Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo 8886570236, 9788886570237

In questo saggio, uscito nel 1934 sulla rivista “Esprit” e qui pubblicato per la prima volta in italiano, uno dei grandi

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Italian Pages 90 [83] Year 1998

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Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo
 8886570236, 9788886570237

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Quodlibet Emmanuel Levinas Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo

Titoli originali:

Quelques réflexions sur la philosophie de l'hitlérisme © Michaël L evinas Traduzione di Andrea Cavalletti

Le Mal élémental © Miguel Abensour Traduzione di Stefano Chiodi

© 1996 Quodlibet Via Padre Matteo Ricci, 108 - 62100 Macerata

Introduzione

I l testo di Lévinas che qui presentiamo è forse l'unico tenta­ tivo riuscito della filosofia del novecento di fare i conti con l'evento politico decisivo del secolo: il nazismo. A dire il vero, altri tentativi c'erano stati, a cominciare da quello che nel 1933 porta H eidegger all'esperienza del Rettorato — ma essi si erano saldati con un disastro senza attenuanti. Proprio perché il nazismo era un evento decisivo, esso — esattamen­ te come lo stalinismo — non era qualcosa che ci si potesse illudere di orientare a proprio piacere verso quella o questa sponda. Levinas si rende subito conto della novità dell'hitlerismo rispetto alla tradizione filosofico-politica d ell'O cci­ dente. M entre il pensiero giudaico-cristiano e quello liberale — egli argomenta lucidamente — tendono alla liberazio­ ne dello spirito dai vincoli della situazione sensibile e stori­ co-sociale cui l'uom o si trova d i volta in volta consegnato, distinguendo un regno eterno della ragione da quello del corpo, la filosofia hitleriana si fo n d a invece su un'assunzio­ ne senza riserve della situazione storica e materiale, consi­ derata come una coesione inscindibile di spirito e corpo, ere­ dità naturale e eredità culturale. M a ciò che rende la dia­ gnosi di Levin às propriamente incomparabile è il coraggio con cui egli riconosce all'opera nella filosofia dell'hitlerismo le stesse Categorie che sono o saranno in quegli anni al cen­ tro del suo cantiere filosofico (e, implicitamente, anche di quello del suo maestro di Friburgo). Si prenda il bellissimo saggio del 1933 D e l’ évasion. Q u i Levinas analizza alcune esperienze immediate apparente7

Introduzione

mente marginaii, il bisogno corporeo, la nausea, la vergogna, p er farne invece il luogo privilegiato di quella che egli chia­ ma “l ’esperienza d ell’essere allo stato p u ro ”, dell’essere nel suo aspetto “ desertico, ossessivo e orrendo”: il semplice fatto che qualcosa esista senza scampo, irreparabilmente. L a nau­ sea (secondo un paradigm a che è verosimilmente a ll’origine delle celebri descrizioni sartriane, di qualche anno successi­ ve) è, in questo senso, “la presenza rivoltante di noi stessi a noi stessi”, presenza tanto assoluta e incondizionata, quan­ to brutale e intollerabile. Essa è “ l ’impossibilità di essere dò che si è ” — ma, nello stesso tempo, d consegna a noi stessi e c’inchioda alla nostra soffocante presenza, al puro fatto del­ la nostra esistenza. In modo analogo, nella vergogna e nel­ la nudità noi facciam o l ’esperienza di non poter nascondere ciò che vorrem m o celare: “ ciò che appare nella vergogna è pressam ente il fatto di essere inchiodati a noi stessi... la p re­ senza irremissibile di me a me... È la nostra intimità, la nostra presenza a noi stessi che ci fa vergogna” 1. L a categoria che orienta qui l ’analisi levinasiana è quel­ la d ell’essere consegnati senza scampo a se stessi o a una situazione, o, come Levinas dice, dell’ètre rivé (letteralmen­ te: essere inchiodati o appiattiti su qualcosa; river indica il gesto di ribattere un chiodo p er conficcarlo completamente nel legno). O ra questo vero e proprio terminus technicus della prim a officina levinasiana compare significativamente nel testo sull’hitlerismo p er definire la novità del rapporto d e ll’uomo nazista con la sua corporeità. “ U na concezione veram ente opposta alla nozione europea di u om o” scrive Levinas “sarebbe possibile solo se la situazione a cui è inchio­ dato (vìve) non si aggiungesse a lui, ma costituisse il fo n d a ­ mento stesso del suo essere. Esigenza paradossale che l ’espe­ rienza del nostro corpo sembra realizzare”2. I l corpo non è, 8

Introduzione

infatti, p er il nazionalsocialismo, soltanto l ’eterno straniero della tradizione cristiana e liberale: " (esso) non ci è sola­ mente p iù vicino o più fam iliare d el resto del mondo, non determina soltanto la nostra vita psicologica, il nostro a m o­ re e la nostra attività. A l di là di queste banali constatazio­ ni, c’è il sentimento d ’identità. N o n ci affermiamo in questo calore unico del nostro corpo ben prim a che il pieno svilup­ po dell’Io pretenda di distinguersene? E non resistono forse a d ogni p ro va quei legami che, ben prim a che si schiuda l ’intelligenza, il sangue ha stabilito? In una pericolosa impresa sportiva, in un esercizio in cui i gesti richiedono una perfezione quasi astratta a un soffio dalla morte, ogni dua­ lismo tra l ’io e il corpo deve scomparire. E nella situazione senza uscita della sofferenza fisica, il malato non sperimen­ ta forse l ’inscindibile semplicità del proprio essere, quando si rigira nel suo letto di dolore senza trovar pace?... il corpo non è soltanto un accidente felice o infelice che ci mette in rap­ porto col mondo implacabile della materia — la sua aderen­ za all’ Io vale di per se stessa. È u n ’aderenza alla quale non si sfugge e che nessuna metafora potrebbe fa r confondere con la presenza di un oggetto esteriore: è un’unione il cui tra­ gico sapore di definitivo nulla potrebbe alterare... L ’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta d i incate­ n a m e lo . Essere veramente se stessi, non significa risollevarsi a l di sopra delle contingenze, sempre estranee alla libertà d ell’Io : ma, al contrario, prendere coscienza d ell’incatenamento originale, ineluttabile, unico al nostro corpo; signifi­ ca soprattutto accettare questo incatenam ene... Incatenato al suo corpo, l ’uomo si vede rifiutare il potere di sfuggire a se stesso. L a verità, p er lui, non è più la contemplazione di uno spettacolo estraneo — essa consiste in un dram m a di cui l ’uomo stesso è l ’attore. È sotto il peso di tutta la sua esisten9

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za — che comporta dei dati su cui non si può più tornare — che l 'uom o pronuncerà il suo sì o il suo n o ”3 L a prossimità fra questo essere consegnato e quasi “inchiodato” a un corpo e a una situazione fattizia determi­ nata e le analisi della contemporanea fenom enologia del novecento (comprese quelle che, come abbiamo visto, orien­ teranno il pensiero del prim o Levinas) è fin troppo eviden­ te. Certo Levinas cerca nell'esperienza del fatto bruto e sen­ za scampo d ell3esistenza proprio qualcosa come una via di fu ga ( “ una situazione limite in cui Vinutilità di ogni azione è precisamente Vindice dell'istante supremo in cui non resta p iù che uscire” 4), così come, in H eidegger; l'essere-gettato non è un “Faktum compiuto”, ma contiene in sé in qualche modo la possibilità stessa d ell'apertura d ell'Esserci. M a, come a D avos non era sfuggito a R osenzw eig e allo stesso Levinas, la grande novità della fenomenologia heideggeria­ na era proprio il suo prendere risolutamente radice nella situazione fattizia, il suo essere, innanzitutto, una “ erm e­ neutica della fatticità”. D e l resto, ripubblicando nel 1990 su “ Criticai Inquiry” il testo sull'hitlerismo, Levinas v i aggiun­ ge una postilla che non lascia d u bbi quanto alla tesi che un lettore attento avreb b e comunque potuto leggervi tra le righe, e, cioè, che la possibilità del nazismo come “M ale eie­ m entale” era iscritta nella stessa filosofia occidentale, e, in particolare, nell'ontologia heideggeriana ( “nella stessa onto­ logia dell'Essere che ha cura di essere — dell'essere dem in seinem Sein um dieses Sein selbst geht”5). L a pointe del saggio del 1934 è nella radicalità di questa diagnosi, che sarebbe vano cercare di esorcizzare con con­ danne o apologie. I l testo non è tanto un atto di accusa, quanto una rilevazione topografica che in ogni senso ci riguarda. Se il nazismo ha potuto confinare, almeno nel suo io

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punto di partenza, con la grande filosofia del novecento, sarebbe stolto credere d i potersi sottrarre a buon mercato a questo scomodo vicinato condannando un filosofo e assol­ vendone un altro. L e domande che il saggio implicitamente poneva continuano sessanta anni dopo a esigere una rispo­ sta. Q u al è il senso di questa prossimità? Siamo veram ente usciti da questo vicinato o dimoriamo ancora senza render­ cene conto sui margini del nazismo?

Q uando, nel 1994, vide la luce la raccolta postum a di H annah A rendt Essays in Understanding, si potè osservare con sorpresa che il curatore aveva inserito tra gli altri artico­ li e saggi un breve appunto che aveva il tono confidenziale di una nota di diario o di un pettegolezzo. N e l testo, che porta­ va la rubrica Heidegger the fox, la A rendt paragonava il suo antico maestro a una volpe, una volpe, però, di una specie molto particolare, che, volendo come tutte le volpi, costruirsi un covo sicuro, a veva scelto come tana una trappola. Sotto l'apparenza di un pettegolezzo, l'appunto contiene u n'indicazione preziosa sull'ontologia di Essere e tempo. Si è molto parlato dell'aperto come categoria centrale del pensiero di Heidegger; dimenticando, però, troppo spesso che la specifi­ cità e la novità di questa apertura consistono precisamente nel suo essere innanzitutto apertura a una chiusura e attraverso una chiusura. L 'Esserci è fin dall'inizio gettato senza scampo nel suo Ci, rimesso a una tonalità emotiva e a una situazio­ ne fattizia determinata che gli stanno davanti come un enig­ ma impenetrabile, in modo tale che la sua apertura coincide in ogni punto col suo essere consegnato a una caduta. “N ella tonalità em otiva”, recita il par. 29 di Essere e tempo, “l'Esser­ ci è sempre già aperto secondo una disposizione data come ii

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Vente al quale VEsserci è consegnato nel suo essere come l'essere che esso, esistendo, ha da essere. Aperto non significa qui riconosciuto come tale... I l puro fatto del “ che c 'è ” si mostra, ma il da dove e il verso dove restano nell'oscurità... Questo carattere d'essere dell'Esserci, velato nella sua p rove­ nienza e nella sua destinazione, ma proprio p er questo tanto più in se stesso aperto senza veli, noi lo chiamiamo l'esseregettato (Geworfenheit,) di questo ente nel suo C i ... L'espres­ sione essere consegnato sta a significare la fatticità dell'essere consegnato... In quanto ente consegnato al suo essere, l'Esser­ ci è sempre consegnato a questo in modo che esso deve esser­ si sempre già trovato, trovato, però, in un trovarsi che non scaturisce da un diretto cercare, ma da un fuggirsi. L a tona­ lità emotiva non apre nel modo di un vedere l'essere-getta­ to, ma in un processo di conversione o di evasione... ”. Tale è la costituzione fattizia di quella Lichtung che l'Esserci apre e il cui nome è, dunque, davvero qualcosa come un lucus a non lucendo6 sprofondato in ciò che lo apre, nascosto in ciò che l'espone e oscurato dalla sua stessa luce, l'Esserci ha innanzitutto da essere ciò a cui è già sempre rimesso e abban­ donato, i suoi stessi modi di essere. L'ontologia heideggeriana è, cioè, risolutamente manierista e non essenzialista; l'Esserci non ha una natura propria e una vocazione precostituita, ma è un essere assolutamente inessenziale, la cui essenza, essendo gettata, giace (liegt) ora integralmente nell'esistenza, nelle sue molteplici maniere (Weisen,) di essere. È da questa struttura ontologica dell'Esserci che Levinas m uove p er la sua interpretazione della filosofia dell'hitlerismo: come è stato opportunamente notato, l 'être rivé (che compare significativamente p er la prim a volta proprio nel saggio del 1952 su Heidegger et l'ontologie,) non è, in questo senso, altro che una ripresa e una radicalizzazione della

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Geworfenheit. L'uom o del nazismo condivide, cioè, con l'Esser ci l'assunzione incondizionata della fatticità, l'esperienza di un essere senza essenza che ha da essere soltanto i suoi modi di essere. C iò significa, però, che la vicinanza tra il na­ zismo e la filosofia del novecento consiste precisamente in ciò che fa la novità e l'attualità di questa rispetto alla tradizio­ ne politica dell'Occidente, con la sua chiara distinzione fra essenza e esistenza, diritto e fatto, oicos e polis. L a dimensio­ ne che si apre a questo punto è esattamente il contrario di quel che la A rendt ha costantemente inteso come spazio p u b ­ blico e sfera politica. Si capisce, allora, perché l'aneddoto sul­ la volpe che si è costruita come tana una trappola potesse for­ se essere p er lei così importante: esso non contiene soltanto un'indicazione sull'ontologia di H eidegger; ma è anche una parabola sullo spazio politico della modernità. Ricordo che, nel 1966, mentre frequentavo a L e Thor il seminario su Eraclito, chiesi a H eid egger se avesse letto Kafka. M i rispose che, del non molto che a v ev a letto, era rimasto soprattutto impressionato dal racconto D er Bau, “L a tana". L'innominato animale (talpa, volpe o essere umano) protagonista d el racconto è ossessivamente occupato a co­ struire una tana inespugnabile, che si rivela a poco a poco essere, invece, una trappola senza uscita. M a non è precisamente quanto è avvenuto nello spazio politico degli statinazione dell'O ccidente? L e case (le “patrie") che questi han­ no lavorato a costruire si sono rivelate essere, alla fine, p er i “popoli" che dovevano abitarvi, soltanto delle trappole mor­ tali. (E K afka è certamente l'autore che ha descritto nel modo più lucido la fin e dello spazio politico dell'Occidente e l'assoluta indeterminazione che ne deriva tra spazio p u b bli­ co e spazio privato, “ castello" e camera da letto, tribunale e soffitta.)

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I l testo di Levinas, con la sua diagnosi senza indulgenze, può allora offrire l'occasione p e r prendere coscienza della nostra im barazzante prossimità col nazismo, non certo in nome del revisionismo, m a, anzi, p e r affrontare una volta p er tutte questa prossimità. Se l'analitica dell'Esserci (come avrebbe dovuto essere scontato, se ogni ontologia non può che implicare una politica) definisce la situazione politica dell'O ccidente in cui ancora ci troviamo e se questa, p er alcuni tratti non marginali, coincide con quella da cui muo­ v e il nazismo, in che modo possiamo sfuggire all'esito cata­ strofico implicito in questa prossimità? Poiché dev'essere ormai chiaro che i grandi stati totalitari del novecento rap­ presentano a loro modo un tentativo di dare una risposta a un problema che non ha cessato di essere attuale: come può un essere inessenziale, che non ha altra vocazione e altra consistenza che la sua stessa esistenza fattizia e che, pertan­ to, ha da assumere e essere i suoi stessi modi di essere, darsi un compito storico e costruire p er sé una dimensione propria e una " casa" che non siano una trappola? A partire dalla fin e della prim a guerra mondiale è, infatti, evidente che, p e r gli stati-nazione europei, non v i sono più compiti storici asse­ gnabili. Si fraintende completamente la natura dei grandi esperimenti totalitari del novecento se li si ved e soltanto come prosecuzioni degli ultimi grandi compiti degli statinazione ottocenteschi: il nazionalismo e l'imperialismo. L a posta in gioco è, ora, tutt'altra e più estrema, poiché si tratta d i assumere come compito la stessa esistenza fattizia dei popoli — cioè, in ultima analisi, la loro nuda vita. In questo, i totalitarismi d el nostro secolo costituiscono veram ente l'altra faccia dell'idea hegelo-kojèviana di una fine della sto­ ria: l'uomo ha ormai raggiunto il suo telos storico e non resta altro che la depoliticizzazione delle società umane attraver­

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so il dispiegamento incondizionato del regno d e ll'oikonomia, oppure l'assunzione della stessa vita biologica come compito politico supremo. Ma, quando il paradigm a politico — com'è vero in entrambi i casi — diventa la casa, allora il proprio, la più intima fatticità dell'esistenza rischiano di tra­ sformarsi in una trappola fatale. A partire dal 1934-35, è appunto questo problema che occu­ pa i corsi di H eidegger a Friburgo. N elle lezioni del semestre invernale egli cerca di pensare il rapporto tra situazione fa t­ tizia e compito storico a partire dalla dialettica hölderliniana fra il nazionale o proprio (das Nationelle, das Eigene) e l'estraneo (das Fremde). H eidegger chiama il proprio, in quanto situazione storica e materiale determinata d i un popolo o di un singolo, das Mitgegebene, “ ciò che è già dato" e l'estraneo das A u f gegebene, “ il dato-in-com pito". “ L a vocazione storica" egli scrive “ è sempre quella di trasforma­ re il già dato, il nazionale, in un dato-in-compito, cioè di aprire lo spazio in cui il nazionale può portarsi liberamente nella storia... D obbiam o prendere in custodia il già-dato solo p er cogliere e afferrare il dato-in-compito, cioè p er interro­ garci verso di questo e in direzione di questo"7. E un caso se, qualche anno dopo, il biologo e ideologo nazista O. Verschuer nel suo Rassenhygiene als Wissenschaft und Staatsaufgabe*, potesse scrivere quasi negli stessi termi­ ni, anche se in una prospettiva certamente diversa: “ L 'ere­ dità biologica è un destino — mostriamo di essere all'altez­ za di questo destino, in quanto consideriamo l'eredità biolo­ gica come un compito che ci è stato assegnato e che dobbia­ mo adem piere"? L'aporia che in entrambi questi testi giunge a espressione è quella di una volontà che vuole trasformare le stesse condizioni fattizie in un compito storico; ed è oppor­ tuno non dimenticare che proprio questa aporia definisce la

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catastrofe storica del nazionalsocialismo, nel suo folle tenta­ tivo di fare, attraverso una mobilitazione totale, della stes­ sa eredità genetica naturale la missione storica del popolo tedesco. È probabile che il mondo in cui viviam o non sia ancora uscito da questa aporia. N o n vediam o forse intorno a noi e fra di noi uomini e popoli senza essenza e senza più identità — consegnati, p e r così dire, irreparabilmente alla loro ines­ senzialità e inoperosità — cercare ovunque a tastoni un'ere­ dità e un compito, un’eredità come compito? Persino la pura e semplice deposizione di tutti i compiti storici (ridotti a sem­ plici fu n zio n i d i polizia interna o intem azionale) in nome del trionfo d ell'oikonom ia assume oggi spesso un'enfasi in cui la stessa vita naturale e il suo benessere sembrano p re­ sentarsi come l'ultim o compito storico dell'umanità. In un passo decisivo dell'Etica Nicomachea (1097 b 22 sq.), Aristotele si chiede a un certo punto se v i sia un érgon, un essere-in-atto e un'opera propria dell'uomo, o se questi non sia per caso come tale essenzialmente argòs, senz'opera, ino­ peroso: “ Com e p e r l'atleta, p er lo scultore e per ogni artigia­ n o " egli scrive “ e in generale p e r tutti coloro che hanno un'opera e una funzione, il bene proprio sembra consistere in questo érgon, così dovrebbe essere p er l'uom o in quanto tale, ammesso che v i sia p er lui qualcosa come un érgon, un'opera propria. Oppure si dovrà dire che, mentre il fafegnam e e il calzolaio hanno un'opera e una funzione proprie, l'uomo non ne ha alcuna, che egli è, cioè, nato argòs, senz'opera? " L a politica è ciò che corrisponde all'inoperosità essenzia­ le degli uomini, all'essere radicalmente senz'opera delle comunità umane. V i è politica, perché l'uom o è un essere argòs, che non è definito da alcuna operazione propria — cioè: un essere di pura potenza, che nessuna identità e nessu­

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na vocazione possono esaurire (questo è il significato politico genuino dell'averroism o, che lega la vocazione politica dell'uomo all'intelletto in potenza). In che modo quest'argìa, queste essenziali inoperosità e potenzialità potrebbero esse­ re assunte senza diventare un compito storico, in che modo, cioè, la politica potrebbe essere nient'altro che l 'esposizione dell'assenza di opera dell'uomo e quasi della sua indifferen­ za creatrice a ogni compito e solo in questo senso restare inte­ gralmente assegnata alla felicità — ecco quanto, attraverso e al di là del dominio planetario d ell'oikonomia della nuda vita, costituisce il tema della politica che viene. G .A .

