Albert Serra. Cinema, arte e performance
 8857547698, 9788857547695

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ALBERT SERRA Cinema, arte e performance a cura di Vincenzo Estremo e Francesco Federici

MIMESIS

Filmforum 2018/XVI Magis International Film Studies Spring School

MIMESIS EDIZIONI (Milano - Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Cinema minima, n. 60 Isbn: 9788857547695 Issn: 2420-9570

© 2018 - MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 - 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax:+39 02 89403935

INDICE

Introduzione Vincenzo Estremo, Francesco Federici

Del cinema e

7

dell’arte.

U NA CONVERSAZIONE CON ALBERT SERRA

11

Vincenzo Estremo, Francesco Federici

Singolarità Chus Martinez

37

Storia, temporalità e presenza nel lavoro di Albert Serra Vincenzo Estremo “Give them

cinema and give us art”

49

Appunti

SUL PANORAMA CINEMATOGRAFICO-ARTISTICO

Albert Serra Francesco Federici di

59

La poetica dell’insignificante. Nota sul modernismo di Albert Serra Andrea Mariani

69

Vincenzo Estremo, Francesco Federici INTRODUZIONE

Nel panorama artistico internazionale vi sono dei protagonisti che lavorano in maniera tanto autonoma che spesso sembra essere impossibile ricondurre il loro operato o le loro esperienze al pur grande e comples­ so mondo dell’arte. L’unicità e la diversità di alcune di queste esperienze sembra contrastare con quella che è l’idea stessa di comunità artistica, qualcosa di organicamente indefinibile, ma pur sempre in grado di auto-riconoscersi: Albert Serra, artista e regista ca­ talano nato a Banyoles nel 1975, sembra essere una di queste eccezioni. Il suo lavoro sulle immagini in movi­ mento potrebbe apparire come un esercizio autosuffi­ ciente, qualcosa che autarchicamente riesce a “bastare a sé stesso”, a inserirsi in contesti diversi, a muoversi tra cinema e arte e a risentire poco o nulla delle cose e ilei mondo. Eppure è evidente che le impressioni sono latte per essere smentite, altrimenti quale sarebbe il compito della ricerca? Questo volume intende infatti essere un primo tentativo di osservazione del lavoro di Albert Serra e di come questo si inserisca nel comples­ so panorama della cultura cinematografico-artistica 7

contemporanea e prende il via da una conversazione con l'artista, tenutasi a Udine nel 2015 durante i lavori del Filmforum Festival (composto dalla XXII Inter­ national Film Studies Conference e dalla XIII MAGIS Gorizia International Film Studies Spring School) nel quale è stata proposta anche una programmazione di alcuni lavori di Albert Serra. Il caso di Serra contribuisce ad alimentare quelle spinte centrifughe di crescita del cinema contempo­ raneo verso aree liminali della cultura dell'immagine, sperimentazioni che hanno in molti casi preso il posto di un certo cinema underground del passato e che oggi vivono nell’intersezione e nell’ibridazione con le pratiche dell’arte contemporanea. Nella con­ versazione che qui è stata pubblicata emerge tutta l’attenzione di Serra nel affermare il suo interesse ad una singolarizzazione dell’esperienza creativa. L’arti­ sta denuncia le sue idiosincrasie e rimarca quelle che sono le sacche di ispirazione del suo cinema che, a quanto pare, può sopravvivere all’impatto dei cam­ biamenti tecnologici e linguistici solo mediante una massiccia ristrutturazione autoriflessiva. Si è provato a ricostruire le relazioni di Serra con il macrocontesto a cui appartiene e allo stesso tempo si è tentato di de­ finire ulteriormente i confini di una tendenza, quella del pellegrinaggio cinematografico dall’arte al cinema e viceversa, ancorandosi alle parole dell’artista stesso. 1 contributi ospitati, infatti, ruotano intorno alla pos­ sibilità di scatenare forme di creazione concettuale a partire dal cinema di Serra. Chus Martinez nel suo saggio delinea partendo da Singularity (2015), quelli che sono i modi di Serra di vedere e narrare il mondo. 8

