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Italian Pages 172 [89] Year 2001
Giulietto Chiesa, Vauro AFGHANISTAN anno zero
“introduzione di Gino Strada”
GUERINI E ASSOCIATI Prima edizione: ottobre 2001
INDICE DECRETO DELLA PRESIDENZA GENERALE INTRODUZIONE di Gino Strada EMERGENCY - Report 1994-2001 TALIBAN di Giulietto Chiesa Nascita di una leggenda L'etnia pushtun Cambio dei vettori strategici La partita globale La Russia e l'Asia centrale ex sovietica Gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita Il Pakistan e l'oppio Le vie del petrolio Schieramenti inediti Chi sono i taliban? L'Afghanistan affonda Un regime in agonia CRONOLOGIA AFGHANA 1973-2001 2001: RACCONTI DI UN VIAGGIO IN AFGHANISTAN di Giulietto Chiesa e Vauro Il coraggio sotto il burqa, di Vauro KABUL Arrivo a Kabul, di Giulietto Chiesa Una città invisibile, di Vauro Il turbante e il kalashnikov, di Vauro Cadranno presto? di Giulietto Chiesa Hanno spento la luce, di Giulietto Chiesa L'ospedale Karte-se di Kabul, di Vauro L'isola bianca di Emergency, di Vauro Un catino di guai, di Vauro NELLA VALLE DEL PANSHIR L'Afghanistan spezzato, di Vauro Da Kabul alla valle del Panjshir, di Giulietto Chiesa Bambini profughi nella terra di nessuno, di Vauro Anabah, di Giulietto Chiesa La cittadella di Anabah. Incontro con Gino Strada, di Vauro Quell'unico made in Italy che ci piace, di Vauro
KABUL, NOVEMBRE 1996 POLIZIA RELIGIOSA DECRETO DELLA PRESIDENZA GENERALE NORME GENERALI RIGUARDANTI LE DONNE
Donne, non dovete uscire dalle vostre case. Se uscite non dovete essere come le donne che, prima dell'avvento dell'Islam, usavano i vestiti alla moda, erano pesantemente truccate e si facevano guardare dagli uomini. La religione della salvezza ha stabilito che le donne abbiano una loro specifica dignità. L'Islam dispone di istruzioni preziose per le donne. Le donne non devono fornire nessuna opportunità alla gente estranea che non le guarda con occhi benevoli. In caso le donne debbano uscire dalla loro casa per ragioni di studio, di necessità sociali o di servizio, devono coprirsi come previsto dalla regola della legge islamica. Se le donne usciranno con i vestiti alla moda, ornati, stretti e attraenti, per mettersi in mostra, saranno maledette dalla legge islamica e non potranno mai aspettarsi di poter accedere al Paradiso. Tutti i membri della famiglia e tutti i musulmani ne saranno responsabili. Chiediamo a tutti gli adulti di mantenere uno stretto controllo sulle loro famiglie, per impedire il sorgere di questi problemi sociali, altrimenti queste donne saranno minacciate, indagate e punite severamente, con tutti i membri adulti della loro famiglia, dalle forze della polizia religiosa. Nessun autista è autorizzato a trasportare donne che usano il velo di tipo iraniano. In caso di violazione l'autista sarà punito. Se donne così vestite saranno viste nelle strade, saranno individuate le loro case e i loro mariti saranno puniti. Se le donne usano vestiti provocanti o attraenti, gli autisti non dovranno trasportarle. PER IMPEDIRE IL LAVAGGIO DI VESTITI NEI FIUMI DELLA CITTÀ DA PARTE DI GIOVANI DONNE Le signore che violano questa regola dovranno essere prelevate con rispettosi modi islamici, portate nelle loro case e i mariti dovranno essere severamente puniti. PER IMPEDIRE LA MUSICA Questo proclama dev'essere trasmesso dalla radio pubblica. Le cassette musicali e la musica sono proibite nei negozi, negli alberghi, nei veicoli e nei risciò. Se in un negozio verrà trovata una musicassetta, il negoziante dev'essere arrestato e il negozio chiuso. Se la cassetta verrà trovata in un'automobile, il veicolo sarà sequestrato e l'autista imprigionato.
PER IMPEDIRE IL TAGLIO DELLA BARBA Chi, tra un mese e mezzo, verrà trovato anche parzialmente sbarbato sarà imprigionato fino a quando la sua barba non sarà cresciuta foltamente. PER IMPEDIRE L'ALLEVAMENTO DI PICCIONI E I GIOCHI CON GLI UCCELLI Questa abitudine dev'essere eliminata entro i prossimi dieci giorni. Dopo dieci giorni si dovranno fare opportuni controlli e tutti i piccioni e gli uccelli da gioco dovranno essere uccisi. PER IMPEDIRE MUSICA E BALLI NEI RICEVIMENTI DI MATRIMONIO In caso di violazione, il capo famiglia dev'essere arrestato e punito. PER SRADICARE L'USO E LA DIPENDENZA DA DROGHE I drogati verranno imprigionati. Verranno fatte indagini per trovare i fornitori e i loro negozi. I negozi dovranno essere chiusi e i fornitori puniti. PER IMPEDIRE LA CONFEZIONE DI VESTITI FEMMINILI E LA PRESA DELLE MISURE ALLE DONNE Se donne, o riviste di moda, verranno trovate in un negozio di sartoria, il sarto verrà arrestato. INDICAZIONI PER LE PREGHIERE Le preghiere devono essere fatte per tempo in tutti i distretti. Nel periodo della preghiera la circolazione sarà strettamente proibita e tutti saranno obbligati ad andare nella moschea. Se i giovani saranno visti nei negozi, dovranno essere immediatamente arrestati. PER IMPEDIRE LE PETTINATURE IN STILE BRITANNICO E AMERICANO Le persone con capelli lunghi devono essere arrestate e portate al dipartimento della polizia religiosa, dove verranno loro tagliati i capelli. I responsabili del crimine saranno tenuti al pagamento del barbiere. PER IMPEDIRE IL GIOCO D'AZZARDO In collaborazione con la polizia dovranno essere individuati tutti i maggiori centri del gioco. I giocatori saranno imprigionati per un mese. PER IMPEDIRE L'IDOLATRIA Fotografie e ritratti devono essere aboliti negli alberghi, nei negozi, nelle stanze e in qualsiasi altro posto. PER IMPEDIRE I GIOCHI CON GLI AQUILONI I negozi che vendono aquiloni devono essere aboliti.
Afghanistan. C'è un aggettivo che, da ormai più di dieci anni, accompagna inesorabilmente il nome di questo Paese. L'aggettivo è: dimenticato. Afghanistan dimenticato. Un non luogo. Questo libro è il racconto di un viaggio in un non luogo e in un non tempo, di un giornalista, Giulietto Chiesa, con grande esperienza e competenza che mai lo hanno condotto al distacco o al cinismo, di un vignettista, il sottoscritto, che ha tentato, scrivendo, di disegnare le immagini di una tragedia e di un medico, Gino Strada, che dentro la carne pulsante di quella tragedia trascorre gran parte della sua vita. Tre paia di occhi diversi, tre linguaggi diversi per raccontare, per incrinare anche di poco l'amnesia colpevole del mondo. Perché quel non luogo e quel non tempo sono colmi di vite, umiliate, negate, mutilate. Di ritorno da là si prova l'urgenza di raccontarle, con parole, immagini e segni, prima che l'amnesia, la voglia di rimuovere si impadronisca anche di noi, prima che riusciamo a far divenire di nuovo, dentro di noi, l'Afghanistan solo un Paese lontano, fuori dai confini delle nostre coscienze. In questo libro abbiamo provato a raccogliere segni, parole e immagini. E forse, lo spero, anche il non detto, quello che non si può scrivere, disegnare o fotografare, quello che ho visto a Kabul negli occhi di Giulietto Chiesa che non riuscivano a contenere l'immagine del corpo di un bambino straziato da una mina. Vauro
INTRODUZIONE di Gino Strada EMERGENCY REPORT 1994-2001
Non è facile scrivere una introduzione a un libro, almeno per me. Se poi il libro riguarda l'Afghanistan, credo allora diventi molto difficile per tutti. Perché l'Afghanistan resta uno dei Paesi (ma è davvero un Paese?) più misteriosi del pianeta e più difficili da capire. Ci ho trascorso quattro anni, e ancora mi stupisco della mia ignoranza e della inestricabile difficoltà nel mettere insieme qualche idea che vada oltre la sensazione e abbia una parvenza di razionalità. Racconta un'antica storia afghana che quando Dio creò la Terra decise anche dove piazzare i diversi Paesi: qui l'Italia, più su la Germania, per poi infilarci l'Austria e la Svizzera, o qualcosa di simile. Una volta iniziato questa specie di gioco, dopo aver posato i primi pezzi del puzzle, Dio fu costretto, si racconta, ad adattare un po' i confini, limando e tagliando, in modo da incastrare tutti i Paesi del pianeta. Alla fine si trovò con tanti ritagli, striscioline, spigoli, coriandoli, roba di scarto insomma. Allora prese il tutto e lo gettò nel buco che, sul mappamondo, era rimasto vuoto tra il Medio Oriente, l'Asia centrale e il subcontinente indiano. E disse: "Questo è l'Afghanistan!" Ho dubbi seri che sia andata davvero così, ma sta di fatto che nel "buco" - grande poco più di due volte l'Italia - sono finiti cinquantacinque gruppi etnici che parlano oltre una ventina di lingue. Noi, in modo molto semplificato, li chiamiamo "afghani". Ma se chiediamo loro, la risposta sarà diversa, nessuno si autodefinirà afghano ma piuttosto pusthun, tagiko, hazarà, uzbeko... Non solo, incontreremmo chi si definisce khandahari o panjchiri dal nome della città o della valle da cui proviene. Una simile babele etnico-linguistica non avrebbe, probabilmente, potuto perpetuarsi senza l'aiuto fornito dalle caratteristiche geografiche della "terra degli afghani", una terra inaccessibile e inospitale. Verso est, strette valli annidate tra le montagne dell'Hindukush - l'estensione occidentale delle catene del Karakorum e dell'Himalaya chiuse da metri di neve la più parte dell'anno; a ovest, verso l'altopiano iraniano, il pietroso Dashti-Margo, il "deserto della morte", e il deserto di sabbia del Registan. Questo è l'Afghanistan, molto più di Kabul o Herat o Mazar-i-Sharif, città di immensa storia e cultura: un Paese dove spostarsi, ancora oggi, è una avventura continua, dove si parte senza mai sapere se e quando si arriverà a destinazione.