«

1E. Levinas, D e l'évasion, Paris 1982, pp. 87-90. 2 In questo libro, p. 29. 3Ibid., p. 30-34. 4E. Levinas, De l'évasion, cit., p. 90. s In questo libro, p. 21. 6Cfr. L. Amoroso, La Lichtung come 'lucus a non lucendo', in A .A .V .V ., Il pensiero debole, Milano 1983, pp. 137-163. 7 M. Heidegger, Hölderlins Hymnen “ Germanien" und “das Rhein", G A , B. 29, Frankfurt 1980, pp. 292-94. 8 Frankfurt 1943, p. 8.

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Prefazione del 1990*

Questo articolo è apparso in “ Esprit”, rivista del catto­ licesimo progressista d’avanguardia, nel 1934, pressap­ poco all’indomani dell’arrivo di Hitler al potere. L’articolo procede dalla convinzione che l’ origine della sanguinosa barbarie del nazionalsocialism o non sia in una qualche contingente anomalia della ragione umana, né in un qualche malinteso ideologico acciden­ tale. In quest’ articolo c’è la convinzione che tale origi­ ne attenga ad una possibilità essenziale del M ale eie­ mentale ( M al élém ental) cui ogni buona logica può condurre e nei cui confronti la filosofia occidentale non si era abbastanza assicurata. Possibilità che s’inscrive nell’ontologia d ell’essere che ha cura d ’essere — d ell’es­

sere “dem es in seinem Sein um dieses Sein selbst geht”, secondo l ’espressione heideggeriana. Possibilità che minaccia ancora il soggetto correlativo all’ esser-daradunare e da-dominare (l ’ètre-à-rassembler et à-dom iner), questo fam oso soggetto dell’idealismo trascen­ dentale che innanzitutto si vuole e si crede libero. D o b ­ biamo chiederci se il liberalism o possa bastare alla dignità autentica del soggetto umano. Il soggetto rag*Testo aggiunto come Prefatory N ote in occasione della traduzione inglese di Quelques réflexions sur la philosophie de l ’hitlérisme, apparso in “ Criticai Inquiry” , autunno 1990, voi. 17, n. 1, p. 63. A fronte se ne ripro­ duce il manoscritto.

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giunge la condizione umana prim a di assumere la responsabilità per l’ altro uom o nell’ elezione che lo ele­ va a questo grado? Elezione proveniente da un dio — o da D io — che lo guarda nel volto dell’ altro uom o, suo prossimo, “ luogo” originale della Rivelazione. E. L.

Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo

La filosofia di H itler è rudimentale. M a le potenze p ri­ mordiali che v i si consum ano fanno esplodere la fra­ seologia miserabile sotto la spinta di una forza elemen­ tare. D estano la nostalgia segreta dell’animo tedesco. Ben più che un contagio o una follia, l’hitlerismo è un risveglio di sentimenti elementari. M a allora, spaventosamente pericoloso, diventa filo­ soficamente interessante. Perché i sentimenti elementa­ ri racchiudono una filosofia; esprimono la prima attitu­ dine di un animo di fronte all’insieme del reale e al suo destino. Predeterm inano o prefigurano il senso della sua avventura nel mondo. C osì la filosofia dell’hitlerismo va ben oltre la filo­ sofia degli hitleriani. Pone in questione i principi stessi di una civiltà. Il conflitto non si gioca solamente tra il liberalismo e l’hitlerismo. Il cristianesimo stesso è m i­ nacciato, malgrado le precauzioni o Concordati di cui si avvalgono le Chiese cristiane all’ avvento del regime. M a non basta distinguere, com e certi giornalisti, l’universalism o cristiano dal settarism o razzista: una contraddizione logica non potrebbe giudicare un avve­ nimento concreto. Il significato di una contraddizione logica che oppone due correnti di idee non appare pie­ namente se non la si riconduce alla fonte, all’intuizio2.3

E m m anu el Lévinas

ne, alla decisione originale che le rende possibili. È in questo spirito che esporremo qui alcune riflessioni.

I

L e libertà politiche non esauriscono il contenuto dello spirito di libertà che, per la civiltà europea, signi­ fica una concezione del destino umano. È un senti­ mento della libertà incondizionata dell'uom o di fronte al mondo e alle possibilità che sollecitano la sua azione. L ’uom o si rinnova eternamente dinanzi all’U niverso. Parlando in termini assoluti, non ha storia. Perché la storia è la limitazione più profonda, la limi­ tazione fondamentale. Il tempo, condizione dell’ esi­ stenza umana, è soprattutto condizione dell’irreparabi­ le. Il fatto com piuto, travolto da un presente che fu, sfugge per sempre alla presa dell’uom o, ma grava sul suo destino. D ietro alla malinconia per l’ eterno fluire delle cose, per l’illusorio presente di Eraclito, c’è la tra­ gedia dell’inamovibilità d ’un passato incancellabile che condanna l’iniziativa a non essere che una continua­ zione. L a vera libertà, il vero inizio, esigerebbero un vero presente che, sempre al culmine d ’un destino, lo ricominciasse eternamente. L’ebraismo apporta questo messaggio magnifico. Il rim orso — espressione dolorosa dell’im potenza radi­ cale di riparare l’irreparabile — annuncia il pentimen­ to generatore del perdono che redime. L’uom o scopre nel presente ciò che trasforma e fa dileguare il passato. Il tempo perde la sua stessa irreversibilità. Si piega sfi-

A lcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo

nito ai piedi dell’uom o come una bestia ferita. E d egli lo libera. Il sentimento bruciante della naturale im potenza dell’uom o nei confronti del tem po costituisce tutta la tragicità della M oira greca, tutta l’ acuità dell’ idea di peccato e tutta la grandezza della rivolta del C ristia­ nesimo. A gli A trid i, che si dibattono soffocati da un passato estraneo e brutale com e una m aledizione, il Cristianesim o oppone un dramm a mistico. L a C roce affranca; e attraverso l’Eucarestia, che trionfa sul tem ­ po, questa liberazione diventa quotidiana. L a salvezza che il Cristianesim o vuole portare vale come promessa di ricominciare il definitivo che si compie nel trascor­ rere degli istanti, di superare la contraddizione assoluta di un passato subordinato al presente, di un passato sempre in causa, sempre rimesso in questione. In questo m odo esso proclam a la libertà, la rende possibile in tutta la sua pienezza. N o n solo la scelta del destino è libera. L a scelta compiuta non diventa un vin­ colo. L’uom o conserva la possibilità — soprannaturale certo, ma alla sua portata e concreta — di sciogliere il contratto nel quale si è Uberamente impegnato. EgU può riacquistare in ogni istante la nudità dei prim i giorni della creazione. L a riconquista non è facile. Può fallire. N o n è l’effetto del decreto capriccioso di una volontà collocata in un m ondo arbitrario. M a l’enormità dello sforzo richiesto equivale alla serietà deU’ostacolo, e sot­ tolinea l’ originalità del nuovo ordine prom esso e rea­ lizzato che trionfa aprendo un squarcio negli strati profondi dell’ esistenza naturale. *5

E m m a n u el Lévinas

Q uesta libertà infinita rispetto a qualsiasi legame, per la quale, insomma, nessun legame sarà definitivo, è alla base della nozione cristiana dell’anima. Pur restan­ do una realtà sommamente concreta, che esprime il fondamento ultimo dell’individuo, ha l’austera purez­ za di un anelito trascendente. Attraverso le vicissitudi­ ni della storia reale del m ondo, il potere di rinnova­ mento dona all’anima come una natura noumenica, al riparo dagli attacchi di un m ondo in cui l’uom o con­ creto è tuttavia installato. Il paradosso non è che appa­ rente. Il distacco dell’anima non è un’ astrazione, ma un potere reale e positivo di separarsi, di astrarsi. L’ugua­ le dignità di tutte le anime, indipendentemente dalla condizione materiale o sociale delle persone, non deri­ va da una teoria che affermi, sotto le differenze indivi­ duali, una somiglianza della “ costituzione psicologica” . È dovuta al potere dato all’anima di liberarsi da ciò che è stato, da tutto ciò che l’ha coinvolta, da tutto ciò che l’ ha impegnata — per ritrovare la sua prima verginità. Se il liberalism o degli ultim i secoli evita l ’aspetto drammatico di questa liberazione, ne conserva un ele­ mento essenziale sotto form a di libertà sovrana della ragione. Tutto il pensiero filosofico e politico dei tempi moderni tende ad elevare lo spirito umano a un livello superiore alla realtà, scava un abisso tra l’uomo e il mon­ do. Rendendo impossibile l’applicazione delle categorie del mondo fisico alla spiritualità della ragione, pone il fondamento ultim o dello spirito al di fuori del mondo brutale e della storia implacabile dell’esistenza concre­ ta. Sostituisce, al mondo ottuso del senso comune, il 26

A lcun e riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo

mondo ricostruito dalla filosofia idealista, permeato di ragione e sottomesso alla ragione. A l posto della libera­ zione attraverso la grazia c’ è l’ autonomia, ma il leit­ motiv giudeo-cristiano della libertà la compenetra. G li scrittori francesi del x v iii secolo, precursori dell’ ideologia dem ocratica della D ichiarazione dei diritti dell’uom o, malgrado il loro materialismo, hanno dato espressione al sentimento di una ragione che esor­ cizzasse la materia fisica, psicologica e sociale. L a luce della ragione basta a dileguare le ombre dell’irraziona­ le. Che cosa resta del materialismo, quando la materia è intrisa di ragione? L’uom o del m ondo liberalista (liberaliste ) non sce­ glie il suo destino sotto il peso di una Storia. N o n conosce le sue possibilità come delle potenze inquiete che frem ono in lui e lo orientano già verso un cammi­ no determinato. Per lui v i sono soltanto possibilità logiche che si offrono ad una ragione serena in grado di scegliere mantenendo perennemente le sue distanze.

II

Il marxismo, per la prima volta nella storia occiden­ tale, contesta questa concezione dell’uomo. L o spirito umano non gli appare più come la pura libertà, come l’ anima che si libra al di sopra d’ogni vin ­ colo: non è più la pura ragione che fa parte del regno dei fini. È in preda ai bisogni materiali. M a, alla mercé di una materia e di una società che hanno sm esso di obbedire alla bacchetta magica della ragione, la sua esi27

E m m a n u el Lévinas

stenza concreta e asservita ha più importanza, più peso di una razionalità impotente. L a lotta, che preesiste aU’intelligenza, gli impone decisioni che non aveva mai preso. “ L’ essere determina la coscienza” . L a scienza, la morale, l’estetica, non sono più morale, scienza, esteti­ ca in se stesse, ma esprimono in ogni istante l’ opposi­ zione fondamentale delle civiltà borghese e proletaria. L o spirito della concezione tradizionale perde quel potere di sciogliere tutti i legami di cui è sempre stato così fiero. Si scontra con dei macigni che quella stessa concezione non riuscirà mai a scuotere. L a libertà asso­ luta, quella che compie i miracoli, si trova bandita, per la prima volta, dalla costituzione dello spirito. Perciò il marxismo si oppone non soltanto al Cristianesimo, ma ad ogni liberalism o idealista per il quale “ l’ essere non determina la coscienza” ma la coscienza o la ragione determinano l’essere. Per questo, il marxismo coglie in contropiede la cul­ tura europea o, almeno, spezza la curva armoniosa del suo sviluppo.

Ili

Tuttavia questa rottura col liberalismo non è defini­ tiva. Il marxismo è cosciente di continuare, in un certo senso, le tradizioni del 1789, e il giacobinismo sembra ispirare in larga misura i rivoluzionari marxisti. Ma soprattutto, se l’intuizione fondamentale del marxismo consiste nell’aver colto lo spirito nell’ineludibile rap­ porto ad una situazione determinata, questa connes­ 28

A lcun e riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo

sione non ha nulla di radicale. L a coscienza individua­ le determinata dall’ essere non è così impotente da non conservare — almeno in linea di principio — il suo potere di rom pere l’incantesimo sociale che allora apparirà estraneo alla sua essenza. Prendere coscienza della propria situazione sociale vuol dire, per lo stesso Marx, affrancarsi dal fatalismo che essa comporta. U na concezione veramente opposta alla nozione europea di uom o sarebbe possibile solo se la situazio­ ne a cui è inchiodato (rive) non si aggiungesse a lui, ma costituisse il fondamento stesso del suo essere. Esigen­ za paradossale che l’ esperienza del nostro corpo sem­ bra realizzare. Che cos’ è secondo l’interpretazione tradizionale il fatto di avere un corpo? È sopportarlo come un ogget­ to del mondo esteriore. Il corpo pesa a Socrate come le catene che costringono il filosofo nella prigione d’A te ­ ne; lo rinchiude come la tom ba che gli è destinata. Il corpo è l’ostacolo. Spezza il libero slancio dello spiri­ to, lo riconduce alle condizioni terrene, ma, com e un ostacolo, è qualcosa da superare. È il sentimento dell’eterna estraneità del corpo rispet­ to a noi che ha nutrito tanto il Cristianesimo che il libe­ ralismo moderno. Esso ha resistito a tutte le trasforma­ zioni dell’etica, malgrado il declino subito dall’ideale ascetico a partire dal Rinascim ento. Se i materialisti confondevano l’io con il corpo, era a prezzo della nega­ zione pura e semplice dello spirito. Essi ponevano il corpo nell’am bito della natura senza riconoscergli un rango d’eccezione nell’Universo. 29

E m m a n u el Lévinas

O ra, il corpo non è soltanto l’ eterno estraneo. L’ interpretazione classica relega ad un livello inferiore e considera com e una tappa da superare, quel senti­ mento d ’identità tra il nostro corpo e noi stessi che al­ cune circostanze rendono particolarmente acuto. Il corpo non ci è solamente più vicino o più familiare del resto del m ondo, non determina soltanto la nostra vita psicologica, il nostro umore e la nostra attività. A l di là di queste banali constatazioni, c’è il sentimento d ’iden­ tità. N o n ci afferm iam o in questo calore unico del nostro corpo ben prima che il pieno sviluppo dell’ Io pretenda di distinguersene? E non resistono forse ad ogni prova quei legami che, ben prima che si schiuda l’intelligenza, il sangue ha stabilito? In una pericolosa impresa sportiva, in un esercizio in cui i gesti richiedo­ no una perfezione quasi astratta a un soffio dalla m or­ te, ogni dualismo tra l’io e il corpo deve scomparire. E nella situazione senza uscita della sofferenza fisica, il malato non sperimenta forse l’inscindibile semplicità del proprio essere, quando si rigira nel suo letto di dolore senza trovar pace? Si direbbe che l’ analisi riveli nel dolore l’opposizio­ ne dello spirito a questo dolore, una rivolta, un rifiuto di restarci e di conseguenza un tentativo di superarlo — ma questo tentativo non si caratterizza sempre come già disperato? L o spirito ribelle non resta trattenuto nel dolore, ineluttabilmente? E non è questa disperazione che costituisce il fondamento stesso del dolore? Accanto all’interpretazione data dal pensiero tradi­ zionale d’ Occidente che chiama questi fatti bruti e tri­ 30

A lcun e riflessioni sulla filosofia

deWhitlcYÌtmu

viali e che li sa sminuire, può sussistere il sentim ento della loro originalità irriducibile, il desiderio di custo­ dire la loro purezza. Si darebbe nel dolore fisico una posizione assoluta. Il corpo non è soltanto un accidente felice o infelice che ci mette in rapporto col m ondo implacabile della materia — la sua aderenza a ll’Io vale di p er se stessa. È un’aderenza alla quale non si sfugge e che nessuna meta­ fora potrebbe far confondere con la presenza d’un og­ getto esteriore: è un’unione il cui tragico sapore di defi­ nitivo nulla potrebbe alterare. Tale sentimento d ’identità tra l’io e il corpo — che, beninteso, non ha niente in com une col materialismo volgare — non permetterà dunque mai, a chi prendes­ se le mosse da esso, di ritrovare al fondo di questa unità la dualità di uno spirito libero che si dibatte contro il corpo a cui sarebbe stato incatenato. Per costoro, al contrario, è in questo incatenamento al corpo che con­ siste tutta l’ essenza dello spirito. Separarlo dalle forme concrete in cui è già da sempre coinvolto significa tra­ dire l’originalità dello stesso sentimento da cui convie­ ne partire. L’im portanza attribuita al sentimento del corpo, di cui lo spirito occidentale non ha mai voluto acconten­ tarsi, è alla base di una nuova concezione dell’uom o. Il biologico, con tutta la fatalità che comporta, diventa ben più che un oggetto della vita spirituale, ne diviene il cuo­ re. L a voce misteriosa del sangue, gli appelli dell’eredità e del passato di cui il corpo è l’ enigm atico portatore, perdono la loro natura di problemi sottoposti alla solu31

E m m a n u el Lévinas

zione di un Io sovranamente libero. L’Io non dispone, per risolverli, che delle incognite stesse di questi p ro ­ blemi. N e è costituito. L’ essenza dell’uom o non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento. Essere veramente se stessi, non significa risollevarsi al di sopra delle contingenze, sempre estranee alla libertà dell’ Io: ma, al contrario, prendere coscienza dell’incatenamento originale, ineluttabile, unico al nostro corpo; signi­ fica soprattutto accettare questo incatenamento. D i conseguenza, ogni struttura sociale che annunci un affrancamento dal corpo e che non lo coinvolga diventa sospetta come un’abiura, un tradim ento. Le form e della società m oderna fondata sull’ accordo di volontà libere non appariranno soltanto fragili e incon­ sistenti, ma false e menzognere. L’ assimilazione degli spiriti perde la grandezza del trionfo dello spirito sul corpo. Diventa opera di falsificazione. D a questa con­ cretizzazione dello spirito deriva immediatamente una società a base consanguinea. E allora, se la razza non esiste, bisogna inventarla! Q uesto ideale dell’uom o e della società si accompa­ gna ad un nuovo ideale di pensiero e di verità. C iò che caratterizza la struttura del pensiero e della verità nel mondo occidentale — l’ abbiamo sottolinea­ to — è la distanza che separa inizialmente l’uom o dal mondo delle idee in cui sceglierà la propria verità. Egli è libero e solo di fronte a questo m ondo. È libero al punto che può fare a meno di ricoprire questa distanza, di effettuare la scelta. L o scetticismo è una possibilità fondamentale dello spirito occidentale. M a una volta 32

