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Italian Pages 219 Year 2000
C O N F R O N T O 14
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I L
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In copertina: Alberto Savinio, Hoffmann e la musa (1948), Museo del Teatro alla Scala, Milano.
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María Elena Gutiérrez
ALBERTO SAVINIO LO PSICHISMO DELLE FORME
Edizioni Cadmo 1999
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Gutiérrez, María Elena Alberto Savinio : lo psichismo delle forme. Fiesole (Firenze) : Cadmo, 1999. XXX, XXX p. ; 21 cm. ISBN 88-7923-192-8. 1. Savinio, Alberto (1891-1952)
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© 1999, Cadmo s.r.l. Edizioni Cadmo Via Benedetto da Maiano, 3 50014 Fiesole (Firenze) Tel. 055 5018.1 Fax 055 5018.201 cadmo@casalini. it Printed in Italy
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Alla mia famiglia e a John P. Lynch
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Avvertenza
Gli ultimi tre capitoli che compongono questo libro corrispondono, tematicamente, ad altrettanti articoli pubblicati su riviste. Le muse domestiche corrisponde, sia pure molto rimaneggiato, all’articolo Il mito in pantofole: le muse domestiche di Alberto Savinio, pubblicato su «Italian Quarterly», XXXV, 135-136 (inverno-primavera 1998), pp. 47-55. La poetica del lapsus: inconscio e linguaggio è apparso, con qualche modesta differenza, su «Forum Italicum», XXXI, 2 (autunno 1997), pp. 439-457. Il sogno e l’incubo: l’artista-fanciullo è invece una nuova versione, ampliata e completamente riscritta, dell’articolo Il sogno e l’incubo: l’artista-fanciullo in Savinio uscito in «Gradiva», VI, 1 (1994-1995 n.s., 12-13), pp. 8-15. L’autrice desidera esprimere il suo vivo ringraziamento alla State of New York U.U.P. Dr. Nuala McGann Drescher Affirmative Action Leave Grant che ha finanziato l’anno sabbatico in cui è stata compiuta la stesura finale di questo testo. I ringraziamenti vanno anche al decano Kerry Grant che ha concesso il congedo.
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IL PARADOSSO SAVINIO
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[...] penso [...] che le verità sono molte, che l’assoluto non esiste, che la verità è appunto tale perché si contraddice. Sul mondo mutante e medesimo, la mia casa non rimarrà, fra le case degli uomini. A. Savinio, Hermaphrodito1
1891-1911: L’INFANZIA
E GLI ESORDI
Andrea De Chirico, che a ventitré anni assumerà lo pseudonimo di Alberto Savinio, nasce ad Atene2 da genitori di origine italiana il 25 agosto 1891. Egli stesso attribuirà un significato particolare a questa nascita in terra straniera, vera prima pietra di un destino fuori dall’ordinario. Il padre Evaristo è un ingegnere trasferitosi in Grecia per lavorare nelle ferrovie, la madre Gemma Cervetto è una nobildonna di origine genovese. I rapporti con il
1. A. SAVINIO, Hermaphrodito [1918], Torino, Einaudi, 1974, pp. 178 e 234. 2. Per la biografia di Alberto Savinio, i cui dettagli sono riferiti da vari testi in modo spesso contraddittorio specie per quanto riguarda la genealogia, si rimanda ai contributi di Paolo Baldacci e di Gerd Roos, documentati e convincenti: Alberto Savinio. Musician Writer and Painter, catalogo della mostra tenutasi alla Paolo Baldacci Gallery, New York, dal 27 aprile al 16 giugno 1995.
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fratello Giorgio, di tre anni maggiore, conosceranno periodi di fruttuosa collaborazione artistica, ma saranno anche costellati di incomprensioni e tensioni, tanto che Savinio finirà per non menzionarlo nei libri dedicati alla propria infanzia3. Il piccolo Andrea sviluppa con la Grecia4 un’intimità domestica, che coinvolge le rovine, i miti e anche gli dei, e, attraverso questa, acquisisce un punto di vista privilegiato, ironico e creativo ad un tempo, su tutta la realtà. Molti anni più tardi scriverà: «Grande privilegio essere nati all’ombra del Partenone: questo scheletro di marmo che non butta ombra. Si riceve in eredità una generatrice di luce interna e un paio di occhi trasformatori»5. Ma, allo stesso tempo, la sua italianità diviene una scelta, e quindi una straordinaria opportunità di definire la propria identità culturale come atto volitivo, creativo: «Italiano nato fuori d’Italia, Nivasio Dolcemare si considera un privilegiato. Questa nascita “indiretta” è una situazione ironica, una soluzione di stile, una condizione che alle facoltà nazionali dell’uomo Dolcemare aggiunge alcune sfumature, alcune sottigliezze [...] che la nascita “diretta” non consente. [...] italiano più italiano dell’italiano, perché l’“italiano” in lui non è “stato locale”, ma condizione voluta, scoperta, conquistata»6.
3. La sorellina primogenita, Adele, morta sei mesi prima della nascita di Andrea, appare invece in alcuni racconti dedicati ai ricordi d’infanzia, nonché in alcuni quadri. 4. «S’intende per “Grecia” un modo di pensare, di vedere, di parlare che la mente, l’occhio, l’orecchio possono afferrare “di colpo”: possono afferrare in un pensiero solo, in uno sguardo solo, in una sola audizione. S’intende per “Grecia” una mente portatile e nei modelli più alti tascabile. S’intende la facoltà [...] di intelligere la vita nel modo più acuto e assieme più “frivolo” (i nostri dèi sono leggeri)...» (A. SAVINIO, Vita di Enrico Ibsen, Milano, Adelphi, 1979, p. 9). 5. A. SAVINIO, Narrate, uomini, la vostra storia [1942], Milano, Bompiani, 1944, p. 247. 6. A. SAVINIO, Infanzia di Nivasio Dolcemare, Milano, Mondadori, 1941; ristampato Torino, Einaudi, 1973, 19822. Ora in Hermaphrodito e altri ro-
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L’infanzia trascorsa nella Grecia di Giorgio I, pervasa dallo stridente contrasto fra passato eroico e presente borghese, costituirà inoltre un inesauribile serbatoio di immagini, sensazioni e suggestioni per tutta la sua opera artistica. L’educazione di Savinio è prevalentemente musicale, e nel 1903, a dodici anni, si diploma in pianoforte e composizione al Conservatorio di Atene. Due anni più tardi compone un Requiem per la morte del padre, avvenuta in quell’anno. Mutata la situazione familiare ed economica, i De Chirico si trovano costretti a rientrare in Italia; dopo brevi soggiorni a Firenze, a Venezia e a Milano, nel 1906 si trasferiscono a Monaco di Baviera, dove Savinio continua gli studi di musica e composizione con Max Reger, allora considerato il «Bach moderno», mentre il fratello prosegue quelli di pittura. Nello stesso anno Savinio, appena quindicenne, compone musica e libretto dell’opera in tre atti Carmela, che suscita l’attenzione di Pietro Mascagni e di Tito Ricordi. Contemporaneamente lavora anche ad un’altra opera, Poema fantastico, oggi perduta. Agli inizi del 1911, alcune sue musiche sono eseguite pubblicamente a Monaco di Baviera, raccogliendo l’interesse della critica7. Fin dagli esordi, cimentandosi in entrambi gli elementi che compongono un’opera, musica e parole, Savinio individua nel teatro il punto di incontro di arti diverse, e ne coglie quelle valenze che oggi diremmo multimediali. La sua precoce fascinazione per il teatro è ricostruita in Tragedia dell’infanzia8 attraverso la descrizione dell’in-
manzi, a cura di A. Tinterri, con un’introduzione di A. Giuliani [Savinio dei fantasmi], Milano, Adelphi, 1995, pp. 578-579. 7. Alcuni testi indicano nel 1909 la data dello spetttacolo a Monaco di Baviera e anticipano al 1910 l’arrivo di Savinio a Parigi. Mi pare che la documentazione prodotta da Gerd Roos confermi la data del 1911 (Alberto Savinio. Musician Writer and Painter, cit.). 8. A. SAVINIO, Tragedia dell’infanzia, Roma, Edizioni della Cometa, 1937, indi Firenze, Sansoni, 1945; e poi Torino, Einaudi, 1978 e 1991; ora in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 461-564.
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contro del bambino protagonista con il Teatro Lanarà9: «Era un teatro estivo che [...] aveva per tetto il cielo vastissimo e stellato. Il teatro confinava con un cantiere di barche [...] Dietro l’assito che separava la platea dal cantiere, sorgeva lo scheletro di una maona alta sulle taccate. Una fila di girasoli piantati dentro latte della Standard Oil, chiudeva la platea dalla parte della marina»10. Il Lanarà è in realtà un modestissimo teatro, ma per il bambino Nivasio possiede già tutte le caratteristiche proprie del «vero teatro»: ciò che appare in scena è il divino e l’enigmatico: «La platea galleggiava nell’estasi. Una irresistibile levitazione suscitava le sedie [...] I palchi beccheggiavano come trabaccoli sul mare. [...] Naufragavo in una nebbia solcata di luci sempre più deboli. Il mondo rovinava in un cataclisma silenzioso. [...] La scena si contrae in un dischetto luminoso, nell’occhiolino di una galleria lunghissima. I personaggi si riducono a punti essenziali di figure geometriche. [...] Sono davanti a un velario che ondeggia ma non si apre. [...] Ho idea che [...] il sogno si mischi più intimamente con la realtà [...] la necessità di varcare la soglia incantata è di quelle cui l’uomo non si può sottrarre, e salvarsi assieme dal rischio di svuotarsi in fantasma, perdere il proprio turno in questa anticamera della morte»11. L’esperienza dello spettatore è così una «iniziazione» a quanto di misterioso, affascinante, velato c’è nel mondo, e Savinio prospetta «un teatro nel quale l’uomo si mostrerà intero e porterà alla luce della ribalta anche le parti di sé che finora restavano celate o per pudore, o per paura, o per ignoranza»12. Nell’esperienza teatrale vi è anche un
9. «Lanarà [...] quell’onomatopea, simbolo sonoro che esprimeva l’idea del “teatro”, e non di quello solamente ma di tutti i teatri che brillano di notte sulla faccia infinita del mondo» (A. SAVINIO, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 507). 10. Ivi, p. 506. 11. Ivi, pp. 516-521. 12. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia [1977], Milano, Adelphi, 1991, p. 362.
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che di peccaminoso, di «impuro»13, che Savinio pone in risalto istituendo un parallelo fra la scoperta del teatro e quella dei misteri della sessualità: «La scena si oscurò. Un sordo tuonare di grancassa gonfiò le tenebre. E quando la luce ribrillò, tra noi c’era Apollo. [...] Apollo era donna: Apolla. [...] Non un panno, non un’aggiunta, nulla incrinava la lineatura perfetta della maglia carnicina. [...] Tracce di antichi sudori spandevano sotto l’ascella un’ombra di mistero. Sotto la lana aderentissima, il sacro delta nereggiava come un simbolo di morte. Nelle chiese greche più volte avevo mirato l’occhio di Dio chiuso nel triangolo. Al sacro delta che di colpo attrasse il mio sguardo, l’orrenda immagine si associò dell’occhio di Dio chiuso nel triangolo»14. La protagonista dello spettacolo appare quindi in scena praticamente nuda, e in questo “oltraggio al pudore” il teatro manifesta il suo potenziale di trasgressività, la sua capacità di trasmettere un messaggio definitivamente critico. Il bambino Nivasio sembra però essere l’unico a sperimentare questo prodigio, mentre gli altri spettatori sembrano refrattari alla magia e non vedono che il banale “aspetto umano” della rappresentazione scenica: «I guitti, disposti a mezza luna come passeggiatori domenicali davanti a un monumento, miravano rapiti l’anfibia creatura. Nel minuto di favolosa oscurità che aveva preceduto la nascita del celeste ermafrodito, le quinte avevano rivomitato in silenzio i loro misteriosi abitatori. [...] Apollo [...] splendeva come faro nella notte. Circondato dalle persone del dramma e a un tempo separato da queste e conchiuso in una sua atmosfera impenetrabile [...] il dio inavvertibilmente vibrò, s’inargentò come pioppo al vento. [...] Levò la destra e con l’eburneo plettro sfiorò i sette budelli che
13. «Tra le forme d’espressione, il Teatro è una delle più impure. Se non la più impura» (A. SAVINIO, Palchetti romani, a cura di A. Tinterri, Milano, Adelphi, 1982, p. 18). 14. A. SAVINIO, Tragedia dell’infanzia, cit., pp. 521-523.
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non mandarono suono. [...] La voce rampollò dalle sue labbra. [...] Un fiato d’oro si sparse nella notte. Mio padre dichiarò: “Quella donna è una cagna”. [...]. I binocoli erano ferocemente puntati sul pube di Apollo-Apolla. [...] Un tale seduto accanto a me, e soprannominato Narciso in omaggio alla sua bruttezza sovrumana e accresciuta da un enorme lupus piantato sul naso, era il più inviperito di tutti»15. Durante la rappresentazione Nivasio è trasportato in un sogno in cui l’attrice diviene una ambigua divinità portatrice del segreto messaggio dell’eros. Il bambino sente di amarla, rapito dal suo fascino e vorrebbe difenderla dall’ira violenta degli altri spettatori urtati dallo scandalo. Anche in questo caso, come sovente nei romanzi di Savinio, si rileva una sconnessione totale, una completa assenza di comunicazione fra il bambino, che percepisce le suggestioni e le potenzialità celate sotto la superficie arida e banale degli eventi quotidiani, e gli adulti che invece fanno dell’adesione al conformismo la loro bandiera. Nella descrizione del Lanarà, Savinio si sofferma nell’esame delle varie arti che concorrono alla creazione teatrale: il testo recitato, la scenografia (e più specificamente la pittura di quinte e fondali che creano «un mondo più vero del reale»: «L’arte coglie lo spettro delle cose [...] Dipinto, il golfo era più bello che al naturale»16), la magia della musica ed infine i costumi. Questi ultimi rappresen-
15. Ivi, pp. 523-525. 16. Ivi, p. 513. Corsivo mio. Savinio sembra aver fatto propria la teoria dell’arte baudeleriana che, a sua volta prende spunto dal «soprannaturalismo» di Delacroix, sostenendo che la realtà dipinta è più bella che al naturale: «E le cose rinascono sulla carta, naturali e più che naturali, belle e più che belle, singolari e dotate di una vita entusiasta come l’anima dell’autore. La fantasmagoria è stata estratta dalla natura. Tutti i materiali di cui era ingombra la memoria si classificano, si ordinano, trovano una loro armonia e subiscono quella idealizzazione forzata che è frutto di una percezione infantile, vale a dire acuta e magica a forza d’ingenuità» (C. BAUDELAIRE, Il pittore della vita moderna [Le Peintre de la vie moderne, 1863], trad. di E. Sibilio e G. Violato, Venezia, Marsilio, 1994, p. 73).
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tano un elemento vitale, poiché «l’arte è mascherata»17, e il personaggio deve diventare uomo-mostro, uomo-monumento, uomo-Dio, uomo-donna. In questa trasformazione, i costumi, i travestimenti e la maschera sono appunto gli strumenti essenziali della perdita dell’identità ordinaria che permettono la conquista della «vera identità»18. Nel raccontare l’emozione di se stesso bambino di fronte al Lanarà, Savinio delinea quello che costantemente, lungo tutta la sua vita, sarà uno dei suoi obiettivi più importanti: riuscire a produrre attraverso la creazione di testi, musiche, scenografie e costumi un’opera capace di liberare il pubblico dalla mediocrità facendolo inoltrare in una magia, in quella che lui stesso amava chiamare l’«Avventura colorata»19. 1911-1915:
IL PRIMO SOGGIORNO PARIGINO
Nel 1911 Savinio si stabilisce a Parigi20, dove vivrà fino al 1915, quando, poco dopo lo scoppio della guerra mondiale, rientrerà in Italia per arruolarsi volontario. In quegli anni la ville lumière era la capitale della modernità e dei movimenti di avanguardia, in primo luogo Cubismo e
17. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., p. 379. 18. Sull’attività scenografica di Savinio si veda il catalogo della mostra Alberto Savinio pittore di teatro / Peintre de théâtre, Centro Saint-Benin, Aosta, 6 luglio-15 ottobre 1991, a cura di L.M. Barbero, con un’introduzione di M. Fagiolo dell’Arco [«Coscienza plastica». Riflessi della pratica teatrale nella pittura di Savinio], Milano, Fabbri, 1991. 19. A. SAVINIO, Capitano Ulisse [1934], Milano, Adelphi, 1989, p. 15. 20. Nell’articolo intitolato La realtà dorata (Arte e storia moderna. Guerra. Conseguenze), in «La Voce», III, 2 (febbraio 1916), p. 83, Savinio scriveva: «Io voglio pensare, lavorare, produrre lì dove accademie e professori non hanno nessun potere esecutivo. Voglio vivere nella città ove l’atmosfera è scarica di Stimmung; fra la gente educata per tradizione o per pigrizia, alla dolce indifferenza. Voglio passeggiare nelle vie e nelle piazze dove non inciampi nell’opprimente tradizionalismo o nei paralitici o irrigiditi canoni dell’estetica buffona. Io voglio vivere a Parigi».
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Futurismo, dominati da figure quali Pablo Picasso e Guillaume Apollinaire. Savinio stringe amicizia con Apollinaire e frequenta il milieu culturale delle avanguardie, a cui ben presto inizierà a dare anche un proprio contributo creativo. È in questo periodo che Savinio inizia a utilizzare lo pseudonimo con cui firmerà tutte le sue opere. Questa decisione è probabilmente legata anche al desiderio di meglio distinguersi dal fratello, ma la ragione principale è certamente la volontà di compiere un atto di autodefinizione a cui egli attribuisce grande importanza. Lo pseudonimo non è che l’italianizzazione del nome di un oscuro traduttore francese, Albert Savine: non sceglie quindi un nome significativo, ma “irrilevante”, un elemento scorrelato che acquisisce importanza proprio in quanto espressione di una scelta assolutamente deliberata, che sottolinea la volontà creatrice dell’artista anche verso se stesso. La prima attività parigina di Savinio è quella del compositore e del musicista. Compone principalmente musica per pianoforte che esegue personalmente. Il 24 maggio 1914 tiene un concerto21 presso i locali delle «Soirées de Paris». Il 1° giugno una brevissima recensione di Apollinaire esce in «Mercure de France»: «j’ai été invité par un jeune musicien à entendre de sa musique. C’est un homme bien élevé et plein de talent. Il s’appelle Albert Savinio et j’ai idée que l’on entendra de nouveau parler de lui. Mais pour ce qui est du petit concert qu’il m’a donné, j’étais charmé et étonné à la fois, car il maltraitait si fort l’in-
21. Assistono al concerto: il fratello Giorgio e la madre, Calvocoressi, Apollinaire, Paul Guillaume, la baronessa d’Oetingen e Serge Jastrebzoff, Archipenko, Ernest Ponthier de Chamaillard, Luc-Albert Moreau, Picabia, Picasso, Eugène Zak, Ricciotto Canudo, Louis de Gonzague Frick, Max Jacob, Alexandre Mercereau, Jean Royère, Ardengo Soffici, Marcel Ciampi, Paula Valmont, il principe Rospigliosi, il dottore Regniard (cfr. M. SABBATINI, L’argonauta, l’anatomico, il funambolo. Alberto Savinio dai Chants de la mi-mort a Hermaphrodito, Roma, Salerno editrice, 1997, p. 172).
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strument qu’il touchait qu’après chaque morceau de musique on enlevait les morceaux du piano droit qu’il avait brisé pour lui en apporter un autre, qu’il brisait incontinent. Et j’estime qu’avant deux ans il aura ainsi brisé tous les pianos existants à Paris, après quoi il pourra partir à travers le monde et briser tous les pianos existants dans l’univers. Ce qui sera peut-être un bon débarras»22. I concerti saviniani raggiungono una considerevole notorietà, come testimonia Ardengo Soffici che ne descrive i primi passi come musicista in Scoperte e massacri: «[Savinio] s’è fatto distinguere in questi ultimi tempi per il coraggio formidabile col quale s’è dato a rinnovare l’arte della musica, e anche per una violenza di esecutore, sul pianoforte, delle sue creazioni, che fa di lui un mostro degno di storia. Un salvatore dell’umanità, magari, chi stia alle parole del suo e nostro amico Apollinaire»23. Proprio Apollinaire, su «Paris Journal», aveva paragonato Savinio per il suo eclettismo culturale agli artisti del Rinascimento: «M. Savinio, qui est poète, peintre et dramaturge, ressemble en cela aux génies multiformes de la Renaissance toscane»24. Le performances saviniane sono caratterizzate da una spettacolare violenza di esecuzione e da una carica eversiva che si apparenta, almeno esteriormente, con lo spirito iconoclasta dei celebri interventi spettacolari dei futuristi: «“Nous ne saurions, écrit à ce propos le critique des ‘Soirées de Paris’, passer sous silence la façon dont M. Savinio interprète ses œuvres au piano. Exécutant d’une maîtrise et d’une force incomparables, ce jeune composi-
22. G. APOLLINAIRE, Albert Savinio, in «Mercure de France», 1° giugno 1914; ristampato in Œuvres complètes, Paris, Balland et Lecat, 1965-1966; poi in A. SAVINIO, Scatola sonora, Torino, Einaudi, 1977 p. 436. 23. A. SOFFICI, De Chirico e Savinio, in Opere, Firenze, Vallecchi, 1959, vol. I, p. 315. L’articolo, in origine apparso in «Lacerba» (1914), è stato ristampato in A. SAVINIO, Scatola sonora, cit., p. 437. 24. G. APOLLINAIRE, Musique nouvelle, in «Paris Journal», 21 maggio 1914; ristampato in Œuvres complètes, cit., e anche in Scatola sonora, cit., pp. 435436.
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teur, qui a en horreur le veston, se tient devant son instrument en bras de chemise, et c’est un singulier spectacle que de le voir se démener à l’extrême, hurler, fracasser les pédales, décrire des moulinets vertigineux, lancer des coups de poing dans le tumulte des passions, du désespoir, des joies déchaînées... Après chaque morceau on étanchait le sang qui maculait les touches”»25. Nel 1913 Savinio scrive il testo teorico Le drame et la musique26, e compone la musica del balletto Persée, su soggetto e coreografia del russo Michel Fokine, che sarà però eseguita solo undici anni più tardi, nel 1924, al Metropolitan di New York. Lavora anche all’opera buffa in tre atti Le trésor de Rampsenit (1912) su libretto di Michele Demetrio Calvocoressi, che resterà incompiuta. Continua insomma a coltivare la sua passione per la scena, che si estende con crescente interesse anche al balletto e al mimo: nel 1913, infatti, compone la musica per La mort de Niobé, un drame-ballet in un atto, anche questo messo in scena soltanto nel 1925. Nel 1914 Savinio, che da sempre ha scelto posizioni di rottura con la tradizione, fonda il movimento musicale del «Sincerismo»27, che teorizza una musica dissonante. La sua
25. Frammento citato da Breton nella sua Anthologie de l’humour noir [1940], Paris, Pauvert, 1966, pp. 369-370. 26. A. SAVINIO, Le drame et la musique, in «Les soirées de Paris», III, 23 (15 aprile 1914), pp. 240-44, ora in Scatona sonora, cit., pp. 423-426. 27. In un articolo pubblicato su «Les soirées de Paris» Savinio definisce il «Sincerismo» e teorizza composizioni musicali basate sulla «absence complète de toute polyphonie, ainsi que l’insouciance la plus grande pour toute recherche harmonique. La musique de M. Savinio n’étant point harmonieuse, ni même harmonisée, est pour ainsi dire, une musique désharmonisée. La structure se base essentiellement sur le dessin. Chacun de ces dessins pour la plupart tous très corrects – se répète deux, trois et même quatre fois, selon le besoin naturel de l’oreille; et, après une pause d’un seul temps, un dessin musical différent intervient aussitôt. C’est ainsi une musique point façonnée et nullement pétrie, mais dessinée et horizontale. Ces dessins musicaux sont presque tous très rapides et dansants; ils appartiennent à des styles très disparates – selon la considération du compositeur qui croit qu’une œuvre musicale sincère et véritable doit comprendre les musiques les plus variées
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attività di compositore ed esecutore è così accompagnata da uno sforzo di sistemazione filosofica, da un’ansia di strutturazione concettuale che ritroveremo in seguito in tutte le sue attività di pittore, scrittore e scenografo. Dal punto di vista strettamente musicale la sua produzione degli anni parigini28 è influenzata soprattutto dalle esperienze di Eric Satie e di Igor Stravinski; come nota Alberto Jona, si rivolge «a Satie per quanto riguarda l’umorismo musicale, la teatralità e la provocazione fantasiosa [...] e inoltre a Strawinsky per quanto riguarda l’aspetto più strettamente compositivo. Di Satie Savinio coglie la dimensione irrispettosa verso la cultura “dominante”; di Strawinsky fa propri i tipici procedimenti politonali, il piacere sintattico della giustapposizione stridente e la percussività insistente»29. Savinio assegna peraltro un ruolo fondamentale al ritmo, identificato come «elemento drammatico» della composizione musicale, secondo l’identità «movimento ritmico – espressione riassuntiva della vita»30.
– tout ce que l’on entend – et tout ce que l’oreille imagine ou se rappelle: – (mélodies rappelant des chants connus, rythmes répétant d’autres rythmes familiers au point de devenir obsédants, thèmes paysans, musique burlesque, hymne de Garibaldi, roulement de tambour, etc.). Le thème paysan tient même une part très large dans la musique de M. Savinio. Nous signalons ceci en opposition à la manière dite élégante, recherchée par d’autres compositeurs contemporains, et en relation à ce qui fut accompli en peinture et en poésie par les grands initiateurs à la sincérité. La mélodie y apparaît parfois dans sa forme la plus triviale. La partition comprend, en outre, des chants (voix groupées ou isolées), des cris, des appels, des sanglots, des bruits, et surtout – surtout! – des danses, des danses, des danses» (Note, in «Les soirées de Paris», III, 24 (15 maggio 1914), p. 246; ristampato in Scatola sonora, cit.). 28. In due dischi Multhipla Records del 1978 sono incluse alcune composizioni per voce e per pianoforte: Savinio, Musicien 1914 e Récital miscenique par Luigi Rognoni, a cura di G. Stocchi. Più recentemente il pianista Bruno Canino ha inciso Les chants de la mi-mort e l’Album 1914 pour voix et piano avec une pièce finale pour voix, basson et célesta (Stradivarius, 1992). 29. A. JONA, Savinio e la non mai conoscibile, in «Sonus. Materiali per la musica contemporanea», III, 3 (giugno-luglio 1991). 30. A. SAVINIO, Primi saggi di filosofia delle arti, in «Valori Plastici», III, 2-3 (1921); ora in Torre di guardia, Palermo, Sellerio, 1977, p. 241.
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In effetti la veemenza espressa nei suoi concerti è coerente con la sua visione dell’opera d’arte come stimolo dell’azione umana e detonatore di atteggiamenti trasgressivi: «I francesi [...] quando dicono che la musica est entraînante, mostrano di avere trovato il qualificativo che si adatta più giustamente che qualunque altro alla musica considerata come espressione ritmica. Infatti il proprio della musica è di essere trascinante»31. L’arte di Savinio, variopinta e funambolica nei mezzi e nei modi espressivi, dimostra tuttavia una sorprendente unitarietà di intenti e coerenza di pensiero. Michele Porzio, nella sua monografia sull’opera musicale di Savinio, ne ha sottolineato lo stretto legame strutturale con le ipotesi fondanti delle altre discipline artistiche: «L’impalcatura armonica delle composizioni di Savinio rivela infatti una precisa rete di analogie con l’organizzazione spaziale e prospettica della metafisica pittorica, permettendo di tracciare celate consonanze strutturali, ancora scarsamente approfondite, tra la musica e le arti figurative del nostro secolo; un simile criterio conduce la disamina del concetto di forma musicale, fondato sul metodo a collage e ricco anch’esso di valenze interdisciplinari. [...] La seconda stagione compositiva si arricchisce delle tematiche frattanto elaborate dalla sua letteratura, ora congiunte in una sintesi di parola e suono che celebra una medesima idea dell’arte e della vita»32. Nel 1914 Savinio esordisce anche come scrittore sulla rivista di Apollinaire, «Les soirées de Paris», in cui pubblica il poema drammatico Les chants de la mi-mort 33: per questo testo Savinio disegna anche le illustrazioni e scrive una suite per pianoforte, rimasta incompiuta. L’atto unico,
31. Ivi, pp. 241-242. 32. M. PORZIO, Savinio musicista. Il suono metafisico, Venezia, Marsilio, 1988, pp. 9-10. 33. Les chants de la mi-mort, in «Les soirées de Paris», III, 26-27 (luglioagosto 1914); ora in Hermaphrodito, cit., pp. 6-21.
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scritto in francese con innesti di italiano, si articola in quattro scene o episodi blandamente collegati fra di loro. La «mezza-morte» è ovviamente il sonno, e gli Chants hanno infatti una struttura onirica, nella quale i personaggi si muovono come giocattoli meccanici: «Des hommes-cibles en tôle sont rangés contre le mur, la place du cœur désignée par un cœur rouge. Des hommes noirs en fer forgé passent en se traînant le long du mur et en grognant. [...] Bruit de ressorts déclenchés; les hommes-cibles étirent leurs bras de fer, puis, rigidement, ils font des mouvements de gymnastique suédoise»34. La narrazione procede con bruschi salti di stile, immagini ardite e un linguaggio fitto di ossimori, in una dimensione che potremmo definire come protosurrealista: «Ah! et ses yeux inexistants sont pleins / de larmes résineuses. / Ah! et son cœur gélatineux appelle / Comme la cloche de minuit»35. «Belle matinée; pif! paf! fusillé, ton pauv’père. / Lorenzo! Lorenzo! / Le soleil dans la chambre, / la nappe blanche, / la polenta refroidie»36, e poi «Giuseppino, / mio bambino, / tu sei bello come un fior. / Tra la la la la, / Amore e dolor! L’un des anges de tantôt se montre à la fenêtre; l’homme-chauve arrache un gros tournesol et lui lance à la tête; l’ange tombe mort sur le parapet»37. Le disarmonie, i salti logici e le immagini conturbanti che definiscono lo spazio degli Chants mirano direttamente a creare un’atmosfera paradossale che disorienta il lettore e lo spettatore. Questa singolare «opera prima» denota subito una fortissima personalità, e si segnala per uno stile e una struttura che anticipano alcune delle caratteristiche essenziali del Dadaismo e del Surrealismo con cui Savinio avrà rap-
34. A SAVINIO, Les chants de la mi-mort, in Hermaphrodito, cit., pp. 12-13. 35. Ivi, p. 9. 36. Ivi, p. 17. 37. Ivi, p. 18.
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porti intensi e fruttuosi, senza peraltro mai procedere ad una esplicita adesione. Breton stesso riconoscerà questo debito, e includerà nella Anthologie de l’humour noir alcuni passi da Les chants de la mi-mort e da Introduction à une vie de Mercure, presentando Savinio (unico italiano dell’antologia) come uno dei fondatori del movimento surrealista. Breton riconosce che «Tout le mythe moderne encore en formation s’appuie à son origine sur les [...] œuvres [...] d’Alberto Savinio et de son frère Giorgio De Chirico, œuvres qui atteignent leur point culminant à la veille de la guerre de 1914. Les ressources du visuel et de l’auditif se trouvent par eux simultanément mises à contribution pour la création d’un language symbolique, concret, universellement intelligible du fait qu’il prétend rendre compte au plus haut degré de la réalité spécifique de l’époque (l’artiste s’offrant à être victime de son temps) et de l’interrogation métaphysique propre à cette époque»38. Con gli Chants Savinio pone le basi della sua concezione dell’opera d’arte: teorizza l’importanza per la produzione artistica del demi-sommeil, o demi-mort, ed elabora la nozione d’arte come esperienza di shock; sottolinea inoltre l’importanza del recupero dell’infanzia in quanto fase non razionale e non condizionata dell’esistenza umana e, come più tardi la definirà André Breton nel primo manifesto del movimento surrealista (1924), «vrai vie» dell’artista. Il registro onirico e grottesco che Savinio adopera in Les chants de la mi-mort, il linguaggio ornato e denso di figure retoriche che potrebbe definirsi neo-barocco, e la ricerca dello spaesamento attraverso lo stupore, diventeranno delle costanti del suo stile espressivo. In questo testo sono inoltre già delineati molti dei temi e delle immagini che saranno poi elaborati dagli artisti della «scuola metafisica»:
38. A. BRETON, Anthologie de l’humour noir, cit., p. 367.
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basti citare i manichini, che tanta parte avranno nella pittura di De Chirico, che si sostituiscono agli umani come inquietanti personaggi drammatici, e la dialettica fra statue ed umani. Come ha rilevato Stefano Lanuzza, gli Chants possono essere utilizzati addirittura come una «iniziazione alla lettura in chiave metafisica dei quadri di De Chirico»39. Negli Chants si trovano passi che non solo definiscono le atmosfere dei quadri «metafisici» del fratello, ma addirittura ne paiono una vera e propria messa in scena: «les statues s’acheminent à pas cadencés, / les fontaines sont taries. / On voit sur les places vastes et silencieuses / les sentinelles d’acier passer et repasser»40. Negli Chants viene impostato anche il tema del ruolo creativo dello spazio onirico: i sogni rappresentano, da un lato, il momento sovversivo per eccellenza, in cui la ragione allenta i freni inibitori, dall’altro, il luogo privilegiato per l’esplorazione dell’inconscio: «Non gli occhi guardano, ma quel terzo occhio che al dire degli Stoici portiamo al sommo del cervello, e non si apre se non agli spettacoli dei sogni»41. Savinio svilupperà in seguito una lettura psicoanalitica del rapporto fra sogno e creazione artistica, che verrà elaborata e proposta nei saggi critici, ma anche, in forma simbolica, in romanzi quali La nostra anima. Nello stesso periodo, fra il 1913 e il 1914, Savinio inizia a collaborare come critico musicale a «Le guide musical» ed a «Paris Journal». L’attività di critico e giornalista proseguirà per tutta la vita, da un lato assolvendo alla banale funzione di assicurargli un reddito, dall’altra offrendogli continue occasioni per abbozzare idee e pensieri che verrano poi spesso rielaborati e sviluppati nelle opere maggiori. I giornali e le riviste diventano così per Savinio una sorta di taccuino di appunti aperto al pubblico.
39. S. LANUZZA, Savinio, Firenze, La nuova Italia, 1979, p. 14. 40. A. SAVINIO, Les chants de la mi-mort, in Hermaphrodito, cit., p. 21. 41. A. SAVINIO, Drammaticità di Leopardi [1938], con un’introduzione di N. Sapegno, Roma, Edizioni della Cometa, 1980, p. 34.
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1915-1925:
IL RIENTRO IN ITALIA, LA
«SCUOLA
METAFISICA»
Nel 1915 Savinio e il fratello Giorgio, rientrati in Italia, sono destinati come militari a Ferrara. Qui, sotto la determinante influenza di Giovanni Papini, fondano con Carlo Carrà un movimento artistico a cui dànno il nome di «Scuola metafisica», che costituirà una delle più rilevanti esperienze artistiche del Novecento italiano. Al movimento aderiranno in seguito anche Filippo De Pisis e Giorgio Morandi. Per tutto il decennio, Papini e il suo ambiente culturale giocheranno un ruolo fondamentale nella maturazione di Savinio, in particolare attraverso le riviste da lui dirette, attive nel diffondere le filosofie di Vico, Schopenhauer e Nietzsche che costituiranno un costante punto di riferimento per la riflessione estetica di Savinio. Proprio allo scrittore fiorentino Savinio si rivolgerà reiteratamente per ricevere sostegno e recensioni alle sue prime opere. Nel 1916 Savinio inizia a collaborare anche alla rivista «La Voce», diretta da Giuseppe De Robertis, su cui pubblicherà la versione italiana di Les chants de la mi-mort, L’età dell’oro e alcuni capitoli di Hermaphrodito. Anche una volta trasferitosi in Italia, Savinio mantiene una fitta rete di contatti internazionali, restando al centro delle correnti di avanguardia europee. Sviluppa fra l’altro un intenso scambio epistolare con Tristan Tzara e collabora a «Dada», nonché alla rivista di Reverdy «Nord-Sud». Nel 1917 Savinio viene inviato in Grecia come interprete per le truppe italiane: è l’occasione per ri-scoprire i luoghi mitici della sua fanciullezza con gli occhi della maturità. Le memorie di questo viaggio saranno il tema centrale del racconto La partenza dell’argonauta (significativamente dedicato a Giovanni Papini), inserito in Hermaphrodito, opera che peraltro risente nel suo complesso di questa esperienza. A partire da questo testo, il dato autobiografico sarà onnipresente nell’opera di Savinio fino a costituire una vera e propria rete di interconnessioni e richiami fra le varie opere. Si instaura così una serrata struttura dialogica
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fra opera d’arte e biografia, che sarà resa esplicita in uno scritto del 1947, Otto volante, scrittori allo specchio, in cui Savinio fornisce una dettagliata mappa degli intrecci fra letteratura e vita vissuta: In Tragedia dell’infanzia [...] è trascritta la tragedia della mia infanzia. In Infanzia di Nivasio Dolcemare [...] è narrata la storia della mia infanzia e della mia adolescenza. In Souvenirs [...] sono raccolti i ricordi dei miei due lunghi soggiorni a Parigi (1910-1915 e 1925-1933). In La casa ispirata [.. ] è narrata una mia avventura parigina anteriore al 1914 e protratta nel primo anno della Grande Guerra. E quando si saranno letti anche alcuni miei racconti sparsi in vari libri (“Isabella Hasson” e “Partenza dell’Argonauta” in Hermaphrodito [...], quasi tutti i racconti di Achille innamorato [...], molti racconti di Casa «la Vita» [...], l’intero testo di Ascolto il tuo cuore, città [...], e alcuni racconti di Tutta la vita [...]), della mia vita si avrà la storia quasi per intero [...] Chi volesse anche conoscere la mia storia in forma musicale, ascolti il mio balletto Vita dell’uomo42.
Il romanzo sperimentale Hermaphrodito43, pubblicato nel 1918, è un variegato testo plurilingue, nel quale si intrecciano prosa e versi, autobiografia e romanzo, riflessioni e fantasie; è una sorta di diario di viaggio che racconta episodi della prima guerra mondiale, veri e al tempo stesso fantastici. Hermaphrodito non ha una struttura unitaria, né linguisticamente né stilisticamente, e gli episodi sono collegati soltanto tenuamente fra di loro. Spesso l’uso del linguaggio è ludico e provocatorio e mira a spaesare l’interlocutore. Anche i critici, di fronte a questo anti-romanzo, riman-
42. A. SAVINIO, Otto volante, scrittori allo specchio, in «Fiera letteraria», II, 8 (20 febbraio 1947), p. 8. 43. Edito per la prima volta dalla Libreria della Voce, fu ristampato con una Piccola guida alla mia opera prima da Garzanti nel 1947; indi Torino, Einaudi, 1974, con una nota critica di G.C. Roscioni (include anche il testo di Les chants de la mi-mort); ora in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 3-194.
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gono disorientati, e fioccano così le stroncature, inclusa quella di Prezzolini che definisce il libro «un bubbone indecente». Ma non manca chi sa apprezzare la novità dell’opera, come Papini, che la recensisce positivamente, anche se sottolinea la difficoltà di darne una definizione: Hermaphrodito non è un romanzo, benché vi siano più avventure che in un romanzo; non è un libro di poesie, benché vi sia più fantasia lirica che nella maggior parte dei libri di versi che si vedono in giro nel dominio di Casa Savoia; non è neppure un diario di spunti e capricci come il Giornale di Bordo di Soffici; e neanche una scompigliata sacchetta di frammenti come alcuni potrebbero immaginare o desiderare. È un libro che sembra un emporio levantino, un bazar di tappeti e d’ottoni, dove soltanto il padrone può ritrovarsi, dove il novizio si sperde, sbattendo il muso contro una lumiera di rame [...]. Un pezzo comincia in italiano e seguita in francese; isolotti di versi s’avvistano in mari distesi di prosa; i dialetti, la lingua franca, il greco, lo spagnuolo spiccano sulla stoffa italiana come scherzi di conterìe sopra un mantello unito; la lirica metafisica dà il posto all’erotica fantastica [...] Ma nel disordine c’è un ordine, nella stravaganza una ragione, nelle dissonanze un’armonia. Pochi libri, anzi, mi paiono compatti e unitari come Hermaphrodito. [...] Ma qui, come nell’opere d’arte create per necessità, tutte l’arti son presenti44.
Nella sua variegata ricchezza, Hermaphrodito è una sorta di preludio e preparazione alle opere successive, in cui i temi che le caratterizzeranno trovano una prima impostazione. Savinio stesso riconoscerà: Ho guardato Hermaphrodito in faccia e senza paura. Mi sono riconosciuto intero nella sua faccia. Tutto che io sono nasce da lì. Tutto che ho fatto viene da lì. Non c’è
44. In «Il tempo» 2 gennaio 1919 e anche in «Il resto del Carlino» 3 gennaio 1919; ristampata in G. PAPINI, Ritratti italiani (1904-1931), Firenze, Vallecchi, 1944; ora in Opere, Milano, Mondadori, 1977, pp. 715-720.
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idea, non c’è pensiero, non c’è concetto, non c’è sentimento, non c’è immagine da me espressi di poi in quella ventina di volumi che compongono la mia opera letteraria, in quel migliaio di pitture che compongono la mia opera pittorica, in quelle centinaia di pagine pentagrammate che compongono la mia opera musicale [...] nei tanti frammenti sparsi per giornali e riviste, nelle tante note segnate nei miei taccuini, e nelle innumerevoli parole da me pronunciate – non c’è nulla che non tragga da quella “pustola” e da quel “bubbone”, indecente l’una e malefico l’altro, ma straordinariamente fecondi ambedue. È nel male, o in ciò che agli uomini “sembra” male, la grande e misteriosa forza generatrice. O santa ripugnanza delle generazioni! Abbandono agli imbecilli il Bene, agl’impotenti il Niente, agl’infecondi la Merda Bianca. [...] Nessun altro libro, quanto Hermaphrodito, respira quell’aria libera, canta quel canto “scatenato”45.
Nel 1918, finita la guerra, Savinio si stabilisce a Roma. Qui, assieme agli artisti del vecchio gruppo dei «metafisici», cui si aggiungono anche altri pittori fra cui Soffici, dà vita ad un movimento artistico che troverà il suo punto di riferimento teorico nella rivista «Valori Plastici», ed in particolare nei suoi articoli di filosofia dell’arte. Savinio conduce anche un’intensa attività di critico, contraddistinta dall’applicazione di un acume inconsueto e da un generale atteggiamento ironico e irriverente. Savinio si occupa d’arte, di letteratura, di musica e di cinema; scrive prefazioni a libri e articoli su giornali e riviste, fra cui «La Ronda»46, «Il Primato» e «Il Mondo». Sotto una certa influenza appunto rondista, Savinio sembra avviarsi a un ripensamento delle proprie concezioni artistiche, apparentemente distaccandosi in chiave nazionalistica e regressiva dalle teorizzazioni delle avanguardie. Questo «revisionismo», benché esplici-
45. A. SAVINIO, Piccola guida alla mia opera prima, in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., p. 927. 46. La collaborazione di Savinio alla «Ronda» si protrae dal 1919 al 1922.
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tamente dichiarato in alcuni dei suoi articoli, è solo superficiale e di breve durata, e in realtà trova una scarsa corrispondenza nelle opere di questo periodo. A differenza di molti altri artisti, fra cui anche De Chirico, nel quale il «ritorno all’ordine» ha una profonda e duratura influenza, in Savinio, il gusto per l’intelligenza dissacratrice, lo spirito inquieto e critico, il respiro europeo prendono rapidamente di nuovo il sopravvento. Il secondo romanzo saviniano, La casa ispirata47, esce nel 1920 a puntate sul «Convegno» e poi in volume presso la casa editrice Carabba nel 1925. In questo testo Savinio presenta le proprie riflessioni sulla «mostruosità» del reale48, e sul senso di morte che lo pervade. È a partire da qui che il tema della morte, in seguito più e più volte ripreso e approfondito, diventa dominante, ma le riflessioni non sono tuttavia mai angosciose: «Pensa! Non individui più: sciolti nel nulla – nel tutto... Una parola ancora. L’ultima. In questa lingua che stiamo per abbandonare. Ascolta. Nascere è un atto individuale: morire è un atto universale. Il “nostro” atto universale. Il solo nostro atto universale. Questo il grande segreto della morte. Questo il suo immenso bene...»49. Anzi, la morte, compagna desiderabile che dà un senso alla vita, arriva spesso ad assumere connotati di evidente humour nero, che raggiungeranno il loro culmine nel racconto Il signor Münster in cui il protagonista, ormai morto, indugia ad osservare le situazioni ridicole create, come in una commedia degli equivoci, dal disfacimento del proprio corpo. In Casa «La Vita» Savinio
47. Ristampato da Adelphi nel 1986, ora in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 195-351. 48. Nel citato articolo sulla Drammaticità di Leopardi Savinio conferma: «Un terzo della nostra vita se ne va in sonno. Un altro terzo e forse più, e per taluni quasi due terzi se ne vanno in cecità. [...] Fuori della nostra cecità, alcune forme acquistano un aspetto ridicolo e spaventoso» (p. 123). 49. A. SAVINIO, Alcesti di Samuele [1949], Milano, Adelphi, 1991, a cura di A. Tinterri [include anche gli atti unici Il suo nome, La famiglia Mastinu ed Emma B. vedova Giocasta], p. 189.