Ce ne siamo resi conto ogni volta che abbiamo dovuto fare arrivare camion di medicine e apparecchiature per gli ospedali di EMERGENCY: percorrere i trecento chilometri che separano il Tagikistan dalla valle del Panshir ha richiesto ventidue giorni di viaggio. Sembrerebbe che la terra, in questa parte del mondo, così come le tribù che la popolano, facciano di tutto per mantenersi inviolabili al resto del mondo. Eppure... Da sempre l'Afghanistan è stato un crocevia fondamentale tra la Cina, l'India, l'Asia centrale e l'Europa. Attraverso la "Via della Seta" e le sue diramazioni sono passati oro e argento, tessuti e lapislazzuli, cotone e spezie, ambre e coralli, lana e pellicce. E, fin da allora, anche armi e droghe. Un passaggio obbligato, insomma, dove gli abitanti hanno pagato e pagano un prezzo inimmaginabile per il solo fatto di trovarsi in un'"area strategica" o in uno "Stato cuscinetto". Negli ultimi due secoli ci hanno provato in molti a domare le valli e i deserti, e soprattutto le tribù dell'Afghanistan. Dall'inizio del diciannovesimo secolo, la Russia zarista, gli eserciti della corona britannica, persino Napoleone Bonaparte, hanno a lungo inseguito il miraggio di impossessarsi delle ricchezze dell'India. Ignorando, quasi sempre a loro spese, che per afferrare la preda bisognava fare i conti con l'Afghanistan. È stato il Great Game dell'Asia centrale, durato più di un secolo, che si è in realtà rivelato una grande carneficina. Ancora oggi, lasciando Kabul in direzione di Jalalabad, si può immaginare il calvario dei sedicimila militari inglesi in ritirata - dopo gli accordi che misero fine alla prima guerra angloafghana nell'inverno del 1842 - attraverso il Khurd Kabul e gli altri passi di montagna e le strette gole. A Jalalabad arrivò un solo uomo, il dottor Burden, un chirurgo militare, ferito in groppa a un cavallo morente. Uno su sedicimila, tutti gli altri furono massacrati o morirono di freddo e di fame. L'Afghanistan è stata la scacchiera sulla quale si è dovuto - o meglio voluto - giocare partite sempre più difficili e rischiose, e soprattutto devastanti per la popolazione. Ma le lezioni della storia, sembra proprio vero, sono le più difficili da imparare. Così ci hanno riprovato in molti, dai sovietici agli Stati Uniti, al Pakistan, per citare solo i protagonisti più recenti. "Il Presidente ha firmato una direttiva per fornire aiuti clandestini ai nemici del regime filosovietico di Kabul" ebbe a dichiarare Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale USA.
Il Presidente era il democratico Jimmy Carter, e la data della firma il 3 luglio 1979. Già, sei mesi prima dell'invasione sovietica dell'Afghanistan. "Ho scritto una nota al Presidente spiegandogli che, a mio avviso, questa decisione avrebbe avuto come conseguenza un intervento militare sovietico" stiamo sempre citando Brzezinski, che conclude con candore: "Non abbiamo spinto i sovietici ad intervenire, abbiamo solo consapevolmente aumentato le probabilità che lo facessero... cadendo nella trappola afghana". E gli aiuti? Ricordo ancora le colonne di camion color arancio, accuratamente sigillati, che da Quetta, Pakistan, percorrevano le strade polverose che portano a Spin Boldak, Afghanistan. Sulla fiancata, una grande scritta nera, NLC, National Logistic Celi, una compagnia di trasporti di proprietà del servizio segreto pakistano. Dentro i camion armi, naturalmente, di ogni tipo. Molte erano armi "russe", o meglio copie esatte di armi sovietiche prodotte in una fabbrica messa in piedi dalla CIA non lontano dal Cairo e poi spedite dall'Egitto al Pakistan. Non si sa mai, meglio non trovare armi USA in mano a tipi poco raccomandabili, e soprattutto che nessuno possa puntare il dito contro i campioni della libertà per aver fornito armi al Pakistan. Per inciso, solo un anno prima l'amministrazione Carter aveva congelato gli aiuti USA al Pakistan, accusato di star lavorando alla bomba atomica. Fantapolitica? No, tutto rigorosamente vero. Non solo. Per anni Stati Uniti ed Arabia Saudita hanno praticato la tecnica del "matching funds" - se tu ci metti un dollaro, o un miliardo di dollari, io ce ne metto altrettanti per finanziare il reclutamento, l'armamento, l'addestramento dei combattenti della Jihad, della guerra santa. E il Pakistan ha aperto le porte ai "fratelli" musulmani desiderosi di raggiungere l'Afghanistan per battersi in nome dell'Islam. Egiziani, sudanesi, palestinesi, algerini, iracheni, yemeniti, magrebini, persino filippini hanno raccolto l'appello, oltre beninteso a un gran numero di pakistani. Per anni, bastava presentarsi a una Ambasciata del Pakistan e dichiararsi volontari della Jihad per ottenere un biglietto aereo e un documento di viaggio: destinazione Peshawar, nel nord-est pakistano.
Ad attendere i volontari a Peshawar, prima di essere smistati nei vari campi di addestramento alle tecniche della guerriglia e del terrorismo, c'era, tra gli altri, un certo Osama bin-Laden... Così, quando la notte di Natale del 1979 le truppe sovietiche attraversano l'Amu Darya, il mitico fiume Oxus che allora segnava il confine con l'URSS, la trappola è pronta. Il Great Game può continuare, la Guerra Fredda diventa la guerra per procura, su commissione. Facciamo fare ad altri quello che vorremmo fare noi, così evitiamo guai e accuse nel caso l'operazione fallisca: è stata la dottrina di Henry Kissinger. E il grande massacro, con una posta in palio diversa, continua tuttora. "In Vietnam abbiamo perso 58.000 uomini. I russi ne hanno persi 25.000 in Afghanistan. Ci devono ancora 33.000 morti" dichiarò nel 1988 il congressman texano Charles Wilson, uno dei più accaniti sostenitori del "diamo ai russi il loro Vietnam". Stiamo parlando di un film di James Bond? No, tutto questo, e molto di più, è accaduto in Afghanistan. Il risultato è che i sovietici se ne sono andati, sconfitti dalla guerra per procura, mentre i vincitori - i mujaheddin - la guerra non l'hanno ancora smessa dodici anni dopo la ritirata sovietica. Anzi, molti di loro l'hanno anche importata, al loro rientro, nei Paesi d'origine. Già, è successo anche questo, che dall'Algeria alle Filippine, dalla Cecenia al Sudan per citare solo alcuni casi - i veterani della Jihad afghana si sono messi a organizzare la loro Jihad casereccia. E quel tale Osama, prima in buoni rapporti con la CIA, ha finito col dichiarare apertamente guerra... agli Stati Uniti! E l'Afghanistan, in tutto questo? E gli afghani? Che cosa è successo a quel popolo di poco meno di venti milioni di persone? 1.500.000 morti, 1.000.000 di mutilati, 4.000.000 di profughi, e un Paese distrutto, Kabul che assomiglia a Coventry dopo i bombardamenti, 8.000.000 di mine antiuomo ancora lì, pronte a uccidere nei prossimi decenni. Gli afghani, avvolti nei loro mantelli o nei loro burqa, al freddo e al buio, senza acqua potabile né elettricità, né scuole né ospedali, in una società disgregata e frammentata forse in modo irrecuperabile, continuano a camminare per i propri sentieri costellati di rottami di carri armati e di razzi inesplosi, aspettando. Aspettando che la guerra finisca, che la fame finisca, che si possa studiare, che arrivi un po' di libertà, che si intraveda qualche bagliore di diritti umani. Tra spie e terroristi, fanatici e fondamentalisti di ogni specie, trafficanti di droga e di armi. Aspettano, aspettano, "Fardo, In- ch'Allah!", domani, se Dio lo vorrà.
Che finisca il Great Game. Il gioco nazionale è la buzkashi. La si pratica ancora, nei villaggi, di solito il venerdì. Due squadre di dodici cavalieri che si contendono, senza regole, una capra morta buttata in mezzo a un prato. La afferrano in corsa, la perdono e la riconquistano, la strappano dalle mani degli awersari. A volte la capra finisce a brandelli. L'Unione Sovietica, gli Stati Uniti e tutti gli altri, ciascuno per i propri interessi strategici, militari, di danaro, hanno giocato alla buzkashi con l'Afghanistan. E siamo solo nell'intervallo, il secondo tempo è appena cominciato. Un'unica cosa è certa: che in questo gioco a far da capra ci sono gli uomini, le donne e i bambini dell'Afghanistan. 3 settembre 2001 Nei conflitti di oggi, più del 90% delle vittime sono civili. Migliaia di donne, di bambini, di uomini inermi sono uccisi ogni anno nel mondo. Molti di più sono i feriti e i mutilati. Emergency nasce nel 1994 a Milano per portare soccorso a queste vittime. Personale medico e tecnici con maturata esperienza di lavoro in situazioni di emergenza si sono uniti per garantire assistenza medica, chirurgica e riabilitazione nelle zone di guerra. Che cosa è Emergency Emergency è una associazione umanitaria senza scopo di lucro, il cui obiettivo è di fornire assistenza alle vittime civili dei conflitti, ai feriti e a tutti coloro che soffrono altre conseguenze delle guerre quali fame, malnutrizione o assenza di cure mediche. Tra gli obiettivi di Emergency è anche la promozione e la diffusione di una cultura di pace e di solidarietà. Emergency è una organizzazione italiana privata, indipendente dalla politica dei differenti Stati e Governi. È aperta senza alcuna discriminazione politica, ideologica o religiosa a tutti coloro che ne condividono i principi e gli obiettivi e ne sostengono le attività umanitarie. Il ruolo di Emergency Emergency interviene nelle zone di guerra con progetti umanitari in favore delle vittime civili dei conflitti. I suoi obiettivi specifici sono: prestare soccorsi di emergenza ai feriti organizzando ospedali chirurgici e centri di riabilitazione; garantire assistenza sanitaria di base nelle zone devastate dalle guerre, con particolare attenzione alle vittime delle mine antiuomo; addestrare personale locale a far fronte alle necessità mediche e chirurgiche più urgenti in situazioni di conflitto. Come lavora Emergency Emergency utilizza, nei propri progetti umanitari, medici, infermieri e tecnici con esperienza specifica di lavoro in zone di guerra.