A lcune riflessioni sulla filosofia deWhitlerismo

annullata la distanza e colta la verità, l’uomo non fa cer­ to a meno della sua libertà. Può riprendersi e tornare sulla propria scelta. L’ afferm azione cova già la futura negazione. Questa libertà costituisce tutta la dignità del pensiero, ma ne nasconde pure il pericolo. N e ll’ in­ tervallo che separa l’uom o dall’idea si insinua la men­ zogna. Il pensiero diventa gioco. N ella sua libertà l’uom o si compiace e non si compromette in senso definitivo con nessuna verità. Trasform a il suo potere di dubitare in mancanza di convinzione. N o n legarsi ad una verità diventa per lui non voler impegnare la propria persona nella creazione di valori spirituali. L a sincerità divenu­ ta impossibile mette fine ad ogni eroismo. L a civilizza­ zione è invasa da tutto ciò che non è autentico, dai suc­ cedanei messi al servizio degli interessi e della moda. È a una società che perde il contatto vivente dal suo vero ideale di libertà per accettarne le form e degenera­ te e che, senza vedere lo sforzo che questo ideale esige, si rallegra innanzitutto delle com odità che consente — è a una società in queste condizioni che l’ideale germa­ nico dell’uom o appare come una promessa di sincerità e di autenticità. L’uom o non si trova più davanti a un mondo di idee in cui può scegliersi, con una decisione sovrana della sua libera ragione, la propria verità — egli è già legato ad alcune tra quelle, com ’è legato fin dalla sua nascita a tutti coloro che sono del suo stesso san­ gue. N o n può più giocare con l’idea, perché scaturita dal suo essere concreto, ancorata alla sua carne e al suo sangue, essa ne conserva la serietà. 33

E m m a n u el Lévinas

Incatenato al suo corpo, l'uom o si vede rifiutare il potere di sfuggire a se stesso. L a verità, per lui, non è più la contemplazione di uno spettacolo estraneo — essa consiste in un dramma di cui l’uom o stesso è l’ attore. È sotto il peso di tutta la sua esistenza — che com porta dei dati su cui non si può più tornare — che l’uom o dirà il suo sì o il suo no. M a a cosa obbliga questa sincerità? O gni assimila­ zione razionale o comunione mistica tra spiriti che non si fondi su una comunità di sangue è sospetta. E tutta­ via il nuovo tipo di verità non potrebbe rinunciare alla sua natura form ale e smettere d ’ essere universale. L a verità potrà ben essere la mia verità nel senso più forte di questo possessivo — essa deve però tendere alla crea­ zione d ’un m ondo nuovo. Zarathustra non s’ accon­ tenta della propria trasfigurazione, scende dalla sua montagna e porta un vangelo. C o m ’è compatibile l’uni­ versalità col razzism o? C i sarà — ed è nella logica dell’ispirazione originaria del razzismo — una m odifi­ cazione fondamentale dell’ idea stessa di universalità. Essa dovrà fa r posto a ll’idea d i espansione, perché l’ espansione d ’una forza presenta tutt’ altra struttura dalla propagazione di un’idea. L’idea che si propaga, si distacca essenzialmente dal suo punto di partenza. M algrado l’accento unico che il suo creatore le conferisce, essa diventa di patrim onio comune. È sostanzialmente anonima. Appartiene a chi la accetta com e a chi la propone. L a diffusione di un’idea crea così una comunità di “ maestri” ( “m aîtres”) — è un processo di parificazione. Convertire o persua­ 34

A lcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo

dere è crearsi dei pari. L’universalità d ’un ordine nella società occidentale riflette sempre questa universalità della verità. L a forza è invece caratterizzata da un altro tipo di propagazione. C h i la esercita non se ne separa. L a fo r­ za non si disperde tra coloro che la subiscono. È tutt’uno con la personalità o la società che la esercitano, le accresce subordinando loro tutto il resto. Q ui l’ ordi­ ne universale non si stabilisce più come corollario dell’espansione ideologica — esso è questa espansione stessa che costituisce l’unità di un mondo di padroni (maîtres) e di schiavi. La volontà di potenza nietzschia­ na che la G erm ania moderna ritrova e glorifica non è soltanto un nuovo ideale, è un ideale che apporta nello stesso tempo la sua form a propria di universalizzazione: la guerra, la conquista. Ritroviam o qui delle verità ben note. A bbiam o ten­ tato di ricollegarle ad un principio fondamentale. Può essere ci sia riuscito di mostrare che il razzism o non si oppone solamente a questo o quel punto particolare della cultura cristiana e liberale. C h e qui non è questo o quel dogm a della democrazia, del parlamentarismo, del regime dittatoriale o della politica religiosa ad esser messo in causa. È l’umanità stessa dell’uomo.

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I l Male eiementale di Miguel Abensour

I Due testi, due date — 1934 e 1990 — inquadrano in qualche modo il percorso filosofico di Emmanuel Levinas, quasi a for­ nire una risposta all’angosciosa domanda, segnata dal “ marchio del nulla” , formulata nel 1987: “ La mia vita si sarebbe svolta tra Thitlerismo incessantemente presentito e l’hitlerismo che rifiu­ ta l’oblio?” 1 In contrappunto, la dedica che apre Autrement qu'être ou au-delà de l'essence del 1979: “ Alla memoria degli uomini più simili tra i milioni di assassinati dai nazionalsocialisti, a fianco dei milioni e milioni di esseri umani di ogni confessione e nazionalità vittime del medesimo odio dell’altro, del medesi­ mo antisemitismo.” 2 Il testo del 1934, occorre riconoscere, possiede uno statuto eccezionale che va ben al di là della denuncia dell'hitlerismo per fornirne un’interpretazione, dimostrando in actu che una forma superiore di denuncia esige il lavoro dell’interpretazio­ ne. In primo luogo quell’articolo parve a Emmanuel Levinas sufficientemente importante — nonostante il fastidio che pro­ vocava in lui il titolo in cui coabitavano stranamente, come sembra, filosofia e hitlerismo — perché giudicasse opportuno aggiungervi nell’ edizione americana una pagina retrospettiva, in modo tale che il lettore potesse leggere quel testo alla luce del cammino percorso dal suo autore — la precedenza dell’amore sulla libertà — alla quale fa eco l’interrogativo che appare nel postscriptum del 1990: “ Dobbiamo chiederci se il liberalismo possa bastare alla dignità autentica dtl soggetto 37

M iguel A b en so ur

umano” . N e ll’ampia opera di Levinas, è opportuno sottoli­ nearlo, Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo è l’unico testo che arrischi il ricorso alla tecnica fenomenologica, alle vir­ tualità critiche, all’interpretazione di un fenomeno sociale e storico. Rischio tanto più grande poiché questa interpretazio­ ne critica fu proposta “ a caldo” e con uno scarto rispetto ai modi di pensiero allora prevalenti. Rari furono per di più i testi filosofici che tentarono di misurarsi con l’evento per farne apparire il carattere senza precedenti. In Francia, se adottiamo questo criterio, oltre al testo di Levinas incontriamo solo quel­ lo di G. Bataille, La structure psychologique du fascisme (“ C ri­ tique sociale” , novembre 1933, n. io, marzo 1934, n. 11). L ’intervento di Levinas non ebbe nulla di contingente. Una condizione ebraica assunta senza esitazioni, una vigile coscien­ za delle minacce terrificanti del nazionalsocialismo, ancor più allarmata dalla cesura che si annunciava, animano questa volontà di intelligibilità. V i appare un’acuta sensibilità per ciò che si preparava, giacché Levinas conosceva bene la Germania, avendo frequentato Husserl e Heidegger durante l’anno acca­ demico 1928-29. È a Levinas che si deve principalmente l’intro­ duzione della fenomenologia in Francia. Nel 1930 egli pubbli­ ca Théorie de Tintuition dans la phénoménologie de Husserl nel 1932, nella “ Revue philosophique” , lo studio pionieristico Martin Heidegger et Tontologie3. A l cuore di quel viaggio filo­ sofico in Germania, vi fu a Friburgo l’incontro con un maestro, Heidegger. In un’intervista del 1987, Levinas dichiarava: “ Il grande fatto che scoprii fu il modo con cui la strada di Husserl era prolungata e trasfigurata da Heidegger. Per parlare in lin­ guaggio turistico, ebbi l’impressione di essere andato a visita­ re Husserl e di aver trovato Heidegger... Seppi immediata­ mente che si trattava di uno dei più grandi filosofi della storia. Come Platone, come Kant, come Hegel, come Bergson” 4. Per percepire lo stupore di fronte a ciò che si presentava e si praticava* come un’autentica rivoluzione filosofica, un “ Rina­

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I l Male eiem entale

scimento” , rivolgiamoci a un testo di Levinas del 1931 ove tra­ spare al più alto grado questo entusiasmo giovanile. Friburgo è per eccellenza la città della fenomenologia. Contro le costru­ zioni e le astrazioni, contro lo psicologismo, si tratta di risco­ prire, di saldare il fenomeno immergendolo “ nella vita coscien­ te, nelPindividualità e indivisibilità della nostra esperienza con­ creta” . Questo ritorno alle cose in sé si completa con una ria­ bilitazione del sentimento, via d’accesso specifica al mondo. L ’incontro con Heidegger fu proprio l’incontro con un mae­ stro, uno choc non privo di violenza o di seduzione. “ Egli par­ lava alle mie orecchie celato nella sua grandezza!” confessa Levinas. Parola non dogmatica ma autoritaria, che si teneva lontana tanto dalla maieutica socratica quanto dalla relazione etica, parola di un maestro che non restava estraneo all’ ordine della dominazione. Levinas stesso lo riconosce a proposito dei colloqui di Davos nel 1929 e della disputa filosofica che oppose Heidegger a Cassirer. “ Heidegger annunciava un mondo che stava per essere sconvolto. Lei sa a cosa sarebbe approdato tre anni più tardi: e tuttavia sarebbe stato necessario avere il dono della profezia per prevederlo già a Davos. A lungo — nel corso degli anni terribili — ho pensato di averlo già presentito allora, mal­ grado il mio entusiasmo. M i sono molto pentito durante gli anni hitleriani di avere preferito Heidegger lì a Davos” 5. Questi richiami sono utili a mettere in luce la sovradeterminazione del testo sull’hitlerismo, che può, che deve essere letto come l’abbozzo di una “ spiegazione” con Heidegger, un primo tentativo di delucidare l’inconcepibile, l’adesione della gloria filosofica della Germania all’opera di morte, alla barba­ rie del nazionalsocialismo. Questo è il secondo momento di quel che Elisabeth de Fontenay chiama “ la torsione all’infini­ to” ; insieme all’abbagliamento, l’opacità, l’oscuramento, l’enig­ ma. Sul tema dei rapporti di Heidegger con il nazismo, Levinas dichiara il suo smarrimento, la sua incomprensione: “ N o n 39

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so... è la parte più nera dei miei pensieri su Heidegger, non è possibile dimenticare...” O ancora: “ C o m ’è possibile?” Egli dichiara anche il suo rifiuto categorico di dimenticare: “ N o n dimenticherò di certo mai i rapporti di Heidegger con Hitler. Anche se questi rapporti furono solo di breve durata, essi restano per sempre” 6. Com e non percepire in queste “ riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo” , posteriori di un po’ più di un anno al discor­ so del rettorato del 27 maggio 1933 su L ' autoaffermazione dell'Università tedesca, la decisione di mettere alla prova con l’hitlerismo la forza euristica e critica del metodo fenomenologico? È come se il suo autore tendesse al maestro in fenome­ nologia uno specchio per vedere se quest’ultimo vi riconosce l’immagine che l’allievo, interprete dell’hitlerismo, era riuscito a farvi apparire e, per finire, se egli stesso, il fabbricante di specchi, vi si riconosce o accetta di riconoscervisi. Altrimenti per che mai si sarebbe cacciato in questo ginepraio? L a rela­ zione sotterranea con Heidegger, mai nominato, in un testo che funziona in qualche modo come un “ rispedito al mitten­ te” , richiede di accostare pazientemente il saggio di Levinas sull’hitlerismo alla meditazione filosofica che egli scrisse un anno più tardi, D e l'évasion7, poiché - tale sarà la mia ipotesi di lettura - la categoria dell’evasione, critica velata ad Heideg­ ger, esercita già, “ in negativo” si potrebbe dire, l’ analisi dell’hitlerismo, svelando così il fenomeno dell’incatenamento. U n confronto va così instaurato tra questi due testi che comu­ nicano uno con l’altro, benché in forma di figura inversa. N o n è forse la messa in luce, o meglio la messa in scena dell’incate­ namento che richiama, che fa nascere, che impone per effetto di contrasto la categoria di uscita? La riflessione sull’hitlerismo, in quanto esperienza dell’incatenamento di massa, non ha suscitato in colui che la sviluppava una meditazione imperati­ va sul bisogno di evasione? A proposito di De l'évasion, Levinas dichiara nell’intervista del 1987: “ N el testo originale, scrit-

I l Male d em en ta le

to nel 1935, si può distinguere l’angoscia della guerra che si avvi­ cinava e tutta la ‘stanchezza di essere’, lo stato d’ animo di quel periodo. Diffidenza nei riguardi dell’essere che, sotto un’altra forma, si è prolungata in ciò che ho potuto fare dopo quella data, a un’epoca che, nella sua interezza, viveva ovunque il pre­ sentimento deU’hitlerismo imminente” 8. Questo confronto ne richiama un altro. Chi acconsente, in effetti, ad accogliere l’opera di Levinas nella totalità delle sue dimensioni, quella filosofica e quella ebraica, e chi acconsente a pensare senza schermirsi la tensione irriducibile e insolubile tra il filosofo e il pensatore ebreo, non può ignorare i testi scrit­ ti nello stesso periodo su “ Paix et Droit” , la rivista della Alliance Israélite Universelle9 in cui viene elaborata una nuova riflessio­ ne sulla “ gravità di essere un ebreo della diaspora” . Le questio­ ni scoperte e enunciate nel linguaggio della filosofia riemergo­ no sotto una nuova luce, una conferma, un’acutizzazione susci­ tata dall’esperienza ebraica messa di fronte a una persecuzione senza eguali. Ricordiamo, per esempio, l’opposizione tra paga­ nesimo e giudaismo che, rispetto alla lettura fenomenologica dell’hitlerismo, si fa carico del rapporto con l’essere e con l’uscita dall’essere. “ Il paganesimo non è mai la negazione del­ lo spirito, né l’ignoranza di un Dio unico... Il paganesimo è una impotenza radicale a uscire dal mondo. N o n consiste nel nega­ re spiriti e dei, ma nel situarli nel mondo... In questo mondo bastante a se stesso, chiuso in se stesso, il pagano è imprigio­ nato. Egli lo trova solido e ben costruito. Lo trova eterno. Egli modella su di esso le sue azioni e il suo destino. Il sentimento di Israele rispetto al mondo è del tutto diverso. È pervaso di sospetto. L ’ebreo non ha nel mondo le certezze definitive del pagano” 10.

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II

Il titolo non cessa di stupire. Innanzitutto Pintenzionale modestia: solo alcune riflessioni... per meglio sottolineare che il testo non mira a un’interpretazione globale, né totalizzante. Solo qualche sondaggio, destinato nondimeno a far percepire l’essenza del fenomeno. Ancora, va notato che queste riflessio­ ni non si concentrano direttamente sul fenomeno dell’hitlerismo, ma sulla sua “ filosofia” . L ’hitlerismo è affrontato indiret­ tamente, attraverso il prisma della sua “ filosofia” , con la consi­ derazione che questa è di natura tale da condurre al cuore del fenomeno, punto nodale a partire dal quale sarà possibile dedurne, piuttosto che farne apparire, i caratteri fondamentali. Questo tentativo di spiegazione non riduce la stranezza dell’espressione “ filosofia dell’hitlerismo” , che richiama irre­ sistibilmente le virgolette per temperare il malessere che susci­ ta nel lettore di oggi l’accostamento della filosofia e di ciò che ne era la negazione più abietta. H o già parlato della difficoltà di Levinas, al quale questo titolo forgiato prima dell’ evento, o ai suoi inizi, sembrava senza dubbio sconveniente dopo la Shoa. Come mettere assieme la nobiltà della filosofia e l’igno­ biltà del nazionalsocialismo? Tentiamo allora di chiarire que­ sta stranezza che non conteneva alcuna ambiguità, né alcuna trasfigurazione filosofica, e neppure una estetizzazione miran­ te a rendere il fenomeno più accettabile — ma che a dire il vero risuonava come un appello pressante a pensare la radicalità dell’evento e a misurarne l’incommensurabile gravità. N on si tratta evidentemente di esporre la filosofia di Hitler, né quella degli hitleriani. Per quanto queste ultime esistano, in quanto controfilosofie esse sono primitive e miserabili. N o n si tratta dunque di un’analisi delle dottrine o delle rappresenta­ zioni apparse nel nazionalsocialismo. L ’ismo non rinvia tanto a una ideologizzazione del pensiero di Hitler (che è già a trat­ ti ideologia) quanto alla dimensione collettiva del fenomeno. Lungi dallo studiare le rappresentazioni di soggetti particola­ 42

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ri, si tratta di orientare un fascio di luce su uno stato d’animo, su una coscienza collettiva, impersonale. Questo articolo non è come tanti altri un articolo di opinione, né una ennesima costruzione ingegnosa. N o . È una magistrale lezione di feno­ menologia che al di là di ogni spiegazione si sforza di afferrare la cosa in sé e a un tempo di provocare nel lettore un risveglio irreversibile, di più, una insonnia senza remissione. U n ’altra designazione, non meno strana, appare in V essen­ ce spirituelle de Vantisémitisme (d'après Jacques Maritain), arti­ colo di poco posteriore ad Alcune riflessioni., in cui Levinas impiega l’espressione “ metafisica dell’ antisemitismo” ricono­ scendo subito che l’ accostamento dei due termini può stupire. Ora, nell’uno e nell’altro caso si tratta di svelare il più con­ creto perché più profondo, il più profondo perché più concre­ to; se il concreto più alto nell’essere umano è l’intenzionalità, si tratta dunque di percepire e interpretare l'hitlerismo, alla pari dell’antisemitismo, come un tessuto, un intrico di intenziona­ lità specifiche. Il fenomenologo, più che dedicarsi a rappresen­ tazioni, a elementi dottrinali, si darà come scopo, una volta chiarite queste intenzionalità, l’esplicitazione di ciò che è implicito. Così il destino ebraico può definirsi come un essere straniero al mondo, “ una messa in gioco e in questione che sembra contenerlo” ; in questo caso, l’antisemitismo potrà esse­ re spiegato come “ la rivolta della Natura contro la Supernatura, l’aspirazione del mondo alla propria apoteosi, alla sua bea­ tificazione nella sua natura” 11. A questo complesso di inten­ zioni, i sentimenti aprono una via d’accesso incomparabile. Già nel testo su Fribourg Levinas insisteva sull’importanza dei sen­ timenti per i fenomenologi. “ La loro idea fondamentale consi­ ste... nell’affermare e nel rispettare la specificità del rapporto con il mondo realizzato dal sentimento... Essi sostengono fer­ mamente che qui vi è rapporto, che i sentimenti in quanto tali ‘vogliono giungere a qualcosa’ e costituiscono, in quanto tali, la nostra trascendenza in rapporto a noi stessi, la nostra ine­ 43

