finzione, Apri gli Occhi proietta chi guarda nell’irrazionalità del reale, ovvero nel suo angolo nascosto e visionario, nell’inconscio incubo che si annida tra le dinamiche del sogno, convinto di quanto il film sia: «mezzo d’espressione assai vicino al pensiero onirico» – a causa del: «carattere di realtà che entrambe le esperienze presentano, senza tuttavia inserirsi nella realtà medesima, ma istituendo, invece, un doppio piano di realtà» – e dove: «Il “coefficiente di illusione” è quindi di gran lunga superiore nel sogno. Doppiamente superiore perché il soggetto “crede” di più e perché ciò a cui credeva è meno vero1». L’opera seconda di Alejandro 1
Roberto Nepoti, op. cit., pag. 126.
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Amenábar corrisponde ad un continuo orientarsi tra segni e simboli, un compito soddisfacente proprio perché probante, quasi allo spettatore fosse destinato non il ruolo abituale di semplice fruitore del racconto per immagini, bensì quello dell’esperto di enigmi o dell’interprete specialista in sciarade, comunque mai lontano dalla sua ideale collocazione: «lo spettatore è sempre consapevole che sta assistendo a una proiezione cinematografica, così come il sognatore sa di stare sognando2». Cesar è un uomo che dalla vita ha avuto praticamente tutto se non di più: è un giovane affermato, unico erede di un’importante catena di ristorazione, possiede denaro da spendere ed è bramato da donne della cui compagnia ama circondarsi. La sua è un’esistenza fatta di alta borghesia, club sportivi, feste serali e tanta, troppa superficialità: un cerchio all’interno del quale il valore dell’immagine rappresenta il requisito fondamentale. Il giorno del suo venticinquesimo compleanno la sua attenzione cade su Sofia, ragazza presentatogli dal suo migliore amico Pelayo, della quale s’innamora nel giro di poche ore, il tempo di una notte. La ricambiata infatuazione scatena, come immediato contraccolpo, la persecutoria gelosia di Nuria, fino alla notte dell’incontro con Sofia amante regolare di Cesar, la quale, per vendicarsi del tradimento, sceglie di schiantarsi in un precipizio con la macchina portandosi dietro Cesar come passeggero. Nuria muore sul colpo, mentre Cesar resta sfigurato e la sua esistenza si trasforma nell’incubo che fino al momento dell’impatto non aveva mai pensato potesse realizzarsi: irreparabilmente segnato in volto dal terribile incidente, vive sulla sua pelle il passaggio dall’élite estetica allo status di freak. La mente di Cesar vacilla ben oltre i limiti della paranoia: la realtà inizia a confondersi con il subconscio e con la fantasia malata, portandolo a toccare con mano la follia e a spingersi addirittura oltre. Per lo sviluppo e l’affermazione della carriera del suo autore Apri gli Occhi rappresenta un film dalla triplice importanza: autoriale, filosofica e cinematografica, tre essenziali componenti che il cineasta d’adozione iberica dimostra di padroneggiare con sapienza. Alejandro Amenábar approccia alla sua opera seconda mantenendo quasi inalterata la factory creativa che lavorò con lui in Tesis. Eduardo Noriega, che appena un anno prima aveva interpretato il ruolo del mefistofelico Bosco, indossa i panni di Cesar, venendo di fatto promosso a protagonista, questa volta positivo, della vicenda. A Fele Martinez, che in Tesis diede vita al personaggio di Chema, spetta il nome di Pelayo, amico di 2
Ivi, pag. 128.
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Cesar e responsabile dell’ingresso di Sofia (Penélope Cruz) nella sua vita. Mateo Gil affianca come di consueto Amenábar in sede di sceneggiatura, mentre le musiche, come avvenne per Tesis, sono curate dal regista stesso, ancora una volta spalleggiato da Mariano Marìn. Hans Burnam, infine, torna a curare la fotografia. Una lista di “fedelissimi” che lascia intuire quanto, nonostante ci si trovi al cospetto di un’opera seconda firmata da un appena venticinquenne, le idee di Alejandro Amenábar siano già chiarissime: a partire dal rodato staff di collaboratori, che gli assicura continuità lavorativa amplificata dalla fiducia e dall’intesa instaurata con i nomi cardine della troupe. Amenábar, insomma, conferma di essere già un regista maturo e stimato, tanto da circondarsi di una équipe rodata, sinonimo non solo di affidabilità tecnica, ma anche di continuità con il passato: Mateo Gil, Hans Burnam e Mariano Marìn sanno cosa il cineasta ha in mente, cosa chiede, esige e intende ottenere dalla pellicola in questione, arricchita dalla partecipazione di Penélope Cruz (all’epoca anche nel cast di Carne Tremula, usci-
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risvegliarlo in un “sogno lucido”, costruito a tavolino secondo le esigenze di chi lo ha commissionato e lautamente pagato, la stessa (non) persona che si prepara a viverlo proiettato in un futuro temporale distante anni dalla sua scomparsa; protagonista assoluto di una esistenza fittizia fatta di illusioni prive di consistenza tangibile. Ciò che in Apri gli Occhi era rimosso psicologico trasformato in prigionia della mente, arresa sottomissione al proprio subconscio e intricato enigma risolto dallo scambio empatico paziente-medico, in Vanilla Sky si tramuta in modalità canonica di racconto, dove gli antagonisti reali hanno un volto definito (il consiglio d’amministrazione dei “sette nani”, che nell’originale aleggiava nei racconti di Cesar senza però mai essere mostrato allo spettatore) e i pezzi del puzzle si lasciano incastrare gettandosi alle spalle quella sensazione d’irrealtà paranoica che invece era prerogativa e punto di forza, nonché di fascino, relativamente al modello d’ispirazione. Crowe lavora in maniera molto più lineare rispetto ad Amenábar, impossessandosi del testo a sua disposizione, trasformandolo in altro, meno sostanzioso e più formalista. A partire dall’incipit (panoramica mozzafiato di una New York ripresa prima dall’alto, e poi nella sua desertica condizione di incubo solitario) per proseguire con la rivisitazione della diade femminile, che in Apri gli Occhi era indirizzata a destabilizzarne la visione, spiazzando, praticamente trascinando il fruitore del racconto nella stessa dimensione vissuta dal protagonista; mentre in Vanilla Sky, pur conservando nel suo parco attoriale Penélope Cruz, la affianca, come da cliché hollywoodiano che si rispetti, ad una controparte bionda (Cameron Diaz), allo scopo di mettere in scena una contrapposizione cromatica cara agli antagonismi femminili di marca statunitense, quasi ci si trovasse in un film di David Lynch (regista che sempre nel 2001 diresse Mullholland Drive, pellicola impostata proprio su questa dicotomia estetica) o in presenza di una chiara convinzione, cioè quella che il pubblico, anziché depistato e affascinato, vada sempre e comunque aiutato nella 55
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comprensione di ciò che guarda: garanzia sulla comprensione e quindi sul successo della pellicola, ma che prende nettamente le distanze dalla sua matrice originale, che mai avrebbe pensato di appoggiarsi sulla citazione del triangolo “truffautiano” citando il poster di Julies e Jim come invece avviene in Vanilla Sky. Cameron Crowe non è Alejandro Amenábar, sopratutto perché se quest’ultimo mantiene Alfred Hitchcock come dichiarata fonte d’ispirazione, il primo conserva come punto di riferimento personale Billy Wilder e il suo insito cinismo, linea poetica che ben presto trasforma Vanilla Sky in uno sberleffo dell’alta borghesia americana, a partire dal suo interprete principale, quasi un fratellastro di ciò che Jerry Maguire aveva mostrato. Tom Cruise non è più il possessore venticinquenne di una catena di ristoranti conosciuto con l’Edoardo Noriega di Apri gli Occhi, ma l’erede di un colosso dell’editoria musicale prossimo al cristologico compleanno (trentatré anni). Non si sposta con uno scalcinato maggiolino bianco, bensì con una Ferrari, ostenta la sua ricchezza elevandola a potenza rispetto alla controparte spagnola, incitato fin dalle prime battute da un budget palesemente sostanzioso che il regista tramuta in citazionismo semiotico: Crowe, infatti, approccia alla narrazione risvegliando Cruise nel suo lussuoso attico, non prima di aver mostrato un passaggio di Sabrina, guarda caso un film di Billy Wilder interpretato da Audrey Hepburn, sì icona di classe e stile, ma anche simbolo della superficialità ostentata grazie alla sua interpretazione più celebre: Colazione da Tiffany. Vanilla Sky è un tripudio di soldi facili, piani alti che permettono battute come quella di Penélope Cruz in riferimento ad una chitarra custodita in una teca: «È questo il destino del rock’n’roll? Una chitarra distrutta esposta nel salotto di un riccone?»; pane per i denti di Cameron Crowe che, fatte le dovute e personali modifiche, può tornare a raccontare una storia di solitudini e di successo sfogando la sua cultura musicale, vezzo che lo conduce ad immortalare Tom Cruise e 56
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Penélope Cruz omaggiando la copertina di Freewhelin, viatico ad un rimpasto della colonna sonora non più frutto della composizione autonoma come avvenuto per Apri gli Occhi, ma orecchiabile risultato di una selezione tra Bob Dylan, Paul McCartney, RadioHead, R.E.M., Peter Gabriel, Jeff Buckley, Sigur Ros, Chemical Brothers, Rolling Stones, Beach Boys e Underworld, questi ultimi incaricati di musicare con Rez la sequenza madre della pellicola, cioè quella ambientata in una discoteca dove David (Tom Cruise), rifiutato dal miglior amico Brian e da Sofia, affogherà i suoi dolori nell’alcool prima di risvegliarsi nel sogno lucido post criogenesi («Anche in Vanilla Sky, Danny Bramson è stato il supervisore delle musiche. Abbiamo cercato di dare un tocco Beatles a tutto il film. Avevamo già un titolo da canzone e avremmo voluto una canzone di McCartney. Paul ha visto il film e mi ha proposto di scegliere una delle canzoni del suo nuovo album da utilizzare per la colonna sonora. C’erano molte belle canzoni, ma in pochi giorni, a sorpresa, Paul mi ha chiamato dicendomi che aveva realizzato una canzone appositamente per noi e che potevo usarla se mi piaceva. È stato un grande onore»). Elementi di contorno che completano la confezione di un film in puro stile Cameron Crowe, dove elementi tipici del suo cinema (conoscenza enciclopedica della storia del rock, citazionismo, critica nei confronti degli eredi generazionali degli yuppies) viaggiano paralleli alla ricerca del vero amore, della donna giusta, di una nuova chance esistenziale: assi portanti di Vanilla Sky che lo conducono di diritto nella produzione riconducibile al suo autore («Mi è piaciuto un po’ tutto, la storia, i personaggi, ne sono rimasto colpito e ho pensato che avrei voluto sollevare qualche domanda in più. Il mio film è molto aperto, ogni spettatore può trovare la propria interpretazione. Per me il film è una metafora dell’iniziare a vivere, del mettersi in gioco ed affrontare le gioie e i dolori della vita, ma molti spettatori ci hanno visto cose diverse ed è proprio questo il bello21».) e al tempo stesso lo distanziano da ciò che era in origine («Ciò che voglio affermare in Apri gli occhi è che noi stessi creiamo la persona amata e sempre noi, in qualche modo, decidiamo che cosa sarà della nostra storia d’amore o se vogliamo innamorarci. Costruiamo le nostre storie d’amore, le inventiamo nella nostra testa: nella maggior parte dei casi è così, altre volte, però, no ...altre volte conosciamo qualcuno che ci coinvolge, completamente. Sino 21 www.tempimoderni.com,
intervista a Cameron Crowe, 2002.
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ad oggi io sono stato abbastanza scettico e pratico con il concetto di amore, per questo credo che l’amore dipenda molto da come configuri te stesso nella tua testa e decidi se vivere una storia o no22»), facendolo correre su binari che Apri gli Occhi non aveva nemmeno contemplato, dando delle risposte dove regnavano punti interrogativi, concedendo spiegazioni che l’originale fuggiva, snaturandone, in conclusione, l’essenza di base. Ma al tempo stesso confermandone la straordinaria attualità di temi e l’altrettanta caratura di personaggi, che permettono ad Alejandro Amenábar di presentarsi alle soglie della Mecca del cinema con in mano uno straordinario biglietto da visita, talmente credibile da dare il via ad un vero e proprio filone avviato, nemmeno trentenne, addirittura da oltreoceano, date alla mano anticipando una tendenza sulla quale i produttori statunitensi si lanciano coinvolgendo cognomi a cinque stelle quali Cronenberg o Fincher; credibilità conquistata e meritata sul campo, che fanno di Amenábar un regista vero, pronto ad utilizzare quanto meritatamente ottenuto per ottenere il pass del suo film fino ad allora più personale e prestigioso, quello al quale assegna la grande responsabilità di chiudere la prima parte della sua carriera.
Hai paura del buio? The Others «Ghost who walks she’s on the prowl wanders in the moonlight she’s crying to herself because eyes never once looked cruel but the moon in the blade shimmered like a jewel she looked at him with pleading eyes he softly spoke, “my dear the love has died” and then he muffled her deadly cries under the moonlight» The Ghost Who Walks, KAREN ELSON
The Others è, senza ombra di dubbio, il film più personale, sentito e importante di Alejandro Amenábar. Vuoi per la materia di cui si nutre, vuoi sopratutto per quello che andrà a rappresentare all’interno della carriera del cineasta cileno d’adozione iberica. Partiamo da qui, dal 2001, anno d’uscita nelle sale del primo film hollywoodiano di Alejandro Amenábar, data che ne consolida l’affermazione su scala mondiale: oltre a The Others infatti, vede la luce anche Vanilla Sky di Cameron Crowe, remake statunitense di Apri gli 22
Clarissa Montilla, art. cit.
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Occhi. Il 2001 è l’anno dell’Amenábar americano, il regista non è più una promessa, bensì una certezza sulla quale puntare, scommettere a occhi chiusi, sicuri del consequenziale consenso di pubblico e critica. Primo ad esserne convinto il padre putativo d’oltreoceano di Alejandro Amenábar, quel Tom Cruise che, dopo aver scoperto Apri gli Occhi, gettato le basi per il remake da lui stesso interpretato, produce in parte The Others, tanto da figurare nei titoli di testa della pellicola tra i produttori esecutivi. Senza dubbio uno sponsor importante, fatte le dovute proporzioni temporali probabilmente decisivo, vista all’epoca l’influenza di Tom Cruise in quel di Hollywood, anni in cui il divo si disimpegnava tra Stanley Kubrick (Eyes Wide Shut, 1999), Paul Thomas Anderson (Magnolia, 1999), John Woo (Mission Impossible 2, 2000), Steven Spielberg (Minority Report, 2002) e Michael Mann (Collateral, 2004); tra autoctoni e “immigrati” illustri (vedi l’hongkonghese John Woo) l’élite assoluta della più grande industria cinematografica mondiale. Cruise, in quel preciso momento storico, aveva raggiunto il suo apogeo artistico, entrare nelle sue grazie equivaleva quindi ad un’assicurazione sulla propria vita creativa, ed è ciò che esattamente accadde ad Alejandro Amenábar. Una sorta di tutorato garantito, molto simile al destino toccato in sorte all’italiano Gabriele Muccino, scoperto dal “talent scout” Will Smith e portato di peso ad Hollywood per dirigere La ricerca della felicità e Sette anime. Alejandro Amenábar, però, non è soltanto un semplice predestinato, ma un regista molto attento alle tendenze della settima arte e, come già avvenuto con Apri gli Occhi, si ripete lavorando al copione di The Others al fine di firmare l’ennesima pellicola al passo con i tempi, sopratutto quelli delle grandi produzioni americane, tanto da non concedere ai critici un estremo sforzo di ricerca quando, a visione terminata, ci si rende conto delle affinità con Il sesto senso e The Village di M. Night Shyamalan (in riferimento al colpo di teatro finale che ribalta, sempre attraverso le percezioni di un bambino, la prospettiva tra vivi e morti per quanto riguarda il primo film citato e la rilettura dell’intera pellicola alla quale si è costretti assistendo allo stravolgimento conclusivo del secondo), altro regista che ad inizio anni 2000 sembrava dettare legge dalle parti degli studios. Al momento dell’approdo di Amenábar Hollywood non vive un grande momento di creatività, tanto di rivolgersi spesso all’estero per importare registi in grado di innervare la domanda di prodotto effettuata da un pubblico esigente, che l’industria non riesce a sod59
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disfare completamente. Cartina di tornasole di questo periodo di stallo è l’infatuazione per il nuovo horror giapponese, che rispolvera la tradizionale modalità di terrorizzare lo spettatore lasciando poco spazio alla visione e puntando tutto sulle sensazioni della suspense e del fuoricampo. Pietre miliari di questa rinascita orientale (che poi altro non è che commistione di letteratura e cultura tradizionale unita alla messa in pratica degli insegnamenti di gestione dell’attesa propri della scuola riconducibile alla grande Hollywood dei generi) come Cure di Kurosawa Kiyoshi, Ring e Dark Water di Nakata Hideo così come Perfect Blue di Satoshi Kon, vengono prese a modello di riferimento, assieme ad esse trovano spazio distributivo e considerazione emuli hongkonghesi, coreani e thailandesi; mentre alcuni registi di punta del movimento giapponese si trasferiscono ad Hollywood per replicare, calligraficamente, i film che gli avevano conferito successo in patria e considerazione all’estero. È il caso dei Ju-on che si trasformano in The Grudge, identiche le storie diversi gli interpreti, non più orientali ma americani, mutazione che non risparmia i reboot di Ring e Cure e che porta all’attenzione dei produttori statunitensi un ritrovato interesse del pubblico nei confronti dell’horror vecchia scuola, dove gli spargimenti di sangue sono ridotti a meno dello zero e tutto è affidato a vecchie leggende, rumori sinistri, improvvise sparizioni e altrettanto disturbanti manifestazioni ectoplasmiche. Alejandro Amenábar, da buon conoscitore della materia cinematografica, allestisce con The Others sì un film estremamente personale, ma che ben inserite nel solco di genere che Hollywood e le contemporanee produzioni giapponesi prima e orientali poi, hanno reso popolare, addirittura a tratti invadente per la continua immissione sul mercato di progetti poi non così tanto distanti per ispirazione e svolgimento di trama tra di loro. «Il cinema di Buñuel lo sto scoprendo solo ora... In quanto al realismo magico, invece, non posso dire d’aver ricevuto un’influenza molto forte da parte della 60
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Allende o di Marquez... credo, nel caso concreto di The Others, che si tratti di un percorso all’indietro, verso ciò che mi ha influenzato quando ero bambino: l’educazione che ho ricevuto e le letture che mi hanno accompagnato nell’infanzia. Il progetto di The Others trasse origine da un viaggio che feci con mio fratello in Cile circa sette anni fa, dove rivivemmo le esperienze di quando eravamo stati per la prima volta nella nostra terra d’origine da bambini. I miei genitori si trasferirono in Spagna quando io avevo circa un anno e mezzo, quindi all’età di circa sei anni portarono me e mio fratello più grande, per un’estate, in Cile per conoscere i nostri cugini, i nonni, le zie. L’esperienza ci segnò molto: i legami, le relazioni così strette tra i membri della famiglia... mia madre ed io non volevamo più tornare in Spagna, volevamo restare in Cile dove fummo a lungo in una casa molto antica, dove assistemmo ad una seduta spiritica. Credo che tutto questo fu il germe di una novella, che scrissi a 18 anni e che, a sua volta, fu il germe per la sceneggiatura di The Others23». Dichiarazioni che parecchio dicono della natura del primo film americano di Alejandro Amenábar, ma non tutto svelano, a partire dall’origine vera della pellicola, che ha radici molto più infantili e ancora più personali: «Ho avuto un’infanzia normale. Forse ricca d’immaginazione. Certo devo ammettere che quando avevo cinque anni la mia testa era dominata dalle paure e io volevo descrivere quel qualcosa che è alla base della paura e che scatena le ossessioni all’interno della coscienza collettiva. La paura del buio, la paura delle porte chiuse e degli armadi, ma in generale la paura di qualsiasi cosa che potesse nascondere qualcuno o qualcosa. Da bambino mi spaventava tutto ciò che aveva a che fare con l’oscurità, lo star solo mi incuteva paura... dovevo andare al bagno accompagnato da mio fratello... solo a partire dai dodici anni, quando dormii per la prima volta da solo in una stanza del collegio, dove un sacerdote mi propose di dormire con lui nella stanza ed io decisi di no, fu allora che cominciai a non avere più paura24». Per questo, e per una serie di numerosi altri elementi e motivi che questo paragrafo intende sviscerare e analizzare, The Others è il film più importante dell’intera carriera di Amenábar, perché retaggio di una vita e, al tempo stesso, punto di non ritorno nella produzione di genere dell’autore il quale, dopo 23 24
Ibidem. Ibidem.
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The Others, virerà verso altri lidi, decisamente più sfumati e meno riconoscibili, come se la sua terza fatica dietro la macchina da presa ne avesse esaurito, a causa della sua estrema completezza e autoreferenzialità, parte della fonte di ispirazione riconducibile al regista. The Others si appoggia su una fobia e, come se fosse parte integrante e conclusiva di un’ipotetica trilogia filmica, si ricollega sia a Tesis che ad Apri gli Occhi, rispettivamente amplificati dal timore per le immagini realisticamente violente e dall’incubo scaturito dalla prigionia della mente («Quella di Tesis è una paura che deriva dalla violenza, in Apri gli Occhi, invece, dall’incertezza del futuro. In questo ultimo film è il rapporto con la morte e il soprannaturale che genera inquietudine e paura25»), contemporaneamente, oltre a trascinarsi al suo interno strutturale le paure infantili del proprio autore, permette a quest’ultimo di misurarsi con il ricordo d’infanzia relativo al regime cileno dal quale fuggì con la famiglia, per approdare nella Spagna dell’immediato post franchismo. Esemplificativa, a tal proposito, la figura di Christopher Eccleston, che interpreta il ruolo di Charles Stewart, marito della protagonista Nicole Kidman di ritorno dalla Seconda Guerra Mondiale, fantasma bellico che come appare scompare tra le mura di una dimora popolata da spettri, portandosi addosso il retaggio del più grande conflitto armato che la storia ricordi, “terapizzando” parte delle paure dell’Amenábar bambino e, al tempo stesso, anticipando il risveglio doloroso di un’intera nazione, gli Stati Uniti, che da lì a pochi giorni (The Others esce nei cinema in agosto) dovranno fare i conti con l’attacco aereo alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001: misurandosi quindi con i suoi fantasmi e i suoi defunti, intraprendendo quindi la stessa riflessione di morte allestita da Alejandro Amenábar nella sua terza prova da regista. Un tempismo involontario e alquanto macabro, ma che è corretto rendere noto al fine di un’analisi intorno a The Others il più completa possibile, almeno se si ha l’intenzione di comprendere tutti i perché e i per come di un successo cinematografico figlio sopratutto dei tempi in cui la pellicola ha vissuto di massima esposizione. Se, come confermato dallo stesso Amenábar, The Others è una pellicola che s’interroga su un aspetto della morte, cioè il sovrannaturale, senza per questo mai perdere le distanze del confronto materiale con essa (anche dal punto di vista storico), allora è giu25
Barbara Rossi, www.effettonotteonline.com, The Others.