Emergency usa protocolli terapeutici e metodi di lavoro standardizzati e già sperimentati in situazioni d'emergenza. Emergency utilizza tecnologie non sofisticate e materiali a basso costo e di facile reperimento in loco, per facilitare l'addestramento del personale locale. Emergency presta assistenza umanitaria gratuitamente e indistintamente, su base rigorosamente neutrale ed egualitaria, a tutte le vittime del conflitto. Emergency riferisce regolarmente ai propri sostenitori sull'uso delle risorse economiche, sulle scelte operative e sui risultati ottenuti. I centri per vittime di guerra Emergency presta assistenza chirurgica specializzata alle vittime della guerra e delle mine antiuomo, intervenendo durante il conflitto o nell'immediato periodo post-bellico. Emergency decide i suoi interventi basandosi su due criteri di selezione dei Paesi: l'effettivo bisogno della popolazione di assistenza medico-chirurgica specializzata e la scarsità o la mancanza di altri inferventi umanitari analoghi nel Paese. Questi sono i motivi che hanno portato Emergency nel nord dell'Iraq (Kurdistan), in Cambogia, Afghanistan e Sierra Leone, dove sono stati allestiti centri chirurgici e di riabilitazione. Emergency nel nord dell'Iraq Emergency è presente nel nord dell'Iraq, nell'area nota come Kurdistan iracheno, dal marzo 1995. Inizialmente le attività chirurgiche si sono svolte in un ospedale nel villaggio di Choman, vicino al confine con l'Iran. Successivamente sono stati costruiti i Centri chirurgici per vittime di guerra di Sulaimaniya (1996) ed Erbil (1998), entrambi dotati di 100 posti letto, all'interno dei quali funzionano unità speciali per ustionati pediatrici e per pazienti con lesioni del midollo spinale. Ai Centri chirurgici si affiancano 16 posti di primo soccorso, per il trattamento ambulatoriale dei casi meno urgenti e per un tempestivo intervento sui feriti gravi. Complessivamente, dall'inizio dell'attività, sono state assistite 112.848 persone. Sempre a Sulaimaniya Emergency ha costruito il Centro Riabilitazione, Protesi e Reintegrazione sociale dove, dal 1998, sono state fornite protesi e riabilitazione a circa 1900 amputati da mina antiuomo. A fine 2000 Emergency awia la costruzione di due nuovi Centri Protesi e Riabilitazione nella parte a nord del Paese, a Diana e Dohuk. Il personale locale impiegato da Emergency in Nord Iraq è di 563 unità. Emergency in Cambogia Emergency ha avviato il suo intervento in Cambogia nel 1997, con la costruzione del Centro chirurgico per vittime di guerra di Battambang, intitolato a Ilaria Alpi. Al Centro, che è operativo dal luglio 1998, si sono affiancati nel corso degli anni 5 posti
di primo soccorso e due cliniche mobili, per poter raggiungere anche i villaggi più isolati e prestare assistenza sanitaria non strettamente chirurgica a tutta la popolazione. Un settore di intervento chirurgico dell'ospedale di Battambang è dedicato alla chirurgia ortopedica e ricostruttiva, per assistere i numerosi casi di poliomielite e malformazioni congenite. Complessivamente dall'inizio dell'attività a oggi sono state curate 126.706 persone. Il personale locale impiegato da Emergency è di 226 unità. Emergency in Afghanistan Emergency ha iniziato l'intervento umanitario in Afghanistan nel 1999, con la costruzione di un Centro chirurgico per vittime di guerra nel villaggio di Anabah, nella valle del Panshir, la zona a nord controllata dal generale Massud. Al centro si affiancano 6 posti di primo soccorso, collocati in aree vicine al fronte o in zone ad alta densità di mine antiuomo. Dall'inizio dell'attività sono state curate 14.120 vittime di guerra e vengono impiegate 224 persone. A cavallo tra il 2000 e il 2001 si è costruito un secondo Centro chirurgico nella capitale Kabul e si è dato avvio a un programma sociale in favore delle donne afghane nel Panshir. Emergency in Sierra Leone L'intervento di Emergency in Sierra Leone inizia nella seconda metà del 2000 con la costruzione di un Centro chirurgico a Goderteli, nei sobborghi della capitale Freetown. In questo ospedale, che sarà operativo a partire dall'autunno 2001, verranno trattati non solo i feriti di guerra, ma anche i casi di poliomielite e altre malformazioni e traumi gravi che necessitano di chirurgia specializzata. Altri interventi di Emergency Nel 1994, durante il conflitto in Ruanda, Emergency ha ristrutturato e riattivato l'ospedale della capitale Kigali. In quattro mesi è stata fornita assistenza chirurgica a oltre 600 feriti causati dal conflitto interno, così come a vittime di mine antiuomo. Inoltre, è stato attivato il reparto maternità nel quale è stata data assistenza medica e chirurgica a oltre 2.500 pazienti. Nel 1995, durante la guerra in Cecenia, Emergency \\a distribuito farmaci essenziali e materiale di pronto soccorso per aiutare la popolazione civile e i profughi interni in fuga dalla guerra civile. Nell'estate del 1999, Emergency ha sostenuto il Centro Culturale Stari Grad, scuola multietnica di educazione alla pace, e l'orfanotrofio jovan jovanovic Smaj di Belgrado, nella Federazione Iugoslava, che ospita 96 bambini. Dal maggio al luglio 2000 un team di Emergency composto da due chirurghi, un anestesista e quattro infermieri ha prestato la propria opera in Eritrea. L'impegno di Emergency in questa missione è nato da una richiesta di collaborazione della
Cooperazione italiana al fine di attivare ad Asmara un servizio di supporto ai medici locali per l'assistenza e cura delle vittime della guerra tra Etiopia ed Eritrea.
TALIBAN di Giulietto Chiesa
Una versione precedente di questo saggio con il titolo "i misteri dei Taliban" è apparsa su Limes, Macedonia/Albania, le terre mobili, n. 2/2001 Nascita di una leggenda Mentre scrivo queste righe sono trascorsi quattro anni e mezzo dal momento in cui, nella notte tra il 26 e il 27 settembre 1996, i taliban presero possesso di Kabul. Dal momento della loro apparizione sulla scena politica afghana - come movimento e come formazione armata - sono passati meno di sette anni. Le prime notizie che li riguardano risalgono al novembre 1994, quando un convoglio di trenta autocarri pakistani, carichi di prodotti alimentari, medicine, generi di abbigliamento, destinato verso le repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale, venne intercettato nei pressi di Kandahar da banditi locali. Secondo questa storia, o leggenda (tutti i particolari della quale, come vedremo, sono importanti al fine di individuare i suoi compilatori e i loro scopi), i taliban intervennero, sconfiggendo i banditi con un'azione fulminea, e riconsegnarono il convoglio ai suoi legittimi proprietari nel corso di appena quarantott'ore. Misteriosi e provvidi Robin Hood afghani che riportavano legge e ordine dopo decenni di massacri, violenze e guerra. A chi appartenesse il convoglio, dove esattamente fosse diretto, chi fossero i sequestratori, non è mai stato chiarito. Ma colpisce l'attenzione il fatto che esso venga rappresentato come un convoglio di merci inoffensive, come abiti, generi alimentari, manufatti di varia provenienza e importazione e medicine. Così com'è interessante tenere a mente l'ambientazione della storia, in quel di Kandahar, luogo natale, tra l'altro, del maulvi Mohammad Omar. È comunque da quel momento che le formazioni armate dei taliban cominciano ad apparire sempre più frequentemente nelle cronache militari del sud dell'Afghanistan, nuovi arrivati nel panorama frastagliatissimo delle fazioni dei mujaheddin che si stavano dilaniando tra di loro e, tutte insieme, stavano dilaniando il Paese. I taliban si distinguono presto, comunque, per la loro disciplina e apparente efficacia militare. In poche settimane prendono il controllo di una parte considerevole della provincia di Kandahar. Va detto subito che questa e altre storie, o leggende, attorno ai taliban hanno tutte la stessa origine: furono i media pakistani a riferirle, in qualche caso a crearle, ad alimentarle, giovandosi del mistero che circondava il sorgere di questa nuova entità, di cui era difficile definire i contorni, la provenienza religiosa, i connotati sociologici, quelli etnici, gli eventuali finanziatori, gli organizzatori interni e internazionali. Fino a che si trattò di piccole formazioni armate, la questione del loro finanziamento non parve diversa da quella degli altri gruppi armati, frange e spezzoni
dei mujaheddin che avevano combattuto la Jihad (guerra santa) contro l'invasore sovietico. Si sapeva - lo sapevano tutti coloro che avevano occhi aperti e non ottenebrati dall'ideologia - che il principale protettore dei mujaheddin, finanziatore e "armatore", era il servizio segreto pakistano, a sua volta intermediario dei servizi segreti americani, arabo-sauditi, cinesi e israeliani, per conto dei quali svolgeva la funzione di filtro e coordinamento. Ma i capi mujaheddin, i rinomati "sette partiti" con sede a Peshawar, avevano anche fonti per così dire proprie di finanziamento. Insieme a potenti lobby pakistane (anch'esse legate a triplo filo con l'esercito e i servizi segreti di Islamabad) gestivano il traffico della droga, lasciando passare i convogli, in cambio di denaro, perfino scortandoli a destinazione. Un nuovo gruppo - appunto i taliban comparve sulla scena e sembrò inizialmente aggiungersi alle bande già esistenti. Tuttavia, quando i nuovi arrivati giunsero alla conquista di Kandahar, e fu evidente che si trattava di un vero e proprio esercito, il problema assunse altri contorni. L'etnia pushtun L'origine etnica del movimento è la più semplice da discernere. All'inizio si trattò essenzialmente di pushtun durani, abitanti del sud dell'Afghanistan. I pushtun sono l'etnia più numerosa dell'Afghanistan, ma non va trascurato il fatto che i durani sono piuttosto distinguibili - per abiti e consuetudini familiari - e spesso storicamente antagonisti rispetto ai ghilzai dell'est. Di questo si dovrà tenere conto in futuro quando si tratterà di capire fino a che punto i taliban sono in condizione di tenere assieme l'etnia pushtun. Secondo valutazioni di autorevoli osservatori pakistani, il movimento taliban, inizialmente a prevalenza durani, si sarebbe poi trasformato in un movimento pan-pushtun, ma non c'è concordanza di vedute a questo proposito. Autorevoli osservatori pakistani ritengono che la coesione dei taliban, molto forte nei primi anni del loro potere, potrebbe essere minata anche da contrasti tribali interni all'etnia. Ma, lasciando in sospeso questo interrogativo, va da sé invece che il carattere strettamente pushtun, cioè monoetnico, dei taliban esclude in linea di fatto - o la rende estremamente improbabile - ogni possibilità futura di accordo con le altre etnie afghane. A meno di immaginare una evoluzione politica dei taliban tale da mutare radicalmente la loro attuale fisionomia. Il che appare meno probabile addirittura dell'eventualità di una loro estinzione come movimento e del loro sprofondare repentino nel nulla, apparentemente misterioso, dal quale sorsero. Come vedremo tra poco non si tratta di ipotesi peregrine. La seconda caratteristica visibile di primo acchito è l'appartenenza dei taliban alla setta sunnita dell'Islam. Ma, detto questo, i contorni della loro filosofia religiosa e politica rimangono tuttora abbastanza labili, a distanza appunto di quasi sette anni dal momento delle loro prime enunciazioni politico-programmatiche. Affermano di voler costruire una "vera società islamica". Nella loro prima conferenza stampa - quella che tennero all'inizio del 1995 nella città pakistana di Peshawar - i capi espressero il rifiuto delle elezioni democratiche, dal momento che "le elezioni sono non islamiche".