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renza al mondo. Essi affermano di conseguenza che il mondo stesso — il mondo oggettivo — non è costituito sul modello di un oggetto teorico, ma si costituisce per mezzo di strutture, molto più ricche, che soltanto i sentimenti intenzionali sono in grado di cogliere” 12. 1 sentimenti, in quanto portatori di inten­ zionalità, intessono un mondo o disegnano una maniera di essere fondamentale. Questo è in effetti il punto di osserva­ zione scelto da Levinas in Alcune riflessioni..: a... l'hitlerismo è un risveglio dei sentimenti elementari... I sentimenti elemen­ tari racchiudono una filosofia; esprimono la prima attitudine di un animo di fronte all’insieme del reale e al suo destino. Pre­ determinano o prefigurano il senso della sua avventura nel mondo” 13. Il titolo, così accostato alla regione a partire dalla quale Levinas intende interpretare l'hitlerismo, il sentimento dell’esi­ stenza, vede dissiparsi la sua apparente sconvenienza. A l con­ trario, esso si conforma pienamente a un approccio fenome­ nologico che a partire da un sentimento specifico dell’ esisten­ za si darà come obiettivo manifestare ciò che è implicito nell’hitlerismo, di metterlo in scena nell’insieme delle sue dimensioni. Allo stesso modo in cui Husserl si teneva lontano da ogni psicologismo, da ogni costruzione ispirata dalla psico­ logia, per aprirsi un accesso inedito alla coscienza nella sua concretezza, Levinas si tiene deliberatamente a distanza dalle spiegazioni sociologiche — nessuna analisi dei gruppi sociali viene tentata — o dalle analisi ideologiche — nessuna corren­ te, nessuna opera, nessun nome d’autore viene invocato — o dalle opposizioni logiche, al fine di afferrare l'hitlerismo a un livello di profondità ineguagliata, di scoprire lo strato sul qua­ le si svilupperanno e si elaboreranno le ideologie e i discorsi più strettamente politici. La novità dell’hitlerismo, la sua originalità — e altresì il luogo da cui occorre far muovere l’offensiva per meglio sradi­ carlo — è un nuovo rapporto di inerenza al mondo che si è 44

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costituito attraverso il primato accordato all’esperienza del corpo. “ Rispedito al mittente” , dicevo per situare questo testo. Si tratta, in effetti, di mettere in opera la fecondità euristica del­ la fenomenologia, più precisamente di ricorrere al concetto heideggeriano di Stimmung — di disposizione affettiva — e di rivolgerlo in qualche modo contro Heidegger, quasi l’autore intendesse chiarire ad Heidegger, con l’aiuto dei suoi stessi concetti, la natura del movimento cui aveva pubblicamente aderito nel maggio 1933 pronunciando il discorso del rettorato. Per far ciò Levinas si dà il compito di afferrare la Stimmung dell’hitlerismo, non la disposizione soggettiva di questo o quell’attore, ma la tonalità che emana fenomenologicamente dalle cose stesse, dal mondo. Egli stesso scriveva nell’analisi del 1932 dedicata ad Heidegger, stabilendo una equivalenza tra la disposizione e il modo di esistenza: “ Per Heidegger, le dispo­ sizioni non sono degli stati, ma dei modi di comprendersi, ovvero, poiché è la stessa cosa, di esser-ci. La disposizione affettiva che non si distacca dalla comprensione — attraverso la quale la comprensione esiste — ci rivela il fatto che il Dasein è votato alle sue possibilità che il suo “ ci” gli impone” H. Lun­ gi dall’essere sovrastruttura, le tonalità sono le modalità della nostra implicazione nel mondo e nella storia; là dove si gioca e si stringe il rapporto dell’esserci e l’essere in comune con le loro possibilità. La risposta di Levinas è chiarissima: la Stim­ mung dell’hitlerismo, per il privilegio accordato all’esperienza del corpo, è Y incatenam elo che determina tonalmente un modo di esistenza specifico, ovvero Y essere-inchiodati. Ed è rispetto a questa struttura profondissima, ben a monte delle sovrastrutture ideologiche o delle elaborazioni dottrinarie, che è opportuno giudicare l’hitlerismo, di dirne il carattere “ spa­ ventosamente pericoloso” .

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M iguel A b en so u r III

Nonostante la sua brevità, il postscriptum del 1990 vi insi­ ste: “ L ’articolo procede dalla convinzione che l’origine della sanguinosa barbarie del nazionalsocialismo non sia in una qualche contingente anomalia della ragione umana, né in un qualche malinteso ideologico accidentale. In quest’articolo c’è la convinzione che tale origine attenga ad una possibilità essen­ ziale del Male eiementale cui ogni buona logica può condurre e nei cui confronti la filosofia occidentale non si era abbastan­ za assicurata” 15. C iò vuol dire riconoscere quanto è importan­ te prendere sul serio 1’hitlerismo. N é peripezia, né sussulto di una forma sociale agonizzante, e neppure regime destinato a crollare in poche settimane, ovvero in qualche mese, né follia, né contagio, e nemmeno effetto di propaganda|l’hitlerismo, in quanto espressione di sentimenti elementari, o piuttosto la sua filosofia leggibile attraverso questi sentimenti, mette in que­ stione gli stessi principi di una civiltà, cioè dell’EuropajBen più di una formula giornalistica, questa dichiarazione è filosofica­ mente fondata; essa indica il punto di osservazione in cui è opportuno situarsi per cogliere dell’hitlerismo “ il principio fondamentale” , la fonte, l’intuizione o ancora “ la decisione ori­ ginale” . È a questo livello matriciale, si potrebbe dire, che il nazionalsocialismo giunge a rottura con i grandi orientamenti della cultura europea. Rottura con “ lo spirito di libertà” , che certamente contiene le libertà politiche ma va ben al di là, giacché si tratta di una concezione del destino umano. Ben inteso, nel rapporto con­ flittuale dell’uomo con il mondo, dell’Io con l’altro — che Levinas indicherà in apertura a De l'évasion come “ il disaccordo tra la libertà umana e la realtà inesorabile dell’essere che cozza con essa” , una continuità lega i principali orientamenti propri della cultura europea. Attraverso strade evidentemente diverse si è intrapresa una stessa ricerca, una stessa rivolta che ha mirato a superare l’ essere grazie al gioco della libertà tra l’io e il non-io.

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L ’idea di Europa si è costituita nello spirito di libertà, in un “ sentimento della libertà incondizionata dell’uomo di fronte al mondo e alle possibilità che sollecitano la sua azione. L ’uomo si rinnova eternamente dinanzi all’Universo. Parlando in ter­ mini assoluti, non ha storia” (p. 24). O , ancora, le differenti figure della civiltà europea — dello spirito di libertà — hanno in comune, nonostante la loro diversità, il fatto di lavorare per liberare l’uomo dall’inamovibilità del fatto compiuto, dalla tirannia del tempo. Com e conviene in effetti considerare il tempo, condizione dell’esistenza umana? occorre scorgervi la condizione dell’irreparabile e in quanto tale la manifestazione della brutalità del fatto d’essere? Il giudaismo, il cristianesimo e persino il marxismo sono altrettanti modi di emanciparsi dalla dominazione del tempo. Che ciò avvenga attraverso il perdono, la promessa di salvezza, la “ natura noumenica” dell’anima, la sovranità e l’autonomia della ragione, il regno della libertà, uno stesso leitmotiv si ripe­ te e si rafforza attraverso queste figure, quello della libertà che considera lo spirito umano superiore al reale, al di là del mon­ do implacabile della storia concreta e dei suoi asservimenti. L ’innovazione dell’hitlerismo sta nell’asservimento. Fatto che comprende certo l’asservimento politico, ma si estende ben al di là, scende in profondità. In rapporto a questa complessa storia della libertà, più spirituale che politica, Levinas fa emer­ gere l’irriducibile eterogeneità del nazionalsocialismo. In radi­ cale rottura con la civiltà europea, sorge una nuova concezio­ ne dell’uomo, del destino umano, che consiste essenzialmente in un nuovo sentimento dell’esistenza, in una nuova maniera di esistere, cioè di entrare in relazione con l’essere^Filosofia dell'hitlerismo, perché l’analisi fenomenologica di Levinas opera per far apparire la dimensione ontologica del fenomeno, per meglio farne misurare l’eccezionale gravità: un attentato senza precedenti allumano} Tale è esattamente la conclusione 47

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fermissima dell'articolo del novembre 1934: “ N o n è questo o quel dogma della democrazia, del parlamentarismo, del regime dittatoriale o della politica religiosa ad esser messo in causa. È l’umanità stessa dell’uomo” (p. 35). Sotto le spoglie di una apo­ teosi della concretezza si è attuata una sinistra confusione tra l’orientamento verso il concreto e la brutalizzazione dell’esi­ stenza. “ L ’ontologia nella temporalità” della Germania hitleriana può così definirsi: per il primato del corpo biologico, la conse­ guente esaltazione del sangue e della razza appare come un modo specifico di esistere; la situazione cui l’uomo è inchio­ dato costituisce ormai il fondamento del suo essere e circo­ scrive paradossalmente i suoi poter-essere. Prima di proseguire, qualche osservazione. 1. Nella prima parte del testo, come abbiamo notato, la libertà, lo spirito di libertà si definisce in rapporto al tempo, al dramma del tempo. Ora, nella seconda parte del saggio la que­ stione del tempo sembra essere abbandonata a favore di una nuova questione, quella del corpo. Sono l’esaltazione del cor­ po biologico e il tipo di identificazione che essa procura a mar­ care la cancellazione della libertà e l’asservimento. L ’analisi di Levinas effettua uno spostamento. Vuol dire che la questione del tempo, così centrale negli sviluppi dedicati alla libertà, vie­ ne trascurata, abbandonata? N o n è affatto così, perché è attra­ verso questa nuova esperienza del corpo e il sentimento dell’esistenza che la sostiene — il sentimento acuto di essere inchiodati — che una nuova esperienza del tempo si manifesta, tale che il passato trionfa e prolunga il suo potere sul presente. Questa aderenza al corpo porta con sé molteplici effetti: accet­ tazione dell’incatenamento, essa vale anche come accettazione del passato, di più, come abdicazione di fronte alle torbide, oscure potenze di un passato ridotto brutalmente all’ eredità e confuso con essa. Quasi che il poter-essere del Dasein si costi­ tuisse non in un’apertura — qui sta il paradosso — ma in una

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chiusura su di sé che diviene il cuore della vita spirituale. In questo nuovo modo di esistere la dimensione del corpo e quel­ la del tempo si coniugano tanto più intimamente quanto il cor­ po cessa di essere vissuto come estraneo al Sé. A proposito dell’aderenza del corpo al Sé, Levinas sottolinea questo inter­ secarsi: “ Si tratta di un’unione il cui tragico sapore di definiti­ vo nulla potrebbe alterare” (p. 31). La dimensione del tempo resta fondamentale; quale che sia l’importanza riconosciuta al corpo, il criterio di giudizio per Levinas resta, incontestabil­ mente, il rapporto tra il tempo e la libertà, e, se non si rischias­ se di affrettare i tempi in questa lettura di un testo del 1934, quello tra il tempo e l’umano. 2. Primarietà del tempo. Torniamo quindi alla concezione del tempo che questa Odissea dello spirito di libertà presuppo­ ne. Levinas scrive: “ // tempo condizione dell'esistenza umana è soprattutto condizione dell'irreparabile” (p. 24). Per dare tut­ to il suo peso al “ soprattutto” dell’irreparabile, il destino è pen­ sato più come fardello che come dono: “ il fatto compiuto sfug­ ge per sempre alla presa dell’uom o,... grava sul suo destino” . Si afferma una visione tragica del tempo — “ la tragedia dell’ina­ movibilità d’un passato incancellabile” — e nella logica di que­ sta concezione, la condanna di ciò che si dà come iniziativa a essere solo una continuazione. A contrasto, il pensiero di ciò che sarebbe una autentica libertà associata a un autentico inizio che si manifesterebbe come un vero presente, liberato dalle cate­ ne del passato e suscettibile di eterni nuovi inizi. La frase su cui ci soffermiamo comprende un duplice movimento. Levinas riprende Heidegger, va in un primo tempo nel suo senso, per meglio separarsene in un secondo tempo. In effetti, per Levinas, sensibile alle scoperte filosofiche di Heidegger, vi è certamente co-appartenenza della temporalità e del Dasein. Ponendo il tempo a condizione dell’esistenza umana, egli si riferisce, evi­ dentemente, alle tesi essenziali di Essere e tempo, secondo le quali il tempo è una struttura interna del Dasein 45). “ Ora, il

,

,



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fondamento ontologico originario dell’esistenzialità del Dasein è la temporalità” 16. Levinas, tuttavia, indica subito uno scarto significativo e deliberato precisando che il tempo è soprattut­ to — tale è la sua dimensione essenziale — condizione dell’irreparabile. È dunque opportuno, in ragione del rappor­ to interno tra il tempo e la condizione umana, pensare questa condizione più nel segno dell’irreparabile, del peso del passa­ to, che in quello del presente — o dell’avvenire — dell’apertu­ ra all’inizio in quanto tale. Tutte sensibili differenze in rapporto a Heidegger. Que­ st’ultimo pensa il Dasein, ente “ per il quale nel suo essere ne va del suo stesso essere” , in un perpetuo stato di incompiutezza — una costante non-totalità — in ragione dell’eccedenza che gli appartiene. La struttura della cura, l’essere del Dasein, non fa che rafforzare questa incompiutezza. “ Il ‘superamento di sé’ che è la principale caratteristica della cura connota una ‘aper­ tura’ incompatibile con la chiusura di un sistema... N o i abbia­ mo scelto l’opzione dell’apertura contro quella della chiusu­ ra” 17. Esistere per il Dasein, in quanto essere per la possibilità, consiste nel potersi rapportare ai propri poter-essere. D i più, legare la struttura del tempo a quella della cura tiene resisten­ za lontana dall’irreparabile, poiché in seno all’unità delle tre dimensioni del tempo, Heidegger accorda un primato all’avve­ nire. Lungi dall’ignorare il passato, definito piuttosto come essere-stato, l’autore di Essere e tempo pone questa dimensio­ ne, nella misura in cui essa è compresa nella forma dell’assun­ zione, come se non si potesse comprendere che a partire dall’avvenire: (§ 65) “ L ’essere-stato, in una certa maniera, sca­ turisce dall’avvenire” l8. Aggiungiamo a ciò la definizione del Dasein come essere-per-la-morte, nel senso in cui il supera­ mento di sé proprio della struttura della cura incontra nella morte la sua più estrema realizzazione. Il Dasein, in quanto essere per la possibilità, trova nell’essere-per-la-morte la sua 50

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possibilità più propria. (§ 53) “ La morte è la possibilità più pro­ pria del Dasein. L ’essere per essa apre al Dasein il poter-essere più proprio, nel quale ne va pienamente dell’essere del Dasein O , ancora, l’apoteosi del § 50: “ La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità del Dasein. Così la morte si rive­ la come la possibilità più propria, incondizionata, e insuperabi­ le. Come tale è un’imminenza sovrastante specifica In questo senso Heidegger, nella misura in cui pensa il Dasein come apertura all’essere, come esistere estatico, lo con­ cepisce come capacità di sottrarsi a tutte le determinazioni suscettibili di insidiare la sua possibilità di riferirsi ai propri poter-essere. “ G li uomini, che sono Dasein, cioè letteralmente il ‘ci’ dell’Essere, l’apertura all’essere, non sono dunque inchio­ dati all’ente nella ricerca meccanica e imperiosa della soddisfa­ zione dei bisogni vitali” 20. La formula heideggeriana, se volessi­ mo contrapporla a quella di Levinas, potrebbe essere così enun­ ciata: “ Il tempo è condizione dell’esistenza umana e soprattut­ to per il Dasein possibilità di essere in vista di se stesso” .

”.

”19.

Da dove deriva questa resistenza di Levinas, come inter­ pretare questo scarto che consiste nell’accettare la struttura della temporalità per subito declinarla in altro modo? Occorre forse scorgere una reminiscenza dell 9Ecclesiaste, una ripresa delle parole di Qoèlet: “ C iò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà: non c’è nulla di nuovo sotto il sole... Ciò che nasce ha da tempo ricevuto il suo nome; in anticipo è sta­ bilita la condizione dell’uomo” 21. N e l testo del 1934, legata a questa determinazione del tempo, si fa allusione al peccato contro il quale si sarebbe elevata la rivolta del cristianesimo. M a è più presso i greci che occorrerebbe cercare questo speci­ fico rapporto col tempo. Levinas non invoca forse gli Atridi “ che si dibattono soffocati da un passato estraneo e brutale” ? e non attribuisce alla tragicità della Moira greca “ il sentimento bruciante dell’impotenza naturale dell’uomo di fronte al tem51

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p ò ” ? Questo stesso nome fa riferimento alla morte, poiché secondo la religione greca la Moira può essere una divinità che determina il destino di ognuno e segnatamente la morte, sorte di tutti. La morte potrebbe essere il volto dell'irreparabile? Levinas non condivide in realtà questa visione tragica del tem­ po, e non fa definitivamente suo questo pensiero della irrime­ diabilità e del fatto compiuto. Altrimenti perché avrebbe salu­ tato nella civiltà europea la rivolta perpetua contro la tirannia del tempo? perché sarebbe insorto contro ciò che ne rappre­ senta la rottura? perché si interrogherebbe su un autentico pre­ sente, una autentica libertà, cioè un autentico inizio, che in quanto tale si sottrae al dominio del tempo? Precisamente per­ ché egli è sensibile al dramma del tempo, perché ha preso atto di questo dominio, la sua opera cercherà, in modo inedito, di rompere l’accerchiamento, di allentarne la morsa. Abbozzo di spiegazione con Heidegger, dicevo. In effetti, questa insistenza da parte di Levinas sull’irreparabile e il riferi­ mento alla Moira dei greci non sono forse già legati a una reti­ cenza essenziale riguardo al riconoscimento heideggeriano del­ la morte come possibilità più insigne del Dasein? D a questo punto di vista, nello studio del 1932 — da intendere come una presentazione generale dei grandi orientamenti della filosofia di Heidegger — la cui novità, secondo Levinas, dipende dalla comprensione dell’essere come modo di esistere dell’uomo — è sintomatico, e, a dire il vero, sorprendente, il silenzio sull’essere-per-la-morte, anche se si riconosce l’importanza della fini­ tezza. In D e l'évasion egli rifiuterà alla morte la qualità di ter­ mine o di soluzione. Più avanti, come si sa, Levinas opporrà alla possibilità dell’impossibilità heideggeriana “ evento di libertà” , l’impossibilità della possibilità, la morte come cessa­ zione di ogni poter-essere. In L e temps et Vautre (1947) egli scriverà: “ Ciò che importa, accostandosi alla morte, è che a un certo punto non possiamo più potere; proprio qui il soggetto perde la sua stessa padronanza di soggetto” 22. 5*

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Occorre forse scorgervi anche l’ammissione di un dubbio? L ’opera heideggeriana è interamente orientata verso il poteressere come libertà? In virtù del rapporto tra la comprensione e la precomprensione ontologica, non è affettata dalla pesanj tezza dell’essere? L ’idea stessa non contiene di fatto un rap­ porto col tempo rivolto verso il passato? N el 1940, in L'onto­ logie dans le temporel, Levinas scriverà: “ Si tratta di cercare qualcosa che già possediamo. N o n confondiamo questa situa­ zione con la reminiscenza del Menone. Essa ha un senso rigo­ rosamente antiplatonico, poiché non si tratta di affermare la libertà assoluta del soggetto che tutto trae da se stesso, ma di subordinare ogni iniziativa alla realizzazione anticipata di alcu­ ne delle nostre possibilità. V i è già qualcosa di compiuto in noi, e solo il nostro impegno a fondo nell’esistenza ci apre gli occhi sulle possibilità dell’avvenire. N o i non ci presentiamo mai completamente nuovi di fronte al nostro destino” 23. Se la filosofia è comprensione dell’esistenza, l’evento senza precedenti dell’hitlerismo — la filosofia dell’hitlerismo nel sen­ so in cui la intende Levinas — esige dal filosofo una delucida­ zione di questo nuovo modo di esistere così come delle molte­ plici poste che vi sono connesse e che concernono l’idea stessa di Europa. Sarebbe dunque errato ritenere che Levinas aderi­ sca in modo puro e semplice a una concezione tragica del tem­ po. Si tratta piuttosto per lui, una volta preso atto di questa dimensione del tempo rapportata al fatto di essere, di aprire una nuova strada che si mantenga a eguale distanza dalla filo­ sofia tradizionale e da Heidegger. In un certo senso la propo­ sizione “ il tempo... soprattutto condizione dell’irreparabile” è la base a partire dalla quale Levinas si adopererà per aprire nuove strade. In disparte dalla filosofia tradizionale, poiché se Levinas saluta il suo combattimento contro il tempo, sotto for­ ma ad esempio “ di un passaggio dal presente temporale al pre­ sente eterno” , egli non può tornare a una posizione pre-hei53