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sto collocarlo in un preciso momento storico americano che, tra gli altri media e fonti d’informazione, ha condotto sopratutto il cinema a soffermarsi sulle cause e conseguenze di una tragedia, mettendo la dipartita e l’analisi del dolore che da essa deriva al primo posto. The Others è cinema tra i cipressi, che vede la luce mentre l’America stessa si prepara a trasformarsi in un grande cimitero pronto a piangere le proprie vittime innocenti. Nonostante quello che poche riga fa abbiamo definito tempismo, seppur macabro, The Others ha radici lontane, certamente letterarie, a partire dall’ambientazione che, una volta sì e l’altra pure, tradisce la propria devozione nei confronti del romanzo gotico, verso gli scritti di Edgar Allan Poe, senza dimenticare i saccheggiati La casa dei sette abbaini di Nathaniel Hawthorne e Giro di vite di Henry James: «Volevo raccontare una storia gotica. Una vicenda d’atmosfera con risvolti sovrannaturali. E così ho iniziato a leggere e ho scoperto che molti libri di fine ’800 toccavano ampiamente questo argomento. L’ambientazione e l’intreccio di Giro di vite di Henry James probabilmente sono state le fonti che più mi hanno ispirato. Il mio intento era quello di creare un film che stimolasse l’interpretazione dello spettatore durante la proiezione. Questo per me è l’essenza della paura. Quindi ho cercato nello script e poi nelle riprese di creare sempre un senso di ambiguità che permettesse allo spettatore di vivere l’incubo insieme ai protagonisti. Vorrei tanto che lo spettatore tornasse a vedere un film, non tanto per presunzione, ma per capire meglio quello che io volevo trasmettere attraverso la narrazione filmica26». Particolare attenzione viene data da Alejandro Amenábar alle scenografie, all’ambientazione tutta, all’atmosfera del film, elementi indispensabili affinché The Others, che per soggetto e scansione di trama può tranquillamente definirsi come un libero adattamento per il grande schermo di Giro di vite di Henry James, respiri la medesima aria rarefatta che traspare dalle pagine dei romanzi ai quali fa riferimento. Indispensabile a tal proposito, il contributo dello scenografo Benjamín Fernández, abilissimo nel mettere in pratica i comandamenti filomologici del suo settore di competenza («Nel cinema scenografie e costumi assolvono diverse funzioni, che possiamo raggruppare in tre categorie. Dotati in se stessi di un valore estetico, plastico e cromatico, espletano per cominciare una “funzione decorativa”. In 26
Clarissa Montilla, art. cit.
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secondo luogo svolgono una “funzione informativa” (localizzatrice) nei confronti dello spettatore: gli spiegano che cosa accade nel film che stanno vedendo, nonché dove e quando ciò accade. Infine rivestono una “funzione simbolica”, esprimendo ciò che è altrimenti inesprimibile e caricando il film d’idee o sentimenti27»), giustificando parte della psicologia di Nicole Kidman e ricostruendo interni ed esterni, coadiuvato nell’impresa dal direttore della fotografia Javier Aguirresarobe Zubía, abituale collaboratore di Pedro Almodóvar che non a caso Amenábar rivorrà al suo fianco per Mare Dentro e che John Hillcoat, probabilmente colpito anche dal lavoro svolto per The Others, sceglierà per illuminare nel modo migliore il post apocalittico The Road. Una mission, quella della troupe registica, tanto ambiziosa quanto riuscita: The Others, pur essendo ambientato sull’isola di Jersey nella Manica, ricostruisce come meglio non avrebbe potuto fare l’ambientazione del New England puritano tipica dei romanzi di Nathaniel Hawthorne e quindi di La casa dei sette abbaini, contemporaneamente ricrea sul grande schermo le sensazioni e le inquietudini di Giro di vite, sopravvivendo in un’atmosfera rarefatta, nebbiosa e plumbea, un tetro casolare sospeso in una frazione sconosciuta di stagione tra il terminare dell’autunno e l’immediato inizio dell’inverno, dove ci si muove in prossimità del buio, a fior di lampada ad olio ed è vietato far entrare la luce, perché: «Nessuna porta deve essere aperta prima che l’ultima sia stata chiusa». The Others rappresenta per Alejandro Amenábar il film dell’indipendenza, la prova della definitiva maturazione, da scrivere, dirigere e musicare, questa volta senza l’aiuto di alcun fido collaboratore e non c’è da stupirsi se per questa prova il regista decide di chiamare a raccolta ogni sua ossessione, quasi fosse all’inseguimento di una performace catartica, tramite la quale chiudere un cerchio, sbarazzarsi del passato e aprire una nuova fase della sua carriera, come in presenza di un funerale cinematografico: via il vecchio dentro il nuovo («Sul piano del contenuto e ad una lettura superficiale The Others appare come un condensato dei romanzi di paura per adulti, una storia di fantasmi e di ossessioni religiose […]. Si sprecano – a questo proposito – le contaminazioni, i collegamenti incrociati fra letteratura cinema e cultura popolare: Amenábar pesca dal gran calderone dell’immaginario collettivo (è notevole lo sforzo intersemiotico richiesto allo spettato27
Roberto Nepoti, op. cit., pag. 283.
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re), dai sogni, dalle fiabe di magia, dalla letteratura fantastica e – in particolare – dal romanzo gotico (vedi i motivi topici della casa infestata, del bosco incantato, della soffitta stregata); colloca la propria storia nell’isolamento spazio-temporale delle Isole del Canale – 1945 – stemperando con nebbiose atmosfere jamesiane (Giro di vite) e un’eleganza formale tutta europea la labirinticità di una struttura narrativa hitchcockiana»28). Il fantasma del piccolo Amenábar, quello che ne tormentava le notti d’infanzia, inizia ad essere esorcizzato fin dall’incipit, mai così suggestivo e invitante per lo spettatore che, oltre a ritrovarsi di fronte alla consueta voce off e onnisciente, deus ex machina del racconto che verrà («È per via dell’importanza che attribuisco al nero iniziale, un modo per attirare l’attenzione dello spettatore su ciò che si appresta a vedere, prima chiudendogli gli occhi, poi sussurrandogli alle orecchie e poi lasciando, infine, che riapra gli occhi29»), realizza di dover fare i conti con un vero e proprio attacco metatestuale, durante il quale le illustrazioni di un racconto per l’infanzia e le figurine irreali di un teatrino d’ombre rivelano fin dai primi minuti la vera natura del film: uno scherzo degli occhi e del senso, che inizia come una fiaba a partire dai titoli di testa: «Allora bambini, siete seduti comodi? Ascoltate. Questa storia ebbe inizio molti anni fa, ma tutto si svolse solo in sette giorni. In quel periodo così lontano nel tempo, tutte le cose che oggi vediamo: il sole, la luna, le stelle, la terra, gli animali e le piante non esistevano. C’era solo Dio, perciò lui è l’unico che può averle create e così fu». Il sottofondo musicale esalta le note emesse da un flauto diventando componenete di “vettorializzazione” («Il sonoro orienta le immagini nel tempo, drammatizzandole in modo da creare aspettative, attese, senso d’imminenza»), esaltando le capacità del binomio immagine-suono con fare “centripeto” («Poiché nella vita reale un’azione [centrifuga] si accompagna generalmente a un rumore, mentre la musica è usata per tradurre o provocare un’impressione [centripeta], secondo un pregiudizio diffuso anche i rumori d’ambiente e musica comporterebbero – rispettivamente – ruoli di scenario sonoro e di atmosfera; detto altrimenti i primi svolgerebbero una funzione “realizzante”, la seconda una funzione simbolica ed emozionale30») contribuisce a rivelare l’obiettivo di 28
Barbara Rossi, art. cit. Clarissa Montilla, art. cit. 30 Roberto Nepoti, op. cit, pag. 279. 29
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Alejandro Amenábar: The Others vuole arrivare all’attenzione di chi guarda né più né meno come facevano i romanzi ai quali si ispira, un racconto attorno al fuoco insomma, che per essere fruito nel migliore dei modi prevede una regressione dello spettatore, non più giovane/adulto bensì di nuovo bambino, non più uomo tecnologico del nuovo millennio ma persona di un’altra epoca, meno scaltra e pronta a farsi impressionare dalle parole pronunciate con voce capace di ammantare l’orecchio, ferma e affascinante nella sua calma quasi materna. Da qui la domanda, premurosa e interessata («Allora bambini, siete seduti comodi?»), strettamente collegata alla dimensione d’età e luogo che Amenábar intende configurare, piccoli ascoltatori pronti a viaggiare con la fantasia, seduti su delle comode poltroncine e proiettati in una non realtà lontana, perché frutto della finzione e di quelle paure dimenticate con l’avanzare dell’età («In ultima analisi The Others si qualifica anche un discorso sul mezzo cinematografico come grande prestigiatore e, nello stesso tempo, rivelatore di verità misteriose [ma solo per chi è in grado di decifrare il suo linguaggio, di captare la forza delle sue allegorie]31»). Tra le righe del “monologo”, invece, si affaccia una delle tante sfaccettature di The Others, la devozione a Dio che sarà parte integrante della costruzione del personaggio di Nicole Kidman: moglie fedele e all’apparenza speranzosa del ritorno del marito, madre affettuosa e al tempo stesso severa, rigida nell’abbigliamento casto e incline a punire i figli con la lettura della Bibbia subito dopo averli spaventati con la prospettiva di non poter evitare il loro precipitare nel «limbo dei piccoli», qualora si fosse verificata un’altra disubbidienza; personaggio quindi indissolubilmente legato, sia dal punto di vista estetico che spirituale, al rigido puritanesimo di cui era convinto sostenitore Nathaniel Hawthorne: quasi ne fosse naturale protesi visiva tradotta sullo schermo dalle pagine dei romanzi d’appartenenza. Proprio attraverso il personaggio di Grace Stewart, Alejandro Amenábar riesce a far collimare il romanzo gotico precedentemente introdotto nell’analisi filmica e la sua passione per Alfred Hitchcock: «La storia della donna che vive isolata con i suoi due figli malati e con i domestici e che inizia a sospettare che la casa sia “abitata” da altre presenze funziona come un meccanismo a orologeria, e Amenábar dimostra di conoscere bene la lezione hitchcockiana secondo la quale tra “mistero” e 31
Barbara Rossi, art. cit.
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“suspense” c’è una grossa differenza: il mistero, infatti, è un processo intellettivo, e lo si applica soprattutto nei film gialli quando lo spettatore cerca di scoprire il colpevole; la suspense, invece, è un processo emotivo, e un bravo regista è in grado di mantenerla solo se dà al pubblico delle informazioni. L’elemento che in questo caso distingue profondamente Amenábar da Hitchcock è l’utilizzo del soprannaturale. Hitchcock amava di più i “fantasmi” della mente che quelli dovuti a oscure presenze, Amenábar si diverte a insinuare nello spettatore l’idea della soprannaturalità anche se poi alla fine inverte la situazione. Il finale del film è abilmente orchestrato ma, come afferma la critica cinematografica Tónia Pallejá, sarebbe stato un capolavoro solo se lo spettatore non avesse conosciuto l’altro magnifico precedente, ovvero Il sesto senso di M. Night Shyamalan32». Se Tesis ne era omaggio nascosto, più tecnico che prettamente filmico come invece visto nel caso di Apri gli Occhi, The Others non risparmia luoghi “hitchcockiani”: a partire da una casa isolata e dall’aspetto lugubre che non può non rimandare all’albergo di Psycho, passando per la sua principale protagonista, che Amenábar sceglie al termine di una lunga riflessione tenendo ben da conto il modello al quale ispirarsi, quella Grace Kelly interprete di numerose pellicole dirette da Hitchcock alla quale la Kidman prende in prestito non solo il nome del personaggio (Grace), ma anche l’acconciatura dei capelli: «Dovevo riflettere se Nicole poteva andar bene per il ruolo di Grace. Fu lei a chiamarmi, dicendomi che aveva letto la sceneggiatura e sarebbe stata felice di interpretare la parte. Nei fui lusingato ma prima di risponderle si ci pensai su tre ore, perché avevo scritto il film tenendo ben in mente un particolare tipo di donna, un personaggio femminile che ricordasse Grace Kelly33» – «Si tratta di un film chiaramente femminile e, in questo senso, ha dunque molto dei melodrammi nordamericani degli anni ’50. Inoltre credo che le donne siano molto abili e giochino molto quando devono creare conflitti psicologici tra i personaggi che interpretano. È un film di donne, tutto il triangolo è chiaramente composto da Grace, sua figlia Anne e dalla figura della governante, la signora Milles. Gli uomini sono forse solo pedine... stanno appartati e di fatto non hanno mai alcuna iniziativa nella 32 Annamaria Martinolli, www.fucinemute.it, Alejandro Amenábar e Alfred Hitchcock: i due volti della paura, 2011. 33 www.film.it, Intervista ad Alejandro Amenábar.
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storia, solo il piccolo Nichols alla fine sembra prendere un po’ di coraggio quando decide di seguire sua sorella. Credo che Anne sia molto simile a come fu un tempo Grace. Quest’ultima possiede molto, come eroina di carattere, del personaggio di Rossella O’Hara e credo che, proprio per questo, Nicole Kidman fosse ideale per il ruolo. L’idea è proprio che Grace sia stata molto più viva, loquace, e che, col tempo, le circostanze l’abbiano portata a ridursi allo stato di suora repressa34». All’apparenza estremamente semplice, se affrontato con atteggiamento appena più approfondito e curioso The Others si rivela oggetto instabile, intramediatico e ipertestuale, dove al suo interno non solo confluiscono passioni riconducibili alla cultura personale del suo autore, ma anche elementi omaggianti nei confronti di quella macchina cinema tanto studiata e che adesso lo ospita, coccolandolo come cineasta di culto. Difficile, se non impossibile, osservare la terza fatica dietro la macchina da presa di Alejandro Amenábar senza far tornare alla mente Angoscia di George Cukor e, assieme alla pellicola appena citata, l’interpretazione di Ingrid Bergman, ovvero l’affascinante Paola Asquit che, subito dopo il matrimonio, vede i suoi nervi crollare a causa di una ripetuta serie di inquietanti episodi avvenuti nella sua casa. Parimenti palese il richiamo a Suspense di Jack Clayton, film che metteva in scena l’incubo di Deborah Kerr, istitutrice alle prese con due bambini (come in The Others maschio e femmina) posseduti dagli spettri. Similitudini che fanno capire come lo spalancarsi delle porte di Hollywood rappresenti per Amenábar l’avverarsi di un desiderio, opportunità da sfruttare al meglio ma senza dimenticare gli insegnamenti ricevuti proprio dalla visione dei classici, che il regista cileno torna ad omaggiare anche e sopratutto da un punto di vista tecnico, a sua volta legato da un filo semiotico alla vicenda che intende raccontare. The Others ribadisce quanto Alejandro Amenábar si trovi a suo agio nel mettere in scena soluzioni filmiche retrò, tipiche della Hollywood tradizionale, affidandosi, per la loro riuscita, esclusivamente al fuori campo e ai meccanismi della suspense. Come sarà a questo punto evidente, il non visto, così come il percepito, rappresentano alcune delle caratteristiche peculiari del cinema dell’autore che, da innamorato qual è della produzione di Alfred Hitchcock («Probabilmente il massimo responsabile della diffusione popo34
Clarissa Montilla, art. cit.
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lare e di massa della parola suspense in relazione al cinema. È una cosa che Hitchcock non hai cercato di nascondere: al contrario, il regista inglese giunse a mostrarsi così generosamente didattico nelle sue riflessioni sul tema che alcune di esse hanno finito con il diventare dei veri e propri dogmi di riferimento obbligato35»), rimette in pratica tali insegnamenti, questa volta travasandoli in un contesto tipicamente orrorifico, all’apparenza distanti dalle sue due precedenti produzioni perché formalmente più riconoscibile, quindi più facilmente inquadrabile nella griglia dei generi classici: «Nel dettaglio, ogni genere ha mostrato nel corso degli anni proprie peculiarità che ne hanno garantito la riconoscibilità attraverso i parametri di differenti figure filmiche: si pensi […] all’uso inquietante ed indefinibile del fuori campo nel cinema dell’orrore36». The Others si muove seguendo coordinate filmiche e visuali ben precise, nonostante ciò, pur rispettando pedissequamente i canoni della tradizione, non manca d’interessanti spunti individuali. Alejandro Amenábar non esegue il semplice compitino dell’esercizio di stile, al contrario sfrutta le sue conoscenze cinematografiche per firmare una pellicola estremamente personale, a partire dall’utilizzo reiterato del fuori campo, che fa della suspense un meccanismo cinematografico riconosciuto e al tempo stesso messo in diretto contatto con l’intuizione di trama dell’autore, la unisce l’escamotage alla presunta malattia che affligge i piccoli Anne e Nicholas: a detta della madre Grace fotosensibili, quindi impossibilitati a fruire della luce naturale, di conseguenza costretti a vivere nel chiuso di stanze illuminate da lampade ad olio. La riprova di come Amenábar non si limiti a riprodurre lo stile gotico con fare esclusivamente manieristico e citazionista, ma addirittura lo faccia suo, rendendolo partecipe di spunti di trama originali. Alakima Mann e James Bentley corrispondono alla tipologia di pubblico con la quale intende relazionarsi il regista che, a partire da un incipit favolistico, si pone l’obiettivo di far regredire allo stato infantile chi guarda, mettendolo di fronte a paure ancestrali come quelle del buio o delle ombre notturne prodotte da luci artificiali, quindi l’identica situazione all’interno della quale vengono confinati Anne e Nicholas. Conseguenza di ciò è il decisivo ruolo giocato dal sottofondo sonoro, come di consueto curato dallo stesso Amenábar («Mentre scrivo la sceneg35
Xavier Perez, La suspense cinematografica, Roma, Editori riuniti, 2001, pag. 9. Luca Aimeri e Giampiero Frasca, Manuale dei generi cinematografici, Torino, Utet, 2002, pag. 321. 36
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giatura butto giù anche qualche suono prodotto sul pc per ricreare quel tipo di musica classica che vorrei come colonna sonora. Ogni volta dico alla produzione e ai miei assistenti che non mi occuperò più della musica per il film, ma finisco puntualmente per complicarmi la vita all’inizio del montaggio dicendo che le musiche le farò io37».) ma in questo caso ancor più protagonista della vicenda, perché parte portante di una dimensione sinistra, dove a farla da padrone sono i rumori d’ambiente che, uniti alla base sonora, vanno a costituire un’impalcatura sonora avvolgente e, mai come in questo caso, perfettamente bilanciato nelle sue componenti d’atmosfera: «I rumori assolveranno allora compiti d’atmosfera (cigolii, passi e rumori sospetti di un film horror, per esempio), mentre la musica contribuirà all’effetto descrittivo delle immagini (sequenze di paesaggio, con prevalenza del “descrittivo” rispetto al “narrativo”): addirittura, se si tratta di “arricchire” l’immagine di un contrappunto sonoro i cui elementi concreti non sono compresi nella situazione, il rumore sembra più efficace nelle fasi centripete e la musica nella fasi centrifughe38». Un’altra conferma di quanto The Others sia per buona parte farina del sacco di Alejandro Amenábar arriva dalla prima sequenza della pellicola, che immortala, con un puntiglioso primo piano, l’urlo di Nicole Kidman, sì introduzione e presagio di un’inquietudine lunga novantacinque minuti, ma anche ponte temporale capace di collegare The Others all’inizio di Apri gli Occhi, con la superstar americana a raccogliere l’eredità emozionale di Edoardo Noriega, in quanto sorpresa nella medesima fase post rem che salutava il risveglio della controparte iberica; come a dire che entrambi, nel ridestarsi dal torpore notturno, schiudono le palpebre all’interno di una dimensione indefinibile, a metà strada tra la realtà e la fantasia, dove i confini sono labili e sfuggenti e lo spazio assume contorni labirintici: la stessa fenditura cinematografica all’interno della quale verrà proiettato lo spettatore. Seconda e terza fatica dell’autore, infine, cercano e trovano ideale convergenza in chiusura di The Others, quando i due interrogativi pronunciati dalla Kidman («ma adesso cosa significa questo, dove siamo ora?» – «chi sono gli altri?»), oltre a configurare il capovolgimento di prospettiva e quindi il passaggio dei protagonisti dalla condizione di umani alla consapevolezza dell’essere ectoplasmi con le modalità del finale a sorpresa («Nel regno del fantastico e del 37 38
www.dizionariodelcinemaspagnolo.com, Il cosmo secondo Amenábar, 2010. Roberto Nepoti, op. cit., pag. 280.
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soprannaturale il colpo di scena diventa qualcosa di assolutamente normale, che siamo pronti ad attenderci e ad accettare, senza sapere, tuttavia – come del resto nel cinema giallo – in che modo si manifesterà. L’attesa, dunque, enfatizza maggiormente questo strano appuntamento»), riportano d’attualità la circostanza “pirandelliana” già suggerita da Apri gli Occhi. Pur felicemente imprigionato nelle atmosfere e nei canoni dell’horror gotico, The Others persevera, a maggior ragione nelle sue battute conclusive, nel riverberare la filosofia del proprio regista che, dopo la maschera di Cesar/Noriega, torna ad avvicinarsi a Pirandello sfumando così la figura del fantasma il quale, pur conservando le caratteristiche tradizionali proprie della letteratura e del cinema, può essere tranquillamente inteso come altro, più nello specifico come: «Maschere e finzioni si impongono in tutte le opere pirandelliane, sia nel modo di presentarsi degli oggetti, sia nell’intreccio dei rapporti sociali, sia nella consistenza fisica e psichica delle persone. Sopraffatte dalle maschere, le persone diventano inafferrabili: il loro posto è preso da esseri astratti, quasi dei fantasmi che condensano in sé tutta una serie di realtà psichiche, di sensazioni, di desideri, di ossessioni, altrimenti impronunciabili. Lo scrittore tende a vedere il proprio lavoro come frutto di un rapporto con queste emanazioni della sua fantasia, testimoni di un doloroso bisogno di “vita”, “compagni segreti” del suo io. Sono fantasmi che cercano su di sé il segno della “forma” che uccide, che vengono spesso dal regno dei morti39».
I vivi e i morti: Giro di Vite legge The Others «“Vede, Marianna è uno di quegli spiriti definiti terreni” gli spiegò la signora Brentwood. “Probabilmente la forza psicologica più insidiosa a cui l’uomo possa essere soggetto. Perché, anche se non sono vivi, gli spiriti terreni scelgono di stabilirsi insieme ai vivi, tentando di controllarli e di servirsi di loro. Rifiutano l’aldilà, portati come sono a credere – anzi, in alcuni casi del tutto convinti – di essere ancora vivi, e che nulla è cambiato”». Ghost, RICHARD MATHESON
«Il racconto ci aveva tenuti col respiro sospeso attorno al focolare, ma, salvo l’ovvia osservazione che era raccapricciante come è giusto che sia una 39
Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Milano, Einaudi scuola, 1992, pag. 925.