Oltre al cambiamento del nome dello stato, ora denominato Emirato Islamico di Afghanistan, ben poco è emerso delle concezioni statuali e delle idee istituzionali di cui sono portatori i taliban. Al punto da rendere legittimo il sospetto di una loro assenza totale, salvo il ripristino di norme e pene medievali, il divieto di lavoro e di istruzione per tutte le donne, l'obbligo per gli uomini di portare la barba e il copricapo, l'obbligo per le donne di coprirsi in pubblico da capo a piedi con il burqa, il divieto di ascoltare la radio, di vedere la televisione, di suonare e ascoltare musica, di assistere a proiezioni cinematografiche e ad altre forme di spettacolo (tutti i cinema in Afghanistan sono stati distrutti materialmente o sono stati trasformati in luoghi di preghiera). Un regime molto simile al terrore - ma senza traccia di lumi - è stato istituito in tutti i territori sotto il controllo dei taliban. Eppure - e questa altro non è che l'ennesima stranezza di questa storia - non c'è alcun rapporto tra questo furore ideologico primitivo e gli insegnamenti sunniti che, al contrario, sono in genere più miti di quelli dell'altra corrente dell'Islam denominata sciita. Ma anche questa è considerazione da riprendere nel prosieguo, specie quando ci occuperemo del ruolo anti-Iran (sciita) svolto dal movimento dei taliban. Ciò detto è utile tornare alle prime tappe della loro strepitosa e sbalorditiva performance politica e militare, ripercorrendole succintamente prima di affrontare un'analisi critica del movimento dei taliban che vada oltre le leggende create ad arte per renderlo credibile e per descriverlo come invincibile, genuinamente popolare e soprattutto - spontaneo. All'inizio del 1995 i taliban avevano già assunto il controllo di sette delle ventotto provincie afghane: Kandahar, Zabul, Helmand, Uruzgan, Ghazni, Paktia e Nimruz. Il 14 febbraio 1995 le forze dei taliban raggiunsero la periferia di Kabul e lanciarono i primi assalti sui quartieri sud della capitale. In una manciata di mesi l'intera situazione afghana fu sconvolta e rovesciata. Un esercito prima inesistente di "studenti" sconfisse uno dopo l'altro i "partiti" dei mujaheddin. Come è stato possibile? Di fronte ai taliban, in quei mesi, si trovava un governo debole e diviso, quello guidato da Burhanuddin Rabbani, ultima propaggine della Jihad che era stata combattuta contro i sovietici dal dicembre 1979 al 1989. Dopo il ritiro delle truppe sovietiche il presidente Najibullah era riuscito a resistere fino all'aprile del 1992. In un primo tempo - fino a che Gorbaciov era rimasto al potere in Unione Sovietica, cioè fino alla fine del 1991 - Najibullah aveva potuto fruire dell'aiuto di Mosca, attraverso un ponte aereo che, via Tashkent e Dushanbè, faceva arrivare a Kabul e nei più importanti centri di provincia alimentari, munizioni e pezzi di ricambio. Ma, con la fine dell'URSS e l'arrivo al potere, in Russia, di Boris Eltsin, Najibullah aveva dovuto rendersi conto abbastanza in fretta che l'ultimo appoggio stava esaurendosi e altri non ne sarebbero giunti. L'unica uscita di sicurezza avrebbe potuto essere l'India, a sua volta estremamente inquieta per la pressione pakistana sul Kashmir e convinta che, una volta terminata la
guerra afghana, legioni di mujaheddin fanatizzati e assai bene allenati alla guerriglia si sarebbero trasferiti nello stato conteso. Tra il 1991 e il 1992 Najibullah si recò ripetutamente a New Delhi nella speranza di ottenere aiuto militare e alimentare. Ma il governo di Narasimha Rao non era in condizione di svolgere, da solo, un ruolo di supplenza dell'URSS che evaporava. L'India fu ripetutamente tentata di agire copertamente a sostegno di Najibullah, ma la mancanza di vie di comunicazione dirette, e la visibilità eccessiva di un ponte aereo, sconsigliarono il governo di New Delhi dal procedere. Infine non va dimenticato che l'India di quegli anni si trovava proiettata suo malgrado in un gioco politico e diplomatico più grande delle sue capacità e dell'esperienza dei suoi leader. Finita l'era dei Nehru, e finita l'URSS, alla cui ombra protettiva l'India si era affidata nel ventennio precedente, i nuovi dirigenti indiani avrebbero dovuto compiere scelte tremendamente impegnative, che non fecero. Najibullah tornò a Kabul, rassegnato e deluso. Lo prova la decisione di quei mesi di trasferire a New Delhi l'intera sua famiglia. Il nuovo gruppo dirigente russo mostrava di avere una gran fretta di liberarsi definitivamente di ogni residuo di influenza su quella situazione. In primo luogo perché pensava - ed era una valutazione corretta - che in tal modo si sarebbe ulteriormente assicurato la benevolenza di Washington. In secondo luogo perché i consiglieri di Eltsin erano allora fermamente convinti di avere ereditato l'"Impero del Male", del quale occorreva organizzare la demolizione per consentire alla nuova Russia di entrare nel novero delle nazioni civili, dove essa non avrebbe avuto più alcun interesse nazionale da difendere perché tutti i suoi desideri sarebbero stati esauditi dall'"Impero del Bene" prima ancora di essere formulati. Di conseguenza risultarono del tutto inutili anche gli spasmodici tentativi di Najibullah per realizzare un compromesso con i "partiti" di Peshawar, al fine di costruire un governo di coalizione. La sconfitta appariva inevitabile e, infatti, avvenne nell'aprile 1992. Najibullah non riuscì neppure a fuggire. Sulla strada verso l'aeroporto furono i distaccamenti dell'uzbeko Ab-dur Rashid Dostum a sbarrargli la strada. Dostum, che era stato alleato di Najibullah, fu la causa finale della sua sconfitta e, in ultima analisi, della sua morte. In quel momento Najibullah si salvò cercando scampo nella sede della legazione dell'ONU, a Kabul. Vi rimase per quattro anni, per essere impiccato dai taliban appena giunti a Kabul. Avrebbe sicuramente potuto essere salvato, se le Nazioni Unite lo avessero deciso. Ma l'ONU non poteva decidere ciò che gli Stati Uniti consideravano inammissibile e la Russia del tutto inutile e secondario. Nel frattempo le fazioni dei mujaheddin, occupata Kabul e tutto il Paese, cominciarono a scannarsi vicendevolmente, scomponendo e ricomponendo alleanze e inimicizie sanguinose in una sequenza spasmodica e apparentemente patologica. In realtà questo epilogo rivelava, al tempo stesso, tre circostanze: in primo luogo quanto l'alleanza dei "partiti" di Peshawar fosse stata forzata e imposta dall'esterno; in secondo luogo quanto poco di "politico" vi fosse in quell'alleanza e quanto essa fosse costruita su inconfessabili interessi economici, di diretta derivazione criminale; in
terzo luogo quanto gli interessi esterni che avevano sostenuto il movimento mujaheddin stessero mutando direzione. Venuti meno quei potentissimi interessi (o modificatisi i loro vettori), infatti, l'alleanza si sciolse quasi immediatamente. Tra il 1993 e il 1994 violentissimi combattimenti in tutte le province, e specialmente nella capitale, avevano contrapposto il presidente Rabbani (alleato con Ahmad Shah Massud, ministro della difesa) al primo ministro Gulbuddin Hekmatjar. Quest'ultimo, ancora appoggiato da cruciali settori dei servizi segreti pakistani, in alleanza con l'uzbeko Dostum, all'inizio del 1994 scatenò un violentissimo attacco su Kabul. I combattimenti, praticamente senza interruzione, coinvolsero molti quartieri della capitale, che venne ridotta ad un cumulo di rovine. Questa situazione, con alterne vicende, si protrasse fino al 1996. Cambio dei vettori strategici Dietro le quinte c'è la spiegazione. Una spiegazione che affonda le sue radici negli anni 1988-1989, quando gli Stati Uniti avevano già cominciato a comprendere che la loro guerra afghana era ormai avviata a concludersi con una clamorosa vittoria. Era solo questione di tempo. In Unione Sovietica il dibattito sull'errore Afghanistan era cominciato, seppure in forma criptica, nel vertice del PCUS. Qualcosa filtrava all'esterno, e quello che filtrava lasciava intravedere una scarsa volontà sovietica di restare a tutti i costi nel pantano di Kabul. È ben vero che in quegli anni nessuno, nemmeno a Washington, poteva immaginare la fine dell'URSS, ma è altrettanto vero che, con l'approssimarsi della vittoria, gli Stati Uniti cominciarono a prefigurare la situazione che ne sarebbe seguita, in Afghanistan, nel Pakistan, in tutta la regione. Fu in quel momento che la percezione degli interessi strategici cominciò a mutare in quasi tutti i protagonisti esterni all'Afghanistan. A Washington, in primo luogo, dove l'aiuto ai mujaheddin rallentò bruscamente. Un conto, infatti, era stato usare i mujaheddin nella guerra santa contro l'infedele sovietico; un altro conto - si calcolò nella capitale americana - sarebbe stato avere a che fare con un regime dei mujaheddin che minacciava di estendere l'area del fondamentalismo islamico. D'altro canto l'allora presidente del Pakistan, Zia ul-Haq, e il potentissimo capo dell'isi (Inter-Services Intelligence), generale Akhtar, avevano puntato su Gulbuddin Hekmatjar come futuro capo del governo afghano, una volta cacciati i sovietici e liquidati i loro amici a Kabul. Tra i tanti, possibili gestori della vittoria, Hekmatjar era, senza dubbio, il più fanatico e integralista. Non sarebbe stato difficile pronosticare un futuro difficile delle relazioni tra lui e i protettori occidentali. Ma l'obiettivo di Zia ul-Haq era quello di installare a Kabul un governo più che amico del Pakistan, del tutto subalterno ai suoi interessi. Ciò avrebbe consentito a Islamabad, tra l'altro, di imporre un definitivo regolamento dei problemi di frontiera in senso favorevole al Pakistan. Problemi sempre rimasti aperti dal momento in cui i colonialisti inglesi se ne erano andati dopo avere tracciato sulle carte la famigerata "Linea Durand", che tagliava in due il territorio abitato dalle tribù pushtun, lasciandone una grossa parte in territorio pakistano. Un Afghanistan soggetto e subalterno avrebbe permesso a Islamabad di disinnescare per lungo tempo la spinosa