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deggeriana che si tenga lontana dall’ esistenza concreta e si rap­ presenti la libertà nei confronti del tempo solo come quella di uno spirito disincarnato, fuori dalle contingenze e fuori dalla storia. Ma in disparte anche da Heidegger, poiché una triplice diffidenza appare nei confronti di quest’ultimo: diffidenza confessata nei confronti dell’essere, magnificamente tematiz­ zata in D e l 'évasion; diffidenza verosimile, stando al silenzio del 1932 nei confronti dell’essere-per-la-morte, diffidenza sen­ za alcun dubbio nei confronti del § 74 di Essere e tempo, che riunisce la scelta dell’eroe, l’invocazione alla comunità del popolo e all’obbedienza combattente. Una domanda implicita, che travaglia il testo del 1934 e che si dispiega o piuttosto si costituisce qualche mese più tardi in D e l'évasion è: quali condizioni occorre soddisfare perché il tempo (e al tempo stesso la condizione umana) cessi di porsi dalla parte dell’irreparabile, dell’irreversibile, del fatto com­ piuto? In breve, quali condizioni occorre soddisfare per acce­ dere a un autentico presente, a un autentico inizio? Senza cedere all’illusione retrospettiva, volgiamoci verso il testo Signature che chiude Difficile liberté (1963). Le tappe di questo percorso filosofico vi sono tracciate con grande esat­ tezza. Diffidenza nei confronti dell’essere, di quel “ brusio cao­ tico di un anonimo esistere che è un’esistenza senza esistente... C ’è (il y a) — impersonalmente — come piove (il pleut) o fa buio ( il fait nuit). Nessuna generosità, che pure conterrebbe, sembra, il termine tedesco es gibt, corrispondente a c’è (il y a), vi si manifesta tra il 1933 e il 1945. Bisogna essere!... questa orri­ bile neutralità del c’ è (il y a)” 24. Quindi il movimento dall’esi­ stenza all’esistente e dall’esistente all’altro. A conclusione, un nuovo pensiero del tempo nella misura in cui il tempo è con­ siderato fuori dalla solitudine che è “ assenza di tempo” e come la relazione stessa del soggetto con l’altro. “ [Il tempo] articola un modo di esistere in cui tutto è revocabile, in cui nulla è defi­ nitivo, ma è a venire - in cui il presente stesso non è una sem­ 54

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plice coincidenza con sé, ma, ancora, imminenza” 25. La riabili­ tazione del presente è il solo mezzo per rompere il gioco tra­ gico del tempo, riteneva Levinas nel 1934 in una recensione a La présence totale di Louis Lavelle. Riabilitazione del presen­ te che va di pari passo con un pensiero dell’inizio26. Il vantaggio di questi molteplici passi avanti su un percor­ so in cui la riflessione sull’hitlerismo fu senza alcun dubbio determinante, potrebbe essere così enunciato: “ il tempo con­ dizione dell’esistenza umana è soprattutto condizione del revocabile” . 3. Occorre distinguere accuratamente due movimenti nella progressione del testo: da un lato, la valorizzazione del privile­ gio accordato all’ esperienza del corpo biologico; dall’ altro, la definizione, la nominazione di una nuova Stimmung che con­ ferisce all’hitlerismo la sua dimensione ontologica, ovvero l’incatenamento. Precisiamo che Levinas non si accontenta di constatare l’incatenamento, di registrarlo come un effetto ine­ vitabile, quasi automatico, del primato del corpo biologico. Egli vi scorge molto di più. Lo mette in rilievo come un modo di essere, un valore della nuova società, una concezione del desti­ no umano che giunge a un’autentica accettazione dell’incatena­ mento, in altre parole alla sua glorificazione. Acettazione, in effetti, è da intendere nel senso forte del termine, poiché è in questione la sincerità di coloro che vi si abbandonano, meglio ancora, il loro accesso possibile all’autenticità; in poche, paro­ le ne va dell’accesso al loro essere più profondo e più autenti­ co. Da notare che uno dei motivi di attrazione più forti di que­ sto incatenamento risiederebbe nel rifiuto del carattere ludico della società moderna, che gioca tanto con la libertà che con la verità. Accettare l’incatenamento vuol dire smettere di gioca— re, incatenarsi alla propria identità, alla verità di questa iden­ tità, vuol dire accettare, prendere su di sé la serietà della storia e dell’esistenza. Nessun dubbio che vi sia qui una critica della 55

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società moderna liberale, borghese, che cerca al tempo stesso più la sicurezza che la libertà e si compiace di un gioco fatto di assenza di convinzione e di irresponsabilità. I n questo senso, l'hitlerismo sarebbe una forza reattiva: “ a una società in que­ ste condizioni ... l’ideale germanico dell’uomo appare come una promessa di sincerità e di autenticità” (p. 33). Così, con­ trocorrente rispetto ai grandi orientamenti della civiltà euro­ pea, l’incatenamento si rivelerebbe come il modo di esistere più autentico. Singolare inversione: mentre tradizionalmente l’immagine delle catene evoca la perdita della libertà, la ridu­ zione in schiavitù, un attentato all’ autonomia dell’io, improv­ visamente si opera un rovesciamento di prospettiva tale che, una volta evacuata la questione della libertà, considerata un fal­ so problema, “ liquidata” , la catena diviene il simbolo della coincidenza a sé, dell’identità infine riconquistata e accettata consapevolmente, di una verità dal sapore senza eguali. D i qui una nuova definizione dello spirituale in cui convergono la ria­ bilitazione del biologico e la glorificazione dell’incatenamento, in cui si effettua senza posa un passaggio dall’uno all’altro. “ Il biologico, con tutta la fatalità che comporta, diventa ben più che un oggetto della vita spirituale, ne diviene il cuore... È in questo incatenamento al corpo che consiste tutta l’essenza dello spirito... L ’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento” (pp. 31-32). Il riferimento all’ autenticità mostra sufficientemente bene che la “ spiegazione” con Heidegger prosegue. C iò facendo Levinas riprende la domanda di Spinoza ereditata da La Boé­ tie, “ C o m ’è possibile che gli uomini si battano per la propria schiavitù come se si trattasse della loro salvezza?” Domanda, questa sulla servitù volontaria, riattivata dalle esperienze tota­ litarie del ventesimo secolo e che Levinas ritrova spontanea­ mente per vie che gli sono proprie. N o n enunciata esplicita­ mente essa penetra nondimeno l’insieme del testo. Alla domanda sul “ come” , A lcu n e riflessioni sulla filosofia d ell'hitle&

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rismo risponde con l'incatenamento inteso nella molteplicità delle sue dimensioni. Attraverso questa nuova esperienza del corpo come incatenamene, questo sentimento specifico del corpo, gli uomini cederebbero al “ fascino” dell'autenticità, meglio ancora a quello di una nuova forma di identità o di identificazione. Riposando sull'incatenamento originario al corpo, l'hitlerismo appartiene a tutti gli effetti all’universo stre­ gato della servitù volontaria. Basta osservare la concezione di legame sociale sulla quale esso si basa. Lungi dal costituirsi nell’ accordo di libere volontà professate dal liberalismo, il sociale si rinserra nell’esaltazione dei legami vissuti come i più profondi e i più veri. L ’autentico legame sociale è il legame del­ la comunità di sangue. D i qui un’alternativa, sotto l’influenza di nuovi valori: o la menzogna dalla parte di un ordine sociale che si forma a parti­ re da un “ affrancamento dal corpo” , o la verità dalla parte di una società che si istituisce privilegiando l'incatenamento ori­ ginario al corpo. Disincorporazione del sociale o incorpora­ zione del sociale, si potrebbe tradurre.

IV

Dopo la lettura di D e l'évasion, possiamo enunciare la seguen­ te proposizione: l'incatenamento, in quanto Stimmung propria dell’hitlerismo, “ dispone e determina tonalmente” il modo di essere in comune, nella forma dell’essere inchiodati. Ora, il termine inchiodato appare solo una volta nel testo del 1934 dedicato all’hitlerismo e ancora in forma di proposi­ zione ipotetica: “ U na concezione veramente opposta alla nozione europea di uomo sarebbe possibile solo se la situazio­ ne a cui è inchiodato... costituisse il fondamento stesso del suo essere” (p. 29). È nondimeno legittimo accostare Alcune rifles­ sioni... al testo D e l'évasion in cui l’idea dell’essere inchiodato 57

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è oggetto di un’ autentica delucidazione, poiché dei rapporti stretti, reversibili, legano i due testi. La riflessione sull’incatenamento non richiama forse l’elaborazione della categoria di evasione? E, al contrario, la categoria di uscita non illumina a sua volta il fenomeno dell'incatenamento? È dunque sufficien­ te confrontare i due testi e raccogliere i benefici di questo con­ fronto? In realtà è molto più conveniente l’ipotesi di una autentica costellazione teorica comprendente due parti essen­ ziali, il testo del 1934 e quello del 1935, come se questi due sag­ gi si completassero al di là della stessa reciproca illuminazione. O più esattamente come se D e l'é va sio n portasse a compimen­ to la riflessione sull’hitlerismof Date le relazioni evidenti tra l’incatenamento e l’essere inchiodati, D e l'éva sio n , sviluppan­ do la descrizione di un modo di esistere del D a sein , costituisce in qualche modo la seconda parte dell’analisi dell’hitlerismo ed esige dunque che l’interprete trasponga queste nuove analisi all’essere in comune del popolo tedesco, sotto il dominio del nazionalsocialismo. Prima di dedicarci al lavoro di interpretazione, torniamo alla problematica del corpo quale appare in questo testo. A ben vedere, A lc u n e rifle ssio n i., comprende una seconda Odissea dello spirito della libertà, questa volta riguardante il corpo. In Europa, lo spirito di libertà si sarebbe costituito ribellandosi a due tirannie, quella del tempo e quella del corpo, le quali, anche se talvolta si trovano legate tra loro, meritano di essere distinte. Più che mettere in luce un paradosso del corpo, Levinas descrive un rovesciamento: come il corpo, “ l’eterno estraneo” per la filosofia tradizionale, l’ostacolo da superare, l’altro dallo spirito per il cristianesimo e il liberalismo, è apparso sotto una luce del tutto diversa al punto di divenire uno dei luoghi e dei momenti possibili dell’identificazione, del processo che per­ mette di venire a capo dell’alterità del mondo. Capovolgimen­ to, in effetti, poiché il corpo relegato dalla parte dell’alterità — 58

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“ il sentimento dell’eterna estraneità del corpo” — appartiene ormai ai “ modi del Medesimo” che operano per sospendere l’alterità, ovvero per vincerla cancellandola. Inversione dell'alte­ rità in esperienza indicibile dell'identità, sia nelle situazioni rischiose “ a un soffio dalla morte” , sia nel dolore. Metamorfo­ si dunque dell'estraneo che come “ enigmatico portatore” apporta un incomparabile sentimento di identità, una afferma­ zione primaria, anteriore alla pienezza dell'io e allo sbocciare dell'intelligenza. Se Levinas riconosce la nobiltà delle aspira­ zioni della filosofia tradizionale, egli non potrebbe per questo tornare a percorrere le sue strade. M a non potrebbe nemmeno dare la sua adesione, neppure per desiderio di concretezza, a questa nuova esperienza del corpo nel segno dell'identità. Si può riconoscere in questo rovesciamento, in questa glorifica­ zione del corpo, l’analogo politico e la semplificazione eccessi­ va dell'opposizione sviluppata nello stesso momento da Gabriel Marcel nella sua filosofia dell’incarnazione tra “ avere un corpo” e “ essere un corpo” . M a vi è tra i due fenomeni uno scarto essenziale e irriducibile. Sulla scena filosofica, MerleauPonty scriveva nel 1936 recensendo Etre et avoir di G . Marcel: “ Il fatto singolare è che il mio corpo è precisamente il mio cor­ po. Esso non appare come un oggetto, come un insieme di qua­ lità e di caratteri da coordinare e da comprendere... Io faccio causa comune con esso, e, in un certo modo, io sono il mio cor­ p o ” . A l di là di una relazione col mio corpo, “ si tratta piutto­ sto di una presenza, di una aderenza, di una intimità” 27. M a quanto Gabriel Marcel e la fenomenologia sono attenti a risco­ prire la nostra condizione carnale, a renderle giustizia, tanto si guardano dal tradurre in positivo questa identità dell'io e del corpo, di glorificare puramente e semplicemente questa ade­ renza, sia che la volgano verso il mistero, nei termini di Gabriel Marcel, sia che la accolgano come un enigma. Come sottolinea Merleau-Ponty, sensibile alle sfumature e alla complessità di questo nuovo pensiero, quel che definisce meglio la condizio59

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ne umana “ è il movimento tra avere ed essere, un punto inter­ medio... Poiché se il mio corpo è più di un oggetto, non si può dire però che sia me stesso: esso sta alla frontiera tra ciò che sono e ciò che ho, sul limite tra essere e avere”28. Sulla scena politica, il senso della sfumatura svanisce, un pensiero complesso è scomparso lasciando il posto a una for­ ma di coscienza mistificata e mistificatrice, ancora più pre­ gnante dell’ideologia. La sensibilità all’aderenza, all’intimità del corpo è diventata affermazione di u n fa tto ; fatto positivo, tan­ to più brutale perché si dà come biologico, mentre il sentimen­ to d’identità tra l’io e il corpo si riduce ai legami di sangue. Scar­ to essenziale, dicevamo, tra un’ispirazione filosofica moderna e il suo analogo politico, in cui può osservarsi, una volta di più, la deriva della ricerca del concreto, indissociabile da un senso della problematicità, verso la brutalità dell’esistenza. Il che equivale a un altro modo di ridursi in schiavitù. Comunque sia, Levinas, sensibile al di là di ogni dubbio al tema dell’incarnazione — il seguito della sua opera lo mostra eloquentemente — a questa data pensa il corpo nel segno dell’ambiguità, preoccupato com’è di limitare il corpo a se stes­ so, di non assolutizzarlo e di non precludere così le possibilità della libertà. Il corpo non è soltanto un calore unico, un’aper­ tura al mondo sensibile, l’originalità irriducibile della sua pre­ senza all’io; esso è anche opacità — “ il meccanismo cieco del nostro corpo” — nudità, aderenza all’io, certamente, ma ade­ renza irrevocabile, alla quale non si sfugge, unione dal sapore tragico del definitivo, in poche parole la brutalità del fatto di essere. Il processo di identificazione è un movimento complesso che comprende due momenti ben distinti, la distanza da sé e il ritorno a sé. L ’interrogativo “ chi sono?” , o anche “ sono?” , lo inaugura introducendo con la sua stessa enunciazione una distanza tra l’io e il sé, mentre è solo in un secondo tempo che

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si attua un ritorno a sé. M a l'identificazione col corpo, biolo­ gico per di più — “ l'incatenamento originario al nostro corpo” — si dimostra specifica; essa non comprende una distanza da sé, rifiuta ogni distanza da sé, e allo stesso tempo il processo globale è brutalmente semplificato, interrotto, peggio ancora scotomizzato. In effetti, è importante sapere in cosa ci si iden­ tifica; identificarsi in una tradizione o in una cultura è una cosa, identificarsi nei legami di sangue tutt’altra. A ll'opposto di qualsiasi scarto, di ogni presa di distanza, il processo di iden­ tificazione, in quest’ultimo caso, è interamente orientato ver­ so la coincidenza immediata, ottusa, con “ la voce misteriosa del sangue” . N é distanza né ritorno; si tratta solo di risponde­ re “ al richiamo dell'eredità del passato” con un movimento che consiste nel volgersi verso sé, nelPimmergersi in sé, ne “ Paderire” il più possibile a sé. N é lucidità, dunque, né luce, che permetterebbero un atto di conoscenza e di giudizio. Le ignote forze che lanciano il richiamo cui occorre rispondere perdono la loro natura di problema: esse costituiscono la stessa opacità di fronte alla quale si abdica e alla quale ci si sottomette. Ciò vuol dire sottolineare quanto Pidentificazione — essere se stes­ si — non sia tanto presa di coscienza quanto accettazione dell'incatenamento originario. Così si manifesta una nuova figura dell'identità: “ Incatenato al proprio corpo, l’uomo si vede rifiutare il potere di sfuggire a se stesso” , o ancora, mediante questa esaltazione del sentimento d’identità tra me e il corpo si stringe “ l’incatenamento più radicale, il più irremis­ sibile, il fatto che Pio è se stesso” (De l'évasion, p. 73); così si manifesta, attraverso questa identità-incatenamento, un nuovo modo di esistere, l’essere inchiodati. Conosciamo i disastri causati da questa forma di identifica­ zione. Essi sono di nuovo alle nostre porte nella forma abietta della “ pulizia etnica” .