Il lavoro, presentato in forma di installazione mullischermo (sebbene, come scrive la curatrice, man­ tenga il suo carattere cinematografico) al padiglione C atalogna della 56“ Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia, è, secondo Martinez, una riflessione che muovendo dall’intelligenza artificiale arriva ad affermare che il pensiero, la volontà e l’immaginazione non sono fatti della stessa sostanza del inondo, degli oggetti e delle cose, ma delle immagini, dei sentimenti e delle idee. Un lavoro sul mondo che, mediante l’immagine in movimento, rompe con la lo­ gica della rappresentazione, creando, come sostiene Vincenzo Estremo nel suo testo, delle immagini pure, che non testimoniano il progredire diacronico e ar­ ticolato della storiografìa, ma una ripetizione deleuziana della storia stessa. 11 testo di Francesco Federici si interessa invece a indagare le relazioni fra cinema e arte contemporanea che stanno alla base del lavoro di Serra, la sua capacità di muoversi fra istituzioni e mondi diversi e di trarre linfa creativa da entrambi. Andrea Mariani, infine, prova a leggere in che modo il modernismo del cinema di Albert Serra possa inse­ rirsi in un’ottica di lunga durata e in rapporto a quello che è stato definito slow movie. Vorremmo qui cogliere l’occasione per ringraziare Leonardo Quaresima, l’organizzazione del Filmforum Festival, l’Università degli Studi di Udine e il Diparti­ mento di Studi umanistici e del patrimonio culturale, per averci dato l’opportunità di iniziare un dialogo con l'artista senza il quale questo libro non avrebbe visto la luce, Luca Taddio e Mimesis Edizioni per aver so­ stenuto questo progetto e Federico Zecca per averci 9

dato un fondamentale aiuto nel renderlo possibile. Un grazie va a Chus Martinez per averci permesso di tradurre e pubblicare il suo saggio e ad Albert Serra, Montse Triola e la Andergraun Films per averci messo a disposizione i diversi materiali video e le immagini che arricchiscono questo libro.

io

Vincenzo Estremo, Francesco Federici

DEL CINEMA E DELL’ARTE. UNA CONVERSAZIONE CON ALBERT SERRA

Nel marzo del 2015 il regista ed artista Catalano Al­ bert Serra è stato protagonista di una conversazione in lingua inglese che ha avuto luogo nei giorni della XXII edizione del Filmforum Festival organizzato a Udine e ( iorizia dall’università degli Studi di Udine. Quella che segue è la trascrizione di quella conversazione curata e t i ndotta da Vincenzo Estremo e Francesco Federici. Vorremmo cominciare chiedendoti come produci i tuoi lavori? Abbiamo ietto in diverse interviste che le videocamere digitali hanno rappresentato un grande vantaggio per la tua pratica e ci domandavamo se ti riferissi alla tecnologia o a qualcosa di diverso. Potresti parlare di come la rivoluzione digitale ha influenzato la tua produzione cinematografica? SI, certamente. Innanzitutto la tecnologia digitale ha rappresentato un punto di svolta per artisti e giova­ ni filmmaker come me e per chi non poteva o non vo­ leva avere un’educazione o un approccio accademico ni cinema, o semplicemente per chi non voleva andare 11