questione del Pushtunistan, sempre presente, in forme latenti o esplicite, nei rapporti tra Pakistan e Afghanistan. Anche Zia ul-Haq ragionava cioè strategicamente, ma ponendo in primo piano i propri interessi nazionali. Il Pakistan, una volta copertosi le spalle, mettendo al riparo il versante occidentale dei suoi confini, avrebbe potuto dedicare tutte le sue attenzioni alle frontiere orientali, all'India, vicino ben più potente dell'Afghanistan, con il quale le controversie territoriali avevano assunto, per ben tre volte dal momento dell'indipendenza, la forma di guerre sanguinose. Inoltre, uno stato islamico amico a Kabul avrebbe consentito di mantenere una pressione (sunnita) sul vicino Iran (sciita), divenuto nel frattempo la bestia nera degli Stati Uniti. In tale modo Islamabad - quale protettore dell'Afghanistan ancora utilizzato come frontiera avanzata di un potenziale conflitto - si aspettava consistenti afflussi di aiuti economici e militari dall'Occidente anche dopo la fine della guerra contro i sovietici. Infine, guardando a nord, uno stato islamico a Kabul avrebbe permesso di tenere sulla difensiva, in modo permanente, l'intero ventre molle centro-asiatico dell'Unione Sovietica. In parte, com'è chiaro, questi progetti pakistani coincidevano (erano stati coincidenti) con quelli degli Stati Uniti. L'eccezionale sforzo americano a sostegno della Jihad non sarebbe stato possibile se non vi fossero stati questi calcoli. Tuttavia, a partire dal 1991, il quadro politico che andava definendosi a Islamabad assunse progressivamente contorni non più coincidenti (o sempre meno coincidenti) con gli schemi statunitensi abbozzati per il futuro della regione. In primo luogo - come si è detto - perché un governo islamico estremista a Kabul avrebbe raddoppiato il contagio fondamentalista rappresentato da Teheran. E l'Afghanistan sarebbe stato una formidabile piattaforma superarmata, pullulante di guerrieri usciti da una prova decennale, impiegabili - ove la situazione fosse sfuggita di mano - su tutti i fronti del mondo in cui l'Islam era in frizione con l'Occidente e con l'America in particolare. D'altro canto in quel momento Washington - dopo avere in-flitto una bruciante sconfitta a Mosca - non era più molto interessata a ulteriori rimescolamenti nell'area. Solo in seguito, con la fine dell'URSS, gli appetiti vennero crescendo, moderati comunque dall'esigenza di non disturbare più del necessario l'alleato americano del Cremlino: il presidente Eltsin. In terzo luogo l'America non era molto interessata a un Pakistan - già molto impegnato in un programma di armamento nucleare - troppo forte e aggressivo nei confronti dell'India (su cui influenti circoli economici statunitensi contavano di poter agire efficacemente per sostituirsi alla declinante egemonia sovietica prima e russa poi). È probabilmente per il confluire di questi fattori che l'appoggio americano alla Jihad mutò d'intensità e vettore dal momento in cui Mikhail Gorbaciov cominciò il ritiro dall'Afghanistan. E fu sicuramente questa un'altra delle ragioni che permisero a Najibullah di resistere per ben tre anni, con le sue sole forze sul campo di battaglia, alla pressione dei mujaheddin. In ogni caso fu evidente, a tratti, che Washington non sarebbe stata contraria, dopo la sconfitta sovietica, a una soluzione di compromesso
moderato per un futuro governo di Kabul. Magari richiamando re Zahir Shah dal suo lungo esilio romano. Di ciò, all'epoca, si parlò molto. A ciò, molto significativamente, aveva accennato Gorbaciov in un'intervista concessa a l'Unità nel 1987. Fatto sta che il braccio di ferro tra Washington e Islamabad divenne visibile. È in questo contesto che avviene il disastro aereo in cui persero la vita il presidente Zia ulHaq, il generale Akhtar e, disgraziatamente, anche l'ambasciatore americano e l'attaché militare USA a Islamabad. Evento tragico e misterioso, le cui cause restarono per lungo tempo ignote. Fino a che una spiegazione - tanto inquietante quanto interessata - venne fornita dal "brigadiere" Mohammad Yusaf, il vero comandante in capo della guerra afghana, agente dell'ISI che coordinò per anni, direttamente e sul campo, i partiti di Peshawar, distribuì loro le armi, preparò i piani operativi, istruì capi e ufficiali dei mujaheddin e impartì tutte le più importanti direttive strategiche. Nel suo libro, pressoché sconosciuto in Occidente, scritto assieme al giornalista Mark Adkin (The Bear Trap, Jang Publisher, Lahore 1993), Yusaf accusò la CIA di avere organizzato l'attentato (con l'aggiunta di un possibile coinvolgimento del KGB e del KHAD, il servizio segreto di Najibullah). Si spiegherebbe con queste considerazioni politico-strategico-spionistiche la durissima sconfitta subita da Hekmatjar a Jalalabad nel 1992, poco dopo la caduta di Najibullah, ad opera delle forze congiunte di Rabbani e Massud. Il rovescio di Hekmatjar va interpretato come un rovescio di quei circoli dirigenti pakistani che continuarono a seguire la linea di Zia anche dopo la sua morte. Circoli - va detto qui che hanno continuato a determinare la politica pakistana nei confronti dell'Afghanistan indipendentemente dai governi e dai presidenti che si sono succeduti a Islamabad, e che ancora oggi continuano a determinarla. I loro interessi, come vedremo, hanno una valenza strategica anche d'altro genere, ma non meno importante di quelle fin qui descritte. La partita globale La Russia e l'Asia centrale ex sovietica Resta il fatto che, sebbene il disegno di questi circoli pakistani (economici e militari) fosse stato sventato, nemmeno altri disegni, più consoni agli interessi strategici statunitensi in via di evoluzione, poterono essere portati a termine. Negli anni 19921996 la guerra afghana, ormai senza sovietici, ormai senza Naji-bullah, produsse più distruzioni e non meno vittime, civili e militari, di quelle che erano state registrate nel periodo dell'intervento sovietico (1979-1989). Mentre all'interno i capi guerrieri si scontravano, massacrando la popolazione civile, all'esterno nessuna ricerca di soluzioni politiche era visibile. Kabul fu ridotta a un ammasso di rovine mentre il mondo intero "dimenticava" semplicemente l'esistenza dell'Afghanistan, a riprova che il sistema mediatico mondiale risponde, in ultima analisi, a precise leggi. La prima delle quali impone di cancellare il più in fretta
possibile le tracce dei misfatti compiuti, degli inganni perpetrati ai danni dell'opinione pubblica mondiale o degli errori di valutazione commessi, magari in buona fede. Infatti, contrariamente a quanto era stato sostenuto dalla propaganda occidentale durante l'occupazione sovietica (e cioè che tre milioni di afghani erano in fuga dalle brutalità sovietiche e che, quando fossero quelle terminate, tutto sarebbe tornato normale), i profughi afghani non tornarono in patria dal Pakistan e dall'Iran una volta cacciati i sovietici. Più precisamente: una parte dei profughi cominciò a tornare, ma altre centinaia di migliaia, per sfuggire alla guerra, alla fame, continuarono ad attraversare i confini in senso opposto. Insieme ad essi l'immenso arsenale di armi, quelle lasciate dai sovietici e quelle fornite da Stati Uniti, Cina, Arabia Saudita, Egitto, Turchia, cominciò a dilagare, come una mostruosa macchia d'olio, all'interno dello stesso Pakistan, per poi distribuirsi lungo tutte le direttrici del terrorismo mondiale. È in questo contesto strategico che l'Afghanistan, ormai devastato e sull'orlo di una completa disintegrazione, tornò improvvisamente a farsi importante per i grandi manovratori delle trame del potere mondiale. Se si prende come riferimento il 1993, si vede subito che molti - la gran parte - dei termini di riferimento del quindicennio precedente erano ormai scomparsi o si ripresentavano profondamente mutati. Ma una serie di fattori nuovi tornarono ad assegnare all'Afghanistan un grande ruolo nella partita globale. Cerchiamo di vederli più in dettaglio. In primo luogo nel 1993 la sparizione dell'Unione Sovietica è ormai un dato accertato e irreversibile. Evento non previsto da alcuno, né a Washington, né a Islamabad, né a Rijad, né a Pechino, né a Mosca. Al posto dell'URSS si affacciano ora sui confini afghani del nord tre repubbliche ex sovietiche: Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan. Altri due nuovi stati emersi dall'URSS si trovano appena più a nord: Kazakhstan e Kirghizia. I circoli dirigenti di questi Paesi parlano la lingua russa. Sono moderni, nel senso della modernità portata in Asia dal potere sovietico. Sono laici e atei sebbene siano stati - negli anni del potere sovietico - alla guida di Paesi a grandissima maggioranza islamica. Non sono democratici ma guardano all'Occidente e, in primo luogo, agli Stati Uniti d'America. Vorrebbero divenire luogo d'approdo dei capitali americani. Non hanno, in generale, alcuna simpatia né per il Pakistan, né per la Cina, né per l'Iran. Alla Russia restano legati solo dalla tradizione e da concreti, imprescindibili interessi immediati dovuti alla vicinanza e alla similarità delle strutture economico-sociali ereditate dal sistema sovietico. È evidente che essi temono il fondamentalismo islamico che - tenendo conto delle desolanti condizioni economiche in cui si trovano - potrebbe fare breccia nella provincia contadina rimasta orientale e religiosa. Logico che Dushanbè, Tashkent, Ashgabat, insieme alla capitale della Kirghizia, Bishkek, e alla nuova capitale kazaka, Astana, siano inquiete per le manovre di Islamabad. Ai loro confini meridionali continuano a risuonare rumori di guerra e canti ad Allah. Tutte queste repubbliche - ad eccezione del Turkmenistan di Saparmurad Nijazov trovano dunque un'abbastanza spontanea convergenza con Mosca nel cercare di fronteggiare il pericolo che viene dal sud, dalla frontiera afghana. È ben vero che in
quella fase la Russia - con un presidente (Eltsin), un capo del governo (Cernomyrdin) e un ministro degli esteri (Kozyrev) del tutto privi di una qualsivoglia idea degli interessi nazionali russi - non è in grado di esprimere alcuna politica estera nell'area. Ma la pressione delle repubbliche ex sorelle, incapaci di fronteggiare da sole l'eventualità di minacce più serie, convincerà il Cremlino a istituire un sistema di sicurezza collettiva, che porterà alla creazione di una forza armata di 25 mila uomini (la gran parte dei quali russi) sulla frontiera tagiko-afghana. Tuttavia ciascuno di questi nuovi stati fu costretto a guardare piuttosto al proprio interno, alle prese con i problemi di una confusa transizione economica e con quelli non meno spinosi dell'installazione al potere di nuove élites dirigenti. Si spiega così l'assenza di consistenti iniziative politico-diplomatiche - meno che mai militari - per incidere sulla situazione afghana. Nello stesso tempo ciascuna delle ex repubbliche sovietiche si rendeva perfettamente conto che un Afghanistan in guerra, dilaniato, lacerato, costituiva per ciascuna di esse e per il loro insieme un ostacolo allo sviluppo dei loro traffici con l'oriente, con il mare, con i grandi mercati del Pakistan, dell'India, del sud-est asiatico. Tutte desiderose di entrare in contatto con l'area del dollaro, le ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale si trovavano, loro malgrado, costrette ad appoggiarsi ad una Russia in crisi, povera, senza futuro. A una Russia, per giunta, neghittosa, inconcludente, che spesso si presentava più come concorrente nella "corsa all'ovest", che come temibile polo d'attrazione per una ricomposizione della vecchia Unione Sovietica. Tutte prive di sbocchi marittimi, si vedevano costrette a usare quelli russi e lontani, mentre avrebbero potuto puntare con le loro merci future direttamente su quelli, più vicini, dell'Oceano Indiano. Aspirazioni - si può dire - del tutto reciproche, coinvolgenti tutti i Paesi attorno all'Afghanistan. I primi a dare segnali furono proprio i pakistani, che s'impegnarono in fitti contatti con le ex repubbliche sovietiche volti ad una sollecita riapertura della via di terra attraverso l'Afghanistan. L'episodio simbolico ricordato all'inizio, del convoglio di merci "liberato dai taliban", illustra il disegno di Islamabad di presentarsi verso gli stati dell'Asia centrale ex sovietica come liberatrice della via dei traffici e garante della loro sicurezza. Mossa tanto più importante e significativa dal momento che Teheran - in questo con l'assenso tacito di Mosca - aveva cominciato a firmare una serie di accordi di transito con la maggior parte delle repubbliche della Comunità di Stati Indipendenti (CIS, questo fu il nome dato all'insieme di stati emerso dal crollo sovietico). Si delineava così una via alternativa ai traffici dell'Asia centrale, attraverso l'Iran (porto di Bandar Abbas) e verso l'India, cioè verso un mercato che poteva fruire della lunga tradizione di contatti indo-sovietici. Gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita Questa alternativa apparve estremamente pericolosa in tutta una serie di capitali cruciali. A Washington innanzitutto. L'Iran era ancora in quel momento il nemico principale. Consentirgli il controllo delle vie di traffico avrebbe significato conseguenze negative, anzi pericolose, in tutte le direzioni: dalla riduzione potenziale dell'influenza statunitense sugli stati della CIS, alla minaccia di un controllo iraniano