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arriverà ad affermare: «ho cominciato a pensare alla morte quando ho cominciato a pensare. Pensare è una sineddoche [...] “pensare”, s’intende “pensare alla morte”»50. La casa ispirata, ambientato a Parigi, inizia quando, nel 1910, il protagonista-narratore arriva come pensionante dai Lemauzy-Constant, in apparenza una “tipica” famiglia borghese. Senza mai perdere un tono ironico e burlesco, Savinio inquadra uno spazio in cui tutto è avviato a un vertiginoso processo di decomposizione, e fa emergere il sinistro e l’orripilante presenti, anche se non visibili, nella realtà apparentemente più “normale”. È soprattutto l’atto del nutrirsi ad essere oggetto di una minuziosa analisi, e l’esagerata attenzione al cibo, esteriormente di ascendenza pulciana51, viene tramutata da Savinio in un’iniziazione all’orrido. L’arte culinaria praticata nella «casa ispirata», (e si deve ricordare come per Savinio il sintagma stia per «casa abitata da spettri») è basata sul culto del faisandé, cioè sull’uso di cibi in avanzato stato di putrefazione. È a tavola che i commensali si rivelano in tutta la loro rivoltante animalità, mentre una fosca Parigi fa da sfondo alla scoperta dell’ineluttabilità della morte e alla rivelazione della «mostruosità quotidiana»52. Le suppellettili, i mobili, le maniere, i comportamenti, i pasti, la vita di ogni giorno sono trasformati in una rappresentazione cupa e al contempo comica, specchio di
50. A. SAVINIO, Casa «La Vita» [1943], Milano, Adelphi, 1988, p. 12. 51. Luigi Pulci era uno degli autori preferiti di Savinio, come si può desumere dalle frequenti citazioni e da alcuni espliciti riferimenti. 52. Ad esemplificare l’atmosfera grottesco-surreale basti questo passo in cui il protagonista, per dimenticare la paura della morte, cerca di perdersi nella folla, che però gli si rivela come una sorta di galleria degli orrori: «Creature difformi, orribili mostri di natura evasi dalla nefanda corte dei miracoli, si aggiravano tra i tavolini offrendo oggetti singolarissimi, misteriosi strumenti, giocattoli allarmanti. Uno di costoro, sciancato idrocefalo e gobbo, si piantò davanti la terrazza, si appiccicò alla bocca un paio di labbra finte e stette a guardarci, illuso che noi plaudissimo a quell’osceno arnese di celluloide rossa» (La casa ispirata [1925], Milano, Adelphi, 1986, pp. 105107).
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una realtà sospesa fra il sogno e l’incubo, fra il fantastico e l’iperreale. Tramite questo procedimento di straniamento Savinio trasforma la realtà univoca in una realtà ambigua, in perenne metamorfosi, di cui addita le molteplicità e multiformità incontrollabili. Nella Casa ispirata traspaiono e agiscono quelle stesse considerazioni che, parallelamente, Savinio sta sviluppando nei suoi scritti critici. L’accento posto sul mondo del profondo e dell’inconscio va di pari passo con la scoperta delle opere di Freud, così come la rivelazione dell’ambiguità della realtà corrisponde al suo interesse per le tematiche pirandelliane. Già in un articolo di qualche anno prima, Anadioménon. Principi di valutazione dell’Arte contemporanea53, Savinio aveva definito il senso del fantastico come «ragione, parimenti cosmica, del continuo divenire», ovvero come «il punto, in continuo trasformarsi, del continuo appalesarsi degli aspetti». Fulcro dell’espressione artistica risultava così l’individuazione e l’osservazione dell’“interfaccia” fra fisico e metafisco: «È come il petto dello spirito che tocchi il lembo della zona inesplorata. [...] Tale è la genesi dell’arte [...] nella sua verità [...] si colmano le zone neutre che, pel comune, separano il reale dall’irreale, il fatto dal supposto, il fisico dal metafisico»54. Del 1920 è la stesura definitiva di Tragedia dell’infanzia, già iniziata nel 1919, e pubblicata vari anni dopo (1937). Si tratta di una raccolta di episodi autobiografici tesi ad illustrare la situazione conflittuale e la mancanza di comunicazione fra il mondo infantile e quello degli adulti. Savinio accompagna il lettore nel mondo onirico di se stesso bambino, alle prese con l’affascinante e doloroso processo di scoperta della propria differenziazione. La Tragedia dell’infanzia, come poi anche L’infanzia di Ni-
53. In «Valori Plastici», I, 4-5 (aprile-maggio 1919), pp. 6-8, 11, 14; ristampato in Alberto Savinio, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, giugno-luglio 1976), Milano, Electa, 1976, pp. 119-121. 54. A. SAVINIO, Anadioménon, cit., p. 120.
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vasio Dolcemare (1941), è in realtà incentrata sul problema del rapporto fra infanzia ed espressione artistica, fra educazione e repressione della fantasia; vi si percepisce fondamentale l’influenza del pensiero di Vico e di Freud, il primo quanto alla definizione dell’infanzia come luogo intellettuale della poesia, il secondo per l’uso degli strumenti analitici che permettono di superare una visione edulcorata e romantica dell’infanzia e impostare un’esame della struttura dei rapporti fra sé e mondo esterno, fra apprendimento e comunicazione.
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1925-1933: il «Teatro d’Arte» e il secondo soggiorno parigino Nel 1925 Savinio, insieme al fratello Giorgio, inizia a collaborare al «Teatro d’Arte» di Pirandello: sarà l’occasione anche per l’incontro con l’attrice Maria Morino, che sposerà l’anno seguente. Ma il ritorno al mondo del teatro costituisce soprattutto un passaggio di grande importanza nella sua evoluzione artistica: dopo più di dieci anni, Savinio torna ad occuparsi di quello che ha sempre considerato il luogo privilegiato dell’espressione artistica, dove si incontrano musica, parola ed immagini. E la frequentazione del «Teatro d’Arte» gli consentirà importanti approfondimenti e sperimentazioni. Se gli Chants de la mi-mort erano stati concepiti per il teatro, anche molte delle sue prose sottendono in realtà un impianto teatrale; oltre a scrivere pièces teatrali, balletti e opere liriche, Savinio si dedicherà ad ogni aspetto del teatro, come scenografo, costumista e regista, specie negli ultimi anni della sua vita. Il lato teatrale di Savinio è stato ampiamente messo in luce da un’esposizione allestita ad Aosta nel 1991, dedicata in particolare alla sua attività di scenografo e costumista55; altri importanti contributi sono stati pre-
55. Alberto Savinio pittore di teatro / Peintre de théâtre, cit.
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sentati nella mostra del 1997 sull’apporto alla scenografia teatrale dei pittori di avanguardia nel Novecento, in cui ampio spazio era dedicato appunto a Savinio56. Al «Teatro d’Arte» già nel 1925 viene rappresentata La morte di Niobe, «tragicommedia mimata e danzata» in un atto, di cui Savinio è autore sia del libretto che della musica57. L’accoglienza del pubblico, per la novità dell’opera e per il suo carattere dissacrante, non è favorevole, e lo spettacolo va in scena solo per una sera. Nonostante l’insuccesso, la sua collaborazione con il teatro di Pirandello non si limita a questo episodio e non si interrompe: Savinio traduce il libretto di Charles Ramuz per l’Histoire du soldat di Stravinski, esegue al pianoforte l’accompagnamento alla Gaia morte di Evreinov e soprattutto, in vista di una rappresentazione, scrive il dramma in tre atti Capitano Ulisse (1925) per il quale il fratello prepara i bozzetti della scenografia. Nonostante sia in cartellone per il 1926, a causa di problemi della compagnia58, il dramma non viene messo in scena, e, pubblicato in volume nel 1934, sarà rappresentato soltanto nel 1938, a Roma, dal teatro di Anton Giulio Bragaglia, con un’altra scenografia. Nel Capitano Ulisse, che Pirandello in una intervista sul «Resto del Carlino» del 21 febbraio 1926 definisce come
56. Sipario / Staged Art, Castello di Rivoli, Museo d’arte contemporanea, 20 febbraio-25 maggio, mostra e catalogo a cura di M. Fagiolo dell’Arco e I. Gianelli, Milano, Charta, 1997. 57. A. SAVINIO, La morte di Niobe, pubblicata come supplemento straordinario della «Rivista di Firenze», II, 1, maggio 1925, pp. 7-12; ristampata in Vita dei fantasmi, a cura di V. Scheiwiller, Milano, «All’insegna del pesce d’oro», 1962, pp. 69-80. 58. Per un esame dettagliato dei rapporti fra Savinio e il Teatro d’Arte, e in particolare degli avvenimenti che impedirono la rappresentazione di Capitano Ulisse (prima il cambiamento di sala teatrale, poi l’abbandono della compagnia da parte di Lamberto Picasso, infine lo scioglimento della compagnia stessa), si veda il saggio di Alessandro Tinterri, Alberto Savinio e il Teatro d’Arte di Luigi Pirandello, in «Teatro Archivio», 3, gennaio 1980, in cui l’intera vicenda è ricostruita attraverso le lettere di Savinio ai membri della compagnia.
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«Un’opera di ironia lirica sull’eterno mito dell’inquietudine di Ulisse»59, il protagonista è un Ulisse borghese, più prossimo ai personaggi di Ibsen che a quelli di Omero, ed incarna la più saviniana delle virtù: l’intelligenza, che lo condanna all’incompresione e all’esclusione. L’Ulisse saviniano è un «grande [...] incompreso [...] per eccesso di futilità»60 e non si può non ravvisare nei suoi tratti quelli dell’autore, progressivamente condannato anch’egli, per propria scelta, all’incomprensione generale. Collocato il mito in una dimensione dimessa ed ironica, Savinio stesso si propone come il vero protagonista quando descrive Ulisse come si farebbe con un amico, anzi, facendolo diventare una sorta di alter ego: «Anche Ulisse è un grande infelice»61, e come Savinio «costituisce un esemplare unico» e «non trova luogo in nessuna categoria riconosciuta»62. Come efficacemente precisato da Stefano Lanuzza, «Al pari di Strindberg, c’è in Savinio una monomaniaca insistenza sul tema del proprio Io, un “Io del Narcisismo” [...] che è luogo dell’immaginario, e, come in Ibsen, c’è un intento pedagogico accompagnato dalla coscienza della disillusione e della sconfitta dell’uomo»63. Savinio rivendica infine un teatro non naturalistico64, in cui musica e testo si sviluppano «con vita propria», spesso in provocatoria dissonanza. Il teatro deve infatti esaltare il carattere costruttivo della creazione artistica, in contrap-
59. A. SAVINIO, Capitano Ulisse, dramma in tre atti, Roma, Quaderni di «Novissima», 1934; traduzione in francese, Le Capitaine Ulysse, Paris, Fontaine, 1946; ristampato in «Scena», ottobre-novembre 1976, pp. 43-66; poi a cura di A. Tinterri, Milano, Adelphi, 1989, include la citata intervista di Pirandello, p. 149. 60. A. SAVINIO, Capitano Ulisse, cit., pp. 13-14. 61. Ivi, p. 13. 62. Ivi, p. 14. 63. S. LANUZZA, Savinio, cit., p. 97. 64. Sulla teatralità di Savinio «sospesa fra l'uso pirandelliano della parola e gli stilemi irrisori della “rivista” e della “farsa”», si veda quanto argomentato da Luca Valentino in L’arte impura. Percorsi e tematiche del teatro di Alberto Savinio (Roma, Bulzoni, 1991, p. 12).
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posizione alla rappresentazione realistica. Proprio nell’introduzione a Capitano Ulisse Savinio pone le sue puntuali coordinate: «La Storia dice la cosa com’è, il Teatro come dovrebbe essere»65. Il teatro resta sempre, come il Lanarà, «più vero del reale», così come, rispetto all’apparenza quotidiana, i sogni e le visioni sono più veri della realtà. Ancora alcuni anni più tardi Savinio tornerà sul tema chiedendosi: «Che cosa è in sostanza il teatro lirico? È l’abolizione della frontiera tra sogno e realtà. [.. ] È quella vita completa, quella vita “illimitata” alla quale l’uomo rinuncia allorché dalla larga e generosa adolescenza passa nella ristretta e avara vita dell’adulto; ma alla quale l’artista non rinuncia mai»66. Nel 1926 Savinio scrive anche il romanzo Capri 67, una parodia delle prose di viaggio, la cui struttura anticipa quella di Dico a te, Clio (1940). Il romanzo si propone come un vademecum dell’isola, ma non ha nulla della guida turistica: Capri assume le forme di un luogo mitico, tipicamente saviniano, chiuso nella leggenda e circondato da un mare popolato da mostri favolosi. Il protagonista, intento a passeggiare e conversare con statue o personaggi mitici, descrive gli eventi di cui è «testimone». La fantasia è lasciata libera, e Capri diviene lo spunto da cui si dipartono, in una atmosfera surreale, divagazioni che spaziano dai corsari alla pittura di Arnold Böcklin68.
65. A. SAVINIO, Capitano Ulisse, cit., p. 16. 66. A. SAVINIO, Soluzione, in Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di L. Sciascia e F. De Maria, con un’introduzione di L. Sciascia [Savinio o della conversazione], Milano, Bompiani, 1989, p. 1372. 67. Quest’opera è rimasta inedita fino al 1988 quando è stata pubblicata da Adelphi. 68. I quadri di Böcklin esercitarono su Savinio un fascino grandissimo. Uno dei quadri più significativi di Savinio, Le navire perdu del 1928, è una evidente citazione, nella sua struttura stessa, dell’Isola dei morti (Die Toteninsel, 1880) di Böcklin. All’artista svizzero è anche dedicata l’epigrafe all’Alcesti di Samuele, nonché uno dei racconti che compongono il libro Narrate, uomini, la vostra storia (pp. 29-47). Secondo M. Fagiolo dell’Arco
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La scrittura è carica di figure retoriche, di immagini e di ornamenti, mossi da una dinamica ostentatamente sovversiva, secondo quello che sarà lo stile caratteristico della scrittura saviniana69. Nel 1926 Savinio si trasferisce di nuovo a Parigi, dove, pur continuando a collaborare a riviste e giornali con articoli che vanno dalla critica musicale a quella teatrale, dalle riflessioni letterarie alle divagazioni aneddotiche, intensifica la sua attività di pittore, continuando così ad espandere la gamma dei suoi mezzi espressivi. Nel 1927 tiene la sua prima mostra personale a Parigi, alla galleria Bernheim, con una presentazione scritta dall’amico Jean Cocteau. Mentre in Italia il fascismo andava imponendo nella cultura una ottusa forma di autarchia, Savinio, che collabora, fra l’altro, a «Les feuilles libres» assieme a Tzara, Cendrars e Reverdy, sceglie di mantenersi nel flusso delle avanguardie internazionali, in stridente contrasto con la progressiva chiusura e provincializzazione dell’arte italiana. Il breve romanzo Angelica o la notte di maggio 70, pubblicato nel 1927 dalla casa editrice Morreale di Milano, è la storia del folle amore del Barone Felix von Rothspeer per Angelica, attrice di un teatro di varietà di second’ordine, misteriosa, torbida e verginale a un tempo. Pervasa da un’ambigua simbologia, l’opera è una parodia dei romanzi d’appendice e, insieme, un’affascinante rivisitazione del mito di Amore e Psiche in una luce surreale. L’a-
la fascinazione dei fratelli De Chirico per Böcklin risale addirittura alla fanciullezza, e precisamente al periodo della permanenza a Monaco di Baviera (M. FAGIOLO DELL’ARCO, Savinio, Milano, Fabbri, 1989, p. 38). 69. Per un’analisi puntuale e ricca di esemplificazioni dell’uso di figure retoriche, immagini e simboli nelle opere di Savinio, si veda la recente monografia di Silvana Cirillo, Alberto Savinio. Le molte facce di un artista di genio, Milano, Bruno Mondadori, 1997. 70. Milano, Morreale, 1927; ristampato Milano, Rizzoli, 1979, con un’introduzione di E. Siciliano; ora anche in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., p. 353-437.
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zione si svolge nella Grecia di fine Ottocento: il barone, uomo solitario e ormai insterilito nei sentimenti, si innamora della giovane attrice; riesce ad ottenerla dalla famiglia e a portarla nella sua casa, ma non riesce in alcun modo a parlarle: Angelica è come una bambola di cera, disponibile, eppure infinitamente lontana. L’atmosfera di una Grecia decaduta e sensuale, e soprattutto l’incanto del mondo del teatro rendono possibile lo svelamento alla società borghese, rappresentata da von Rothspeer, di una realtà autre, con la quale però non riesce a stabilirsi alcuna comunicazione: il barone, che non sa accettare la propria inettitudine ai sentimenti, finirà per essere travolto dalla gelosia e, dopo aver ferito Amore a revolverate, perderà ogni senno. Il romanzo, teatrale tanto nella struttura che nel soggetto, dipinge un teatro misterioso, sensuale e ammaliante, luogo di innamoramento, di scoperta dei sensi e di smarrimento della ragione, insomma un teatro che, ancora una volta, ripropone e ricrea le dense atmosfere del Lanarà. Quando nel 1928 nasce a Parigi la prima figlia, Savinio le darà il nome di Angelica, ariostesco, ma al tempo stesso anche esplicita autocitazione letteraria, e quindi carica di valenze simboliche. Mentre inizia la sua collaborazione a «L’Italiano» di Leo Longanesi, appare nel quarto numero della rivista parigina «Bifur» il suo racconto in francese Introduction à une vie de Mercure (1929)71 che nel 1945 verrà ripubblicato in volume dalle Éditions de la Revue Fontaine, nella collana «L’âge d’or», diretta da Henri Parisot. In questo lungo racconto, popolato da statue che camminano, da signore dalla testa d’uccello e così via, ritorna, come nelle prime opere di Savinio, uno stile più propriamente surrealista.
71. La prima versione italiana, curata da M. Enoch, con illustrazioni di L. Ontani, è pubblicata dalla casa editrice L’obliquo, Brescia, 1990; ora il testo è disponibile anche in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 439-460.
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L’autore lascia sbrigliarsi la fantasia, utilizzandola come una lente deformante capace di produrre effetti di un umorismo dissacrante. Per quanto riguarda l’attività di pittore, Savinio partecipa alla Biennale di Venezia del 1930 con alcune opere tra cui Uomini nudi, Ritorno del figliol prodigo e Il giuoco degli angeli.
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1933-1942:
IL DEFINITIVO RIENTRO IN ITALIA
Nel 1933, in seguito alla crisi economica in Francia, che ha colpito in modo particolare il mercato dell’arte portando molte gallerie alla chiusura, Savinio rientra in Italia e si stabilisce assieme alla famiglia a Villastellone, vicino a Torino, ospite della sorella della moglie. In questo periodo Savinio si dedica soprattutto alla pittura e realizza moltissimi quadri che espone in una “personale” a Firenze. Si trasferisce poi a Milano e quindi a Torino, ospitato con i suoi da un’altra cognata. Qui, nel 1934, nasce il secondo figlio, al quale Savinio dà un nome ancora ariostesco: Ruggero. Dopo il periodo parigino, in cui aveva raggiunto una certa serenità economica, vengono anni difficili: in Italia la sua opera pittorica non è capita né apprezzata quanto in Francia. Nel 1933, Savinio fonda e dirige la rivista letteraria «Colonna», e si dedica sempre di più alla letteratura. Nel 1937 traduce in italiano Vies des dames galantes (Vite delle dame galanti) dell’autore francese di fine Cinquecento Pierre de Bourdeille Brantôme72. Nel 1938 raccoglie nel volume Achille innamorato (Gradus ad Parnassum) 73 alcuni rac-
72. P. DE BOURDEILLE BRANTÔME, Le dame galanti, Roma, Formiggini, 1937; ristampato, Milano, Adelphi, 1982. 73. A. SAVINIO, Achille innamorato (Gradus ad Parnassum), Firenze, Vallecchi, 1938; ristampato in Tutta la vita, Milano, Bompiani, 19532, e poi
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conti già pubblicati su varie riviste e giornali fra il 1919 e il 1937. Sono racconti di netto tono surrealista, in particolare il racconto che dà il titolo alla raccolta, Achille énamouré mêlé à l’Evergète, scritto nel 1929 e pubblicato in francese nel 1933 sulla rivista ufficiale del movimento surrealista, «Le Surréalisme au service de la Révolution». I miti classici sono rivisitati, anzi, reinventati in uno stile che oscilla tra il tragico ed il grottesco: Savinio vuole restituire ai miti la loro «originale semplicità» e «banalità», mettendo l’accento sui dettagli, sui gesti e sulle parole quotidiane. Ci troviamo così davanti ad un Achille degradato a monumento, che svolge l’«edificante» mansione di rovina storica, visitato a pagamento dai turisti. È un Achille patetico che al ricordo della donna amata scoppia in pianto e allaga campagne e città. Fisicamente enorme, goffo, le sue tragicomiche sventure possono generare solo un riso dissacratorio. Analoga impronta surrealista è presente anche negli altri racconti, impostati sulla commistione fra materia inanimata ed esseri viventi, in una girandola di personaggi che vanno dal pianoforte suicida al commendatore De Magistris trasformato in roccia, secondo un’impostazione attiva anche nel Savinio pittore che rappresenta Apollo con una testa d’anatra e i propri genitori in forma di poltrone: la «poltromamma» e il «poltrobabbo»74, cioè i famosi mobili antropomorfici. Pia Vivarelli ha individuato nell’uso del mostruoso nella iconografia di Savinio una volontà di rappresentazione tragica, ancorché stemperata dagli effetti
Milano, Adelphi, 1993; ora in Casa «La Vita» e altri racconti, con uno scritto di A. Tinterri [Rapsodia saviniana], a cura di A. Tinterri e P. Italia, Milano, Adelphi, 1999, pp. 3-196. 74. «I mobili, come i ritratti, come le mummie per gli Egizi, sono la continuazione quaggiù dei nostri genitori, dei nostri parenti, dei nostri amici; e la poltrona nella quale usava sedere nostro padre dovrebbe continuare a rappresentarlo fra noi, in maniera immobile e silenziosa» (A. SAVINIO, Casa «La Vita», cit., p. 252).
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caricaturali: «Nei dipinti sul tema del mostruoso, i contesti spaziali si capovolgono e le immagini tendono ad espandersi in una situazione di “troppo pieno”, quasi che la proliferazione della natura sia sottoposta a un processo di accelerazione aberrante. Così volti e paesaggi sono colti quasi nel momento di una loro violenta infezione e le ironiche immagini metamorfiche si tramutano in presenze sempre più allarmanti o in visualizzazioni di paradigmi di “autorità” – i genitori, la religione, lo stato – che diventano mostruosi personaggi, della cui antica capacità di dominio rimane solo il simbolo del grande occhio, l’occhio divino giudicante. [...] Il colore si fa livido o terroso con qualche inserzione di tonalità violente, la forma si sfalda e la materia pittorica, sempre assai spessa, si coagula, nelle ultime tele, in grumi sul supporto. È il momento di maggiore tensione tragica della poetica saviniana che, nella situazione artistica europea, trova consonanze solo con la pittura di Francis Bacon. Tale tensione non giunge nelle opere saviniane ad espliciti effetti drammatici solo per la costante attenzione agli aspetti anche terribilmente caricaturali dei suoi genitori-mobili, delle Veneri gigantesse, dei centauri borghesi a passeggio»75. Nel 1940 Savinio pubblica Dico a te, Clio, diario di un viaggio nell’Italia centrale, in cui Savinio prende spunto dalle proprie memorie di viaggio per impostare un più vasto discorso sulla memoria collettiva e per approfondire le proprie riflessioni sulla nozione di storiografia76. Ancora una volta il soggetto originario di un libro si dissolve in divagazioni e argomentazioni che ne divengono il vero filo conduttore. Nella prefazione del libro, dedicato a Clio, musa della Storia, Savinio scatena la sua ostilità contro la storiografia ufficiale, cui fa corrispondere, in sede artistica,
75. P. VIVARELLI, Alberto Savinio. Catalogo generale, Milano, Electa, 1996, p. 13. 76. A. SAVINIO, Dico a te, Clio, Roma, Edizioni della Cometa, 1940; indi Firenze, Sansoni, 1946 e Milano, Adelphi, 1992.
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il realismo: «La storia è veramente la scienza di tutti, e come tale non ricorda se non quello che tutti possono vedere ed intendere, ossia il lato più vano degli uomini e delle cose»77. Per Savinio la «vera» Storia non è la scienza oggettiva degli eventi che sono accessibili ed evidenti a tutti, cioè la “macro-Storia”, ma consiste invece nella “micro-Storia”, costituita dalle vicende soggettive, dalle «azioni interne», insomma dalle esperienze individuali. La “macro-Storia” trova la sua ragione d’essere nelle mistificazioni messe in atto dalla tradizione metafisica occidentale, che di una serie di assunti ritenuti o imposti come universalmente validi, e quindi indiscutibili, ha fatto la base su cui la classe dominante fonda il proprio potere. La Storia, così com’è comunemente intesa, rientra quindi per Savinio fra quegli strumenti che provvedono a rassicurare l’individuo, mentre nel contempo ne delimitano l’orizzonte: «Clio, che in greco si scrive kleio e significa “chiudo”. Il nome della più severa delle nove muse rivela la vera funzione della storia, che è di “chiudere” via via le nostre azioni nel passato, a fine di toglierci il loro peso di sopra le nostre spalle e farci ritrovare ogni mattina un animo nuovo, in mancanza di un mondo nuovo»78. Savinio, anticipando Foucault, ritiene ormai tramontata l’idea della Storia come corso unitario degli eventi: l’unica Storia possibile va ricercata nella discontinuità e singolarità delle esperienze individuali. Si può facilmente immaginare la carica di eversività che un libro che definisce la Storia «maestra di vanità» rappresentò in un’Italia pervasa da un lato dall’ufficialità della retorica celebrativa, dall’altro dallo storicismo più o meno crociano dell’intellettualità. Savinio prosegue intanto la sua attività di giornalista, in particolare tenendo la rubrica «Torre di guardia» su «La
77. A. SAVINIO, La nostra anima [1944], Milano, Adelphi, 1981, p. 11. 78. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., pp. 109-110.
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stampa». Sotto lo stesso titolo della rubrica, nel 1977 Leonardo Sciascia curerà per Sellerio l’edizione in volume di una selezione degli articoli apparsi negli anni 1934-194079. Dal 1937 al 1939 Savinio collabora al settimanale diretto da Leo Longanesi «Omnibus», per il quale scrive critiche teatrali che testimoniano la continuità del suo interesse per questa forma espressiva. Gli articoli, che saranno raccolti a cura di Alessandro Tinterri nel volume postumo Palchetti romani (1982), spiccano per la loro originalità, ma anche per un’irriverenza che sconfina, data l’epoca, nell’eversione. Nel gennaio 1939, un mese prima delle celebrazioni in occasione della «tumulazione delle spoglie di Giacomo Leopardi al parco virgiliano di Napoli», per la quale un Giovanni Papini riformato e «ritornato all’ordine» pronuncerà «l’orazione di circostanza», Savinio pubblica sul settimanale di Longanesi un articolo intitolato Il sorbetto di Leopardi, in cui, dopo aver messo in luce l’«irrefrenabile ingordigia del “contino”, grande amatore di gelati, sorbetti, mantecati, spumoni, cassate e cremolati», conclude, illuminando il lettore sulla vera causa della morte del poeta: «Leopardi morì durante un’epidemia di colera, di una leggera colite che i napolitani chiamavano “a caccarella”»80. E lo scandalo non si fa aspettare. Sul «Mensile del Sindacato nazionale autori e scrittori» appare un articolo in cui Savinio viene definito scrittore «passatista» e dunque nemico del regime: «Il Savinio poteva risparmiare a sé più che a noi una manieratissima prosa che avrebbe potuto recare la firma di ogni antifascista di oltralpe. Firmato: Bovio, Venditti, Mancuso, Grassi». L’ironico articolo di Savinio, giudicato dal regime fascista come una diffamazione dell’immagine italiana e
79. Nel volume sono stati inseriti anche alcuni articoli critici di Savinio sulla filosofia delle arti apparsi nel 1921 su «Valori Plastici». 80. A. SAVINIO, Palchetti romani, a cura di A. Tinterri, Milano, Adelphi, 1982, pp. 12-13.
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quindi antipatriottico e subdolamente antifascista, provocherà l’immediata chiusura di «Omnibus». Il fatto ha immediate ripercussioni sulle finanze di Savinio, dato che l’attività di giornalista era la sua unica fonte regolare di guadagno. I mesi seguenti sono quindi segnati dalle difficoltà economiche, finché non incomincia a collaborare al settimanale «Oggi», diretto da Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio, firmando con lo pseudonimo di Quintilio Maio, che continuerà ad usare fino al 194281. Nel 1941 Savinio pubblica per Mondadori Infanzia di Nivasio Dolcemare, secondo romanzo dedicato al tema della fanciullezza, di evidente carattere autobiografico. Scritto con piglio brioso e divertito, il libro mantiene decisamente un tono romanzesco, pur non rinunciando a discutere temi di teoria dell’arte. Nel libro Savinio racconta le prime esperienze della sua formazione nel cammino verso la soggettività, che si snodano attraverso una descrizione sorridente di una Europa mondana e salottiera. Mentre nelle altre opere i personaggi sono puramente simbolici, e l’unico vero personaggio è Savinio stesso alle prese con le proprie riflessioni, in Infanzia di Nivasio Dolcemare i personaggi sono costruiti con caratteri realistici, a tutto tondo. Lo stile lussureggiante, le atmosfere dense di effetti magici e l’efficacia delle psicologie dei personaggi fanno di questo romanzo una delle sue opere più riuscite dal punto di vista dell’impianto narrativo. In questi stessi anni Savinio prosegue un’intensa collaborazione a varie riviste e quotidiani, tra cui: «Domus», «Prospettive», «Pesci rossi», «Città», «Il Tempo», «Affari internazionali», «La fiera letteraria», «La rassegna d’Italia», «Il corriere della sera», «La stampa», «Corriere d’informazione». Le numerose critiche musicali pubblicate fra il 1940 ed
81. Anche i direttori di «Oggi», Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio, erano reduci di «Omnibus».
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il 1946 verranno raccolte nel volume Scatola sonora, edito postumo nel 1955 dall’editore Ricordi82. Una parte degli articoli pubblicati nel 1941 su «Domus» nella rubrica intitolata Nuova enciclopedia saranno raccolti in volume, sotto questo stesso titolo, durante il revival, stimolato dalla casa editrice Adelphi, alla fine degli anni Settanta83. Nei primi anni ’40 Savinio scrive recensioni di teatro e di musica anche per «Il popolo di Roma». Ancora a cavallo fra gli anni ’30 e ’40 va collocato il suo incontro con Fabrizio Clerici, per il quale scriverà la prefazione a Dieci litografie (1942) dietro le cui figure ibride e mostruose è leggibile la profonda influenza dell’estetica di Savinio. 1942-1952:
LA MATURITÀ
Nell’ultimo decennio della sua vita l’attività di Savinio si fa febbrile e le pubblicazioni si susseguono a ritmo serrato, quasi l’autore avesse coscienza della fine prematura che lo attende. Dopo aver definito in Dico a te, Clio che cosa la Storia non deve essere, con Narrate, uomini, la vostra storia (Bompiani, 1942)84 Savinio dà un esempio di storiografia innovatrice che, pur rispettando il dato documentale, è più interessata a ricreare i personaggi che a descriverli, a ridare loro vita più che a cristallizzarli. Come in molte altre occasioni, Savinio stesso fornirà in un’opera successiva, Vita di Enrico Ibsen, la chiave di lettura delle sue «biografie semiimmaginarie», sottolineando il contrasto fra la propria visione e quella tradizionale:
82. Con un’introduzione di F. Torrefranca [Poetica di Savinio critico musicale], Milano, Ricordi, 1955; ristampato con un’introduzione di L. Rognoni [Itinerario musicale di Savinio], Torino, Einaudi, 1977. 83. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit. 84. Ripubblicato fino al 19775 dalla stessa casa editrice, sarà poi riproposto da Adelphi nel 1984 e nel 19882.
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I biografi scrivono le biografie per registrare la vita del biografato, per mostrarlo a tutti, come si erige il monumento di un uomo illustre in mezzo a una piazza, con lo stifelio, il cappello duro e un rotolo di carte in mano. Da Plutarco a Giuseppe Chiarini (per tacere dei viventi) i biografi sono dei fotografi di fotografie per tessere [...] La biografia per noi è un gioco segreto. Noi scriviamo di tanto in tanto anche delle biografie, per desiderio di compagnia: per farci un gruppo di amici; per aumentare il numero dei nostri figli... [...] E se taluno, come il povero Cavallotti, non ha avuto elogio da noi e soprattutto non ha avuto ‘serietà’, egli del pari ci è riconoscente e ormai fedele per sempre, perché abbiamo saputo meglio di nessuno, e soprattutto meglio di se stesso, scoprire i suoi poveri segreti [...] Non sempre mediante favori e benefici noi leghiamo a noi un uomo (o una donna) e lo facciamo nostro: talvolta è col ferirlo che arriviamo a questo fine, col vilipenderlo, con lo smascherarlo85.
La biografia è per Savinio un modo di creare interlocutori per la propria conversazione: proprio come dei vecchi amici, i personaggi delle biografie saviniane sanno soprattutto ascoltare. Non casualmente, nell’ambito della passione di Savinio per l’intreccio di richiami e riferimenti fra le sue varie opere che si forniscono l’un l’altra commenti e interpretazioni, nel disegno del 1940 Farsi degli amici, l’autoritratto dell’artista è circondato dai volti di alcuni dei personaggi di Narrate, uomini, la vostra storia. Le quattordici «biografie» che compongono il libro si snodano con strutture squisitamente romanzesche, in cui si mescolano i piani narrativi e le sequenze temporali, senza sottomettersi alla logica della Storia. Nostradamus, Eleuterio Venizelos, Felice Cavallotti, Paracelso, Arnold Böcklin, Jules Verne, Vincenzo Gemito, Collodi, Antonio Stradivari, Guillaume Apollinaire, Giuseppe Verdi, Lorenzo Mabili,
85. A. SAVINIO, Vita di Enrico Ibsen, cit., pp. 61-65.
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Cayetano Bienvenida e Isadora Duncan sono scelti non per la singolarità delle loro vite, ma delle loro morti: tutti infatti hanno saputo esaltare, o meglio, sintetizzare anche nella morte, la loro identità, ovvero hanno dimostrato di «saper morire». Savinio conferma di guardare alla morte non come a una tragedia né tantomeno come a una transizione verso un al di là in cui d’altronde non va riposta troppa fiducia, ma piuttosto come al finale di un’opera, che riassume in sé il senso di una vita che, tutta, a quella morte tendeva. Dare un buon finale alla propria vita è insomma non solo un fine etico, ma anche una questione di stile. Nel 1943 Savinio pubblica da Bompiani Ascolto il tuo cuore, città86, raccolta di novelle dedicate a Milano, sia quella vera, fatta di vie, piazze, monumenti, sia quella ideale, simbolo vivo di valori urbani, di cultura, tolleranza, generosità. Questo testo, dichiaratamente reminiscente delle stendhaliane memorie di viaggi in Italia (l’autore francese viene spesso indicato da Savinio fra i «Grandi Dilettanti» a cui ispirarsi)87, presenta elementi di grande interesse anche dal punto di vista della poetica; in particolare nel racconto Lelefante, Savinio delinea la specifica funzione della freddura, che è uno degli ingredienti essenziali del suo umorismo: «A che imputare l’avversione [...] alla freddura? La risposta è forse in quella gioia bestia-
86. A. SAVINIO, Ascolto il tuo cuore, città, Milano, Bompiani, 1943 e 1944; ora Adelphi, Milano, 1984. 87. Nell’introduzione ai Dialoghi e saggi di Luciano, Savinio scrive: «Luciano sta nella compagnia dei Grandi Dilettanti: nella compagnia di Montaigne, di Stendhal, di Nietzsche: in quella compagnia nella quale noi stessi aspiriamo di entrare e che è il circolo più selezionato, [...] il Circolo [...] dell’umanità mentale; nella compagnia di quegli uomini che si sono sciolti dalle tristi necessità e tutte le ragioni della vita hanno risolto in forma di diletto: quegli uomini che hanno “traversato” la profondità. I quali poi sono i soli, i veri uomini “superiori”, i più spiritosamente superiori perché i più “leggeri”: i più “alleggeriti”» (LUCIANO DI SAMOSATA, Dialoghi e saggi, introduzione, note e illustrazioni di A. Savinio, traduzione di L. Settembrini [1944], Milano, Bompiani, 1983, pp. 39-40).
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le [...] che la freddura come distruttrice di significati consacrati suscita nell’uomo, ossia nel carattere iconoclastico della freddura»88. La freddura è il gesto terroristico per eccellenza, capace di sgretolare il significato delle parole, agendo sul linguaggio, cioè sul pensiero al suo livello più fondamentale. Il libro è costruito come una pacata conversazione, uno straordinario arazzo in cui, sulla trama di un percorso quasi turistico attraverso la città, si ricamano disquisizioni architettoniche, dibattiti artistici, citazioni letterarie, divagazioni autobiografiche, ma soprattutto innumerevoli «incontri»: squarci biografici e aneddotici, da Apuleio a Carrà, da Apollinaire a Ungaretti, da Boito a Verdi. Con un richiamo ricorrente ai viaggi stendhaliani, che si manifesta non solo nell’analogia delle atmosfere e nello spirito degli aneddoti, ma in riferimenti espliciti nel testo, Savinio costruisce una galleria di ritratti di palazzi, statue e esseri viventi, tutti ugualmente ricchi di personalità, fino a formare un’immagine di Milano non tanto come luogo geografico quanto come sede, quasi iniziatica, di una visione del mondo sobria ed ironica ad un tempo, propria di chi sa di aver costruito il proprio destino, e di non dovere fede o gratitudine né a una ideologia né a una religione. Nel 1943 esce a puntate sul periodico «Film» un’altra «biografia»: Vita di Enrico Ibsen, che sarà pubblicata in volume soltanto postuma (Adelphi, 1979). Si tratta essenzialmente di un infervorato monologo in cui, nella linea più tipicamente saviniana, Ibsen non è già l’oggetto, quanto la silenziosa controparte. Così, mentre da un lato si sviluppa apertamente il tema autobiografico («Nello scrivere la tua vita non avevo l’impressione di scrivere “una” vita, ma mi pareva di scrivere la mia propria»89), dall’altro si affrontano di volta in volta gli argomenti più vari. Ma anche in questa
88. A. SAVINIO, Ascolto il tuo cuore, città, cit., p. 220. 89. A. SAVINIO, Vita di Enrico Ibsen, cit., p. 77.
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opera il tema profondo, quello più caro a Savinio e che non cessa di svilupparsi ed approfondirsi di opera in opera, è quello del ruolo e del significato dell’arte, ed in particolare quale sia il “reale” che essa deve rappresentare. Nella Vita di Enrico Ibsen Savinio dibatte così le ragioni dei propri quadri, dei racconti grotteschi, dei lapsus, fino a concludere, con squisita interferenza con le ragioni del libro stesso: «Coloro che leggererano questa tua vita scritta da me, diranno che della tua vita si dice ben poco e si fanno invece molte divagazioni. Perché non sanno»90. Nello stesso anno Savinio pubblica anche i racconti di Casa «La Vita», che costituiscono una sorta di summa del suo pensiero lungo i temi centrali dell’infanzia, della morte e del mito. Simbolicamente, il libro si apre con un’allusione all’Atene della sua infanzia e si conclude con il racconto che dà il titolo al libro e che s’impernia attorno alla ricerca del «senso della vita e della morte». Un altro significativo racconto, Figlia d’imperatore, è ambientato nella Parigi degli anni Dieci, quella delle «Soirées de Paris», di cui descrive i protagonisti, da Marie Laurencin a Picasso, da Léger a Archipenko, ripercorrendo in particolare l’amicizia con Apollinaire. Casa «La Vita» rappresenta la mise en scène delle paure della società borghese verso quei temi di cui, per una ragione o per l’altra, non si può o non si vuole parlare: il tempo che passa, le malattie, il sesso e, soprattutto, la morte. Racconti quali Figlia d’imperatore e Angelo sono interamente dedicati proprio al «transito del tempo, che è come dire all’avviamento alla morte»91, mentre altri, come Il signor Münster, nascono direttamente dal pensiero della morte. Già nell’incipit di quest’ultimo racconto viene sottolineato che la morte è la dolcezza più alta che si possa raggiungere: «Da quando dormiva in salotto, il signor
90. Ivi, p. 84. 91. A. SAVINIO, prefazione a Casa «La Vita», cit., p. 11.
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Münster sognava ogni notte di cadere. Il sonno del signor Münster era una lotta molle e disperata per aggrapparsi alla soglia di una porta che apriva sul vuoto [...] Infine il distacco tanto temuto avveniva, e il signor Münster cominciava a scendere planando l’interminabile spirale del vuoto. Quale sorpresa! Il paventato distacco non veniva come il male supremo, ma come la suprema liberazione»92. Il protagonista del racconto si trova a assistere alla propria morte vivendo la singolare esperienza di restare cosciente all’interno di un corpo ormai defunto. Egli si rende bruscamente conto del suo nuovo inquietante stato, ma il passaggio che lo porta ad una consapevolezza della propria nuova condizione di morto pensante si realizza con leggerezza e come par hasard: «Il fetore continua a salirgli come un filo su per le narici. “È il dente in cura” pensa il signor Münster. [...] Ha riconosciuto l’orrendo fetore [...] e d’un tratto, attraverso il grasso, l’osceno profumo delle rose, egli sentì l’odore della morte. Ora, dopo trentasei anni, ecco quello stesso fetore che risale su dal passato. Ma questa volta non viene di fuori: è dentro di lui, gli sale su dai visceri, gli riempie la bocca, le narici... [...] Malgrado il terrore che lo stringe, una idea oscura e maestosa riempie il Signor Münster. Il suo corpo che tra poco – egli lo sa – marcirà, andrà a pezzi, egli lo sente come un misterioso tempio. Le più profonde formazioni della vita si compiono nel lezzo»93. E come sovente avviene nei libri di Savinio, il registro tragico viene eluso spezzando la tensione drammatica con innesti ironici e divagazioni improvvise. Savinio delinea il graduale processo di crescita dell’entropia, fino al totale disfacimento del signor Münster, attraverso la rappresentazione della lenta decomposizione di un corpo umano, che assume spesso tratti comicamente grotteschi: «e si darebbe
92. Ivi, p. 247. 93. Ivi, pp. 256-258.
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anche una fregatina alle mani, se non temesse che nello sfregamento le dita gli cadano in pezzi»94; «non fosse per l’orrendo fetore che sempre più denso gli sale dai visceri, sarebbe – perché non dirlo? – felice»95. Con il passaggio dallo stato di vivo a quello di morto la percezione del signor Münster si acuisce, e da una concezione esteriore della vita e delle cose egli passa in effetti ad una conoscenza interiore. Lo sguardo del signor Münster attraversa lo spazio e il tempo, fino a raggiungere gli dei dell’Olimpo: «Ora i suoi occhi vedono ciò che finora non avevano mai veduto, ciò che nessun occhio umano ha mai veduto, e solo una percezione straordinaria, l’ultima e più acuta consente di vedere: ciò che vede l’occhio di un santo, di un facitore di miracoli, di un dio in efficienza – ciò che vede l’ultimo sguardo di uno che muore. Si scoprono i tessuti dell’aria, i paesaggi celesti, le immagini dei cieli più antichi, intatte nella forma e col brillio ancora dei colori originali. [...] Lo sguardo del signor Münster si acuisce anche di più. Vede più lontano. Vede più profondo. Vede più antico. Vede Giove seduto, con la barba turchina [...] Vede Mercurio che per diporto vola ancora in obliquo, reggendo a braccio teso un bastone e fingendo di recapitare delle lettere. [...] Anche l’orecchio del signor Münster si è fatto straordinariamente acuto. Il suo udito “salta” come il getto di una siringa prodigiosa, e fa in tempo a raggiungere in spazi lontanissimi il suono delle campane che quattro ore prima hanno sonato»96.