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strana storia narrata la vigilia di Natale in una vecchia casa, non ricordo che da principio suscitasse commenti, finché qualcuno accennò che era il suo primo caso a conoscenza, in cui una prova del genere fosse toccata ad un fanciullo. Si trattava, rammento, di un’orrenda visione apparsa a un bimbo che dormiva nella camera della madre e atterrito la destava: e la madre, prima di riuscire a vincere il terrore del figlioletto e riaddormentarlo, veniva a trovarsi ella pure, improvvisamente, davanti allo spettacolo che lo aveva sconvolto40». Il virgolettato appena citato corrisponde alle prime righe di Giro di Vite, romanzo breve pubblicato da Henry James nel 1898 («In Inghilterra un gruppo di persone si trova nella hall di un hotel davanti al fuoco e ciascuno racconta qualche cosa che sia in grado di attrarre l’attenzione degli altri e, dunque, l’atmosfera è quella delle cose strane, fuori dalla quotidianità41») . Il lettore non si stupirà nel trovare alcune analogie d’atmosfera con l’incipit di The Others di Alejandro Amenábar che, come introdotto alcuni passaggi addietro, ne è inconfutabile adattamento per il grande schermo. Tra l’inizio di Giro di Vite e l’attacco di The Others («Allora bambini, siete seduti comodi? Ascoltate. Questa storia ebbe inizio molti anni fa, ma tutto si svolse solo in sette giorni. In quel periodo così lontano nel tempo, tutte le cose che oggi vediamo: il sole, la luna, le stelle, la terra, gli animali e le piante, non esistevano. C’era solo Dio, perciò lui è l’unico che può averle create e così fu») non vi è molta differenza, perché identiche sono le intenzioni dei loro autori: invogliare il lettore/spettatore ad immergersi nel racconto, scritto o per successioni d’immagini che sia. Henry James ha un modello ben preciso, ovvero l’inglese Mary Shelley, che pubblicò Frankenstein; or, the modern Prometheus (meglio conosciuto semplicemente come Frankenstein) una prima volta nel 1818, per poi aggiornarlo e renderlo disponibile ad una seconda, definitiva edizione nel 1831. A cambiare sono i temi, certo non l’escamotage che rompe il ghiaccio e trascina il lettore. La genesi di Frankenstein romanzo è figlia della piovosa Ginevra, dove una non ancora ventenne Mary Shelley viene condotta, assieme alla famiglia, dalla sorellastra Claire Clairmont che, divenuta l’amante di Lord Byron, convince i coniugi Shelley a seguirla in Svizzera. Lì, intorno al crepitare della legna nel 40 41
Henry James, Giro di vite, Milano, Rizzoli, 2002, pag. 41. Vittorio Andreoli, Anatomia di un fantasma, Milano, Rizzoli, 2002, pag. 12.
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camino, gli ospiti dell’albergo si danno alla lettura di storie sui fantasmi tedeschi tradotte in francese. Byron propone al gruppo di buttare giù una storia ispirata a quei racconti, Mary si lascia ispirare dalle lunghe conversazioni maschili su darwinismo e galvanismo al fine di ricondurle alla mitologia gotica del “nuovo Prometeo”. Amenábar, come è presumibile, fece anche Henry James (con tutta probabilità ispirato dall’atmosfera tipica dell’Inghilterra vittoriana, durante la quale erano apprezzate storie di fantasmi e spiriti, di manoscritti giunti allo scrittore tramite terzi: «Per rispetto della cronologia occorre dire che Douglas è morto e che il manoscritto è passato ad Henry James che si è limitato a trascriverlo. Dunque noi lo leggiamo esattamente come lo aveva letto Douglas, in quella casa42»), attinge a quello spunto ambientale per introdurre il fruitore alla tipologia di racconto che si andrà ad affrontare e, al tempo stesso, lo persuade nell’assumere una postura psicologica ed emozionale conforme a trama, atmosfera e sensazioni che intende trasmettere. The Others guarda senza vergogna a Giro di Vite nel momento in cui estrapola i suoi personaggi chiave: una donna adulta, la stessa che nei dialoghi viene etichettata come la “signorina” e che, almeno somaticamente, ricorda il profilo di Nicole Kidman: «Siete pallida come un cencio, mettete paura»; e sopratutto i due bambini: Flora, la femminuccia («Era certo la più bella bambina che avessi mai visto... lo strano fascino della mia piccola allieva... [...] Un putto raffaellesco. […] Mentre la mia piccola guida dai capelli d’oro e dalla vestina azzurra saltava dinanzi a me da un angolo all’altro e sgambettava lungo i corridoi, mi sembrava di visitare un castello da romanzo abitato da un roseo folletto») e Miles, il maschietto («Era incredibilmente bello, davanti a lui ogni altro sentimento scompariva per lasciar posto soltanto a una specie di appassionata tenerezza. Fui subito conquistata da un non so che di celeste, qualche cosa di indescrivibile, l’aria di non conoscere a questo mondo altro che l’amore43»). Unica differenza con i corrispettivi filmici lo status familiare della donna, istitutrice e non madre dei bambini come invece si presenta nella pellicola oltre che le condizioni di salute dei piccoli: afflitti da un’incurabile fotosensibilità che non gli permette di godere della luce del giorno nel film (tecnicamente lo xerodema pigmentoso, in grado, se non arginato, di provocare 42 43
Ivi, pag. 13. Ivi, pag. 24.
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cheratosi e comparsa di tumori della cute), sani come pesci nelle pagine del libro: «I due bambini mi davano così poco da fare! Erano di una così straordinaria bontà e raggianti di salute e felicità!44». Impossibile da trascurare, inoltre, al fine di impostare in questo paragrafo un parallelismo libro-film il quanto più esauriente e dettagliato possibile, il luogo all’interno del quale la vicenda si svolge. The Others e Giro di Vite collimano in casa Bly (per ricostruire la quale Amenábar si servirà degli esterni di Los Hornillos Palace in Cantabria), abitazione sinistra e sepolcrale, avvolta da una nebbia perenne e impenetrabile, lontana dal villaggio che si chiudeva attorno alla chiesa, con le tombe che si incontravano raggiungendola, secondo l’abitudine di seppellire i morti tutto attorno: «Un luogo salubre, sicuro ma morto. Morto anche perché pieno di spiriti che, come si sa, vivono da morti anche se si mescolano ai vivi che per questo hanno la testa piena di morti, di quei morti, appunto, che vivendo spaventano i vivi e non vivono più». Alejandro Amenábar utilizza l’esempio jamesiano come luogo topico, calamita tramite la quale attrarre lo spettatore in una dimensione conosciuta, paurosa e affascinante al tempo stesso, salvo approfondire il “luogo comune” della casa infestata con particolari frutto della collaborazione con lo scenografo Benjamín Fernández, che in The Others ricrea sì un atmosfera lugubre, ma contemporaneamente non esita a richiamare, tramite l’arredamento d’interni, le opere di Caspar David Friederich, pittore tedesco e massimo esponente dell’arte romantica, uno dei più importanti rappresentanti del paesaggio simbolico, artista che basava la sua pittura su un’attenta osservazione dei paesaggi della Germania e soprattutto dei loro effetti di luce, permeandoli di umori romantici, perché fermamente convinto di quanto il paesaggio naturale fosse opera divina; motivo per il quale le sue raffigurazioni ritraevano sempre momenti particolari come l’alba, il tramonto o frangenti di una tempesta. I quadri presenti nella casa di The Others richiamano direttamente opere del calibro di Monaco in riva al mare, Un uomo e una donna davanti alla luna, Donna alla finestra, La grande riserva e sopratutto Abbazia nel querceto: dipinto, quest’ultimo, che racchiude in sé l’essenza fotografica dell’operazione The Others tutta, in quanto cupo trasmettitore di morte, tramite il quale l’autore, sotto un cielo grigio-rosa, rappresenta un corteo funebre di monaci che portano una bara verso le rovine 44
Henry James, op. cit., pag. 78.
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di un’abbazia gotica, circondata da querce secche e scheletriche; un quadro dove i singoli elementi sono rappresentati in modo realistico, anche se ogni profondità spaziale è annullata e che Amenábar ha con tutta probabilità utilizzato come spunto iniziale, al fine d’immergere la sua terza fatica dietro la macchina da presa in una zona visiva che sposa la concezione stessa della morte secondo Friederich, ovvero fine della vita, fine dei colori, fine della luce: come in una cornice che immortala le rovine dell’abbazia forse un tempo poderosa ma oggi in decadente e abbandonata rovina, nei grandi alberi che sono ormai spogli e nel funerale ad un passo dal celebrarsi. L’ideale per raffigurare in fotogrammi un tema che, tanto in Giro di Vite quanto in The Others, altro non è se non quello degli spiriti di persone scomparse, che nonostante ciò continuano a vivere: motivo per cui Alejandro Amenábar, in una sequenza chiave del film, inserisce il “libro dei morti”, macabra scoperta che il destino concede a Nicole Kidman sotto forma di album fotografico, dove superstiziosamente vengono custodite le immagini dei defunti («Non dormono madame, sono morti. È un libro dei morti. Nel secolo scorso scattavano delle foto ai defunti con la speranza che le loro anime potessero continuare a vivere in quei ritratti»); subito dopo che la stessa sceneggaitura aveva condotto la protagonista, al fine di spaventare i suoi due bambini, a parlare di “limbo dei piccoli”, quindi di ultraterrena zona franca, dove non si è né morti né vivi, bensì a metà, praticamente dannati ad una condizione di non essenza. Intuizioni di scrittura che consentono ad Amenábar di arricchire l’omaggio ad Henry James attraverso personali trovate le quali, oltre a confermare quanto il cinema dell’autore continui imperterrito ad interrogarsi sul concetto di morte nel cinema e tramite la macchina cinema, servono l’assist critico per approfondire, oltre le già citate similitudini, le altrettanti manifeste differenze che intercorrono tra Giro di Vite e The Others. La prima, e tra tutte la più evidente, ha a che fare con la percezione delle entità spiritiche, 75
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che Henry James consegna alla figura femminile, mentre Alejandro Amenábar assegna alla figlioletta di Nicole Kidman, tanto che nel romanzo nessuno riesce a vedere ciò che la signorina avverte alla vista, persino nelle occasioni in cui è in compagnia dei bambini: lei vede, gli altri no: «La caratteristica più rilevante della signorina è di avere delle visioni, il signor Peter Quint e la signorina Jessel, entrambi morti mentre lavoravano nella casa. La signorina Jessel era l’istitutrice precedente e il signor Quint, “domestico personale del nostro padrone”, aveva stabilito una relazione con Jessel, di cui si parla poco, ma è bene espressa come qualche cosa di orribile, anche per quanto essi dovevano fare con i bambini. Lei si dedicava alla bambina, lui invece al bambino45». Difformità di racconto sostanziali, che Amenábar travalica costruendo un triangolo madre-figlia maggiore-figlio minore, assegna alla seconda il “dono” di vedere un bambino presunto fantasma, evitando così di replicare all’interno del film quelle che erano alcune delle latenti sindromi presenti in Giro di Vite: l’isteria della protagonista femminile (quest’ultima riportata in maniera molto più calligrafica in Suspense di Jack Clayton), che il regista altera definitivamente attraverso il ribaltamento di prospettiva in seno al finale, dove Grace, una volta realizzata la condizione di morta e non di viva, confessa ai propri piccoli quanto accaduto all’indomani della morte in guerra del loro padre (cioè l’insano e disperato gesto di una madre che, stravolta dal dolore e terrorizzata dal pensiero di dover crescere ben due figli senza la protettiva figura del marito al suo fianco, li soffocò in un raptus di follia, appena prima di togliersi la vita con un colpo di fucile); escamotage narrativo che permette ad Amenábar di soprassedere anche sull’insinuazione di un rapporto fisico tra la signorina e Miles (tema che al contrario Henry James lascia trapelare dalle righe con tutta la sua forza, perché molto in voga nella società contemporanea allo scrittore, momento tardo ottocentesco in cui la sessualità infantile e la forte attrazione degli adulti nei confronti dei giovanissimi avevano trasformato la pedofilia in un vizio tanto mascherato quanto di frequente messa in pratica: «La storia è pubblicata nel 1898, qualche anno prima che Freud svelasse la perversione infantile e i rapporti sessuali tra madre e bambino. Un tema che non nasce a vuoto, ma da una pratica diffusa di legami sessuali 45
Vittorio Andreoli, op. cit., pag. 12.
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tra bambini e adulti, sopratutto in Inghilterra46»), in The Others spazzato via dalla nuova configurazione dei personaggi, non più bambini assegnati alle cure di un’istitutrice, bensì figli della cui salute e della cui istruzione la madre si occupa. Ne consegue che se in The Others le tematiche preponderanti restano quelle riconducibili ad un Amenábar pensiero in questo caso più preponderante, appassionato e personale che mai (ossessione della morte e relativa rappresentazione cinematografica di questa, paure infantili, passione per i generi cinematografici e per i loro classici meccanismi di messa in scena della tensione), del modello Giro di Vite resta appena lo scheletro, spunto d’ispirazione e partenza spogliato della sua reale essenza tematica, del suo protagonista: l’isteria, o meglio l’isteria della signorina, dell’istitutrice (in un mulinello di vicende che ruotano attorno a lei, dai bambini, alle visioni, passando per il progressivo mutare dell’atteggiamento dei piccoli, fino a tornare alle espressioni somatiche come pallore o svenimenti improvvisi che la caratterizzano) sindrome che addirittura permette di rileggere il romanzo di Henry James come una cartella clinica di una patologia piena di fascino, storicamente scoperta nell’Ottocento, quanto meno nella sua identificazione diagnostica anche se parte del comportamento umano di sempre. Nonostante ciò, la conoscenza di Giro di Vite resta un raffronto imprescindibile qualora s’intenda avventurarsi nella profondità di The Others, in quanto entrambi, per buona parte del loro percorso di fiction gotica, altro non fanno se istillare: «il dubbio tra follia o fantasmi “veri” domina ovviamente per tutto il romanzo, e del resto domina questo tema ancora oggi: per alcuni si tratta di fantasie, per altri invece di realtà. I morti vivono in un’altra parte e possono rimanere legati alla terra e ai luoghi dove sono vissuti, o meglio alle persone con cui avevano legami significativi47».
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Ivi, pag. 27. Ivi, pag. 19.
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Capitolo terzo
The beginning of the end
«At every occasion I’ll be ready for a funeral At every occasion once more is called a funeral Every occasion I’m ready for the funeral At every occasion one brilliant day funeral» Funeral, BAND OF HORSES
Al cuore Ramón, al cuore: Mare Dentro «È una storia sulla morte, una storia di domande e ben poche risposte, in cui l’avvicinarsi a qualcuno cerca di renderlo più umano possibile. È una riflessione sul divino rivendicando l’umano1». Inizializzare l’analisi di Mare Dentro definendola come la miglior pellicola mai diretta da Alejandro Amenábar, come il film della definitiva consacrazione, della svolta critica, della maturità spirituale e registica, oppure come la prova dietro la macchina da presa capace di ottenere il maggior numero di premi e riconoscimenti, equivarrebbe a commettere il più grossolano e superficiale degli errori. In quanto Mare Dentro, se collocato con il massimo dell’onestà e dell’attenzione intellettuale all’interno della breve carriera cinematografica dell’autore in questione, altro non può rappresentare che un necessario sacrificio, immolato sull’altare di una poetica che, per raggiungere gli obiettivi preposti e dormire in pace con la propria coscienza artistica, rinuncia al mezzo d’espressione fin lì preferito (il ricorso a determinati paradigmi di genere cinematografico quali l’horror e il thriller) per scegliere altro: ugualmente interessante e degno d’attenzione, ma senza dubbio più elitario, meno diretto e classificabile rispetto ai suoi antesignani filmografici. Mare Dentro rap1
www.dizionariodelcinemaspagnolo.com, Il cosmo secondo Amenábar.
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presenta principalmente un taglio netto con il passato di Amenábar, quest’ultimo ampiamente esorcizzato attraverso il ricorso alla personalità d’ispirazione decifrata nel paragrafo dedicato a The Others, un rinnegarne la forma senza per questo dimenticarne le linea guida, i concetti profondi, in sintesi il filo rosso che unisce, come anelli di una catena, le opere che circoscrivono la carriera di un cineasta degno di tale appellativo. Mare Dentro è il fratello maggiore dei vari Tesis, Apri gli Occhi e The Others, il parente assennato, quello che non rinuncia mai all’abito buono e che si esprime con un linguaggio educato e pulito, salvo irrobustire la sua personalità con la medesima educazione impartita a chi è venuto alla luce prima di lui. Mare Dentro è decisamente un film di Alejandro Amenábar, diverso nell’aspetto ma fedele nella sostanza, tanto da conservare, intatte, predisposizioni poetiche del suo autore che, guarda caso, si avvicina alla sua opera quarta approcciandovi attraverso la messa in pratica di uno dei tanti comandamenti del suo maestro e principale punto di riferimento cinematografico, Alfred Hitchcock: «Realizzare un film non è altro che raccontare una storia e, ovviamente, la storia deve essere buona. Io non cerco di portare sullo schermo un cosiddetto “pezzo di vita”, perché la gente può trovare tutti i pezzi di vita che desidera sul marciapiede di fronte al cinema e non deve neanche pagare per vederli2». Detto, fatto. Per Amenábar sarebbe stato semplicissimo resocontare la vera storia di Ramón Sampedro (tetraplegico suicidatosi il 12 gennaio del 1998 dopo aver ingerito una dose letale di cianuro di potassio, mettendo così fine a quasi trent’anni di vita immobile, paralizzato dall’età di venticinque anni a causa delle conseguenze di un tuffo da uno scoglio: «Mare dentro è tratto dalla storia vera di Ramón Sampedro che a diciannove anni si imbarca su una nave norvegese con l’intenzione di girare il mondo. All’età di venticinque anni resta però vittima di un gravissimo incidente: tuffandosi in acqua da uno scoglio, in un giorno di risacca, resta paralizzato dal collo in giù. Ramón viene accudito amorevolmente dalla sua famiglia, ma nonostante questo, sente che la vita da tetraplegico non è “dignitosa”. Decide perciò di ricorrere all’eutanasia per porre consapevolmente fine alla sua esistenza. Per raggiungere il suo scopo avvia una pratica legale, andata avanti per alcuni anni, che nonostante il clamore suscitato nell’opinione pubblica spagno2
Gabriele Rifilato, Dizionario dei registi, Roma, Editoria periodica e libraria, 2002, pag. 148.
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la non ha avuto buon esito. Nel 1996 Ramón pubblica i suoi scritti raggruppati nel libro Cartas desde el infierno, a cui seguirà nel 1998 il postumo Cando eu caia. Proprio in quest’anno riesce a portare a termine un piano per morire, senza incriminare il rapporto con nessuno dei suoi parenti») optando per uno stile documentaristico, fatto di interviste a familiari e amici, estratti televisivi d’epoca, verbali di tribunale, furtive riprese dell’abitazione del protagonista ormai scomparso, magari aggiungendovi dovizia di particolari sulle condizioni di vita tipiche di un tetraplegico: niente di tutto questo («Amanábar non aggiunge una virgola alla vicenda da rappresentare, eppure il materiale narrativo, che farebbe presupporre un film dal forte impianto realista, riesce spesso a trasformarsi – grazie ad un sapiente lavoro di regia – in una fuga verso l’onirico in cui si condensano forse i migliori momenti del racconto3»). Alejandro Amenábar sceglie la storia vera al fine di trasportarla al cinema, riplasmandola secondo le regole di quest’ultimo e seguendo, forse involontariamente, l’esempio del maestro Hitchcock, tanto che Mare Dentro non solo si applaude come ottimo esempio di cinema, ma finisce per farsi apprezzare dallo spettatore per quello che effettivamente è: un racconto, che della settima arte e del modo d’intenderla e viverla da parte del suo autore possiede tutto, a partire da un inizio squisitamente cinematografico, ormai tipico degli step iniziali riconducibili alle pellicole dirette da Alejandro Amenábar. «Sei tranquillo, sei sempre più tranquillo. Ora immagina uno schermo cinematografico, uno schermo cinematografico che si apre e si dilata di fronte a te, in cui proietti il posto che ami. Concentrati sul respiro, così aiuti il corpo a rilassarsi, a sentirsi in pace. Non cambiare il ritmo del respiro, devi solo lasciarlo andare e venire, andare e venire. Adesso sei lì, guarda bene i dettagli, i colori, l’insieme, la luce, il calore. Senti il calore. Permetti a questa immagine divina di impadronirsi di te. La sensazione di pace è infinita». Mare Dentro si apre con una voce fuori campo che incita il protagonista, Javier Bardem alias Ramón Sampedro, a distendere la mente, a mettere comode e a loro agio le sensazioni che l’affollano. Il sospiro di Ramón, che inala aria lavorando sul diaframma mentre le parole di guida e conforto si fanno largo nel suo apparato uditivo, si confonde ben presto con il rumore delle onde in un giorno d’estate, che placide si accasciano sul 3
Marco Luceri, www.drammaturgia.it, Mare mare mare voglio annegare, 2004.
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bagnasciuga di una spiaggia galiziana: limpida e assolata. Alejandro Amenábar riprende, musicalmente (ma sarebbe più corretto dire sonoricamente), il percorso battuto in The Others: i rumori assolvono fin da subito compiti d’atmosfera, addirittura sostituendosi alla musica (in questo preciso frangente del tutto assente nella sua funzione di accompagnamento alle immagini) e svolgendo un ruolo centripeto di “animazione temporale dell’immagine”: «La percezione del tempo dell’immagine può essere resa dal suono (rumori d’ambiente, rumori di passi, sgocciolio d’acqua...) sia più dettagliata e concreta, sia più vaga e astratta a seconda dei suoni impegnati e del tipo d’impiego; tanto da meritare, per assicurarsi che l’escamotage vada in porto con successo, meticolose ripetizioni di testo4»: «Non cambiare il ritmo del respiro, devi solo lasciarlo andare e venire, andare e venire». L’obiettivo è quello di trascinare chi guarda in un segmento prettamente cinematografico, fatto di regole che, se applicate nella maniera corretta, non possono che condurre a buon esito della trattativa tra regista e fruitore dell’opera: coinvolgere fin dal primo fotogramma chi al cinema si è recato per semplice curiosità e magari ignora la vicenda reale, oppure catturare lo spettatore documentato sulla storia vera che si aspetta di vedere semplicemente spiazzandolo, al fine di proiettarlo in un contesto di finzione incorniciata dal grande schermo. Proprio quest’ultimo elemento, assieme alle “indicazioni di dosaggio” relative al modo di respirare, è colonna portante della sequenza: Amenábar, come già accennato poco fa, non esita a tornarvi, né più né meno come farebbe un compositore che, trovata la nota giusta, non indugia nel replicarla ogni volta che le modalità di spartito o le dinamiche del pezzo in questione gli permettono di farlo: «Ora immagina uno schermo cinematografico, uno schermo cinematografico che si apre e si dilata di fronte a te». Senza dimostrarsi eccessivamente ridondante, bensì puntiglioso e preciso quanto basta, il regista sottolinea l’importanza dell’incastro tra parole e immagini proprio nel momento in cui, annunciata allo spettatore l’apparizione dello schermo attraverso il consiglio sussurato dalla voce fuori campo, ne accende le luci, trasformando il nero iniziale in bianco prima acceso, e poi da colorare, allargando progressivamente la porzione di spazio e vista da riempire tramite l’immagine di un immobile Ramón Sampedro. Arrivati a questo 4
Roberto Nepoti, op. cit., pag. 278.