dei flussi petroliferi dal bacino del Caspio verso gli utilizzatori occidentali, alla riduzione degli spazi di manovra sia verso l'India sia verso la Russia (connivente con il piano di Teheran). E l'elenco dei rischi potrebbe allungarsi. Si sarebbe trattato, per Washington, di una vera e propria débàcle strategica. Anche per l'Arabia Saudita il colpo sarebbe stato durissimo. L'Iran degli ayatollah si era già presentato da tempo come leader del mondo islamico. Una delle ragioni dell'aiuto saudita alla Jihad dei mujaheddin contro l'Unione Sovietica era stata la necessità di rigenerare la propria immagine (lesionata dall'alleanza con il grande infedele americano) agli occhi delle masse islamiche del mondo. L'ipotesi, costruita nel corso di tutti gli anni Ottanta, di contrapporre all'Islam sciita di Teheran un altro regime islamico sunnita, anch'esso fondamentalista, ma controllabile con i possenti capitali di Rijad, era fallita tra le macerie di Kabul. E l'Iran appariva in grado, potenzialmente, di mettere le mani sui proventi del grande fiume di nuovo petrolio che si apprestava a sgorgare dai pozzi del Caspio. Sotto questo profilo Stati Uniti e Arabia Saudita si riscoprivano alleati d'acciaio. Il Pakistan e l'oppio Terzo e ultimo dei colpiti da questa eventualità era - e non c'è da stupirsene alla luce delle considerazioni fin qui svolte - il Pakistan. Anch'esso per più ragioni, una delle quali fino a questo momento appena sfiorata e che merita una trattazione più dettagliata: il controllo della via della droga, in particolare dell'oppio, cioè dell'eroina. Secondo i dati forniti da Ahmed Rashid (nel suo fondamentale lavoro Taliban: Islam, OH and thè New Great Game in Central Asia, I.B. Tauris, Londra 2000), tra il 1992 e il 1995 l'Afghanistan produsse da 220 a 240 tonnellate di oppio all'anno, rivaleggiando con Burma per il primo posto mondiale nella produzione di oppio grezzo. Per avere un'idea della portata di questo business basti tenere conto che - secondo i dati dell'UNDCP (programma delle Nazioni Unite per il controllo della droga) - il contadino coltivatore ricavava meno dell'1% del profitto totale. Un altro 2,5% restava - in Afghanistan e in Pakistan - nelle mani dei primi intermediari-gestori-raccoglitori della produzione. Un altro 5 % veniva distribuito lungo il percorso attraversato dall'eroina verso i mercati occidentali. Il resto, cioè il 91,5%, andava ai venditori su questi mercati, cioè ai grandi centri della criminalità organizzata nel mondo civilizzato. Quanto vale quell'I % che rimane annualmente nelle tasche di circa un milione di contadini afghani? Secondo l'UNDCP, 100 milioni di dollari. Cioè, per quelle famiglie contadine, significa un cospicuo reddito annuo di 10.000 dollari. Ma se queste cifre sono realistiche, allora altri panorami si aprono ai nostri occhi. Negli anni che stiamo esaminando l'Afghanistan forniva alla criminalità organizzata mondiale la fantastica cifra di 9,15 miliardi di dollari all'anno di profitti netti. I restanti 850 milioni di dollari circa, in base a questi calcoli, si fermavano quasi tutti in Pakistan. Rashid aggiunge una significativa notazione. Inizialmente era il Pakistan il maggior produttore
mondiale di oppio. Poi la guerra afghana e la possibilità di agire indisturbati su un territorio sconvolto dalla guerra, unita alla necessità di finanziare l'armamento dei mujaheddin senza incidere troppo sui controllati bilanci statali, finì per far trasferire nel territorio afghano le piantagioni di oppio. Scrive Ahmed Rashid nel volume citato: "Un immenso commercio di narcotici si sviluppò sotto l'ombrello legittimante della linea di forniture d'armi organizzata dalla CIA e dall'ISI [...] Come in Vietnam, dove la CIA scelse di ignorare il traffico di droga delle guerriglie anticomuniste che finanziava, così in Afghanistan gli Stati Uniti scelsero di ignorare la crescente collusione tra i mujaheddin, i trafficanti pakistani di droga e settori dell'esercito". Si può facilmente immaginare che cosa abbia prodotto, lungo due decenni di indisturbati traffici, sull'economia di un Paese ancora largamente sottosviluppato come il Pakistan, già percorso dalla corruzione, un tale impressionante afflusso di denaro criminale. Il narcodollaro è ora padrone incontrastato dell'economia, della politica e della società pakistana. E, affinchè non si perda di vista il quadro generale, sarà utile ricordare che il Pakistan è oggi una potenza nucleare. Ma, tornando al tema, si vede dunque perché il problema principale dei circoli che contano a Islamabad fosse quello di mantenere il controllo delle arterie attraverso cui la preziosa merce fluiva e fluisce. Anzi di fluidificarle al massimo in tutte le direzioni. Dalla provincia di Helmand, dove si produce quasi la metà dell'oppio afghano, o dalla regione di Kandahar, tra le più fertili, verso sud, verso il deserto del Balucistan, verso i porti della costa pakistana di Makran. Oppure verso l'Iran, con obiettivo Turchia; oppure verso Herat e il Turkmenistan dai confini già resi trasparenti e quieti, lontani da occhi indiscreti. Le vie del petrolio Ecco dunque, di nuovo, spiegato perfettamente il gesto simbolico del convoglio "liberato" dai taliban nel 1994. Il segnale da Islamabad era chiaro: saremo noi a riaprire quelle rotte terrestri. Saremo noi a controllarle. Essendo ovvio che sotto quelle camicie, quelle medicine, quei generi alimentari si nasconderanno merci ben più costose e ben più redditizie. Qui gli interessi di Pakistan e Arabia Saudita collimavano. Molto meno collimavano quelli di Pakistan e Stati Uniti, impegnati con la mano sinistra della DIA (Drug Intelligence Agency) a disfare - senza ovviamente riuscirci quello che la mano destra della CIA aveva lungamente tessuto. Ma le cose sono spesso più complicate di quanto appaiono. In quegli stessi anni confusi diverse e contrastanti politiche s'intrecciavano nell'area. Il che non dovrebbe stupire date le molteplici evoluzioni in corso di tutti i protagonisti. A dare la spinta a diverse evoluzioni furono le grandi riserve di petrolio e di gas che venivano emergendo dalle prospezioni attorno alle rive e nei fondali del Mar Caspio e nel suo off-shore. Fino al 1991 mare quasi interamente sovietico - unica riva "estranea" quella dell'Iran -, improvvisamente esso divenne oggetto di interessi molteplici e potenti. È ben vero che le prime valutazioni davano riserve sotterranee fantastiche, tali da fare impallidire perfino la potenza dell'Arabia Saudita e dell'Iraq
messi insieme, mentre successivamente esse vennero ridimensionate. Ma il potenziale energetico dell'area restava enorme. E ovviamente tutte le grandi compagnie petrolifere del mondo non tardarono a mettere gli occhi sul possibile bottino. I primi a giungere sul posto erano stati quelli della Chevron che, fortemente sostenuti dal governo americano - allora molto impegnato a corteggiare il presidente kazako Nursultan Nazarbajev -, erano riusciti ad aggiudicarsi, in joint venture con altri, il grande giacimento di Tenghiz. Ma molte cose erano ancora incerte e il terreno mobile e sdrucciolevole. Si trattava infatti non soltanto di tirare fuori gas e petrolio, ma soprattutto di risolvere il problema della sua destinazione sui grandi mercati mondiali. E le infrastrutture mancavano. Si dovevano costruire gasdotti e oleodotti. Dove farli passare? Ogni scelta implicava problemi complessi e valutazioni dense di implicazioni politiche, diplomatiche, strategiche. Il primo ad affacciarsi concretamente ai confini afghani, con i suoi capitali, è però un privato: l'italo-argentino Carlos Bulgheroni, presidente della Bridas, una compagnia petrolifera argentina. Bulgheroni intuisce, con grande perspicacia imprenditoriale, che il Turkmenistan è la chiave di volta per aprire il rubinetto del Caspio e far fluire tutto quel ben di dio verso il Golfo Persico. Bulgheroni ottiene da Nijazov, da poco insediatesi al comando, prima i diritti di estrazione del giacimento turkmeno di Yashlar, vicino al confine afghano, prendendosi il 50% e lasciando la metà restante al governo turkmeno. Una seconda concessione, ancora più lucrosa, la ottiene con il giacimento di gas e petrolio di Keimir. Qui il presidente del Turkmenistan, assetato di capitali, gli concede addirittura il 75% dei futuri introiti di sfruttamento. La Bridas, nel frattempo, cerca di mettere insieme gli interessi turkmeni, quelli pakistani e quelli americani. La Russia, assente come su tutto il resto, non viene nemmeno presa in considerazione. Nijazov, del resto, non ha fatto mistero che Mosca deve restare fuori dal gioco. Anzi è questa la condizione sine qua non, che gli americani accolgono più che volentieri. Loro vogliono che la Russia perda la sua presa residua sull'area; Nijazov non vuole ritorni di fiamma sovietici che minaccino la sua indipendenza e il suo potere di satrapo assoluto. Tra il 1991 e il 1994 si fa strada un progetto di pipeline che, attraverso l'Afghanistan, da Yashlar potrebbe portare gas e petrolio fino a Sui, in Balucistan, centro di stoccaggio delle riserve energetiche pakistane e punto di partenza della rete pakistana di sistemi di trasporto energetico, sia per l'interno sia verso la costa. In Afghanistan in quegli anni infuria la guerra tra mujaheddin e Bulgheroni incontra tutti i capi guerrieri delle diverse fazioni. Corre a Herat per vedere Ismael Khan; vola a Kabul per farsi ricevere da Burhanuddin Rabbani e Massud; fa la spola con Mazar-iSharif per consultarsi con l'uzbeko Dostum; a Kandahar parla con Mohammad Omar, capo dei taliban. A tutti promette dividendi cospicui, e chiede loro di garantire che la costruzione dell'oleodotto non sia impedita e che, una volta terminata, i capi s'impegnino a non farlo diventare oggetto di dispute e di ricatti. Un parallelo lavorio diplomatico segreto viene tessuto tra le capitali turkmena e pakistana. Il costo dell'operazione è alto. Occorrono altri capitali. Per questo Bridas offre ad altre
compagnie petrolifere (che opereranno sul e attorno al Caspio) il futuro accesso alla pipeline. Tra queste si fa largo Unocal (dodicesima per importanza compagnia petrolifera statunitense), il cui consulente principale è nientemeno che Henry Kissinger. Un'occhiata al calendario: siamo ormai all'inizio del 1995. La situazione militare in Afghanistan resta estremamente turbolenta e confusa. I taliban sono all'offensiva ma una loro vittoria è ritenuta da tutti improbabile. Nel marzo di quell'anno Benazir Bhutto, allora premier pakistano, e Saparmurad Nijazov firmano un memorandum che autorizza finalmente Bridas a redigere uno studio operativo per l'oleodotto YashlarSui. È il punto più alto del successo di Carlos Bulgheroni, ma è anche il suo definitivo capolinea. A questo punto qualcosa succede a Ashgabat e a Washington. L'arrivo sulla scena della Unocal ha cambiato il quadro. Nijazov fa i suoi calcoli e conclude che è per lui molto più conveniente coinvolgere direttamente gli Stati Uniti nei progetti turkmeni. Bridas non ha nessuno alle sue spalle, Unocal ha il presidente Bill Clinton. A Washington, nel frattempo, la linea moderata che aveva teso a privilegiare come interlocutori principali nell'area Nazarbaev del Kazakhstan e Karimov dell'Uzbekistan perde colpi a vantaggio della lobby petrolifera, che vuole assicurarsi da subito i maggiori vantaggi petroliferi. La prima linea, impersonata da Strobe Talbott, cercava di non sollevare troppa irritazione al Cremlino, accettando implicitamente di considerare quell'area ancora come "cortile di casa" della Russia. La seconda tendeva al fatto compiuto e a ottenere una dichiarazione formale che avrebbe posto l'intera area ex sovietica nell'ambito di quelle considerate vitali per la sicurezza degli Stati Uniti. Così, nell'ottobre 1995 Nijazov lascia di stucco Bridas e firma due contratti con Unocal (che, a sua volta, associa Delta Oil Company, di proprietà della famiglia reale saudita). Il primo è per un gasdotto da Daulatabad (Turkmenistan) a Multan (Pakistan) di nuovo attraverso l'Afghanistan. Il secondo è per un oleodotto lungo 1050 miglia, che porterebbe il petrolio di tutta l'Asia centrale da Chardzhou (Turkmenistan) alla costa pakistana del Golfo Persico. Un progetto "storico" in cui Unocal coinvolge anche Gasprom (10%), Delta Oil (15%) e l'impresa di stato turkmena Turkmerosgaz (5%). Investimenti complessivi previsti per 4,7 miliardi di dollari. Nella presentazione del progetto viene scritto esplicitamente che "uno dei maggiori ostacoli alla sua realizzazione è l'instabilità politica in Afghanistan. Ed è di fondamentale importanza che venga costruito un organismo unico capace di rappresentare tutto l'Afghanistan" (Screma Sirohi, The Telegraph, Calcutta, 11 novembre 1996). Fatte le necessarie verifiche incrociate si scopre che tutto torna e tutto si tiene: alla fine del 1995 ciascuno degli attori principali sta assumendo il suo nuovo posto sulla scena. Il Turkmenistan sembra poter far fruttare finalmente la sua accorta politica di non ingerenza negli affari interni afghani. Politica che lo aveva spinto a non prendere parte al sistema di sicurezza collettiva delle repubbliche della CIS e che si era sviluppata attraverso una lunga e capillare azione di contatti diretti con i capi militari