È proprio lo stato di morto-pensante che consente al signor Münster di operare una minuziosa scomposizione della realtà che lo circonda. All’interno e grazie a questa atmosfera paradossale, Savinio gioca con i confini che defi-
94. Ivi, p. 273. 95. Ivi, p. 271. 96. Ivi, pp. 280-281.
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niscono l’io: la separazione fra vita e morte, fra soggetto e oggetto e fra i sessi. Ad esempio, provando il desiderio di espandersi e di ricongiungersi con la natura, e quindi di concedersi una passeggiata post-mortem, egli decide di travestirsi da donna con gli abiti della moglie, e si rallegra di questa «idea carnevalesca» in quanto «C’è in essa un “divertente”, un “curioso”, un gusto, un “equivoco”. [...] All’origine di ogni grande operazione c’è una idea equivoca, e quasi sempre maligna. Le idee ”pure” sono senza movimento»97. Ma per il signor Münster l’esperienza della morte è, soprattutto, una regressione, una sorta di ritorno al grembo della terra, grande madre e origine dell’esistenza: «D’improvviso una grande fretta lo prende, un’ansia invincibile [...] di avvicinarsi alla natura e immergersi in essa, per ritrovare assieme con quella non più promessa ma certezza di amore, anche quel remoto e misterioso tepore, quel sonno dolcissimo e così vicino al risveglio, il cui ricordo ora nitidamente gli ritorna dai tempi che hanno preceduto la sua nascita»98. Savinio porta, di fatto, alle estreme conseguenze uno dei suoi temi prediletti, cioè la rappresentazione della materia che si trasforma nello spazio e nel tempo: «Ma quanti vedono negli altri (e in se stessi) la continua “trasformazione” alla quale l’uomo è soggetto e che continuamente lo muove? Uno dei principali compiti dell’artista è di guardare l’uomo (e la natura) nel suo continuo moto trasformativo»99. Per Savinio, che ha fatto propria la dottrina del perpetuo divenire di Eraclito, la vita non è altro che morte, la «vita naturale [...] è tutta movimento e transito, e dunque una continua morte»100. Nei racconti di Casa «La Vita» si ripropone, in particolare nel racconto Variante di Casa «La Vita», anche un altro tema cardinale: quello del linguaggio. L’autore si 97. Ivi, p. 282. 98. Ivi, p. 281. 99. A. SAVINIO, Fine dei modelli, in Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra, cit., pp. 472-473. 100. A. SAVINIO, Tutta la vita [1945], Milano, Bompiani, 19532, p. 36.
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compiace di inventare deformazioni linguistiche sottolineando l’ambiguità dell’espressione verbale, fino ad elaborare quella “poetica del lapsus” che costituisce uno dei fondamenti della sua concezione artistica. Il libro si chiude proprio su un’impertinente sterzata linguistica che frantuma il generale senso di morte:
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Aniceto è di là dallo stupore, di là dalla paura. Solo questa stanchezza gli rimane e, adagiato su essa, un residuo di quel suo antico gusto di giocare con le parole. E pensa: La casa dello Zio, La casa dell’Ozio101.
Nel 1944 Savinio cura l’edizione di Venti racconti di Guy de Maupassant con lui e l’altro di Alberto Savino (Roma, Documento editore), cui antepone un’ampia prefazione che anni dopo sarà ristampata a sé stante a cura di Giacomo Debenedetti con il titolo di Maupassant e «l’altro» (Milano, Il saggiatore, 1960)102. Anche in questo saggio il dato autobiografico prende il sopravvento: l’analisi dell’isolamento di Maupassant, «altro» rispetto alla cultura del suo tempo, diviene quella dell’attività di Savinio, e infine riflessione sulla realtà stessa. Nello stesso anno Savinio cura per Bompiani l’edizione dei Dialoghi e Saggi e della Storia vera di Luciano di Samosata. L’autore greco viene eletto a modello ed esempio di artista, accomunato per chiarezza di spirito, ironia e libertà di pensiero a Voltaire e, ovviamente, al curatore stesso: Luciano era perfetto, liberato dalla “materia” dei sentimenti, puro di storia, mondo di divenire. [...] L’uomo arriva alla perfezione quando nulla più lo lega all’ambiente nel quale
101. A. SAVINIO, Casa «La Vita», cit., p. 325. 102. Quindi Milano, Adelphi, 1975, 19822.
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vive, né più è implicato nelle cose del suo tempo e sta veramente sopra le cose come un dio. Non è questa forse la ragione dell’odio che Luciano suscitò intorno a sé? Questa sua libertà – questa sua indipendenza in mezzo agli schiavi? [...] E quale effetto d’altra parte, quale irritante effetto, quale odio, quale invidia vedere tra uomini gravati ciascuno della propira soma, un uomo che apparentemente non porta peso sulle spalle, non è immerso nel travaglio della vita, non soffre ma vive sulla superficie (non si considera “allora” se questo vivere sulla superficie è stato conquistato e talvolta dolorosamente) e respira libero, e si guarda attorno tranquillo e giudica “senza partecipare della sofferenza comune”, ossia un Luciano, un Voltaire, un “io stesso”103.
Per questi testi Savino disegna anche una ricca serie di vignette in cui i personaggi mitici proposti da Luciano sono trasformati con erudita comicità in ibridi, metà animali e metà borghesi contemporanei. Sempre nel 1944 Savinio scrive anche le introduzioni a La Città del Sole di Tommaso Campanella, e all’Utopia di Tommaso Moro, ma soprattutto pubblica La nostra anima, nuova rivisitazione del mito di Eros e Psiche alla luce di una surreale e grottesca psicoanalisi, e testo chiave per la comprensione della rimeditazione saviniana delle teorie freudiane, in particolare nell’ambito dell’analisi del linguaggio. Gli anni ’40 rappresentano per Savinio un momento di intensa produzione e di sistemazione editoriale, ma anche creativa, di scritti precedenti. Così nel 1945 pubblica i racconti di Tutta la vita104, galleria di personaggi caricaturali,
103. A. SAVINO, Introduzione a LUCIANO DI SAMOSATA, Dialoghi e saggi, cit., pp. 16-18. 104. Pubblicato per la prima volta da Bompiani nel 1945, e quindi nel 19532; nel 19693 con Achille innamorato e racconti editi e inediti. Nella seconda e nella terza edizione sono inserite anche tredici riproduzioni di dipinti e disegni di Savinio. L’opera è ora compresa in Casa «La Vita» e altri racconti, cit., pp. 553-694.
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in cui l’umorismo viene sistematicamente utilizzato per snidare le contraddizioni, le meschinità e le falsità della società borghese. Si ricollegano in questo ai racconti di Achille innamorato, con cui sono stati in effetti pubblicati in alcune edizioni successive. In Sorte dell’Europa (1945) sono raccolti gli articoli di carattere politico scritti nei due anni precedenti, in cui viene precisata la concezione saviniana di una politica guidata dall’intelligenza critica, contro tutti i dogmatismi. È dello stesso anno anche la pubblicazione di Souvenirs105, una raccolta di scritti degli anni Venti e Trenta, legati in particolare al secondo soggiorno parigino, che non riportano solo memorie personali, ma forniscono una ricca testimonianza delle attività delle avanguardie, cui si affiancano numerose pagine di critica, fra le quali una serie di articoli dedicati al cinema. Ancora del 1945 è la prefazione alla Vita privata di Federico II di Voltaire. Nel dopoguerra Savinio privilegia soprattutto l’attività teatrale, e dal 1948 inizia a collaborare come scenografo e regista con il Teatro alla Scala, curando l’allestimento di quattro spettacoli: l’Œdipus Rex di Cocteau-Stravinski, I racconti di Hoffmann di Offenbach, l’Uccello di fuoco di Stravinski, l’Armida di Rossini. Pubblica inoltre vari testi teatrali: La famiglia Mastinu106, in cinque quadri (1948, prima rappresentazione: Bologna, 1953), il monologo Emma B. vedova Giocasta (1949, prima rappresentazione: Roma, 1952), la tragedia Alcesti di Samuele (1949, prima rappresentazione: Milano, 1950), l’opera in un atto Orfeo vedovo (parole e musica; prima rappresentazione: Roma, 1950 e poi Milano, 1974), e l’opera radiofonica Agenzia Fix, atto unico in 16 episodi (1949, scritta per la RAI, eseguita radiofonicamente nel 1950).
105. A. SAVINIO, Souvenirs, Roma, Nuove edizioni italiane, 1945; ristampato nel 1976 e nel 1989 da Sellerio.
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Nel 1951 viene rappresentata con notevole successo al Teatro alla Scala la tragicommedia Vita dell’uomo, per mimi e danzatori, basata su un soggetto risalente al 1946. Savinio è autore anche delle musiche e della coreografia. Fra il 1949 e il 1952 pubblica sul «Corriere della sera» ventotto racconti che saranno raccolti in un volume postumo sotto il titolo Il signor Dido107. Questi racconti rappresentano quasi un testamento spirituale che si contrappone all’Infanzia di Nivasio Dolcemare, in quanto vanno a costituire un “ritratto dell’artista da vecchio”. Il signor Dido, pittore, vero alter ego di Savinio, tanto «deluso ed esiliato» da suicidarsi, non rinuncia tuttavia alla difesa della propria opera, non desiste, fino alla fine, dal tentare di chiarire il senso della propria arte, che, come quella di Savinio, il pubblico ha così poco capito nella sua natura essenziale, e che con eloquente e concisa espressione viene definita come ricerca dello «psichismo delle forme»108. All’indomani del grande successo della sua regia dell’Armida di Rossini per il «Maggio musicale fiorentino»109, Alberto Savinio muore a Roma il 5 maggio 1952. Molti anni prima egli stesso aveva indicato il valore di scelta presente anche nell’atto della morte: «il signor Münster capì finalmente quale specialissimo riguardo gli aveva usato la sorte offrendo ai suoi occhi di morto quella magnifica visione del passato, ossia la visione dell’av-
106. Nel 1990 Egisto Marcucci ha riproposto un adattamento della Famiglia Mastinu al Teatro della Tosse di Genova, interpreti principali Carla Peirolero, Lorella Serni, Enrico Campani, Aldo Amoroso, Dario Manera, scene e costumi di Emanuele Luzzati, musiche di Bruno Coli. 107. A. SAVINIO, Il signor Dido, Milano, Adelphi, 1978 e 1984, ora in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 689-837. 108. A. SAVINIO, Il signor Dido, cit., p. 765. 109. Sulle scenografie di Savinio per Armida, si veda in particolare C. NUZZI, L’Armida di Savinio, con fotografie di Valerio Signorini, in «FMR», 7, 1982, pp. 99-116.
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venire nel quale egli era per entrare; e terminò la sua morte nel sentimento ineffabilmente felice di una nascita cosciente e che l’uomo si è scelta da sé»110.
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LA
FORTUNA POSTUMA
Nel corso della sua vita l’atteggiamento della critica nei confronti di Savinio fu sostanzialmente avverso e spesso addirittura astioso; ancora oggi le antologie e le storie della letteratura per lo più scelgono il silenzio, o esprimono giudizi fortemente critici. Tuttavia, a partire dagli anni ’70, all’interno di un riesame del ruolo delle avanguardie italiane, si è avviata una reale riscoperta dell’opera di Savinio. È stato in particolare Leonardo Sciascia a promuovere la ripubblicazione delle sue opere, che poi è proseguita a ritmo sempre più serrato, e continua tuttora, presso le case editrici Bompiani, Einaudi e, soprattutto, Adelphi111. Assai significativa è anche la pubblicazione di un numero sempre maggiore di traduzioni dei libri di Savinio in varie lingue112.
110. A. SAVINIO, Postilla a «Il signor Münster», in Casa «La Vita», cit., p. 293. 111. Adelphi sta ora pubblicando un’edizione che per la prima volta raccoglierà in volume tutta l’opera letteraria di Savinio. Nel 1995 è uscito il primo volume, a cura di Alessandro Tinterri e con una introduzione di Alfredo Giuliani, in cui sono pubblicati Hermaphrodito, La casa ispirata, Angelica o la notte di maggio, Introduction à une vie de Mercure e le Avventure e considerazioni di Innocenzo Paleari. Il secondo volume, apparso all’inizio del 1999, contiene i racconti di Casa «La Vita», Tutta la vita, Achille innamorato e altri racconti, con un’introduzione di A. Tinterri [Rapsodia saviniana], a cura di A. Tinterri e P. Italia. Il terzo volume conterrà le prose di viaggio e le biografie. Nel quarto volume saranno inclusi testi saggistici quali la Nuova enciclopedia, Sorte dell’Europa e Souvenirs, mentre i volumi successivi saranno dedicati agli scritti sul teatro, sul cinema, sulla musica e sull’arte in generale. 112. Nella bibliografia è riportato un elenco delle principali traduzioni.
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Contemporaneamente si è assistito ad un fiorire di mostre dell’opera grafica e pittorica di Savinio, che hanno spesso fornito l’occasione per importanti approfondimenti critici delle sue opere, tanto letterarie che pittoriche113, musicali o scenografiche. L’atteggiamento della critica si è d’altra parte trasformato in un sempre più marcato interesse, che ha dato luogo a numerosi saggi analitici e interpretativi sia in forma di articolo che di libro. La riscoperta dell’opera di Savinio va certamente attribuita alla rilevanza che alcune delle tematiche del suo universo creativo, e soprattutto alcune delle sue scelte espressive e stilistiche hanno avuto sull’arte degli ultimi decenni, in cui il grottesco, il mostruoso e più in generale l’emergere della corporalità nella rappresentazione dell’inconscio hanno avuto un ruolo molto importante, ponendo in una luce nuova la creazione artistica di Savinio. Proprio a proposito della rilevanza e dell’influenza dell’opera e dei temi saviniani sull’arte del Novecento, Anneli Fuchs, curatrice della grande mostra allestita alla fine del 1997 dal museo Louisiana d’arte moderna di Humlebæk in Danimarca, ha scritto: «In uno dei suoi saggi Jorge Luis Borges ha proposto l’ipotesi, apparentemente paradossale, che un artista crei i propri precursori. Ma questa affermazione, se esaminata più da vicino, non sembra poi tanto paradossale. È solo dopo che l’opera di un artista è apparsa che ci si rende effettivamente conto di che cosa l’ha preceduta, in altre parole di che cosa ne può essere definito precursore. Inoltre, sono spesso gli artisti del presente che costituiscono il punto di partenza della nostra comprensione e del nostro apprezzamento delle opere di artisti precedenti, senza che questi siano stati necessariamente dei loro precursori. Questo si direbbe essere proprio il caso di Savinio. Azzarderei l’ipotesi che la “sco-
113. Nel 1996 Pia Vivarelli ha pubblicato per Electa il prezioso Catalogo generale dell’opera pittorica di Savinio
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perta” della sua opera fuori dall’Italia negli anni 80 e 90 sia dovuta, in gran parte, alla nuova sensibilità e alla nuova attitudine nei confronti delle possibilità pittoriche, promosse dalle più recenti correnti artistiche. Infatti, è in questo clima che la sua opera sembra così “contemporanea” a noi»114. L’interesse sempre più ampio per Savinio si è concentrato in particolare in occasione del centenario della nascita (1991), nel corso del quale, a fianco alle mostre e ai numerosi articoli su giornali e riviste, si è assistito al ritorno sulle scene di vari suoi testi teatrali115. Nel corso del trentaquattresimo festival di Spoleto (1991) Egisto Marcucci ha adattato e messo in scena La nostra anima nell’interpretazione di Valeria Moriconi; la stessa Moriconi ha poi presentato in alcuni teatri romani un intero cartellone di testi saviniani. Nel 1990 Paolo Poli e Ida Omboni hanno elaborato Il coturno e la ciabatta, ironico e raffinato adattamento di vari testi letterari di Savinio116, di cui l’attore è stato anche regista e interprete, affidandosi alle scene di Emanuele Luzzati, ai costumi di Santuzza Calì e alle musiche di Jacqueline Perrotin117. Anche dopo le celebrazioni del centenario, l’interesse per Savinio continua, in parallelo alla riedizione delle opere. Fra l’altro, sono state organizzate alcune importanti esposizioni: nell’aprile 1995 si è tenuta una grande mostra
114. Alberto Savinio. Paintings 1927-1952, [15 novembre 1997-11 gennaio 1998], Humlebæk, (Danmark), Louisiana Museum for moderne Kunst, 1997, pp. 55-56. La traduzione dall’inglese è mia. 115. Negli anni precedenti c’erano state sporadiche rappresentazioni di opere teatrali di Savinio, fra le quali vale la pena di ricordare Emma B. vedova Giocasta, interpretata nel 1981 con notevole successo da Valeria Moriconi, regia di Egisto Marcucci, scene e costumi di Maurizio Balò. 116. In particolare da Narrate, uomini, la vostra storia, La verità sull’ultimo viaggio e La nostra anima. 117. Lo spettacolo è stato riproposto in video nel 1991 dalla RAI-TV.
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a New York118, nel 1997 al Castello di Rivoli (Torino), e dal novembre 1997 al gennaio 1998, la già menzionata mostra a Humlebæk, in cui è stata esposta gran parte dell’opera pittorica119. Nell’aprile 1999 è andato in scena al Teatro Argentina di Roma un nuovo allestimento dell’Alcesti di Samuele, con la regia di Luca Ronconi120. Nell’occasione il Teatro di Roma e il Comune di Roma hanno organizzato presso lo stesso Teatro Argentina un convegno (14-18 aprile) intitolato Le metamorfosi di Savinio. La letteratura, il teatro, il cinema, la pittura, la musica, curato per la parte scientifica da Silvana Cirillo e per quella artistica da Marcello Cava.
118. Alberto Savinio. Musician Writer and Painter, cit. 119. Alberto Savinio. Paintings 1927-1952, cit. 120. Scene di Marco Capuana, costumi di Carlo Diappi; le musiche sono state curate da Paolo Terni; gli interpreti principali erano: Teresa Goerz-Galatea Ranzi, Dottor Paul Goerz-Giovanni Crippa, Franklin Delano Roosevelt-Corrado Pani, L’Autore-Francesco Graziosi, Il Direttore del Kursaal dei Morti-Riccardo Bini, L’Altoparlante-Gianluca Guidotti, Il Padre-Massimo De Rossi, La Madre-Ilaria Occhini, Uno Spettatore-Francesco Colella.
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L’INCARNAZIONE DELL’ENIGMA
[...] ripongo il principio del ritmo metafisico della vita nei piedi, e nei piedi scopro la culla delle idee, e nei piedi vedo la sorgente della poesia, e dai piedi penso che nascono le immaginazioni più sottili, più agili, più spiritose; in una parola, le più vitali. A. Savinio, Vita di Enrico Ibsen1 By singing the world into existence, he said, the Ancestor’s had been poets in the original sense of poesis, meaning ‘creation’. B. Chatwin, The Songlines2
RICERCA
DI UNA POETICA
La poetica di Savinio affonda le sue radici nell’avanguardia francese del primo Novecento; ma se è vero che egli condivide le furie iconoclaste dei futuristi, accarezza le «parole in libertà» e soprattutto è strettamente coinvolto nel Surrealismo (anzi, può essere riconosciuto, lo sostiene lo stesso Breton, come uno dei fondatori), rimane tuttavia sempre un isolato, un laico che gelosamente custodisce la
1. A. SAVINO, Vita di Enrico Ibsen, cit., p. 54. 2. B. CHATWIN, The Songlines [1987], London, Picador, 1988, p. 16.
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sua indipendenza. In tutta la sua opera Savinio fugge o tenta di fuggire dalle strade esistenti, e può far sua la frase di Apollinaire «j’ai été à Rome par d’autres chemins que tous ceux qui y mènent»3. Savinio percorre i sentieri dell’avanguardia europea, ma quasi mai aderisce integralmente e definitivamente ad un movimento. Cultore dell’ironia e dell’individualità, non si assoggetta ad appartenere ad una corrente: di fronte alla cristallizzazione di un manifesto artistico non può rinunciare ad un atteggiamento critico ed indipendente. Cionondimeno, Savinio darà un contributo significativo ad alcuni dei movimenti più importanti della prima metà del secolo, primo fra tutti appunto il Surrealismo. Il suo approccio all’espressione artistica si basa infatti su una sperimentazione in cui si fondono tecniche, generi e registri linguistici molteplici e pratiche artistiche diverse, e che lo conduce ad uno stile fortemente caratterizzato, definibile come un Surrealismo grottesco e neobarocco, cui è sottesa una concezione dell’arte come medium capace di far scattare una crisi nel sistema della comunicazione rigidamente definito dalle strutture sociali. In realtà Savinio arriva al Surrealismo come a una naturale evoluzione della propria poetica che si era venuta progressivamente approfondendo nel corso degli anni attraverso l’ispirazione e l’influenza, a vari livelli e per diversi aspetti, di Pulci e Rabelais, di Vico e Nietzsche, come di Jarry e Lautréamont. Nel Surrealismo Savinio troverà insomma un movimento disposto ad incorporare le sue idee ormai sviluppate e mature, piuttosto che un movimento alle cui tesi aderire. Sono in ogni caso riconoscibili le influenze formative di due diversi milieux intellettuali: fra il 1911 e il 1915, il circolo di Guillaume Apollinaire a Parigi, e, nel decennio successivo, quello di base fiorentina di Giovanni Papini.
3. G. APOLLINAIRE, L’Enchanteur pourrissant suivi de Les mammelles de Tirésias et de Couleur du temps [1909], Paris, Gallimard, 1972, p. 75.
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Risulta ugualmente evidente anche l’apporto dello studio delle opere di Freud, che permette a Savinio di dare un’impostazione rigorosa ad alcune delle sue prime intuizioni. Egli stesso propone un’interpretazione freudiana della propria filosofia dell’arte nel momento in cui attribuisce al linguaggio un ruolo centrale nel processo di inibizione dell’ego: una posizione che esprime caratteristiche che potrebbero essere definite addirittura come proto-lacaniane. È comunque tramite l’esempio dei movimenti dell’avanguardia artistica della Parigi degli anni Dieci che Savinio acquisisce fiducia nella possibilità di creare un proprio stile radicalmente innovativo, confortato in questo anche dall’apprezzamento da parte degli altri artisti, ed in particolare di Apollinaire, verso cui Savinio nutre una stima senza riserve. Il poeta francese è fra i primi a dare testimonianza delle prime ma già significative elaborazioni di estetica del giovane Savinio: in un articolo del 1914 su «Paris Journal», riferendosi in particolare alla concezione della musica, Apollinaire osserva come l’autore degli Chants de la mi-mort punti a presentare «quanto nella nostra epoca si rivela a noi sotto una forma strana ed enigmatica»4, e ne sottolinea la conseguente distanza dalle ricerche di armonia tipiche dell’impressionismo musicale. In questa prospettiva «non ha senso fare confronti, visto che Savinio non si volge mai a guardare indietro, né intende ricalcare nella sua arte alcun altro musicista nuovo»5. LA «SCUOLA
METAFISICA»
L’incontro di Giorgio De Chirico, Carlo Carrà e Alberto Savinio all’ospedale militare di Ferrara nel gennaio 1917 viene considerato generalmente come il momento deter4. Dall’articolo di Apollinaire riportato in A. SAVINIO, Scatola sonora, cit., 1977, pp. 435-436. 5. Ibidem.
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minante della nascita della «Scuola metafisica»: movimento prevalentemente pittorico, ma anche letterario, i cui fondamenti teorici possono essere rintracciati in alcuni scritti di Papini di dieci anni addietro. Il tragico quotidiano6, scritto dall’autore fiorentino fra il 1904 e il 1906, si può in effetti considerare il primo testo metafisico, sia dal punto di vista della concezione dell’artista e dell’opera d’arte che da quello dell’iconografia. Lo popolano infatti orologi fissi, piazze deserte, statue silenziose, treni terribili: tutte immagini che saranno al centro della poetica dei «metafisici», e diventeranno motivi ricorrenti soprattutto nei quadri di De Chirico. In ogni caso, l’espressione «pittura metafisica» viene lanciata, su suggerimento proprio di Papini, nel 1919; paradossalmente, questo movimento, l’unico a cui Savinio aderisce apertamente, e che costituisce uno dei punti di più felice creatività dell’arte italiana di questo secolo, trova il suo nome proprio nel momento in cui tanto la sua spinta ideale quanto i rapporti personali fra i suoi componenti si stanno avviando alla disgregazione; e soprattutto quando De Chirico si avvia ormai verso un’arte fatta di ritratti realistici, secondo quello che egli stesso definisce come il «ritorno al mestiere», ma che probabilmente rappresenta piuttosto un «ritorno all’ordine», l’abbandono dell’avanguardia in nome di un tranquillizzante conformismo. Savinio additerà questo riflusso della pittura del fratello come la causa primaria del deteriorarsi dei loro rapporti. All’esperienza della «Scuola metafisica» fanno capo gli articoli che Savinio pubblica in «Valori Plastici» fra il 1915 e il 1922, e dai quali emerge chiaramente come egli possa e debba essere considerato il vero e proprio “teorico” del gruppo, in grado di fornire al tempo stesso le linee direttrici operative come le giustificazioni filosofiche. In un articolo significativamente sottotitolato Per quando gli ita-
6. Ora in G. PAPINI, Tutte le opere, Milano, Mondadori, 1958.
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liani si saranno abituati a pensare, Savinio traccia i caratteri essenziali dell’arte, precisando come in primo luogo si debba evitare di cadere in «quell’errore grossissimo il quale tende a ridurre le arti plastiche a una elementare raffigurazione naturalistica»7. Infatti, «gli oggetti non hanno di per se stesso un valore preciso»8, in quanto si trovano in uno stato di continua trasformazione, e proprio in questa incessante evoluzione risiede la loro intima identità. Risulta quindi vano anche il tentativo futurista di fissare sulla tela quella trasformazione inseguendone una diretta rappresentazione in atto, e anzi Savinio si rallegra che quel tentativo di «rappresentazione delle forme»9 sia finito «miseramente»10. L’arte è la «rappresentazione della vita non come è, ma come dovrebbe essere»11, anche «al di là della morale», secondo un evidente influsso nicciano. Ad analoghe conclusioni Savinio era giunto, peraltro, fin dal 1914, come testimonia un articolo apparso nelle «Soirées de Paris»: «Esiste infatti una logica falsa, fondata sull’illusione dell’oggettività e della continuità delle nostre rappresentazioni: quella stessa illusione che, in arte, è alla base del realismo e di ogni teoria mimetica o psicologistica»12. Savinio riporta così in letteratura quelle tendenze pittoriche del primo Novecento, da Cézanne fino ai cubisti, che avevano ripudiato la rappresentazione naturalistica privilegiando invece l’espressione della tensione interiore dell’artista. In particolare, riconosce in Cézanne, che pure per altri aspetti critica aspramente, l’ispiratore di questo cambiamento di concezione della pittura: «Cézanne ebbe il merito di scoprire, o meglio di riscoprire un fondamen-
7. A. SAVINIO, Primi saggi di filosofia delle arti, in Torre di guardia, cit., p. 323. 8. Ibidem. 9. Ivi, p. 225. 10. Ibidem. 11. Ivi, p. 229. 12. A. SAVINIO, Le drame et la musique, cit., pp. 241-243.
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tale principio della pittura, e cioè che la pittura non è riproduzione del vero. E particolarmente quando si dipingono figure umane o bisogna lasciare nel luogo della faccia un ovale neutro nel quale lo spettatore può idealmente collocare la faccia di qualche amico, o parente, o della donna dei suoi sogni, o di chi più gli talenta, oppure scendere così profondamente nella realtà dell’uomo figurato, da dare di lui una specie di radiografia intellettuale»13. Per Savinio l’arte si propone allora di scavare le profondità dell’inconscio, anche attraverso il recupero della libera creatività della condizione onirica. Savinio ama sottolineare l’analogia fra la meditazione del filosofo e il sonno del poeta: «Soffici dormiva, nell’abbraccio angolare delle due pareti, immobile come un filosofo mediterraneo»14. Il sonno è definito come una specie di «mezzamorte», di dormiveglia, sospeso fra la vita e la morte, e quindi al di là e al di sopra dalle leggi della logica. Questo è lo spazio della creatività in cui nasce l’arte: «Durante il sonno – che alcuni vogliono una mezza-morte – io vivo, e anzi in modo più precipitoso del reale»15. La funzionalità di questa «mezza-morte», che trova riscontro nel celebre demi-sommeil dei Surrealisti (per esempio di Robert Desnos), è efficacemente colta da Gian Carlo Roscioni: «Uno stato o piuttosto una funzione psichica che non ridesta i fantasmi assopiti nel fondo dell’anima, ma ne crea di nuovi e di impreveduti: vera fucina di immagini, essa produce “tra sonno e veglia” una nuova realtà, tessendo al tempo stesso “la sola logica vera”»16. Diventa difficile a questo punto distinguere fra l’occhio del letterato e quello del pittore: le scelte dei vari mezzi espressivi si intrecciano all’interno dell’arte saviniana in
13. A. SAVINIO, Infanzia di Nivasio Dolcemare, cit., pp. 596-597. 14. A. SAVINIO, Hermaphrodito, cit., p. 87. 15. Ivi, p. 202. 16. G.C. ROSCIONI, Nota critica, in A. SAVINIO, Hermaphrodito, cit., p. 240.
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modo inestricabile e indissolubile.
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PAPINI
E
VICO
Nell’esperienza della «Scuola metafisica» sono confluite influenze e suggestioni molteplici, da Schopenhauer a Weininger, ma in ogni caso va rilevato il ruolo primario della riscoperta della filosofia di Giambattista Vico. L’interesse per il filosofo napoletano, già oggetto degli studi bibliografici ed eruditi di Croce, giunge ai «metafisici» in primo luogo attraverso la mediazione dell’interpretazione di Papini, percepibile tanto nella riflessione pittorica di Giorgio De Chirico quanto in quella letteraria di Alberto Savinio. I rapporti fra Papini e i «metafisici» sono stati esaurientemente indagati da Maurizio Calvesi nel suo La metafisica schòiarita17 a cui si rinvia per un approfondimento di questo importante tema. Basti qui ricordare che già nel 1903 la rivista «Leonardo» ospitava articoli di Papini sul Vico, in cui fra l’altro si legge: «Noi vogliamo fare [...] della filosofia viva [...] Appunto seguendo il Vico non vogliamo che la ragione ragionante ci costringa a fare quel che non ci piace»18. E nel 1908, ancora su «La Voce», Papini, nell’ambito del «ritorno alla tradizione», sottolineava la necessità dello studio della filosofia di Vico: «Se voi altri leggeste anche [...] i nostri vecchi scrittori [...] ci trovereste [...] parecchie di quelle idee che, come inaudita novità, state a sentire a orecchi ritti quando vengono strombettate nella lingua dell’oui, dell’ja o dell’yes. [...] Non c’è niente da dire circa Kant, Fichte, Schelling ed Hegel [...] sarebbe bene anche studiare sul serio [...] Giambattista Vico». Testimoniano inoltre del crescente interesse per Vico l’uscita presso Laterza, nel 1911, di un’edizione con va-
17. M. CALVESI, La metafisica schiarita. Da De Chirico a Carrà, da Morandi a Savinio, Milano, Feltrinelli, 1982. 18. G. PAPINI, Risposta a Benedetto Croce, in «Leonardo», novembre 1903.
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rianti della Scienza nuova, a cura di Fausto Nicolini, e della prima edizione della Filosofia di Giambattista Vico di Benedetto Croce. Negli scritti di Papini influenzati da Vico, in particolare nel Tragico quotidiano, si definisce la nozione di stupore e meraviglia dell’artista, l’idea dell’immobilità, la riscoperta dei “primitivi” e la definizione dell’artista come veggente e creatore. Savinio farà sue queste considerazioni, incentrando la propria visione poetica nella correlazione, colta da Papini appunto attraverso Vico, fra il poeta, considerato il prototipo di ogni artista, e il fanciullo. Il fascino che il primitivo19 esercita su Savinio è sicuramente di origine vichiana, ma l’«homme pensant et sensible» di Savinio, il suo “artista-fanciullo”, va al di là della semplice riproposizione della figura di “artista-primitivo”, ed è piuttosto una rielaborazione del «Bestione» vichiano alla luce dei caratteri propri dell’Übermensch di Nietzsche. La presenza di echi del pensiero del filosofo tedesco, sia nelle opere letterarie che pittoriche di Savinio, nasce da un’analisi approfondita, e dal riconoscimento della consonanza con alcune delle tesi nicciane sull’arte, prima fra tutte quella secondo cui il fine metafisico dell’arte è quello di «trasfigurare»20 la realtà. Secondo l’analisi proposta da Maurizio Calvesi, il «selvaggio» di Nietzsche e di Vico, «“libero da leggi e pregiudizi, creatore di miti e di strumenti”, il primitivo e il sensitivo di tutte le avanguardie, si coniuga con la figura romantica del “vate”, del superuomo-profeta, incarnandosi nel preistorico indovino o poeta-teologo, proiezione del cavernicolo lungo il muto cammino della “metafisica poetica”»21.
19. «È per questo che nell’arte, e solo nell’arte, il ricordo del primitivo [...] ritorna vivissimo, preciso, e un’altra volta, miracolosamente, diventa certezza» (A. SAVINIO, Primi saggi di filosofia delle arti, in Torre di guardia, cit., p. xx). 20. F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia [1876], Milano, Adelphi, 1989, p. 158. 21. M. CALVESI, La metafisica schiarita, cit., p. 94.
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L’idea che l’arte sia immagine del trascendente, cioè della “vera” realtà, e non riproduzione della natura, esercita sui «metafisici» un fascino enorme, anche se con diversi esiti espressivi: da un lato De Chirico crea arcane atmosfere, enigmatici oracoli22, dall’altro Savinio costruisce «ritratti psicologici» che raffigurano mostri multiformi e policromi, provocazioni dense di ironia, che puntano a scuotere lo spettatore dal suo conformismo. Ma per entrambi l’artista si incarna nei poeti primitivi come descritti da Vico: i primi uomini che fondarono l’umanità gentilesca [...] che parlavano per cenni, dalla loro natura credettero i fulmini, i tuoni fussero cenni di Giove [...] e tali cenni fussero parole reali, e che la natura fusse la lingua di Giove; la scienza della qual lingua credettero universalmente le genti essere la divinazione, la qual da greci ne fu detta “teologia”, che vuol dire “scienza del parlar degli dei” [...] incominciarono la sapienza poetica da questa poetica metafisica di contemplare Dio per l’attributo della sua provvedenza; e se ne dissero “poeti teologi”, ovvero sappienti che s’intendevano del parlar degli dei conceputo con gli auspìci di Giove, e ne furono detti propriamente “divini”, in senso d’“indovinatori”, da “divinari” che propriamente è “indovinare” o “predire”: la quale scienza fu detta “musa” [...] Dalla qual mistica teologia i poeti da’ greci furon chiamati “mystæ”, che Orazio con iscienza trasporta “interpetri degli dei”, che spiegavano i divini mµisteri degli auspìci e degli oracoli: nella quale scienza ogni nazione gentile ebbe una sua sibilla23.
22. Si vedano ad esempio la serie di quadri dipinti da De Chirico negli anni Dieci: L’incertezza del poeta e Il ritorno del poeta (1910); Enigma dell’oracolo, La statua silenziosa, Composizione metafisica e Il sogno trasformato (1913); La passeggiata del filosofo (1914). . 23. G. VICO, Scienza nuova [prima edizione 1725, edizione definitiva 1744], introduzione e note di Paolo Rossi, Milano, Rizzoli, 1977, pp. 265-268. Corsivo mio.
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Uno dei testi in cui De Chirico analizza le ragioni del fascino dell’antica Grecia pare riecheggiare proprio il passo della Scienza nuova appena citato: «Una delle sensazioni più strane e più profonde che la preistoria ci ha lasciato è la sensazione della preveggenza [...] Pensando ai templi [...] lungo le aride coste della Grecia e dell’Asia Minore, spesso ho rievocato quegli indovini, protesi verso la voce delle onde che rifluivano da quella terra antica. Li ho immaginati [...] in attesa del misterioso oracolo rivelatore»24. L’atmosfera saviniana è assai diversa, torbida più che rarefatta, e popolata da turbe dionisiache piuttosto che da vati solitari, ma anch’egli attribuisce al poeta il ruolo di veggente: il suo protagonista si esprime con un profluvio di immagini, simboli e parole, piuttosto che con sentenze scarne ed enigmatiche, più vicino a uno stregone primitivo che a un’altera Sibilla. Per Savinio i primi scrittori – o meglio i primi poeti, in quanto la poesia è la prima attività della mente umana – fondono in sé i caratteri dell’artista, del sacerdote e del filosofo. In essi si trova realizzato l’ideale di un’arte che è nel contempo guida spirituale e attività metafisica. Si avverte in questa concezione l’evidente influsso delle argomentazioni di Nietzsche, quando sostiene che «[l]’arte è la vera attività metafisica dell’uomo»25. L’artista si rivolge non alla superficie tangibile delle cose che l’arte realistica tenta di riprodurre, ma, al contrario, a quella dimensione «impalpabile, ma più intima e profonda: [...] la qualità metafisica delle cose»26, perché «l’arte non è solo imitazione della realtà naturale, bensì proprio un supplemento metafisico della realtà di natura,
24. G. DE CHIRICO, manoscritto A, meditazioni di un pittore, citato in M. CALVESI, La metafisica schiarita, cit. Corsivi miei. 25. F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., p. 9. 26. A. SAVINIO, Torre di guardia, cit., p. 223. Cfr. anche F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., p. 158.
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posto accanto a questa per superarla». Per Savinio, anche il filosofo deve essere artista, poiché la meditazione filosofica, secondo il modello vichiano, è essenzialmente lo studio di ciò che l’uomo stesso crea, e la poesia è appunto l’attività creativa primordiale. Coniugando questo assunto con la convinzione che nella storia della creatività umana il meccanismo ciclico della storia è racchiuso in un arco tra fasi primitive e fasi di decadenza27, i «metafisici», e Savinio soprattutto, sostengono che nell’attuale fase di decadenza occorre ritrovare le radici e la forza della propria identità culturale attraverso lo studio delle origini relative tanto alla creazione artistica quanto all’analisi cognitiva. Nell’articolo Sull’arte metafisica, in un paragrafo intitolato Arte nuova, De Chirico scrive: Lo stato inquieto e complicato della nuova arte è [...] uno stato fatale dello umano spirito che, retto da leggi matematicamente fisse, ha flussi e riflussi, partenze e ritorni e rinascite, come tutti gli elementi che si manifestano sul nostro pianeta. Un popolo sul principio della sua esistenza ama il mito e la leggenda, il sorprendente, il mostruoso, l’inspiegabile e si rifugia in essi; con l’andare dei tempi, maturandosi in una civilizzazione, sgrossa le immagini primitive, le riduce, le plasma, secondo le esigenze del suo spirito chiarito e scrive la sua storia scaturita dai miti originari. Un’epoca europea come la nostra, che porta in sé il peso stragrande di tante e poi tante civilizzazioni e la
27. «Milioni di secoli si sono consumati, e intanto il regno dell’uomo sulla terra è arrivato al termine. A sua volta, in questo frattempo, se parola così ristretta può esser usata a riguardo di così smisurato corso di tempo, il regno dell’uomo ha conchiuso la parabola delle varie razze. La razza bianca è arrivata in fondo alla propria decadenza, né più si è sollevata; e dopo la razza bianca la gialla, che le è succeduta, ha percorso a sua volta la propria parabola. Infine, anche la razza negra, ultima delle quattro, ha salito e poi disceso la curva dell’arco. [...] Que l’expérience d’un monde qui s’achève, passe au monde qui commence» (A. SAVINIO, La famiglia Mastinu, in Casa «La Vita» e altri racconti, cit., pp. 814-816).
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maturità di tanti periodi spirituali è fatale che produca un’arte che da un certo lato somiglia a quella delle mitiche inquietudini; tale arte sorge per opera di quei pochi dotati di particolare chiaroveggenza e sensibilità28.
È sorprendente notare quanto questa descrizione di De Chirico si adatti, specie per il riferimento al sorprendente e al mostruoso, più alle opere del fratello che alle proprie. A partire da queste idee fortemente influenzate dal pensiero vichiano, i «metafisici» intraprendono il recupero dell’arte dei «primitivi» italiani, dei volumi e della spazialità che li caratterizzano. Il percorso risulta così analogo a quello di Picasso con la riscoperta nell’arte iberica preromana del valore intrinseco e prettamente cognitivo della creatività artistica primitiva29. Va tuttavia sottolineato il carattere autoctono di questa «via italiana all’abbandono del realismo», e le sue autonome basi filosofiche. Nella Scienza nuova Vico sostiene che una comprensione della poesia primitiva è possibile solo abbandonando un punto di vista rigido ed affidandosi alla capacità di sentire attraverso le immagini, lungo un percorso che porta alla riscoperta della nostra umanità più vera, im-
28. G. DE CHIRICO, manoscritto A e B, meditazioni di un pittore, cit. 29. Indubbiamente Savinio si inserisce nella generale corrente di riappropriazione dell’arte primitiva nelle sue effettive manifestazioni materiali che percorre gli intellettuali dell’inizio del ventesimo secolo, come ha sottolineato Jean Starobinskj: «E non si potrà neppure dimenticare che l’inizio del ventesimo secolo è il momento in cui l’uomo colto incomincia a volgersi non più soltanto verso l’idea di natura e di origine (il che era avvenuto dalla seconda metà del diciottesimo secolo in avanti), ma verso le immagini e i documenti materiali dell’umanità primitiva. Il progresso dell’arte si realizza, in svariati campi, attraverso la via più lunga di una raccolta delle forme del passato immemorabile: si riscoprono tutti i periodi arcaici, si restituisce valore all’arte africana e alla pittura preistorica; ci si sforza di imitare i gesti primordiali e i miti fondamentali» (J. STAROBINSKI, Ritratto dell’artista da saltimbanco [Portrait de l’artiste en saltimbanque, 1970], curato, tradotto e introdotto da C. Bologna [Ritratto del critico da domatore di fantasmi], Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 133).
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mersa nei sensi e radicata negli universali fantastici. Questa perdita di una prospettiva unica, pre-definita, viene tradotta dai «metafisici» in soluzioni pittoriche che si pongono in alternativa alla prospettiva geometrica, e in soluzioni letterarie che prefigurano il Surrealismo. In un articolo pubblicato su «La Voce» nel 1910, Ardengo Soffici, uno degli artisti italiani più vicini ai «metafisici», mentre contrappone, con un evidente riferimento a Vico, «l’artista antico» che sente, all’«artista moderno» che sa, esorta i colleghi a rifarsi ai primitivi italiani, e propone una prospettiva che egli stesso definisce «psicologica», contrapposta a quella geometrica dei moderni: «Ci sono molti i quali, vedendo in una pittura di Giotto, per esempio, o di Beato Angelico un uccello più grande del cespuglio su cui sta a cantare o un uomo più grande della casa che gli è accanto, ridono. Ci son dei critici illustri i quali, vedendo codeste stesse cose, spiegano che si tratta evidentemente di errori di prospettiva [...] La verità è che [..] la scienza non ha nulla a che fare con l’arte e che basta riprodurre la propria impressione per render viva e vera l’immagine [...] Onde la sua prospettiva, che io direi psicologica piuttosto che scientifica, era la vera, ed è la sola che si confaccia al carattere lirico dell’arte»30. Un’altro tema che, attraverso Papini, giunge da Vico ai «metafisici» è quello del carattere istintuale, corporale dell’arte: «l’istinto è il vero sapiente. [...] L’importante è di non reprimere le nostre tendenze primordiali, e di rispettare il corpo [...] Il corpo è sacro e ogni morale dev’essere rinnegata dinanzi alle sue esigenze. I veri saggi [...] sono gli uomini primitivi, gli uomini dell’istinto, i fanciulli, [...] i selvaggi»31. In Savinio riaffiora il concetto vichiano di «metafisica poetica», cioè di una metafisica riportata ai sensi e
30. A. SOFFICI, Divagazioni sull’arte, in «La Voce», 22 settembre 1910. Corsivo mio. 31. G. PAPINI, Il crepuscolo dei filosofi, in Tutte le opere, cit., pp. 154-155. Corsivo mio.
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alla potenza creatrice della immaginazione: «La sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett’essere di tai primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie»32. La «metafisica poetica» di Savinio si fonderà per l’appunto sul trionfo dell’immaginazione, sull’osservazione naturalistica e sull’irrompere dei sensi e della fisicità nell’opera d’arte. Indubbiamente, Savinio sente anche il fascino della riscoperta della corporalità operata da Nietzsche. Infatti, come rilevato da Starobinski, proprio a Nietzsche va attribuito il superamento dell’alienazione di spirito e corpo nell’arte: «Certo, sotto la penna di Nietzsche e di pochi altri, il richiamo al risveglio e alla riabilitazione del corpo non tarderà a farsi sentire, collegato alla celebrazione della danza. Quel richiamo, però, non sarebbe stato così veemente, se il corpo non avesse dovuto subire una sorta di esilio: un esilio in piena luce, dal momento che da parte sua lo spirito, assentatosi nella regione dei fini ultimi, ha smesso di riconoscere nel corpo il suo vero compagno»33. Nell’universo poetico di Savinio il tema della corporalità verrà ad assumere un ruolo di vera e propria infrastruttura dell’arte, dando luogo a una «metafisica» radicata nel corpo, nella pluralità e nel contingente. Savinio propone l’idea di una metafisica sensoriale già in un articolo del 1914, citato da Breton nella sua Anthologie de l’humour noir : «“La voie destinée à prédominer à l’heure actuelle, écrit Savinio en 1914, se caractérise surtout par sa forme austère et sombre et par l’apparence rigide et bien matérialisée de sa métaphysique... Loin de ces âges où l’abstraction régnait complète, notre époque serait portée à
32. G. VICO, Scienza nuova, cit., pp. 261-262. 33. J. STAROBINSKI, Ritratto dell’artista da saltimbanco, cit., pp. 90-91.