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Attraversando la questione del corpo, due sono gli elemen­ ti da tenere presenti. N ell’unità unidimensionale, nella riduzio­ ne del corpo all’essere, vale a dire nella cancellazione dello spa­ zio intermedio tra l’essere e l’avere — “ muovendosi l’esperien­ za del corpo tra questi due poli”, secondo Marc Richir — , resi­ stente vive in quanto esistente un’ esperienza paradossale29. In effetti, la preoccupazione dell’autenticità, dell’ adesione a se stessi, ha per effetto di privare il corpo di ogni dimensione eccedente, di volgerlo esclusivamente verso se stesso, di limi­ tarlo al punto che l’affermazione “ io sono il mio corpo” pro­ duce non tanto una mancanza di spessore quanto un’occupa­ zione dell’io da parte del sé. Paradosso che si produce in una inversione delle proprietà dell’esistente, che rinuncerebbe così al suo carattere estatico, alla sua apertura costitutiva, per ridur­ si a una condizione di chiusura. L ’essere inchiodati ( être rive). Questo nuovo termine, coniato da Levinas per descrivere un rapporto specifico con il sé e con il mondo, appare in D e l'évasion, da considerare il complemento del saggio dedicato all’ hitlerismo, quasi a voler precisare, a voler determinare con una nuova analisi la dimen­ sione ontologica di una situazione di incatenamento di massa — la riduzione di un popolo intero all’ essere inchiodati. In questo senso, benché la dimensione collettiva sia appena per­ cepibile in D e l'évasiony se non nella forma di una messa in guardia indirizzata alle civiltà che onorano l’essere, i due testi vanno letti senza soluzione di continuità, poiché, in modo evi­ dente, /il saggio sull’hitlerismo trova la sua piena conclusione nella meditazione del 1935, tanto più che questa meditazione include una riflessione sulla necessità della sensibilità moder­ na di opporsi attraverso la mobilitazione e la rivolta. [ Confermando questa ipotesi, l’analisi del dolore fa (la ponte tra i due testi. N el saggio dedicato all’hitlerismo, proprio attra­ verso il dolore, tra l’altro, Levinas descrive questo nuovo sen­

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timento d’identità tra Fio e il corpoj|“ Nella situazione senza uscita della sofferenza fisica, il malato non sperimenta Finscin­ dibile semplicità del proprio essere, quando si rigira nel proprio letto di dolore senza trovar pace?” (p. 30). A ll’ analisi fenome­ nologica spetta qui far apparire l’essenza del dolore — il falli­ mento della rivolta della mente, l’ineluttabile segregazione — , manifestare le proprie riserve sulla valorizzazione, in nome dell’originalità irriducibile, del tanfo di un’aderenza del corpo all’io, e formulare più di un dubbio riguardo all’interpretazio­ ne filosofica che ne viene proposta. “ Si darebbe nel dolore fisi­ co una posizione assoluta” (p. 31). Il sentimento dell’indivisibi­ lità dell’ essere non paga forse il prezzo della disperazione, “ il fondamento stesso del dolore” ? Ora, in D e l'é v a s io n , l’ipotesi critica si trasforma in affer­ mazione; proprio riguardo al dolore, più esattamente alla sof­ ferenza, Levinas ricorre per la prima volta al termine “ essere inchiodati” . “ Il gioco piacevole della vita perde il suo caratte­ re di gioco. N o n perché le sofferenze che minaccia lo rendano sgradevole, ma perché il fondamento della sofferenza è costi­ tuito dall’impossibilità di interromperla e da un sentimento, acuto di essere inchiodati” (De l'é v a s io n , p. 70). Il dolore e un’esperienza specifica dell’essere. La segregazione del dolore, nel dolore è in rapporto con l’essere inchiodati. Qual è allora la “ temperie” di questo pensiero? Per perce­ pirla, volgiamoci verso l’altro testo del 1934, la recensione del volume di Louis Lavelle, L a présence totale , in cui compare nel modo più eloquente quel che Levinas chiamerà più tardi, evo­ cando questa stagione, “ la fatica di essere” . Scrive Levinas: “ La guerra, i cupi presentimenti che l’hanno preceduta e la crisi che l’ha seguita restituirono all’uomo il sentimento di un’esisten­ za che la ragione impassibile e sovrana non aveva potuto né esaurire né soddisfare. Una generazione dolorosamente consa­ pevole dell’importanza della temporalità e del sapore aspro di

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un destino rinchiuso nei limiti del tempo non potè ulterior­ mente ignorare il peso o la gravità di questa esistenza. Il reale che si volatilizzava al soffio sottile dell'intelligenza, che si dis­ sipava in un gioco di relazioni, si erse di fronte all’uomo come un blocco solido. L ’io si vide costretto all’obbligo di spiegarsi con l’essere, di mettere in chiaro i vincoli che ve lo legavano. Si vide spaventosamente insufficiente e incapace di sopportare la massa del reale, che l’idealismo, abbagliato dall’opera scienti­ fica dell’uomo, aveva caricato sulle sue spalle come un dolce fardello. Questo è l’autentico significato della rinascita dell’ ontolo­ gia alla quale assistiamo... Essa procede dal sentimento irridu­ cibile che v i è essere ( q u 'i l y a de l'ê tre); che l’esistenza, in altre parole, ha un valore e un v o lu m e , che l’io pensante non ha un sostegno in sé, e che, di conseguenza, la nozione di soggetto non è sufficiente a rendere conto dell’essere”30. — Così, è opportuno intendere l’evasione nel senso più forte del termine, praticando in un certo senso ciò che Levinas chia­ merà più tardi una lettura enfatica, “ passare da un’idea al suo superlativo sino alla sua enfasi” . Questa trasfigurazione filoso­ fica di una tendenza letteraria va ben oltre i sogni del poeta, gli slanci romantici, la ricerca del meraviglioso o il desiderio di rompere con le servitù corporee. Dietro questi motivi, che sono altrettanti segni, è necessario recuperare un tema più profondo, più essenziale, che scende alle radici. In una frase sulla quale torneremo, Levinas approfondisce enfaticamente lo scarto. “ Poiché [questi motivi] non mettono ancora l’essere in causa, obbedendo a un bisogno di trascendere i limiti dell’essere com­ piuto. Essi traducono l’orrore di una certa d efin izio n e del nostro essere, e non dell’essere come tale” (D e l'é va sio n , p. 71). L ’evasione ha a che vedere con questo orrore dell’essere in sé. U n ’analisi della sensibilità moderna chiarisce la specificità storica del bisogno di evasione. Questa sensibilità vive una situa­ zione paradossale: essa sembra lacerata tra la rinascita dell’onto­

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logia e il suo contrario, come se il sentimento che v i è un essere , alPorigine del ritorno all’ontologia, facesse nascere allo stesso tempo “ la condanna più radicale della filosofia dell’essere da parte della nostra generazione” ( D e l'é va sio n , p. 70). Sotto l’influsso di una minacciosa mobilitazione universale, la sensi­ bilità moderna percepisce nell’essere “ una tara più profonda” . Siamo così guidati al cuore della problematica di questa meditazione, che considera — in un’opposizione ripresa sen­ za posa, riaffermata, perfezionata — da un lato un’ esperienza dei limiti dell’ essere che concernerebbe soltanto la sua natura 0 le sue proprietà (perfetto o imperfetto, finito o infinito) e dall’altro un’esperienza di ampiezza tutta diversa, un’espe­ rienza dell’essere in sé, del fatto che v i è essere . Alla prima for­ ma di esperienza corrisponderebbe il bisogno classico di pro­ cedere oltre i limiti dell’essere, di trascenderli; alla seconda un bisogno nuovo che mirerebbe non a trascendere i limiti dell’essere, ma a liberarsi dell’essere, della sua pesantezza, in poche parole a fuoriuscirne. Bisogno di evasione per il quale Levinas forgia un neologismo — il bisogno di escen den za ( excendance) — per contraddistinguerne l’inequivocabile ori­ ginalità. Così si chiarisce pienamente il contrasto tra i motivi letterari e la loro trasfigurazione filosofica. D a cosa occorre evadere? Dal fatto stesso che vi è un essere e non dai suoi limi­ ti. Perché ciò che è imprigionamento, segregazione, è l’essere come tale, la pienezza dell’essere e non i suoi limiti, dipenden­ ti dai suoi caratteri. N o n si tratta così di spingere più lontano 1 limiti dell’essere, verso un essere migliore o verso un rifugio in cui si sfuggirebbe agli effetti di quei limiti, ma si tratta di uscire dall’essere, non per andare da qualche parte, altrove, ma solamente per lasciare spazio e libero corso all’indetermina­ tezza della meta. Indubbiamente l’opposizione tra le due forme di esperienza acquista tutto il suo senso e tutta la sua forza solo perché essa è l’espressione della differenza ontologica, della distinzione tra

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esistente ed esistenza, “ tra ciò che esiste e la stessa esistenza”31. La tara più profonda percepita dalla sensibilità moderna con­ cerne resistenza stessa e non resistente, l’essere di ciò che è e non ciò che è. Almeno in tre punti Levinas si cura di insistere affinché questo filo guida non sia perduto di vista32. Si afferma così il carattere senza precedenti (“ per la prima volta forse” , scrive Levinas) dell’avventura contemporanea. Essa si costituisce in un duplice movimento; da un lato, una nuova esperienza dell'essere che acquista lo statuto di un’autentica rivelazione: “ La verità elementare che v i è essere — un essere che vale e che pesa — si rivela in una profondità che misura la sua brutalità e la sua serietà... Quel che conta dunque in tutta questa esperienza dell’essere non è la scoperta di un nuovo carattere della nostra esistenza, ma il suo semplice fatto, l’ina­ movibilità della nostra presenza” (D e l'é va sio n , p. 70). Rivela­ zione, in effetti, “ dell’essere e di tutto quel che esso possiede di grave e, in qualche modo, di definitivo” (ibid., p. 71). Dall’altro, l’esperienza di una rivolta inedita quanto l’esperienza dell’ esse­ re che la suscita. N o n si tratta più della rivolta dell’io contro il non io, che lasciava ancora una possibilità alla libertà, permet­ tendole di manifestarsi, ma della rivolta contro il fatto stesso che v i è essere e che questa esistenza non concede più alcuna possibilità. “ Qualcosa segue il suo corso” , potremmo dire, e a questo qualcosa siamo inchiodati. Nasce simultaneamente una rivolta contro questo qualcosa anonimo, per averne ragione e liberarsene. Levinas insiste sulla specificità filosofica del biso­ gno di evasione — “ evento fondamentale del nostro essere” (ib id ., p. 79) — in questa meditazione che appartiene integral­ mente alla rivolta anti-ontologica che essa descrive, o meglio che contribuisce a fomentare con la sua stessa descrizione. Orrore dell’essere in quanto tale, abbiamo già osservato. A n a­ logamente, bisogno specifico che non si accontenta di trascen­ dere i limiti dell’esistente, ma spinge la rivolta sino a mettere in 66

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questione Tessere in quanto tale, l’esistenza stessa, di cui occor­ re liberarsi, uscire, senza rompere la traiettoria dell’ evasione fermandosi in un qualsiasi rifugio illusorio, da cui si ricadreb­ be subito nell’essere. Tale è il carattere fondamentale del biso­ gno di evasione, una vigilanza senza pari nei confronti delle fal­ se uscite, di tutto quel che si dimostrerebbe alla fine un ricade­ re sotto il dominio dell’essere, di tutto quel che sarebbe parte di un ritorno all’ ontologia. D i qui la distinzione nettamente tracciata tra il bisogno di evasione e lo slancio vitale bergso­ niano. Quale che sia la volontà di creazione, di rinnovamento di questo slancio, la sua distanza dalla rigidità dell’essere clas­ sico, esso ricade nondimeno nell’essere, poiché “ il divenire non è Tantitesi dell'essere” (ib id ., p. 72). N o n si tratta di andare da qualche parte, ma solamente di uscire. In questa falsa restri­ zione tutto è detto: "... N ell’evasione noi aspiriamo solo a usci­ re. È questa categoria di uscita, non assimilabile al rinnova­ mento o alla creazione, che occorre cogliere in tutta la sua purezza. Tema inimitabile, esso ci propone di uscire dall’esse­ re” . L ’essere appare ormai “ come un imprigionamento da cui occorre uscire” (ib id ., p. 73). Per pensare questa specificità filosofica del bisogno di eva­ sione, torniamo rapidamente alla struttura stessa del bisogno, di cui si afferma che “ è in fondo la categoria fondamentale del­ la nostra esistenza” (ib id ., p. 88). Ora, un rapporto dinamico lega il bisogno al malessere e il malessere all’evasione. Secondo Levinas occorre smettere di pensare il bisogno nel segno della mancanza o della privazione; ben lontano dal manifestare una nostalgia delTessere, o una sua deficienza, il bisogno esprime una pienezza di essere. Il malessere che “ innerva il bisogno” — e inversamente il bisogno non è forse definito come “ il males­ sere stesso di essere” ? (ib id ., p. 88) — rivela un’inadeguatezza della soddisfazione del bisogno che non potrebbe soddisfarsi di un ideale di pace, di uno stato di tregua, poiché il malessere è l’esperienza drammatica “ di una sorta di peso morto in fon­

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do al nostro essere” di cui occorre liberarsi. A questo modo il malessere prefigura già un movimento vero l’esterno. “ Il fatto di essere a disagio è essenzialmente dinamico. Esso appare come un rifiuto di rimanere, come uno sforzo di uscire da una situa­ zione insostenibile” (ib id ., p. 78). Uscita, tentativo indetermi­ nato — “ è un tentativo di uscire senza sapere dove si va” — evasione che consiste nel distaccarsi dalla pura esistenza deiressere, il quale, nonostante la sua pienezza, è impotenza dell'essere. Tutto questo non conduce a far ricadere il bisogno nel segno della mancanza, poiché questa pienezza non deve essere intesa come lo stato di colui che possiede tutte le pro­ prie forze — Bossuet, la pienezza dell’ essere — ma nel suo primo senso come lo stato di ciò che è pieno e dà una sensa­ zione di pesantezza, di gravosità — la pienezza gastrica — un troppo pieno che costituisce l’impotenza di cui occorre sba­ razzarsi. Secondo Levinas vi è un’imperfezione dell’essere che non è limitazione e da cui il bisogno cerca precisamente di eva­ dere. Così l’ evasione, il bisogno di evasione ha la sua origine nell’insufficienza dell’essere, da non confondersi con una man­ canza, “ in tutto ciò che vi è di rivoltante nella posizione dell’ essere” (ib id ., p. 95). Sin dall’ origine il bisogno è consu­ mato da un’insufficienza, quella dell’essere, che nessuna sod­ disfazione potrebbe colmare. L ' escen den za , in negativo nella stessa struttura del bisogno, caratterizza nel modo migliore questo bisogno di evasione. V i si può riconoscere un duplice movimento di uscita e di ascesa (scando). Benché sia indeter­ minata, questa uscita non è tuttavia senza direzione, essendo orientata verso l’alto; in quanto uscita, essa si effettua per ele­ vazione, per cambiamento di livello. Questa ascesa che prende il nome di escendenza non segna poi l’incontro con la questio­ ne dell’infinito? L ’essere inchiodati è dunque una nuova esperienza dell’esse­ re in cui l’essere appare al D asein come un imprigionamento da 68

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dove — precisazione essenziale — occorre uscire. Se si dà cre­ dito alla nostra ipotesi di partenza l’hitlerismo, a causa del pri­ mato che esso attribuisce al sentimento del corpo in quanto aderenza dell’io a se stesso, sarebbe, quanto all’essere in comu­ ne, e sino a un certo punto, l’analogo di questa nuova esperien­ za dell’essere come essere inchiodati. Due fenomeni, colti di primo acchito in una prospettiva ontologica, la vergogna e la nausea — quest’ultima il malesse­ re per eccellenza — permettono di descrivere più da vicino questa esperienza dell’essere nel segno del rinchiudimento. A l di là dei tratti maggiori che appaiono costituire l’essere inchiodati — l’incapacità di rompere con se stessi, l’impossibi­ lità di fuggire, di sfuggirsi, l’aderenza a se stessi o la presenza rivoltante che colpisce la totalità della nostra esistenza, al pun­ to da confondersi con essa — esamineremo nei due casi quan­ to questa situazione ontologica (è in gioco l’essere di ciò che è) sia tormentata ogni volta da un dualismo interno. Nella ver­ gogna, l’impossibilità di fuggire è provata solo perché vi è un desiderio di nascondere la nudità vergognosa, l’esistenza che si scopre, e nella nausea, ancor più nettamente, è la situazionelimite del “ tutto è consumato” che indica “ l’istante supremo in cui non resta che uscire” (ibid., p. 99). Doppio volto incancel­ labile dell’essere inchiodati che è indissociabilmente, almeno nel caso dei due malesseri studiati, esperienza dell’essere ed esperienza di una rivolta contro l’essere stesso. A proposito della nausea, Levinas insiste: “ L ’esperienza dell’essere puro è allo stesso tempo l’esperienza del suo antagonismo interno e dell’evasione che si impone” (ibid., p. 90). Sottolineata questa precisazione essenziale, nessun dubbio che D e l'évasion chiarisca a sua volta l’analisi dell’hitlerismo attraverso l’addizione dell’essere inchiodati all’incatenamento derivato dal primato accordato al corpo, come se questo esame

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ontologico svelasse pienamente il senso del fenomeno conside­ rato. N ell’hitlerismo, la condizione corporea alla quale l'uomo è inchiodato costituisce esattamente il fondamento del suo essere. La sua esistenza è l’essere inchiodati. Grazie a questo chia­ rimento si percepiscono meglio alcuni caratteri dell’hitlerismo, in particolare l’ assolutizzazione dell’esistenza che si afferma senza riferirsi a null’altro se non a se stessa, senza alcun rap­ porto con ciò che sarebbe suscettibile di eccedere l’esperienza del corpo e dunque di relativizzarla; il corpo, l’identificazione col corpo e attraverso il corpo viene vissuto come l’ orizzonte invalicabile dell’essere. Ciò è riconoscibile nel sentimento d’identità tra Pio e il corpo, nell’indivisibilità che ne risulta, nell’aderenza al corpo, nell’incatenamento creato dal malesse­ re della vergogna e della nausea. In questo più simile alla nau­ sea, l’hitlerismo non si accontenta di portare l’esperienza del corpo all’altezza dell’assoluto, separato da ogni altra dimen­ sione; ancorato a questa esperienza, a questo incatenamento originario che appare la fonte insostituibile dell’autenticità, esso si dispiega nella storia come Patto stesso di porsi. La sua esistenza è fatta solo di una serie di autoposizionamenti con il medesimo seguito di effetti, l’ autoreferenzialità e la chiusura all’esteriorità, l’ autocostituirsi nella negazione dell’ alterità. Vincolato a questo ritorno su di sé, in forma di un’assunzione dell’incatenamento, l’hitlerismo, come la nausea, porta in se stesso il proprio centro di attrazione. Si tratti dell’Università o di un’altra istituzione, l’autoaffermazione è il suo destino. Tan­ to l’assolutizzazione che l’autoposizionamento generano una serie di conseguenze che procedono in linea retta dall’essere inchiodati, Possessione del tradimento, della degenerazione, l’ assunzione della comunità di sangue e il razzismo, una tra­ sformazione dell’idea di verità, che consiste ormai nell’aderire a ciò che è dato, e dell’idea di universalità, che si trasforma in progetto di espansione illimitata di una nuova comunità di padroni. L ’hitlerismo sarebbe insomma l’analogo, in campo

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politico, della vergogna e della nausea . A imitazione di questi due grandi malesseri, che colpiscono l’esistente innanzitutto nella solitudine, esso sarebbe, “ in grande” , per così dire, una manifestazione dell’essere inchiodati. Sino a un certo punto, avevamo avuto la precauzione di aggiungere, solo sino a un certo punto. In effetti, sarebbe abu­ siva una meccanica applicazione all’hitlerismo, fenomeno poli­ tico, della categoria dell’essere inchiodati. È opportuno osser­ vare più da vicino e, se occorre, approfondire l’analisi. L ’hitlerismo non presenta forse una forma dell’essere inchiodati diversa da quella studiata in D e l'é v a sio n ? A lc u n e riflessioni ... arricchite dalla lettura del saggio sull’evasione, non arricchi­ scono a loro volta la meditazione del 1935? N o n che sia illegittimo parlare della vergogna di un popo­ lo. Già Marx, in una lettera a Ruge del 1843, fustigava il popo­ lo tedesco per il suo radicamento nel patriottismo e nell’ odio per la rivoluzione francese che gli impedivano di provare ver­ gogna. “ ‘ La vergogna non spinge alla rivoluzione’ . Io rispon­ derei: la vergogna è già una rivoluzione; la nostra vergogna è in effetti la vittoria della rivoluzione francese sul patriottismo tedesco che l’ha schiacciata nel 1813. La vergogna è una specie di collera, una collera rivolta contro se stessa. E se una nazio­ ne intera provasse effettivamente vergogna di se stessa, essa somiglierebbe al leone che si raccoglie su se stesso prima di bal­ zare” 33. Il popolo tedesco del 1840 restava a l d i q u a della ver­ gogna, poiché non provava il bisogno di una rivoluzione. Il problema è dunque altrove. “Male elementale”, l'hitlerismo non è malessere — il popolo, sotto il dominio dell’hitlerismo, nella sua quasi totalità non soffre, anzi “ sta bene” , è a suo agio. L ’hitlerismo non è solo incatenamento, esso è accettazione dell’incatenamento, incatenam ento n e ll'incaten am ento . Come G . Beim, a proposito dell’hitlerismo, parlava di una “ ebbrezza della fatalità” , è possibile definirlo come un’ebbrezza dell’esse­