afghani, senza badare a etnie e confessioni, rifiutando asili a questa o quella fazione, ma accattivandosene i favori con tutti i mezzi a disposizione, comprandoli, coinvolgendoli. Lungo tutti gli anni sotto esame i 600 chilometri di frontiera comune tra Afghanistan e Turkmenistan erano rimasti infatti del tutto tranquilli. Nijazov aveva comunque tenuti aperti, per sicurezza, tutti i canali di comunicazione, inclusi quelli con l'Iran. Era stato lui personalmente, nel 1995, a inaugurare la splendente stazione ferroviaria di Sarakhs, sul confine turkmeno-iraniano, prima tappa in Turkmenistan della nuova ferrovia, costruita dagli iraniani, che collega la città di Meshad, nell'Iran del nord-est, con Ashgabat: la prima linea di comunicazione ferroviaria mai esistita tra l'Asia centrale e il sud islamico. Nijazov poteva così assicurarsi la primogenitura sulle vie di terra. Per quanto riguardava l'aria, il nuovo e lussuoso aeroporto di Ashgabat, in costruzione da tre anni, sarebbe diventato, nelle attese, un centro internazionale tale da rivaleggiare con i mega aeroporti del Golfo. Schieramenti inediti Washington, Rijad, Islamabad, Ashgabat procedono di concerto almeno per quanto riguarda le vie del petrolio. Si rafforza sul fronte opposto l'asse Mosca-TeheranAstana-Dushanbé-Tashkent-Pechino. Il dado è tratto. Il mosaico si è ricomposto ma le nuove linee di demarcazione sono molto diverse dalle precedenti. Qualcosa di nuovo è accaduto. E non di poco conto. Teheran è divenuta alleata di Mosca, dopo essergli stata nemica durante l'occupazione sovietica. La stessa cosa vale per Pechino e rappresenta un mutamento gigantesco. Sull'altro fronte il Turkmenistan di Nijazov si allinea con Washington. Nello stesso tempo l'operazione di aggancio, che Washington si proponeva, con le altre repubbliche della CIS risulta clamorosamente fallita. Mosca torna ad essere, addirittura suo malgrado, protagonista nel Great Game. E comunque in quel preciso momento che il progetto pakistano di prendere il controllo definitivo sull'Afghanistan riceve un assenso - implicito o esplicito poco importa - sia da Washington (anche, ma non soltanto, attraverso gli aiuti di Unocal), sia da Rijad (anche, ma non soltanto, attraverso Delta Oil). Quella che nel corso degli anni 1993-1995 era stata la linea relativamente solitària di Islamabad (per meglio dire: dei circoli militari e dei servizi segreti più direttamente legati al commercio della droga), diventa la scelta di uno schieramento. Gli interessi petroliferi si sposano con quelli della droga. I taliban, fino a quel momento confinati nel ruolo di co-partecipanti alla carneficina afghana, salgono sul proscenio come i salvatori del Paese, i futuri pacificatori, il nucleo dell'"organismo unico" che dovrà rappresentare tutto l'Afghanistan. Chi sono i taliban? È ora tempo di tornare su una questione rimasta aperta: chi sono i taliban? Le altre questioni sono state chiarite dalla dinamica degli eventi che qui siamo
venuti raccontando. Sappiamo ora, senza possibilità di dubbio, che i taliban sono stati parte di un gioco molto più vasto, che ha determinato la loro esistenza e il loro ruolo. Ma è utile capire da dove vengono e come sono stati formati. "Studenti" sono stati definiti e continuano ad esserlo dalla stampa pakistana. Studenti del Corano. Studenti pushtun. Reclutati nelle immense tendopoli attorno a Peshawar, nei campi profughi. Figli di contadini che non avevano mai conosciuto la luce, il telefono. Vissuti fin dalla nascita in condizioni assolutamente miserevoli, elementari, brutali, nelle quali la principale occupazione, a partire dal momento in cui si comincia a camminare da soli, è cercare il cibo per sopravvivere. Tanti, tantissimi. Su una popolazione di profughi afghani attorno ai 2 milioni, i giovani in età dai 7 ai 18 anni non dovevano essere meno di 150 mila. Un esercito potenziale. Le scuole coraniche, le madrassas, esercitate da mullah a loro volta ignoranti e fanatizzati dalla Jihad, esistevano anche prima. L'idea nuova, invero geniale, fu di trasformarle in centri di formazione decisamente più complessi e polivalenti. Si ritiene che la svolta nell'uso delle madrassas come centri di reclutamento al tempo stesso ideologico e militare risalga alla fine del 1993. I commercianti di droga si rendevano conto che le rivalità dei capi guerrieri avrebbero reso sempre più precari e costosi i trasporti dell'oppio grezzo attraverso il territorio afghano. E decisero di dotarsi di una propria "milizia", ben distinta da quelle dei warlords locali, cioè dai mujaheddin. Il reclutamento di migliaia di ragazzi venne facilitato dall'afflusso di denaro. Nelle madrassas, dove prima si beveva solo tè e si mangiava qualche galletta, cominciò ad arrivare cibo in scatola, scarpe, vestiti. Dai trecento o quattrocento allievi di una madrassa, - secondo una testimonianza raccolta da chi scrive - di regola emergono meno di dieci giovani alfabetizzati. Il resto rimane analfabeta. Le sue conoscenze del Corano sono limitate a piccoli excerpta imparati a memoria in una specie di catechesi ossessiva. A questa - che era la fisionomia delle madrassas tradizionali - si aggiunse l'istruzione militare. Questa viene impartita nei campi organizzati dall'esercito pakistano, specie dai corpi speciali e dall'ISI, servizi segreti. Anche in questo caso si tratta di corsi di formazione accelerata, dove s'insegna l'uso dei fucili mitragliatori, delle mitragliatrici e dei mortai. Istruzioni sull'uso di armamenti più sofisticati vengono impartite solo ai più dotati, cui in seguito vengono affidati ruoli di comando sul terreno. Il comando dei battaglioni resta assegnato ai mullah, ai quali viene ugualmente impartita una istruzione sommaria di tecniche militari. Tutto ciò è confermato dalle esperienze sul terreno. Secondo numerose testimonianze i taliban subiscono spesso gravi rovesci e forti perdite umane proprio a causa dell'inesperienza. Si racconta a Kabul che, dopo ogni grande scontro tra Massud e i taliban, all'aeroporto scendono decine di aerei cargo senza insegne, dai quali sbarcano
nuovi contingenti di "studenti", pronti per essere mandati al macello. Sottovalutare la loro forza sarebbe tuttavia un errore. Innanzitutto i taliban vanno in combattimento con una motivazione - religiosa - che manca ormai totalmente ai loro awersari. Essi si sentono investiti dall'onore di condurre una nuova guerra santa che "certo è condotta contro i fratelli di fede, ma che hanno la grave colpa di essersi venduti all'infedele" (da una testimonianza raccolta da chi scrive a Kabul, nell'ottobre 1996). Il carattere mercenario di questo esercito è indubbio, ma gli emolumenti sono miserevoli, sotto forma di incentivi e di premi per chi partecipa con onore ai combattimenti. In ogni caso si tratta di cifre molto esigue, attorno ai due dollari al mese, che rappresentano per quei giovani un balzo verso il benessere rispetto alle condizioni di partenza, cioè prima di entrare nelle madrassas. Comunque la ragione delle loro "invincibili avanzate" è altra e consiste in un'accurata programmazione degli interventi non solo militari, ma anche economici e politici sul terreno, coniugata a sua volta con una permanente linea di comunicazione tra Kandahar e Islamabad. HHerald, un importante giornale pakistano, rivelò (gennaio 1996) l'esistenza di due linee telefoniche speciali e segrete, colleganti Quetta e Lahore a Herat e Kandahar. L'articolo era sarcasticamente intitolato "Fai il numero di Lahore per parlare con i Taliban". I servizi segreti pakistani, a loro volta, possono fare tesoro dell'esperienza accumulata ai tempi della guerra contro l'URSS. I taliban hanno potuto (non si può dire se ancora lo possano) in tal modo giovarsi di tutta la rete di rilevazione, inclusa quella satellitare (concessa dai servizi segreti americani). Infine - non ultima e, anzi, principale componente del successo - i taliban e i loro consiglieri pakistani dell'ISI condussero sul terreno una fitta rete di negoziati con i warlords locali. A ciascuno, purché si piegasse a un'intesa, evitando il combattimento, furono offerti importanti incentivi. Non uguali per tutti. In alcuni casi i capi mujaheddin vennero semplicemente comprati. Haji Kadir, governatore di Jalalabad, sarebbe stato conquistato da una valigia contenente 20 milioni di dollari, di cui 15 si rivelarono poi falsi, stampati in quel di Peshawar dai servizi segreti di Islamabad. Ma questo è solo un episodio. In realtà i warlords stanno comodamente sul territorio e possono pagarsi i loro piccoli eserciti, imponendo tariffe di transito ai convogli di droga. I taliban offrirono a ciascuno di loro adeguate percentuali assicurate di partecipazione agli utili, ovviamente in caso di resa e di accordo senza combattimenti. Tutto questo lavorio rende assai meglio comprensibile la straordinaria rapidità dell'avanzata dei taliban a partire dall'ottobre 1995 in avanti. In molti casi un'avanzata - si noti - realizzata senza significativi combattimenti. Se si confrontano le date con quelle degli sviluppi politici che abbiamo prima esposto, si vedrà che i conti tornano e che la guerra si mosse in perfetta sintonia con l'evoluzione