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faire jaillir des matières mêmes (des choses) leurs éléments métaphysiques complets. L’idée métaphysique passerait, de l’état d’abstraction, à celui de sens. Ce serait ainsi la mise en valeur totale des éléments qui informent le type de l’homme pensant et sensible”»34. In un articolo apparso su «Valori Plastici» nel 1919 Savinio mette ulteriormente a fuoco la propria concezione della metafisica: «Questa parola, impiegata già dalla trattazione filosofica nei termini di un bilancio più che altro sostanzialmente fisico, ripresa poi dalla teologia, trovò, per primo, in Nietzsche, una ragione spirituale libera. Con l’acquistare questo senso nuovo e vasto in una realtà più vasta, metafisico ora non accenna più a un ipotetico dopo-naturale; significa bensì, in maniera imprecisabile – perché non è mai chiusa, ed imprecisa dunque, è la nostra conoscenza»35. La metafisica “materiale” di Savinio, fondata sull’enunciato che la conoscenza di se stessi e del mondo non può essere mai completamente afferrata, poiché la realtà non è un sistema chiuso, completamente dominabile, ma appena raggiungibile sotto forma di esperienza dell’indeterminabile, si connette così significativamente al pensiero del Vico. Nel contesto vichiano non è infatti conoscibile la natura, ma soltanto quanto l’essere umano crea, cioè il verum-factum, e quindi non ha significato un’arte che si prefigga la riproduzione della natura, ma solo quella che realizzi la vocazione di creatore dell’artista. Stabilito che l’arte non deve ri-produrre la natura, Savinio si spinge fino a sostenere che ancora meno deve ricercare il bello; seguendo Nietzsche, rivaluta «il desiderio del brutto», dell’enigmatico e del terribile, elementi che secondo il filosofo tedesco si nascondono ora in fondo all’esistenza umana di cui prima di Socrate e di Euripide rappresentavano invece il centro. Anche Savinio si auto-
34. A. BRETON, Anthologie de l’humour noir, cit., pp. 367-368. 35. A. SAVINIO Anadioménon, cit., p. 120.
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definisce così artista pre-socratico, e si pone al di qua della frattura primigenia, prima della divisione del mondo fra soggetti ed oggetti. Socrate diviene l’obiettivo di una vera e propria invettiva: «Ho sempre diffidato di Socrate, non mai tanto però, come da quando ho scoperto e determinato gl’incalcolabili danni che la coscienza ha recato all’umanità. E lo dobbiamo a lui [...] alla sua perfida, tendenziosa interpretazione del “Conosci te stesso” apollineo. [...] Tutta la volgarità, tutta la stupidità, tutta l’ignobilità, tutta la vigliaccheria, tutta la brutta vita, tutta la falsa arte che imperversa da allora in poi e che oggi ancora si vuole a noi pre-socratici, la dobbiamo a lui, alla “levatrice” della coscienza»36. In un quadro del 1928 intitolato Vecchio e nuovo mondo il rifiuto saviniano del pensiero di Socrate è ribadito attraverso il contrasto tra il busto di un Socrate diabolico e un’enorme foresta, che si ricollega, non per caso, alla Foresta dell’infanzia dipinta l’anno prima. In antagonismo al mondo della «coscienza», Savinio propone un’arte il cui compito è di far emergere il centro reale della vita attraverso la mise en scène di quanto, mostruoso e inquietante, scabroso e perturbante, è stato rimosso nella società attuale dall’educazione, dalla cultura e dalla civiltà. LES
CHANTS DE LA MI-MORT
e HERMAPHRODITO
Come suggerisce lo stesso Savinio, nelle sue prime opere, gli Chants de la mi-mort e Hermaphrodito, si può già trovare il bandolo per tentare di sciogliere la matassa apparentemente tanto aggrovigliata della sua opera. Le due opere sono infatti straordinari serbatoi di quei simboli e di quelle immagini dal formidabile potere evocativo che si diffonderanno in tutta la sua opera e che diverranno patrimonio comune del linguaggio poetico delle avan-
36. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., p. 103.
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guardie. È a queste immagini che farà esplicito riferimento Breton, oltre vent’anni più tardi, osservando: «nous voyons, dans Les chants de la mi-mort de Savinio (1914) défiler “l’homme-chauve” à l’image du père [...] ce monsieur qui vous regarde en riant sous cape c’est toujours lui, le “démon tentateur”, “l’homme jaune” poussé par un dieu-amour invisible [...] “Daisyssina” l’Eternel féminin, “la mère de pierre” sous le masque de laquelle il est impossible de ne pas reconnaître la très hautaine et dure baronne De Chirico [...] “l’homme jaune” tue sa mère, puis l’embrasse; il la lance au plafond et la rattrape. Nous sommes ici au cœur même du monde sexuel symbolique, tel que l’ont décrit Volkelt et Scherner avant Freud»37. Il protagonista della scena di apertura degli Chants de la mi-mort è un uomo «sans voix, sans yeux et sans visage»38, prototipo di manichino, ma anche oracolo metafisico, «poeta teologo» («il parle tous les langages»)39, e insieme clown, attore, o saltimbanco40, visto che «il connaît tous les jeux, il fait toutes les culbutes»41. Compare qui un archetipo che percorrerà con i suoi «yeux inexistants»42 ed i suoi «moignons sans doigts – informes cônes de chair»43 l’immaginario del Surrealismo. In quest’immagine dell’«uomo senza volto» troviamo inoltre già tratteggiata l’epopea del signor Münster, morto vivente intento ad osservare la propria morte: «Le mort revient et se regarde
37. A. BRETON, Anthologie de l’humour noir, cit., p. 368. 38. A. SAVINIO, Les chants de la mi-mort, in Hermaphrodito, cit., p. 7. 39. Ibidem. 40. «In questa città di funambolismo, vestirò una maglia color carne. Voglio riscuotere applausi diluvianti. Sono un forzatore terribile; l’incalcolabile peso in cima al gambo – 1 m e 69 cm – Destinato anch’io alla tragedia variopinta dei saltimbanchi. Anche per me sta muta questa folla ove il totemismo fa strage» (A. SAVINIO, Hermaphrodito, cit., p. 105). 41.A. SAVINIO, Les chants de la mi-mort, in Hermaphrodito, cit., p. 7. 42. Ivi, p. 9. 43. Ivi, p. 8.
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mort»44, e, dopo aver «hurlé à la mort» si dedica a far giochi con dei «globes multicolores» che trasforma in «belles surprises»45. L’«uomo senza volto» si accinge quindi a costruire quei mondi di giocattoli policromi che anni dopo popoleranno i quadri di Savinio. Ma, soprattutto, poiché «il sait les mots», costruisce sorprese e «devinettes»46, ovvero crea attraverso giochi linguistici immagini inattese. Si crea un’atmosfera di sospensione per un mistero che verrà rivelato nel gioco. In una fantasmagoria di lingue che si mescolano e di immagini che si frantumano, Savinio ricostruisce la frammentazione della realtà attraverso una sistematica aggressione delle idee unitarie, delle idee rispettate, delle idee stabili e rassicuranti. Un esempio estremo è la scena culmine di Les chants de la mi-mort, in cui al richiamo biblico alla resurrezione del Cristo («le voile du temple se tordit et puis tomba en cendres»47), viene giustapposta la brutale frase «on entendit une longue éructation de joie, et la planète péta»48. Lo «scontro delle parole», ovvero l’uso di termini in stridente contrasto fra loro, l’ossimoro, diviene ossessivo: ai «fleurs aux doux poisons» fanno eco «la lumière sombre» e «le soleil de l’ombre»49. Gli scenari si fanno angosciosi: piazze rosse popolate di uomini metallici, muri spogli, luci oscure e verdastre: «Le rideau se lève. Une place rouge. Un mur. Une maison avec une seule fenêtre où brûle une chandelle dans un chandelier d’argent. Nuit complète, mais le ciel est bleu»50, «les hommescibles étirent leurs bras de fer, puis, rigidement, ils font
44. 45. 46. 47. 48. 49. 50.
Ivi, p. 7. Ivi, p. 8. Ibidem. Ivi, p. 10. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 12.
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des mouvements de gymnastique suédoise»51, «la lumière épaisse comme l’ombre»52, «Eclair bref, verdâtre»53. Nella Scène de la tour, il palcoscenico diviso in due livelli già evoca la divisione dell’io. Al piano inferiore, la statua equestre di un re (il super-ego), statue e grandi macchine; al piano superiore, «l’uomo-giallo» (l’io) si muove «extatique, poussé par un dieu-amour invisible»54 a seguire Daisyssina, sensualità che attrae come un vortice: «Le centre, là, point rouge, / attire comme l’aimant...»55. In questo spazio sospeso fra il teatro e l’incubo, il ritmo delle scene si accelera, e si entra, come scrive Breton «au cœur même du monde sexuel symbolique»56. Le immagini di una sessualità conturbante si susseguono, intercalate da canti, silenzi e suoni militari, fino alla soluzione: «l’uomocalvo», figura del padre, e la madre, veicoli di repressione affondati nell’inconscio, uccidono Daisyssina sul letto d’amore del figlio. La repressione è in atto: i genitori attuano l’inibizione della sessualità dell’«uomo-giallo» eliminando il simbolo di femminilità. Nel piano inferiore, intanto, dove durante la scena d’amore fra «l’uomo-giallo» e Daisyssina si erano rifugiati la madre e «l’uomo-calvo», il re a cavallo si lancia al galoppo e le statue si mettono a camminare, in un crescendo drammatico57. Ma un’apparizione fugace spezza l’azione: un fanciullo in camicia da notte entra in scena portando una candela: con la suola della pantofola schiaccia un ra-
51. Ivi, p. 13. 52. Ivi, p. 7. 53. Ivi, p. 16. 54. Ivi, p. 14. 55. Ivi, p. 15. 56. A. BRETON, Anthologie de l’humour noir, cit., p. 368. 57. «Les statues placées dans la partie basse de la tour commencent à se mouvoir. Le cheval de bronze portant le roi en croupe galope sur son socle. Le roi tire sur les rênes» (Les chants de la mi-mort, in Hermaphrodito, cit., p. 16).
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gno sul muro e poi, tremante, osserva l’animale schiacciato che agita un’antenna58. Mentre «l’uomo-giallo» è in preda agli incubi, il padre abbatte uno degli angeli che si affacciano alla finestra. Ma ecco che improvvisamente «l’uomo-giallo» si sveglia, e scopre l’assassinio di Daisyssina: travolto dalla follia, uccide la madre e ne calpesta il cadavere, lo lancia in aria, ci gioca come con una bambola: l’io si è liberato delle inibizioni, ha fatto saltare il controllo materno, ma il prezzo di questa liberazione è la follia, sottolineata dai «Grands éclats de rire»59 che accompagnano la scena. Siamo insomma precipitati in una scena di tumultuoso simbolismo, violentemente provocatorio, ma allo stesso tempo carico di significati universali, «ai confini misteriosi di ego e super-ego». Già quest’ultima sequenza illustrata dimostra la forza immaginativa e simbolica del testo, e allo stesso tempo la straordinaria lucidità con cui è strutturato: le immagini sono funzionali ad una evocazione diretta e concreta di una realtà che immagini realistiche non saprebbero cogliere. Nell’altra grande opera degli anni Dieci, Hermaphrodito60, si trovano molti accenti che dimostrano una diretta influenza dei futuristi, che peraltro sono in questi anni il
58. «Entre un garçonnet en chemise de nuit, tenant une bougie. Du revers de sa mule, il écrase un faucheux qui grimpait sur le mur; puis, tremblant, il observe la bête aplatie qui agite une antenne» (Les chants de la mimort, in Hermaphrodito, cit., p. 16). 59. Ivi, p. 19. 60. Molti dei capitoli che lo compongono erano già stati pubblicati su riviste: Canti della mezza morte e Dramma della città meridiana («La Voce», 31 marzo 1916) Epoca Risorgimento, («La Voce», 31 maggio 1916); Il Papa in guerra («La Voce», 30 giugno 1916); «Frara» città del Worbas («La Voce», 31 ottobre 1916); L’ora ebrea, La guerra, Drame de l’après-midi entre deux saisons e Finale («La Voce», 31 dicembre 1916); Il rocchetto di Venere («Brigata», ottobre-novembre 1917); Ferrara-Partenza («Brigata», giugno-luglio 1917); Atlas («Nord-Sud», 1 aprile 1917 e «Brigata», agosto-settembre 1917; Un bagno russo («Rivista ligure», 1 aprile 1917); la poesia Giardino («Raccolta», marzo 1918); La festa muratoria (in Antologia della Diana, Napoli, 1918).
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gruppo più attivo fra gli intellettuali italiani e al tempo stesso quello che ha maggiore risonanza negli ambienti delle avanguardie parigine. Alcune sequenze potrebbero sembrare in effetti marinettiane o palazzeschiane: Io che strizzo i westinghouses alla quarta velocità della mia immaginativa, e se non gli stessi d’attorno a potarla e a scalzarla di continuo, chi sa quali frondosità non mi butterebbe su, da esserne io ridotto all’uomo-foresta del carnevalone lunghessa la Maximilian-Strasse di fronte al Maximilianeum [...] ([...] Seduto sul lastrone romano. Le natiche al sicuro. Quale Consolazione!) – Emunctae naris... (l’ottusione bulinata nella ghisa) durus componere versus... (si scarta con cura la fibrilla d’intelligenza che potesse incrinare la compattezza della ligatura metallica). Gluc! Cip!... gluc! gluc! cip! cip! cip! Gluc! Cip!... gluc! gluc! cip! cip! cip! (sbatacchiamento di usci; starnazzamento di pollame cui si tira la carotide: la volaille céleste rantola nel mezzo al thé littéraire di Frau von Sapho)61.
In realtà, nonostante le suggestioni futuriste, l’impianto generale del libro, che ondeggia liberamente fra narrazione e meditazione filosofica, fra poesia, prosa e teatro, e soprattutto i sottesi contenuti di filosofia dell’arte sono inequivocabilmente specifici del mondo saviniano, così come molti temi ed immagini provenienti dagli Chants de la mi-mort. Non a caso l’immagine di ispirazione circense, con cui si chiude Hermaphrodito (il protagonista che, assunti i panni di un «giocoliere-equilibrista»62, mette in sce-
61. A. SAVINIO, Hermaphrodito, cit., p. 67. 62. È palese il riferimento al «giocoliere equilibrista» di Nietzsche (Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 1968, p. 58).
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na il proprio suicidio) ripropone lo stesso schema organizzativo e gli stessi toni di humour noir degli Chants: «Negligo la bestialità d’esser forte e salgo sul trapezio per l’esercizio finale: che si chiuderà in dramma – sì! – e, fra le berciate de’ tromboni e gli strilli delle donne in platea, il giocoliere-equilibrista, stretto nel rosa-carne della maglia aderente, si staccherà dal firmamento fulgido del circo e, con un prillo tragico, piomberà nella segatura della pista, come una stella estiva»63. Il saltimbanco-Savinio muore al culmine del suo spettacolo come il Fancioulle di Baudelaire, ma ne è l’esatto contrario: Fancioulle «crolla colpito al cuore dal segno tagliente del rifiuto opposto alla sua arte»64, l’acrobata di Hermaphrodito si rifiuta al pubblico e realizza con la propria morte un gesto di estremo dileggio e di provocazione, un macabro sberleffo. Alle immagini di disumanizzazione con cui si aprono gli Chants si affianca la scena di Hermaphrodito in cui il protagonista, parlando in prima persona, descrive un impressionante momento di materializzazione dell’uomo, destinata a diventare un topos: «Poco fa, come fui rientrato nella camera venduta, mi tolsi un guanto e l’inchiodai alla parete. Il guanto penzoloni conserva la forma della mano vuota: io guardo in quel cadavere di mano il mio destino, che non è più che una cotenna sgonfia»65. L’uomo vede il cadavere del proprio destino mentre guarda una parte di sé divenuta oggetto, ovvero un oggetto che si è fatto simbolo di quello stesso processo di straniamento da sé. Il processo di differenziazione è spezzato, e soggetto e oggetto, interno ed esterno, assumono confini incerti. Anche uno scrittore fortemente critico delle avanguardie come Pier Paolo Pasolini ha riconosciuto il valore e la peculiarità dell’opera:
63. A. SAVINIO, Hermaphrodito, cit., p. 234. 64. J. STAROBINSKI, Ritratto dell’artista da saltimbanco, cit., p. 106. 65. A. SAVINIO, Hermaphrodito, cit., p. 233.
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Hermaphrodito è un libro splendente. È vero: anche Savinio ha compiuto il “gesto di scriverlo”. Ma in lui la gestualità è stata la scelta di una poetica; scelta realizzata da un uomo per cui il primum era l’espressione, e dunque le “regole” scandalizzanti della gestualità rientravano in un sistema stilistico. A ogni riga il nostro Savinio non fa altro che “épater le bourgeois” nel modo più prevedibile e (al suo tempo) codificato: è tutto un ribobolo di bestemmie e paradossi. Che sono però nient’altro che quelle “restrizioni” linguistiche e quelle norme di “selettività” che, secondo la regola aurea del minor sforzo e della coerenza risparmiatrice, determinano il codice di un vero scrittore. La pagina risulta di un’acuminatezza e di una lucidità in cui ogni “dérèglement” un po’ sciocco (di carattere vuoi nazionalistico, – addirittura interventista – vuoi sentimentale – ma delirante, quasi alla Campana), dà le continue sorprese che dà la più raffinata e calcolata letteratura. Si prenda un piccolo campione, una paginetta: per esempio, L’ora ebrea. C’è da scandalizzarsene a sazietà davanti al suo falso, estetizzante sionismo, al suo dandysmo del tutto codificato, alla sua spregiudicatezza aprioristica, al suo anticomunismo becero: ma tutto si salva nell’invasata, febbrile, arida e infine cattivante inventività linguistica, in cui il succedersi di “analogie” e di “opposizioni” ha una rapidità e una inclinazione da disorientare piacevolmente, fino all’entusiasmo66.
Fin dalle prime opere Savinio non solo è padrone consapevole dei principi stilistici informatori della sua creazione artistica, ma ha anche chiaro che il suo atteggiamento creativo corrisponde a una precisa concezione della posizione dell’artista in relazione al mondo e alla cultura. Non si tratta in nessun caso di un rapporto pacifico, ma sempre conflittuale e di contrapposizione: «L’Arte, o signori, sola attività che c’interessi, non è soltanto
66. P.P. PASOLINI, in Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Torino, Einaudi, 1979, pp. 433-434.
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preghiera, dedizione, offerta, ma è presa di possesso anzitutto, atto di conquista, costruzione volontaria, imperativa, trionfante...»67. Nell’affermazione si ritrova tutto il carattere di un eroe nicciano che ha voluto fare della sua intera vita una scelta di poesia. Hermaphrodito è in realtà un libro in cui di ermafroditi non si parla quasi affatto: il titolo si riferisce e allude a qualcosa di assai più generale. L’ermafrodito è il simbolo di una perfezione che si traduce in autonomia, in indipendenza quasi totalizzante; assurge così per Savinio a metafora dell’artista che arriva a far paura agli stessi dei: «Ermafrodito addormentato rappresenta oggi, come al tempo del Simposio, l’immagine ideale della perfezione. Ma non è un dio neutro costui, sibbene il divino totale dei totali»68. Nel mito platonico qui richiamato, gli ermafroditi erano esseri superiori con due sessi, quattro gambe e quattro braccia, la cui completezza consentiva loro un’autonomia e un potere tali da poter sfidare gli dei. Zeus era infatti intervenuto tagliandoli a metà e riducendoli così a sottomessi e distinti uomini e donne. Per Savinio l’ermafrodito è dunque simbolo di autonomia, e soprattutto di una possibilità creatrice assolutamente libera, in quanto non deve scendere a compromessi con nessuno. Il mito serve a Savinio per inquadrare la figura dell’artista che mentre crea si specchia nella propria creazione costruendo così un’opera che ha per tema che cosa un’opera d’arte dovrebbe essere e come dovrebbe essere eseguita, in una vertiginosa struttura di concatenazioni interne degna di un quadro di Escher. La dialettica fra l’autore e la sua opera, qui già perfettamente impostata, verrà sviluppata in infinite variazioni attraverso tutta la sua creazione artistica. Il tema della schiavitù alla riproduzione, ovvero del condizionamento che all’azione umana deriva dal bisogno
67. A. SAVINIO, Infanzia di Nivasio Dolcemare, cit., p. 599. 68. Ivi, p. 598.
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dell’accoppiamento (cui ci si può sottrarre solo col rifiuto della sessualità), era stato soggetto, l’anno prima della pubblicazione di Hermaphrodito, di un dramma di Apollinaire, Les mammelles de Tirésias. Il riferimento al precedente risulta obbligato, visto che Savinio stesso lo esplicita nel testo. Nell’opera teatrale, la protagonista Teresa rifiuta la sua femminilità e diventa Tirésias per liberarsi dalla schiavitù della maternità, ma a questa trasformazione il marito reagisce trovando il modo di riprodursi asessuatamente, e dando vita, con prolificità ormai incontenibile, ad una sterminata progenie. Savinio non cede alla tentazione di fare una retorica dell’antiretorica, e tratta con pari ironia i miti propri e gli altrui: la procreatività dell’ermafrodito, in questo caso il «mammelluto Tiresias», prende toni grotteschi: «Come l’ebbi esaminato attentamente, scoprì la terribile fecondità racchiusa nel suo corpo bacato. Prognosticai in lui un misto dei due sessi, con palese androginia e calcolo di patromaternità. Lo indovinai malato di un doppio motore genitale e sofferente così degli ovari che dei testicoli»69. Per Savinio l’ermafrodito si caratterizza sì per la sua capacità creatrice, ma questa generazione fuori dalle regole, e contro di esse, non può che produrre creature che agli altri appariranno mostruose e da censurare, proprio per la loro terribile potenzialità evocativa di idee che, proprie del registro dell’immaginario, devono essere necessariamente rimosse nell’adulto socializzato. Savinio stesso suggerisce questa interpretazione: egli è l’ermafrodito, «l’uomo doppio», in quanto artista creativo e, proprio per questo, eversivo e quindi rifiutato dalla «società borghese». Savinio rivendica in sostanza il diritto a rimanere nella vichiana «età dell’immaginazione» che coniuga primitività e fanciullezza. Questo desiderio si scontra però con le
69. A. SAVINIO, Hermaphrodito, cit., p. 229.
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aspettative della società, e si traduce in una situazione di violenta conflittualità: i sogni diventano incubi, le creature fantastiche diventano mostri. L’occhio di Savinio, microscopio e al tempo stesso telescopio, è un filtro che, rivoluzionando dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande la prospettiva dello sguardo, porta alla luce ciò che è nascosto alla vista semplice degli esseri umani comuni, cioè quanto di bestiale c’è negli stessi esseri umani: persino sua madre nell’atto di metterlo al mondo viene rappresentata «latrante»70 come una cagna. Savinio considera tanto importante questa funzione di ridefinitore di immagini da porre «MicroscopioTelescopio» come sottotitolo di Hermaphrodito. Il singolare accoppiamento non stupisce in quanto, per Savinio, la strada verso la realtà passa in primo luogo attraverso un cambiamento di prospettiva che può essere in qualsiasi direzione, purché obblighi l’interlocutore a riconoscere la parzialità, la convenzionalità e quindi l’opinabilità della sua visione del mondo.
L’«AVVELENATORE
DI POZZI CULTURALI»
Savinio costruisce opere ironiche e dissacratorie, dense di una critica tagliente che non risparmia dei, dogmi ed istituzioni, con uno stile aspro e inconsueto e, soprattutto, commisto di espressioni volgari e urtanti, ma nel contempo di struttura complessa e irto di figure retoriche. L’unione di provocazione aperta e indubbia complessità gli guadagnano insieme l’indifferenza del pubblico, abituato ad un diffuso conformismo, e l’ostracismo della critica. Così Ugo Piscopo sintetizza le ragioni della scarsa popolarità di Savinio fra i contemporanei: «Un autore del ge-
70. A. SAVINIO, Infanzia di Nivasio Dolcemare, cit., p. 577.
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nere, naturalmente, non può riuscire popolare né presso un pubblico abituato agli zuccherosi sciroppi del melodramma e a tutti gli altri alienanti prodotti artistici in cui la realtà non si riflette nelle sue laceranti contraddizioni, ma viene idealizzata e manipolata, né presso una critica investita da una secolare seriosità e gravità, che servono a mantenere in piedi le istituzioni contro cui rivolge la sua violenta irrisione Savinio»71. E Longhi arriverà a definire Savinio un «avvelenatore di pozzi culturali», appellativo che, forse, a Savinio non sarebbe poi dispiaciuto; e ancora nel 1953, un anno dopo la morte di Savinio, Emilio Cecchi riflette: «E veniva fatto di riproporsi la domanda, se alla fine dei conti, ad un artista non giovi limitarsi e concentrarsi in una sola arte, in un solo mestiere, in una sola tecnica, piuttosto che dedicarsi come il Savinio ad arti tanto diverse e lontane»72. Il critico ne metteva infine in risalto lo stile poco controllato rifiutando quelle irregolarità formali, per Savinio profondamente significative, ma che ai sui occhi si riducevano a semplice mancanza di cura e di adeguata revisione dei testi: «Non gli passa neppure per la mente di applicarsi a creare un proprio linguaggio. Brutalmente lascia dentro all’opera i supporti, i tamponi; non si cura di nascondere le commettiture, le ricuciture, la stoppa. E a lui, insomma, non si accosterebbe con disposizioni favorevoli, chi andasse a chiedergli squisitezze verbali, capillari scavi psicologici, preziosità e succosità di colori ed impasti»73. Il rifiuto da parte del pubblico, conformista ed integrato nella cultura dominante, è insito nella produzione di un testo che quella cultura si propone di minare; e d’altra parte il successo avrebbe fatto nascere inevitabilmente in
71. U. PISCOPO, Alberto Savinio, Milano, Mursia, 1973, p. 251. 72. E. CECCHI, Alberto Savinio [1953], in Letteratura italiana del Novecento, a cura di Pietro Citati, Milano, Mondadori, II, 1972, p. 870. 73. Ivi, p. 874.
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un autore come Savinio il doloroso sospetto che l’opera fosse troppo facilmente ricevibile, digeribile e quindi integrabile nel sistema, cioè priva di un vero valore poetico. Si avverte nel giovane Savinio anche l’eco dei futuristi che nelle loro performance si impegnavano a provocare il fiasco, e per arrivare a tale risultato, si spingevano fino ad insultare il pubblico. Le stesse parole che chiudono Hermaphrodito («Sul mondo mutante e medesimo, la mia casa non rimarrà, fra le case degli uomini»74) evocano l’aspettativa di un’accoglienza ostile e di una fondamentale incomprensione con la massa del pubblico, vissute però come necessarie alla condizione eroica insita nella missione dell’artista. Conscio, e, come si è visto, perfino fiero della sua condizione di emarginato, Savinio anticipa il critico, e lo sostituisce, proponendosi continuamente come interprete di se medesimo. Arriverà persino a scrivere una Piccola guida alla mia opera prima, in cui ammonisce: «S’illude qualcuno di [...] scoprire attraverso la parola scritta il segreto del nostro pensiero? Come Narciso nello stagno, colui non vede noi ma se stesso, riflesso in questi specchi misteriosi e ingannatori che noi chiamiamo libri. Questo fatale trascrivere ricordi e fantasie, in effetti non è se non monologo geloso. La lettera appare, ma come nelle scritture sacre, lo spirito rimane indecifrabile»75. O, meglio, lo spirito sarà decifrabile solo per quegli amici che Savinio elegge come compagni di conversazione. Poco importa se molti di loro, come Ibsen e Luciano, per ovvie ragioni non potranno materialmente leggere i suoi libri; resta il fatto fondamentale che, come ha scritto Leonardo Sciascia, Savinio «conversa sempre; e dialoga al di là della forma dialogica. E questo accade perché Savinio, come Stendhal e come Borges, è uno scrittore che ha scelto i suoi lettori.
74. A. SAVINIO, Hermaphrodito, cit., p. 234. 75. A. SAVINIO, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 522.
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Rara, rarissima specie di scrittori [...] continuano [...] a scegliere i loro lettori, a trasceglierli come se nelle loro pagine fossero i test per un’ardua, rigorosa, esclusiva selezione: ad ammetterli a quella conversazione, ad eleggerli – come dice Savinio – a compagni leggeri, ad Arieli di un mondo in cui tutto è al tempo stesso semplice e misterioso, evidente e segreto, “superficiale” e profondo»76. Savinio crea la più autoreferente delle scritture: mescolando, come Musil e Gadda, narrazione e saggio, egli non si ferma al dato autobiografico, lo interpreta, lo analizza, non esita a spezzare il filo della narrazione per rivolgersi direttamente al lettore e dettargli l’interpretazione del proprio testo, citando e rimandando frequentemente ad altre sue opere. D’altra parte, come fa ammettere candidamente al Signor Dido, «amerebbe soprattutto parlare di sé e sentir parlare di sé»77, e la cosa non sembra comunque riprovevole, visto che per Savinio «ogni scrittore di spirito modemo è scrittore profondamente autobiografico»78. La scrittura di Savinio si pone così a metà strada fra la meditazione filosofica e la confessione di sé: sogno ad occhi aperti, immediatamente sezionato ed analizzato in ogni sfaccettatura, e dunque carico di valori riflessivi e filosofici. E nell’immagine di chi scrive di se stesso scrivente, in un processo continuamente autoreferenziale, non si può non riconoscere il riverbero dell’autosufficienza erotica dell’ermafrodito. IL
SURREALISMO
Alla luce di quanto finora analizzato, è quasi ovvio che i surrealisti abbiano visto in Savinio un precursore e un na76. L. SCIASCIA, Savinio o della conversazione, in A. SAVINIO, Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra, cit., pp. VII-VIII. 77. A. SAVINIO, Il Signor Dido, cit., p. 700. 78. A. SAVINIO, Luciano di Samosata, in A. SAVINIO, Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra, cit., p. 35.
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turale compagno di strada. La consonanza di vedute si concretizzò fra l’altro nella pubblicazione di alcune opere di Savinio nelle riviste surrealiste. Ma anche nei confronti dei surrealisti Savinio conservò sempre una carica di trasgressività e un bisogno di indipendenza che non gli consentì un’adesione completa. Savinio stesso precisa i termini del suo rapporto con il surrealismo: «Il Surrealismo per quanto io vedo e per quanto so, è la rappresentazione dell’informe ossia di quello che ancora non ha preso forma, è l’espressione dell’inconsciente ossia di quello che la coscienza ancora non ha organizzato [...] Quanto a un Surrealismo mio, se di Surrealismo è il caso di parlare, esso è esattamente il contrario di quello che abbiamo detto, perché il mio Surrealismo, come molti miei scritti e molte mie pitture stanno a testimoniare, non si contenta di rappresentare l’informe e di esprimere l’incosciente, ma vuole dare forma all’informe e coscienza all’incosciente [...] Nel Surrealismo mio si cela una volontà formativa [...] una specie di apostolico fine»79. In effetti, quello che Savinio proclama come il “suo” surrealismo non è altro che l’orgogliosa definizione della propria concezione dell’arte, di cui egli addita soprattutto il sottostante valore costruttivo e di impegno morale, contro chi vorrebbe ridurla a mero gioco intellettuale. Nonostante le sue stesse affermazioni, non si può però fare a meno di annoverare Savinio fra gli esponenti del surrealismo, non solo per l’intreccio di reciproci riferimenti e per i diretti contributi alle elaborazioni di poetica, ma soprattutto per una fondamentale comunanza di stile. Si rilevano, per esempio, notevoli affinità tematiche e stilistiche con la produzione pittorica di Max Ernst, relative in particolare alla dimensione fantastica in cui sono collocati mostri ed ibridi dai colori smaglianti: un dipinto
79. A. SAVINIO, Tutta la vita, cit., pp. 7-8.
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come La vestizione della sposa (1940) mostra un’evidente risonanza con i quadri che Savinio aveva dipinto a Parigi negli anni Trenta come La visitation, Dames en visite e Les anges batailleurs. In ogni caso, il surrealismo di Savinio mantiene un’impronta personale molto marcata che si può riassumere in due connotazioni: grottesco e corporale. Entrambi gli aspetti sono però funzionali all’attivazione di un processo di shock e alla trasmissione nel pubblico di una forte tensione drammatica80. Non si tratta insomma di un surrealismo limpido e “verniciato”, come quello di suo fratello Giorgio, ma di una ricerca artistica che ha semmai aspetti in comune con il fantastico grottesco di Salvador Dalí, e che, in campo letterario, si manifesterà appieno nel romanzo La nostra anima, in cui la dimensione del mostruoso e la corporalità invadono tutta la narrazione con immagini la cui provocatorietà rasenta la brutalità: «Vano sacrificio di tanti promettenti genitali! Mentre i pretendenti continuavano ad aspergere le scale di casa nostra del loro sangue generoso, era un bel popò che le mie sorelle si erano calate in cortile col paracadute di casa portando i loro mariti attaccati per i testicoli»81. Ancora una volta è Savinio stesso ad indicare che queste immagini costituiscono la «vera» realtà, quella che normalmente non si
80. Savinio indicava nella creazione di soprendenti riferimenti sensoriali al fine di produrre contrasti di grande efficacia espressiva, uno dei punti principali di Luigi Pulci, ma lasciava trasparire anche riferimenti personali: «Mortito, ossia un guazzetto di porco, castrone, vino e aromi. Questa immagine non piace ai critici letterari. “I campi di battaglia svegliano immagini tolte ad imprestito da’ macellai e da’ cucinieri”, scrive De Sanctis. “Egli ha poi una speciale predilezione per le immagini derivate da cose di cucina”, scrive Adolfo Gaspary. Le reazioni di queste anime schifiltose, io le conosco per esperienza personale. Ma il movimento drammatico non è forse nei contrasti? E tanto più forte, quanto maggiore il contrasto? Quale sciapata se invece di raffronti culinari, Pulci ci avesse dato “nobili” paragoni!» (A. SAVINIO, Luigi Pulci, in Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra, cit., p. 1362). 81. A. SAVINIO, La nostra anima, cit., p. 48.
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vuole vedere. Il racconto è prodotto appunto da Psiche, figura umana con testa di uccello, che riporta ciò che viene percepito dal suo «fedele occhio di pellicano»: un occhio non umano, ma bestiale, che riesce a penetrare al di là dell’apparenza, del fenomeno e coglie la profonda realtà che appare finalmente in tutta la sua inquietante, deforme mostruosità.
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LO «PSICHISMO
DELLE FORME»
Mentre rivendica il diritto a restare fuori da una società repressiva, mantenendo un punto di vista differenziato da cui osservare con ironia, Savinio persegue allo stesso tempo una ricerca quasi ossessiva di affermazione della propria identità: anche la propria esistenza nasce da un atto di creazione, da un atto fortemente volitivo. Come si è visto, Savinio non accetta il proprio nome di famiglia, ma decide di darsene lui stesso uno tutto personale, e lo pseudonimo assunto non è significativo (come Gabriela Mistral) o funzionale (come Isak Dinesen), ma è un nome che deve la sua rilevanza al solo fatto di essere stato scelto. E anche lo stesso pseudonimo viene continuamente superato e obliterato in una spumeggiante proliferazione onomastica, che coinvolge tutti i suoi personaggi, autobiografici e non, in una fantasmagoria battesimale degna della tradizione di Pulci e Rabelais. Nascono così il signor Dido, il signor Münster, Nivasio Dolcemare, la signora Trigliona, il generale Papatrapatàkos, Deolinda Zimbalìst e innumerevoli altri. Proprio alle bizzarre creazioni linguistiche del Pulci, uno degli autori più significativi per la sua formazione82, Savinio fa ripetutamente riferimento già in Hermaphrodito
82. Si veda anche la nostra precedente nota 80.
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e poi in numerose opere successive. Il piacere dell’invenzione lessicale si accompagna all’amore per le etimologie, vere avventure delle parole, che vengono raccontate con un entusiasmo così appassionato da suscitare il bisogno di una giustificazione nobile, come, ad esempio, il ricordo che anche Leopardi si commosse quando si rese conto che «nausea» deriva dal termine greco per «nave»83. Con la scoperta della propria etimologia una parola si scrolla di dosso l’abitudine dell’uso per recuperare tutta la ricchezza originaria del suo significato, tutto il proprio potere evocativo, e staccarsi quindi dal linguaggio formale ordinario. In questo senso non ha nemmeno importanza se l’etimologia sia falsa o vera; anzi, sono da preferirsi quelle false, che aprono un mondo nuovo, lasciando allo stesso tempo aperte infinite alternative. Coniando una falsa etimologia, si schiude il mondo straordinario di ciò che quel suono avrebbe potuto significare, e lo si arricchisce di una inevitabile ambiguità. Le spiegazioni varie e contraddittorie, prodotte da splendidi giochi speculativi, sono preferibili ad una verità unica, che abbrutisce l’essere umano. Di questa scelta Savinio sottolinea la componente ludica, propria di chi sa guardare il mondo con superiore e disincantato umorismo, senza accontentarsi di una visione facile e consolatoria della realtà. Una volta stabilito che «l’arte non è riproduzione del vero», e che esiste una realtà da scoprire più vera del reale, Savino approda a una definizione dell’arte come processo conoscitivo: Il signor Dido è pittore. A una delle sue pitture egli ha dato nome: Una strana famiglia. Si vede una famiglia davanti all’obiettivo del fotografo. [...] Lo strano è nelle facce.
83. «Filologo, cioè a dire amico delle parole, le spezzava per vedere come sono fatte dentro. Godeva scoprire che nausea viene da naus: questi giochi, queste freddure superiori» (A. SAVINIO, Drammaticità di Leopardi, cit. p. 22).
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Viene fuori dalle facce. Da quella specie di banana che sbarra la faccia del padre; dall’occhio a ingresso di formicaio che protubera la faccia della madre; dagli occhi a celesti pallini di ping-pong che fuorescono dalle orbite della figlia. [...] Alcuni pochi [...] si sono addestrati a intendere la legittimità e la profondità di quelle strane rappresentazioni. Le quali si dicono strane, ma in effetti sono la esatta rappresentazione della verità. [...] L’uomo guarda uomini e cose intorno a sé e crede vederli, ma in verità non li vede. Vede invece altrettanti schemi fissi di uomini e cose che egli porta dentro di sé, e che tutti assieme formano una sua personale e idealistica rappresentazione del mondo. [...] [i]l signor Dido non è idealista. Uomini e cose, non si sa bene se per allenamento o per facoltà innata, egli li vede di là dal velo dell’idealismo. [...] uomini e cose gli scoprono il loro aspetto, come dire? archeologico. Meglio: il loro aspetto profondo. Il signor Dido, in altre parole, scopre ciò che si potrebbe chiamare lo psichismo delle forme84.
Savinio non cede tuttavia alla tentazione di sostituire una struttura rigida ad un’altra: la continua ricerca di modi e mezzi espressivi, così come il sarcasmo contro tutto ciò che ha sapore di ordine costituito, di costrizione, di accettazione acritica, la fuga da tutto ciò che, come il proprio nome, potrebbe apparire una ovvia o naturale definizione del proprio ruolo, testimoniano del suo lucido, reiterato rifiuto di lasciare che la sua arte venga sterilizzata e riassorbita in quella cultura “ufficiale” di cui ha orrore. La sua ricerca lo porta a esplorare le arti più diverse, in ciascuna delle quali rimane, come gli è stato rimproverato da Emilio Cecchi, essenzialmente un dilettante. Del proprio dilettantismo, della propria «non serietà»85 egli fa in-
84. A. SAVINIO, Una strana famiglia, in Ermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 764-765. 85. In Teatro da ridere Savinio dichiarava che «chi conosce i segreti del tempio, sa bene che la frivolità, questo fiore delicatissimo e prezioso, è la meta cui, dal fondo dei loro duri sogni, aspirano i giganti» (A. SAVINIO, Palchetti romani, cit., p. 336).
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vece un punto di orgoglio indicando nei «Grandi Dilettanti» i suoi ispiratori: Luciano, Nietzsche, Voltaire, Montaigne e Stendhal86. Lo stendhalismo viene infatti additato come «un modello di Umanesimo perfezionato»87 proprio in quanto è «una vita senza meta», «una forma di dilettantismo»88 che si può accomunare al modo di sentire disinteressato, puro e privo di finalismo, della Grecia presocratica. L’eclettismo saviniano non risponde tanto ad un’esigenza di varietà occasionale di modi espressivi, alternativi l’uno all’altro, quanto all’urgenza di creare un’opera complessiva in cui ciascuna arte, cogliendo un aspetto, concorra a costruire una struttura unitaria e integrata, che nel suo insieme polimorfico rappresenta la verità finalmente svelata. È l’esistenza di questa rete inter-espressiva che fa sì che un quadro di Savinio continuerà in un racconto, che verrà espanso in una rappresentazione drammatica che, a sua volta, sarà arricchita e completata da un apparato scenografico o da un costume; tutti i vari momenti saranno infine analizzati, commentati, e giustificati nei saggi critici, al cui interno si aprono squarci narrativi; e così via, in una catena di rimandi in cui è impossibile fermarsi su uno specifico genere artistico. Come ha suggerito Maurizio Fagiolo dell’Arco, l’impostazione delle opere pittoriche di Savinio va considerata in stretto collegamento con le creazioni teatrali, in quanto tutti capitoli di un unico progetto: «“Centrale creativa” si definisce Savinio. Non si potrebbe designare meglio di così il caso di una pittura che nasce dalla letteratura che proviene dalla musica, di una musica che nasce come balletto e quindi come quadro in movimento, di una
86. Dobbiamo ad Edoardo Sanguineti la segnalazione del comune amore di Savinio e Stendhal per i travestimenti onomastici. 87. A. SAVINIO, Tommaso Campanella, in Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra, cit., p. 29. 88. Ibidem.
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scenografia che diventa letteratura e poi quadro, di un quadro che si metamorfosa in discorso letterario»89. Si nota in particolare che in molti quadri di Savinio è presente un rmmiconoscibile impianto scenico, con la sua struttura di quinte e fondali, e con un sipario90 che acquisisce in particolare una valenza quasi mistica di cortina che nasconde una realtà misteriosa, ma può, sollevandosi, «svelarla». Il Teatro appare così in tutti i sensi una sintesi delle arti: «Il teatro è il riflesso sulla scena della condizione dell’universo», ma per cogliere questo bagliore profondamente conoscitivo è necessario «un teatro nel quale la musica si farà prosa per parlarci della sua vita intima e la prosa si farà musica per rivelarci i suoi momenti di lirismo»91. Nei personaggi con teste di animali o, viceversa, negli oggetti umanizzati si riconoscono così altrettanti costumi teatrali, destinati a sganciare irrevocabilmente l’attore non solo dalla sua umanità, ma anche dal suo ruolo ormai canonizzato all’interno del rito teatrale. L’imprevedibilità e la sorpresa, facendo breccia nella barriera, misto di indifferenza e di autodifesa, dello spettatore, rendono l’attore finalmente “visibile” e gli consentono di stabilire una vera comunicazione con il pubblico. A questo fine il costume dovrà essere al tempo stesso significativo, ovvero corrispondere a quella realtà nascosta che si propone di comunicare, e dirompente, per poter infrangere i sistemi di autodifesa dell’osservatore e costrin-
89. M. FAGIOLO DELL’ARCO, «Coscienza plastica». Riflessi della pratica teatrale nella pittura di Savinio, in Alberto Savinio pittore di teatro / Peintre de théâtre, cit., p. 21. Fagiolo dell’Arco insiste ancora in proposito: «dipinge con le idee, scrive con le immagini, compone musica col colore. [...] Ecco allora l’idea di un filosofo che si esprime con le immagini, di un uomo di teatro che parla con la musica. Un saggio che preferisce mascherarsi da matto» (ivi, p. 22). 90. Si veda ad esempio l’immagine in copertina di questo volume, riproduzione di un sipario dipinto per la rappresentazione al Teatro alla Scala dei Racconti di Hoffmann. 91. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., pp. 361-362.
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gerlo a fare i conti con il suo messaggio. Dato che «[g]li stessi critici d’arte non intendono il senso di queste [...] ibride figurazioni»92, Savinio, ancora nella Nuova enciclopedia, specifica il carattere di indagine conoscitiva della sua creazione, e non di divagazione gratuita o di esercizio barocco, come i più sembrano credere: «In quella serie di mie pitture che figurano uomini con teste di animali, i più frivoli hanno creduto ravvisare una intenzione caricaturale, che assolutamente manca. Quelle mie pitture sono “studi di carattere”; meglio ancora: “ritratti”. Perché il ritratto – il “vero” ritratto – è la rivelazione dell’uomo nascosto. Il quale ora è un gatto, ora un cervo, ora un maiale. Più di rado un leone. Ancor più di rado un’aquila. Spesso un animale senza vita ma egualmente nocivo e mortifero, ossia una carogna»93. Il modo saviniano di percepire la realtà e gli esseri umani determina quindi la “rappresentazione” artistica: questa sua radicalizzazione del “poetare” o del significare poggia su una rete di figure retoriche paradossali, che mettono a disagio il lettore: Savinio non vuole dilettare, ma rendere il recettore più analitico, vuole far pensare e criticare, vuole sensibilizzare il lettore a non accettare le confortevoli verità che la società gli offre. L’uso delle dissonanze, degli equivoci linguistici e semantici, del plurilinguismo, è funzionale alla creazione di una struttura che è l’opposto del “definitivo”, l’opposto delle poetiche che vogliono dare un senso unico, universale al mondo e alle cose. Savinio rifiuta l’univocità, proclama il pluralismo e avvia la ricerca di una realtà autre perché, per dirla con le parole di Breton, «la vita e la morte sono soluzioni immaginarie, la realtà è altrove». Non esistono quindi valori assoluti né verità universali, e crederlo genera un pericoloso «sonno della ragione», una vera e propria immoralità: «Il di-
92. A. SAVINO, Cinque alberi, in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., p. 787. 93. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., pp. 44-45.