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punto sarà evidente quanto un incipit di questo tipo non sia affatto una novità, un caso isolato o un’apparizione improvvisa all’interno della giovane produzione filmografica di Alejandro Amenábar, ma al contrario evidenzia una precisa linea di continuità, o se si preferisce un’evidente unione d’intenti riconducibili all’avvio dell’intrattenimento spettatoriale, che riconduce Mare Dentro verso soluzioni già adottate in Apri gli Occhi e The Others. Difficile, infatti, non ripensare al risveglio di uno stordito e non ancora a fuoco Edoardo Noriega, incitato a liberarsi di lenzuola e coperte dal messaggio registrato nella memoria della sua radiosveglia, mentre altrettanto complicato sarà eliminare il ricordo della prima inquadratura riservata a Nicole Kidman in The Others, anche lei sorpresa appena riaperti gli occhi, subito dopo aver abbandonato il mondo dei sogni per quello della realtà. Con Mare Dentro Amenábar consolida in qualche modo il suo status di regista affezionato ad una zona d’immedesimazione dei suoi spettatori e d’immersione dei suoi personaggi prossima alla veglia, dove le immagini sono sfocate o poco veritiere, oppure appartengono all’immaginazione di una mente collegata ad un corpo inservibile, quindi unica responsabile di fughe dalla realtà comunque immateriali, perché impossibili da toccare con mano, in quanto frutto di un viaggio sensoriale, legato ai ricordi e non al vissuto presente o futuro, ma sempre a quel che resta di un lontano passato («La scena iniziale del film si apre su un mare dalle onde leggermente mosse, che richiama una condizione di pace. Tuttavia proprio quel mare è la ragione della frattura che dà il via allo svolgimento drammatico del film. Il protagonista – Ramón Sampedro – valuta male la profondità di una pozza d’acqua, dentro un’insenatura, e cadendovi dentro rimane paralizzato. Queste immagini iniziali indicano quella ragione di fondo dell’opera su cui si innestano le altre, ovvero sia il contrasto tra presunta immediatezza delle “cose” e il volto nuovo che assumono di fronte a uno sguardo differente5»). Alejandro Amenábar inizia l’opera di coinvolgimento da parte di chi guarda facendo leva sul fatto che sia Ramón Sampedro, sia lo spettatore, vivranno in simultanea una situazione simile: immobili, chi sdraiato su di un letto chi seduto su una poltroncina, mettendo il fruitore in una condizione prossima a quella consegnatagli in Tesis, quando cioè si vedeva costretto a vivere lo stesso pericolo scampato dalla protagonista. Ecco perché, nel 5
Gregorio Sorgonà, www.controreazione.wordprogress.com, Mare Dentro, 2009.
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momento in cui Mare Dentro si rivela, la voce fuori campo non fa alcun riferimento a sensazioni che un tetraplegico come Ramón non potrebbe provare, ma al contrario si concentra sulle uniche varianti di un’esperienza che il protagonista può provare: «Adesso sei lì, guarda bene i dettagli, i colori, l’insieme, la luce, il calore. Senti il calore». E assieme a lui tenta di fare anche chi osserva l’inizio della vicenda. Così facendo Amenábar non solo avvia nel migliore dei modi il processo di empatizzazione tra protagonista e pubblico, ma ribadisce quanto il suo cinema sia indissolubilmente legato agli emisferi del sogno e dell’immaginazione, quanto la mente di fatto possa più del corpo, avvalorando la tesi che i percorsi intrapresi attraverso la settima arte non possano che condurre in terre di confine, borderline tra realtà e fantasia, inevitabilmente proiettate verso il ricordo di quanto avveniva prima della catastrofe fisica. Mare Dentro ne è la conferma, tanto sorprendente quanto riuscita, perché avviata a partire da una storia che sulla carta sembrava non poter offrire altro se non attinenze ai limiti della cronaca, impostata com’era sui parametri dell’agiografia post mortem. Ramón Sampedro dunque, come il Cesar di Apri gli Occhi, uno imprigionato nell’inutilizzabilità del proprio corpo, l’altro racchiuso nelle prigioni della propria mente: entrambi con un’unica via di fuga a loro disposizione, ovvero la fantasia, sia quella tradizionale e poetica dell’Javier Bardem di Mare Dentro, il quale con l’immaginazione viaggia, si alza dal suo eterno giaciglio, sposta il letto e, subito dopo aver preso una rincorsa lunga un corridoio, salta dalla finestra e spicca il volo, oltrepassando le verdi colline che ne chiudono la villa fino al mare, la sua indimenticata passione di gioventù; sia artificiale dell’Edoardo Noriega di Apri gli Occhi, che per vivere la vita che ha sempre desiderato avere si rivolge alla futuristica organizzazione Life Extension, l’unica scappatoia possibile dall’incubo sfigurato che il destino ha avuto in serbo per lui. Una similitudine di condizione, quella tra il Ramón di Mare Dentro e il Cesar di Apri gli Occhi, che si rinforza nella condizione di costrizione come conseguenza di un incidente evitabile: il rischioso tuffo da uno scoglio per il primo, un passaggio accettato con troppa leggerezza dal secondo. Varianti mal calcolate o addirittura ignorate, che costringono entrambi (guarda caso personaggi interpretati da due dei migliori attori del nuovo cinema spagnolo, che accettano di recitare alterando violentemente i tratti del proprio essere estetico) ad un’arresa e coatta staticità, prigionieri di ciò che può toccar83
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si con mano, liberi solo attraverso la fantasia: tenera, pura o malata che sia. Una teoria, quella del confronto tra Apri gli Occhi e Mare Dentro, che si rafforza una volta iniziata l’analisi dei personaggi e la relazione, per così dire geometrica, che si instaura tra loro con il trascorrere dei minuti e l’approfondirsi della vicenda. Apri gli Occhi poggiava i suoi assi emozionali sul triangolo Cesar (Edoardo Noriega), Nuria (Najwa Nimri) e Sofia (Penélope Cruz), una costruzione emotiva che prevedeva Nuria come polo d’attrazione passionale e Sofia come punto di riferimento stabile: unici agganci con la realtà l’amico di sempre Pelayo e lo psicoanalista che prenderà in cura Cesar. Anche in Mare Dentro il protagonista Ramón Sampedro si trova al centro di un contenzioso femminile, tra l’avvocatessa afflitta dalla malattia neurodegenerativa CADASIL (Julia, interpretata da Belén Rueda) e Rosa (Lola Duenas), giovane donna sola con un lavoro precario e due figli a carico, nati da due relazioni diverse con uomini che non hanno esitato ad abbandonarla. Julia rappresenta per Ramón ciò che Sofia significava per Cesar, l’amore vero, quello nel quale identificarsi e pianificare un futuro assieme, non di vita, come quello immaginato dagli interpreti di Apri gli Occhi, bensì di morte assieme: intesa però come scelta d’amore nei confronti della propria persona, che non riesce più ad immaginarsi, quindi a vivere, costretta in un letto o in attesa di un altro collasso fisico. Parimenti Rosa si palesa, agli occhi di Ramón, nello stesso modo in cui Nuria si affermò nella vita di Cesar: non più prodotto della sua immaginazione destinato ad abbandonarlo (così come Julia farà con Ramón non mantenendo la promessa fatta), ma affetto in grado di evolversi nel tempo, pronto ad aiutarlo nel compiere il tanto pianificato gesto. Come in Apri gli Occhi, infine, ecco fare la loro comparsa alcune figure guida, che tentano di mantenere Ramón concentrato sulla realtà della propria malattia tentando, attraverso le cure a lui destinate, di dissuaderlo da un gesto che non comprendono: nello specifico il fratello e la cognata, che a lui 84
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e alle sue condizioni hanno dedicato l’intera vita. Una similitudine, quella tra Apri gli Occhi e Mare Dentro che, oltre a ribadire quanto, pur separati dalle differenze formali di confezione, i film di Alejandro Amenábar altro non siano che prodotti di un’unica linea di continuità autoriale, aiuta a comprendere, ancora una volta, quanto la forza insita nelle opere del cineasta cileno e d’adozione spagnola sia quasi esclsuivamente frutto di una pregevole opera di scrittura, la quale, considerando il personaggio principale il reale polo d’attrazione, su di lui costruisce ogni elemento di calamita della pellicola, così da arrivare, attraverso la sua calibrata caratterizzazione, al cuore stesso del pubblico. Regola, quest’ultima, alla quale non sfugge certo Mare Dentro che, proprio sulla riuscita ricostruzione empatica della figura di Ramón Sampedro, basa la maggior parte delle sue fortune, critiche e di coscienza. Spunto di partenza è ancora una volta Apri gli Occhi, in quanto Amenábar, dopo aver sfigurato Edoardo Noriega, assegna ad un altro “bello” del cinema spagnolo un ruolo che prevede l’abbrutimento fisico attraverso un trucco che, oltre ad invecchiarlo oltre modo, lo rende praticamente irriconoscibile, modificato com’è nei capelli radi e stempiati e la spessa montatura degli occhiali («È la cifra evidente di un personaggio altissimo proprio in virtù della sua ambiguità (fisica e psicologica), resa in maniera magistrale da Bardem. Non capita spesso di vedere un attore recitare così bene la parte di un handicappato, ma qui siamo oltre la semplice rappresentazione di un uomo sfortunato. Ramón è un concentrato di lirismo e cinismo, determinazione e sofferenza, vitalità e rassegnazione. Con il solo uso della testa, Bardem tesse sul suo volto la tela di questi sentimenti contrastanti, alternando momenti di composta commozione e sofferenza ad esplosioni di gioia compiaciuta6»). Javier Bardem/Ramón Sampedro si trasforma immediatamente nel polo di attrazione e motore stesso della vicenda, grazie alla sua mimica e sopratutto alla sua personalità che, fin dall’inizio, gli consente di essere presentato al pubblico come una figura profondamente contraddittoria: un uomo ricco di umorismo, creatività, pieno di vita, ma che nella mente coltiva un unico obbiettivo: morire («È la storia di una persona il cui unico Dio è la propria coscienza, che rende l’uomo più libero e più umano7). Questo doppio regi6 7
Jeronimo Josè Martin, www.cinemainfamiglia.it, Mare Dentro, 2004. www.filmup.com, Intervista a Javier Bardem.
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stro caratteriale che gli viene assegnato spiazza lo spettatore e, al tempo stesso, riesce a catturare fin da subito la sua attenzione, sottoponendolo di volta in volta ad una serie infinita di sfaccettature caratteriali, che spaziano dall’ironia alla rabbia, contemplano l’ingegno meccanico e la creatività letteraria, ma non prevedono mai il ventaglio di atteggiamenti che ci si attenderebbe da un tetraplegico: scoramento, depressione, senso di alienazione dalla realtà («Ramón Sampedro analizzava la sua morte, io analizzo il suo ruolo e mi sento sempre più vivo, nel senso che eravamo sempre più vivi noi. La visione della morte di Sampedro non è una visione drammatica: la morte è una fine ma fa parte del processo della vita, quindi non gli toglie il senso, la vita continua ad essere meravigliosa. Questa dicotomia tra la vita e la morte è fondamentale per il film, e proprio questa naturalizzazione della morte è quanto ho voluto spiegare nel film8»). Non siamo, quindi, di fronte ad un personaggio monolitico o appartenente ad una sola dimensione emotivo/caratteriale, tutt’altro. È, però, quella di Ramón, una estensione estrema, radicale, perché si sviluppa tutta tra due poli opposti: la carica vitale che infonde a tutto ciò che lo circonda e l’estremo atto da compiere, coltivato prima in silenzio e poi con l’appoggio pubblico della DMD (abbreviazione che sta per Diritto A Morire Con Dignità, cioè attraverso un suicidio che sia accettato legalmente e civilmente, che quindi non si trasformi in atto da consumare nella vergogna dell’anonimato). Pian piano questa dualità irreversibile risucchia, come in un imbuto, tutti i caratteri degli altri personaggi, confondendo le pulsioni emotive di ognuno di loro. In un certo senso, più riesce ad apparire una fonte inesauribile di sentimenti genuini e vitali, più ogni personaggio (eccezion fatta per il fratello che tenta con ogni mezzo possibile di dissuaderlo) tende a condividere la sua strada verso la morte. Molto del merito di tale e riuscita caratterizzazione va sicuramente al talento e alla dedizione di Javier Bardem («Ritengo che quando intepreti un personaggio con queste caratteristiche è semplice farlo e, anche se ci sono numerosi limiti fisici, è semplice interpretare il ruolo di una persona così speciale, bisogna lavorare dal punto di vista fisico, ma non è mai stato un impedimento, un ostacolo. Siamo riusciti a raccontare una storia come questa proprio per queste caratteristiche9»), altrettanto alla con8 9
www.filmup.com, Intervista a Alejandro Amenábar. www.filmup.com, art. cit.
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cezione visiva di Alejandro Amenábar: esemplare nell’uso del primo piano finalizzato ad evidenziare questa grande capacità comunicativa del suo attore-personaggio. Il volto di Ramón-Bardem ci trasporta allora in una zona al di fuori dello spazio e del tempo e prepara il passo verso i momenti onirici, sovente infatti al primo piano di Ramón seguono lunghi e vertiginosi pianisequenza aerei che proiettano il personaggio fuori dalla sua camera domestica, in una zona inconscia in cui gli elementi del passato si alternano con quelli di un impossibile presente sognato e bramato. Il tempo della narrazione diventa sempre più il tempo di Ramón e lo spazio quello della vita vissuta e ancora da vivere, impossibile proprio perché di natura astratta rispetto al realismo della sua condizione; una sospensione così frequente e netta delle coordinate spazio-temporali, ottenuta grazie a quest’uso del montaggio, non fa altro che riverberare anche sugli elementi formali l’essenza multistrato del personaggio che investe totalmente tutto il film, in quanto Mare Dentro: «Evita molto abilmente di confondersi con una gigantesca soggettiva di Ramón. I personaggi delle due donne (ancora un dualismo), Julia e Rosa, che da due prospettive opposte si innamorano di lui, sono funzionali a far conoscere Ramón dall’esterno. L’amore che provano per lui si accompagna alla promessa di aiutarlo ad affrontare il suo ultimo viaggio. Ramón con loro non parla mai di amore, se non legando questo sentimento a quello della morte. Resta allora di questo personaggio una zona oscura e misteriosa, che non è dato conoscere, malgrado le due donne lo investano di una responsabilità così forte. Un altro elemento forte di oggettività è costituito dalla finestra della sua stanza, che è l’unico sguardo sul mondo del malato. Ma questo sguardo non è altro che un occhio sul vuoto, su un’amplissima zona di confine: la casa infatti è immersa nella campagna, fuori dalla civiltà cittadina, come la spiaggia, che è investita di uno status liminale proprio in virtù della deflagrazione dello spazio-tempo10». Che Alejandro Amenábar sia ormai un regista di elevata sapienza tecnica lo ribadiscono almeno altre due celebri sequenze di Mare Dentro, le stesse che permettono di tornare a parlare del cineasta cileno come di un abile burattinaio di musica e immagini. Uno dei passaggi meglio riusciti della sua quarta e penultima fatica dietro la macchina da presa è senza dubbio quello che vede Ramón Sampedro spiccare fantasiosa10
Marco Luceri, art. cit.
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mente il volo dalla finestra della sua stanza, momento che Amenábar, contrariamente alla costante di comporre personalmente le musiche dei suoi film, decide di sottolineare con il Nessun dorma pucciano l’enfasi di quanto sta mostrando. La scelta, naturalmente, non è affatto casuale. Ramón, infatti, spicca il suo balzo di fantasia non per semplice evasione dalla condizione di prigioniero del suo letto e nemmeno, come invece aveva fatto fino a quel momento, per ripercorrere terapeuticamente i ricordi della sua giovinezza dedicata al mare, bensì per raggiungere l’amata Julia sulla spiaggia galiziana. Ecco perché Alejandro Amenábar, anziché creare un motivo ad hoc per l’occasione, ne sceglie uno tanto celebre, in quanto retaggio anch’esso di una grande storia d’amore e intonata dal personaggio di Calaf all’inizio del terzo atto della romanza contenuta nella Turandot di Giacomo Puccini; cantata nella notte di Pechino, in totale solitudine, mentre il “Principe Ignoto” attende con ansia che l’alba sorga, così da poter conquistare il cuore di Turandot: ribattezzata come la principessa di ghiaccio. Parimenti alla pucciniana citazione, inoltre, merita di essere sottolineata anche la coinvolgente cavalcata celtica scritta da Alejandro Amenábar con la collaborazione di Carlos Núñez (musicista spagnolo natio di Vigo, quindi galiziano, suonatore di gaita de fole, tradizionale cornamusa utilizzata nelle composizioni di folklore spagnole e portoghesi) e utilizzata in sede di montaggio dal regista per accompagnare il tragitto di Ramón Sampedro da casa fino al tribunale di La Coruña dove è in programma l’udienza, che poi darà parere negativo, per autorizzarne il suicidio. Elementi, poetici e di linguaggio cinematografico, che collocano Mare Dentro al centro di una concezione di cinema prettamente “amenabariana”, tanto da permettere, una volta spostata l’attenzione su altri frangenti del racconto, di sottolineare quanto personale sia questo progetto, capace di far ritornare alla mente, in alcuni suoi passaggi, addirittura gli esordi del suo 88
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regista, che già in Tesis si era cimentato con le conseguenze delle immagini televisive, le stesse che in questo specifico caso tornano prepotentemente a farsi sentire, pardon vedere. Stando a Mare Dentro il regista, pur tra le righe, non sembra aver affatto accantonato parte delle ispirazioni che mossero la sua pellicola d’esordio, per buona parte incentrata, come già riportato nel capitolo a lei dedicato, sul: «pretesto per criticare, denunciare e riflettere sul contenuto e sul trattamento che alcuni programmi televisivi operano sulla violenza. Affrontare questo tema in un’atmosfera televisiva avrebbe reso il trattamento del tema in una forma troppo ovvia. Esistono molti film in cui si denuncia la televisione, anche fatti molto bene, ma ritengo che sia troppo ovvio criticare qualcosa che è assolutamente criticabile: non è necessario denunciare ciò che tutti i giorni vedo in tv perché già sappiamo che si tratta di spazzatura. Caricare il film di questo elemento mi sarebbe sembrato piuttosto facile e per questo ho preferito provocare la riflessione, guardare da vicino l’impatto della violenza sullo spettatore. Ciò che è assolutamente criticabile e condannabile è la drammatizzazione della violenza attraverso un mezzo informativo, ciò che io chiamo lo snuff-sentimentale11». Questa posizione, se non di disprezzo, ma quanto meno di forte critica scaturita da una decisa presa di posizione nei confronti di quella che abbiamo già definito come televisione del dolore (e di conseguenza verso i suoi prodotti), torna a farsi largo e spazio nel sottotesto di Mare Dentro: meno ingombrante, ma non per questo in minor grado efficace in sede di direzione e avvertimento del messaggio inviato. Tesis, infatti, torna alla memoria di uno spettatore ormai allenato al cinema di Amenábar in chiusura di pellicola, quando una videocamera amatoriale lampeggia la sua spia rossa, riprendendo di fatto gli ultimi istanti di vita del protagonista. Una chiosa finale, quasi un’autocitazione, in grado di chiudere autoreferenzialmente un cerchio di cinema che continua imperterrito a riprendere e a interrogarsi sulla morte, riaperto da Mare Dentro nel momento in cui la DMD intuisce quanto fondamentale sia che l’opinione pubblica conosca, e possa quindi dire la sua, magari premere, intorno al caso di Ramón Sampedro, il personaggio interpretato da Javier Bardem viene sottoposto ad un’intervista destinata ad arricchire un servizio televisivo a lui dedicato, che Alejandro Amenábar ci mostra, impietosamente, nel passaggio più delicato 11
Clarissa Montilla, art. cit.
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e, per certi versi, più mortificante in quanto riservato, ovvero quando le parole di Sampedro vengono montate sulla panoramica del proprio corpo che, nudo e rattrappito, fa la sua comparsa nei salotti spagnoli coperto solo da un pannolone: rivelando, per una manciata di secondi, la struttura ormai deforme di un bambino a sostenere il viso di un uomo dai tratti somatici propri dell’anziano. Ciò appena prima che un sacerdote, anch’esso tetraplegico, dica la sua, sempre di fronte ad una telecamera, opponendosi fermamente all’ipotesi del suicidio “autorizzato”, interpretando tale desiderio nella conseguenza di un mancato appoggio, pratico e affettuoso, da parte dei familiari di Ramón che, sempre a parer suo, l’avrebbero involontariamente costretto a optare per questa tragica ipotesi, senza sostenerlo con l’appoggio e la considerazione che un uomo nelle sue condizioni meritava. Nulla naturalmente di più sbagliato, ribadito con puntiglio dalla cognata di Ramón a margine della curiosa visita fatta proprio dallo stesso sacerdote a casa Sampedro, caratterizzata da un divertente siparietto a distanza tra i due tetraplegici e conclusa dalla parente con queste parole: «Che vuole che facciamo? Che gli mettiamo un bavaglio perché non parli? O che gli diano un sonaglino come si fa con i bambini più piccoli? Senta, lei è andato in televisione e ha detto una cosa che io non mi riesco a togliere dalla testa. Lei ha detto che la famiglia di Ramón non gli ha dato abbastanza affetto, se lo vuole sapere in questa casa non si è smesso di amare mio cognato neanche un giorno, neanche uno. È per questo che lo curo io, da moltissimi anni, gli voglio bene come un figlio. Io non so chi dei due ha ragione e non so se è vero quello che dice lei, che la vita non è nostra ma appartiene a Dio. Ma una cosa la so, lei ha la bocca troppo larga». Parole capaci di mettere in fuga il sacerdote e di allargare a ben altri orizzonti il raggio contenutistico di Mare Dentro che, proprio a partire da questo battibecco, rivela un ateismo di fondo riconducibile direttamente alla figura del suo regista («Da ragazzo ho frequentato un collegio che impartiva una disciplina cattolica, ma ora non seguo nessuna religione, sono ateo12»), volontariamente ostentata attraverso la figura del sacerdote, che i ben informati vogliono invece estraneo alla parabola di vita del vero Ramón Sampedro: «Tale spettacolare dimostrazione dell’espressione audiovisiva, si fonda su una trama brillante, emotiva e al contempo perfino divertente, che descrive i rapporti familiari e di amicizia 12
www.dizionariodelcinemaspagnolo.com, Il cosmo secondo Amenábar.