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re inchiodati. Occorre riconoscere che l 'hitlerismo, preso nel­ la sua dimensione ontologica, non conosce l'antagonismo inte­ riore che non cessa di tormentare dall'interno l’essere inchiodati. La vergogna è un’impossibilità di fuggire, nella stessa misura in cui essa è desiderio di fuggire per nascondersi. È in virtù del fatto che la nausea sperimenta la situazione-limite del “ tutto è consumato” , che sorge, che può sorgere l’evento fon­ damentale del nostro essere, l’ evasione. Questo fenomeno politico ignora sistematicamente, rifiuta tutto quel che attiene, in senso vicino o lontano, a un dualismo tra l’io e il corpo, lega­ to com’è all’incatenamento originario, alla semplicità indivisi­ bile del nostro essere, di un corpo cioè che rimane lontano da ogni tentativo di scissione. L ’hitlerismo, a differenza della ver­ gogna e della nausea, non è dunque un malessere, poiché que­ st’ultimo non conosce la dinamica propria, ovvero il rifiuto di rimanere, lo sforzo di uscire da una situazione insostenibile, il tentativo di uscire senza sapere dove si va . Allo stesso modo, esso non partecipa della sensibilità moderna, che si forma all’interno di una duplice esperienza, un’esperienza dell’essere in quanto essere inchiodati e un’esperienza della rivolta. In controtendenza rispetto a questa sensibilità esso pratica una autoaffermazione che è sufficienza, autosufficienza. L ’idea di evasione gli è inconcepibile, la rivolta odiosa. Si tratta di una civiltà, o piuttosto di un’anticiviltà insediata nella brutalità del fatto di essere, nella brutalità del fatto compiuto. Che sia! D i qui l’avvertimento finale di Levinas in D e l'évasion: “ Ogni civiltà che accetta l’essere, la tragica disperazione che esso com­ porta e i crimini che esso giustifica, merita il nome di barbarie” (De l'évasion, p. 90). Dell’essere inchiodati l’hitlerismo ha conservato solo una parte, il fatto che vi è essere, evacuando il bisogno di uscire che questo fatto può suscitare. Così quest’esperienza dell’essere inchiodati, mutilata in un certo senso, sfocia in un essere inchiodati di secondo grado, quasi l’hitlerismo avesse attraver-

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sato l’essere inchiodati interrompendone la dinamica interna, il processo che punta alla rivolta e all’evasione, per ritenerne soltanto, nella forma di un sentimento del corpo, la brutalità del fatto di essere. Il popolo tedesco, sotto il dominio del nazionalsocialismo, è al di là della vergogna, poiché, insediato nella sua sufficienza, nell’illusione della sua sufficienza, è inac­ cessibile al desiderio di evasione. Ritroviamo qui, per altra via, la questione dell’identifica­ zione affrontata in precedenza. Semplificazione, scotomizzazione, avevamo detto, poiché mancava il momento della distanza da sé, poiché l’identificazione si riduceva a una coin­ cidenza immediata, opprimente, con il corpo biologico. Q ue­ sto processo ci era già apparso come un ritorno su di sé, come il fatto di aderire a sé, di rinchiudersi nei legami di sangue. Ora, la mutilazione dell’essere inchiodati non fa che rafforzare que­ sta scotomizzazione. Se riprendiamo la descrizione dell’iden­ tità quale è proposta da Levinas a proposito dell’ assolutizzazione dell’esistenza, comprendiamo come questa nuova espe­ rienza è allo stesso tempo esperienza dell’essere, con tutto quel che esso comporta di definitivo e di irrevocabile, ed esperien­ za della rivolta, diretta precisamente contro questo carattere irremissibile dell’essere. Secondo Levinas, questa identità che oltrepassa la forma logica è angustiata da una discordanza inte­ riore tanto più intensa perché si sviluppa nel tempo, così che l’angustia diviene dramma. “ Ma in questo riferimento a se stes­ si l’uomo distingue una specie di dualità. La sua identità con se stesso... acquista una forma drammatica” (ibid., p. 73). Q ui si legano indissociabilmente l’incatenamento più radicale e il bisogno di uscire da se stessi. “ N e ll’identità dell’io, l’identità dell’essere rivela la sua natura di incatenamento, poiché essa appare in forma di sofferenza, incitando all’evasione” (ibid., p. 73). N ell’hitlerismo manca il secondo momento, l’incitamento a evadere, come se il sentimento d’identità tra l’io e il corpo s’interponesse tra l’incatenamento e quel che gli si oppone, 73

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sbarrasse queirapertura che è il bisogno di uscire, di rompere l’incatenamento più radicale e agisse come una autentica pre­ clusione. Il corpo, ridotto all’essere grazie alla cancellazione dello spazio mediano tra essere e avere, e per di più ridotto all’essere biologico, è il luogo di una duplice semplificazione del processo di identificazione: all’inizio, nella cancellazione della distanza da sé; al termine, nella preclusione dell’evasione. Poi­ ché l’identità è puramente biologica, si potrebbe dire del corpo, veicolo dell’incatenamento, che, come le cose, esso è, si riferi­ sce unicamente a se stesso e conosce solo l’identità dell’ essere, cioè, per usare i termini di Levinas, “ l’espressione della suffi­ cienza del fatto di essere, di cui nessuno, sembra, potrebbe met­ tere in dubbio il carattere assoluto e definitivo” (ibid., p. 69). Ultima deviazione e ultima domanda. Come ha prodotto Levinas il concetto di essere inchiodati? Seguendo le preziose indicazioni di Jacques Rolland nella presentazione di D e l'évasion , questo concetto sarebbe il risultato di una piega evidente che Levinas avrebbe impresso al pensiero di Heidegger. È da notare come sin dallo studio del 1932 dedicato all’ autore di E ssere e tem po Levinas insista sul carattere già imposto delle situazioni, persino delle possibilità, e sulla fatalità dell’ esseregettato, che egli traduce con il termine déréliction : “ Esistendo, il D asein è subito gettato in mezzo alle sue possibilità, e non di fronte ad esse... Heidegger fissa con il termine G e w o rfe n h e it il fatto di essere-gettati, di dibattersi in mezzo alle proprie possi­ bilità e di esservi abbandonati. N o i lo tradurremo con il termi­ ne d é r é l i c t i o n A partire dall’essere-gettato, Levinas valoriz­ za la fatticità dell’esistenza umana. “ L ’essere-gettato, l’abban­ dono alle possibilità imposte, dà all’esistenza umana un carat­ tere di fatto in un senso molto forte e drammatico del termine: si tratta di un fatto che si comprende come tale nella sua fatti­ cità... Essere stati gettati nel mondo, abbandonati, consegnati a se stessi, ecco la descrizione ontologica del fatto” 35. Senza minimizzare l’esistenza del progetto, indissociabile dall’esse­ 74

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re-gettato, Levinas ha cura di precisare che la propensione al di là da sé del D a sein si esercita senza emanciparsi dall’essere-gettati. “ Il D a sein esiste in una propensione al di là della situazio­ ne imposta. Sin da subito il D a sein è al di là di se stesso... N e l­ la G ew o rfen beity senza liberarsi dalla fatalità dell'essere-gettati, il D a sein , a partire dalla comprensione, è al di là da sé” 36. A l di là, per Levinas, nell’inseparabilità dell’essere-gettato e del progetto, come un conflitto sempre già presente tra l’esseregettato e il progetto. “ La terminologia tedesca, G e w o rfe n h e itE n t w u r f, mostra bene l’opposizione tra l’essere-gettato e il progetto” 37. Così, per dar conto della genesi dell’essere inchiodati, è possibile accogliere e riprendere l’interpretazione di Jacques Rolland, secondo la quale Levinas avrebbe prodotto questo concetto operando una dissociazione tra il momento dell’essere-gettato e quello del progetto, o piuttosto si sarebbe arresta­ to per soffermarsi sull’ essere-gettato, come una macchina foto­ grafica si blocca su un’immagine per poterla trasformare. “ Qui, questa sospensione della meditazione sulla G e w o rfe n b e it , inte­ sa come fatto di essere inchiodati, si traduce in una sospensio­ ne del movimento proprio della meditazione heideggeriana” 38. Quasi si trattasse di accantonare il progetto, il secondo momen­ to. O ancora: “ Si potrebbe dire che la riflessione di Levinas si soffermi sulla G e w o rfe n b e it in modo da scoprire e descrivere una situazione in cui l’esistenza non trova più in sé una pro­ pensione che aspiri al di là della situazione imposta, una situa­ zione nella quale l’essere-gettatp paralizza in qualche modo ogni possibilità di proiettarsi” 39. L ’essere inchiodati sarebbe in poche parole il frutto di una dissociazione tra Tessere-gettato e il progetto. L ’essere-gettato, diviso, separato dal progetto, condurrebbe alla situazione dell’essere inchiodato, come se Tessere-gettato, fermato nella sua corsa, nella sua propensione al di là da sé — trascinato dalla “ fatalità della d érélictio n ” — si coagulasse nell’essere inchiodato. 75

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Su questo punto Alcune riflessioni... non sono forse in gra­ do di apportare un chiarimento, o persino di far nascere un’ipotesi? N o n è forse la descrizione dell’hitlerismo come incatenamento originario al corpo, come sentimento dell’iden­ tità del corpo, come riduzione delle condizioni imposte alla condizione corporea, alla fatticità corporea, ad aver contribui­ to all’ elaborazione dell’essere inchiodati? N o n si tratta esatta­ mente di una condizione nella quale la fatalità dell’essere-gettato paralizza ogni possibilità di proiettarsi e questo in modo tanto più rigido perché nel caso presente questa fatalità è inte­ sa come una fatalità biologica? Confrontato alle condizioni dell’essere inchiodati, descritte in D e l'évasion, ’hitlerismo ci è apparso come un essere inchiodati di secondo grado, come una condizione, vale a dire, in cui l’essere-gettato non solo paralizza il progetto, ma in cui, per di più, l’essere inchiodati, nonostante la situazione intollerabile, non conosce, né prova, un bisogno di evasione. Riguardo all’interpretazione di Jacques Rolland, si potrebbe aire dell’hitlerismo, esser inchiodati di secondo grado, che si tratta non di una sconfitta del progetto, ma di un non-progetto, ovvero di un antiprogetto, poiché esso riposerebbe su una formula paradossale come “ l’essenza del Dasein è l’incatenamento” . N o n abitato, non tormentato l a un bisogno di evasione, questo essere inchiodati di secondo grado, non è forse posse­ duto, invece, da ciò che agli occhi di Levinas non ha valore né di soluzione né di uscita, vale a dire la morte? L ’hitlerismo, l’essere inchiodati di secondo grado, è un antiprogetto traver­ sato da un simulacro di evasione. L a morte — l’impossibilità della possibilità, secondo una formula più tarda di Levinas. Quali sono i punti fermi di questo percorso? In primo luogo, una penetrante descrizione dell’hitlerismo. Dire che esso mette in questione i principi stessi di una civiltà,

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l’Europa, che chiama in causa “ la stessa umanità dell’uom o” , non è né una dichiarazione da giornalista, né da uomo politi­ co, ma un’affermazione da filosofo che giudica l’hitlerismo col metro dell’idea di libertà e di umanità. L ’hitlerismo è abdica­ zione dalla libertà, poiché esso accetta, o meglio, si fonda su una duplice tirannia, del tempo e del corpo, ovvero sulla tiran­ nia del tempo attraverso quella del corpo. M a più ancora, nell’accettare che vi è essere, esso assume le sembianze di una controrivolta che si erge in opposizione all’aspirazione tradi­ zionale dell’idealismo a superare l’essere e alla condanna con­ temporanea della filosofia dell’essere. In questo senso esso si rivela fondamentalmente antimoderno; contrariamente alla libertà moderna, che consiste per l’uomo nel sottrarsi alle determinazioni che lo rinserrano, contrariamente alla conce­ zione moderna dell’umanità dell’uomo — secondo Fichte l’uomo non è nulla in origine — l 'hitlerismo munisce l’uomo di un insieme di servitù corporee, native, biologiche, che lo si intima di prendere su di sé per conquistare la sua autenticità. L ’aver saputo luminosamente portare l’attenzione sull’ele­ mento del corpo, che risponde alla domanda sul come, intro­ duce una terza dimensione: l’hitlerismo, esperienza senza pre­ cedenti dell’essere in comune come essere inchiodati, come imprigionamento da cui non solo non si può uscire, ma cui occorre incatenarsi, in nome di un’identità opprimente, bruta­ le, senza crepe o sentore di dualità. U n popolo, quasi per inte­ ro, inchiodato al suolo, trattenuto dai legami di sangue — Blut und Boden. Situazione polarmente opposta alla libertà e all’umanità moderne, quasi che l’umanità “ nell’era della genea­ logia” (G. Beim), con il suo duplice movimento d’inclusione e di esclusione, avesse rinunciato al suo carattere distintivo — il non essere prigioniera delle determinazioni naturali, il non essere inchiodata alla naturalità — , avvicinandosi in ciò all’ani­ malità. In questa prospettiva l'hitlerismo non sarebbe tanto “ la produzione del politico come opera d’arte” quanto la riduzio77

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ne abissale del politico a una bio-logica, a una logica della vita e della genealogia40. Lottare da filosofo contro l'hitlerismo — il proposito di Levinas — non significa perorare la causa della società moder­ na per lasciare di nuovo libero corso alla trascendenza teorica e pratica, bensì, dopo aver misurato senza timori “ il peso dell’essere e la sua universalità” , concepire il bisogno di evasio­ ne, la nuova strada aperta dal bisogno di escendenza, interro­ gandosi, a proposito dell’ escendenza, sulla sua originalità e “ sull’ideale di felicità e dignità umana che essa promette” (D e l'évasion, p. 74). Cosa si può dire, poi, dei rapporti di Levinas con Heideg­ ger? Rispedito al mittente, abbozzo di spiegazione con H ei­ degger, dicevamo sin dall’inizio per meglio situare le riflessio­ ni sull’hitlerismo. N o n si può in effetti evitare di percepire uno stupore in questo testo nel quale Heidegger non è menziona­ to neppure una volta, e anche una domanda indirizzata a colui che aderì al nazionalsocialismo e partecipò alla “ messa al pas­ so” occupando la carica di rettore dell’università di Friburgo dall’aprile 1933 all’ aprile 1934. U na interpellanza il cui senso potrebbe essere: se l’essenza dell'hitlerismo è esattamente quel­ la che appare dalla delucidazione fenomenologica, come ha potuto allora? Stupore legittimo da parte di chi pone al centro della propria analisi dell’hitlerismo il sentimento del corpo. Giacché, si sa, per Heidegger il corpo umano, in quanto uma­ no, non può essere ridotto né a un essere biologico né a un organismo animale. Esso non riceve per questo lo statuto di un esistenziale, per mancanza di autonomia, si potrebbe dire, per mancanza di primarietà. Il corpo è sempre assunto in qualco­ sa di diverso dal corpo, cioè in strutture più complesse e più originali di esso. Viene sempre per secondo. Si può dunque analizzarlo solo alla luce di ciò che lo precede e lo eccede. Così è la struttura dell'essere-nel-mondo che determina il rapporto 78

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del corpo con la spazialità, che è tanto meno materiale quanto più la spazialità è abitata, tormentata dalla trascendenza. La stessa analisi vale per la percezione. Com e sostiene Michel Haar, la capacità di rapportare direttamente i dati dei sensi a degli oggetti esterni “ dipende in realtà dall’essere-nel-mondo. Essa dipende non dal corpo ma dai modi di apertura che sono comprensione, tonalità affettiva ed essere-gettato”41. “ Il Dasein intende perché comprende” . C iò vuol dire riconoscere che il corpo non esiste mai nella sua immediatezza; esso è sempre già “ intessuto” da una Stimmung,; tonalità affettiva, con la quale esso stringe un rapporto singolare, al punto di essere compre­ so in essa, inviluppato in essa. “ La sensibilità corporea è in qualche modo sussunta nella Stimmung” 42. Allo stesso modo sarebbe totalmente erroneo ridurre la fatticità, il fatto di esse­ re-gettato in generale, alla sola dimensione del corpo, alla pos­ sibilità di fatto che esso porta in sé. Secondo l’analisi esisten­ ziale, la fatticità ricopre un insieme di p ossibilità determinate che oltrepassa di molto il corpo propriamente inteso. Inoltre, se Heidegger prende in conto la nascita — “ l’altro fine, il prin­ cipio, la nascita” — è opportuno osservare àncora come incita a fare Michel Haar, che il filosofo cancella la specificità del limite natale; egli tiene cioè fuori dalla sua analisi “ il volto ante­ riore della nascita” , quello che guarda verso il passato, il lungo \seguito dei parenti, l’eredità biologica. “ Quest’altro aspetto della nascita, il suo volto oscuro... la primitività vitale in noi, l’analisi lo esclude senza nemmeno percepirlo. Lo ignora” 43. Così, riguardo alla posizione secondaria che Heidegger attribuisce al corpo, alla sua insistenza su ciò che lo dispone e lo eccede — l’essere-nel-mondo, la Stimmung — al suo igno­ rare tutto quel che sta dal lato del biologico e delle potenze oscure, alla subordinazione del biologico al Dasein, si com­ prende la legittimità dell’interrogazione di Levinas. Com e ha potuto l’autore di Essere e tempo unirsi a un movimento che trae la propria ispirazione in una semplificazione oltraggiosa79

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mente volgare della nostra condizione corporea, che riduce la complessità della fatticità alla sola fatticità del corpo, che per di più confonde la fatticità con la necessità, l’ obbligazione di un puro fatto al quale occorre sottomettersi per accedere all’auten­ ticità, con l'incatenamento originario al nostro corpo? Il testo dedicato a Louis Lavelle, esattamente contemporaneo delle riflessioni sull'hitlerismo, non dà risposta a questa domanda. N o n è questo il suo oggetto. Esso schizza soltanto, a proposi­ to dei “ filosofi tedeschi contemporanei” , un tentativo di inter­ pretazione. A questi ultimi si riconosce di aver elaborato un pensiero della finitezza in cui il rigore fa a gara con la dispera­ zione. “ I filosofi tedeschi contemporanei tentano di risponde­ re al problema del rapporto tra l’uomo e l’essere assumendo in un senso estremamente forte il carattere finito dell’essere uma­ no. L ’uomo, essere finito, è limitato in senso assoluto, vale a dire isolato, abbandonato a se stesso, e incapace di uscire da questo isolamento. N el suo presente, esso è già proiettato ver­ so l’ avvenire, ma questo avvenire è già la disperazione della morte” 44. Più precisamente, in seno alla filosofia tedesca con­ temporanea, Levinas isola un carattere, una tonalità propria all’autore di Essere e tempo, “ la tragica disperazione dell’esi­ stenza heideggeriana” 45. In De l'évasion Levinas passa dalla domanda alla formula­ zione di un dubbio, ovvero di un sospetto. Di fronte a questa filosofia che rinchiude l’uomo nella finitezza, nell’essere fini­ to, per una mancata proposizione della questione dell’infinito, Levinas, in un’opposizione appena velata ad Heidegger, affer­ ma, a proposito del bisogno di evasione, che esso conduce al cuore della filosofia. U n cuore a più facce, potremmo dire, poi­ ché la portata critica di una filosofia dell’evasione è suscettibi­ le di essere esercitata in molte direzioni. Critica della filosofia tradizionale: “ [Il bisogno di evasione] permette di rinnovare l’antico problema dell’essere in quanto essere. Qual è la strut­ tura di questo essere puro? Possiede l’universalità che gli con­ 80