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fetto maggiore e la profonda immoralità dei regimi assolutisti come di ogni condizione assolutista, è il principio della “verità unica”. Mentre si sa che la verità umana, la verità nostra, la verità “vera” è fatta di vero e di falso: più di falso che di vero»94. Distruggere le illusioni e le superstizioni diviene così una sorta di missione che l’artista deve compiere95. In quest’ottica, la dissacrazione delle istituzioni diviene parte organica di un progetto che è non solo artistico ma esistenziale e morale. Savinio si distanzia dalle inquietudini del primo Novecento in quanto definisce una figura d’artista che si pone al di fuori della società borghese, come Tonio Kröger, ma attraverso una presa di coscienza della propria diversità che travalica la tragedia per diventare ironia: «L’uomo, dopo che ha patito la tragedia, arriva al senso ironico». L’artista soffre sì, ma di un complesso di superiorità, e guarda il mondo nella sua meschina realtà con affettuoso dileggio. L’artista non ha bisogno di sfuggire la realtà, visto che ha superato l’angoscia dello straniamento e ha raggiunto la coscienza che è il suo «occhio trasformatore» a svelare la realtà, o meglio a crearla, al di là di qualunque idealismo: «Nivasio Dolcemare non solo non s’è fatto prete, ma la sola dea che egli riconosce è la dea Intelligenza»96. L’occhio di Savinio, del «divino Ermafrodito», è quindi, in primis, l’occhio di chi privilegia la libertà di giudizio sopra ogni altra cosa – libertà creatrice e nemica di ogni idea preconcetta – e quindi occhio dell’Intelligenza, «occhio di pellicano».
94. Ivi, p. 387. 95. «Ed è per questo che il Grande Dilettante – [...] combatte ovunque càpita e in ogni loro forma la superstizione e l’illusione, ossia i due impedimenti più gravi all’avvento del Grande Diletto. Che è l’ultima illusione di questi distruttori d’illusioni» (A. SAVINIO, introduzione ai Dialoghi e saggi di Luciano, cit., pp. 40-41). 96. A. SAVINIO, Infanzia di Nivasio Dolcemare, cit., p. 594.
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LA POETICA DEL LAPSUS: INCONSCIO E LINGUAGGIO
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Il signor Münster non concepisce il dramma se non attraverso la potenza del verbo e lo scontro delle parole. A. Savinio, Casa «La Vita»1 Nella lingua non vi sono che differenze [...] si prenda il significante o il significato, la lingua non comporta né delle idee né dei suoni che preesistano al sistema linguistico, ma soltanto delle differenze concettuali e delle differenze foniche. F. de Saussure, Corso di linguistica generale2
LA
PARAPRAXIS
Le ripetute esplicite citazioni delle opere di Freud3 presenti in vari testi di Savinio rendono praticamente un per-
1. A. SAVINIO, Casa «La Vita», cit., p. 268. 2. F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1967, p. 145. 3. In un denso articolo dal titolo Il fantasma di Freud sempre a caccia di verità Savinio dichiara apertamente la propria adesione alla psicoanalisi di stampo freudiano: «il geniale Freud fornisce lume e nutrimento alla mia mente [...] mentre l’Adler [...] è una mente mediocre (e se il mediocrismo è deplorabile nella fabbricazione delle scarpe, figuriamoci nella esplorazione della psiche!) e l’altro, lo Jung, è una specie di reincarnato Pitagora, il quale anziché praticare la psicanalisi sugli altri, avrebbe bi-
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corso obbligato l’interpretazione secondo linee freudiane delle sue opere, intessute di argomentazioni sulla costruzione del linguaggio, sull’umorismo e sull’inconscio. Savinio fa tuttavia un uso originale dei concetti freudiani, avvicinabile piuttosto alle teorie sul linguaggio formulate molto più tardi da Lacan. Si deve dunque sottolineare la profonda attualità della sua lettura dell’opera di Freud, ma va rilevata soprattutto la sua straordinaria capacità di tradurre un impianto teorico in creazione artistica. In Savinio è evidente l’attenzione continua, quasi ossessiva, per il problema del linguaggio, che si manifesta a molteplici livelli, sia come ricerca di modi e mezzi espressivi che come esplicita indagine sul loro significato: nella sua opera si intrecciano costantemente il linguaggio ed il metalinguaggio, l’uso di strutture espressive e la loro analisi. Sin dalla sua prima opera letteraria, Les chants de la mi-mort, egli concentra il suo interesse sulle possibilità semantiche delle scelte linguistiche, per arrivare, attraverso innumerevoli esperienze in lingue e forme artistiche diverse, ad una concezione del linguaggio come “luogo” in cui l’individuo può trovar modo di spezzare il sistema di condizionamenti che, ad ogni livello, gli è imposto. Savinio scopre che l’«anello che non tiene» della costruzione culturale e psicologica può essere trovato, o creato, in una frattura della struttura linguistica. Savinio non solo mostra di avere assimilato e utilizzato le tesi freudiane con una lucidità sorprendente, che gli permette di elaborare una concezione originale del rapporto fra società ed arte, fra conscio ed inconscio, ma riesce a trasporle in materiale creativo. Caso estremo di questo processo può essere considerato il romanzo La nostra anima, che è la storia di una discesa nelle profondità dell’inconscio, strutturato esso stesso come un linguaggio.
sogno egli stesso di farsi psicanalizzare» (in Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra, cit., pp. 1503-1504).
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La tesi freudiana secondo cui l’«inconscio è un linguaggio» diviene così elemento strutturale dell’opera d’arte. Di fronte ai surrealisti che sostenevano, specialmente nel primo manifesto, la scrittura automatica come forma d’arte, Savinio individua la possibilità di agire ad un livello più profondo lasciando che nel discorso scritto emergano quegli automatismi di cui spontaneamente la lingua parlata è costellata. In altri termini, la scrittura saviniana si compiace di splendidi refusi che rappresentano altrettante finestre sull’inconscio, sulla realtà com’è al di là dei suoi travestimenti idealizzanti: «Sugl’incontri fortuiti delle parole, e per mezzo della scrittura automatica, i surrealisti avevano tentato di fondare una nuova poetica; ma il fascino e il mistero dell’inaspettato [...] svaporano ove l’inaspettato sia voluto, predisposto e organizzato [...] Guardiamoci dunque di contaminare l’Inaspettato, e onoriamolo invece come si conviene quando esso si presenta a noi candido e sincero. Onoriamolo nel refuso, e soprattutto in alcuni refusi particolarmente felici, come questo [...] che mutando il significato di una parola è riuscito a sconvolgere per un po’ e a trasformare in noi il concetto della verità»4. È evidente il riferimento a quanto Freud definisce come parapraxis, cioè quel processo di alterazione del linguaggio (analogo quello del comune lapsus, ma allo stadio patologico) di cui lo scienziato viennese proponeva lo studio sistematico come strumento psicoanalitico5. La parapraxis, così come il lapsus che ne è la versione quotidiana, permettono un accesso diretto all’inconscio. I lapsus sono esattamente le parole dell’inconscio, tramite le quali è possibile portare alla luce il materiale rimosso, cioè, per usare le parole di Savinio, «gl’immanifestabili sentimenti della nostra coscienza»6. Il lapsus calami è così
4. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., pp. 318-319. 5. S. FREUD, Psicopatologia della vita quotidiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1971, pp. 66-117.
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una sorta di primo livello della spoliazione della realtà dalle apparenze. Per focalizzare e analizzare queste manifestazioni dell’inconscio, Savinio non esita ad interrompere il flusso del discorso narrativo con note esplicative in calce o addirittura interne al testo; così in una nota alla Nostra anima egli argomenta: Invece di “sesso” la mia penna aveva scritto “sasso”. Caso singolarissimo di lapsus “contrario”. Il lapsus non è un semplice scambio di parole, cioè a dire che non ogni scambio di parole costituisce lapsus. Il lapsus è psicologicamente valido, quando alla parola in un certo senso insignificante, si sostituisce una parola in un certo senso significativa. Qui invece è avvenuto il contrario: alla parola significativa “sesso”, si è sostituita la parola insignificante “sasso”. Segno che il nostro subcosciente ha in serbo anche dei sentimenti manifestabili e assieme le parole che li esprimono, con le quali tenta di tanto in tanto di nascondere gl’immanifestabili sentimenti della nostra coscienza7.
Il processo che Savinio descrive qui non è altro che lo scivolamento lacaniano del significante sotto il significato. È evidente un profondo nesso tra lo spostamento e cancellazione di significati descritto qui da Savinio e la definizione lacaniana dell’inconscio: «Dire con Lacan che l’inconscio è il regno del significante, equivale in concreto a dire che nei linguaggi dell’inconscio non si dànno mai significanti trasparenti perché non si dànno mai significati scoperti: dunque il significato è sempre invisibile e solo il significante è visibile»8. Per Savinio, che fa costante riferimento alla dimensione sociale del linguaggio comunicante, essenzialmente repressivo poiché strutturato su re-
6. A. SAVINIO, La nostra anima, cit., p. 46. 7. Ibidem. 8. F. ORLANDO, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, 1973, p. 60.
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gole rigide e precise che hanno il compito di censurare usi non prescritti e pertanto considerati non legittimi, il lapsus assolve a una duplice funzione: da un lato, di accesso all’inconscio di chi comunica, consentendo quindi l’apertura a nuovi significati, e dall’altro, di destabilizzazione del discorso, in quanto capace di produrre una traumatica presa di coscienza della convenzionalità e limitatezza del linguaggio. La poetica del lapsus di Savinio si carica insomma di un significato più profondo, perché la parapraxis, il lapsus linguae, hanno la capacità di destabilizzare il linguaggio. Nella Vita di Enrico Ibsen, Savinio arriva ad indicare, per l’appunto, uno scollamento fra la realtà delle parole e il valore che l’uso impone loro, e che ci viene insegnato ad accettare come l’unico possibile o, più subdolamente ancora, come quello naturale: Noi – noi e il nostro vocabolario, questo pesante codice delle parole [...]. Giochiamo con le parole, ce ne serviamo, ma non ci passa nemmeno per la mente che le parole sieno da considerare, sieno da rispettare anche per altre ragioni: per qualche ragione loro personale: che le parole sieno anche diverse di come esse sono per noi. E per le parole noi siamo dei mariti borghesi, esigenti, ciechi [...] E le parole, assetate di libertà, assetate d’indipendenza, assetate di “personalità” ci mostrano di tanto in tanto, con la complicità delle macchine da scrivere (questi strumenti della emancipazione della parola: prima della macchine da scrivere [...] le parole erano condannate a una infrangibile schiavitù, [...]) le parole ci mostrano anche l’altro loro volto: il loro “vero” volto: il volto della loro anima libera9.
Il distacco operato da Savinio fra la realtà e la sua immagine convenzionale, codificata, si proietta su tutti i piani: dalla metastruttura alla struttura, dalla scelta dei temi alla scelta delle parole e fino alla scelta dei simboli:
9. A. SAVINIO, Vita di Enrico Ibsen, cit., pp. 15-16.
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donne e uomini con teste d’animali, esseri viventi che si reificano, oggetti che si antropomorfizzano e personaggi mitologici che entrano nella vita quotidiana.
L’ARTE
COME SHOCK
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Tutta la mia vita, tutto il mio lavoro sono una scarica continua di materiale psichico10.
Le teorie di Freud offrono a Savinio la chiave per formalizzare quell’ansia di una realtà al di là dell’apparenza, già suggerita dalle sue precedenti fonti filosofiche. Significativamente, nell’articolo intitolato Perché noi italiani non amiamo la psicanalisi, Savinio descrive la scoperta dell’inconscio come spazio in cui è possibile percepire la cosa in sé: «La scoperta del mondo della psiche, è la scoperta della sede del romanticismo. Romanticismo è il sentimento della continuità della cosa di là dalla cosa; all’infinito. Vedete l’immagine? L’anima non si stacca dal corpo, che, quanto a sé, rimane morto per terra; ma, facendo parte integrante del corpo, lo prolunga all’infinito»11. Savinio, che definisce Freud un «geniale scopritore di misteri», ribadisce così che l’importanza del suo metodo risiede nello sforzo di capire e di portare alla superficie le motivazioni «occulte che muovono le vicende dell’umanità»12. Di questa ricerca Savinio farà il centro della propria poetica, coniando per il suo oggetto una innovativa definizione: «lo psichismo delle forme». Come il surrealismo che, in generale, si proponeva il superamento delle ap-
10. A. SAVINIO, Il fantasma di Freud sempre a caccia di verità, in Opere, scritti dispersi tra guerra e dopoguerra, cit., p. 1502. 11. A. SAVINIO, Perché noi italiani non amiamo la psicanalisi, in Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra, cit., p. 1063. 12. A. SAVINIO, Il fantasma di Freud sempre a caccia di verità, cit., pp. 1504-1505.
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parenze per spingersi alla conoscenza della cosa in sé, concretizzando nell’espressione artistica i fini dell’indagine filosofica tanto di Kant quanto di Nietzsche13, anche Savinio assume la ricerca del noumeno come esplicito fine e, riprendendo in particolare le riflessioni estetiche di Nietzsche, riconosce come funzione principale dell’arte quella epistemologica; si oppone così alla tradizione che, relegata l’arte nell’ambito delle apparenze e del particolare, affermava che solo la filosofia e la logica possono arrivare alla conoscenza dell’universale. Per Savinio l’arte non è un mero oggetto di contemplazione o di ornamento, e neppure un momento parziale e isolato dello spirito umano: l’arte è la vita stessa. L’Arte, con l’«A» maiuscola, è l’«unico modo di vivere degnamente e utilmente la vita»14. L’arte, in quanto vita, ha insomma l’obbligo di scatenare passioni e pulsioni, e non di mitigarle. A questo scopo, Savinio ritiene essenziale sottoporre il lettore, come per altre vie accadrà al protagonista di Uno, nessuno e centomila di Pirandello, alla sconvolgente esperienza della non-unicità, e quindi non-universalità, della rappresentazione del reale. Il protagonista saviniano, e insieme il lettore, scoprono brutalmente la frattura ontologica fra l’essere e l’apparire. Nella visione artistica, gli oggetti si trasfigurano distruggendo le aspettative dei fruitori e dissolvendo ogni pretesa di familiarità: opposizioni dualistiche apparentemente fondamentali e da tutti riconosciute, quali uomo/donna, bello/brutto, vita/morte o pazzia/lucidità perdono il loro antagonismo e i due termini si confondono inestricabilmente. Savinio teorizza un’arte polimorfa che deve dar conto della frammentazione dell’io attraverso l’accettazione del disordine e della compresenza contem-
13. Cfr. F. PIGA, Savinio e Nietzsche, in «Inventario», 1981, 3, p. 60. 14. A. SAVINIO, Fine dei modelli, in Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra, cit., p. 476.
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poranea di più valori: «Tutto il male che funesta il mondo, tutti gli errori che ottenebrano le menti [...] vengono soprattutto dal che gli uomini per la massima parte pensano una sola idea e sono incapaci di pensarne più di una»15. L’arte, insomma, deve sapersi contrapporre alla tradizione che considera la Storia come un corso unitario e presuppone la presenza di un centro attorno al quale si organizzano e si raccolgono gli eventi. La rivoluzione copernicana viene a sconvolgere, proprio come a suo tempo aveva temuto la Chiesa, anche l’ambito teologico. La strada è aperta verso una radicale trasformazione neo- copernicana del sistema di pensiero “unitario” che pone al centro Dio, l’ego e il soggetto trascendentale: «Nel concetto tolemaico della vita, il verbo unire aveva significato magico, implicando Dio come unione e l’unione con Dio: nel significato copernicano della vita, l’unione è errore, opposizione all’ordine naturale, ostacolo al perpetuo fluire della vita e al suo perpetuo trasformarsi. Dio come ostacolo della vita. [...] Platone [...] introduce in Grecia l’asiatismo in forma di dio unico e della coscienza (luogotenenza del dio unico nell’interno dell’uomo, strumento per mezzo del quale il dio unico domina l’uomo anche dall’interno)»16. Savinio interpreta il «dio-unico» delle religioni monoteiste come una sorta di super-ego freudiano, vera e propria forza vigilatrice: «è una autorità che noi ci portiamo dentro e che [...] ci inibisce la massima parte delle cose che noi progettiamo di fare, e alcune a detrimento della nostra salute, [...] della stessa nostra vita. L’uomo che con pertinacia inesauribile combatte l’arbitrio esterno [...] non pensa invece [...] a combattere prima di tutto questa tirannia e questo arbitrio che egli si porta dentro di sé. I tiranni più crudeli, i nostri nemici peggiori sono dentro di noi, e se pochi uomini sono liberi di fuori, uomo non c’è
15. A. SAVINIO, Sorte dell’Europa [1945], Milano, Adelphi, 1977, p. 66. 16. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., pp. 144 e 147. Corsivi miei.
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che dentro di sé si possa dire veramente libero»17. E si affretta ad aggiungere che persino «la vita dell’uomo non è autonoma e indipendente, ma derivata e governata da altri; meglio da un altro»18. Per spezzare la repressione che l’ego attua sull’inconscio attraverso la rigorosa e univoca definizione delle parole, l’arte è chiamata a disorientare il fruitore, a sconcertarlo, a gettarlo nel paradosso attraverso la provocazione, mostrando ciò che egli non vorrebbe vedere: in una parola, attraverso un’estetica del mostruoso, che si apparenta alle considerazioni freudiane sull’Unheimliche, sul «perturbante», cioè «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare»19, ma che è «diventato estraneo soltanto per via del processo di rimozione»20. L’Unheimliche «è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato»21; composto da elementi che una volta ci appartenevano e che ormai ci sono diventati raccapriccianti e inquietanti, capaci di generare «angoscia e orrore», e di suscitare «sentimenti contrari, repellenti e penosi»22, è insomma il ritorno del rimosso. In Savinio è in sostanza perfettamente riconoscibile il percorso che Gianni Vattimo, partendo dall’analisi dei testi di Heidegger e Benjamin, ha individuato come caratterizzante della tarda modernità: l’esperienza estetica appare come un’esperienza di estraniamento, [...] l’esperienza estetica è [...] diretta a mantenere in vita lo spaesamento. [...] Per Heidegger, l’espe-
17. A. SAVINIO, La nostra anima, cit., p. 15. 18. A. SAVINIO, Fine dei modelli, cit., p. 484. 19. S. FREUD, Il perturbante [Das Unheimliche, 1919], in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino, Boringhieri, 1969, vol. I, p. 270. 20. Ivi, p. 294. 21. Ivi, p. 275. 22. Ivi, p. 269.
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rienza dello spaesamento dell’arte si contrappone a quella della familiarità [...] Lo stato dello spaesamento – sia per Heidegger sia per Benjamin – è costitutivo e non provvisorio. Questo è proprio ciò che costituisce l’elemento più radicalmente nuovo di queste posizioni estetiche nei confronti della tradizionale riflessione sul bello [...] Dalla dottrina aristotelica della catarsi al libero gioco delle facoltà kantiano, al bello come perfetta corrispondenza di interno ed esterno in Hegel, l’esperienza estetica sembra esser stata sempre descritta in termini di [...] sicurezza, di “appaesamento” o “riappaesamento”. [...] [A] Heidegger, nello Stoss [...] interessa lo spaesamento rispetto a qualunque mondo - sia quello dato sia quello prospettato dall’opera in termini positivi23.
Lo spaesamento, così caro anche alle pratiche dadaiste e surrealiste, è per Savinio funzione costitutiva dell’opera d’arte, che deve minare le sicurezze dello spettatore, generare angoscia, provocare insomma un impatto dalle sorprendenti analogie con lo Stoss di Heidegger e lo shock di Benjamin. La centralità di quest’elemento era stata rilevata da Apollinaire già nel 1914 in un articolo dedicato prevalentemente alla musica di Savinio, e nel quale troviamo utilizzato persino lo stesso termine di Benjamin: «[Savinio] il veut encore pouvoir faire éclater en musique le choc de l’inattendu, de la chose curieuse»24. Tanto nei suoi testi quanto nei suoi quadri, Savinio crea l’effetto di shock, di inattendu sfruttando il metodo, di ascendenza surrealista, dell’associazione fortuita di oggetti, e secondo una tecnica che ancora una volta si lega alle metodologie psicanalitiche. Ma la nozione saviniana che è l’arte a svelare la realtà, o meglio a crearla, e che questo processo debba passare attraverso la de-centrazione, la destabiliz-
23. G. VATTIMO, La società trasparente, Milano, Garzanti, 1989, pp. 72-75. 24. G. APOLLINAIRE, Musique nouvelle, in «Paris Journal», 21 maggio 1914; ristampato in Œuvres complètes, cit., p. 345. e anche in A. SAVINO Scatola sonora, cit., p. 435.
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zazione del fruitore, trova al tempo stesso una precisa rispondenza anche nelle idee heideggeriane, secondo le quali l’arte genera spaesamento in quanto «fonda un mondo, poiché si presenta come una nuova apertura storico-eventuale dell’essere» e quindi «non si lascia riportare ad un ordine di significati stabiliti», ma pone «in stato di sospensione l’ovvietà del mondo» suscitando nello spettatore «una preoccupata meraviglia»25. Per Savinio l’arte non è più il luogo rassicurante, del sublime e dell’utilitario, non è più il «luogo di conciliazione e di perfezione che si è espresso in tutta la tradizione metafisica occidentale, da Aristotele a Hegel»; si supera «proprio la definizione metafisica tradizionale dell’arte come luogo della conciliazione, della corrispondenza tra interno ed esterno, della catarsi»26. L’arte è al contrario lo spazio della frantumazione delle certezze, in cui la persona è messa di fronte alle “possibilità” del reale: l’arte deve mettere in questione i paradigmi tradizionali dell’esperienza estetica. Nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Walter Benjamin mette in luce come lo shock conduca alla perdita dell’aura dell’arte: l’introduzione di elementi perturbanti e destabilizzanti mina l’armonia e la coerenza dell’opera d’arte, strappandola così al mondo del sublime. La perdita dell’aura sarà proprio un elemento caratterizzante dell’opera d’arte nella tarda modernità27. Savinio dimostra di essere ben consapevole dell’importanza fondamentale di questo tema: in Nuova enciclopedia afferma che Baudelaire deve essere considerato il primo grande poeta moderno, il Copernico della poesia, proprio perché ha distrutto l’aura del linguaggio poetico e ha portato la poesia dalla immortalità alla mortalità.
25. G. VATTIMO, La società trasparente, cit., pp. 72-81. 26. Ivi, p. 65. 27. W. BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [Das Kunstwerk in Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1937], prefazione di C. Cases, Torino, Einaudi, 1991, pp. 17-56.
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IL
LINGUAGGIO SOVVERSIVO
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Negl’incontri fortuiti delle parole, i Greci riconoscevano la voce della divinità. La sede dell’ispirazione poetica28.
Contrapponendo l’esperienza dello spaesamento a quella della «familiarità», Savinio ambisce a mutare la natura stessa della percezione estetica. Il procedimento si manifesta a livello linguistico nell’associazione di parole di registro diverso, spinta fino a produrre accostamenti in apparenza del tutto gratuiti, ma che invece rispondono al preciso intento di destabilizzare il linguaggio attraverso la proposizione del «nuovo»: «Il lirismo moderno va espresso con la formula diretta: vale a dire con il vocabolo nuovo creato, anzi necessitato dalla cosa nuova. Questo vocabolo, a primo aspetto, può dare un’impressione di scempiaggine, perché rozzo, acerbo, non levigato dallo sfregamento con i vocaboli attempati; ma tale scempiaggine contiene la verità [...] Il più umile cretino diventa puntiglioso [...], allorché la novità lo attacca nella roccaforte delle sue abitudini ristagnate»29. All’opera di Savinio si può quindi applicare lo schema di interpretazione proposto da Julia Kristeva, che ha individuato l’elemento fondamentale delle avanguardie europee nella crisi di differenziazione fra il soggetto e l’oggetto; esplosa nell’uso dell’«eterogeneo» nel linguaggio, strumento in grado di minacciare la coerenza dell’ordine simbolico: «L’elemento eterogeneo è una eccitazione corporale, fisiologica che le strutture sociali e simboliche – la famiglia o altre strutture – non riescono ad afferrare [...] L’eterogeneità infrange unità concettuali in ritmi, intonazioni, e glossolalia come dimostrano le distorsioni logiche
28. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., p. 318. 29. A. SAVINIO, Hermaphrodito, cit., p. 189.
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di Lautréamont e le invenzioni sintattiche di Mallarmé. L’eterogeneità si pone come un pericolo all’unità del soggetto; come dimostrano i testi di Artaud, l’unità stessa della significazione svanisce in glossolalia»30. La presenza di termini «incongrui» in un discorso altrimenti “ordinario” mina inesorabilmente la rassicurante coscienza di muoversi nel terreno del prevedibile, ed espone al disagio di doversi confrontare con la disarmante realtà di un mondo che gli strumenti della logica e dell’esperienza non sono sufficienti o adatti ad interpretare. La parola “insensata”, o semplicemente inattesa, espone tutto un linguaggio al dubbio sulla sua significatività, così come il folle, o il diverso, turba le coscienze e instilla pericolosi dubbi sulla coerenza della “normalità”. In altre parole, Savinio usa «elementi eterogenei», elementi dell’«ordine dell’immaginario» per distruggere la logica dell’«ordine simbolico»: come in questo passo tratto da Hermaphrodito, in cui l’uso di elementi plurilinguistici spezza l’unità dell’io narrante: – Comment flûter dans ton jargon, anthropomorphe lardon?... La voix de la mi-mort est douce... Loins de l’esprit la pamplemousse trop facile à cueillir. Le coco de l’abricot. Un cucurbitacé étrange sert à me nourrir, sorte de cachou – mille saveurs infinies, chaire molle, – mes dents sans caries s’y collent... puis s’y enfoncent jusqu’à l’oubli... Horreur! – Cachez sous le water-proof la plante qu’on nomme: «.........!»
30. J. KRISTEVA, La rivoluzione del linguaggio poetico, Venezia, Marsilio, 1979, p. 153.
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astre futile qui croît dans les caissons de bois. Je vous jette mes vérités à la figure! Monsieur à morale rigide, tournez le regard frigide vers l’étrange végétation... – à mon cœur floraison faites une oraison, cités, édiles... – ...plante soumarine, fleur coraline... dans l’aorte elle tient racine je l’abreuve de ma bile épaisse et noire – sensible coaltar. Ora salgo all’altar paré de perles Kepta. Pietà! Pietà! il faut un aruspice pour mes entrailles... Ah, les profondes entailles de la passion! glissons... – Silenzio! ché Soffici medita dinanzi al braciere... Taiahoh!... (cris d’une chasse au cerf, dans la nuit) – Silenzio! ha l’anima dedita al mesto piacere... Taiaohahooh!...31
Partendo dalle opere di Freud, soprattutto Il motto di spirito e Psicopatologia della vita quotidiana, frequentemente citate, Savinio sviluppa un’analisi del rapporto fra inconscio e linguaggio che lo porta ad individuare nell’introduzione di «anomalie» linguistiche uno degli ele-
31. A. SAVINIO, Hermaphrodito, cit., pp. 27-29.
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menti qualificanti delle avanguardie in generale e delle proprie elaborazioni in particolare. L’opera di avanguardia ha di necessità un carattere rivoluzionario in quanto agisce direttamente sui sistemi di valori attraverso un’operazione di provocazione linguistica; come Savinio afferma nelle pagine della Nuova enciclopedia dedicate a George Bernard Shaw, un testo dai contenuti rivoluzionari, se segue modi espressivi tradizionali, può risultare invece assolutamente reazionario. In questa direzione Savinio adopera diffusamente quelli che Saussure chiama i «rapporti associativi»32, ovvero associazioni fra parole che la memoria costruisce sulla base di collegamenti, non necessariamente lineari, fra molti parametri, non solo di suono o di significato, che permettono la costruzione mentale di catene evocative complesse: I gruppi formati per associazione mentale non si limitano a raccostare i termini che presentano qualche cosa di comune; lo spirito percepisce anche la natura dei rapporti che li collegano in ciascun caso e crea con ciò tante serie associative quanti sono i diversi rapporti. [...] I termini di una famiglia associativa non si presentano né in numero definito né in un ordine determinato. [...] Non si saprebbe dire a priori quale sarà il numero delle parole suggerite dalla memoria, né l’ordine in cui appariranno. Un termine dato è come il centro di una costellazione, il punto in cui convergono altri termini coordinati, la cui somma è indefinita33.
La libera e sorprendente emozione suscitata da termini inattesi, coniugandosi all’uso insistito dell’ossimoro e alla pirotecnia delle figure retoriche conduce alla frantumazione della linearità del linguaggio narrativo, e infine alla messa in crisi anche dell’unicità e dell’identità della voce narrativa.
32. F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, cit., pp. 152-159. 33. Ivi, pp. 152-153.
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L’uso di «elementi eterogenei» per produrre un effetto di inattendu e di straniamento accomuna indubbiamente Savinio ai surrealisti propriamente detti, che per spaesare l’interlocutore utilizzano un meccanismo strutturalmente analogo a quello dell’umorismo: «Il meccanismo surrealista è di uso facile e a portata di tutti, comprese le donne e i bambini. I bambini anzi sono surrealisti per natura. È un meccanismo un po’ simile a quello dell’umorismo. Si tratta di creare un’emozione, associando due cose che per loro natura sono inassociabili»34. Ancora attraverso, o a fianco di Freud, Savinio colloca, al centro del suo procedimento imaginativo motto di spirito e parapraxis che, condividendo l’effetto di sorpresa e di frattura nel discorso logico, si manifestano come potenti strumenti per la comprensione, o meglio per la corrosiva rivelazione dell’inconscio. Analoghe caratteristiche pertengono all’umorismo e al comico: Nel comico (“personaggio” comico) lo spettatore trova rappresentato colui che egli non vorrebbe essere. Peggio: trova se stesso, ma quel se stesso di cui egli si vergogna e nasconde. Trova il suo “io” vergognoso e segreto. [...] Della commedia, Aristotele dà la seguente definizione: “La commedia è l’imitazione di uomini di qualità inferiore”. (Antitesi della tragedia: rappresentazione di uomini moralmente superiori). S’intende che chi ride alla rappresentazione di questi “personaggi di qualità inferiore”, è fornito di una cospicua dose di sadismo; e di masochismo, quando nel personaggio di qualità inferiore egli riconosce il suo “io” vergognoso e segreto. Tuttavia, per ”far scattare” il riso (fatto meccanico) è necessaria la sorpresa. Perché il comico più profondo opera per effetto di contrasto: per l’improvvisa, inaspettata manifestazione (apparizione) di aspetti, caratteri, segni che non sospettavamo nel personaggio che dà rappresentazione di sé, e in con-
34. A. SAVINIO, Dico a te, Clio, cit., p. 131.
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trasto con il suo aspetto solito, il suo carattere noto, i suoi segni conosciuti. Il comico insomma è una forma di stupore: non tragico, ma eccitante. [...] Il comico insomma nasce dalla “smontatura” delle cose serie e gravi, ed è per questo che nel comico anche più innocente c’è sempre un che di nocente, un che di maligno e di corrosivo, e piace soprattutto alla plebe. Nel riso c’è sempre qualcosa di basso (di mortale) e per questo il riso è considerato “volgare”35.
Tutto quanto può concorrere a gettare luce sulla realtà al di là dell’ordinario e del convenzionale è lecito, anzi necessario ingrediente dell’opera d’arte, che viene quindi ad includere elementi grotteschi e mostruosi, riferimenti espliciti alle più sgradevoli funzioni corporali e al sesso, insomma a tutto ciò di cui non si dovrebbe parlare, giacché «Il comico è la rivelazione di ciò che è brutto e nascosto»36. L’umorismo può manifestarsi nella fattispecie della freddura, che rappresenta un vero e propro strumento conoscitivo: «è una luce subitanea proiettata nell’“interno”, nel meccanismo, nel “mistero” delle cose»37. La significatività della freddura si estende fino a prendere i connotati di una rivelazione, finestra improvvisamente aperta sull’abisso della realtà: «ogni volta che una freddura “esplode” accanto a me, io mi fermo come se davanti ai miei occhi si fosse aperta una buca. Brivido. Rivelazione. Nel piccolo lago della mia tranquillità è caduto un sasso»38. Il carattere di «distruttrice di significati consacrati», il «carattere iconoclastico della freddura» deriva dalla sua capacità di effettuare modifiche che alterano la sequenza logica del linguaggio comunicante: «la freddura non scom-
35. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., pp. 97-98. 36. Ivi, p. 98. 37. Queste riflessioni di Savinio sulla freddura si trovano alla nota n. 58 dell’edizione einaudiana del 1973 della Infanzia di Nivasio Dolcemare, p. 119. 38. A. SAVINIO, Ascolto il tuo cuore, città, cit., p. 215.
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pone la parola secondo un sistema logico, scientifico e che non dà sorprese, ma in una maniera del tutto arbitraria e che dà significati nuovi e imprevisti»39; così essa mina alla base ogni sistema autoritario di valori: «Quanto alla freddura, o gioco del bisenso, essa è la naturale nemica dell’idea unica, questo pilastro della dittatura»40. Il riso suggella l’avvenuta ricezione del messaggio dissacrante: «nell’urlo belluino che una freddura riuscita, ossia un significato distrutto, suscita nella folla, c’è forse anche la gioia bestiale di vedere sconvolto e distrutto un fatto, un’idea, una cosa consacrata dall’uso, e dunque rispettabile e sacra»41. In pratica Savinio realizza nelle sue opere la missione che Starobinski ha identificato come quella del clown nell’arte moderna: «In un mondo utilitaristico, attraversato dal reticolo fitto delle relazioni significanti, in un universo pratico nel quale ogni cosa viene investita d’una funzione e di un valore d’uso o di scambio, l’entrata del clown fa saltare alcune maglie della rete, e nella pienezza soffocante dei significati ammessi apre una breccia per la quale potrà spirare un vento d’inquietudine e di vita. Il non-senso, che il clown porta con sé, avrà allora, in un secondo tempo, valore di “messa in dubbio”, di sfida alla serietà delle nostre certezze. Questa boccata di gratuità c’impone di riconsiderare tutto ciò che si riteneva tranquillamente necessario»42. La carica liberatoria accomuna il riso alla dimensione onirica che trova la sua naturale manifestazione nel teatro: «Il riso è catartico (allo stesso modo del teatro, allo stesso modo del sogno). [...] Il riso è una brutale confessione»43. Il clown, rappresentazione di riso e teatro, apporta nel-
39. Ivi, p. 219. 40. A. SAVINIO, Fine dei modelli, cit., p. 477. 41. A. SAVINIO, Ascolto il tuo cuore, città, cit., p. 220. 42. J. STAROBINSKI, Ritratto dell’artista da saltimbanco, cit., p. 150. 43. A. SAVINIO, Le grandi risate si fanno all’inferno, in Opere, scritti di-
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l’arte appunto la capacità di spezzare il sistema di significati stabiliti. Per Starobinski «proprio perché è anzitutto assenza di significato, il clown attinge il significato supremo di contraddittore: nega tutti i sistemi d’affermazione preesistenti e introduce nella massiccia coerenza dell’ordine costituito il vuoto grazie a cui lo spettatore, staccato finalmente da sé stesso, può ridere della propria pesantezza»44. L’analisi si attaglia perfettamente alla scrittura e alle teorizzazioni di Savinio, per il quale il riso, in quanto manifestazione dell’«immanifestabile», rifiuta ogni consolazione, e tendendo a scardinare ogni ordinamento, induce spavento: «Un torrente che erompe dalla cavità orale, e butta fuori i segreti, le brutture, le vergogne. Violento e stracarico di male il riso fa paura»45. D’altra parte già Baudelaire aveva rilevato nell’Essenza del riso: «È certo, per chi si ponga nella visuale dello spirito ortodosso, che il riso umano è legato intimamente all’evento di un’antica caduta, di una degradazione fisica e morale»46. La comicità, per usare ancora le parole di Baudelaire, «è un elemento dannato e di origine diabolica»47, capace proprio per questo di generare un’esperienza di shock. Savinio assume insomma il ruolo di un clown poetico e rivelatore che «a causa della libertà che si arroga o che gli si concede» introduce nel mondo un elemento di disordine che è però «la medicazione correttrice di cui il mondo malato ha bisogno per ritrovare il suo ordine autentico»48: Savinio utilizza l’umorismo riconoscendovi quella funzione liberatoria che distingue l’essere umano che sa ridere perché non ha fedi assolute ed acritiche, da chi affonda nelle proprie certezze la ragione e le giustifica-
spersi tra guerra e dopoguerra, cit., pp. 1187-1188. 44. J. STAROBINSKI, Ritratto dell’artista da saltimbanco, cit., pp. 150-151. 45. A. SAVINIO, Le grandi risate si fanno all’inferno, cit., p. 1188. 46. C. BAUDELAIRE, Scritti sull’arte, prefazione di E. Raimondi, trad. di G. Guglielmi e E. Raimondi, Torino, Einaudi, 1992, p. 141. 47. Ivi, p. 142. 48. J. STAROBINSKI, Ritratto dell’artista da saltimbanco, cit., p. 131.
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zioni della propria violenza. Per Savinio la serietà è una pericolosa manifestazione di mancanza di senso critico: «Prima che da altri segni, il pericolo che uomini come Hitler rappresentano per l’umanità, è denunciato dal loro non reggere lo scherzo. Gravità del delinquente. Diffidare della serietà, che più volte nasconde o sinistri disegni, o una stupidità armata e aggressiva»49. È evidente che sotto questa luce l’arte realista e di impronta positivista non rappresenta per Savinio che un’espressione conservatrice, finalizzata alla perpetuazione del potere e funzionale al mantenimento di uno stato acritico delle masse. La vera arte può e deve invece rivelare il sistema di proibizioni e di repressioni che sta alla base tanto della fondazione della civiltà quanto della formazione del soggetto individuale: due fasi simmetriche per Savinio di un processo di progressive limitazioni della libertà e di sclerotizzazione delle relazioni fra gli esseri umani. La denuncia saviniana mostra sorprendenti analogie con il «Newspeak» orwelliano50: la limitazione delle possibilità espressive spinge l’inviduo al conformismo, lo confina in una libertà da marionetta, e lo priva inesora-
49. A. SAVINIO, Le grandi risate si fanno all’inferno, cit., p. 477. 50. «The purpose of Newspeak was not only to provide a medium of expression for the world-view and mental habits proper to the devotees of Ingsoc, but to make all other modes of thought impossible. It was intended that when Newspeak had been adopted once and for all and Oldspeak forgotten, a heretical thought – that is, a thought diverging from the principles of Ingsoc -– should be literally unthinkable, at least so far as thought is dependent on words. Its vocabulary was so constructed as to give exact and often very subtle expression to every meaning that a Party member could properly wish to express, while excluding all other meanings and also the possibility of arriving at them by indirect methods. This was done partly by the invention of new words, but chiefly by eliminating undesirable words and by stripping such words as remained of unorthodox meanings, and so far as possible of all secondary meanings whatever. [...] In Newspeak it was seldom possible to follow a heretical thought further than the perception that it was heretical: beyond that point the necessary words were non-existent» (G. ORWELL, Nineteen Eighty-Four [1949], Middlesex, Penguin Books, 1983, pp. 257-263).
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bilmente dalla capacità di esprimere concetti eterodossi. La formazione di un sistema unitario, sia al livello dell’individuo che delle comunità, rappresenta per Savinio un’artificiale soppressione della pluralità, un’armonizzazione ottenuta comunque tramite una coercizione. L’arte, però, può fare da detonatore rivoluzionario, mostrando che le possibilità espressive dell’individuo sono innumerevoli, e che esiste tutto un mondo legato ad ogni persona. Il recupero della differenziazione procede dalla dimostrazione di quanto sia illusoria l’idea, perpetuata dalla società costituita, del soggetto come entità unitaria e autonoma. Savinio ne dimostra e ne illustra la pluralità attraverso la frantumazione operata costantemente nelle sue narrazioni. Alla luce del sistema di riferimento lacaniano si può sostenere che per Savinio il soggetto che emerge dalla «fase dell’immaginario» dopo l’avvento dell’«ordine simbolico» è un soggetto che vive una drammatica frattura fra il conscio e l’inconscio. Non c’è nessun segno in grado di significare l’essere nella sua essenza e presenza totale: «S’illude qualcuno di [...] scoprire attraverso la parola scritta il segreto del nostro pensiero? Come Narciso nello stagno, colui non vede noi ma se stesso, riflesso in questi specchi misteriosi e ingannatori che noi chiamiamo libri. [...] La lettera appare, ma come nelle scritture sacre, lo spirito rimane indecifrabile»51. Nell’ambito delle sue indagini sul linguaggio e sulla repressione operata sul linguaggio, Savinio non può non appuntare il suo interesse sulla prima fase infantile alla quale dedica ampio spazio nelle sue opere. Ancora una volta Savinio anticipa Lacan. Infatti, secondo il teorico francese, il bambino inizia a svilupparsi come soggetto proprio quando entra nel «regno simbolico» del linguaggio, dominato non più dal «principio del piacere», ma
51. A. SAVINIO, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 522. Corsivi miei.
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dal «principio di realtà». Di questa complessa transizione Savinio dà una diretta raffigurazione in una divertita pagina di Infanzia di Nivasio Dolcemare, in cui Nivasio bambino si trova a dover affrontare la vita, che nella fattispecie si manifesta nella necessità, per l’assenza della governante, di «fare la popò» da solo, gesto che assume il significato di una iniziazione alla vita adulta: «Io sono un uomo. Debbo badare a me stesso. Da oggi comincia una vita nuova»52. Ma l’operazione fallisce, come tutti i futuri avvicinamenti di Nivasio al mondo degli adulti: egli non riesce ad usare il vasino e si trova, anche se in una situazione grottescamente burlesca, a confrontarsi proprio con il riconoscimento della separazione, tragica, fra soggetto ed oggetto: «Nivasio si voltò. Vide in mezzo al pavimento lucido quella piccola parte di sé, quel rotolino nero che ergeva la punta fumante; e tale fu il suo accoramento che ruppe in pianto»53. Prigioniero nel mondo della logica, della legge e della morale, il bambino apprende la lacerante distinzione fra soggetto ed oggetto. E così si inabissa in una realtà fondata su differenze linguistiche. Il fanciullo saviniano, di cui il suo alter ego Nivasio Dolcemare è il prototipo, si muove in un continuo spostamento di significati, in una dimensione quasi onirica in cui le parole s’incarnano e agli oggetti si associano denominazioni immaginarie. Ma le parole ufficiali, dal canto loro, si sostituiscono all’essenza degli elementi, delle cose che compongono la realtà, creando così una dicotomia insanabile fra l’essere ed il significare. La costituzione della civiltà, del soggetto e del linguaggio richiede una repressione della dimensione corporale, pulsionale dell’individuo; e Savinio mette in scena allora le pulsioni corporali e i desideri che la società ten-
52. A. SAVINIO, Infanzia di Nivasio Dolcemare, cit., p. 39. 53. Ivi, p. 40.
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ta di rimuovere e di reprimere, e li rende fulcro della sua poetica. Gli elementi materiali e istintivi si oppongono al «Nome del Padre», metafora paterna che, restando sempre nel quadro interpretativo delle teorie lacaniane, va interpretata come la «legge». Nell’Infanzia di Nivasio Dolcemare, ad esempio, il padre viene sempre indicato con il titolo di «commendatore», cioè viene definito attraverso il suo ruolo nella struttura sociale. Savinio assegna alla figura paterna il duplice ruolo di “fedele”, che crede soggettivamente all’intrinseca positività della società, e contemporaneamente di autorità deputata all’imposizione delle regole agli altri: «“Società organizzata in cui ciascuno fa quello che deve fare”, era per il commendatore Visanio una illusione necessaria»54. Questa doppia valenza è resa possibile grazie al poderoso apparato inibitivo che agisce prima ancora che contro gli altri contro di sé, cioè contro il soggetto stesso: «Il commendatore Visanio era uomo d’autorità. I dubbi lo torturavano, l’incertezza lo straziava, la pluralità delle soluzioni che gli si offrivano in qualunque circostanza lo condannava a una inazione perpetua; ma ciò avveniva nel fondo della sua coscienza, in un luogo inaccessibile altrui, e nel quale nessuno, di lui all’infuori, poteva cacciare il naso. [...] Nivasio era svenuto all’apparire del signor Saranti? Fatto singolare e misterioso. Davanti ai buchi d’ombra, il commendatore Visanio scantonava con dignità. Convocato d’urgenza, il dottor Naso ordinò riposo, cibo sano, un ricostituente da prendere per via orale. Il commendatore Visanio era a posto. Spiegato alla signora Trigliona che “via orale” significa “per bocca”, egli rientrò nella pace di chi sa di aver fatto “quello che deve fare”. E non ci pensò più. Grazie alla cura ordinata dalla competente autorità, Nivasio non sarebbe più svenuto all’apparire del signor Saranti»55.