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di Sampedro. Tuttavia, appare molto ideologico, talvolta anche spudoratamente sentimentale nell’apologia dell’eutanasia. Al riguardo, i passaggi più sgradevoli sono relativi alla comparsa di Sampedro davanti ai tribunali – di fronte a giudici caricati a tinte fosche –, nonché la visita a Sampedro di un gesuita, tetraplegico come lui, totalmente gratuita e inventata, sviluppata in modo così paradossale e crudele, da svelarne la settaria prospettiva anticattolica», ma, ideologiche critiche a parte, cinematograficamente funzionale all’atteggiamento da “trincea” del regista, appena all’inizio di un percorso che proseguirà in Agorà («Noi ritenevamo che la presenza della Chiesa in questo film fosse fondamentale perché ha molta influenza nella vita sociale spagnola, quindi pensavamo dovesse essere rappresentata. Per tentare di essere equo o comunque rispettoso nei confronti del suo discorso, anche se io non lo condivido, abbiamo preso passaggi di alcuni dibattiti dei dialoghi tra un filosofo spagnolo e un rappresentante della Chiesa utilizzando gli argomenti dell’uno e dell’altro, e non abbiamo voluto che questo si trasformasse in qualcosa di filosofico ma fosse qualcosa di semplicemente umano13»), anche e perché strettamente collegato alla mentalità di un certo nuovo cinema dagli esponenti per così dire “latini” che, tra Almodovar, De La Iglesia, Balaguero, Cuaron e Del Toro, teneri con la religione non lo sono mai stati. Esempi sull’insegnamento dei quali si allinea Alejandro Amenábar, pianificando Mare Dentro sì come una pellicola che, dopo Tesis, Apri gli Occhi e The Others torna da interrogarsi sulla morte, ma sopratutto come progetto finalizzato, per la prima volta, ad evidenziare, se non una coscienza politica, almeno un profondo ardore ideologico, capace di consentire al film di sollevare tematiche e perorare cause che vanno ben oltre l’appartenere ad una specifica fede religiosa. Il messaggio di Mare Dentro si consolida in un’apparente contraddizione: non può esistere una vita che elimina la libertà di vivere e, al tempo stesso, non si può condurre un’esistenza arresa in quanto soggiogati a principi di libertà che eliminano la vita («A volte sembrerebbe quasi che non sia tanto l’eutanasia il centro tematico del film quanto, semmai, l’impossibilità di risolvere le controversie attraverso il confronto tra argomentazioni. La parte svolta dal padre gesuita riassume questa chiusura tra chi esprime delle ragioni a sostegno delle proprie scelte e chi a queste ragioni antepone un elemento astorico, 13
www.filmup.com, Intervista a Alejandro Amenábar.
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quale la divinità, che annulla il discorso a prescindere dalla sua pregnanza14»). Questo il punto di scontro tra Ramón e il sacerdote tetraplegico («La differenza fondamentale tra il padre gesuita e le altre persone che nel film vorrebbero convincere Ramón a non uccidersi è dovuta al fatto che per il primo la vita degli uomini non appartiene loro, mentre per i secondi quella vita non appartiene solo a loro. Il padre gesuita e le istituzioni in genere rappresentano così un elemento arretrato rispetto al confronto tra esseri umani legati principalmente da vincoli affettivi. Sono questi ultimi che introducono le riflessioni più profonde del film, rimettendo in causa o magari anche generando dubbi nella scelta del protagonista. Ramón ha gioco facile nel dissacrare l’ignoranza della Chiesa o quella del fratello, meno semplice invece è il tentativo di far passare per diritto esclusivamente privato quello che è il diritto maturato da una persona cresciuta dentro una società. La problematicità dell’eutanasia sta nel fatto che a essere ucciso è un uomo che tronca delle relazioni causando un danno ad altri uomini, ossia nel fatto che un uomo prende una scelta che non ha effetto solo sulla sua di vita. Questa contrapposizione tra ragioni dal peso diverso ma egualmente argomentabili svolge nel film un ruolo importante anche se a volte non viene trattato in modo del tutto soddisfacente in virtù, fra l’altro, del carattere della patologia di cui soffre il protagonista15») sul quale però Amenábar non si crogiola, bensì trae slancio, per elevare la sua opera quarta a piani d’analisi che, come bersaglio di riferimento, non hanno solo la Chiesa e i suoi esponenti, ma la società tutta: «Il rapporto tra Ramón e la vita viene giocato appunto dentro una serie continua di contrasti tra il senso comune e il senso individuale delle cose. Prendiamo, come esempio, il desiderio di morire. Ramón vuole la propria morte perché della morte non ha paura, ma non avere paura della morte non significa qui desiderarla per nichilismo esistenziale quanto affermare con più forza la relazione tra dignità umana e capacità di affrontare la vita fino in fondo. L’assenza di paura della morte corrisponde a una capacità di vita non ristretta dentro paletti ed è la decisione maturata da un uomo che è vissuto libero e libero vuole morire. Ramón è appunto la modernità che non cerca padroni, la sua stessa identificazione professionale precedente l’incidente – marinaio imbarcatosi per girare il 14 15
Marco Luceri, art. cit. Gregorio Sorgonà, www.controreazione.wordprogress.com, Mare Dentro, 2009.
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mondo – riflette questa condizione. Una modernità in questo caso costretta fuori dalla propria condizione di appartenenza, spinta fuori dal contesto – che è il viaggiare, il muoversi, il non avere riferimenti – dentro una campagna lontana dal mare e dalla pluralità delle metropoli. La razionalità del protagonista riflette questa formazione maturata “girando il mondo a partire dall’età di diciannove anni” perché tenta sempre di essere comprensiva, aperta alle ragioni degli altri senza con ciò essere indulgente verso la fragilità delle stesse. Quando Ramón si rivolge al nipote dicendo “sai che se mi vuoi convincere devi dare una ragione valida” egli esprime al tempo stesso il suo status di uomo consapevole della propria condizione e isolato dalla mancata volontà di dialogo delle istituzioni circostanti16». Ramón Sampedro diventa, per Alejandro Amenábar, un ariete figurato («una libertà che elimina la vita non è libertà») sotto i colpi del quale smuovere le coscienze altrui, che sono sì religiosamente rallentate nella loro evoluzione ideologica ma, cosa ancor più grave, se messe di fronte a casi limite, a fatica riescono ad aggrapparsi alle loro certezze laiche, cioè quelle riconducibili ad una nazione e alle sue istituzioni, le stesse che dovrebbero prendere delle decisioni libere da compromessi o retaggi religiosi. Mare Dentro è un film che vede la luce nelle sale a pochi mesi dalla nascita del governo Zapatero, di quell’ideologia per certi versi rivoluzionari probabilmente si nutre, tanto da parlare così ad una corte: «In uno stato che si dichiara laico, che riconosce il diritto alla proprietà privata e la cui costituzione accoglie anche il diritto a non subire né torture né condizioni degradanti, è lecito dedurre che chi considera la propria condizione degradante, come Ramón Sampedro, possa disporre della propria vita. Di fatto, nessuno che tenti il suicidio e sopravviva viene processato, però quando è necessario l’aiuto di un’altra persona per morire con dignità lo stato interferisce nella vita delle persone e dice che la vita che vivono non è la loro e che non possono disporne. Questo, signori della corte, avviene solo in base a conoscenze metafisiche, ossia religiose, in uno stato che, ripeto, si dichiara laico. Signori della corte, vi chiedo una risposta giuridica, ma sopratutto razionale e umana». Un’arringa, quella dell’avvocato in forza alla DMD e assegnato al caso Sampedro, che ribadisce quale sia il vero bersaglio che Alejandro 16
Gregorio Sorgonà, art. cit.
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Amenábar intende colpire attraverso Mare Dentro: la coscienza sociale e, in particolar modo, quella spagnola, solleticata alla riflessione dal contrastante fine derivato dall’effetto ideologico della nozione di diritto alla vita, che se tale è, allora deve anche tenere conto della scelta di voler morire di propria mano/decisione, almeno nel caso in cui l’individuo che si riconosce come tale e, in quanto laico, sia convinto di come non ci sia nulla oltre l’esistenza terrena: di conseguenza se quest’ultima deve essere vissuta giocoforza, prigionieri di un involucro immobile e quindi di quella stessa libertà illustrata dalle figure di Chiesa, la stessa che non si può esprimere ma solo rispettare, non vale la pena condurla fino al termine del suo naturale decorso, semplicemente perché da dono si trasformerebbe in punizione o fardello, effetto inumano impossibile e mortificante da sostenere, sia per il diretto interessato che per i suoi cari («La comunità non soffre del dolore del singolo se non indirettamente e questo agevola la difesa non tanto della legittimità, che per chi scrive non è in discussione nemmeno per casi meno estremi, quanto della liceità del comportamento. Più complesso sarebbe affrontare questo rapporto tra individuo e comunità su temi non marginali e magari oggi meno trattati dai media, quali il suicidio come scelta estrema di un essere non solo cosciente ma anche non sofferente. Il film di Amenábar così risponde bene all’esigenza di un film che sostenga una giusta battaglia per un diritto alla dignità della morte in casi marginali e al tempo stesso si lega a un contesto preciso quale quello dell’arretratezza giuridica dei sistemi politici occidentali. Il contrasto tra radicalità estrema di una scelta “assoluta” e appartenenza sociale resta, al contrario, sottotraccia, eppure ancora oggi il vero “scandalo” – detto con un’accezione del tutto priva di una connotazione moralistica – è che l’uomo possa vivere e desiderare la morte in condizioni del tutto normali17»). Alejandro Amenábar, pur facilitando le percezioni allo spettatore attraverso le figure per così dire quasi antagoniste del sacerdote e dei giudici, non affronta il tema in questione con superficialità o facile retorica, ma al contrario prova, riuscendovi, ad incanalare l’output emotivo di chi guarda in una sorta di solco esistenziale che risiede tra i concetti di vita e morte, sottolineando quanto la seconda sia diretta conseguenza della prima e come 17
Marco Luceri, art. cit.
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questa sia indissolubilmente legata al concetto di libertà. Se non si è liberi di vivere, quindi, tanto vale non farlo. Mare Dentro non è un’apologia dell’eutanasia oppure un inno al suicidio, bensì un’allegoria della vita, che Amenábar sottolinea attraverso la nascita del figlio di Mabel Riveira (donna che sostiene il diritto a morire con dignità ma sceglie di dare alla luce una nuova vita), alternandolo in montaggio alla serena morte di Sampedro. A volerlo tradurre filosoficamente, Mare Dentro possiede tutto o quasi dell’eracliteo Panta rei, non a caso: «L’unico elemento di unione che resta tra questa serie infinita di opposti inconciliabili è proprio il mare (forse Amenábar in questo raccoglie l’eredità poetica della scuola francese tra le due guerre, quella di Vigo, Epstein, Grémillon e Renoir), che diventa il fluido incessante fra vita e morte – Mar adentro è uno dei versi di una poesia di Ramón. Egli stesso, verso la fine del film, rivela che il mare gli ha dato la vita e il mare se l’è ripresa. Il mare allora, proprio alla fine, riacquista quel significato mitico-simbolico a lungo inseguito da Ramón: una linea dell’orizzonte che non finisce mai, che si protrae all’infinito, trasformandosi in un tentativo di fuga, di viaggio. In Mar adentro tutta l’esperienza cinematografica diventa un viaggio emotivo, una lunga linea d’orizzonte che ci astrae dalla realtà per condurci verso un’altra. Come per Ramón. Come dalla vita alla morte. E viceversa18». Per e in Amenábar il mare e i suoi sinonimi figurati di libertà si sostituiscono all’eterno scorrere del fiume paventato da Eraclito, non a caso dal mare tutto inizia (l’incidente di Ramón) e sul mare tutto termina, come l’ultimo fermo immagine del film, che delinea due scelte opposte, chi con dignità ha deciso per la morte e chi come Julia, con altrettanta dignità, ha deciso per una vita diversa da quella che sognava: «Mare dentro, mare dentro. Senza peso né fondo, dove si avvera il sogno, due volontà fanno avere un desiderio nell’incontro, il tuo sguardo, il mio sguardo, come un eco che ripete senza parole. Più dentro, più dentro. Fino al di là del tutto, attraverso il sangue e il midollo, però sempre mi sveglio e sempre voglio essere morto, per restare con la mia bocca, sempre preso nella rete dei tuoi capelli».
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Marco Luceri, art. cit.
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L’arte della guerra: Agorà «To cast aside your loss and all yuor sadness, and shuffle off that mortal coil and mortal madness, for we’re here to pick you up and bring you home, aren’t we, Cassiel?» Cassiel’s song, NICK CAVE
Agorà è l’ultimo film diretto da Alejandro Amenábar, probabilmente il più radicale e metaforicamente pericoloso tra quelli firmati dal regista d’origine cilena ma d’adozione iberica che, prima ancora di configurarsi come la romanzata ricostruzione dell’ultimo periodo di vita della matematica e filosofa Ipazia di Alessandria, si rivela come la dettagliata e cronologica rivisitazione della bellicosa faida fra tre regimi in guerra tra loro: rispettivamente le fazioni di credo pagano, i cristiani e gli ebrei. Agorà è la pellicola che permette sì ad Amenábar di mostrare il suo interesse per l’astronomia e per la scienza in generale, ma sopratutto il film che consente all’autore di riallacciare i ponti con il suo passato storico, con la sua infanzia, figlio di una famiglia in fuga da una nascente dittatura affermatasi, come tutte del resto, attraverso l’imposizione delle proprie idee: «Il film attacca l’uso della violenza per imporre idee. E ciò è valido tanto per un terrorista islamico come per uno dell’ETA19». Agorà rappresenta, nella giovane ma già affermata carriera di Alejandro Amenábar, la pellicola del secondo esorcismo dopo quello effettuato in The Others, il lascia passare per poter dire definitivamente la sua intorno ai concetti di religione, fanatismo, fondamentalismo e morte; praticamente l’essenza stessa del cinema di stampo amenabariano. Prima che di personaggi e storie Agorà è un film girato intorno ai luoghi, quelli infiniti del cielo stellato, nell’immensità del quale si proietta spesso e volentieri la macchina da presa e quelli più tangibili, ma alla vista umana contemporanea parimenti imponenti, dello spazio comune che dà il titolo al film: nell’antichità il centro e cuore pulsante della città, la piazza o il mercato, spazio da sempre preposto all’incontro o al costruttivo dibattito, regolato da condivise e rispettate regole, che Amenábar trasforma in campo di battaglia («Perché Agorà è sinonimo di 19
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spazio pubblico, luogo d’incontro20»), zona che da incontro diventa di scontro, terreno filosofico per certi versi sacro calpestato dal fanatismo di un regime che cerca, con la forza, di prevalere sulle idee dell’altro imponendogli le proprie, non attraverso la parola, bensì con sangue e ferro. «L’agorà è il centro, oltre che economico, anche morale e sacro della città; nell’agorà si organizza il popolo, quando ricorrono le grandi feste religiose, e di là partono i processi solenni. […] Solo il cittadino nel pieno possesso dei diritti politici e civili vi sta da padrone; il forestiero vi è tollerato: non può esercitarvi il commercio minuto, e, quando la legge glielo consente, deve pagare per ciò una tassa speciale. Il cittadino ha nell’agorà un po’ dell’autorità che ha il padre di famiglia nella sua casa; può impedirne l’accesso all’empio, al bandito, all’omicida e, se ve lo sorprende, arrestarlo e consegnarlo al magistrato, perché lo metta in ceppi. […] Nell’agorà, che è il cuore della polis, si vive più intensamente che altrove la quotidiana vita politica: vi si apprendono notizie, si formano, nei commenti, giudizi collettivi su uomini e su cose, così che l’opinione pubblica ha modo di orientarsi e definirsi21». L’ultima fatica dietro la macchina da presa di Alejandro Amenábar gravita attorno alla concezione e raffigurazione di tre luoghi per certi versi sacri e violati. Spazi architettonicamente pesanti, traboccanti cultura o infinito non ancora compreso: c’è la parte della città che dà il titolo al film, la Biblioteca di Alessandria vittima della foga dei cristiani e lo spazio celeste, anch’esso danneggiato nella sua conoscenza dal regredire mentale dell’uomo e di conseguenza del suo studio, causato dalla esaltata distruzione di un vero e proprio patrimonio culturale, fiore all’occhiello di una culla intellettuale raso al suolo e cancellato per sempre dall’infierire di pochi. Il regista lascia gravitare la pellicola attorno a questi luoghi («Ma andiamo con ordine. Culmine di questo scontro di civiltà fu la distruzione della Biblioteca di Alessandria. In Agorà la vediamo espugnata da una torma di cristiani decisi a vendicarsi dei pagani. I quali, stufi di veder profanate le statue delle loro divinità, si erano dati a scannar cristiani trincerandosi poi nella cittadella del sapere. È una delle scene migliori del film. Non per la violenza, che Amenábar peraltro non spettacolarizza; non perché gli integralisti una volta 20 21
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tanto, da qui in poi, sono i cristiani (è l’idea-guida di Agorà); ma perché – almeno qui – le tre anime del film si fondono22»), li rende concentrici nella trama sottolineandone il loro interesse storico e ne amplifica drammaticamente il senso di perdita a partire da uno stile visivo mai così trascendente, quasi fosse desideroso di distaccarsi dalla realtà, volenteroso di raggiungere la pace dello spazio assoluto in quanto costretto a misurarsi con la bellicosa scelleratezza terrena («Il film è la storia di una perdita, di un gran passo indietro nella civiltà. L’astronomo americano Carl Sagan affermava che se la Biblioteca d’Alessandria non fosse stata distrutta e con essa tre quarti di tutte le opere che conservava, forse oggi avremmo già colonizzato Marte, le sue teorie sono molto presenti in questo film, c’è qualcosa del suo spirito: mi piacerebbe che fosse ancora vivo per potervi assistere. La perdita della Biblioteca d’Alessandria è strettamente relazionata con il progresso astronomico ed il progresso scientifico in generale23»). Agorà inizia secondo una modalità ormai consona e riconoscibile negli incipit firmati Amenábar: il nero iniziale lascia il posto ad un’istantanea del mappamondo terrestre, poi, la caratteristica voce fuori campo rompe definitivamente il ghiaccio: «Quanti sciocchi secondo voi si sono domandati perché le stelle non si staccano dal cielo, ma voi, che avete ascoltato il saggio, sapete che le stelle non si spostano né in su né in giù, e se ruotano lo fanno da est a ovest seguendo il percorso più perfetto mai concepito: il cerchio». A questo punto un gioco luci e dissolvenze trasforma la luna in sole, sottolineando la perfetta concezione di centro e rivela l’ambientazione tutta: Alessandria d’Egitto, la filosofa e matematica Ipazia sta tenendo una delle sue lezioni mattutine: «Poiché il cerchio domina il cielo le stelle non sono mai cadute e mai cadranno». Attorno a questa meccanica celeste, al suo studio e alle sue teorie, Alejandro Amenábar allestisce buona parte della struttura tecnica di Agorà, un’impalcatura che prevede, oltre alla scelta registica, buona parte del contenuto rintracciabile nei dialoghi e nell’iniziale presentazione della protagonista. Se Mare Dentro aveva rappresentato il primo strappo alla giovane tradizione amenabariana, concentrato ad oltrepassare i primi e “crossoveristici” generi di riferimento (thriller e horror) per approdare al melo22
Fabio Ferzetti, www.ilmessagero.it, Agorà, la parabola di Ipazia in un film coraggioso ma indigesto, 2010. 23 www.dizionariodelcinemaspagnolo.com, art. cit.
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dramma, Agorà si spinge ancora oltre, abbracciando l’estetica, modernizzata e corretta, del film storico e in costume. Continua a mutare la forma e, di conseguenza, cambiano le ispirazioni, tanto che l’idolatrato Alfred Hitchcock, fino a The Others costante punto di riferimento stilistico, cede il posto a Stanley Kubrick, che Alejandro Amenábar chiama in causa strizzando l’occhio a 2001 Odissea nello spazio ogni qual volta la macchina da presa si stacca dalle faide terrene per elevarsi al cielo e oltre, fino ad inquadrare il pianeta terra dall’alto della sua magniloquenza, quasi a voler ribadire l’infinitamente piccolo di coloro che l’abitano, intenti a prevalere numericamente di volta in volta su un nemico diverso nonostante lassù esista ancora qualcosa di enormemente più grande di loro, che dall’alto li osserva tronfio, certo di come alcuni illuminati umani non abbiano ancora imparato a conoscerlo in ogni suo singolo movimento. Agorà è un tripudio di panoramiche e dolly vertigonosi, movimenti di macchina significantemente semiotici all’intento del regista, che attraverso l’obiettivo, la fotografia o lo stesso minutaggio esteso della pellicola, intende trasmettere ciò che il sistema eliocentrico, della cui validità Ipazia era convinta sostenitrice, spiega durante il susseguirsi dei dialoghi: «In un certo senso, Agorà è la mia personale rilettura del cinema di romani e cristiani. Mentre stavamo preparando la sceneggiatua, Mateo Gil ed io passavamo il tempo riguardando peplum: Ben Hur, La caduta dell’Impero Romano, Cleopatra e Faraone, una superproduzione polacca degli anni ’60 che mi aprì le orecchie, perché ha un uso del sonoro ottimo, molto realista. 2001 Odissea nello spazio e tutti i film di Spielberg, che vidi uno ad uno prima di incominciare le riprese. Abbiamo studiato il film storico ma ci siamo preoccupati di come rendere le riprese più realistiche e movimentate, perché rivedendo oggi molti film in costume non si può non notare come fossero lenti, noi volevamo fare un film più aggressivo e al passo con i tempi sopratutto nelle scene d’azione24». L’intento in buona parte riuscito di Alejandro Amenábar, quindi, consiste nel ricreare un’ambientazione se non classica almeno riconoscibile all’occhio di chi guarda (a partire dalla collocazione spazio-temporale messa addirittura per iscritto ad inizio film), gettare insomma le basi cinematograficamente tradizionali affinché lo spettatore si trovi a suo agio persino nella storica annualità degli avvenimenti che segui24
Ibidem.
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ranno, si orienti senza possibilità di errore alcuno, così da meglio accettare e seguire la vicenda della protagonista: «L’obiettivo è stato quello di realizzare un viaggio nel passato, ho voluto mettere in scena una ricostruzione reale e contemporaneamente realizzare un film che parlasse di astronomia, volevo che fosse un omaggio a coloro che osservano il cielo e incontrano risposte, perché rifiutano altri conoscimenti, come Ipazia, perché il dubbio è la sua filosofia25». La conferma di come Amenábar sia, ormai, padrone dei generi e della macchina cinema, sappia addirittura instradarsi all’interno di essi con una padronanza e una ferma freddezza che gli consente di metterne in conto i rischi, che in questo caso corrispondono alla facile trappola dello sceneggiato prodotto e scritto per il piccolo schermo, tranello nel quale Agorà non cade in quanto sostenuto da una regia pomposa e magniloquente ma non per questo mai barocca, certamente destinata al grande schermo e non ideata come possibile destinazione catodica. Fin qui la forma di un film, peplum “post litteram” dichiaratamente destinato ad altro, in quanto racconto di una guerra e delle sue conseguenze, rigido assioma di vita assegnato alle potenzialità di un modo di fare cinema che, ancor di più all’indomani di Mare Dentro, persiste testardo nel seguire la sua mentalità, la stessa che sceglie di tornare a patteggiare per i dubbiosi, in questo caso gli scienziati condannati a causa delle loro legittime e intellettuali domande: scomode, incomprensibili e peccaminose per chi decide di eliminarli, lasciandosi guidare nell’estrema decisione da sicurezze mistiche di stampo religioso, fatte di fede ma non di calcolo, punti interrogativi e quesiti risolti. Convinto della propria tesi, Alejandro Amenábar mostra senza pudore le capacità distruttive del fanatismo e dell’ortodossia religiosa: non patteggia per nessuno e mette tutti sullo stesso piano, a partire dai cristiani, storicamente vittime perseguitate a causa della loro fede, ora orda scellerata e armata che, ringalluzzita dalla visione fondamentalista che accompagna la rivolta nei confronti dei pagani, pone fine con un gesto elementare e primitivo a secoli di tolleranza ed eclettismo culturale: «Ashraf Barham, che incarna uno dei leader parabolani, venne alla prova del casting con un crocefisso ben visibile al collo e molto curioso di conoscere la mia opinione sulla religione. Gli spiegai che ero stato educato in un collegio cattolico, gli escolapi; che fino a The Others mi 25
Ibidem.