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ferisce Aristotele?” ( D e l'é v a s io n , p. 74). Critica della nuova filosofia tedesca e senza alcun dubbio del suo maestro più pre­ stigioso: “ [L ’essere] è il fondamento e il limite delle nostre preoccupazioni, come sostengono alcuni filosofi moderni?” ( ib id ) . Contestare in questi termini l’universalità del problema dell’essere non induce forse, da un lato, a ricollegare il pensiero dell’essere a una civiltà che, sotto le spoglie dell’universalità, si dimostra essere storicamente determinata? “ N o n si tratta al contrario che del segno di una certa civiltà, insediata nel fatto compiuto dell’essere e incapace di uscirne” ( ib id ) . E dall’altro, questa contestazione, per gli insospettati orizzonti che essa schiude, non addita forse una nuova strada, l’uscita dall’essere, originale al punto da turbare alcune nozioni di senso comune e di saggezza delle nazioni? Il postscriptum del 1990 opera uno spiazzamento che va ben al di là del sospetto. Il che non può stupire, visto che giunge al termine di una critica ad Heidegger che non ha mai smesso di approfondirsi e di rafforzarsi sul filo degli anni e dei libri; già nel 1947, in D e l 'existance à l'existant , Levinas mostrava nettamente una volontà di rottura con quella filosofia di Heidegger che ave­ va nondimeno ispirato tante sue analisi. Egli confessava: “ Il biso­ gno profondo di abbandonare l’atmosfera di quella filosofia” , senza per questo pretendere di tornare a una filosofia pre-heideggeriana. È dunque sullo sfondo di questa rottura ben ante­ riore, confermata dal grande testo del 1951, L 'o n to lo g ie est-elle fo n d a m en ta le ? , che la giunta del 1990 alle riflessioni sull’hitlerismo vale come una risposta aperta — né definitiva né esclusi­ va — alla domanda inconcepibile; come ha potuto Heidegger? Senza rigettare la problematica del corpo, né dimenticandola, occorre inserirla in una dimensione che la inglobi e la superi. Per Levinas, la fonte della barbarie nazista deve essere ricerca­ ta — senza tener conto di contingenze o accidenti — in una “ possibilità essenziale del Male eiementale” che sarebbe in rap­ porto con l’ontologia dell’essere, desideroso di essere, vale a

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dire con la struttura unitaria della cura con la quale Heidegger definisce il D a sein , in particolare nella formula del § 41 di E sse­ re e tem po , qui ricordata: “ Il D a sein è un ente per cui, nel suo essere, ne va di questo essere stesso” . Il D a sein , com’è noto, è quell’ente il cui modo di esistenza è la comprensione dell’esse­ re. Definizione che torna a stabilire una “ stretta, indissociabile connessione tra la comprensione e l’essere stesso” 46. In questa maniera, poiché, per Levinas, “ comprendere l’essere vuol dire esistere” , la possibilità essenziale del Male dementale ha a che vedere con la comprensione dell’essere come cura, o meglio, con l’essere in quanto cura. Ciò perché la dimensione ontolo­ gica è deliberatamente sottolineata facendo agire, come in D e l'éva sio n , la differenza ontologica: l'hitlerismo non è più consi­ derato, come nell’analisi del 1934, l’espressione di sentimenti ele­ mentari — di stati d’animo, di affetti che esistono — ma il frut­ to di un Male dementale, vale a dire di un Male attinente all’ essere di ciò che è, che affonda le proprie radici nell’essere stesso, nella sua implicazione con l’ essere, che è consustanziale all’essere quale si manifesta nella struttura della cura del D asein. Male tanto più dementale agli occhi di Levinas poiché egli, in controtendenza rispetto alla tradizione filosofica, come sottolinea Catherine Chalier, non pensa il male come un difetto o una mancanza di essere, ma piuttosto “ come un eccesso della sua presenza, eccesso che fa paura e giunge a terrorizzare”47. Pensato nel campo della brutalità e clella pesantezza in D e l'é v a sion , o nel campo dell’abisso e del caos in D e l 'existence à l'e x i­ stant , l’essere è il male di essere48. V i è dunque un’implicazione del male nell’essere, “ nell’elemento” dell’essere. Risposta aperta alla questione dell’inconcepibile, poiché non si tratta soltanto di dar conto dell’hitlerismo in modo diverso, ma di aprire una passerella filosofica che possa se non spiegare l’adesione di Heidegger al nazismo almeno mettere sulla strada di ciò che l’ha resa possibile. La comprensione dell’essere come cura con la struttura del superamento di sé costituirebbe uno dei

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possibili luoghi di passaggio tra la filosofia di Heidegger e il nazismo, tanto più che questa cura di essere che s’impone come uno scopo è cura di sé. A l di là della problematica del corpo, Levinas invita a scavare più in profondità, a distinguere, sotto l'incatenamento al corpo, una condizione dell’essere, dell’uomo nell’essere, che è imprigionamento nella finitezza dell’essere — o l’essere come imprigionamento — come se la cura di essere, lo scopo di essere, costituisse l’orizzonte insuperabile del D a se in . Oltre a una nuova messa in questione del primato della libertà che, a dire il vero, rinvia all’idealismo, al suo lavoro di sintesi e alla sua volontà di dominio, abbandonare il clima profondo della filosofia di Heidegger significa mettere in que­ stione l’attaccamento all’essere e dunque il primato dell’onto­ logia, vale a dire imparare a percepire, al di là dell’essere, una relazione anteriore alla comprensione che permetta di sostitui­ re alla cura dell’essere la cura per l’altro. Quale insegnamento trarre infine da questo testo riguardo a Levinas stesso? Abbiamo tentato di chiarire di rimando, attraverso D e l'é v a s io n , le riflessioni sull’hitlerismo, ma non sarebbe ugualmente legittimo procedere in senso inverso, chia­ rendo D e l'éva sio n attraverso le riflessioni sull’hitlerismo, ben­ ché nessun riferimento esplicito all’attualità politica venga fat­ to nel testo del 1935? N o n è forse, in effetti, l’evento del 1933, la cesura del nazionalsocialismo e l’interpretazione inedita che ne ha proposto Levinas ad aver suscitato la radicalità del gesto filosofico del 1935, la rottura con il privilegio dell’essere, l’aper­ tura di una nuova via nel segno dell’uscita dall’essere e dal bisogno di escendenza? Com e se il soffocamento seguito all’incatenamento originario al corpo avesse d’improvviso subito una metamorfosi in “ fatica di essere” , facendo al tempo stesso nascere il bisogno di evasione. Così come sarebbe assurdo e abusivo presentare l’ opera di Levinas come una replica all’hitlerismo, è opportuno soppesa­

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re accuratamente il trauma pressoché originaria che ha colpito questa filosofia e stabilirne la misura. Com e questo trauma abbia rivelato delle strutture di esistenza di natura tale da pro­ vocare “ l’orrore dell’essere” ; come questa rivelazione abbia suscitato una rivolta contro questa esperienza dell'essere; come questa rivolta antiontologica abbia aperto la strada a una filo­ sofia dell'evasione. A d ogni modo, la costellazione di testi del *34 e '35 (che pos­ sono essere letti solo come una costellazione) costituisce un’ autentica svo lta nel percorro di Levinas: questo momento specifico di un percorso in cui l’autore distoglie lo sguardo dal­ le prime esposizioni pionieristiche ed erudite della fenomeno­ logia per interrogare la situazione di fatto della fenomenologia contemporanea e le sue ambiguità, scoprendo, nel movimento stesso della svolta, i larghi brani di un paesaggio contro il qua­ le egli muove. N o n è nostra intenzione descrivere questo pae­ saggio. È sufficiente volgersi a un testo tardo di Levinas, E t h i­ q u e com m e philosophie prem ière, quasi contemporaneo al post­ scriptum del 1990, per riconoscervi i brani di questo paesaggio e valutare quanto Ognuno di questi grandi orientamenti porti in sé una relazione complessa con ciò che la prova dell’hitlerismo ha rivelato e che abbiamo incontrato nella nostra analisi delle riflessioni del 1934. Tre grandi orientamenti ai quali fanno da bussola l’estra­ neità all’essere e la contestazione del primato dell’ontologia. D i fronte alla cura identitaria e contro le follie identitarie, i deliri di sovranità che essa ha generato e continua a generare, la messa in questione dell’identità e del processo d’identifica­ zione. A causa dell’attenzione prestata alla coscienza prerifles­ siva e preintenzionale, non destinata a risolversi in presa di coscienza, sorge un altro regime dell'identità, “ gloria della non essenza” secondo H u m a n ism e d e V autre h o m m e , o piuttosto 84

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un’identità impossibile, o una strana identità nel segno della separazione. “ La differenza che si spalanca tra io e sé, la non coincidenza dell’identico è una fondamentale non indifferen­ za nei confronti degli uomini” 49. Quasi si trattasse non solo di recuperare la distanza da sé che implica ogni processo d’iden­ tificazione, ma di prolungare senza fine il ritorno a sé che esso pone in essere, al punto di mantenere la non coincidenza, non come una mancanza, ma come un’apertura inventiva a un altro regime dell’identità. “ Il ritorno a sé si fa interminabile devia­ zione” 50. È questa scelta del “ senza identità” , del “ senza posto nel mondo” che conduce Levinas a illustrare la figura inedita della cattiva coscienza. “ Cattiva coscienza, implicazione del non intenzionale: senza intenzioni, senza scopi, senza la maschera protettiva del personaggio che si contempla nello specchio del mondo, posando rassicurato. Senza nome, senza condizione, senza titoli. Presenza che teme la presenza, che teme l’insistenza dell’io identico, denudata di ogni attributo. Nella sua non intenzionalità, al di qua di ogni valore, avanti ogni colpa, nella sua identificazione non intenzionale, l’iden­ tità arretra davanti alla sua affermazione, s’inquieta di fronte all’insistenza che può comportare il ritorno a sé dell’identifi­ cazione... L ’interiorità del mentale, è forse originariamente questo, una mancanza di audacia nell’affermarsi nell’essere o nella sua carne o nella sua pelle” 51. In virtù dell’accento dato alla nostra condizione — incondi­ zione — di apatridi, si elabora un interrogativo sul modo di essere relativi al mondo che va ben al di là della critica del pri­ mato dell’ontologia, poiché investe ciò su cui riposa questo stes­ so primato. Si tratta di sostituire al “ corretto punto di parten­ za” di Heidegger, l’essere-nel-mondo, un altro punto di par­ tenza, giudicato in qualche modo più corretto, l’estraneità al mondo. Allo stesso modo di Adorno, che considera passato il tempo di abitare, Levinas dichiara che “ nessuno è in casa pro­

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pria” . Lontano da ogni familiarità e intimità, lontano dal ripo­ so che procurano l'installarsi e la sufficienza, si tratta, richia­ mando “ gli stranieri e gli schiavi in terra d’Egitto” , di scoprire di nuovo un’altra struttura più profonda — l’essere-in-questione — in grado di avvicinare l’umanità. A l Dasein ontologica­ mente inteso come cura si oppone l’esistente eticamente fonda­ to come timore per l’altro. Già in D e l'évasion è presente una critica della cura: il superamento di sé invece di desertificare l’essere finisce per rafforzarlo. “ La propensione per l’avvenire, il davanti-a-sé contenuto nello slancio, segnano un essere vota­ to alla corsa” (De l'évasion, p. 72). L ’estraneità al mondo va inte­ sa in un duplice senso: come essere in questione, essa si deter­ mina come messa in causa dell’essere-nel-mondo; come essere della questione, essa esige che l’uomo risponda del suo diritto ad essere. “ Il mio essere-nel-mondo o il mio ‘posto al sole’, casa mia, non sono stati un’usurpazione di luoghi appartenuti ad altri uomini, già da me oppressi o affamati, espulsi in un terzo mondo: respingere, escludere, esiliare, spogliare, uccidere... Timore di tutta la violenza e l’assassinio che può compiersi nel mio esistere... Il timore di occupare nel D a del mio Dasein il posto di qualcuno; incapacità di possedere un luogo — una profonda utopia. Timore che mi giunge dal volto dell’altro” 52. Ritroviamo qui, arricchita da una traversata filosofica “ al di là dell’essere” , l’opposizione di partenza tra il paganesimo, chiuso nel mondo, incapace di abbandonarlo, e il giudaismo, antipaganesimo per eccellenza, perché senza luogo definitivo nel mondo. Contrasto tanto più significativo perché incrocia l’opposizione ad Heidegger, agli heideggeriani e a tutta la sedu­ zione del paganesimo, l’attaccamento all’essere, al mondo, al luogo che minaccia subito di convertirsi “ in scissione dell’uma­ nità in autoctoni e stranieri” 53. Infine, se ci si rivolge a Autrement qu'être ou au-delà de l'essence, si chiarisce un altro pensiero del corpo, nella fedeltà 86

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fenomenologica ai termini concreti della nostra condizione corporea, che si mantiene distante tanto dalla svalutazione pla­ tonica del corpo quanto dall’esaltazione barbara del sentimen­ to d’identità. Il soggetto incarnato non è un concetto biologi­ co, afferma Levinas per far meglio apparire la struttura più alta alla quale è sottomesso il biologico. Il corpo, iìon più l ' essere in ch io da ti, l’accettazione dell’incatenamento al punto di “ sentirvisi bene” , ma l' essere esposti, lo stare male, la vulnerabilità, la prova della vulnerabilità, tale che si apra un luogo, al di là della perseveranza nell’essere, in cui rendersi sensibili al richia­ mo, alla sofferenza dell’altro uomo. “ Il corpo non è né l’osta­ colo opposto all'anima, né la tomba che lo imprigiona, ma ciò attraverso cui il Sé è la stessa suscettibilità. Passività estrema della ‘incarnazione’ — essere esposti alla malattia, alla soffe­ renza, alla morte, vuol dire essere esposti alla compassione e, Sé, al dono che costa” 54. Occorre forse saper intendere in queste riflessioni sull’hitle­ rismo una lezione in sordina che vale per la modernità nel suo complesso, tanto più inquieta perché proviene da un fenomenologo attento ai pericoli di una riduzione del concreto al visi­ bile o all’empirico, ognuna di queste semplificazioni compor­ tando l’assolutizzazione di ciò che è. La ricerca del concreto, la concretezza, mancando di percepire “ la funzione trascendenta­ le di tutto lo spessore concreto della nostra esistenza corporea, tecnica, sociale e politica” 55, non è forse minacciata in perma­ nenza da una deriva verso una brutalizzazione dell’esistenza?

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M iguel A b en so u r Note IEntretiens Emmanuel Levinas-François Poirié, in François Poirié, Emma­ nuel Levinas, Lyon, La Manufacture, 1987, p. 83. 2E. Levinas, Autrement qu ’être ou au-delà de l ’essence, Den Haag, M. Nijhoff, 1978. 3Ripreso in En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Paris, Vrin, 1967, pp. 53-89. 4E. Levinas, Fribourg, Husserl et la Phénoménologie, “ Revue d’Allema­ gne et des pays de langue allemande”, n. 43, maggio 1931, p. 407. 5Entretiens, cit., p. 78. 6Ibid., p .74. 7 E. Levinas, D e l ’évasion, a cura di Jacques Rolland, Montpellier, Fata Morgana, 1982. 8Entretiens, cit., pp. 82-83. 9 L ’insieme di questi testi è stato ripubblicato in “ Cahiers de l’Herne” , dedicato a E. Levinas, Parigi 1991, con una introduzione di Catherine Chalier, pp. 139-15310L ’actualité de Maimonide, in “ Cahiers de l’Herne” , cit. p. 144 e pp. 150-151. II Ibid., p. 151. 12 E. Levinas, Fribourg, Husserl et la Phénoménologie, cit., p.w4o8. 13 In questo libro, p. 23. D ’ora in poi citeremo questo scritto indicando direttamente la pagina tra parentesi nel testo. 14 E. Levinas, Martin Heidegger et l ’ontologie, in E. Levinas, En décou­ vrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Paris, Vrin, 1967, p. 68. 15 Postscriptum pubblicato come Prefatory Note, in “ Criticai Inquiry” , Autunno 1990, vol. 17, n. 1, p. 63. Nella presente edizione, p. 21. 16M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976, p. 278. 17J. Greisch, Ontologie et temporalité, Paris, P.U.F. (Epiméthèe), 1994, p. 267. 18M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 391. 19Ib id , p. 320 e p. 306. 20L. Ferry, A. Renaut, Heidegger et la modernité, Paris, Grasset, 1988, p. 202. 21 Ecclesiaste, 1,9. 22E. Levinas, Le temps et l ’autre, Paris, P.U.F. (Quadrige), 1983, p. 62. 23 E. Levinas, L ’ontologie dans le temporel, in En découvrant l ’existence avec Husserl et Heidegger, cit., p. 81. 24E. Levinas, Difficile liberté, Paris, Albin-Michel, 1976, p. 375. 25Ibid. 26Cfr. J. Dewitte, Instant, Avenir et Résurrection, La Dialectique du Tem­ ps chez le Premier Levinas, in L ’expérience du temps. Mélanges offerts à Jean Paulhan, Paris, Ousia, 1989, pp. 175-198. 27 M. Merleau-Ponty, Etre et avoir, in “ La vie intellectuelle”, ottobre 1936, p. 100. 28Ibid., p. 102. 29 Marc Richir, Le corps. Essai sur l ’intériorité, Paris, Hatier, 1993, pp. 6-7.

I l M ale eiem entale 30E. Levinas, Recensione a Louis Lavelle, La présence totale, in “ Recher­ ches philosophiques” , v. IV, 1934, p. 393. 31 E. Levinas, D e Vexistence à Vexistant. Notes 4, Paris, Vrin, 1981, p. 15. 32De l'évasion, cit., p. 65, p. 69; sulla nausea, cfr. pp. 91-92. 33K. Marx, Lettera a Ruge, marzo 1843, in Textes (1842-1847), “ Spartacus” , aprile-maggio 1970, pp. 35-6. 34E. Levinas, En découvrant l'existence avec Husserl et Heidegger, cit., p. 68. [.Déréliction, letteralmente, “ abbandono, derelizione”; la traduzione italiana corrente per Geworfenheit è, com’è noto, “ essere-gettato” - N.d.T.]. 35Ibid., p. 69. *Ib id . 37Ibid. 38J. Rolland, Sortir de l'être par une nouvelle voie, in De l'évasion, cit., p. 21. 39Ibid., p. 22. 40Ph. Lacoue-Labarthe, J.-L.N an cy, Le mythe Nazi, Paris, Editions de l’aube, 1991, p. 49. 41M. Haar, Le chant de la terre, Paris, L ’Herne, 1987, p. 83. 42Ibid., p. 88; dello stesso autore, Heidegger et l'essence de l'homme, Gre­ noble, J. Millon, 1990, p. il « Ibid., p. 77. 44E. Levinas, Recensione a Louis Lavelle, La présence totale, cit., p. 393. 45Ibid. 46J. Greisch, op. cit., p. 89. 47C . Chalier, Levinas, l'utopie de l'humain, in Présence du Judaisme, Paris, Albin-Michel, 1993, p. 41. 48E. Levinas, D e l'existence à l'existant, cit., p. 28. 49E. Levinas, L'étrangeté à l'être, in Humanisme de l'autre homme, Mont­ pellier, Fata Morgana, 1972, p. 97. 50Ibid. ) 31E. Levinas, Ethique comme philosophie première, in “ Le Nouveau Com ­ merce” , 84-85, Autunno-Inverno 1992, pp. 13-14. 32Ibid., p. 15. 33E. Levinas, Heidegger, Gagarine et nous, in Difficile liberté, cit., p. 301. 34E. Levinas, Autrement qu'être ou au-delà de l'essence, cit., p. 139, n. 12. 33E. Levinas, Humanisme de l'autre homme, cit., p. 32.

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I n t r o d u z io n e

di G iorgio Agam ben

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Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo

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“ Il Male elementale” di M iguel Abensour