54. Ivi, p. 75. 55. Ibidem. Corsivi miei. 56. Ibidem.
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Savinio fa dunque del padre il prototipo dell’adulto maturo, ormai completamente esautorato della propria libertà: «come si ribalta il coperchio sul buco puzzolento del pozzo nero, così il commendatore Visanio ribaltava sul buco puzzolento della coscienza il coperchio di una maestosa autorità»56. Il riferimento al «buco puzzolento» non è casuale, in quanto, come più volte indicato, è proprio un mondo corporale, di odori sgradevoli e di orrende deformità quello che si contrappone all’ordine e alla legge, e che Savinio fa irrompere nei suoi racconti e sulle tele. Le opere di Savinio sono popolate di mostri, di corpi maleodoranti, di escrementi e di fetori: immagini stravaganti e conturbanti fino alla provocazione, espressioni proprie della «fase dell’immaginario» lacaniano. Sono, quindi, immagini del «registro dell’immaginario», elementi corporali che vengono utilizzati per minacciare e annichilire la logica e la coerenza dell’«ordine simbolico», creando così una forma di ridondante surrealismo grottesco, scatologico e neobarocco. Oltre al realismo Savinio rifiuta insieme anche la sobrietà, che gli appare come un’inutile e deviante ubbia del linguaggio proprio delle relazioni formalizzate dalla società. E per scalzare il lettore dalle sue precostituite categorie di pensiero sceglie di ricorrere, modellando plasticamente la parola scritta, ad ogni possibile risorsa del linguaggio. LA NOSTRA ANIMA Nel breve romanzo, o piuttosto fiaba filosofica, La nostra anima (1944), Savinio prende spunto da una grottesca rivisitazione del mito di Eros e Psiche per proporre sotto forma di apologo la propria concezione dei rapporti fra l’inconscio e il linguaggio. Nivasio Dolcemare, il Dottor Sayas e Perdita, amante di entrambi, si stanno recando al consolato di Russia per partecipare ad un bal de têtes; ma prima dovranno traversare, per una «necessaria iniziazione», il «museo dei manichini di carne». L’idea del bal de
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têtes, in cui i partecipanti si coprono la testa con una maschera, risulta immediatamente leggibile come rappresentazione del trapasso dall’apparenza alla realtà delle persone; si tratta inoltre di un topos delle rappresentazioni pittoriche saviniane, confermato anche dal titolo di un quadro del 1957. I tre protagonisti si muovono in un ambiente di oscura e soffocante sotterraneità, definito, come spesso accade nelle narrazioni saviniane, sulla base di connotazioni acustiche ed olfattive; la vista ha perduto il suo ruolo di guida, e la luce è praticamente assente: si discende nell’anima. Ma è una discesa priva di qualunque sacralità: l’inconscio non è lo spazio di enigmi dell’arte, come per il fratello Giorgio, ma è il luogo in cui si rivela il «lato reale delle cose», cioè in cui le percepiamo nella loro verità, finalmente spogliate dei loro connotati aulici e formalistici. La carnalità, la corporalità invadono la scena: anche il dottor Sayas, che fa da guida, non è uno psicologo, ma un medico di corporee profondità: ginecologo e specialista di riconosciuta fama in emorroidi. Nel «nuovo Museo Grévin» troviamo Psiche immersa nei suoi escrementi: «La “bestia” [...] era là, [...] denunciata dai suoi escrementi e dal suo fetore. [...] Nivasio abbassò gli occhi a cercare la “cosa” [...] l’abitatrice di quella stanza, [..] l’autrice di quegli escrementi neri, [...] l’emanatrice di quel fetore [...] Intorno alla ignuda fanciulla le ulive escrementali erano più fitte, da sotto il sedere dilagava a falda sul pavimento un liquido denso e giallastro»57. Il corpo di Psiche è coperto di iscrizioni: parole, frasi, frammenti di versi che costituiscono una sorta di antologia del linguaggio artistico di Savinio, che viene quindi dichiaratamente identificato con il linguaggio stesso dell’inconscio: «Era la prima volta che Nivasio Dolcemare vedeva formato grammaticalmente e fermo come un docu-
57. A. SAVINIO, La nostra anima, cit., pp. 24-26.
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mento perenne, quello che la nostra anima dice a se stessa nei momenti di indipendenza e spontaneità, quando essa minacciata non è, non impaurita, non ispirata dalla ragione»58. Savinio tiene a precisare che il funzionamento del linguaggio dell’inconscio non può essere capito se analizzato secondo parametri logico-razionali, perché le sue regole sfuggono alla logica: «Nivasio ripensava le iscrizioni tracciate da ignote mani sul corpo ignudo di Psiche: segni di personalità labili e fuggitive. Quale significato in quelle parole insensate tra cui brillava [...] un’idea, un pensiero, un ricordo? Tutti i significati, meno quello che gli uomini danno solitamente alla parola “significato”»59. Psiche racconta ai tre visitatori la sua storia e, ovviamente, parla la lingua dell’anima: il suo discorso è costellato di lapsus, di divagazioni grottesche, di turpiloqui, di neologismi, di immagini deformate e scambiate, come in un sogno freudiano: «Papà aveva una carica molto importante: era primo pornografo al ministero di giustizia. [...] mamma aveva un paio di baffi magnifici e una barba da patriarca. Con un prodigio di volontà papà riuscì a farsi venire il latte, [...] un latte grasso e cremoso»60. Mentre Psiche parla, Nivasio Dolcemare la scruta attentamente riscoprendo gli elementi di un linguaggio perduto: «Ricorrevano di quando in quando fra quelle iscrizioni alcune parole isolate come “spermaceto”, “cucùsmata”, [...] che Nivasio [...] riconobbe per parole italiane scese nel sonno dell’oblio sia per vetustà, sia per malattia, sia per difetto di una loro utilità pressante e che dignitosamente si erano posate sulla pelle di Psiche come documenti in un archivio»61.
58. Ivi, p. 34. 59. Ivi, pp. 33-34. 60. Ivi, pp. 41-43. 61. Ivi, p. 34.
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Il meccanismo scatenato da Savinio in La nostra anima ha lo scopo di mettere in scena i turbamenti prodottisi nel rapporto fra il significante ed il significato, conflitto in cui, ovviamente, il significante ha sempre la meglio. In altre parole, Savinio mette in scena il processo di manipolazione delle parole e dei pensieri che Francesco Orlando ha definito come la «“preponderanza del significante”, [che] altera comunque quella trasparenza nel rapporto fra significante e significato che dovrebbe essere normale o almeno prevalente nell’uso conscio-adulto del linguaggio»62. Nivasio e i suoi compagni di viaggio non comunicano affatto, visto che i loro piani di espressione, per l’uno interamente nel sogno, per gli altri interamente nel quotidiano borghese, non hanno alcun punto di contatto. In tutto il libro, che è strutturato in una serie di dialoghi fra i personaggi, Nivasio Dolcemare quasi non dice parola. Mentre gli altri parlano, utilizzando quel linguaggio convenzionale che è appunto la lingua della Storia, Nivasio rimane completamente avulso dai loro discorsi, scoprendo la propria incapacità di comunicazione: «la domanda gli si fermò sulla lingua. Bisognerebbe calcolare quante mai cose non sono state fatte, solo perché la parola che avrebbe iniziato il loro destino “esterno” non ha infilato il modo, il momento, l’opportunità di scendere dal cervello alla lingua [...] Il numero delle cose perdute per defectus vocabuli è certamente maggiore di quello degli uomini perduti perché il germe che li conteneva è andato sparso su lenzuola [...] oppure trascinato assieme con l’acqua del bidè nel cuore tenebroso degli oceani»63. Il defectus vocabuli assume quindi per Savinio il massimo grado di significatività in quanto porta a livello di consapevolezza l’inesistenza di un piano di comunica-
62. F. ORLANDO, Per una teoria freudiana della letteratura, cit., p. 56. 63. A. SAVINIO, La nostra anima, cit., pp. 14-15.
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zione comune all’artista e ai suoi interlocutori. Le difficoltà di Nivasio a comunicare in una lingua convenzionale e concettuale rappresentano il rifiuto dell’«ordine simbolico», sostanzialmente il rifiuto del proprio ruolo come soggetto. In altri termini, Savinio individua nel linguaggio l’elemento che definisce il soggetto, destinato indubbiamente a spezzarsi quando l’individuo rifiuta di adeguarvisi. Savinio, che ha ben meditato la lezione di Freud, è conscio che la via dell’emancipazione personale passa inevitabilmente attraverso l’abbattimento del controllo da parte del super-ego, che può realizzarsi sullo spunto anche di una sola parola che agisce come una chiave che improvvisamente spalanca una nuova vista sulla realtà. Il processo è descritto con l’usuale, pirotecnico umorismo in un passo del racconto Un Maus in casa Dolcernare ovvero i mostri marini: «[l]a parola “mostri” fermò il pensiero di Nivasio [...] Nivasio cominciò a vedere diversamente. Vedeva di là dall’abitudine. I giocatori cominciarono a muoversi, a gonfiarsi, a riacquistare la loro consistenza vera. Nivasio vide la contessa Corilopsis arrotondarsi a budino, staccarsi dalla sedia e salire lentamente al soffitto. [...] Vide monsignor Fuagrà con due occhi di gufo sulle spalle e Antoine Calaroni con due occhi di polpo sul sedere. Vide sulla pancia impallonata del conte Minciaki aprirsi due labbra vermiglie e mollemente boccheggiare»64. In questo stato di onirica creazione, in questa «mezzamorte» sospesa fuori dalle regole sociali, Nivasio percepisce la «vera» realtà, forzando il lettore, sbalzato dai suoi pregiudizi, a guardare oltre le apparenze attraverso il suo «occhio trasformatore», e intra-vedere così le verità nascoste: appunto, «lo psichismo delle forme»65.
64. A. SAVINIO, Casa «La Vita», cit., p. 152. 65. A. SAVINIO, Il signor Dido, cit., p. 765.
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LE MUSE DOMESTICHE
Mithos, la favola, fu diffinita vera narratio.
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G. Vico, Scienza nuova
MITO
E PAROLA
Gli elementi della mitologia classica, attivati da Savinio attraverso un uso dimesso, quotidiano, spesso grottesco, sempre ironico, forniscono alla sua poetica un ricco tessuto di associazioni e di simboli, e formano una parte essenziale della sua espressione artistica. Alcuni miti, ripresi e ricreati sotto prospettive diverse, diventano così topoi dell’immaginario saviniano, dall’«Hermaphrodito addormentato», «divino totale dei totali», a Clio alla finestra, «maestra di vanità e di banalità». Lo spazio mitico diviene in buona sostanza il luogo privilegiato per l’attuazione del suo programma di trasformazione della realtà attraverso l’intervento artistico. Savinio punta a riappropriarsi del mito, dopo averlo strappato alla asettica cristallizzazione in cui lo ha confinato la tradizione, che ne ha impoverita la ricchezza semantica fino a svuotarlo del suo significato originale, e a impietrirlo in una statua fissata in un unico gesto. Il dovere dell’artista è allora di far tornare queste statue a muoversi e camminare, di riportarle dal loro eterno presente al continuo succedersi del tempo. Ai miti non bisogna guardare con ispirazione mistica,
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ma con quell’atteggiamento che Savinio definisce «spirito moderno». L’espressione non si lega al connotato temporale, ma piuttosto alla caratteristica che accomuna Luciano di Samosata e Voltaire, Campanella e Baudelaire: la lucida coscienza di chi «liberamente e spassionatamente contempla intorno a sé il mondo sdivinizzato»1. La divinità che Savinio nega è individuata in quella delle religioni monoteiste che gli appaiono al tempo stesso come la quintessenza del totalitarismo, «continuazione del mondo asiatico», cui si contrappone il mondo greco della libertà umana. Nell’articolo Zeus finanziere (1947), l’opposizione è così bruciantemente sintetizzata: «In Asia Dio fa l’uomo, in Grecia è l’uomo che fa gli dèi»2. Il paganesimo classico viene quindi identificato come il risultato dello slancio creativo dell’essere umano che genera e definisce il soprannaturale e pertanto ha gli stessi connotati della creazione artistica. E vale naturalmente anche il reciproco: «l’arte è pagana. È naturalmente, essenzialmente, irrimediabilmente pagana. Il regno dell’arte è di questo mondo. Ogni tentativo di far passare l’arte nel mondo di là [...] è destinato a un fallimento sicuro. In arte, il misticismo è un grosso ripiego»3. Nella visone saviniana il Dio «asiatico», unico e immutabile, riflette e corrisponde a chi fra gli esseri umani, e sono la maggioranza, «ha poche idee e non muta mai di opinione»4; al contrario, la religione dei Greci, instabile e mutevole, è vera espressione dell’essere umano, di cui accompagna l’evoluzione: «La motività non è solo nella religione: è in tutte le cose greche»5. Ma dopo che alla fase
1. A. SAVINIO, Luciano di Samosata, in Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra, cit., p. 36. 2. A. SAVINIO, Zeus finanziere, in Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra, cit., p. 578. 3. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., p. 52. 4. A. SAVINIO, Zeus finanziere, cit., p. 579. 5. Ivi, p. 580.
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matriarcale della religione arcaica era seguito il mondo patriarcale delle divinità olimpiche, l’irrompere del totalitarismo ha interrotto il processo evolutivo, che naturalmente avrebbe dato luogo al dominio del neutro quando «il grazioso ermafrodito [...] avrebbe sostituito Zeus nella celeste sovranità»6. Come si intuisce, la ripresa del mito per Savinio non è un esercizio di erudizione, ma costituisce l’elemento attraverso cui è possibile risalire ai «principi dell’umanità» radicati negli «universali fantastici». In ogni caso, le riflessioni filosofiche di Savinio ruotano, direttamente o indirettamente, sempre intorno al medesimo tema: la teorizzazione del proprio modo di essere artista, ovvero la validazione universale della propria opera. In un’Italia presa dalla contrapposizione fra fascismo e antifascismo, in cui gran parte dell’arte si faceva portavoce di ideali opposti ma parimente “epici”, ricercare libertà espressiva nella quotidiana amichevole frequentazione di divinità ed eroi dimessi e un tantino volgari, costituiva una provocazione che non solo non trovò sostenitori, ma nemmeno ascoltatori; qualche critico si prese la briga di stroncare l’opera di Savinio, mentre la più parte semplicemente la ignorò. Per l’autore, invece, come dichiarato programmaticamente in Casa «La Vita», l’integrazione delle immagini mitologiche rappresenta un momento centrale del proprio linguaggio artistico. La mitologia è essa stessa un linguaggio e i singoli miti sono parole piene di significati, quasi come ideogrammi, che ormai solo i poeti sanno usare: «Ma chi ha mai dubitato che i miti non nascono tali ma tali noi stessi li facciamo a poco a poco? Anche la Storia è mitomane quanto e più dell’uomo [...] nella lingua di Omero mito significa semplicemente parola. Gli eroi di Omero parlano come voi e me, solo che usano miti come noi usiamo parole. L’errore è di chi legge e non sa ritro-
6. Ivi, p. 579.
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vare la sinonimia tra miti e parole. Il “mitismo” di Omero è un’illusione creata dall’ignoranza del vero valore di quella lingua. Si restituisca la parola omerica al suo valore originale, e il “mitismo” che rimarrà sarà il solo, il “solito” mitismo che è nelle parole dei poeti: nelle nostre»7. Nella ricerca saviniana di un linguaggio che sappia spezzare le costrizioni socio-linguistiche che rendono inesprimibile la realtà, il mito viene a giocare un ruolo essenziale in quanto linguaggio simbolico per eccellenza, capace di rivestire le esperienze interiori di percettibilità sensoriale. Savinio sembra anticipare così elaborazioni successive, quali quelle di Erich Fromm, secondo cui i miti sono scritti in un linguaggio simbolico nel quale «le esperienze interiori, i sentimenti e i pensieri vengono espressi come se fossero esperienze sensoriali, avvenimenti del mondo esterno. Retto da una logica diversa da quella convenzionale di cui ci serviamo durante il giorno, una logica cioè in cui non tempo e spazio sono le categorie dominanti, ma intensità e associazione, è forse l’unico linguaggio universale che mai sia stato creato dall’uomo [...] Un linguaggio con la sua grammatica e la sua sintassi»8. Identificati i miti come «parole», è inevitabile attribuire all’artista il diritto di ricrearli e di muoverli liberamente, adattandoli alle proprie necessità espressive. Si intende che l’ampliamento delle possibilità semantiche dei riferimenti mitologici entra nell’opera di Savinio spogliato di qualunque sacralità o dottrinalità. Per il fanciullo cresciuto «all’ombra del Partenone, questo scheletro di marmo che non butta ombra»9, gli dei e gli eroi, così come anche gli
7. A. SAVINIO, Casa «La Vita», cit., p. 322. 8. E. FROMM, Il linguaggio dimenticato. Introduzione alla comprensione dei sogni, delle fiabe e dei miti [The Forgotten Language, 1951], trad. G. Brianzoni, Milano, Bompiani, 1962, p. 11. 9. A. SAVINIO, Narrate, uomini, la vostra storia, cit., p. 247.
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angeli e i santi, sono dimesse suppellettili che appartengono all’ordinario quotidiano. Perfino Dio, il Dio dei cristiani (o meglio dei greci ortodossi, a cui Savinio si riferisce spesso con affettuosa familiarità nei testi dedicati all’infanzia trascorsa in Grecia), prende delle sembianze umili, che ci ricordano piuttosto quelle di un parroco di campagna, povero, e forse persino affamato: «Nivasio sapeva che lì a due passi, dietro quella tenda di percallina rossa, nel recinto inviolabile e freddo, sopra una sedia spagliata, avvolto nel pastrano inverdito dall’uso, la barba sale e pepe, l’occhio triangolare sotto il tubino logoro, stanco e sfiduciato, sedeva il Dio greco. [...] Immaginava tanti modi di recare un po’ di conforto al Theòs [...] al Dio senza compagnia, al Dio che aveva freddo. [...] Riepilogava tutte le “buone” cose che lui stesso aveva mangiato a tavola, e ora voleva spartire col Dio povero»10. L’esasperato conflitto con i limiti delle possibilità linguistiche, subìti come una vera e propria prigione, si trasforma in una implacabile smania di ampliamento del linguaggio attraverso neologismi, idiotismi, barbarismi, figure retoriche di ogni genere e spesso anche con l’inserimento di disegni, e naturalmente porta Savinio ad attingere a piene mani, con la solita pirotecnica creatività, alle straordinarie possibilità di espansione del linguaggio offerte dalla mitologia greca, sia pure affrontata con un atteggiamento disincantato e di bonaria ironia. In questo contesto va considerata la spiritosa riedizione della figura di Penelope che Savinio ripropone in Capitano Ulisse a partire proprio da un’osservazione linguistica: «questa mania di chiamare uomini e cose per soprannome, fa parte di una speciale e curiosissima metafisica della scemenza che Ulisse condivide con altri uomini superiori. [...] Suo malgrado Ulisse è vissuto tanto da conoscere nonché
10. A. SAVINIO, Infanzia di Nivasio Dolcemare, cit., p. 610.
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la Grecia degli Atridi, ma anche la Grecia di Venizelos. Per questo popolo sarcastico e navigatore, Penelope è sinonimo di orinale. Eufemismo eloquente. Traslato ricco di significati. La stessa parola associa la più domestica delle suppellettili alla più domestica delle donne. Sia inteso ora e per sempre che ogni qualvolta Ulisse pronuncia il nome della propria moglie, egli esprime contemporaneamente l’idea di orinale»11. Anche nell’interpretazione mitologica di Savinio si avverte la lettura della filosofia di Giambattista Vico, di cui produce spesso ampie citazioni. L’associazione fra l’arte e il mondo mitico-sensoriale dei primitivi attraverso il recupero della creatività infantile, rinvia certo a temi del pensiero del filosofo napoletano. Ma anche l’idea che l’essere umano moderno, plasmato dalla società in cui vive, sia ormai incapace non solo di comprendere, ma persino di esprimere con il suo linguaggio irrigidito, astratto, lontano dalla corporalità, le immagini mitico-poetiche, può essere ricondotta ad ascendenze vichiane. Ritroviamo infatti questa intuizione nel secondo libro della Scienza nuova: Ma, siccome ora (per la natura delle nostre umane menti, troppo ritirata da’ sensi nel medesimo volgo con le tante astrazioni di quante sono piene le lingue con tanti vocaboli astratti, e di troppo assottigliata con l’arte dello scrivere,e quasi spiritualezzata con la pratica de’ numeri, chè volgarmente sanno di conto e ragione) ci è naturalmente niegato di poter formare la vasta immagine di cotal donna che dicono “Natura simpatetica” (che mentre con la bocca dicono, non hanno nulla in lor mente, perocché la lor mente è dentro il falso, ch’è nulla, né sono soccorsi già dalla fantasia a poterne formare una falsa vastissima immagine); così ora ci è naturalmente niegato di poter entrare nella vasta immaginativa di que’ primi uomini, le menti de’ quali di nulla erano astratte, di nulla erano as-
11. A. SAVINIO, Capitano Ulisse cit., pp. 25-26.
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sottigliate, di nulla spiritualezzate, perch’erano tutte immerse ne’ sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne’ corpi: onde dicemmo sopra ch’or appena intender si può, affatto immaginar non si può, come pensassero i primi uomini che fondarono l’umanità, gentilesca12.
Per Savinio, come per Vico, i miti non hanno un’origine e una motivazione puramente estetica, ma rappresentano la forma mediante la quale i primi esseri umani che hanno popolato il mondo sentivano la propria umanità. E se quei miti sono diventati per noi soltanto degli elementi estetici è perché noi siamo troppo lontani dalla cultura che li ha generati e non riusciamo più a percepirli come espressione immediata e comunicabile di idee e sentimenti. L’unica via per accedere alla nostra più vera umanità e per tornare a comprenderla, almeno in parte, è dunque la mrivisitazione e la «ripetizione» dei miti, delle fiabe, dei riti dei popoli primitivi13, perché è là che l’Umanità ha avuto inizio: Per lo intiero stabilimento de’ princìpi, i quali si sono presi di questa Scienza, ci rimane in questo libro di ragionare del metodo che debbe ella usare. Perché, dovendo ella cominciare donde ne incominciò la materia, [...] sí avendo noi a ripeterla, per gli filologi, dalle pietre di Deucalione e Pirra, da’ sassi d’Anfione, dagli uomini nati o da’ solchi di Cadmo o dalla dura rovere di Virgilio e, per gli filosofi, dalle ranocchie d’Epicuro, dalle cicale di Obbes, da’ semplicioni di Grozio, da’ gittati in questo mondo senza niuna cura di Dio di Pufendorfio, goffi e fieri quanto i giganti detti los patacones, che dicono ritrovarsi presso lo stretto di Magaglianes, cioè da’ polifemi d’Omero, ne’ quali Platone riconosce i primi padri nello stato delle famiglie
12. G. Vico, Scienza nuova, cit., p. 265. Corsivi miei. 13. Cfr. S. VELOTTI, Sapienti e bestioni. Saggio sull’ignoranza, il sapere e la poesia in Giambattista Vico, Parma, Pratiche, 1995, pp. 51-65.
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(questa scienza ci han dato de’ princìpi dell’umanità così i filologi come i filosofi!); – e dovendo noi incominciar a ragionarne da che quelli incominciaron a umanamente pensare; – e, nella loro immane fierezza e sfrenata libertà bestiale, non essendovi altro mezzo, per addimesticar quella ed infrenar questa, ch’uno spaventoso pensiero d’una qualche divinità, il cui timore, [...] è ’l solo potente mezzo di ridurre in ufizio una libertà inferocita: – per rinviare la guisa di tal primo pensiero umano nato nel mondo della gentilità, incontrammo l’aspre difficultà che ci han costo la ricerca di ben venti anni, e [dovemmo] discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere ed immani, le quali ci è affatto niegato d’immaginare e solamente a gran pena ci è permesso d’intendere. [...] Ma tali primi uomini, che furono poi i prìncipi delle nazioni gentili, dovevano pensare a forti spinte di violentissime passioni, ch’è il pensare da bestie. Quindi dobbiamo andare da una volgare metafisica ([...] e truoveremo che fu la teologia de’ poeti), e da quella ripetere il pensiero spaventoso d’una qualche divinità, ch’alle passioni bestiali di tal’uomini perduti pose modo e misura e le rendé passioni umane14.
Anche per Savinio occorre tornare ai primi esseri umani, a quelli che «incominciaron a umanamente pensare», il cui ragionamento era completamente radicato nel corpo, e da lì «ripetere» il loro linguaggio, cioè i miti: prima che essi si trasformassero da elemento comunicativo in un sistema chiuso di figure cristallizzate, da lingua viva in lingua letteraria morta: «Nei cognomi di origine bestiale sopravvive il totem originario, di là dalla cristallizzazione nella vita sociale che ha coperto gli uomini di una pelle uniforme e di un medesimo colore. Si esca dalla scia dell’abitudine, si legga il cognome bestiale con occhio etimologico, e il latore di quel cognome si staccherà nell’i-
14. G. VICO, Scienza nuova, cit., pp. 238-239. Corsivi miei.
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stante stesso dal comune destino degli uomini e riapparirà nella sua fatalità propria: inusata, dimenticata ma fresca ancora al pari della carne dei mammut estratti dopo milioni di anni dai ghiacci della Siberia settentrionale»15; e «Giambattista Vico aveva ragione. Il senso etimologico rivela la persistenza nell’uomo del senso delle origini. A maggior ragione nella donna dunque, tanto più dell’uomo fresca di anima e vicina alle cose originali»16. Il programma artistico di Savinio, teso a restituire al linguaggio del mito, proprio dei primitivi e dimenticato dai moderni, una dimensione non aulica ma essenziale per la comunicazione, risente della matrice vichiana, ma risulta coerente, anzi parallelo, se non precursore delle formulazioni del pensiero psicanalitico. Per Freud, infatti, miti, fiabe e sogni costituiscono un unico linguaggio in quanto tutti fondati sulle funzioni associative ed evocative, all’opposto del linguaggio convenzionale dominato dalle strutture sequenziali lineari di spazio e tempo. Anche Fromm riprenderà il tema: «tale modo d’esprimersi è stato dimenticato dall’uomo moderno; non quando dorme, bensì quando è sveglio. [...] Per i popoli del passato [...] miti e sogni rappresentavano alcune fra le più significative espressioni dell’intelletto, e il non comprenderli sarebbe equivalso all’analfabetismo». E certamente Savinio avrebbe condiviso la conclusione: «il linguaggio simbolico è l’unica lingua straniera che ognuno di noi dovrebbe imparare»17 IL
MITICO QUOTIDIANO
Per Savinio il distacco dal mito, cioè l’oblio del linguaggio simbolico, è dovuto al progressivo imporsi della logica sui sensi: in effetti, l’essere umano ha quasi completamente
15. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., p. 40. 16. A. SAVINIO, Dico a te, Clio, cit., p. 120. 17. E. FROMM, Il linguaggio dimenticato, cit., pp. 11-13.
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perso contatto con la materialità, che col tempo viene sempre più sentita quasi come oscena. Al contrario, come spiega Mercurio nel racconto Il gallo, se decidessimo di ripercorrere seriamente la storia, vedremmo che «Tutti gli dèi sono in origine animali. Eva in origine era un vacca, Artemide un’orsa, Cibele una leonessa, le dee che voi chiamate ctonie, cioè a dire terriere, in origine erano serpi, Afrodite era colomba, Zeus era aquila e io gallo, e a me piace ritornare di tanto in tanto alla mia origine»18. Rispettabilissime figure mitiche, partecipi di un’azione altamente drammatica, sono così qualificate con attributi animaleschi. Ad esempio, Niobe viene descritta come «Donna sulla quarantina, abbondante e maestosa. Un che fra la tacchina e la faraona»19, e poi, al culmine della tragedia, di fronte all’imminente strage dei suoi figli da parte degli dei, quando «tenta serrare tra le braccia tutti assieme i figliuoli: è più gallinacea che mai»20; e quando la strage è compiuta chiuderà il proprio dolore urlando «come cagna»21. Mito e animalità si incontrano naturalmente, e si prestano a vicenda potere evocativo, per creare una miscela esplosiva di reticenze rimosse, di valori violati, di tabù spezzati. Esattamente come al momento della loro prima concezione, nel mondo saviniano gli dei e gli eroi assolvono funzioni quotidiane nella vita degli umani. Come per i greci i miti erano in perenne evoluzione, rappresentando sì fenomeni naturali o caratteri ideali, ma anche «modelli dell’umana società»22, in un adattamento continuo alla dimensione storica, così in una mitologia moderna l’essere umano che crea gli dei attribuirà loro sembianze a lui fa-
18. A. SAVINIO, Tutta la vita cit., p. 241. 19. A. SAVINIO, La morte di Niobe [1925], in Vita dei fantasmi, cit., p. 72. 20. Ivi, p. 75. 21. Ivi, p. 76. 22. A. SAVINIO, Zeus finanziere, in Opere scritti dispersi tra guerra e dopoguerra, cit., p. 580.
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miliari: «Le cose greche “camminano”. [...] E noi trovandole ancora fresche e vive, le trattiamo come cose attuali. Questa la ragione delle “parafrasi” di noi artisti poeti scrittori: e la riprova della legittimità delle nostre parafrasi»23. Savinio interpreta il mito come un linguaggio simbolico che l’essere umano può continuamente ricreare, in funzione di una concreta rappresentazione del suo mondo interiore. Questa idea rappresenta l’elemento fondamentale della sua concezione della mitologia, e determina conseguentemente tutto il trattamento del materiale mitico: gli dei greci «mutevoli come carattere, è giusto che fossero mutevoli anche come significato. [...] Una interpretazione altrettanto legittima è quella di modelli dell’umana società. È in questa funzione che quella brillante compagnia terminò il suo giro quaggiù»24. Vengono rovesciati i termini del rapporto essere umano-mito, e analogamente risulta ribaltato anche il rapporto essere umano-Dio: «Un giorno noi ci accorgiamo che i miti [...] non sono fuori di noi ma dentro di noi. [...] Noi scopriamo in altre parole che gl’inventori di Dio siamo noi stessi»25. Non stupisce quindi la ricomparsa nelle strade, negli interni borghesi, nei giardini, di quelle divinità, di quegli eroi che, per chi sapeva guardare, non se ne erano mai andati. E in questa prospettiva è naturale che, sotto l’occhio di Savinio, Mercurio diventi il portalettere. Nella lettura saviniana troviamo insomma implicito quanto Furio Jesi coglieva nei rapporti fra letteratura e mito: «L’esperienza religiosa della Grecia arcaica e classica è segnata da miracoli continuamente rinnovati, il cui compiersi manifesta l’interferenza del tempo eternamente presente del mito con il tempo storico»26.
23. Ibidem. 24. Ibidem. 25. Ibidem. 26. F. JESI, Letteratura e mito, Torino, Einaudi, 1968, p. 218.
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Savinio sente il diritto-dovere di sottrarre le vicende mitiche all’aura, all’immobilità a cui la tradizione le ha condannate: una volta riscattate non figurano più come una dotta citazione, ma rappresentano un innesto vitale nel tessuto della generale contaminazione di piani temporali e stilistici. I miti riprendono allora bruscamente vita, come una conversazione lasciata in sospeso. La ripresa e la quotidianizzazione del materiale mitico, che procede sia sul piano della dissoluzione degli elementi mitici nel linguaggio quotidiano, sia sul piano della creazione di una neomitologia, viene così a prendere forma di un programma di poetica. Ma l’atteggiamento spietatamente corrosivo che Savinio assume nei confronti di tutto ciò che ha sapore di tradizione, di costrizione, di ordine costituito, di accettazione acritica, fa sì che la mitologia, per essere accolta nel suo mondo poetico, debba passare anche attraverso un filtro di dissacrazione, che la affranchi dalle incrostazioni idealistiche e la renda funzionale alla produzione dell’indispensabile effetto di scardinamento della percezione. All’interno del più ampio progetto di distruzione di vecchi valori e di certezze metafisiche, Savinio trasporta il mito dal Monte Olimpo alla città moderna, e i miti diventano elementi costitutivi del suo archivio linguistico personale. Il processo richiede necessariamente la contaminazione del materiale mitologico, e attraverso la diffusione nel mito dell’indifferenziato Savinio mina le partizioni fondamentali del dualismo metafisico. La metamorfosi è ardua, ma irrinunciabile: la divinità rifiuta l’immortalità e irrompe nel tempo storico, e si rianima proprio come la statua di Mercurio che, dolorosamente, scende dal piedistallo sul quale la Storia l’aveva relegato per entrare nel mondo fisico del tempo e delle contraddizioni: «Mais par un effort inconcevable qui se répandit en ondes sismiques dans l’univers entier, et ondula l’éther, et fit chavirer les astres comme autant de petits vaisseaux dans la tempête, il lui tendit la main pour descendre. Ainsi fut fait, ô main de statue qui vit à peine comme un gant
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qui vient de naître. Mais à l’instant même, [...] la ville entière se réveilla subitement, afin d’honorer le premier pas dans la vie de celui qui voulait être mortel. [...] À ce moment le pied marmorée de Merx toucha la terre»27: il dio si è liberato dalla prigione dell’immortalità ed è entrato nella temporalità. Il dramma della fuga dall’immortalità per la necessità di vivere nel tempo, nonostante la morte, o forse proprio per l’esistenza della morte, rappresenta uno dei temi più inquietanti e affascinanti dell’opera di Savinio. I personaggi del mito classico che popolano il mondo di Savinio hanno scoperto lo spleen dello stato di perfezione dell’immortalità, ed anelano drammaticamente ad essere soggetti al tempo, a percorrere l’esperienza della vita sigillata dalla morte. Per essi, come per il loro autore, è proprio la morte che dà un senso alla vita, e l’immortalità non è che «una esistenza minore, chiusa a ogni divenire, immobile e muta». Dei ed eroi si strappano essi stessi la loro aureola per cercare la realtà e il tempo, divenendo mortali: attraverso l’acquisizione della temporalità conquistano un senso di pathos che li accomuna agli esseri umani e li cala in uno spazio dominato dal paradosso. È interessante notare come un autore profondamente diverso come Pavese si rivolga anch’esso al mondo dei miti, reinventandolo e riconducendo i suoi valori eterni ad assumere nuovi significati28. Ma la mitologia, recuperata dall’autore piemontese soprattutto come mezzo espressivo, rimane aulica e rarefatta, abitatrice del mondo delle idee, mentre Savinio le impone, in una visione ironica, quasi ludica, di acquisire corporalità e materialità, di scendere dai piedistalli e di andare al mercato. Sia per l’uno
27. A. SAVINIO, Introduction à une vie de Mercure, in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 459-460. 28. Sull’uso del mito nel linguaggio poetico di Cesare Pavese si veda V. MARIANI, The Sources of Dialogues with Leucò and the Loneliness of the Poet’s Calling, in «Rivista di studi italiani», VI, 2 (dicembre1988), in part. p. 67.
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che per l’altro, tuttavia, il mito rappresenta il modo, la forma per tradurre in narrazione drammatica la dialettica fra mortalità e immortalità. Savinio arriva perfino a scrivere: «ho cominciato a pensare alla morte quando ho cominciato a pensare. Pensare è una sineddoche [...] “pensare”, s’intende ‘pensare alla morte’»29. La morte diviene così la chiave per dare un senso alle azioni umane, che sono rilevanti proprio perché immerse nel flusso del tempo, e quindi irripetibili e uniche, in contrapposizione alle “irrilevanti”, perché infinitamente ripetibili, azioni atemporali degli dei. Ma anche per Pavese l’immortalità è vissuta dagli dei come una limitazione in quanto solo l’esistenza di un termine rende preziosi i non infiniti attimi della vita e dà loro un senso. Se quindi esiste una analogia fra i miti dei Dialoghi con Leucò e quelli di Savinio, essa si colloca proprio nella necessità, sentita da entrambi gli autori, di trovare in essi i termini di un linguaggio simbolico che permetta un discorso disincantato e laico sul senso della morte. CAPITANO ULISSE Fra le operazioni di recupero di materiale mitologico, sottratto all’atemporalità e riportato a vivere, la più compiuta è certamente il dramma Capitano Ulisse (1925). Il testo è preceduto da un saggio introduttivo che contiene alcune riflessioni sul mito e sulle ragioni della sua rilettura. Savinio rivisita il mito di Ulisse per liberarlo da «quaranta secoli d’incomprensione». L’incomprensione è dovuta al fatto che ormai si è troppo lontani dal significato «originale» delle parole, e risulta quindi particolarmente difficile coglierne le sfumature legate all’etimologia: «Tempo e variazioni di clima operano disastrosamente sulle pa-
29. A. SAVINIO, Casa «La Vita», cit., p. 12.
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role. Le deformano, cancellano fino l’ombra del loro significato originale»30; così la parola «eroe», da ordinaria connotazione sociale, si è trasformata per Ulisse in una intollerabile prigione, da cui lo si può liberare solo reinserendolo nella vita. Savinio scrive il libro «come un’opera di beneficenza», per «riudire la voce del mio amico Ulisse», per sottrarlo alla sua angusta condizione di eroe, o meglio, per riportare il suo status di eroe a ciò che esso significava prima di essere deformato dalla tradizione: «Eroe ha per noi il significato corto e rumoroso di uno sparo di bombarda. Al tempo in cui Ulisse era tra la gioventù e l’età matura, il valore di Eroe non superava quelle onorificenze che toccano d’ufficio a chi ha raggiunto la debita anzianità. Gli eroi di Omero erano qualcosa tra il Commendatore e lo Chevalier de la Légion d’Honneur. Potevo lasciare a Ulisse un naso di cartone e un abito da carnevale? Ho voluto riudire la voce del mio amico abbandonato da tutti, contare i palpiti del suo cuore. Un cuore di bronzo dà il suono fesso, l’odioso suono delle campane. Era necessario riportare il commendatore Ulisse alla sua statura naturale»31. Ulisse e il suo viaggio vengono così riscritti nel contesto di un primo Novecento dimesso e borghese, ma, cionondimeno, popolato di accattivanti divinità, anche esse mosse dalle più futili motivazioni: Che tra Ulisse e Minerva ci fosse del tenero, non era un mistero per nessuno. Malgrado la reticenza forzosa dei loro rapporti, malgrado il sussiego cui essa era astretta e dalla sua posizione di dea e dalla sua situazione di vergine cronica, il flirt tra Ulisse e Minerva era così manifesto che un giorno costei si determinò a baciarlo non si sa bene se in fronte o sulla bocca. [...] Ma sia la differenza di classe
30. A. SAVINIO, Capitano Ulisse, cit., p. 12. 31. Ibidem.
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che rendeva i loro rapporti così faticosi, sia quel fare dottorale di lei, la sua aria saccente, la sua mentalità da quacquera, la sua incapacità di stare allo scherzo, a conti fatti Ulisse dové dimettere l’illusione Minerva come via via aveva dimesso le altre illusioni32.
Le figure dell’Odissea sono ancora in grado giocare ruoli di archetipi di una conversazione nell’Italia degli anni Venti, così «Circe la dannunziana» («occhi revulsi, bocca infiammata, narici abissali, tendendogli tra i lenzuoli di seta nera le braccia d’avorio»33) è l’amante sensuale e perversa: «Ospite nella villa liberty di Circe la fatale, tra le braccia di questo manichino di cera, chino sulle sue mammelle profumate d’incenso, l’eterno scolaro ha il privilegio di assaporare fino alla saturazione e allo schifo quella deformazione così comune dei sensi, quel vizio della mente che si chiama dannunzianesimo, ma che ha preceduto di molti secoli la nascita di Gabriele»34. All’opposto, Calipso è l’amante protettiva e materna: «Essere il cocco di questa ninfa profilattica, è la situazione più igienica del mondo. Calipso pensa a tutto. Il bene lo concepisce come un sentimento totale che non si spegne allo spegnersi dei sensi. Gli ha già regalato una stilografica e un orologio braccialetto. Lo vuole vestito bene, l’ha provveduto di biancheria e di maglieria, le calze glie le fa fare a mano da certa vecchia del paese e dando fondo alle sue economie personali gli ha aperto un libretto alla Cassa di Risparmio. Sintesi tenerissima e mostruosa dell’amante e della madre»35. Savinio riscrive il mito soprattuto per aiutare Ulisse a morire, giacché la “vita reale”, che gli viene restituita, trae
32. 33. 34. 35.
Ivi, Ivi, Ivi, Ivi,
p. 28. p. 24. p. 23. pp. 24-25.
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il suo significato proprio dalla possibilità di morire. Ulisse, finalmente vivo, e dunque mortale, può riprende la sua esistenza, ed esce dal teatro attraversando la platea, sottobraccio con uno degli spettatori mentre inutilmente dal palco Minerva e Penelope lo richiamano: «Vuole uscire con me? Ceneremo assieme, poi ognuno di noi tirerà per la sua strada e non ci penseremo più. SPETTATORE (infilandosi il soprabito). Lei crede dunque, capitano, che tutto è stato detto? ULISSE. Per gli altri, sì: ora comincia un tragico soliloquio... Ma non ci pensi! Andiamo. (Prende lo Spettatore sotto braccio, e scendono assieme in platea)»36. AMORE
E
PSICHE
La prima rivisitazione del mito di Eros e Psiche è nel romanzo del 1927 Angelica o la notte di maggio, cui farà seguito la rilettura in chiave grottesco-freudiana di La nostra anima (1944). Nel primo testo il fulcro della vicenda è l’incontro-scontro fra la quotidianità borghese- convenzionale, impersonata dal banchiere Barone Felix Von Rothspeer, e il personaggio del mito, Psiche, incarnata da Angelica. Abbiamo già visto che Savinio attribuisce al teatro il ruolo maieutico di risvegliatore della coscienza di sé. È quindi logico che Psiche sia rappresentata dall’attrice e ballerina di teatro Angelica, simbolo e personificazione dell’arte e della sensualità, capace di affascinare l’uomo formale, tanto da farlo innamorare. Il Barone attraverso di lei trova inaspettatamente una finestra sulla propria umanità: «“Ho pianto! ho pianto!”. Il barone salta giù dalla cuccetta. Chino sullo specchio, contempla le lacrime sorelle che gli scorrono le gote. Altre ne vorrebbe questo par-
36. Ivi, pp. 130-131.
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venu delle passioni»37. Ma Rothspeer non sa andare oltre il desiderio di possesso: ottiene Psiche dalla famiglia, e lei lo segue, ma rimane muta, una adorata “bambola di carne” con cui è impossibile qualunque comunicazione: «“Mi sono portato dietro una statua, una statua morbida e calda. Mi guarda e non mi vede, mi ascolta e non risponde. È viva! viva in una sua vita che io non... Felice... In quel sonno...”»38. Rothspeer percepisce l’Arte-Psiche come un oggetto e non come una possibilità di interazione e quindi di arricchimento reale di se stesso. Come un ricco proprietario di opere d’arte, di inestimabile valore, ma da cui non riceve alcun messaggio, il Barone, grazie al suo potere, ottiene il possesso di Angelica, ma in realtà non sa che farsene. L’occasione di scoprire i sentimenti è disponibile, ma Rothspeer non riesce a vederla. La vicenda si sviluppa di incomprensione in incomprensione, per arrivare al culmine dell’incomunicabilità quando il Barone, in un parossismo di inutile gelosia, spara ad Eros, che veniva segretamente a visitare Psiche prigioniera, ferendolo, e condannando così Psiche ad una lunga infelicità, e con essa il mondo intero: (arriva di corsa, trafelato). Malas notitias! Venticinque suicidii in città. Quaranta assassinii in un’ora. Settantadue padri hanno stuprate e strangolate le figlie. [...] MAZAS
Che ora sarà? Gli orologi non camminano più. Il tempo si è fermato nel cuore di una notte infinita, senza domani. E ora? Salgono a noi le voci, i gemiti più lontani del mondo: Preghiera dei superstiti: Arianna, gelido fiore costante, Dormon nel fondo degli specchi l’ore; 37. A. SAVINIO, Angelica o la notte di maggio, in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 366-367. 38. Ivi, p. 433.
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O stelle, o pleiadi, Sanate Amore! BERGER.
Écoutez: ils pleurent. Plus d’espoir! No: diamo tempo all’infelice Psiche di terminare il suo pellegrinaggio. E quando avrà ritrovato il suo sposo che quello scemo di Rothspeer ha sbadatamente ferito in quella notte di maggio... BERGER: Mais quoi! c’était elle, Psyché? IO. Questo non lascia dubbio. Allora tutto rientrerà nell’ordine, nella tranquillità39.