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consideravo agnostico e ora sono ateo. Lui voleva sapere perché avessi perso la fede e discutemmo per due ore di religione. Gli dissi: questo è ciò di cui parla il film, di che io cercassi di torturarti o ucciderti per ciò che credi, o tu per quello in cui credo io. Del fondamentalismo: ecco di cosa parla film26». Eccezion fatta per la collocazione storica, quindi, Amenábar riprende in Agorà praticamente lo stesso concetto portato a conclusione in Mare Dentro: la libertà che ogni essere umano dovrebbe aver assicurata di poter condurre la propria vita come meglio crede, senza che quest’ultima venga ideologicamente soggiogata a credenze religiose, fatte esclusivamente di fede ed ad essa indiscutibilmente collegate, che esulano dal mondo chi alla certezza mistica preferisce il dubbio, l’interrogativo. Ramón Sampedro si domandava se fosse giusto vivere una vita che eliminava la libertà di vivere, il suo avvocato chiedeva alla corte di La Coruña una risposta «giuridica, ma sopratutto razionale e umana» alle sue richieste, mentre esponenti della Chiesa lo criticavano in quanto presunto propagandista pubblico del desiderio di morte, quindi della volontà illegittima e ingiustificata di impadronirsi di un bene, la vita, non suo ma di proprietà di Dio. In parole povere un sovversivo, capace di porsi domande e, dopo anni di immobilità, addirittura di darsi delle risposte. Mortali, di certo non mistiche. Ipazia, per certi versi, raccoglie l’eredità lasciata da Ramón Sampedro: una donna che alla certezza assoluta della fede religiosa antepone il raziocinio, il calcolo, lo studio, il porsi delle domande e darsi delle risposte , affidandosi al pensiero filosofico e alla sicurezza matematica: «Voi non potete mettere in discussione quello in cui credete, io devo». Ipazia pensa, s’interroga, mette in discussione persino ciò che le è stato impartito dagli insegnamenti paterni (l’improvvisa “conversione” al sistema eliocentrico teorizzato da Aristarco, l’unico in grado di avvicinarla alla comprensione del corretto movimento celeste delle «stelle erranti», cioè i pianeti, da lei iniziati ad essere inquadrati secondo la descrizione di epicicli e deferenti), un’apertura mentale concessale non dal paganesimo che l’ha cresciuta, bensì dalla passione e dalla dedizione per lo studio e, di conseguenza, per il dubbio: punto di domanda che tutto muove («Il problema non è tanto se Agorà sia un film pro o contro i cristiani, ma che a quasi duemila anni dalla sua morte nulla sia davvero cambiato. Ancora oggi infatti in Iraq, in Afghanistan e in altri 26
Ibidem.
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posti del mondo si uccide in nome della religione e nel nome di Dio, esattamente come succedeva ad Alessandria d’Egitto nel 400 d.C. E non va dimenticato che in alcune zone fondamentaliste degli Stati Uniti a scuola non si insegnano le teorie evoluzioniste di Darwin. Il grande insegnamento e la modernità di Ipazia? Che credeva nel dubbio, sempre e comunque27»). Così com’è Ipazia non può non essere recepita dalla nascente dittatura di pensiero cristiana se non come una minaccia da eliminare, perché da sempre: «Chi pensa è sgradito al potere. Pensare è un’attività sovversiva. Pone infatti le basi del cambiamento. Pensare è la vera rivoluzione permanente. Di conseguenza, pensare è pericoloso28». Ipazia non solo pensa, ma addirittura teorizza, mette nero su bianco, non si affida al solo verbo orale come invece fanno i parabolani, ma converte ogni sua scoperta o suggestione in scritti da custodire nella Biblioteca d’Alessandria: primo bersaglio da colpire secondo l’orda cristiana, che Alejandro Amenábar immortala come mai accadutole in precedenza, in quanto Agorà non è un film contro il cristianesimo, bensì contro il fondamentalismo. Ne consegue che il regista dedichi ai seguaci di Dio attenzione, rievocandone duplice condizione e doppia faccia della stessa medaglia: concentra la sua attenzione sul sorgere del cristianesimo focalizzando correttamente il suo sguardo sull’aspetto libertario ed egualitario del messaggio di Cristo, librandolo nel confronto tra pagani e cristiani ad inizio film: «Celebrata lungo i secoli come un’eroina del libero pensiero, Ipazia era una filosofa e scienziata attiva ad Alessandria nel IV secolo dopo Cristo. Brutto posto, e brutto momento, per il libero pensiero. Mentre l’egualitaria Ipazia tentava con i suoi allievi di penetrare i misteri del cosmo, la metropoli egiziana, a lungo sinonimo di tolleranza e cosmopolitismo, era infatti scossa da minacciosi fermenti. La vecchia aristocrazia pagana andava perdendo potere e prestigio; la nuova religione cristiana conquistava invece sempre nuovi adepti. Anche grazie a predicatori carismatici quanto aggressivi come l’Ammonio del film, un tipo capace di camminare nel fuoco per provare che il suo è l’unico vero Dio, e destinato a esser proclamato martire, più tardi, dopo aver scatenato un proto-pogrom antiebraico29». Infatti la società alessandrina, per quanto fosse avanzata ed esempla27
Franco Cardini, www.panorama.it, Agorà, autocritica in nome di Dio, 2010. Giona Nazzaro, www.larepubblica.it, Agorà, 2010. 29 Franco Cardini, art. cit. 28
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re, era divisa ferocemente in classi e la sua economia si reggeva sulla schiavitù, la forza politica e l’autorità morale dei primi portatori della parola di Cristo si afferma quindi attraverso il proclamare l’uguaglianza di tutti gli uomini, una rivoluzione che parte dal basso, quasi avesse origini contadine e poco dotte non per mancanza di volontà, bensì a causa di segregazione fisica e sociale. Inevitabile, quindi, il diffondersi rapido di tesi che si rivolgono a strati amplissimi della popolazione alessandrina, mettendo in discussione il primato di un numero ristretto di persone. La figura di Ipazia, in questo scontro di culture, si posiziona come una portatrice di complessità interpretativa, una scheggia impazzita e incomprensibile agli occhi di chi giura fedeltà al nuovo credo, perché figlia di una cultura elitaria e contemporaneamente convinta che tutti, schiavi e nobili, debbano e possano assistere alle sue lezioni (come nel caso di Davo, schiavo convertito al cristianesimo dal lavoro ai fianchi del parabolano e, al tempo stesso, pupillo scolastico di Ipazia nonché tra i suoi studenti più svegli e intuitivi). Quella di Ipazia è già una condizione dell’esilio, né dentro e né fuori il suo mondo, che si lacera in presenza del sorgere di un altro ordine, quindi di un altro mondo, meno materiale e più metafisico del precedente, un transito di fede che, secondo la sfortuna di chi è in possesso di una mentalità troppo futurista per essere accettata dai suoi contemporanei, taglia fuori Ipazia: «Quindi lei è già altrove. Ipazia scruta il firmamento pensando ad altre modalità di esistenza e intanto nelle strade e nelle catacombe si progetta il rogo dei libri30». L’incompresa solitudine di Ipazia diventa la condizione di isolamento della ragione tutta, in un mondo dove transitano presuntuosi custodi onniscienti di verità assolute, miracoli, apparizioni illuminate e ritorsioni divine. La parola di Dio, ancora troppo primitiva e latentemente votata alla vendetta, a conquistare quanto ammirato in silenzio fino ad allora, rimuovere di fatto la possibilità che la moltitudine possa contenere in essa parole pronunciate dagli uomini che siano diverse da quelle previste. Una dittatura mistificante, dove non rimane nulla dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di un Dio caritatevole, ma solo la presunta parola di questo Dio, elevata però a modello unico, quindi ad immagine indiscutibile e certa, di quelle che dovrebbe pensare e pronunciare l’uomo, cancellando così indagine, rischio, ricerca, attività umane ora da bandire perché rischiose alla permanenza del regime. La disubbidienza 30
Giona Nazzaro,art. cit.
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diventa quindi l’unico e ultimo imperativo morale di chi, accusato a causa di anni vissuti a pancia piena, stravizi e vessazioni inflitte, viene adesso confinato al di qua della parola di Dio: «Coraggiosamente Amenábar in questo scontro di pensieri opposti riesce a evocare in controluce la polemica nietzschiana nei confronti del cristianesimo: gli schiavi non esistono più non perché abbiamo abbattuto la schiavitù ma perché tutti siamo diventati degli schiavi. Uguaglianza quindi non come ricerca della massima felicità possibile, ma come minimo comune denominatore verso il basso. La vita stessa viene ridotta a quella condizione di schiavitù che si affermava di voler abbattere. Per ricordare agli uomini che sono tutti uguali, si estende a tutti la medesima condizione di schiavitù e miracolosamente la schiavitù non esiste più. Un solo pensiero sostituisce tutti i possibili pensieri e Dio gli Dei. Di conseguenza il cristianesimo, collante dell’Europa secondo Novalis (e non solo), diventa il prototipo per eccellenza del pensiero unico. E il rogo della biblioteca di Alessandria anticipa drammaticamente i roghi dell’inquisizione e quelli nazisti atti a purificare la cultura degenerata31». Dato per assodato che il sottofilone meglio conosciuto come cinema storico esista e per buona parte viene citato come ispirazione formale, nei suoi capisaldi, dallo stesso Amenábar (Ben Hur, La caduta dell’impero romano, Cleopatra), se inserito all’interno di questa plancia cinematografica Agorà si conquista, metaforicamente, un’importanza fondamentale in quanto contenitore di un messaggio unico: «Quando il cinema ha raccontato l’antichità classica, quasi sempre l’ha fatto contro di essa. Infatti Hollywood si rivolge ad un pubblico nordico cristiano-protestante e al pubblico ebraico, che non si identificano con i greci e con i romani. E Cinecittà soffre della prossimità con la Santa Sede, dunque ha visto il politeismo greco-romano come il prologo del cristianesimo32». Ecco che Agorà si trasforma in quel volume culturale e quell’eredità storica destinata a colmare un’enorme lacuna cinematografica, perché non solo sfugge alle logiche hollywoodiane che, come sottolineato da Maurizio Cabona, per distanza “geografica” bypassano il periodo storico affrontato da Alejandro Amenábar, ma addirittura si pone come cartina tornasole di una modalità rappresentativa cristiana in grado, con oggettività, di sfuggire alle dinamiche per così dire forzate delle produzioni tricolori. Non è un caso infat31 32
Ibidem. Maurizio Cabona, “Il Giornale”, Agorà, la storia di Ipazia rivaluta gli antichi Dei, 2010.
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ti, che lo stesso regista abbia presentato così il suo film: «Agorà non è un film contro il cristianesimo, ma contro il fondamentalismo è il racconto del momento storico in cui la Chiesa ha iniziato a diventare una potenza, e i martiri per una volta non sono stati i cristiani, come da sempre siamo abituati a vedere, bensì i pagani, ma anche gli ebrei. Eppure io considero Ipazia come la versione femminile di Gesù, il suo insegnamento era la tolleranza verso gli altri, la comprensione e il rapporto che aveva con i suoi allievi era molto simile a quello che Gesù aveva con i discepoli. Non a caso prima di iniziare a girare Agorà ho rivisto Il vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini33». L’arguzia di Agorà risiede nella sua capacità di resocontare pro e sopratutto contro le tre fedi in guerra («Non è però soltanto la Chiesa sotto accusa, quanto la brutalità di certi estremisti. Così come quella dei più esagitati tra pagani ed ebrei. Sotto accusa è la stupidità dell’uomo. Negarlo sarebbe come voler negare le pagine oscure dell’Inquisizione. Un film, insomma, non contro i cristiani ma contro tutti gli estremismi. E contro il maschilismo (allora?) imperante nella cultura e nella società. Scomoda Ipazia, come donna34») tra loro: i pagani sono presentati allo spettatore prima come arroganti, poi come studiosi e successivamente come minoranza caduta sotto i colpi della ribellione cristiana. Questi ultimi, invece, vengono introdotti come gente comune, poveri ridotti alla schiavitù che si affidano alle parole e ai gesti caritatevoli dei parabolani per trarre sollievo da un’esistenza di stenti, comunque in grado di armare una rivolta e di radere al suolo un patrimonio culturale come la Biblioteca di Alessandria. Infine gli ebrei, entrati nel mirino dei cristiani una volta che il paganesimo viene ridotto a orgogliosa minoranza, ma ugualmente violenti nel tendere ai rivali violenti agguati, come quello ascrivibile alla sequenza della trappola che si tramuta in lapidazione vigliacca, operata ai danni di nemici intrappolati nel loro stesso luogo di preghiera e quindi incapacitati a difendersi («Quella di Ipazia è una storia esemplare. Che non condanna il Cristianesimo, ma che riconduce al dato effettivo dell’inadeguatezza morale e culturale dei mezzi e dei metodi che alcuni, troppi cristiani hanno usato nella storia per far trionfare non tanto la loro fede quanto il sistema di potere che la sosteneva35»). Più che patteggiare per una delle tre 33
www.celluloidportraits.com, Intervista ad Alejandro Amenábar. Natalia Aspesi, La repubblica, Agorà, 2010. 35 Franco Cardini, art. cit. 34
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fazioni in lotta, Amenábar si limita a riportare, oggettivamente, la pericolosità insita in ogni tipo di credo religioso se ancorato a standard fondamentalisti, utilizzando il suo ultimo lavoro dietro la macchina da presa come metafora contemporanea della sua epoca, che il regista vede inevitabilmente germogliare nell’epoca riconducibile alla storia raccontata: «In tempi di caccia all’islamico, furore razzista conto gli immigrati, complotti sionisti che spuntano nelle parole di prelati scottati da scandali che secondo l’insegnamento di Gesù avrebbero meritato loro macine al collo per avere scandalizzato i più piccoli tra noi, Agorà ripercorre alcune pagine poco note di intolleranza religiosa restituendo ai protocristiani ciò che è sempre stato loro in termini di odio e violenza. E nella scena della distruzione della Biblioteca di Alessandria, che vibra di indignazione altissima, Alejandro Amenábar si ritaglia una battuta fulminante che da sola può valere tutto il film. Un filosofo urla angosciato a uno studente tra le fiamme: “Salva solo le opere importanti! Lascia stare quelle minori!”. L’allievo risponde smarrito: “Quali sono le opere minori?”36». Dati di fatto ai quali, con altrettanta tranquillità d’animo, non può non essere avvicinata la certezza di quanto Alejandro Amenábar continui, nei confronti del cristianesimo e quindi della Chiesa che in nome di Dio tutto o quasi giustifica, ad avere il dente avvelenato. Agorà infatti, pur non lesinando critiche al comportamento di pagani ed ebrei, non risparmia moralmente proprio gli atti dei cristiani, quasi mettendoli alla gogna attraverso due sequenze chiave: in principio durante l’assalto alla Biblioteca di Alessandria e poi, in chiusura di film, nel disegno finalizzato alla lapidazione di Ipazia («Alejandro Amenábar non ha certo la mano leggera nel presentarci un’Alessandria del 415 percorsa dalle passioni feroci dei parabolani, i Santi squadristi brutti, sporchi e cattivi al servizio di Cirillo vescovo di Antiochia; né usa toni soft nel presentarci l’infame linciaggio, a opera loro, della saggia, virtuosa, intelligente filosofa e scienziata neoplatonica Ipazia, che pur intratteneva affettuosi rapporti anche con molti suoi allievi cristiani37»). Difficile, analizzando l’ingresso selvaggio dei cristiani nel Serapeo pagano per volontà dell’imperatore Teodosio II, non rileggere nel gesto esaltato e furente una “reichizzazione” del movimento in favore di Cristo, colpo di 36
Giona Nazzaro, art. cit. Fabio Ferzetti, www.ilmessagero.it, Agorà, la parabola di Ipazia in un film coraggioso ma irrisolto. 37
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stato nato dal popolo che, una volta al potere, brucia i libri, dà fuoco alla conoscenza con un unico obiettivo: azzerare tutto quanto venuto prima di loro senza lasciarne traccia concreta, così da poter costruire, senza doversi più misurare con precedenti provati e scomodi, un nuovo regime di pensiero inconfutabile, perché numericamente più forte di quello appena decaduto e sopratutto intoccabile, in quanto non più timoroso di parole, formule e teorie impresse su carta. Parimenti alla violenza visiva e di messaggio, tramite la quale Amenábar risponde alla crudeltà di gesti cristiana, è giusto sottolineare come il regista non perda la bussola e l’oggettività d’analisi al momento di tirare le fila del discorso, tenendo bene a mente il quadro generale e le finalità del progetto Agorà una volta giunta l’ora di consegnare Ipazia al suo destino. La filosofa e matematica, ormai tacciata di colpe quasi medioevali come la stregoneria e segnata dalle accuse di empietà («Ipatia fu una donna eccezionale, non solo per i suoi meriti come filosofa e astronoma in un mondo tradizionalmente dominato dagli uomini, ma anche per le circostanze che circondarono la sua morte e per l’epoca e il luogo in cui le toccò vivere: l’Egitto decadente del IV secolo dopo Cristo, quando la cultura greco-romana stava ormai trasformandosi nella cultura alto-medioevale38».), rifiuta l’ultima possibilità di salvezza: il battesimo, la stessa scappatoia percorsa all’ultimo minuto dai membri non cristiani del Concilio (compreso l’ex allievo pagano Oreste). I parabolani, in preda all’ira dell’ennesimo sgarbo subito, decidono così di scorticarla viva: da tale e atroce destino la salva Davo, anche lui una volta studente di Ipazia da sempre e segretamente innamorato di lei. L’allievo convertito al cristianesimo convince con l’inganno gli zelanti a procurarsi delle pietre così da lapidarla, in modo da ucciderla ma senza entrare in contatto con il suo sangue di impura peccatrice. Distratti gli assassini si avvicina a Ipazia e, con il suo consenso, la strangola, evitandole così una morte dolorosa e umiliante. Una conclusione che rivela come, attraverso la figura interpretata da Max Minghella (Davo), Alejandro Amenábar intende ribadire non la sua avversione nei confronti degli insegnamenti cristiani, ben rappresentati dalla figura dell’ex studente di Ipazia, bensì condannare le derive di qualunque credo religioso che, nel nome della sua fede, si sente libero e giustificato nel mettere in pratica qualunque azione, dimenticando volontariamente quelli che 38
Gabriella Bernardi, www.astronomia.com, Agorà: il film, 2010.
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sono i suoi imperativi, quali il perdono, la comprensione e la misericordia. Più che della parola di Dio, i cristiani di Agorà sembrano necessitare, per la loro sopravvivenza, di vittime-simbolo e Ipazia: donna, filosofa, matematica, nubile convinta del suo status di figura femminile libera e agnostica, rappresenta il capro espiatorio ideale per tali bisogni/pulsioni, identiche a quelle di ogni regime o dittatura che dir si voglia, le stesse dalle quali l’Amenábar bambino è scappato e che ora condanna attraverso la martire Ipazia; nell’animo più cristiana di chi invece professa di esserlo, lo manifesta nell’immediata conseguenza del saccheggio di quella che fino a pochi minuti prima era la sua Biblioteca, quando Davo incrocia il suo sguardo, le si avvicina e le offre la gola: pronto ad espiare il suo peccato. Ipazia lo risparmia, gettando il seme del perdono che proverà a manifestare a parole durante il sottofinale: «Voi non mettete in discussione ciò in cui credete». Chiave di lettura quest’ultima, che non deve essere stata prontamente recepita nel Paese del Vaticano, oltremodo preoccupato delle potenzialità anticattoliche presenti nella pellicola, tali da suscitare un ritardo di distribuzione nelle sale italiane, che ha lasciato più di qualche sospetto: «Ipazia fu uccisa con orribile crudeltà dai parabolani, fanatici cristiani che dopo aver distrutto la Biblioteca Alessandrina infierirono contro pagani ed ebrei, per ordine del vescovo Cirillo, oggi onorato come santo e padre della Chiesa. È la ragione per cui quando il film fu presentato a Cannes, l’anno scorso, si diffuse il timore di pressioni da parte del Vaticano per impedirne l’uscita, tanto che su Facebook intellettuali e filosofi aprirono una campagna di sensibilizzazione» – «Arriva solo ora in Italia dal “fuori concorso” dell’ultima edizione del Festival di Cannes il kolossal da 50 milioni di euro di Alejandro Amenábar, Agora. E questo è già un trionfo, perché erano in molti a scommettere che il film non sarebbe arrivato nelle nostre sale (da venerdì in 200 copie con Mikado). Dopo le polemiche scoppiate in Francia 108
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e di lì allargatesi sui blog di mezza Europa contro chi parlava intorno alla inopportunità di proiettare nel Paese del Vaticano il film che in qualche modo inneggia alla filosofa e scienziata Ipazia, l’“eretica” condannata a morte dagli integralisti cristiani ad Alessandria d’Egitto nel 391 dopo Cristo, qualcosa evidentemente si è mosso, compreso un bell’articolo di qualche mese fa a favore della giovane e bella studiosa (interpretata da Rachel Weisz) a firma dell’astrofisica Margherita Hack39». Concettualmente profondo, politicamente scorretto e legato in qualche modo allo stesso bisogno che aveva mosso Mare Dentro, Agorà è, oltre che un film contro i fondamentalismi metafisici, anche un mosaico storico tra i tasselli del quale allestire l’intreccio di tre storie attorno alla figura di una donna: «La prima è filosofica, la seconda politica, la terza sentimentale40». Elementi che Alejandro Amenábar amalgama secondo una modalità di racconto rodata, che lo accompagna dai tempi di Tesis. L’autore, come di consueto, posiziona al centro della scena l’interprete principale, caricandola della maggior parte delle responsabilità di presa sul pubblico inerenti al film. A Rachel Weisz è assegnato il compito fondamentale, mentre attorno a lei si configura il classico triangolo affettivo amenabariano. Dopo quello tra Angela, Chema e Bosco in Tesis, quello tra Cesar, Nuria e Sofia in Apri gli Occhi e quello tra Ramón, Julia e Rosa in Mare Dentro, ecco realizzarsi quello tra Ipazia, Davo e Oreste. All’interno di tale figura geometrica Max Minghella (Davo) si carica di interpretare lo spicchio di sentimento più puro, giovanilistico, nascosto e platonico, mentre Oscar Isaac (Oreste) rappresenta il versante adulto, maturo e ambizioso. Ipazia, però, fugge sentimentalmente entrambi, compiendo un ulteriore passo in avanti verso l’assoluta individualità persino rispetto al paragone con il Ramón Sampedro di Mare Dentro. Prototipo di orgoglioso e indipendente femminismo, Ipazia si realizza nella volontà dello scrittore e regista Alejandro Amenábar, che intenzionalmente opta per una scelta eticamente europea («Sicuramente se avessi prodotto il film negli Stati Uniti si sarebbe rafforzata la storia d’amore e posto meno interesse attorno all’astronomia41»), finalizzata a non scadere nella prevedibile trappola del melò in costume e destinata, ancora una 39
Fonte: www.badtaste.it, Agorà, ancora polemiche in Italia, 2010. Fabio Ferzetti, art. cit. 41 www.dizionariodelcinemaspagnolo.com, art. cit. 40
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volta, a ribadire le intenzioni poetiche del suo cinema, affidato nuovamente ad un ritratto umano che guarda senza paura alla morte, addirittura studiandola latentemente, interessata com’è all’universo e all’infinito celeste: immensità dove, nonostante l’incalcolabile spazio a disposizione, non c’è posto per i comuni mortali, bensì solo per i prescelti o per i martiri.