a scuola di cinema. Da un punto di vista economico, il digitale ha permesso a queste persone di esprimersi liberamente. A partire dall’inizio degli anni Duemila bastava usare un computer e un software di montaggio per rendere possibile quello che negli anni Sessanta era il sogno di molti, ovvero fare un film. Certamen­ te questa accessibilità al mezzo è stata importante, ma non determinante, infatti, pur avendo più libertà produttiva bisognava concepire in ogni caso qualco­ sa di innovativo, qualcosa che non fosse stato fatto in precedenza. Così la cosa più importante per me, una cosa che credo di aver sentito sin dall’inizio, è stata quella di sfruttare il digitale per sentire il mondo piuttosto che rappresentarlo. Solitamente con le cineprese da 35 mil­ limetri era possibile registrare solo brani brevi. Spez­ zoni di 8 o 10 minuti, al massimo 18 minuti con le cine­ prese da 16 millimetri. Inoltre le cineprese analogiche si portano dietro tutto un apparato tecnico. Le cinepre­ se analogiche necessitano di molta luce, sono degli og­ getti molto ingombranti e abbastanza statici, una volta preparate e fissate, non è possibile muoverle a piaci­ mento e inoltre le riprese su pellicola sono solitamente effettuate con gli obbiettivi posti molto vicino al sog­ getto ripreso. L’invasività della cinepresa limita, a mio parere, la libertà degli attori e ne condiziona la mente e quindi la recitazione e lo spirito. Quindi se si mette insieme la necessità della luce, il peso delle cineprese, l’impossibilità di improvvisazione o la frustrazione per non poter seguire liberamente il proprio istinto, se si mettono insieme tutti questi fattori, diventa evidente in che modo le videocamere digitali abbiano finito per 12

cambiare il modo di fare il filmmaker, evidenziandone innanzitutto le presunzioni mentali. Con le videocamere digitali è stato possibile ini­ ziare a filmare senza dover preparare le riprese, con le cineprese analogiche era necessario settare le luci, scegliere le giuste focali per gli obbiettivi, calcolare la lunghezza della pellicola e soprattutto bisognava pensare l’intero film suddividendolo in riprese singole ordinate una dopo l’altra. Con il digitale invece mi è stato possibile evitare di pensare al film frammentan­ dolo, per i miei film posso usare qualunque cosa, in qualsiasi momento e accogliere la realtà indagandola a »(»o gradi. Per esempio, potrei semplicemente piazzare tuia videocamera fissa facendola riprendere per un’ora. Ma se nel frattempo sentissi l’ispirazione di muovere l.i videocamera potrei sempre farlo, magari per filmare il sole dalla finestra solo perché sta per tramontare, e questo mi permetterebbe di essere nel mezzo dela­ zione e di comprenderla. Il regista, il filmmaker deve essere, secondo me, il centro dell’azione, deve essere estremamente sensibile, in grado di comprendere e lasciarsi ispirare da quanto gli sta accadendo intorno e tutto questo può avvenire solo perché non vincola­ lo dai lunghi tempi di preparazione del set. Il regista, quindi, deve essere totalmente consapevole di cosa gli sta accadendo intorno, deve essere in grado di poter gi­ rare le cose che lui ritiene in quel preciso momento, le più importanti per lo sviluppo del film. Per me questo cambiamento rappresentava una sfida molto interes­ sante, qualcosa che ho creduto sarebbe potuto diven­ tare estremamente radicale, qualcosa che mi avrebbe permesso di non pensare il film necessariamente divi13

so per scene. Se prima era necessario dividere il film, adesso sarebbe stato possibile articolare il film come un grande elemento concettuale. Allìnizio ero sorpreso, non mi capacitavo di come gli artisti visivi, che solitamente hanno un approccio con­ cettuale all’arte, non avessero colto questa possibilità offerta dal digitale per girare delle cose più ambizione di quanto avessero fatto sino a quel momento. Molti artisti, a mio parere, sono rimasti ancorati all’idea del video e della videoarte, concependo delle immagini in cui prevale la texture e la gamma cromatica, situazioni giocose, in cui il dispositivo diviene più importante di quanto si sta girando. Il digitale sta nel mezzo tra il cinema e il video elettronico, perché ti permette di es­ sere totalmente concentrato in quello che stai facendo, su quello che hai di fronte a te in quel momento. Non è una questione tecnologica, ma qualcosa che ti possa permettere di fare al meglio quello che vuoi fare. Le vi­ deocamere digitali ti permettono quindi di focalizzarti sull’immagine ed è da questo punto che sono partito per ripensare il concetto di film, per ristrutturarlo di­ menticando la composizione per scene e privilegiando l’improvvisazione.