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IO:
Il triangolo società-arte-realtà è così costruito, ed i complessi termini dei rapporti al suo interno delineati per le analisi successive. Anche se i miti sono rivisitati e deformati, in Savinio non vi è traccia di quel conflitto di superamento del mito sentito da tanti autori e che, come acutamente analizzato da Jesi, si esprime nella forma della parodia, bensì il desiderio di rinnovare il mito: «La parodia non dev’essere intesa [...] come un netto superamento e un abbandono. Essa comporta in ogni caso un volgersi indietro, se pure contrastato e polemico; e nel vincolo che unisce il parodista all’oggetto della parodia è lecito riconoscere la sopravvivenza di un’antica commozione, le tracce di un amore contro cui si lotta, ma che non si può sopprimere: la sopravvivenza delle figure di un mito contro le quali ci si difende, ma che non si possono escludere dalla propria psiche»40. Con Savinio siamo esattamente di fronte a quella che Jesi chiamerà «l’ultima metamorfosi dell’eredità della mitologia classica», che è «una metamorfosi drammatica, tale da mostrare proprio in quelli che erano stati considerati simboli di serenità e di armonia, emblemi di orrore e
39. Ivi, pp. 436-437. 40. F. JESI, Letteratura e mito, cit., p. 189.
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di angoscia, di segrete malattie affioranti dagli strati più profondi della psiche»41. I miti classici sono sottoposti ad una esperienza estetica di straniamento, che nell’opera saviniana passa, in genere, attraverso un processo di grottesca deformazione. Quest’aspetto acquisisce tutto il suo rilievo e si manifesta nella sua capacità di produrre shock nella scena rivelatrice in cui nella Nostra anima, come nella novella di Apuleio, Psiche tradisce la promessa fatta e illumina il suo amante. Alla domanda di Perdita: «“Allora vedesti la leggiadra chioma della testa d’oro, madida di ambrosia, il collo di latte e le guance purpuree graziosamente incorniciate dalle ciocche dei capelli sciolti, sparsi sul petto e sulle spalle, e sfolgoranti al punto che perfino il lume della lucerna vacillava”»42, Psiche risponde spezzando la drammaticità del racconto con una brutale risata liberatoria: «Presa alla sprovvista, Psiche tacque e fissò Perdita. Il suo occhio rotondo di uccello, per lo stupore maggiormente si arrotondò. “Su le spalle dell’alato dio” continuava intanto Perdita, esaltandosi e accendendosi in viso “ali rugiadose biancheggiavano di sfavillante splendore e benché fossero ferme, tremolavano di continuo e palpitavano alle estremità scherzose piumoline. Il resto del corpo era liscio e bello...”. Psiche a questo punto rompe lo stupore e dà fuori una risata dentata a sega, che dentro il suo becco di pellicano risuona come un riso di legno»43. Quello che in Apuleio era il riconoscimento di Amore si è tramutato nella disgustosa scoperta del pene: Balle! [...] Sciocchezze! Sciocchezze e falsità! Ecco gli effetti della propaganda! Ecco a che cosa portano le menzogne di uno spudorato romanzatore! [...] Povera me! Povere noi!
41. Ivi, p. 194. 42. A. SAVINIO, La nostra anima, cit., p. 61. 43. Ibidem.
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Povere tutte noi donne!... Avrei voluto che la lampadina sopra il mio letto spandesse raggi di tenebra [...] Avrei voluto che la luce si spegnesse per sempre sul mondo. [...] Che [...] tutti i sistemi di illuminazione sparissero improvvisamente, per nascondermi quello che io vidi allora: la cosa più brutta, più stupida, più avvilente, più sconcia, più informe, più bestiale, più inumana, più ridicola, più immonda, più illogica, più grottesca, più oscena, più inguardabile che occhio umano abbia mai veduta!... E quello era mio marito! Quello il Signore di Tutto! [...] Non potevo credere. Guardavo e non vedevo. [...] Pensai che l’occhio mi tradisse, che il mio fedele occhio di pellicano si prendesse gioco di me [...] Che una bestia immonda si fosse sostituita nel buio a mio marito. Che un viscido lumacone, un bruco calvo avesse preso il posto di colui che, invisibile, mi dava tanta felicità, tanto piacere, tanto calore [...] Subito che ebbi fatta luce, mio marito... Ma perché dico ancora “mio marito”? Io non devo, io non voglio, io non posso dare ancora il nome di marito a quel lombrico schifoso e grottesco... Subito che ebbi fatta luce, quello già dormiva, ma turgido ancora e ansante della fatica [...] Paonazza tuttavia la testa, potentemente cupolata e svasata alle ganasce a imitazione dell’elmetto di guerra dei soldati tedeschi, priva così di occhi come di naso e solo di bocca fornita, muta e verticale come bocca della torpedo ocellata. Il suo corpo tubolare, sul quale s’incordavano e palpitavano grosse vene turchine, e privo sia di braccia, sia di gambe, sia di ali posava goffo e squilibrato sopra due borse rigonfie e lustre, simili alle borse di una doppia ciaramella. [...] Le stesse borse si sgonfiavano e allungavano, perdevano il lustro e si rigavano di rughe, quasi attraverso un invisibile meato e senza sibilo perdessero l’aria [...] Il molle cilindro si riduceva e deformava [...] giaceva umiliato e sfatto, avvolto nella propria pelle come un morticino nel sudario44.
44. Ivi, pp. 61-64.
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La svolta è brutale, e il salto dall’aulico al volgare, dal leggiadro e leggendario al disgustoso e concreto è così netto da mettere a disagio qualunque lettore. Ma questo è proprio quello che Savinio vuole ottenere: l’arte non deve creare un senso di sicurezza nel fruitore, ma deve anzi stravolgere «ogni sua sicurezza, aspettativa di senso, abitudine percettiva»45, ed è anche in questo contesto che va intesa la distruzione dell’aura e della sacralità del mito. Savinio fa esplicito riferimento alla poetica di Baudelaire, collocando la propria poesia sotto la stessa intuizione: «Baudelaire è il Copernico della poesia, la quale fino allora era stata [...] perentoriamente tolemaica. [...] C’è una profonda ostilità contro Baudelaire, una ostilità inguaribile [...] perché [...] come Copernico in altro campo [...] anche Baudelaire ha ucciso un dio. Poiché Baudelaire insegna che il poeta può fare tutto da sé, senza guida né intermediarii, Apollo per opera di Baudelaire impallidisce e muore, le muse s’inaridiscono e sciolgono il loro coro, la corte del Parnaso va in liquidazione. [...] Prima di Baudelaire [...] la poesia era considerata immortale [...] mentre da Baudelaire in poi la poesia perde questa sua funzione augusta, sacerdotale [...] questa vacanza in essa dell’autorità metafisica [...] questo suo starsene isolata sulla terra, in mezzo agli uomini [...] questo suo starsene sotto il cielo spopolato di divinità. [...] La poesia di Baudelaire è [...] “poesia mortale”»46. È la Poesia stessa, proprio come Mercurio, ad essersi staccata dal suo piedistallo per tornare a vivere e morire: «Anche la poesia un giorno fu stanca di essere immortale, e scese nella poesia di Baudelaire, per poter morire»47, e Savinio, che dagli dei ha avuto in sorte un «occhio trasformatore», non può che assecondarla.
45. G. VATTIMO, La società trasparente, cit., p. 69. 46. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., pp. 68-69. 47. Ivi, p. 69.
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Il SOGNO E L’INCUBO: L’ARTISTA-FANCIULLO
[...] j’étais, enfant, hanté par le cauchemar de l’innocence. Documento acquistato da () il 2024/02/19.
A. Savinio, Les chants de la mi-mort1
L’INFANZIA
DI
NIVASIO DOLCEMARE
L’infanzia è uno dei temi fondamentali dell’opera di Savinio: le sono dedicati due romanzi, vari saggi, opere pittoriche ed una infinità di riferimenti, e non certo con intenti memorialistici, ma perché, come già rilevato, il confronto con l’immaginario infantile costituisce uno dei cardini della sua poetica. I due romanzi dedicati alla propria infanzia, Tragedia dell’infanzia e Infanzia di Nivasio Dolcemare, sono squisitamente autoreferenti: la fanciullezza è il luogo della creatività artistica, e parlare dei propri sogni di fanciullo significa programmaticamente parlare della propria arte. Attraverso la riscostruzione del proprio immaginario infantile, Savinio evidenzia la struttura degli «universali fantastici» dell’artista adulto, e dunque l’analisi del proprio passato assume la forma di un vero e proprio manifesto di poetica. Nivasio, ovvio anagramma di Savinio, appare subito
1. In Hermaphrodito, cit., p. 15.
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predestinato ad un destino originale, grazie alla «generatrice di luce interna» e agli «occhi trasformatori»2 che ha ricevuto in eredità dalla Grecia natia3. Nivasio è destinato ad una scienza sottile, difficile da comunicare: egli infatti, «considera il mondo, gli uomini, le cose per quello soprattutto che mondo, uomini e cose non hanno detto, non hanno fatto, non hanno manifestato»4. Il suo sguardo non può fermarsi a scrutare il reale, lo crea; ma conservare questo sguardo trasformatore non è facile: l’Infanzia di Nivasio Dolcemare non è altro che la battaglia di resistenza contro il mondo degli adulti, del conformismo e delle mediocrità. Alle regole del consesso sociale, non innate ma imposte, Nivasio oppone fin dall’inizio l’antagonista forza espressiva del proprio corpo: «il festeggiato arrivò in salotto. Il suo capino affondava nei merletti. Egli storceva gli occhi alle luci, buttava bava dall’innocente boccuzza. [...] Nivasio ruttò, petò, si comportò in maniera così indecorosa, che bisognò portarlo via senza por tempo in mezzo»5. L’artista, che vede e anzi crea il mondo attraverso il filtro della sua immaginazione ed è pronto a inventare liberamente gli strumenti linguistici necessari ad esprimerlo6, non è altro che un adulto che ha saputo conservare la sensibilità e la libertà intellettuale di un fanciullo. Savinio fa propria, insomma, la definizione del genio di
2. A. SAVINIO, Narrate, uomini, la vostra storia, cit., p. 247. Le citazioni sono tratte dal capitolo dedicato ad Isadora Duncan: si noti anche qui l’intromettersi prepotente del dato autobiografico anche quando la biografia è altrui. Come Savinio dichiara nell’introduzione ai Dialoghi e saggi di Luciano, «ogni scrittore di spirito “moderno”, è scrittore profondamente autobiografico» (p. 9). 3. «Essere nato sotto l’occhio azzurro di Atena anche Nivasio lo stima una fortuna» (A. SAVINIO, Infanzia di Nivasio Dolcemare, cit., p. 577). 4. A. SAVINIO, La nostra anima, cit., p. 16. 5. A. SAVINIO, Infanzia di Nivasio Dolcemare, cit., pp. 584-585. 6. Anche se questa ricerca può comportare la perdita della ragione: «Perché a cercare di penetrare i linguaggi segreti [...] si è puniti con la pazzia. Ma finire matti, Enrico, a noi che importa?» (A. SAVINIO, Vita di Enrico Ibsen, cit., p. 46).
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Baudelaire, accentuando peraltro l’importanza della funzione creatrice infantile rispetto a quella ordinatrice della maturità. Secondo Baudelaire «L’homme de génie a les nerfs solides; l’enfant les a faibles. Chez l’un, la raison a pris une place considérable; chez l’autre, la sensibilité occupe presque tout l’être. Mais le génie n’est que l’enfance retrouvée à volonté, l’enfance douée maintenant, pour s’exprimer, d’organes virils et de l’esprit analytique qui lui permet d’ordonner la somme de matériaux involontairement amassée». Caratteristica di Nivasio Dolcemare sarà piuttosto la preservazione della sua fanciullezza anche nella vecchiaia, e la continua “invenzione” di un’altra realtà: «idee, fantasie, giochi d’arte occupano di continuo e interamente il suo animo»7. La riflessione di Savinio su fanciullezza e linguaggio poetico (che, arricchita dall’analisi freudiana e dalla sua originale concezione della valenza repressiva del linguaggio, sbocca nella definizione dell’“artista-fanciullo”, spirito creativo radicato in un’infanzia che in quanto non ancora condizionata e sterilizzata dall’educazione, assume i connotati di luogo della creazione artistica e dell’immaginazione poetica) si costruisce, come d’altronde molte altre idee-guida del suo pensiero, su concetti di matrice vichiana. Nelle Degnità di Vico è già reperibile sia l’associazione di poesia e libera creatività infantile che la definizione dell’infanzia come stato artistico per eccellenza: «Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà de fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. [...] gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti»8. Savinio riprende la visione vichiana che associa infanzia e sensibilità artistica per reinterpretarla ed inqua-
7. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., p. 154. 8. G. VICO, Scienza nuova, cit., p. 192.
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drarla nella sua concezione dell’arte come libera affermazione della creatività, atto sovversivo e rivoluzionario ma anche costruttivo per eccellenza. Quando, ad esempio, in Casa «La Vita», Savinio sottolinea la capacità del signor Münster «di divertirsi agli spettacoli nuovi che presentano le cose più comuni, se guardate come per la prima volta (Il signor Münster, lo abbiamo già detto, è rimasto in gran parte fanciullo)»9, si avverte l’eco diretta di quanto Papini scriveva già nel 1903 in Il tragico quotidiano: «Vedere il mondo comune in modo non comune: ecco il vero sogno della fantasia. Pensare quello a cui nessuno pensa, stupirsi di ciò a cui nessuno bada [...] godere di ciò che a tutti sembra insignificante. Tutte queste cose deve fare il poeta e il filosofo – tutte queste cose fa il fanciullo. [...] il poeta dev’essere come un fanciullo dinanzi al mondo. [...] soltanto quelli che hanno il coraggio o la fortuna di restare bambini fanno ancora delle scoperte»10. E la possibilità di fare nuove scoperte è strettamente legata alla sensazione di «scoprire ogni giorno, di nuovo, l’universo» attraverso «quelle domande fanciullesche e inquietanti che i padri prudenti e le madri ignare dichiarano sciocche»11. Gli “artisti-fanciulli” di Savinio si caratterizzano proprio per la loro capacità di porre domande sconcertanti, che portano alla luce, spesso attraverso il paradosso, l’enigmatico e l’«inquietante» seppelliti sotto la patina dell’ordinario e del quotidiano: «inquietante» proprio perché capace di mettere in discussione l’apparato protettivo e tranquillizzante della normalità: «io cerco [...] l’anima segreta delle cose, e per trovarla sono costretto molte volte a guardare dietro la loro facciata consunta dall’uso e divenuta irriconoscibile»12. Nietzsche in Umano, troppo umano aveva già formulato considerazioni analoghe:
9. A. SAVINIO, Casa «La Vita», cit., p. 273. 10. G. PAPINI, Il tragico quotidiano, cit., pp. 482-483. 11. Ivi, p. 483. 12. A. SAVINIO, Ascolto il tuo cuore, città, cit., p. 14.
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«Non il vedere per primi qualcosa di nuovo, bensì il vedere come nuovo l’antico, ciò che è già anticamente conosciuto e che è da tutti visto e trascurato, contraddistingue le menti veramente originali»13. Ma, per vedere l’antico come nuovo è «necessario [...] che la puerilità del poeta e del filosofo sia conservata»14. I mostri saviniani, gli ibridi deliranti, le forme sorprendenti e distorte, i mobili e gli oggetti strani, nascono dall’“artista-fanciullo”, che per scrutare la loro struttura interna rompe le cose come astratti giocattoli, senza timore «dell’interno delle cose» perché in lui «l’apparenza, la finzione, il velo della coltura non hanno spento ancora curiosità e desiderio di ricerca»15: desiderio di scoprire il «perché» delle cose di, «scoprire come le cose nascono e per quali e quante fasi sono passate prima di arrivare a quella forma che vediamo noi e conosciamo noi, e che, se non siamo curiosi, se abbiamo paura dell’“interno delle cose”, crediamo nata così come noi la vediamo, [...] inalterabile, definitiva». L’adulto che rifiuta la propria infanzia vive in mezzo alle manifestazioni del meraviglioso, ma non riesce più a percepirle: «Ignorare lo stato di magia che ci ha preceduti significa d’altra parte non sentire lo stato di magia in mezzo al quale viviamo. Come adulti che hanno dimenticato la propria infanzia». L’“artista-fanciullo” grazie alla sua «straordinaria curiosità» e al suo «immenso desiderio di conoscere»16 riesce a spingersi oltre la superficie e ad addentrarsi nella realtà: «una volta ancora [...] curiosi e ansiosi rompevano la superficie polita ma ormai infeconda della civiltà, per cercare novamente le radici delle cose»17. Ma per raggiungere queste rivelazioni che spezzano il si-
13. F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano, a cura di G. Colli, Milano, Adelphi, 1992, vol. II., p. 78. 14. Ivi, p. 483. 15. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., p. 20. 16. Ivi, pp. 323-324. 17. A. SAVINIO, Ascolto il tuo cuore, città, cit., p. 27.
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stema, conservando e manifestando anche una volta adulti l’universo immaginativo dei bambini, per condurre tutti gli esseri umani alla conoscenza della magia che li circonda, sono necessari «spiriti straordinari», «superuomini» (Savinio attribuisce in sostanza caratteri superomistici ed eroici agli artisti in generale e a se stesso in particolare), «Uomini della Poesia»18 che sappiano recuperare un punto di vista «primordiale», cioè di quel tempo romantico, «tempo eroico della mente»19 che è la fanciullezza tanto dell’individuo come dell’umanità, in cui si «accumulano ricchezze» e «si fa un capitale»20, guidati dal desiderio di conoscenza e dal sentimento di avventura che permette, joyceanamente, ad «ogni uomo» di farsi Ulisse: «l’infanzia è romantica [...] Il romanticismo è il tempo [...] in cui l’uomo è animato da un desiderio immenso – e indeterminato. Da questo immenso desiderio, da questa straordinaria curiosità, da questa grandissima volontà di conoscere e di operare viene all’uomo quella inestinguibile sete di conquista, quell’indomito coraggio che di ogni uomo fa un Ulisse»21. L’interpretazione vichiana della storia degli esseri umani come sviluppo dalla fase del sensibile e dell’istinto a quella della ragione e della logica, passando attraverso l’età della fantasia e dei sogni («Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura»22) viene riletta ed esasperata da Savinio attraverso la lente dell’ironia e del grottesco: «l’uomo sul tetto butta dal meato puzzolento grappoli di carne che per terra si ritorcono, poi si levano e camminano, indi crescon con vigore – insufflati da un calore dilatante – e finalmente si fan uo-
18. 19. 20. 21. 22.
Ivi, p. 13. Nuova enciclopedia, cit., p. 323. Ivi, p. 324. Ivi, pp. 323-324. G. Vico, Scienza nuova, cit., p. 199.
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mini seriosi e dottrinari di morale»23. Incivilirsi significa allora diventare «mezzi uomini», ridursi «al formato comune del cittadino», e la «riduzione al formato civile», con la perdità della «curiosità» a favore della «compattezza»24, vale sia al livello dell’individuo che a quello delle arti. Ma la vera poesia conserva anche all’interno di una «civiltà chiusa» la sua identità antagonistica: «la poesia rappresenta un corpo estraneo, una perturbazione, un male. La poesia, in poche parole, non è civile»25. Gli esseri umani inciviliti sono irrimediabilmente lontani dalla poesia, cioè dal gioco e dalla fanciullezza: «la poesia è considerata [...] puro gioco di amabili astruserie, per gli uomini civili le cose poetiche partecipano della specie dei paesaggi della luna»26. Restare fanciulli ha quindi un effetto dirompente nei confronti della società, in cui genera turbamento e timore: «La più grande organizzazione di difesa che esista al mondo, è quella che l’umanità ha levato e tiene in perpetua efficienza contro il pericolo dell’infanzia. “Pericolo rosa”»27. L’EDUCAZIONE,
OVVERO LA
TRAGEDIA DELL’INFANZIA
Il romanzo Tragedia dell’infanzia, la cui prima stesura risale al 1919, è costruito come una serie di episodi esemplari, ciascuno dei quali ripropone la contrapposizione fra l’universo dell’immaginario del bambino e quello borghese e conformista degli adulti. Il fulcro intorno a cui ruota ogni vicenda è una caduta di comunicazione fra Nivasio e un adulto o gli adulti in generale, la cui conseguenza è l’irrimediabile divergenza del mondo percepito da Nivasio da quello della cosiddetta “realtà”. Mentre il
23. 24. 25. 26. 27.
A. SAVINIO, Hermaphrodito, cit., p. 230. A. SAVINIO, Ascolto il tuo cuore, città, cit., p. 25. Ivi, pp. 24-25. Ivi, p. 27. A. SAVINIO, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 558.
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mondo “reale” prosegue indisturbato nella sua corsa fatta di convenzioni di discorsi vuoti e di meschine aspirazioni, il mondo della fanciullezza si trasforma in un ambiente fantastico sotto coordinate prettamente oniriche. L’«educazione», se restasse fedele a se stessa e dunque all’etimologia, di cui Savinio indaga tutta la pregnanza, avrebbe la funzione principale di «condurre»28 e di «guidare»29: l’«educazione dei bambini dovrebbe tendere allo sviluppo, non all’atrofia della facoltà immaginativa»30, e gli educatori dovrebbero far proprie le idee pedagogiche di chi ha propugnato una educazione come funzione di stimolo alla crescita autonoma e non come costrizione e irreggimentazione: «Per noi, dopo Schopenhauer, Freud è il migliore degli educatori. Anche il passo grave e pacato della sua prosa è un passo da educatore. Freud mostra le cose [...] anche le più sepolte, ma non le giudica: lascia all’allievo libertà di prendere o lasciare. Educare, come dice la parola, non dev’essere altro che “guidare”»31. Ma l’educazione istituzionale, attraverso cui la società costruisce i propri futuri membri formandoli al conformismo e all’assenza di pensiero critico, non è un processo naturale, bensì una drammatica lotta da cui il bambino esce inevitabilmente sconfitto32. La Tragedia dell’infanzia rappresenta appunto un violento e doloroso conflitto con il mondo
28. Ivi, p. 561. 29. A. SAVINIO, Dico a te, Clio, cit., p. 132. 30. Ivi, p. 122. 31. Ivi, p. 132. 32. La famiglia, in quanto cellula fondamentale della struttura sociale e del sistema educativo, costituisce il cardine dell’azione repressiva: «l’idea “famiglia” è l’ostacolo più duro al libero e felice sviluppo dei rapporti tra gli uomini» (A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., p. 356). La centralità che il mondo familiare assume per Savinio come luogo educativo, dipende almeno in parte dal fatto che i giovani de Chirico erano stati educati in famiglia da istitutori privati, evitando il rapporto con le istituzioni educative “repressive” che hanno popolato l’immaginario di molti scrittori loro contemporanei, basti pensare al Musil dei Turbamenti del giovane Törless. Le rela-
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degli adulti in cui l’educazione è descritta come «la sistematica, scientifica, legale diminuzione dell’uomo, la castrazione completa, l’evirazione, la sterilizzazione dell’individuo»33. L’educazione riassume quindi l’insieme dei procedimenti repressivi con cui si assicura l’omologazione di ogni individuo al gruppo. Essa ha infatti una funzione di repressione corporale e intellettuale, che secondo Savinio si manifesta principalmente come limitazione delle possibilità di comunicazione; attraverso l’impoverimento e la costrizione del linguaggio naturalmente libero, si costruiscono dei «Newspeakers» che non hanno più modo di esprimersi in una maniera che non sia rigorosamente quella dell’ortodossia. La logica dei rapporti di forza è palesemente tutta in favore degli adulti: il bambino è completamente in balía degli adulti che lo circondano; l’autorità si impone, quando necessario, con la forza, e comunque mai viene impostato, ricercato un dialogo. L’intervento della figura paterna è sempre coercitivo: il padre è «l’uomo potente» di fronte a cui «ogni resistenza diventava vana»34 e che, come gli altri adulti, parla un linguaggio incomprensibile, del quale è inutile chiedere spiegazioni. L’incompresione è profonda e le risposte insoddisfacenti, proprio perché sono espresse nello stesso linguaggio dell’affermazione che si voleva chiarita. Si innesca così un circolo vizioso che produce soltanto frustrazione, specialmente perché viene vissuto dal bambino come un tradimento della fiducia posta nei genitori: «Le sue parole non m’illuminarono affatto. [...] Ne sapevo meno di prima. Non si domanda la spiegazione di una spiegazione. Legittimo pudore dell’ignoranza. Si fa una faccia soddisfatta, ma dentro si è pieni d’ombra e di amarezza. I peggiori momenti
zioni interpersonali, con le loro strutture di potere, e con il loro sistema di simboli, restano confinate alla ristretta cerchia familiare. 33. A. SAVINIO, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 561. 34. Ivi, p. 473.
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della vita. Dottori e professori vivono dell’oscurità, la praticano per mestiere; ma che anche i miei genitori facessero altrettanto, mi colmava di avvilimento. [...] Mio padre inventava storie terrificanti e oscure, e se gli chiedevo qualche chiarimento egli era prontissimo a darmelo, ma sotto forma di altre storie anche più oscure e terrificanti»35. Il bambino saviniano, che scopre dolorosamente la mancanza di una controparte con cui relazionarsi, si muove, isolato ed incompreso, in un clima di ostilità generalizzata: «La guerra scoppia tra infanti e adulti, tra l’autorità costituita e [...] uomini minuscoli»36. Il fanciullo dunque finisce per trovarsi relegato in uno spazio del tutto separato da quello degli adulti, con il quale non esiste alcun punto di comunicazione poiché si utilizzano registri linguistici completamente diversi. Ma il “bambino-artista” resiste alla socializzazione e, continuando a metterla in questione, sfida la costruzione della realtà invece di conformarvisi, attinge a piene mani alle «infinite possibilità della fantasia, questa poetica liberazione»37. In effetti, il fanciullo ha una percezione del reale più profonda di quella degli adulti, che alle sue manifestazioni di originalità di pensiero rispondono con incomprensione, rifiuto e repressione. La reazione dell’“artista-fanciullo” non può essere che straniamento, sogno che diventa incubo, rifiuto delle forme, dei modi, delle immagini che gli adulti, cioè la società costituita, tentano di imporre. Sotto il suo sguardo-lente deformante ai «noiosi» interlocutori crescono teste e membra di animali, la materia inanimata prende vita, il linguaggio si frantuma e la comunicazione diventa equivoco, dando vita ad un bestiario allucinante e pirotecnico: «Nivasio [...] vedeva per virtù d’immaginazione levarsi dalla fronte del duca d’A due corna immense e ra-
35. Ivi, p. 490. 36. Ivi, p. 558. 37. A. SAVINIO, Dico a te, Clio, cit., p. 122.
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mose, che trasformavano la testa di questo diplomatico in un vivente attaccapanni»38. L’infanzia, cioè l’umanità, si salva attraverso la trasformazione delle proprie visioni in espressione artistica.
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IL
SOGNO E L’INCUBO
Savinio arricchisce la propria riflessione sull’infanzia come luogo dell’arte per eccellenza, approfondendone le implicazioni psicoanalitiche alla luce delle teorie freudiane. La realtà percepita dall’“artista-fanciullo” non è altro che una grottesca e mostruosa rappresentazione dell’inconscio. Il mondo del bambino saviniano è popolato di incubi e di allucinazioni, con un diretto riferimento alla teoria formulata da Freud nella Interpretazione dei sogni, ma la soppressione della libido non è che una delle forme con cui si manifesta la continua repressione della natura del bambino ed in particolare del suo desiderio conoscitivo e creativo: in effetti, anche quando Nivasio o gli adulti credono, soddisfatti, di aver stabilito un piano di vera comunicazione, non si tratta che di un equivoco. Il nodo della definizione del soggetto di fronte al mondo esterno, psicoanaliticamente momento chiave dell’evoluzione di un bambino, diventa in Savinio il fulcro di una costruzione poetica. Il “bambino-artista” che dalla fase del riconoscimento della propria immagine, corrispondente allo «stade du miroir»39 di Lacan, passa a manifestare la sua capacità di imporre la propria creatività nella percezione del mondo, si contrappone ai «mezzi uomini» che, di fronte alla incomunicabilità con il mondo degli adulti, rinunciano ad esprimersi e lasciano che sia la
38. A. SAVINIO, Infanzia di Nivasio Dolcemare, cit., p. 604. 39. Cfr. J. LACAN, Scritti [Écrits, 1966], curato e tradotto da G. Contri, Torino, Einaudi, 1974, vol. I, pp. 87-94.
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società, attraverso l’educazione, a modellarli, applicando su di loro la propria immagine ripetitiva. Anche in questo caso è evidente l’influenza delle tesi freudiane secondo le quali l’educazione tende a costruire all’interno della nostra psiche una sorta di autocensura che inibisce le «possibilità di godimento primarie»40. Il viaggio nella propria infanzia messo in atto da Savinio ha il senso di uno scavo nell’inconscio e nel contempo di una affermazione del proprio essere: la ricostruzione autobiografica opera in sostegno di una delle tesi centrali del pensiero di Savinio, secondo cui i bambini dispongono di una innata creatività e di una superiore espressività, che ne fanno degli «artisti naturali». La creatività infantile si impernia per Savinio sulla libertà, naturale nel bambino, di plasmare il linguaggio, modellandolo secondo le proprie esigenze. Negli adulti, invece, l’educazione impone l’uso di un linguaggio formalizzato, dalle regole rigide, in grado di esprimere solo i pensieri consoni con i conformismi, con i dogmatismi e i paradigmi dominanti. Per Savinio gli artisti non sono che coloro che della loro fanciullezza hanno mantenuto la capacità di creare un linguaggio originale, in grado di esprimere ciò che quello codificato dalla società non avrebbe mai potuto formulare. Gli adulti, che Savinio definisce «borghesi generali»41, sono seri e misoneisti: «Ignorano nonché l’amore alle parole (“filologia”) ma anche il “gioco” delle parole [...] ignorano del resto anche gli altri “giochi” della vita, e la loro vita è spenta e muta»42. L’“artista-fanciullo” è invece, primariamente, homo ludens e mantiene un atteggiamento giocoso nei confronti della vita, ma soprattutto nei confronti del linguaggio: non ha paura di giocare con le parole, di inventarsele. E possiede un «co40. S. FREUD, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Roma, Newton Compton, 1976, pp. 108-109. 41. A. SAVINIO, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 561. 42. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., p. 20.
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raggio ereticale» che gli permette anche di fare errori grammaticali per «sciogliere le articolazioni della lingua»43 e liberare le parole: «L’accordo dei pronomi coi nomi al plurale è uno dei pesi più grossi che ostacolano i movimenti della nostra lingua. Se non ci abituiamo a sbagliare questo e altri accordi, non toglieremo mai l’italiano dalla sua aulica rigidità, né faremo mai di esso una lingua duttile alle pieghe e ai ripieghi del nostro pensiero»44. Il linguaggio «orizzontale» dei fanciulli, «surrealisti per natura»45, ravvicina elementi incongrui, apparentemente inassociabili: ricco di neologismi, «saporito» e «spiritoso» dovrebbe essere preservato in un vocabolario ad «uso dell’infanzia e degli adulti che conservano gusti infantili»46. Il meccanismo principale della creazione è il gioco, tanto per il bambino quanto per l’artista, e per entrambi è un momento consapevole e serio: «L’occupazione preferita e più intensa del bambino è il gioco. Forse si può dire che il bambino impegnato nel gioco si comporta come un poeta: in quanto si costruisce un suo proprio mondo o, meglio, dà a suo piacere un nuovo assetto alle cose del suo mondo. Avremmo torto se pensassimo che il bambino non prenda sul serio un tale mondo; egli prende anzi molto sul serio il suo gioco e vi impegna notevoli importi d’affetto»47. È il sotteso spirito di ricerca e la curiosità che lo muove che fanno sì che il bambino non si stanchi mai di ripetere lo stesso gioco: «L’adulto deve mutare continuamente i propri giochi per divertirsi, mentre il bambino, favorito da una più generosa fan-
43. A. SAVINIO, Introduzione a, LUCIANO DI SAMOSATA, Dialoghi e saggi, cit., p. 16. 44. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., p. 63. Corsivo mio. 45. A. SAVINIO, Dico a te, Clio, cit., p. 131. 46. Ivi, p. 134. 47. S. FREUD, Il poeta e la fantasia, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino, Boringhieri, 1969, vol. I, pp. 49-50.
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tasia, gode a ripetere sempre lo stesso gioco»48. Per sua natura il gioco ha inoltre un valore, nella sua estrema serietà, di negazione della seriosità «che le più volte nasconde o sinistri disegni, o una stupidità armata e aggressiva»49. Se nel bambino tutto questo è naturale, anche fra gli adulti esiste una categoria di individui, gli artisti, che sono riusciti a sfuggire alla sterilizzazione indotta dall’educazione, e sono visti dagli altri come un’anomalia pericolosa: «Un destino è sfuggito al controllo! [...] La paura dell’artista in Famiglia – che si vuol giustificare con gli stenti, l’incertezza della vita d’artista – è il terrore che in seno alla famiglia, tra uomini “ridotti”, abbia a formarsi un uomo di sviluppo pieno: un gigante. Allo stesso Giove fecero paura gli “uomini doppi”. Figurarsi alle belle famiglie...»50. Savinio denuncia il carattere oppressivo dei rapporti sociali, e individua nel processo di differenziazione la chiave per capire la struttura della società borghese, che infatti costruisce il proprio potere sull’esclusione e sulla separazione, sulla divisione del mondo in culture, nazioni, sessi, razze, classi sociali e, naturalmente, classi di età. L’«altro», il diverso, induce paura, non solo nell’individuo ma anche nella società: «La pusillanimità, la miseria, l’egoismo del mondo nasce da questo orrore di quello che non è “nostro”, da questo terrore dell’estraneo»51. Si profila così l’immagine di una «civiltà chiusa», per definizione nemica della polisemia: «Civiltà sottintende applicazione rigorosa di un determinato gruppo di conoscenze. Sottintende esclusione, ignoranza, volontà d’ignoranza di tutto quanto non partecipa di esso gruppo. Quella sola è civiltà che si conchiude in sé, è priva di finestre, buchi, fessure attraverso le quali idee strane e diverse possono entrare nella 48. A. SAVINIO, Casa «La Vita», cit., p. 253. 49. A. SAVINIO, Fine dei modelli, in Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra, cit., p. 477. 50. A. SAVINIO, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 563. 51. A. SAVINIO, Casa «La Vita», cit., p. 12.
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civiltà e inquinarla, corromperla»52. Per la «civiltà chiusa» tanto pericolose sono la critica e la polemica quanto la «diversità dei giudizi»53. L’artista, la cui creatività si impone come continua riaffermazione di sé, come rivendicazione del diritto a restare fuori da un consorzio sociale repressivo, mantenendo un punto di vista differenziato da cui osservare con ironia, è destinato a svolgere una funzione liberatoria nei confronti degli altri esseri umani, attraverso la duplice azione di scardinamento delle convenzioni sociali che li tengono prigionieri e di liberazione del linguaggio. Allo stesso tempo, però, la forza della sua autoironia stempera questa immagine potenzialmente eroica in una visione improntata ad un sereno e spesso divertito disincanto: «ogni scrittore di spirito “moderno”, è scrittore [...] cosciente della propria autonomia mentale e che liberamente e spassionatamente contempla intorno a sé il mondo sdivinizzato»54. Per definire l’“artista-fanciullo” come il soggetto dotato della pienezza delle sue capacità percettive, Savinio rimanda all’Ermafrodito, vero archetipo della sua poetica. Ed è proprio la figura di Ermafrodito che per Savinio meglio incarna l’artista. Frequentemente Savinio introduce riferimenti diretti o indiretti alle proprie opere precedenti, senza ritenere necessario spiegarli, anzi seguendo una struttura narrativa analoga ad una amichevole conversazione, in cui talvolta si ritorna all’improvviso a un tema passato come riprendendo il filo di un discorso lasciato sospeso. Così anche nella Tragedia dell’infanzia, Savinio riprende il mito platonico di Ermafrodito per illustrare le ragioni dell’arte e della fanciullezza:
52. A. SAVINIO, Ascolto il tuo cuore, città, cit., p. 24. 53. Ivi, p. 29. 54. A. Savinio, Introduzione a LUCIANO DI SAMOSATA, Dialoghi e saggi, cit., p. 9.
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Al banchetto in casa di Agatone, Aristofane denunciò il vigliacchissimo trucco di Giove il quale, spaventato dalla forza e grandezza degli uomini suoi figli, li tagliò nel mezzo come pere e di ciascuno fece due. [...] Il sistema gioviale piacque agli uomini, i quali presero a usarlo sui loro piccoli, affinché crescendo costoro non diventassero più dei padri grandi e forzuti. E tanto più efficace si dimostrò il sistema in quanto gli uomini lo perfezionarono, e dal taglio corporeo adatto a creature primitive e semplici, passarono al dimezzamento lento, sottile, scientifico delle facoltà. Perché questo rigoroso divieto a una vita come “sèguito” e “continuazione” dell’infanzia?55
Anche in questo caso, Savinio non si prende troppo sul serio e non si trattiene dal giocare sulla falsa etimologia di «gioviale». Anzi, il contrasto e la differenza di potenziale tra il «sistema gioviale» e la violenza repressiva della sua messa in atto fanno scattare un motto di spirito che rompe la drammaticità della narrazione, nel momento stesso in cui sottolinea il contenuto profondo del mito. Le figure archetipiche della poetica saviniana, l’ermafrodito, l’“artista-fanciullo”, il freddurista, il liberatore del linguaggio si ricongiungono così a formare un’immagine unitaria dell’artista che riassume in sé le prerogative di Mercurio, in cui Savinio si specchia fino dalle prime opere. Come ben ricostruito da Corrado Bologna, Hermes è figura del clown metafisico che, esattamente come è nei propositi di Savinio, «dà vita alla parola, perché riporta alla coscienza quel che essa aveva perduto»56. All’Ermete Trismegisto di cui Savinio, ricorda le iscrizioni geroglifiche in cui si dichiarava che «il linguaggio crea tutto ciò che è amato e tutto ciò che è odiato, e nulla è che prima non abbia ricevuto il suo nome ad alta voce”»57, corrisponde «L’“Arlecchino trismegisto” (ossia il “clown- Hermes”, poiché il titolo di “tre volte grande” spetta appunto a 55. A. SAVINIO, Tragedia dell’infanzia, cit., pp. 561-562. 56. C. BOLOGNA, Ritratto del critico da domatore di fantasmi, cit., p. 28. 57. A. SAVINIO, Torre di guardia, cit., p. 204.
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Hermes, negli scritti gnostici) [che] condensa i caratteri mistici, malinconico-saturnini, sapienziali ed ermetici che sono distribuiti lungo la storia dell’archetipo. L’ermafroditico, ambiguo, sfuggente e ladresco Hermes è anche il Guaritore, il Protettore dei commerci, il Messagero degli dei, il Suggeritore delle idee, l’Informatore occulto, il Cangiante e il Molteplice. [...] Ma soprattutto, come il puer e come il trickster, Hermes è una figura tipicamente fluida, capace di passare oltre i confini delle forme e della cultura, per riportare al di qua ciò che era rimasto in ombra. Come il clown, è uno che torna: un revenant. Per far passare il non-senso al senso, le figure ermetiche devono “passare ogni limite”. Perciò i passatori sono signori dello scambio, acquistano luce dall’ombra per donarcela, portano colori e vivacità, chiasso e vitalità, dov’era grigiore, “atmosfera plumbea e inquinata” e “monotonia”. Hermes è poi, per antonomasia, il Guidatore di anime, il Signore delle strade e dei passaggi: è il Signore dell’ermeneutica. Va alla morte e ne torna, dando vita al riso e alla malinconia»58.
LA
FORESTA DELL’INFANZIA
Anche nella produzione figurativa di Savinio l’infanzia si presenta come la fase in cui il soggetto ha il diritto di definire il mondo che lo circonda: in particolare una serie di quadri è dedicata alle figure cardinali della foresta dell’infanzia e dei giocattoli, che si trovano frequentemente associate, o giustapposte, nelle sue opere. I due simboli indicano i due aspetti dell’interazione del “bambino-artista” con il mondo circostante: la foresta, carica di mistero, è l’oggetto della scoperta, e allo stesso tempo è il luogo della primitività, dell’origine selvaggia dell’umani-
58. C. BOLOGNA, Ritratto del critico da domatore di fantasmi, cit., p. 28.
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tà; i giocattoli sono lo strumento della creatività, o meglio dell’immaginazione costruttiva e creativa, luogo dell’intervento umano che plasma la realtà. L’impostazione saviniana risente fortemente, ancora una volta, dell’influenza delle teorie di Vico, secondo il quale la selva corrisponde alla prima età dell’essere umano, all’età degli dei, cioè all’età della poesia, che si interrompe quando Ercole, ucciso il leone, dà fuoco alla foresta, rendendo possibile la coltivazione della terra e l’inizio del primo nucleo di civiltà contadina. La pregnanza del legame fra foresta e poesia viene sottolineata anche nel romanzo Tragedia dell’infanzia: «A udir parlare di foreste ritrovate, oscure ricordanze si destarono dentro le teste opache degli uomini. Molti si avvicinarono ai cancelli, chiesero di rientrare nella foresta... Una voce avvertì che i soli poeti avevano diritto di entrare. Un tale emise l’ipotesi che foresta dell’infanzia e paradiso perduto fossero tutt’uno»59. All’interno di un mondo divenuto grigio e tempestoso Savinio costruisce un altro mondo, ricco, vivo e misterioso, fatto di elementi geometrici dai colori vivaci: i giocattoli si stagliano policromi su sfondi bianco e nero, come attori in costumi dai colori sgargianti sotto la luce dei riflettori, avvolti dal buio della sala. I giocattoli, che popolano paesaggi creati come con scatole componibili, permettono di costruire una rappresentazione simbolica della realtà: «Per meglio vedere e meglio capire, è buon sistema ridurre le cose a oggetti: meglio, a giocattoli. Anche le ineffabili e perfettamente spirituali. Anzi, soprattutto queste»60. Il quadro Objets dans la forêt del 1927 inaugura la serie di quadri dedicati ai balocchi che nel 1930 trova il suo culmine nell’opera intitolata Monumento ai giocattoli. La serie di colorati universi immaginari pare quasi la trascrizione su tela delle idee di Baudelaire: «chi ama i bei quadri vive in una società incantata di sogni dipinti su tela.
59. A. SAVINIO, Tragedia dell’infanzia, cit., pp. 563-564. 60. A. SAVINIO, Fine dei modelli, cit., p. 476.
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Allo stesso modo, l’amante della vita universale entra nella folla come in un immenso serbatoio di elettricità. Lo si può paragonare anche a uno specchio, immenso quanto la folla; a un caleidoscopio dotato di coscienza che, a ogni movimento, rappresenta la vita molteplice e la grazia mutevole di tutti gli elementi»61. Stabilito un simbolo, come un significato mitico, Savinio lo incorpora nel suo linguaggio: il cumulo di giocattoli nelle forme più svariate, diventa ideogramma dello spirito creativo infantile, e insieme riflessione sull’esistenza: «In realtà il tema dei giocattoli perseguita Savinio in quanto rappresentazione tridimensionale di quella “tragedia dell’infanzia” che è la fonte più autentica del suo mondo pittorico. [...] Nei quadri dipinti a Parigi, Savinio verifica le intuizioni di De Chirico arrivando in un’illustrazione per Luciano, intitolata Mausolo, a un sillogismo sublime. Se l’infanzia è tragedia, proprio quei giocattoli che tutti interpretano come forme allegre e spensierate sono in realtà lo specchio di quella tragedia divenuto oggetto. E se il tenebroso mondo dell’infanzia è più vicino allo stadio della morte che a quello della vita, è ovvio che questi agglomerati di giocattoli sembrano monumento ma sono mausoleo»62. Nell’illustrazione citata, la montagna di giocattoli si erge infatti su una struttura di teschi e ossa. IL
TERZO OCCHIO
In un’articolo del 1978 Mario Praz esaminava le immagini di mostri ibridi dei quadri di Savinio, collegandole con altri esempi di artisti dotati di una fantasia deformante, primo fra tutti Max Ernst63, e ne sottolineava il carattere
61. C. BAUDELAIRE, Il pittore della vita moderna, cit., p. 69. 62. M. FAGIOLO DELL’ARCO, Savinio, cit., pp. 24-25. 63. Praz ricordava che i quadri di Ernst che più ricordano quelli di Savinio sono posteriori di diversi anni, e che probabilmente entrambi sono
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fanciullesco; concludeva con l’affermazione che i bambini sono dotati di un terzo occhio64 che negli adulti si atrofizza per restare vivo solo in alcuni privilegiati, gli artisti, come frequentemente ribadito da Savinio: «Nei soli artisti – si sa -– la vita adulta è la continuazione naturale dell’infanzia»65. L’immagine fortemente saviniana dei bambini a tre occhi riassume l’idea di una percezione superiore che accomuna bambini ed artisti, in contrapposizione agli adulti che sono, secondo Savinio, dei «reazionari»66 tout court. Praz ricercava e indicava punti di contatto fra «l’occhio del fanciullo» e la creatività deformante di artisti quali Dickens e Walter de la Mare, in cui ugualmente si poteva riconoscere la sopravvivenza di uno sguardo infantile. Peraltro, Praz tralasciava di ricordare che questo modo di concepire il legame fra poesia e infanzia, che sottolinea non l’ingenuità e la purezza dell’infanzia, ma la sua libertà, curiosità e volontà costruttiva al di fuori dai dogmi, era stato sviluppato ampiamente da un autore che Savinio conosceva bene e, che come abbiamo visto, considerava uno dei suoi ispiratori: Charles Baudelaire. L’“artista-fanciullo” non può prescindere dal baudelairiano «uomo-bambino» che «possiede in ogni istante il genio dell’infanzia, vale a dire un genio per il quale nessun aspetto della vita è smussato»67. L’infanzia si prolunga quindi per Savinio nella vita dell’artista, che ha i connotati di vrai vie che Breton le attribuirà nel primo Manifesto del surrealismo del 1924. Anche per Breton, il ritorno all’infanzia costituisce il fondamento dell’arte ed in particolare del surrealismo, ma, come per
da considerarsi, almeno in parte, debitori di Francis Picabia. Ritengo che a quest’ultimo vada aggiunto un autore come Grandville che, già a metà dell’Ottocento, rappresentava figure umane con teste deformi (cfr., ad esempio, Gli amori del 1843). 64. M. PRAZ, Il terzo occhio, in «Il Giornale», 26 maggio 1978. 65. A. SAVINIO, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 563. 66. Ivi, p. 560. 67. C. BAUDELAIRE, Il pittore della vita moderna, cit., p. 67.