Star system «Noi siamo l’incarnazione locale di un Cosmo cresciuto fino all’autocoscienza. Abbiamo incominciato a comprendere la nostra origine: siamo materia stellare che medita sulle stelle» CARL SAGAN
«Volevo parlare di astronomia, però senza l’aridità di una lezione di fisica. Quando mi decisi per la storia di Ipazia solo dopo venne il genere, il peplum o storico42». Alla tripartizione strutturale di Agorà illustrata nel precedente paragrafo (tre storie, una filosofica, una politica e una sentimentale), deve necessariamente essere aggiunta una quarta variante: quella scientifico/astronomica che, stando al pensiero del suo regista, ha rappresentato la molla primigenia affinché il progetto Agorà prendesse corpo. Con la sua ultima fatica dietro la macchina da presa Alejandro Amenábar non mette in scena soltanto una faida religiosa, o la ricostruzione di quella che era, nella seconda metà del quarto secolo dopo Cristo, una vera e propria culla intellettuale e culturale, enorme e cosmopolita; ma riesuma dalla polvere la figura di una donna dotta, una filosofa, una scienziata, figlia di Teone, che dedicò a lei tanta cura al solo scopo di farne una giovane al di sopra delle sue coetanee, in un’epoca durante la quale il gentil sesso non faceva certo rima con parità di diritti e trattamento. Quello che si sa per certo è che Ipazia di Alessandria d’Egitto visse tra il 375 e il 415 dopo Cristo, ed operò presso la leggendaria Biblioteca di Alessandria fondata dai Tolomei. L’istituzione, oltre a contenere i libri dell’antichità, era affiancata dal Museo, ovvero da quella che oggi potrebbe essere definita come un’Accademia di livello universitario. Come già accennato figlia del filosofo Teone, di rara bellezza, 42
www.dizionariodelcinemaspagnolo.com, art. cit.
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intelligenza ed eloquenza, Ipazia si formò culturalmente tra Atene e Roma e alla morte del padre prese il suo posto, succedendogli all’età di trentuno anni nella direzione del Museo. Di educazione pagana e convinta sostenitrice della distinzione fra religione e conoscenza, morirà trucidata durante un agguato tesole da un gruppo di fanatici cristiani, probabilmente su ordine del vescovo Cirillo, divenuto patriarca di Alessandria nel 412: «Di Ipazia gli storici scrissero che apprese dal padre le scienze matematiche, ma divenne molto migliore del maestro soprattutto nell’arte dell’osservazione degli astri e che scoprì qualcosa di nuovo riguardo al moto degli astri, esponendolo nell’opera “Canone astronomico”, di cui ad oggi, purtroppo, non rimane che il titolo […] introdusse molti alle scienze matematiche. Il suo sapere spaziava dalla filosofia alla matematica, dall’osservazione degli astri alla compilazione dei Commentari, ovvero degli aggiornamenti delle opere degli antichi. L’opera monumentale di Tolomeo Claudio – l’Almagesto – venne commentato in collaborazione con il padre che nella prefazione scrisse: “Commento di Teone di Alessandria al terzo libro del Sistema matematico di Tolomeo. Edizione controllata dalla filosofa Ipazia, mia figlia”» – «Ipazia... che aveva fatto tali conquiste in scienza e letteratura da sorpassare tutti i filosofi del suo tempo. ...venivano da lontano per assistere alle sue lezioni... appariva spesso in pubblico ...per questo gli uomini la ammiravano sempre più […] Ipazia, eloquente e forbita nel parlare tanto quanto era prudente ed educata nei suoi comportamenti. L’intera città l’amava e venerava in modo straordinario, ma i governanti della città fin dall’inizio la invidiavano. […] Quando ti vedo mi prostro, davanti a te e alle tue parole... Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura43». Due le caratteristiche di Ipazia che devono aver attratto Alejandro Amenábar: la sua figura di martire, perfettamente in linea con la maggior parte dei protagonisti rappresentati dal cineasta cileno ma d’adozione iberica e la sua profonda intelligenza che, mista a curiosità ed intuito, le aveva permesso, sempre stando alle testimonianze storiche, di gettare le basi per rivoluzionarie scoperte, purtroppo vanificate dall’assalto cristiano alla Biblioteca di Alessandria. Ipazia, infatti, scrisse opere autografe ormai perdute, date inesorabilmente per scomparse: produzioni quali un commentario 43
Gabriella Bernardi,art. cit.
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a Diofanto il padre dell’algebra, di 13 volumi, il Canone astronomico, ovvero una raccolta di tavole sui corpi celesti, e un commentario alla Coniche di Apollonio, cioè un trattato di geometria raccolto in 8 volumi. I suoi studi non erano solo teorici, in quanto Ipazia si occupò anche di meccanica e di tecnologia applicata, in particolare le vengono attribuite due invenzioni: un areometro e un astrolabio piatto, quest’ultimo, perfezionato e progettato da Ipazia, era formato da due dischi metallici forati, ruotanti uno sopra l’altro mediante un perno rimovibile: veniva utilizzato per calcolare il tempo, per definire la posizione del Sole, delle stelle e dei pianeti; tanto che questo strumento fu in grado, all’epoca, di risolvere alcuni problemi di astronomia sferica. Indizi storicamente pressoché certi, ma che per mancanza di completezza delle fonti originali (andate distrutte), non permettono di delineare un quadro estremamente chiaro della studiosa, nonostante numerosi esperti del settore si dicano convinti del fatto che Ipazia scrisse addirittura un’opera astronomica originale, all’interno della quale avrebbe portato a termine teorie che non erano semplicemente collocabili al margine del Sistema matematico di Tolomeo già commentato, ma erano tali da richiedere una trattazione autonoma. Elementi tecnici che per economia di trama e priorità di racconto, in Agorà non vengono approfonditi, bensì solo accennati. Dell’Ipazia cinematografica, infatti, resta la conversione, e il conseguente accantonamento delle teorie di Tolomeo, al sistema eliocentrico teorizzato da Aristarco, scienziato che comprese, secoli prima di Galileo e Copernico, come fosse la terra a girare intorno al sole e non viceversa («Quando tracciava una nuova mappa del cielo, Ipazia stava indicando una traiettoria nuova – e insieme antichissima – per mezzo della quale gli uomini e le donne del suo tempo potessero imparare ad orientarsi sulla terra e dalla terra al cielo e dal cielo alla terra senza soluzione di continuità e senza bisogno della mediazione del potere ecclesiastico44»). Una riflessione, quest’ultima, che permise ad Ipazia di gettare le basi di quella che sarà la prima legge di Keplero, e che Alejandro Amenábar ricostruisce, con dovizia di rudimentali particolari, nella sequenza del confronto notturno tra la figlia di Teone e Aspasio: «Secondo Aristarco il sole deve essere al centro di ogni cosa, con noi, cioè la terra, che ci muoviamo intorno a lui. Di conseguenza, e questa è la chia44
www.ipaziaimmaginepensiero.org, Avvicinarsi a Ipazia un viaggio bibliografico.
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ve, sempre, esattamente, alla stessa distanza»; questo mentre, sulle scalinate del Sarapeo, i parabolani cristiani, ormai al potere, dissertano così sul sistema celeste, evidenziando una netta impreparazione rispetto all’avanzato ragionamento della “stregonesca Ipazia”, in quanto convinti sostenitori di un credo esclusivamente legato alla religione e non alla scienza: «Le stelle non cadranno perché sono fissate sul coperchio dello scrigno, lo scrigno un giorno si aprirà in due metà e allora Gesù apparirà». A bilanciare l’aspetto storico con la necessità di fiction provvede, in Agorà, la figura di Carl Sagan, ovvero: «Uno dei maggiori e più noti astrofisici statunitensi del nostro secolo […] Oltre che nella sua attività scientifica, Sagan è stato costantemente impegnato in un’instancabile opera di divulgazione scientifica. È stato autore di una fortunata serie di documentari televisivi (Cosmos). Ha inoltre scritto numerosi libri di divulgazione e di narrativa scientifica e fantascientifica, tra cui ricordiamo: La vita intelligente nell’Universo, Contatto, Il romanzo della scienza, Cosmo, Il mondo infestato dai demoni, Miliardi e Miliardi. Con il libro I draghi dell’Eden (1977), che affronta il problema dell’evoluzione dell’intelligenza umana, vinse il premio Pullizer. Gli vennero conferite numerose lauree ad honorem e ottenne inoltre la prestigiosa medaglia Oersted dell’American Association of Physics45». A colpire in positivo Alejandro Amenábar deve essere stata proprio questa sorta di “doppia personalità” riconducibile a Carl Sagan, scienziato, romanziere, autore televisivo e inoltre convinto sostenitore di come: «La Biblioteca di Alessandria era talmente avanzata da prefigurare una versione antica di Internet. La rete che contiene informazioni su tutti i soggetti relativi al sapere umano “suscita ogni sorta di fobie, governi e gruppi poco informati hanno paura del sapere e del cambiamento, ciò porterà alla sua distruzione46”». Carl Sagan fu uno dei fondatori dell’esobiologia (disciplina scientifica che si occupa della ricerca della vita nello spazio), propugnatore e divulgatore del SETI (programma per la ricerca di intelligenza extraterrestre), ha occupato le cariche di professore e direttore di laboratorio alla Cornell University e ha contribuito alla maggor parte delle missioni di esplorazione spaziale del sistema solare: Mariner, Viking, Apollo, Voyager e Galileo; fu il primo, inoltre, a comprendere l’origine delle altissime tem45 46
www.astrocultura.uai.it, Ricordando Carl Sagan. Silvano Fuso, www.cicap.org, Carl Sagan il grande divulgatore.
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perature causate dall’effetto serra che si registrano sulla superficie di Venere e, ipotizzando che fossero conseguenza di tempeste di polvere, ha contribuito a risolvere il mistero dei profondi cambiamenti che gli astronomi osservavano di anno in anno sulla superficie di Marte. Un illuminato a 360 gradi, pronto a mettere le sue teorie al servizio di qualunque buona causa, come quella che nella prima metà degli anni ’80, in piena Guerra Fredda, lo portò ad opporsi pubblicamente al progetto “reganiano” di Strategic Defense Initiative, programma che, secondo le intenzioni del primo cittadino statunitense, avrebbe permesso agli americani di difendersi da un eventuale attacco nucleare sferrato dai sovietici. Sagan argomentò a lungo attorno alla fallacia di ciò che venne ironicamente ribattezzato come “Guerre Stellari”, sottolineando come fosse tecnicamente utopistico sviluppare un sistema dotato della precisione richiesta, addirittura inutile nonostante l’alto costo dei finanziamenti preposti, perché facilmente superabile con contromisure poco costose, e concludendo che l’eventuale costruzione di un tale sistema di difesa avrebbe seriamente destabilizzato l’equilibrio nucleare tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, rendendo ulteriori progressi verso il disarmo nucleare impossibili. Per un appassionato di astronomia alle prime armi come Alejandro Amenábar, Carl Sagan deve aver evidentemente rappresentato un polo d’attrazione e nel contempo una fonte d’ispirazione invidiabile, non stupirà, quindi, se oltre alle illustri influenze cinematografiche (2001 Odissea nello Spazio su tutte), Agorà respiri proprio dell’infatuazione per Cosmos nei suoi momenti maggiormente “spaziali”, durante i quali l’imponente incedere della macchina da presa richiama non poco i 13 episodi scritti, diretti e interpretati da Sagna in quello che rimarrà la sua testimonianza di divulgazione scientifica dall’afflato maggiormente popolare, tanto da venir trasmessa, in Italia, all’interno del contenitore Quark con il titolo di Cosmo. Cenni stori114
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ci e biografici che permettono di comprendere come Agorà non sia soltanto un film storico o una rievocazione in costume dell’antichità, bensì un progetto dal respiro ambizioso e in buona parte riuscito. L’ultima fatica dietro la macchina da presa di Alejandro Amenábar potrà provare le capacità di resistenza dello spettatore attraverso la sua eccessiva durata, continuare a far storcere il naso ai fan della prima ora del regista, ma difficilmente può essere etichettato come una pellicola non riuscita, visti riflessi significanti di un diamante di celluloide che, in un solo colpo, riverbera traccie di filosofia, storia, scienza, politica e sentimento.
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Capitolo quarto
Post scriptum
«Nessuna possibilità, di condividere sfiducia, costretti all’immobilità, noi carne esanime e sfinita. Nostri corpi arresi al gelo dell’apnea! Patiranno il giro di vite ineluttabile, chili di silenzio sulla nostra pena, grande regina dell’incubo che verrà. Come girano i colori della vita vera? Qui per ora è nero come angoscia e amaro come fiele, e lì?» Ineluttabile, MARLENE KUNTZ
Personaggi in cerca d’autore, una formula matematica Quello di Alejandro Amenábar è un cinema genuino e sincero, mai costruito o artificioso, un cinema “umano” e interessato sopratutto a raccontare delle storie, che hanno nei loro interpreti principali il punto di forza dominante, l’esca attrattiva da gettare in pasto al pubblico affinché quest’ultimo resti colpito e coinvolto nella e dalla narrazione, che puntualmente si trasforma in irresistibile calamita proprio per il potenziale empatico messole a disposizione attraverso il cordone ombelicale che lega la scrittura ai protagonisti del racconto. Del cineasta in questione possono altresì esistere pellicole non adatte al gradimento o al gusto di un certa tipologia di spettatore, di certo chiunque si sia imbattuto, anche per caso, in un suo film, difficilmente ha potuto pensare, o peggio ancora affermare, che un personaggio da lui costruito e immortalato sullo schermo non abbia reso quanto doveva, magari disinteressandolo o addirittura lasciandolo emotivamente indifferente. Giunti a questo punto sarà dunque chiaro che tipo di percorso il regista cileno, ma d’adozione iberica, ha compiuto nel corso della sua fin qui breve ma più che fruttuosa carriera: step dopo step, film dopo film, genere dopo genere, Amenábar si è allontanato dai luoghi cinefili frequentati agli esordi per assurgere ad altro, decisamente più sfuggente rispetto alle tipologie 116
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immediatamente identificabili degli inizi, comunque sempre personale, e proprio per questo quindi identificabile, nel restare devoto e conforme ai parametri guida di una linea autoriale tutt’ora riconoscibilissima, nonostante gli evidenti cambiamenti formali apportati al suo cinema, che ne hanno alterato la confezione ma di certo non la sostanza messaggistica delle opere. Durante l’evolversi del suo percorso artistico Alejandro Amenábar si è progressivamente “isolato” fino a trovare una pellicola spartiacque, terminata la quale ha dato vita ad una nuova stagione della sua carriera, nuovamente caratterizzata da collaborazioni ormai definibili come familiari. Tesis e Apri gli Occhi ad esempio, rispettivamente primo e secondo lungometraggio, erano figli di una factory interpretativa e tecnica rodata e compattata dall’alchimia nata durante entrambe le produzioni, caratteristica, questa, minuziosamente analizzata nei capitoli uno e due. La realtà dei fatti cambia a partire dalla “nuova vita” statunitense: The Others, infatti, registra la prima, momentanea, separazione, quella tra il regista e lo sceneggiatore Mateo Gil, il quale aveva, fin lì, collaborato alla scrittura di Tesis prima e di Apri gli Occhi poi. La trasferta americana (e con essa le eventuali e drastiche decisioni da prendere in merito, relative ad una nuova troupe di collaboratori, magari suggerita o addirittura “imposta” dai nuovi produttori), a tal proposito, rappresenta una motivazione soltanto parziale di tale situazione, probabilmente ricercata dallo stesso Amenábar che, tipologia di pellicole alla mano, decide di utilizzare The Others come “last shoot” per accantonare temporaneamente i generi che lo stavano contraddistinguendo o forse addirittura ingabbiando e, contemporaneamente, esorcizzare tramite questo film paure e fantasmi che lo perseguitano dall’infanzia. Ciò, probabilmente, si può raggiungere soltanto “alienandosi” in fase creativa, al fine di renderla il quanto più personale e sentita possibile. Un’esperienza catartica insomma, che Alejandro Amenábar vive in totale solitudine: scrivendo, dirigendo, musicando e montando The Others, occupandosi della sua arte come mai aveva fin lì fatto. Il film lo consacra e, oltre a permettergli di passare “l’esame” di americano a pieni voti (The Others resta, premi e riconoscimenti a parte, la sua pellicola meglio riuscita, probabilmente anche la più famosa) consente al regista, ormai rivelatosi come autore, di lanciarsi in progetti votati a stravolgere lo stereotipo che rischia di ingabbiarlo. I passi successivi, cioè Mare Dentro e Agorà, non solo riveleranno un altro Alejandro Amenábar (di nuovo a 117
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braccetto con il fidato Mateo Gil e, nel caso della sua ultima fatica, addirittura lontano dalla consolle delle musiche, affidate, caso più unico che raro, a Dario Marianelli) ma sorprenderanno il suo pubblico, spiazzato sì dalla forma melodrammatica delle opere in questione e, al tempo stesso, altrettanto colpito dalla linea di continuità ideologica di Mare Dentro e Agorà, sincronizzate nel profondo con i loro precedenti esempi filmografici. Una rivoluzione certamente, ma non così traumatica come il primo impatto farebbe pensare, comunque possibile solo attraverso il rituale di The Others, passaggio indispensabile e da interpretare al meglio, qualora si volesse realmente comprendere cosa sia diventato Alejandro Amenábar, cosa rappresenti, in termini di considerazione e personalità, all’interno del panorama cinematografico mondiale contemporaneo. Perché da lì, ovvero da quella apparente e netta scissione, tutto (ri)parte: infedele all’apparenza, devoto nella profondità di pensiero. Se riletti con attenzione all’interno della produzione registica di Amenábar, le sue due ultime produzioni tutto possono rappresentare tranne che un oggetto non identificato, in quanto mosse dallo stesso vettore emotivo che aveva acceso i motori narrativi di Tesis, Apri gli Occhi e The Others: l’invidiabile costruzione dei personaggi principali che, attraverso le loro psicologie e le vicende all’interno delle quali vengono posizionati, arrivano emotivamente al cuore dell’immaginario di chi guarda. Pur rinunciando alle sovrastrutture di genere fino a quel momento ampiamente frequentate, Alejandro Amenábar non cancella certo la sua educazione hollywoodiana di base, semplicemente la decentra, amplificandola dal thriller/horror di stampo hitchcockiano, studiosa della suspense e perdutamente innamorata del fuori campo, al melodramma: anch’esso genere conclamato enciclopedicamente, con una sua storia e in possesso di ferree regole da rispettare, solo che più sfuggente e tentato dalla contaminazione concentrica rispetto ai suoi colleghi filmici precedentemente utilizzati da Amenábar: «Il melodramma si configura, in una delle sue accezioni, come istanza narrativa universalmente valida: sia per il perfetto equilibrio che mostra di saper calibrare pur tra forze che si oppongono reciprocamente in modo rilevante – una tensione fra odio, amore, bene e male, tragedia e felicità, ecc., che spesso assume tonalità espressionistiche, sia per il “trapassare” – spesso sinuoso – in ogni altro “genere”, in particolare di provenienza hollywoodiana. Precisamente il “melodramatic effect” semina invenzioni, reperti, sguardi, tracce, retorica in 118
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tutta la cinematografia nordamericana1». Quella di Alejandro Amenábar non è una scelta effettuata casualmente, tanto per cambiare o stupire, bensì profondamente radicata nell’immaginario cinematografico d’appartenenza, quello dell’industria americana dell’epoca d’oro dei generi, quelli dai quali persevera, con successo di pubblico e critica, ad attingere a piene mani, sempre e comunque con un obiettivo, un bersaglio mai accantonato: coinvolgere il pubblico con storie universalmente condivisibili ma al tempo stesso intrise di una pregnante personalità d’autore. Una maturazione a tutti gli effetti insomma, sinonimo non di bravura conquistata perché diretta conseguenza della frequentazione di stanze palesemente più dotte e intellettuali, salotti all’interno dei quali discorrere di tematiche più auliche e meno bambinesche (vedi l’eutanasia di Mare Dentro o la figura di Ipazia di Alessandria in Agorà), bensì di una conclamata libertà, da mettere simultaneamente al servizio della passione per i generi e di un’ormai definita linea autoriale. Nonostante ciò continuando a tenere da conto l’universalità delle storie raccontate e il loro fine ultimo, cioè quello di giungere, dirette, al pubblico: «Entro tali mappe bisogna registrare una spiccata varietà di percorsi evolutivi e le molteplici occorrenze con cui il melò ha saputo confrontarsi: confermandosi come genere filmico dall’enorme capacità di attacco e di presa sull’immaginario del pubblico2». Il melodramma quindi, per cambiare forma ma non essenza («Il melò si consolida quale forma e trama (ovvero connessione, scansione, ritmo degli elementi di racconto filmico) ben riconoscibile e individuabile nella varia tipologia dei generi hollywoodiani ed europei. Ma – si è detto – pervade le altre forme, le altre trame, i generi vicini e lontani, spesso costituendone un’ossatura parallela o un “tono” subliminare, un’ombra stilistica, che nutre e porta alimento alla necessaria edificazione di un valore emotivo che rende potenete la narrazione filmica, ed altrettanto interessante la varietà medesima dei generi3»), in quanto il cinema di Alejandro Amenábar resta, pur nelle sue oscillazioni esplicitamente autoriali (ma a ben vedere mai tanto distanti da ciò che intendeva voler venir trasmesso durante gli esordi), comunque legato ad un concetto di genere che 1
Gino Frezza, Fino all’ultimo film, Roma, Editori riuniti, 2001, pag. 131. Ivi, pag. 136. 3 Ivi, pag. 132. 2
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continua a posizionare al centro della sua attenzione le storie da raccontare e sopratutto i personaggi che le andranno ad interpretare, rendendole così non solo universali, ma a portata di tatto da parte dello spettatore, che con essi non può fare a meno di empatizzare. Eccola la chiave di violino utile ad interpretare al meglio la produzione di Amenábar: la scrittura, che nei suoi interpreti principali si realizza come primario e irresistibile polo d’attrazione, che si tratti di horror, thriller o melodramma poco importa. Strano a credersi inoltre, ma per la costruzione dei suoi personaggi Alejandro Amenábar, di film in film, ha sempre fatto ricorso ad una sorta di formula matematica: proprio lui, il regista letterato e filosofeggiante, utilizza da sempre la stessa scansione che prevede l’alternarsi di una figura portante dal sesso opposto a quella che l’ha appena preceduta. Tesis, ad esempio, ruota attorno alle vicende di Angela, giovane donna e studentessa in Scienze della Comunicazione, il suo successore, Apri gli Occhi, vede come protagonista un coetaneo di Angela, anch’esso poco più che ventenne ma uomo: il Cesar interpretato da Edoardo Noriega. Ritorno al femminile, invece, con The Others, dove il ruolo di protagonista viene assegnato a Nicole Kidman. Naturale il cambio per Mare Dentro, affidato alla performance dell’invecchiato Javier Bardem, svolta nuovamente femminile, invece, in Agorà, dove la trama ruota attorno alla ricostruzione degli ultimi mesi di vita della filosofa e matematica Ipazia di Alessandria, portata sul grande schermo da Rachel Weiltz. Una tendenza, quest’ultima, “aritmetica” e scientifica certo non frutto della sola intuizione o ricostruzione critica a posteriori, ma ammessa anche dallo stesso regista, il quale, a proposito della sua ultima fatica ha dichiarato che: «Mai avrei pensato di dirigere un film con un punto di vista femminile così forte dal punto di vista storico. In realtà alterno i ruoli: donna (Tesis), uomo (Apri gli Occhi), donna (The Others), uomo circondato da donne (Mare Dentro) e adesso donna circondata da uomini (Agorà)4». Una volta messa in pratica scegliendo il suo punto di riferimento, maschile o femminile che sia, questa formula consente ad Alejandro Amenábar di ragionare in maniera “triangolare” attorno alla costruzione delle interazioni richieste ai suoi personaggi. Un altro elemento caratteristico riscontrabile nei film del regista, infatti, consiste nell’assegnare al protagonista due punti verso i quali rivolgerlo, stabilendo così una serie di rela4