Hai detto che gli artisti e i registi stanno sprecando le possibilità offerte dalla tecnologia digitale, che non la stanno usando al loro meglio. Si, solo poche persone usano il potenziale del digitale al suo massimo, ho come l’impressione che i registi continuino a girare in maniera classica e accademica, pur avendo adottato nuovi strumenti con nuova tecnologia. Questo atteggiamento condiziona

«indie la produzione stessa delle videocamere, per esempio l’ALEXA 65, una videocamera usata a livello professionale anche nelle produzioni hollywoodiane, ha due slot per ospitare due schede di memoria. Mentre lavoravamo alle riprese di Historic de la meva mort (2013) abbiamo scoperto che non era possibile continuare a girare ininterrottamente sfruttando la memoria delle due SD, ma che bisognava interrompere le riprese quando una delle due schede era piena, lutto ciò mi fa pensare che le videocamere digitali professionali siano concepite per agevolare un’idea di produzione cinematografica che ricalchi quella in uso con le cineprese a 35 mm. Io preferisco sfruttare il digitale in maniera ambiziosa, mentre nella produzione cinematografica analogica, i long takes r i piani sequenza erano molto rari e si preferiva suddividere il film in scene poi montate in sequenze più ampie, il digitale deve permetterci di ambire a qualcosa di diverso. (ili artisti contemporanei che lavorano in video, per esempio, hanno da sempre sviluppato un interesse per Il fascino delle superfici e della texture delle immagini, a discapito dei contenuti. Io ho sempre pensato che il video e la videoarte fossero una sorta di grammatica dell’immagine mentre il cinema fosse una ricerca di­ scorsiva. La videoarte però, risultava essere noiosa perché dopo una prima fase sperimentale (negli anni Sei (anta) non ha saputo evolversi in qualcosa di più ambizioso. Credo che la videoarte necessitasse di maggiore attenzione allo sviluppo di unità narrative, cos.i che oggi, con la tecnologia digitale è possibile. Se si considera il lavoro del regista filippino Lavrente ’5

Indico Diaz (Lav Diaz) che sta raccontato la storia dei recenti sconvolgimenti politici e sociali del suo paese, ci si accorge di come nel suo caso la documentazione possa coincidere con una sottile articolazione narrati­ va sospesa in un’ambiente atemporale. Tutta la cine­ matografia di Lav Diaz è molto ambiziosa e prodotta solo con piccole videocamere digitali e con una troupe estremamente ridotta. Per me, figure come quella di Lav Diaz, hanno compreso come sfruttare al massimo le nuove tecnologie, puntando ad un ambizioso rinno­ vamento narrativo. Nell’ambito dell’arte contemporanea stiamo assi­ stendo ad una vera e propria svolta cinematografica. Pensiamo al fatto che artisti come l’israeliana Yael Bartana, che ha girato la sua trilogia And Europe Will Be Stunned (2007-2011), stanno lavorando con la tecnologia digitale proprio nella direzione che hai ap­ pena descritto. Si sta assistendo a dei lavori cinema­ tografici prodotti in ambito artistico, in cui si associa alla sperimentazione digitale un certo tipo di ricerca narrativa. Credo che sia giusto, perché è solo in questo modo che sarà possibile trovare un certo equilibrio, qualcosa di impensabile solo qualche tempo fa. Con il 35 mm non era possibile aspettare il momento dell’ispirazio­ ne e io credo molto nell’ispirazione, perché non tutti i momenti sono uguali. La magia dell’ispirazione non appare sempre sul volto degli attori e bisogna essere pronti quanto questo accade ed il dinamismo della tec­ nologia digitale ti permette di esserlo. Con il 35mm i registi dovevano attendere e sottostare a lunghi tempi 16

di preparazione prima di ogni ripresa, e il lavoro sul set assomigliava a quello della fabbrica, regolato da tempi c ritmi predefiniti. Mi chiedo, dove era il divertimento? Dove la liberta artistica? Questi due fattori determi­ nanti erano presenti solo in percentuale ridotta, perché per il resto del tempo, la preoccupazione dei registi era