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Savinio, quella «vera vita» contiene magie da incubo, popolate di mostri: «Lo spirito che si immerge nel surrealismo rivive con esaltazione la parte migliore della sua infanzia. Dai ricordi d’infanzia e da alcuni altri si sprigiona un sentimento di inaccaparrato, e quindi di fuorviato, che considero il più fecondo che esista. Ciò che più s’avvicina alla «vera vita» è forse l’infanzia; l’infanzia trascorsa la quale l’uomo dispone, in più del suo lasciapassare, appena di qualche biglietto di favore; l’infanzia in cui tutto concorreva invece al possesso efficace, e senz’alea, di se stessi. Grazie al surrealismo, sembra che quelle eventualità ritornino. È come se si corresse ancora alla propria salvezza, o alla propria perdita. Si rivive, nell’ombra, un terrore prezioso. Grazie a Dio, non è ancora che il purgatorio. Si attraversano, con un trasalimento, quelli che gli occultisti chiamerebbero dei paesaggi pericolosi. Suscito sui miei passi dei mostri che stanno in agguato; [...] Ecco “gli elefanti dalla testa di donna e i leoni volanti” che Soupault e io una volta tremammo al pensiero d’incontrare, ecco il “pesce solubile” che ancora mi spaventa un poco»68. Anche nell’ambito della sua attività di critico, Savinio indaga la soprvvivenza dello spirito infantile come chiave di lettura per l’analisi dell’opera di grandi geni come Mozart: Chi artista non è ignora l’infanzia e ha dimenticato fino la sua propria. La vita dell’artista è un miracoloso prolungamento dell’infanzia. [...] E sa l’artista, sappiamo noi che d’infanzia viviamo, quanto grave, quanto profonda è l’anima dell’infanzia; se paragonata soprattutto all’anima dell’adulto. [...] nella musica di Mozart è un che di divino; quel divino che è nell’infanzia, negli occhi dei fanciulli, nei sospiri dei loro sogni [...] Perché il segreto del genio di
68. A. BRETON, Manifesti del Surrealismo [1924-1930], trad. L. Magrini, Torino, Einaudi, 1987, p. 43.
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Mozart è questo, che fino al trentaciquesimo e ultimo anno di sua vita, fino alla morte, egli rimase fanciullo [...] nulla ha bruciato i suoi occhi [...] nulla ha intiepidito la sua vivacità, la sua curiosità di fanciullo, ossia di creatura che vive in perpetua condizione d’arte69.
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La “missione” di salvare l’immaginario infantile si espande ben al di là del dato autobiografico, e permea di sé, quasi ossessivamente, le opere della maturità di Savinio. Nella Vita di Enrico Ibsen Savinio si lascia trascinare in una vera e propria orazione sul tema, dai toni appassionati e quasi drammatici: Togliamoci per un momento dalla tenebra e dalla durezza dalle quali i “grandi” guardano il mondo dei bambini [...], cerchiamo di impuerirci coscientemene per meglio capire l’anima del bambino, i suoi diritti, la sua “personalità”, ed ecco si arriva all’ultima scena di una eventuale Casa di bambolo (di “bambolo” e di “vittima”), nel momento stesso in cui il piccolo Noro, considerata vana l’attesa del “miracolo”, parte nella notte sbattendo dietro a sé la porta della casa paterna, e lasciando costernati in salotto i suoi genitori, e i nonni, e gli zii, e le zie, e tutti coloro insomma che costituiscono lo stupido, il tirannico, l’odioso mondo dei “grandi”. [...] Immaginiamo ora la trasformazione che avverrebbe nel mondo se un miracolo simile a quello che avviene tra Nora e Torvaldo per il rinnovato compimento di una piena e alta civiltà, avvenisse tra il bambino e i grandi. Immaginiamo la ricchezza, il mito vivo che fiorirebbe sulla terra se l’anima del bambino vi potesse far “valere i suoi diritti”, se il rispetto e il “riconoscimento” le fossero dati che sono dati all’anima dell’uomo, o se soltanto facoltà le fosse lasciata di manifestarsi, di esprimersi, di espandersi; diciamo anche meno: se solamente l’anima del bambino fosse presa sul serio. Immaginiamo soprattutto la vita più ampia dell’uomo, più libera, più fantasiosa, più avventurosa, più ricca d’imprevisto, più chiaro-
69. A. SAVINIO, Scatola sonora, cit., pp. 38-49.
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scurata di profondi sonni e di profondi risvegli, più fresca, più giocosa, più mossa, più brulicante, più frondosa, più selvosa, più fiorita, più miracolosa se i “grandi” non rintuzzassero e spegnessero sistematicamente i “diritti” dell’anima del bambino sotto pretesto di ordine, di saviezza, di vita “seria”, di necessità, di tutti quei freni, costrizioni, inibizioni che tutti assieme costituiscono la cosiddetta “educazione” e i grandi stessi ritrovassero, mature e rafforzate, le facoltà del bambino. La vita dell’uomo diverrebbe quello che naturalmente dovrebbe essere: una continuazione, uno sviluppo, un “ingigantimento” dell’infanzia, un libero e bellissimo gioco invece che l’ordinamento monotono, e grigio, e noioso che è, pieno di meschinità e di tristezza, di piccoli bisogni e di minime ambizioni, di minuscoli diritti e di fastidiosi doveri, e senza luce, senza gioia, senza speranza70.
Certamente, Savinio aveva in mente chi avrebbe potuto compiere questa rivoluzione copernicana, chi avrebbe dovuto spezzare la cristallizzazione e diventare l’Ibsen liberatore della infantilità adulta e motore della rinascita della creatività artistica. Chi altri, se non lui stesso? Grande «incompreso», un po’ donchisciottesco, certo velleitario e forse patetico, se l’intelligenza dell’autoironia non lo salvasse ogniqualvolta sta per avvicinarsi pericolosamente al melodramma. In effetti, Savinio associa necessariamente il recupero della fanciullezza all’uso imperativo dell’intelligenza: ritrovare l’infanzia non significa semplicemente recuperare l’innocenza perduta, ma, ben diversamente, disporre dell’intelligenza allo stato puro, prima che venga recisa dalla civiltà: «La civiltà è sorella di mediocrità»71 e palesemente «ignora uno dei principali motivi dell’intelligenza», cioè, la «ricerca dell’ètimo» che «si trova allo stato grezzo nelle persone incolte»72. Savinio ammonisce infine che per entrare in uno stato di fanciullezza occorre che 70. A. SAVINIO, Vita di Enrico Ibsen, cit., pp. 25-28. 71. A. SAVINIO, Ascolto il tuo cuore, città, cit., p. 27. 72. A. SAVINIO, Nuova enciclopedia, cit., p. 20.
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l’artista sia «fornito di coscienza lucidissima e di affilata saggezza»73, tutto l’opposto dal facile trasporto sentimentale. Potrebbe sembrare che la poetica di Savinio individui una sorta di tardivo eroe romantico, ma, come abbiamo visto, si tratta piuttosto di una disincantata figura d’uomo che rivendica, in una società dominata dal conformismo, il diritto a definire se stesso. La chiave di volta del suo pensiero sta nella rilettura della lezione vichiana alla luce della propria originale equazione fra libertà creativa, ovvero fanciullesca o primitiva capacità di espressione, e liberazione dell’inconscio dalle costrizioni imposte dai codici espressivi, ovvero libertà del linguaggio della creazione artistica. L’artista è fanciullo in quanto è capace di prescindere dai condizionamenti dell’organizzazione sociale, ed è fanciullo in quanto ha viva la sua creatività; ma per Savinio l’arte non si risolve in fantasticheria, e i suoi cumuli di giocattoli policromi hanno il pathos di un tentativo drammatico, ma al fondo razionale, di ricerca creativa che si identifica prima di tutto in uno studio instancabile delle potenzialità del linguaggio. L’artista scopre nella propria capacità di giudizio critico, nel proprio «occhio trasformatore», la possibilità di scegliere fra il selvaggio e l’essere umano “addomesticato”: di qui la scelta inevitabile di un’infanzia permanente che, inconciliabile con l’età adulta che la circonda e tenta di soppraffarla, trova nell’esercizio della creatività la quotidiana dimostrazione della propria sopravvivenza.
73. A. SAVINIO, Fine dei modelli, cit., p. 477.
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INDICE DEI NOMI
Adler Alfred, Amoroso Aldo, Apollinaire Guillaume, Apuleio, Archipenko Alexandr Aristotele, Artaud Antonin, Bacon Francis, Baldacci Paolo, Balò Maurizio, Barbero Luca Massimo, Baudelaire Charles, Beato Angelico, Benedetti Arrigo, Benjamin Walter, Bienevenida Cayetano, Bini Riccardo, Blixen Karen, Böcklin Arnold, Boito Arrigo, Bologna Corrado, Borges Jorges Luis, Bourdeille Brantôme Pierre de, Bovio Libero, Bragaglia Anton Giulio, Breton André, Brianzoni Graziella, Calì Santuzza, Calvesi Maurizio, Calvocoressi Demetrio, Campanella Tommaso, Campani Enrico, Canino Bruno,
Canudo Ricciotto, Capuana Marco, Carrà Carlo, Cases Cesare, Cavallotti Felice, Cecchi Emilio, Cendrars Blaise, Cervetto Gemma De Chirico, Cézanne Paul, Chatwin Bruce, Chiarcossi Graziella, Chiarini Giuseppe, Ciampi Marcel, Cirillo Silvana, Citati Pietro, Clerici Fabrizio, Cocteau Jean, Colella Francesco, Coli Bruno, Colli Giacomo, Collodi Carlo, Contri Giacomo, Copernico Nicola, Crippa Giovanni, Croce Benedetto, D’Annunzio Gabriele, Dalí Salvador, De Chirico Adele, De Chirico Evaristo, De Chirico Gemma vedi Cervetto Gemma De Chirico De Chirico Giorgio, De la Mare Walter, De Maria Franco,
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De Pisisi Filippo, De Robertis Giuseppe, De Rossi Massimo, De Sanctis Francesco, Debenedetti Giacomo, Delacroix Eugène, Desnos Robert, Diappi Carlo, Dickens Charles, Dinesen Erik vedi Blixen Karen, Duncan Isadora, Enoch Maurizio, Epicuro, Eraclito, Ernst Max, Escher Maurits Cornelis, Evreinov Nikolaj N., Fagiolo dell’Arco Maurizio, Fichte Johann Gottlieb, Filippini Enrico, Fokine Michel, Freud Sigmund, Fromm Erich, Fuchs Anneli, Gadda Carlo Emilio, Garibaldi Giuseppe, Gaspary Adolfo, Gemito Vincenzo, Giannelli I., Giorgio I di Grecia, Giotto, Giuliani Alfredo, Gonzague Frick Louis de, Grandville, Grassi, Graziosi Francesco, Grozio Ugo, Guglielmi Giuseppe, Guidotti Gianluca, Guillaume Paul, Hegel Georg Wilhelm Friedrich, Heidegger Martin, Hobbes Thomas,
Ibsen Henrik, Italia Paola, Jacob Max, Jarry Alfred, Jastrebzoff Serge, Jesi Furio, Jona Alberto, Jung Carl Gustav, Kant Immanuel, Kristeva Julia, Lacan Jacques, Lanuzza Stefano, Laurencin Marie, Lautréamont (Isidore Ducasse), Léger Fernand, Leopardi Giacomo, Longanesi Leo, Longhi Roberto, Luciano di Samosata, Luzzati Emanuele, Mabili Lorenzo, Magrini Liliana, Mallarmé Stéphane, Mancuso, Manera Dario, Marcucci Egisto, Mariani Umberto, Mascagni Pietro, Maupassant Guy de, Mercereau Alexandre, Mistral Gabriela, Montaigne Michel Eyquem, Morandi Giorgio, Moreau Luc-Albert, Moriconi Valeria, Morino Maria Savinio, Moro Tommaso, Musil Robert, Nicolini Fausto, Nietzsche Friedrich Wilhelm, Nostradamus, Nuzzi Cristina, Occhini Ilaria, Oetingen baronessa di, Offenbach Jacques,
198
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Omboni Ida, Omero, Ontani Luigi, Orlando Francesco, Orwell George, Pani Corrado, Pannunzio Mario, Papini Giovanni, Paracelso, Parisot Henry, Pasolini Pier Paolo, Pavese Cesare, Peirolero Carla, Perrotin Jacqueline, Picabia Francis, Picasso Pablo, Piga Francesco, Pirandello Luigi, Piscopo Ugo, Pitagora, Platone, Plutarco, Poli Paolo, Ponthier de Chamaillard Ernest, Porzio Michele, Praz Mario, Prezzolini Giuseppe, Pufendorf Samuel, Pulci Luigi, Pullega Paolo, Rabelais François, Raimondi Ezio, Ramuz Charles, Ranzi Galatea, Reger Max, Regniard, Reverdy Pierre, Ricordi Tito, Rognoni Luigi, Ronconi Luca, Roos Gerd, Roscioni Gian Carlo, Rospigliosi, Rossi Paolo,
Rossini Gioachino, Royère Jean, Sabbatini Marco, Sapegno Natalino, Satie Eric, Saussure Fernand de, Savine Albert, Savinio Angelica, Savinio Maria vedi Morino Maria Savinio, Savinio Ruggero, Scheiwiller Vanni, Schelling Friedrich Wilhelm Joseph, Scherner Carl Albert, Schopenhauer Arthur, Sciascia Leonardo, Serni Lorella, Settembrini Luigi, Shaw George Bernard, Sibilio E., Siciliano Enzo, Signorini Valerio, Socrate, Soffici Ardengo, Starobinski Jean, Stendhal, Stocchi G., Stradivari Antonio, Stravinski Igor, Strindberg Johan August, Terni Paolo, Tinterri Alessandro, Torrefranca Fausto, Tzara Tristan, Valentino Luca, Valmont Paula, Vattimo Gianni, Velotti Stefano, Venditti, Venizelos Eleuterio, Verdi Giuseppe, Verne Jules, Vico Giovambattista, Violato G.,
199
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Voltaire, Weininger Otto, Zac Eugène.
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Virgilio, Vivarelli Pia, Volkelt Johannes,
200
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INDICE
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IL PARADOSSO SAVINIO
1891-1911: l’infanzia e gli esordi 1911-1915: il primo soggiorno parigino 1915-1925: il rientro in Italia, la «Scuola metafisica» 1925-1933: il «Teatro d’arte» e il secondo soggiorno parigino 1933-1942: il definitivo rientro in Italia 1942-1952: la maturità La fortuna postuma
1 7 16 23 29 35 45
L’INCARNAZIONE DELL’ENIGMA
Ricerca di una poetica La «Scuola metafisica» Papini e Vico Les chants de la mi-mort e Hermaphrodito L’«avvelenatore di pozzi culturali» Il surrealismo Lo «psichismo delle forme»
49 51 55 64 74 77 80
LA POETICA DEL LAPSUS: INCONSCIO E LINGUAGGIO
87 92 98 110
La parapraxis L’arte come shock Il linguaggio sovversivo La nostra anima
201
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LE MUSE DOMESTICHE
Mito e parola Il mitico quotidiano Capitano Ulisse Amore e Psiche
115 123 128 131
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IL SOGNO E L’INCUBO: L’ARTISTA-FANCIULLO
L’infanzia di Nivasio Dolcemare L’educazione, ovvero la Tragedia dell’infanzia Il sogno e l’incubo La foresta dell’infanzia Il terzo occhio
137 143 147 153 155
BIBLIOGRAFIA
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INDICE DEI NOMI
189
202
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L'opera di Alberto Savinio (1891-1952) può essere considerata quasi una summa delle idee che hanno permeato le avanguardie europee durante la prima metà del XX secolo. Nella fusione di stili, linguaggi e tecniche, Savinio dà forma a un surrealismo grottesco e neobarocco, espressione di un’arte consapevole della propria potenzialità rivoluzionaria all’interno del sistema di comunicazione elaborato dai canoni sociali. Il linguaggio, individuato come una sorta di microcosmo dei meccanismi di confinamento e repressione dell’io, può diventare infatti la fase iniziale di una più complessa azione di demolizione dell’ordine costituito, facendo dell’artista – dell’«artista-fanciullo» nella fattispecie – il primo, imprescindibile attore. In questo lavoro i temi dell'estetica di Savinio sono analizzati alla luce delle sue fonti filosofiche (Nietzsche, Freud e soprattutto Vico) e dell’articolato rapporto con gli artisti contemporanei, due fondamentali momenti di confronto teorico per uno degli autori più originali del Novecento italiano. Indice del volume: Il paradosso savinio - L’incarnazione dell’enigma - La poetica del lapsus: inconscio e linguaggio - Le muse domestiche - Il sogno e l’incubo: “l’artista-fanciullo” - Bibliografia
María Elena Gutiérrez, laureata in letteratura italiana alla University of California di Santa Cruz, ha ricevuto il Master e il dottorato di ricerca in letteratura italiana presso la Stanford University. Da cinque anni è Assistant Professor of Italian alla State University of New York di Buffalo. Ha pubblicato saggi sulla letteratura italiana e sul cinema in varie riviste, fra cui «Forum Italicum», «Gradiva» e «Italian Quarterly».
ISBN 88-7923-192-8
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BIBLIOGRAFIA
Scritti di Alberto Savinio
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Narrativa e saggistica Le drame et la musique, «Les soirées de Paris», III, 23 (15 aprile 1914), pp. 240-244. Note, «Les soirées de Paris», III, 24 (15 maggio 1914), p. 246; ora in Scatola sonora, Torino, Einaudi, 1977. Dammi l’anatema, cosa lasciva, «291», 4 (giugno 1915), p. 4; ora in Scatola sonora, cit. Il poeta assassinato, «La Voce», VIII, 11-12 (31 dicembre 1916), pp. 439-444. Un vomissement musical, «Dada 1», luglio 1917. Arte. Idee moderne, «Valori Plastici», 1, 1918. Hermaphrodito, Firenze, Libreria della Voce, 1918; ristampato con una Piccola guida alla mia opera prima, Milano, Garzanti, 1947, pp. 53- 57; poi con una nota critica di G.C. Roscioni, (include anche il testo di Les Chants de la mimort), Torino, Einaudi, 1974, 19883; ora in Hermaphrodito e altri romanzi, a cura di A. Tinterri, con un’introduzione di A. Giuliani [Savinio dei fantasmi], Milano, Adelphi, 1995, pp. 3-191. Anadioménon. Principi di valutazione dell’arte contemporanea, «Valori Plastici», I, 4-5 (aprile-maggio 1919), pp. 6-8, 11, 14; ristampato in Alberto Savinio, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, giugno-luglio 1976), Milano, Electa, 1976, pp. 119-121. Eu terpein, «Ars nova», III, 3-4 (luglio 1919). Fini dell’arte, «Valori Plastici», 6-10, giugno-ottobre 1919; ora in M. Carrà, Metafisica, Milano, Marrotta, 1968. Delle cose notturne, «La ronda», maggio 1920. Prime chiose sull’ironia, «La ronda», luglio 1920.
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Primi saggi di filosofia delle arti, «Valori Plastici», 2, 3 (1921) e 5 (1922); ora in Torre di guardia, Palermo, Sellerio, 1977. L’arte italiana e la critica, «Valori Plastici», 5, 1922. In Poetae Memoriam, «L’esprit nouveau», 26 (ottobre 1924). La Casa ispirata, Lanciano, Carabba, 1925, pubblicato a puntate su «Convegno» nel 1920; ristampato Milano, Adelphi, 1986; ora in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 195-350. Angelica o la notte di maggio, Milano, Morreale, 1927; ristampato con un’introduzione di E. Siciliano [Alberto Savinio: la divina allegria], Milano, Rizzoli, 1979; poi in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 353-433. Dieci processi, con una prefazione di M. Fagiolo dell’Arco, Amsterdam, Edizioni del sole nero (ca. 1980), raccolta di dieci testi e disegni di Savinio originariamente pubblicati sulla rivista romana «I Rostri - Rassegna di vita forense», fra il 1932 e il 1935: Socrate, gennaio 1932, Giovanna d’Arco, febbraio 1932, Tomaso Campanella, marzo 1932, N.S.G.C., maggio 1932, Frine, gennaio 1934, Giudizio di Paride, aprile 1934, Galileo Galilei, settembre 1934, Anassagora, gennaio 1935, Luigi XVI, febbraio 1935, Landru, marzo 1935. Tragedia dell’infanzia, Roma, Edizioni della Cometa, 1937; ristampato Firenze, Sansoni, 1945, con una prefazione dell’autore; e poi Torino, Einaudi, 1978 e 1991; indi in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 461-558. Achille innamorato, (Gradus ad Parnassum), Firenze, Vallecchi, 1938; il racconto che dà il titolo alla raccolta, Achille énamouré mêlé à l’Evergète, è del 1929 ed è apparso sulla rivista «Le Surréalisme au service de la Révolution», in francese nel 1933; e poi (versione ridotta) in Tutta la vita, Milano, Bompiani, 19532; l’intera raccolta è stata ristampata Milano, Adelphi, 1993; ora in Casa «La Vita» e altri racconti, a cura di A. Tinterri e P. Italia, con uno scritto di A. Tinterri [Rapsodia saviniana], Milano, Adelphi, 1999, pp. 3-196. Seconda Vita di Gemito, Roma, Libreria internazionale Modernissima, 1938; ristampato in Narrate, uomini, la vostra storia, Milano, 1942. Dico a te, Clio, Roma, Edizioni della Cometa, 1940; ristampato Firenze, Sansoni, 1946, con un’Avvertenza; poi Milano, Adelphi, 1992. Autopresentazione, «Bollettino della Galleria del Milione», 66, Milano, 1940.
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Infanzia di Nivasio Dolcemare, Milano, Mondadori, 1941; ristampato Torino, Einaudi, 1973, 19822; quindi in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 565-687. Narrate, uomini, la vostra storia, Milano, Bompiani, 1942, 19775; ristampato Milano, Adelphi, 1984, 19882. Casa «La Vita», Milano, Bompiani, 1943, 19714; e poi Milano, Adelphi, 1988, 19892; ristampato in Casa «La Vita» e altri racconti, cit., pp. 197-501. Ascolto il tuo cuore, città, Bompiani, Milano 1943, 1944; ristampato Milano, Adelphi, 1984, 19882. La nostra anima, Roma, Documento editore, 1944 (per Bompiani Editore, Milano); traduzione francese Psyché, a cura di H. Parisot e di A. Savinio, Paris, Fontaine, collana «L’âge d’or», 1950; ristampato Milano, L. Ferriani, 1960 (con notizie bibliografiche a cura di V. Scheiwiller); e poi Milano, Adelphi, 1981, 19872, 1993, con l’aggiunta del racconto Il signor Münster e relativa postilla, tratti da Casa «La Vita», Milano, Bompiani, 1943; ristampato Milano, Adelphi, 1988; ora in Casa «La Vita» e altri racconti, cit., pp. 503-551. Sorte dell’Europa, Milano, Bompiani, 1945; ristampato Milano, Adelphi, 1977, 1991. Introduction à une vie de Mercure, Paris, Fontaine, collana «L’âge d’or», 1945; e poi con altri testi in Vie des fantômes, con una prefazione di A.P. de Mandiargues, Paris, Flammarion, 1965; ristampato in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 439-460; versione italiana, a cura di M. Enoch, con illustrazioni di Luigi Ontani, Brescia, L’obliquo, 1990. Souvenirs, Roma, Nuove edizioni italiane, 1945; ristampato con un’introduzione di H. Bianciotti, Palermo, Sellerio, 1976, 19892. I miei genitori, disegni e storie di Alberto Savinio, Roma, «Concilium Lithographicum», 3, 1945. Tutta la vita, Milano, Bompiani, 1945, 19532 (con Achille innamorato e racconti editi e inediti, include anche tredici riproduzioni di dipinti e disegni dell’autore), 19693; ristampato in Casa «La Vita» e altri racconti, cit., pp. 553-694. L’Angolino, Roma , Ed. «Pagine nuove», 1950; ristampato in Tutta la vita, Milano, Bompiani, 19532; ora in Casa «La Vita» e altri racconti, cit., pp. 790-819.
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Orfeo vedovo, «Il Corriere della sera», 2 marzo e 14 ottobre 1950. Io e la musica, «Il Corriere della sera», 3 giugno 1950. Quando compongo non so quel che faccio, «Corriere d’informazione», 14-15 luglio 1950. Con una quinta gamba spero di camminare oltre la morte, «Epoca», 28 aprile 1951. Scatola sonora, con un’introduzione di F. Torrefranca [Poetica di Savinio critico musicale], Milano, Ricordi, 1955; ristampato con un’introduzione di L. Rognoni [Itinerario musicale di Savinio], e appendice di scritti inediti, Torino, Einaudi, 1977, 19882. Maupassant e l’altro, Milano, Il saggiatore, 1960; ristampato Milano, Adelphi, 1975, 19822. Vita dei fantasmi, Milano, Scheiwiller, All’insegna del pesce d’oro, 1962; traduzione francese Vie des fantômes (con l’aggiunta di diversi racconti), Paris, Flammarion, 1965. Nuova enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977, 19853, 19914. Torre di guardia, a cura di L. Sciascia, con un saggio critico di S. Battaglia [Savinio e il surrealismo civico], Palermo, Sellerio, 1977 e 19932. Il signor Dido, Milano, Adelphi, 1978, 19842, 19923; ristampato in Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 689-837. Vita di Enrico Ibsen, Milano, Adelphi, 1979; (era apparso in sei puntate sul periodico «Film», nn. 20, 22, 24, 26, 28 e 30, dal 15 maggio al 24 luglio 1943). Il sogno meccanico, a cura di V. Scheiwiller, con un’introduzione di M. Verdone [Savinio e il cinema], (Quaderni della Fondazione Primo Conti), Milano, Schewiller, 1981. Palchetti romani, curato e introdotto da A. Tinterri, Milano, Adelphi, 1982 [articoli apparsi su «Omnibus», fra il 1937 e il 1939]; include anche, Il teatro è fantasia, apparso su «Scenario», febbraio 1938 e La «parte» del pubblico, pubblicato su «Il dramma», 15 aprile 1941. Capri, Milano, Adelphi, 1988, 19883, 1992. Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di L. Sciascia e F. De Maria, con un’introduzione di L. Sciascia [Savinio o della conversazione], Milano, Bompiani, 1989. La realtà dorata, «Paragone Letteratura», 498, 1991, pp. 82-96. Partita rimandata. Diario calabrese (1948), a cura di V.
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Cappelli, prefazione di G. Leonelli, Firenze, Giunti, 1996.
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Prefazioni e saggi brevi Drammaticità di Leopardi, in AA.VV., Giacomo Leopardi. Letture tenute per il Lyceum di Firenze, Firenze, Sansoni, 1938; ristampato, con un’introduzione di N. Sapegno, Roma, Edizioni della Cometa, 1980. Leo Longanesi, «Arte moderna italiana», 37, Milano, Hoepli, 1941. Pittori italiani del Novecento in Francia, in AA.VV., Italiani nel mondo. Lezioni per il Lyceum di Firenze, Firenze, Sansoni, 1942. Prefazione a Dieci litografie di Fabrizio Clerici, Milano, presso l’autore, 1942; ristampato: Fabrizio Clerici, Capricci (19381948), a cura di V. Scheiwiller, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1957. Tommaso Campanella, La città del Sole, con una prefazione di A. Savinio, Roma, Colombo, 1944. Luciano di Samosata, Dialoghi e saggi, 2 voll., traduzione di L. Settembrini, introduzione, note e illustrazioni di A. Savinio, Milano, Bompiani, 1944, 19832, 19943. Id., Una storia vera, traduzione di L. Settembrini, introduzione, note e illustrazioni di A. Savinio, Milano, Bompiani, 1944, 19832, 19943. Venti racconti di Guy de Maupassant con lui e l’altro di Alberto Savinio, Roma, Documento editore, 1944; l’introduzione di questo libro è stata ristampata in volume col titolo Maupassant e «l’altro», Milano, Il saggiatore, 1960; ristampato Milano, Adelphi, 1975, 19822. La civilisation finienne, in AA.VV., Leonor Fini, Roma, Sansoni, 1945. Tommaso Moro, L’Utopia, traduzione di R. Bartolozzi, prefazione di A. Savinio, Roma, Colombo, 1945. Voltaire, Vita privata di Federico II, traduzione di G. Bassani, con un saggio introduttivo di A. Savinio, Roma, Atlantica, 1945; ristampato Pordenone, Studio Tesi, 1988. Gigiotti Zanini, prefazione di A. Savinio, Milano, Hoepli, 1947. La mia pittura, prefazione a Alberto Savinio, con ampliamenti bio-bibliografici, «Galleria», l, Milano, EPI, 1949, 19532.
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Luigi Pulci, in AA.VV., Il Quattrocento, Firenze, Sansoni, 1954. Isadora Duncan, Milano, F.M. Ricci, 1979.
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Teatro Vita di Mercurio, adattamento teatrale con musica e danza, Roma, Stampa alternativa, 1993. Le trésor de Rampsenit, opera buffa in tre atti, libretto di M.D. Calvocoressi, 1912, incompiuta. Les Chants de la mi-mort, atto unico in quattro episodi, disegni e libretto di Savinio, pubblicato per la prima volta in «Les Soirées de Paris», III, 26-27 (luglio-agosto 1914), pp. 413-426; ristampato Paris, Parisot, 1938; poi in Vita dei fantasmi, cit., pp. 8-30; ristampato in Hermaphrodito, cit., pp. 6-21. La morte di Niobe, tragedia mimica in un atto con musica, supplemento straordinario della «Rivista di Firenze», Firenze, maggio 1925, pp. 7-12; ristampato in Vita dei fantasmi, cit., poi in «Teatro Archivio», gennaio 1980, pp. 237-240. Capitano Ulisse, dramma in tre atti con una giustificazione di Savinio, Roma, Quaderni di «Novissima», 1934; traduzione in francese, Le Capitaine Ulysse, Paris, Fontaine, 1946; ristampato in «Scena», ottobre-novembre 1976, pp. 43-66; e poi a cura di A. Tinterri, Milano, Adelphi, 1989. Studio per l’ «Agamennone», «Teatro Archivio», maggio 1981, pp. 4-7; ristampato in «Sipario», novembre-dicembre 1985, pp. 98-99. Il suo nome, «Maschere», giugno 1945, pp. 208-211. La famiglia Mastinu, cinque quadri di Savinio, «Sipario», 26, giugno 1948, pp. 45-50; la versione narrativa di questo testo è apparsa in Casa «La Vita» e altri racconti, cit., pp. 707-817. Emma B. vedova Giocasta, monologo di Savinio, «Sipario», 38, giugno 1949, pp. 55-59; ristampato Valeria Moriconi è Emma B. vedova Giocasta, 1, 1981, con interventi critici di A. Tinterri, G. Almansi, R. Tian, S. Lanuzza. Alcesti di Samuele, tragedia, Milano, Bompiani, 1949; ristampato in Alcesti di Samuele e atti unici, a cura di A. Tinterri, (con Il suo nome, La famiglia Mastinu, e Emma B. vedova Giocasta), Milano, Adelphi, 1991.
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Orfeo vedovo, opera in un atto, parole e musica di A. Savinio, Roma, Gli spettacoli dell’Anfiparnaso, 1950. Vita dell’uomo (Histoire d’un Homme), tragicommedia mimata e danzata, Milano, Ricordi, 1950; ristampato in Scatola sonora, cit. . Agenzia Fix, opera radiofonica, libretto di Savinio, atto unico in 16 episodi, scritta per la RAI, eseguita radiofonicamente nel 1950. Cristoforo Colombo, 3 atti, libretto di Savinio, eseguita radiofonicamente nel 1952.
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Balletto Persée, tre atti, musica di Savinio, soggetto e coreografia di M. Fokine, 12 novembre 1913, eseguito però solo undici anni più tardi, nel 1924, al Metropolitan di New York. Deux amours dans la nuit, due atti, soggetto di Savinio, 1913. Ballata delle Stagioni, atto unico, soggetto di Savinio, rappresentata alla Fenice di Venezia nel 1925. Vita dell’Uomo, atto unico, soggetto di Savinio, rappresentata alla Scala di Milano nel 1925.
Traduzioni P. de Bourdeille Brantôme, Le dame galanti, Roma, Formiggini, 1937; ristampato Milano, Adelphi, 1982, 1994. Venti racconti di Guy de Maupassant con lui e l’altro di Alberto Savinio, traduzione con A.M. Sacchetti, Roma, Documento editore, 1944.
Opere perdute Requiem, per la la morte del padre, 1905. Carmela, melodramma, tre atti, libretto di Savinio, 1908. Poema fantastico, melodramma, libretto di Savinio, 1908-1909.
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Traduzioni di opere di Savinio (selezione)
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In spagnolo: Casa «La Vida», trad. E. Benítez, Madrid, Alfaguara, 1982. Nueva enciclopedia, trad. J. Pardo, Barcelona, Seix Barral, 1983. Maupassant y «el otro», trad. G. Sanchez Ferlosio, Barcelona, Bruguera, 1983. El destino de Europa, Barcelona, Bruguera, 1984. La infancia de Nivasio Dolcemare, trad. C. Palma, Madrid, Siruela, 1990. Nuestra alma, El señor Münster, trad. C. Palma, Madrid, Siruela, 1990. Contad, hombres, vuestra historia, trad. C. Palma, Madrid, Siruela, 1991. Isadora Duncan, texto de Alberto Savinio, estudio sobre las estatuillas art déco por U. Di Cristina, Milano, F.M. Ricci, 1987. In francese: Le Capitaine Ulysse, trad. M.D. Calvocoressi, Paris, Ed. de la Revue Fontaine, «L’age d’or», 1946. Toute la vie, trad. N. Frank, Paris, Gallimard, 1975 e 1993. Maupassant et l’Autre, Tragédie de l’enfance et C’est à toi que je parle, Clio, trad. M. Arnaud, con un’introduzione di H. Bianciotti, Paris, Gallimard, 1977. Hommes, racontez-vous, trad. S. Ducrot, Paris, Gallimard, 1978 e 1994. Achille énamouré, trad. N. Frank, Paris, Gallimard, 1979. Isadora Duncan, trad. N. Frank, con un’introduzione di U. Di Cristina, Paris, F.M. Ricci, 1979. Encyclopédie nouvelle, trad. N. Frank, Paris, Gallimard, 1980. Ville, j’écoute ton coeur, trad. J.N. Schifano, Paris, Gallimard, 1982. Monsieur Dido, trad. E. Levergeois, Paris, Flammarion, 1983. Angélique ou la nuit de mai, trad. J.B. Para, Saint-Nazaire, Éditions Arcanes, 1985. Souvenirs, trad. J.M. Laclavetine, con una nota critica di J.N. Schifano, Paris, Fayard, 1986.
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Hermaphrodite, trad. R. de Ceccatty, con una nota critica di G.C. Roscioni, Paris, Fayard, 1987. La maison hantée, trad. J.M. Laclavetine, Paris, Fayard, 1988. Emma B., veuve Jocaste e La famille Mastinu, trad. D. Beralto, Marseille, 1988. La boîte à musique, trad. R. de Ceccatty, Paris, Fayard, 1989. Enfance de Nivasio Dolcemare, trad. A. Piasecki, Paris, Gallimard, 1989. Capri, trad. C. Paoloni, Paris, Le promeneur, 1989. Destin de l’Europe, trad. L. Chapuis, Paris, Bourgois, 1989. Les rejects electifs, trad. C. Paoloni, Paris, Le promeneur, 1990. L’intensité dramatique de Leopardi, trad. P. Di Meo, Paris, Allia, 1996.
In inglese: The departure of the Argonaut, trad. G. Scrivani, con litografie originali di F. Clemente, London-New York, Petersburg Press, 1986; (catalogo della mostra tenutasi al Museum of Modern Art, New York, novembre 1986 - febbraio 1987). Speaking to Clio, trad. J. Shepley, Marlboro, Vt., Marlboro Press, 1987. Childhood of Nivasio Dolcemare, trad. R. Pevear, con un’introduzione di D. Ashton, New York, Eridanos Press, 1987; ristampato London, Quartet, 1994. Operatic Lives, trad. J. Shepley, Marlboro, Vt., Marlboro Press, 1988. Capri, trad. e introduzione di J. Shepley, Marlboro, Vt., Marlboro Press, 1989. The lives of the gods, trad. J. Brook e S. Etlinger, London, Atlas, 1991. Tragedy of Childhood, trad. J. Shepley, Marlboro, Vt., Marlboro Press, 1991, 1993.
In tedesco: Stadt, ich lausche deinem Herzen, trad. K. Fleischanderl, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1993 e 1996.
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Kindheit des Nivasio Dolcemare, trad. S. Vagt, con una nota di M. Kempter, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1996. *Nel 1989 Narrate, uomini, la vostra storia è stato tradotto anche in greco (Atene, Astarte).
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Cataloghi delle esposizioni e delle opere pittoriche (selezione) Alberto Savinio. Paintings 1927-1952, catalogo della mostra (15 novembre 1997 - 11 gennaio 1998), Louisiana Museum for moderne Kunst, Humlebæk, Danmark, 1997. P. Vivarelli, Alberto Savinio. Catalogo generale, Milano, Electa, 1996. Alberto Savinio. Musician writer and painter, catalogo della mostra (Paolo Baldacci Gallery, New York, 27 aprile - 16 giugno 1995), con scritti di P. Baldacci, G. Roos, P. Vivarelli, P. Manoukian, New York-Milano, Paolo Baldacci Gallery, 1995. Il Segno. Settembre 1964 - dicembre 1994. Trent’anni. Cronologia delle mostre. Aneddoti, testimonianze, ricordi raccolti e raccontati da Angelica Savinio, Roma, Galleria Il segno, 1995. Catalogo generale della Galleria comunale d’arte moderna e contemporanea, a cura di G. Bonasegale, Roma, De Luca, 1995. Alberto Savinio. Paintings and drawings 1925-1952, catalogo della mostra, Londra, Accademia italiana delle arti applicate, 10 gennaio-23 febbraio 1992, a cura di P. Vivarelli, Milano, Electa, 1992. Alberto Savinio. Pittore di teatro / Peintre de théâtre, catalogo della mostra (Aosta, Centro Saint-Benin, 6 luglio / 15 ottobre 1991), a cura di L.M. Barbero, con un saggio critico di M. Fagiolo dell’Arco, Milano, Fabbri, 1991. Savinio. Gli anni di Parigi. Dipinti 1927-1932, catalogo della mostra (Verona, Palazzo Forti e Galleria dello Scudo, 9 dicembre 1990 - 10 febbraio 1991), a cura di P. Vivarelli, con scritti di G. Briganti, P. Vivarelli, G. Cortenova, D. Fonti, F. Rella, L. Cammarella, M. De Sanctis, G. Falsitta, Milano, Electa, 1990. M. Fagiolo dell’Arco, Alberto Savinio, Milano, Fabbri, 1989.
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P. Baldacci, De Chirico and Savinio: The Theory and Iconography of Metaphysical Painting, in Italian Art in the 20th Century, a cura di E. Braun, catalogo della mostra (Londra, Royal Academy, 1989), London, Prestel 1989. Alberto Savinio. Dipinti e disegni 1929-1951, catalogo a cura di L. Cammarella Falsitta, con scritti di V. Sgarbi, E. Busmanti, L. Coppola, L. Cammarella Falsitta, Milano, Electa, 1988. The Dioscuri Giorgio de Chirico and Alberto Savinio in Paris 1924-1931 (Galleria Philippe Daverio, Milano-New York, 1987), scritti di M. Fagiolo dell’Arco, P. Baldacci, F. Lanza Pietromarchi, Milano, A. Mondadori e P. Daverio, 1987. Alberto Savinio dessins (Musée de L’Abbaye Sainte-Croix Les Sables d’Olonne), con scritti di D. Semin e S. Fauchereau, Cahiers de L’Abbaye Sainte-Croix, juin 1987. A. Savinio. Opere su carta 1925-1952, catalogo della mostra (Milano, Galleria d’Arte Moderna), a cura di P. Vivarelli, Milano, Mazzotta, 1986. Con Savinio, catalogo della mostra bio-bibliografica (Fondazione Primo Conti di Fiesole, Palazzina Mangani), Milano, Electa, 1981; contiene anche D. Lombardi, Savinio musicista. Alberto Savinio, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, Galleria civica d’arte moderna), Ferrara 1980. Speciale Savinio. Alberto Savinio - guida all’opera, a cura di M. Fagiolo dell’Arco, in Catalogo nazionale d’arte moderna, n. 16, Torino, Bolaffi, Milano, Mondadori, 1980, vol. I, pp. 216222. Letteratura-Arte-Miti del ‘900, catalogo della mostra (Milano, Padiglione d’arte contemporanea), a cura di Z. Birolli, Milano, 1979. Alberto Savinio, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni), scritti di M. Fagiolo dell’Arco, D. Fonti, P. Vivarelli, Roma, De Luca, 1978. Alberto Savinio, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, giugno-luglio 1976), con scritti di R. Carrieri, F. Russoli, S. Zoppi, M. Pinottini, L. Rignoni, Milano, Electa, 1976; contiene anche un’antologia degli scritti di Savinio, pp. 119133.
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Scritti su Alberto Savinio (selezione) F. Secchieri, Dove comincia la realtà e dove finisce. Studi su Alberto Savinio, Firenze, Le Lettere, 1999. S. Cirillo, L’arte fa scendere le statue dagli zoccoli. Alberto Savinio, in I segni incrociati. Letteratura italiana del ’900 e arte figurativa, a cura di M. Ciccuto e A. Zingone, Viareggio, Baroni, 1998. M.E. Gutiérrez, Il mito in pantofole: le muse domestiche di Alberto Savinio, «Italian Quarterly», XXXV, 135-136 (invernoprimavera 1998), pp. 47-55. S. Cirillo, Alberto Savinio. Le molte facce di un artista di genio, Milano, Bruno Mondadori, 1997. E. Costadura, Ville de gares, de fantômes et de bâtisseurs: Alberto Savinio à Paris (1910- 1918), «Revue des études italiennes», N.S. XLIII, 3-4 (juillet-décembre 1997), pp. 259-271. M.E. Gutiérrez, La poetica del lapsus: inconscio e linguaggio nell’opera di Alberto Savinio, «Forum Italicum», XXXI, 2 (autunno 1997), pp. 439-457. Id., Savinio e il Lanarà, «NEMLA Italian Studies», XX (Autumn 1997), pp. 83-99. G. Caltagirone, I confini del principio individuationis o l’agonia del Signor Münster di Alberto Savinio, in Lo straniero, Atti del Convegno, Cagliari, 16-19 novembre 1994, a cura di M. Domenichelli, P. Fasano, Roma, Bulzoni, 1997, vol. II, pp. 781-796. M. Sabbatini, L’argonauta, l’anatomico, il funambolo. Alberto Savinio dai Chants de la mi-mort a Hermaphrodito, Roma, Salerno editrice, 1997. M. Alberti Cavalli, «Le ragioni che fanno vive le parole»: il lessico musicale di Alberto Savinio, in Tra le note. Studi di lessicologia musicale, a cura di F. Nicolodi e P. Trovato, Firenze, Cadmo, 1996, pp. 163-180. E. Flaiano, Lo spettatore addormentato, Milano, Bompiani, 1996. G. Silingardi, La poetica del mito in Alberto Savinio, in Atti del convegno internazionale «Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992», Leuven-Louvain-la-NeuveNamur-Bruxelles, 3-8 maggio 1993, a cura di S. Vanvolsem, F. Musarra, B. Van den Bossche, Roma, Bulzoni-Leuven, Leuven University Press, 1995, vol I (I tempi del rinnova-
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Famiglia (1927 ca.), olio su tela.
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Fleurs étranges (1929 ca.), olio su tela.
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Les Atlantes (1931), olio su tela.
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Apollo (1931-32), tempera su tela.
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Monumento marino ai miei genitori (1950), tempera su tela.
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Annunciazione (1931-32), tempera su tela.
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Nascita di Venere (1949), tempera su tavola.
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Sacerdozio (1946 ca.), tempera su tavola.
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Una strana famiglia (1947), tempera su tela.
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Bal de tête (1952), tempera su tela.
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Il dio greco (1940 ca.), penna su carta.
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Penelope (1940 ca.), tempera su carta.
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Il demone meridiano (1950), tempera su compensato.
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La «Repubblica» (1945-46), tempera su tavola.
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Le navire perdu (1928 ca.), olio su tela.
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L’isola dei giocattoli (1930), olio su tela.
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