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zioni che spesso e volentieri sfociano all’interno di dinamiche affettive o addirittura d’attrazione. Partiamo dall’inizio. In Tesis Ana Torrent interpreta la studentessa Angela, mentre attorno a lei gravitano due figure maschili: i colleghi Chema (Fele Martinez) e Bosco (Edoardo Noriega), con i quali la protagonista instaura legami e costruisce giudizi destinati a capovolgersi in maniera più o meno repentina. Bosco viene presentato agli occhi dello spettatore come il principale sospettato per il ruolo di unico autore degli illegali snuff movie, tanto che Angela percepisce la presenza del compagno di studi a metà tra la paura e l’attrazione fisica: la studentessa insomma, è palesemente invaghita di Bosco, ma al tempo stesso ne è spaventata. Diverso il discorso riguardante Chema, che da subito viene introdotto nel racconto come elemento di raccordo, colui il quale riuscirà, tramite una bislacca amicizia costruita sull’attrazione caratteriale degli opposti (il suo e quello di Angela), ad introdurre la protagonista nell’infernale sottobosco di pellicole “vietate”; salvo trasformarsi, man mano che la vicenda inizia a delinearsi, in un elemento narrativo capace di far breccia nel cuore di Angela. Emotivamente quindi, qualcosa in più di un semplice amico, evoluzione/cambiamento che in corso di narrazione lo decentra dal ruolo che Vladimir Propp avrebbe definito “aiutante” magico (colui che spalleggia l’eroe, in questo caso Angela, nella sua ricerca) ad una sorta di “donatore” sui generis, caratterizzazione che, sempre stando ad una libera rilettura di La morfologia della fiaba, gli consente di trasformarsi nel personaggio che prepara l’eroe fornendogli “l’oggetto magico”: in questo caso la conoscenza necessaria per orientarsi nel mondo sommerso degli horror estremi. Citazioni sociologiche a parte, che Alejandro Amenábar deve aver comunque tenuto da conto, il triangolo Angela, Chema, Bosco altro non è che il primigenio esperimento di una formula che andrà ripetendosi negli anni. Accade infatti che il cineasta in Apri gli Occhi collochi al centro dell’interesse spettatoriale non più una donna, bensì un uomo, quell’Edoardo Noriega “promosso”, da antagonista in Tesis, a protagonista della seconda regia di Amenábar. Il triangolo accennato poche righe fa questa volta si sviluppa su binari esclusivamente sentimentali, gli stessi analizzati nel secondo capitolo attraverso l’allestimento di due poli d’attrazione: Nuria (Najwa Nimri) e Sofia (Penélope Cruz). Come già ampiamente chiarito e ribadito nella sezione ad esso dedicata, Apri gli Occhi non è certo un film lineare, teorizzato su pratiche di racconto canoniche e assegnato ad interpretazioni classiche, chiare o a prova di dubbio 121
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alcuno, bensì volutamente enigmatico, quasi fosse un guanto di sfida da gettare allo spettatore; nonostante ciò lo schema “proppiano” introdotto poche righe addietro torna utile nel collocare quella che di fatto è una delle figure chiave di Apri gli Occhi: la stessa interpretata da Chete Lera, psichiatra che aiuterà Edoardo Noriega ad orientarsi fino a risalire alla verità (ammesso e non concesso che la pellicola in questione ne contenga una definitiva o risolutiva nell’economia logica dei fatti), quindi un nuovo donatore ma estromesso dal triangolo cardine come invece non avveniva in Tesis. Il teorema valido per le due pellicole appena citate diventa nullo se avvicinato a The Others, dove Amenábar sì cambia ciclicamente il sesso del protagonista (da Edoardo Noriega si passa a Nicole Kidman), ma stravolge qualunque sua abitudine, azzerando la tendenza triangolare del suo cinema, quasi a volere rafforzare, come sottolineato ad inizio capitolo, quanto la sua opera terza, per una serie di motivi ormai ampiamente elencati, debba rappresentare qualcosa di unico e a sé stante all’interno della filmografia del cineasta latino. Un filo strutturale momentaneamente interrotto e prontamente riallacciato in Mare Dentro, dove ancora una volta un interprete maschile (Javier Bardem) succede ad uno femminile al fine di venir posizionato in un ennesimo triangolo affettivo, per certi versi evolutivamente simile a ciò che accadde in Tesis. Ramón Sampedro, infatti, dichiara il suo amore all’avvocatessa Julia (Belén Rueda), ma sarà il personaggio interpretato da Lola Dueñas (Rosa) a trasformarsi da amica in compagna, osservando, fatte le dovute differenze di trama, lo stesso percorso evolutivo del Chema di Tesis nei confronti di Angela, che da semplice simpatia universitaria diviene il proppiano donatore, proprio come Rosa, che fornirà a Ramón Sampedro “l’oggetto magico”, ovvero la soluzione mortale che gli permetterà di esaudire il suo desiderio di passare a miglior vita. Agorà, infine, con l’ormai tradizionale passaggio di consegne tra uomo e donna, conclude nella maniera più tradizionale possibile la costruzione e la caratterizzazione dell’apparato attoriale/interpretativo del cinema secondo Alejandro Amenábar. Rachel Weisz, raccoglie, da protagonista femminile, l’eredità maschile che fu di Ramón Sampedro appena un film addietro, permettendo inoltre al regista di costruire attorno a lei e alle sue vicissitudini l’ennesimo triangolo emotivo. Ipazia di Alessandria, infatti, viene contesa amorevolmente dallo schiavo Davo (interpretato da Max Minghella) e dal futuro Prefetto Oreste (Oscar Isaac), entrambi suoi ex allievi: il primo segretamente innamorato di 122
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lei, il secondo sfrontato nel dichiararsi alla filosofa e matematica addirittura durante uno spettacolo teatrale, approfittando di un cambio di scena e costumi per improvvisare la sua dichiarazione d’amore. Angela, Cesar, Grace, Ramón e Ipazia: cinque personaggi così lontani tra loro che cercano e trovano in Alejandro Amenábar l’autore ideale, la mente creativa capace di legarli assieme secondo una linea poetica, che dagli esordi di genere fino ad arrivare alla definitiva consacrazione critica si rivela fedele alla riflessione di fondo appartenente al suo cinema: arte che s’interroga sulla e intorno alla morte, mettendo al servizio di figure ineluttabilmente arrese o ad un passo dal vedere la realizzazione dell’ultimo atto umano le potenzialità, narrative e di racconto, insite nella macchina da presa. Prima scrittore delle sue storie e subito dopo regista delle stesse, durante la sua fin qui breve ma fruttuosa carriera Alejandro Amenábar ha continuato a posizionare i suoi personaggi sull’altare dei martiri, in prospettiva della fine, per scrutarne le reazioni e raffigurarne l’inevitabile epilogo. Tesis affrontava questo discorso accarezzando le potenzialità metacinematografiche del mezzo tecnico a sua disposizione, rovistando tra le leggende maledette del cinema, osservando il cambiamento morale della sua protagonista una volta messa di fronte alle immagini di morte: schiette, brutali non solo realistiche ma addirittura vere. Apri gli Occhi trovava il suo epilogo nella scelta estrema del suo protagonista che, realizzata la tangibilità ingannevole dell’incubo, sceglieva la morte per scoprire la vita; mentre The Others chiudeva la presunta trilogia thriller/horror schierandosi non più dalla parte dei vivi, ma da quella borderline dei non morti, presenze inquiete e senza tempo, fantasmi che hanno visto e vissuto la morte rifiutandola, preferendo al suo posto una non vita in perenne equilibrio sulla linea di confine. Mare Dentro e Agorà, infine, giungevano nel momento di massima consapevolezza di tale poetica, in quanto portatori sani di un messaggio toccante e doloroso proprio perché frutto di esperienze figlie della realtà, non più della fantasia, martiri di una giusta causa inquadrati fin dalla prima sequenza come tali, raffigurazione in celluloide delle convinzioni del proprio autore, portabandiera di una poetica mutevole alla forma, ma sempre fedele alla sua materia: «È logico che abbia fatto io questo tipo di film sugli esseri umani e la morte. È qualcosa da sempre presente nel mio cinema. Sono interessato alle persone, a ciò che dà un senso all’esistenza o a quello che lo toglie: la morte».
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Postfazione
L’uomo di Santander A CURA DI
FRANCESCO MASSACCESI
«Mi ritengo un individuo molto fortunato perché ho potuto vedere l’Africa, nel Madagascar. Sono stato anche in Europa, Francia, Spagna, Svizzera; negli Stati Uniti per girare un film in California, a Città del Messico per un’altra pellicola, oppure in Argentina e in Cile. Ho il desiderio di viaggiare per tutto il mondo e di scoprire altre, con la speranza di poterle anche portare nel mio lavoro: storie diverse di differenti culture. Questo è qualcosa che mi ripagherà a livello personale, come persona, come un essere umano che non è solo un attore». Che cosa rende un attore completo? Come e da cosa lo si può definire tale, senza guardare solo al talento innato, alla presenza scenica o alle capacità espresse? Forse, per essere completi, si ha bisogno di vivere e respirare in funzione del proprio lavoro, di assimilarlo e di lasciarvisi assimilare. Venuto alla luce il primo agosto del 1973 a Santander in Cantabria («non la cambierei per nessun altro posto al mondo», ha detto), Eduardo Noriega Gómez nasce da genitori di sangue messicano, il padre, e spagnolo, la madre, frequentando un istituto cattolico – con il desiderio d’infanzia di diventare prete –, il conservatorio cittadino e infine la facoltà di legge prima di cedere definitivamente all’impulso di una carriera attoriale. Un impulso, si dice, acceso dall’aver accompagnato un amico a seguire un corso di recitazione, una scintilla che si è evoluta nell’espressione di un talento naturale, supportato da una grinta e una determinazione che hanno portato Noriega, diventato fluente anche in inglese, francese e catalano, a prendere parte a produzioni anche ben al di fuori dei confini spagnoli. 125
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Mettendo da parte l’aneddoto, di cui si parla anche nell’intervista, secondo il quale Amenábar era inizialmente scettico nei confronti dell’attore ritenendolo un belloccio senza sostanza, per cominciare a discutere davvero del rapporto tra il regista e Noriega è essenziale notare quanto sia peculiare la natura ambivalente dei personaggi da lui interpretati, aspetto paragonabile ai consueti parallelismi morali e sociali presenti nelle pellicole dell’autore. In Tesis, dove il suo talento riesce ad esprimersi senza al contempo offuscare la prova di Ana Torrent e Fele Martínez, Noriega tratteggia il suo Bosco con un’aura tanto misteriosa quanto magnetica, tale da rendere la protagonista spaventata ma inesorabilmente attratta verso di lui, così come è attirata/disgustata dal corpo del suicidio all’inizio del film o del giro di pellicole snuff di cui anche lo studente fa parte. Bosco viene delineato come la trasposizione solida e reale del desiderio masochistico di Angela, e la rivelazione finale della colpevolezza del ragazzo è solo l’ultimo tassello su un incastro costruito di simbolismi sessuali, onirici (lei lecca il sangue versato dal coltello che Bosco le punta alla gola in sogno) e visivi: non è un caso che una delle conversazioni iniziali tra i due avvenga sotto forma di intervista filmata, con assassino e potenziale vittima in un contesto da horror, o, appunto, da snuff movie. Con Apri gli occhi, Noriega diventa il protagonista principale, e già il nome del suo personaggio, César, fa capire quanta influenza abbia avuto su Amenábar una pietra miliare dell’espressionismo tedesco e della storia del cinema in assoluto come Il gabinetto del dottor Caligari, diretto da Robert Wiene nel 1920. Per un attore, esimersi dalla propria fisicità è, al tempo stesso, una sfida, un privilegio e una routine del mestiere: quando il terribile incidente d’auto deforma in maniera mostruosa il suo aspetto gradevole, uno dei punti di forza essenziali della sua vita da amorale e facoltoso playboy, Noriega non si sdoppia semplicemente in due personalità dello stesso personaggio, facendo prevalere la nuova disgraziata esistenza sulla felicità superficiale della vecchia vita, bensì porta all’esterno, marchiato sulla propria carne, quanto di orribile e repulsivo si nascondesse dentro di lui, dietro l’inganno dell’apparenza quotidiana. Le maschere sono presenti più o meno letteralmente nell’esistenza del personaggio, che in una delle sequenze iniziali, parlando con Sofia, ragazza per cui prova un interesse sentimentale, afferma di non amare in particolar modo 126
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gli attori per la loro capacità di nascondere cosa provano davvero; inoltre, in uno dei successivi incontri con la ragazza, questa è truccata da mimo; l’unione delle abilità di Amenábar e Noriega riesce persino a dare un tocco umano a César, sfrenato e arrogante edonista che, travolto dagli eventi e costretto dalle circostanze a nascondere le proprie mostruosità dietro una maschera neutra, può indurre un sentimento di pietà, o comunque aprire almeno una connessione più concreta nei confronti degli spettatori. La deformità fisica del personaggio permette di far esprimere a Noriega, o meglio, di non far esprimere, anche le qualità interiori del suo César, talmente vacuo da risultare indubitabilmente perduto senza il suo aspetto, come un naufrago che galleggia solitario nel mondo (si veda la sequenza con le strade cittadine vuote) su una zattera di mera ossessione estetica; si potrebbe anche aggiungere che la “distorsione” dei caratteri fisici può essere accostata alla confusione della “realtà” che il protagonista si trova a vivere. Per intensità e presenza scenica, non c’è dubbio che Eduardo Noriega possa essere accostato, pur sempre con il dovuto rispetto reverenziale, al carisma di tanti classici interpreti del cinema passato, così come la sua carriera è stata costellata dalle prove più disparate, coniugando ruoli più “semplici” alle prove di maturità drammaturgica affrontate con l’amico Alejandro Amenábar dietro la macchina da presa. Questa intervista potrebbe servire a chiarire proprio i retroscena dell’autore con il quale Noriega ha così sovente collaborato, e per la gentilezza e la disponibilità dimostrata nel mettersi a disposizione per rispondere alla domande, è doveroso ringraziare, oltre ovviamente l’attore, il suo agente spagnolo e i suoi manager internazionali.
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L’autore e l’attore: intervista ad Antonio Noriega
Abbiamo letto spesso che il suo primo rapporto con il regista non sembrava essere ideale, come siete riusciti a trovarvi poi in sintonia? A dire il vero, la mia prima impressione non è stata certamente negativa. La prima volta che ci incontrammo, avevo solo diciannove anni e mi ero recato ad un’audizione per un cortometraggio di un suo conoscente chiamato Carlos Montero. Quando Carlos decise che sarei stato l’attore prescelto per il ruolo del protagonista, Alejandro gli consigliò di darmi una parte più piccola, fatto del quale venni a conoscenza soltanto diversi anni dopo. Ironicamente, quando eravamo nel mezzo delle riprese del lavoro di Carlos, Alejandro, che si occupava della parte sonora, mi fece vedere Himenóptero e mi propose la parte principale nel suo imminente cortometraggio, Luna. Subito dopo aver visto il suo lavoro, capii quanto fosse brillante e quanto desiderassi cominciare a lavorare con lui. In molti hanno definito Amenábar un erede di Hitchcock, questa etichetta secondo lei corrisponde a realtà? Inoltre, a suo parere, quali sono i registi ai quali si ispira? È chiaro che Alfred Hitchcock sia un suo punto di riferimento, tanto che in Apri gli occhi ci sono molte influenze derivate da La donna che visse due volte. Tra gli altri autori, ammira molto anche Kubrick e Spielberg, ma ricordo che quando lavorammo insieme parlava continuamente di un film di Peter Medak, The Changeling (una ghost story d’atmosfera su un compositore di successo che, alla morte della moglie e della figlia, si trasferisce a vivere in una vecchia casa infestata ndFM). Lei ha lavorato diverse volte con Amenábar, anche ai suoi primi passi importanti, ed è quindi uno dei candidati ideali per rispondere a questa domanda: può descriverci il modo del regista di lavorare con gli attori? 129
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Alejandro sapeva quello che voleva e come guidare gli interpreti per ottenere quell’obiettivo, era parecchio intuitivo e aperto a discutere delle emozioni o di particolari sentimenti dei personaggi; allo stesso tempo, poteva anche dare bizzarre indicazioni sullo stile di “Qui voglio che tu ti muova come se fossi Orson Welles” (quando distruggo gli oggetti a casa di Sofia), oppure “Qua mi piacerebbe che assumessi uno sguardo alla Jeff Goldblum”: quando mi ha dovuto dirigere, è stato allo stesso tempo sia molto preciso che divertente. Alcuni critici hanno affermato che in Tesis il regista delinea i personaggi con tratto Polanskiano, ha avuto indicazioni a riguardo o ha lavorato da solo sulla base interpretativa di Bosco? Non penso che avesse in mente lo stile di Polanski quando abbiamo lavorato in Tesis. Abbiamo costruito il personaggio insieme, e lui aveva scritto il ruolo proprio per me; prima delle riprese, abbiamo provato a lungo la parte perché sapevamo che non avremmo avuto il tempo necessario per farlo a lavorazione cominciata. Secondo lei Tesis può essere letto come una dicotomia dell’essere umano, che rifugge la violenza e la negatività ma ne è al contempo attratto inesorabilmente? Questa chiave di lettura è assolutamente corretta. Infatti, nella prima scena di Tesis ci sono delle persone che cercano di non guardare il cadavere martoriato del suicida che giace sulle rotaie del treno, qualcuno addirittura si copre il viso con un giornale, pur di non cedere alla tentazione di vedere quello spettacolo. Penso che già questa scena possa riassumere il senso dell’intero film. Tesis tratta con abilità il tema degli snuff movies, cosa sono per lei: una realtà nascosta o solo una leggenda cinematografica? Gli snuff film esistono, ma nessuna delle persone coinvolte nel film ha avuto il bisogno di vederne uno; inoltre, c’è da aggiungere che Amenábar mostra a malapena le scene snuff, preferendo concentrarsi sugli occhi di chi le vede. Come mai nel cinema di Amenábar è così ricorrente l’immagine della morte? 130
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Semplicemente perché non vuole realizzare film commerciali senza alcuna profondità, ma preferisce cercare di parlare delle cose importanti di cui è fatta la vita. Tra queste cose, c’è anche la morte. Come è riuscito a dare al suo personaggio di Apri gli Occhi quel senso di solitudine sociale derivato dalla sua deturpazione fisica senza cadere nei cliché interpretativi di questo tipo di ruoli? Perché Alejandro non è solo un grande regista, ma anche un altrettanto grande sceneggiatore e quindi non avrebbe mai permesso che potesse succedere una cosa del genere al personaggio protagonista della storia. Abbiamo detto della cosiddetta dualità di Tesis, secondo lei c’è questo elemento anche in alcuni aspetti di Apri gli Occhi? Apparenza esterna e ciò che si è davvero, sogno e realtà, presente e passato… È presente, per quanto in aspetti differenti. Mentre in Apri gli occhi la dualità è rappresentata da cosa è reale e da cosa non lo è, in Tesis è più rivolta verso la natura umana che rigetta ed è nel contempo affascinata dalla violenza. Pensa che il remake americano di Apri gli Occhi abbia la stessa intensità dell’originale? Ritengo che quando si crea una nuova versione di una canzone, di una pellicola o di qualsiasi altra cosa, si debba sempre mantenere l’essenza dell’originale, contribuendo poi anche con il proprio stile personale. Lei ha lavorato con il regista anche nel corto del 1995 Luna, cosa ricorda di quella esperienza? Eravamo davvero molto giovani, non eravamo neanche dei veri e propri professionisti ma ci impegnammo al più delle nostre capacità, sia per imparare il mestiere che raggiungere il miglior risultato possibile. Ho dei ricordi meravigliosi di quel periodo, e penso proprio che il legame, sia personale che professionale, creatosi tra me, Alejandro e Mateo Gil rimarrà indissolubile per sempre. Secondo lei cosa rappresenta, oggi, la figura di Amenábar nel panorama del cinema mondiale? 131
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Non saprei dare una risposta precisa; è di certo un autore tenuto in grande considerazione, ma sono anche sicuro che possegga così tanto talento da doverci ancora fare scoprire la parte migliore della sua espressione cinematografica. Si sarebbe aspettato che la carriera di Amenábar evolvesse in pellicole come Mare dentro e Agorà così lontane rispetto a quelle dei suoi inizi? A tal proposito mi ricordo di un progetto, poi mai completato, che voleva realizzare dopo Apri gli occhi: si chiamava Los jardineros e, dal momento che Alejandro è costantemente alla ricerca di nuove storie ed esperienze, l’idea non aveva nulla a che vedere con i suoi film precedenti. Pensa che l’esperienza maturata ad Hollywood abbia cambiato in qualche modo lo stile di Amenábar? Alejandro non ha ancora avuto un’esperienza hollywoodiana completamente piena, perché i suoi film avevano produttori spagnoli. Comunque ricordo che, prima di lavorare con Nicole Kidman in The Others, si rendeva conto della difficoltà di dirigere in inglese attori di Hollywood, così si recò a Londra per fare pratica con dei corsi teatrali. Nel corso degli anni, Alejandro è incredibilmente maturato sotto l’aspetto del dirigere gli interpreti. Amenábar ha prodotto El Mal Ajeno, film drammatico del 2010 diretto da Oskar Santos in cui lei è protagonista: si sentiva in qualche modo la “presenza” dell’autore nel film? No. Alejandro è stato molto attivo durante la stesura della sceneggiatura, leggendo le diverse bozze e dandoci le sue opinioni, ma non è stato presente sul set durante le riprese. Alla fine, ha anche dato qualche parere in sede di montaggio.
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Bibliografia
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Sitografia
www.astrocultura.uai.it www.astronomia.com www.badtaste.it www.controreazioni.wordprogress.com www.cicap.org www.cinemainfamiglia.net www.cinemavvenire.it www.clarence.com www.dizionariodelcinemaspagnolo.com www.drammaturgia.it www.effettonotteonline.com www.film.it www.filmup.com www.fucinemute.it www.gliitaliani.it www.ipaziaimmaginepensiero.org www.movieplayer.it www.natig51wordprogress.com www.panorama.it www.repubblica.it www.tempimoderni.com
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Filmografia
Himenptero (cortometraggio) La Cabeza (cortometraggio) Luna (cortometraggio) Tesis Apri gli occhi The Others Mare Dentro Agorà
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NOVITÀ 2012
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Nanni Moretti. Diario di un autarchico
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David Cronenberg. Umano post-umano
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Luca Lardieri
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