politica, anzi come una sua propaggine, così come von Klausewitz insegna. Come si è visto, questa strategia, in primo luogo pakistana, si rivelò vincente. Kabul e gran parte del territorio furono conquistate. E - secondo i dati dell'UNDCP - la produzione di oppio grezzo è salita nel 1997 (un anno dopo la conquista di Kabul da parte dei taliban) a 2800 tonnellate (erano 220-240 nel periodo 1992-1995). Affari a gonfie vele. Diverse volte al mese convogli di possenti Toyota, scortati da mezzi pesantemente armati, muovono di notte in tutte le direzioni in partenza dalle provincie maggiormente produttrici: Helmand e Kandahar. Il traffico è ben regolato. L'Afghanistan affonda Strategia vincente sì ma solo fino ad un certo punto. Il prezzo più evidente è l'affondamento dell'Afghanistan come stato. I taliban, custodi della droga, non sono in grado né di governare il Paese, né di ricostituirlo. Una vera classe dirigente non è stata creata. E non si crea una classe dirigente, in senso lato, spingendo il Paese verso l'analfabetismo generale e privandolo di ogni struttura di formazione, com'è avvenuto e sta avvenendo. In cinque anni di potere a Kabul i taliban non hanno ricostruito nulla. È un segno impressionante dell'assenza di progetti. Inoltre anche per il Pakistan attuale questo Afghanistan diventa, ogni giorno che passa, un problema sempre maggiore. La droga fiorisce, ma il denaro della droga è divenuto il motore principale dell'intera economia pakistana. E della sua vita politica. A cinque anni di distanza dalla conquista del potere sono soltanto tre i Paesi che hanno riconosciuto il nuovo regime: il Pakistan appunto, l'Arabia Saudita, e gli Emirati Arabi. Un elenco rivelatore, per le presenze e anche per le assenze. Gli Stati Uniti non hanno potuto riconoscere il nuovo regime, anche se cercarono di stabilire subito buoni contatti con esso. Per la semplice ragione che esso, come tale, è impresentabile nel consesso internazionale. E, dunque, non soltanto perché ospita Osama bin-Laden. D'altro canto la conquista di quel famoso (e molto dubbio) 90% del territorio significa che una parte ampia del nord non è stata conquistata. Questa parte, con la valle del Panshir, si spinge fino a meno di 100 chilometri da Kabul. In queste condizioni non si costruiscono oleodotti per 5 miliardi di dollari che salterebbero in aria ogni notte. Il progetto Unocal-Delta Oil rimane irrealizzabile. E lo splendido, nuovo aeroporto di Ashgabat, inaugurato nel 1996, rimane chiuso per gran parte del tempo: arrivano ora meno aerei di quanti ne arrivassero ai tempi sovietici. Questo Afghanistan, così com'è, fa paura a tutti e non piace a nessuno. Quando i taliban presero Kabul, i Paesi della CIS convocarono (4 ottobre 1996) un summit d'urgenza ad Alma Ata, per decidere una linea comune. La Russia, finalmente destata dal suo torpore, si rese conto che il pericolo diventava grave. Gli altri convennero. Tutti eccetto Saparmurad Nijazov, che non andò al vertice e si limitò a parlare al telefono con Viktor Cernomyrdin. Le altre repubbliche e la Russia, dilaniata dalla prima guerra cecena, allora appena terminata con una durissima sconfitta, avevano tutte - e hanno ancora oggi - il problema del rapporto con le opposizione islamiche fondamentaliste. In Tagikistan, la più esposta al contatto e al contagio, il dialogo positivo appena cominciato tra governo e opposizioni islamiche assai intransigenti può
essere drammaticamente interrotto da un inasprimento militare sulla linea di confine con l'Afghanistan dei taliban. Per quanto concerne la Kirghizia, non è un mistero che i leader e le basi di addestramento dello Hezb-i-Takh-rir, o Partito Islamico di Liberazione (PIL), si trovino in territorio afghano e siano state lasciate, in passato, ampiamente libere di muoversi dai diversi governi afghani. Era logico attendersi che i taliban avrebbero aiutato e sostenuto le opposizioni islamiche armate. Come infatti è avvenuto in questi anni. Identica situazione per quanto concerne l'Uzbekistan di Islam Karimov, dove il Movimento Islamico di Uzbekistan (Miu), fuorilegge, dispone di importanti retrovie in terra afghana. I rappresentanti del PIL e del MIU hanno addirittura sedi di riferimento a Kabul, sebbene esse rimangano fuori dalla vista dei pochi stranieri, in quartieri residenziali appartati. Ma analoghe rappresentanze diplomatiche dell'eversione islamica cinese e di quella cecena sono presenti - se non a Kabul, dove sarebbero troppo visibili - in altre città, ad esempio a Kandahar e Herat. Altrettanto logica la decisione - congiunta e segreta delle repubbliche ex sovietiche, Russia inclusa - di sostenere la resistenza di Ahmad Shah Massud. Sostenerla con denaro, armi, aviazione leggera e sistema d'informazioni. Per lo meno quello che ancora la Russia è in grado di far funzionare. E bastato comunque questo, insieme all'abilità di Massud e alla inaccessibilità della sua valle, per rendere impossibile ai taliban la proclamazione della loro vittoria finale. La retrovia di Massud - ironia della storia - è ora quella Dushanbè dei suoi fratelli tagiki che fu retrovia dei sovietici che egli combattè. È comunque questa la resistenza più importante. Con Massud combattono piccoli distaccamenti di hazarà, nient'altro. Gli altri capi mujaheddin sono dispersi e mattivi. Ma si contrappone ai taliban, a nord-ovest, anche l'uzbeko Dostum, la longa manus di Karimov. Ed egli è ancora in possesso di ciò che rimase dell'aviazione di Najibullah. Con queste premesse una vittoria completa dei taliban è del tutto impossibile. Un regime in agonia È evidente che, per gli Stati Uniti, sostenere il regime dei taliban è ormai divenuto insostenibile. Esso appare, come si è visto, impresentabile e pericoloso. Droga, diritti umani violati, inquietudine tra i potenziali partner centroasiatici. L'apertura di un discretissimo dialogo con l'Iran di Kathami dimostra che l'opzione per una irriducibile ostilità anti-iraniana degli Stati Uniti stava per essere abbandonata dagli ultimi fuochi dell'amministrazione Clinton (resta da capire cosa vorrà fare quella di Bush junior). Ma nell'ipotesi che una tale linea continui, Washington avrebbe assai poco interesse a mantenere in vita un regime fondamentalista islamico a Kabul ostile a un Iran che si accinge a ripristinare, seppure gradualmente, buoni rapporti con l'Occidente. Dunque è sufficiente tirare le somme: perdere ogni sostegno a Washington significa la fine per un regime come quello dei taliban, in una zona di tale importanza nevralgica. In ogni caso lo schieramento che portò i taliban al potere cinque anni fa non esiste più. Prova clamorosa del volgere degli eventi, nel giugno 2001 Mosca riesce a convincere i cinesi a convocare a Shanghai l'incontro di sei Paesi centroasiatici, Cina ovviamente
inclusa, per discutere a fondo le forme per contrastare il fondamentalismo islamico nell'area. Nessun dubbio che la situazione afghana sia stata al centro dei colloqui. Novità importantissima la presenza di Islam Karimov dell'Uzbekistan, che negli anni precedenti aveva scelto una linea defilata e molto autonoma. L'Uzbekistan - premuto da una guerriglia guidata dal Movimento Islamico - si trova in evidente difficoltà e cerca aiuto a Mosca e Pechino. A sua volta la Cina ha buone ragioni per temere che gli elementi radicali islamici della minoranza uighur trovino sostegno e alimento, militare e ideologico, in terra afghana e pakistana. L'Organizzazione di Cooperazione di Shanghai - questo il nome conferito ufficialmente alla conferenza - annuncia il costituirsi di un'alleanza formale antitaliban sotto l'egida congiunta russo-cinese. Inoltre, questione lasciata per ultima ma che va assumendo, nell'approssimarsi del prossimo inverno, proporzioni da tragedia biblica, è l'emergenza umanitaria. Un Paese allo sfacelo e senza governo è alle prese con milioni di persone in fuga dalla fame e dalla guerra. Già l'inverno 2000-2001 ha visto morire di freddo e di stenti migliaia di donne, vecchi e bambini accampati nelle tendopoli in Pakistan, in Iran, negli stessi territori afghani dove non c'è guerra, ma dove non ci sono neanche pane, acqua e medicine. La comunità internazionale, rimasta passiva nel suo complesso, non potrà ignorare a lungo questa catastrofe. Tutto ciò induce a ritenere non solo che l'Afghanistan tornerà - seppure in forme parzialmente ipocrite - sotto i riflettori dei media mondiali, ma che il regime di Kabul incontrerà difficoltà crescenti, assieme ai suoi protettori di Islamabad, gli unici rimasti a sostenerlo. Tutto ciò non significa necessariamente un suo crollo imminente. Molte restano le variabili in gioco e i tempi delle crisi orientali sono lunghi per antonomasia. Ma la distruzione dei Buddha di Bamiyan non sembra essere stata soltanto un'ulteriore manifestazione di oscurantismo fanatico. Fosse stata solo questo non si vede perché attendere cinque anni per fare ciò che Maometto, in fondo, avrebbe imposto di fare subito, fin dal momento in cui i taliban presero il potere, nel settembre 1996. A molti osservatori quella decisione è apparsa per quello che è: un gesto scomposto, rivelatore di una profonda crisi politica. Ma i tempi di questa crisi possono non essere compatibili con l'esigenza di tenere assieme uno stato. Sarebbe utile se la comunità internazionale, preso atto di questo stato di cose, avviasse un'energica iniziativa politico-diplomatica, capace di anticipare e scongiurare esiti ancor più tragici e sanguinosi e atta a creare le premesse per una reale normalizzazione. Roma, giugno 2001
CRONOLOGIA AFGHANA 1973-2001 Dal 1933 al 1973 l'Afghanistan è governato dal re Zahir Shah. Durante la seconda guerra mondiale, il Paese riesce a mantenere l'integrità nazionale e una difficile neutralità. A partire dagli anni Cinquanta diventa un protettorato di fatto dell'Unione Sovietica. Kabul cerca l'appoggio dell'URSS in chiave antistatunitense, per difendersi da Iran e Pakistan; Mosca considera il territorio afghano un'area nevralgica per il controllo della via verso il mare Arabico, cioè verso il petrolio. Nel 1964 Zahir Shah approva una nuova costituzione trasformando il regno in una democrazia con libere elezioni e diritti civili. Nove anni più tardi il suo tentativo di allontanarsi dalla sfera di influenza sovietica e le storiche divisioni tra i vari gruppi etnici e religiosi del Paese inaugurano un tragico trentennio - ancora non conclusosi di scontri sanguinosi e terribili distruzioni. 1973 Luglio. Il re Zahir Shah viene detronizzato da un colpo di stato organizzato dal principe Mohammed Daud. L'Afghanistan viene proclamato una repubblica e Daud ne diventa il presidente. 1978 Aprile. Daud viene ucciso. Il Partito Democratico del Popolo Afghano (PDPA), filosovietico, da il via alla "Rivoluzione d'aprile", che porta alla nascita della Repubblica Democratica dell'Afghanistan. Al potere sale Mohammad Taraki, con Babrak Karmal primo vicepremier. Agosto-dicembre. Le riforme del nuovo regime, volte alla sovietizzazione e alla laicizzazione del Paese, alimentano il malcontento di larghi strati della popolazione. Comincia a organizzarsi la resistenza islamica armata. 1979 Gennaio. Primi scontri nelle regioni orientali del Paese tra le truppe di Taraki e quelle della resistenza islamica. Marzo. Scoppia una rivolta popolare a Herat in cui vengono uccisi alcuni consiglieri sovietici di Kabul. I governativi riconquistano la città dopo sanguinosi scontri. Afizullah Amin viene nominato primo ministro. A metà dell'anno le formazioni della guerriglia islamica, riunite in un fronte unico di resistenza appoggiato da Iran, Pakistan e Cina, controllano quasi l'80% del territorio afghano.
10 settembre. Il presidente della repubblica Taraki viene ucciso e il potere passa nelle mani di Amin. Il PDPA si spacca. L'uRSS, che non gradisce l'ascesa di Amin e teme un'estensione della ribellione islamica alle vicine repubbliche di Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan, decide di invadere l'Afghanistan. 27-28 dicembre. Truppe dell'Armata Rossa entrano nel Paese. Amin viene assassinato dai servizi segreti di Mosca e i sovietici installano al potere Karmal. 1980 Gennaio. Il Consiglio di sicurezza dell'ONU condanna l'invasione sovietica. In occasione del tradizionale discorso sullo Stato dell'Unione, il presidente USAjimmy Carter dichiara che "il tentativo da parte di una potenza straniera di conquistare il controllo della regione del golfo Persico sarà considerato come un assalto agli interessi vitali degli Stati Uniti e sarà respinto con ogni mezzo necessario, compresa la forza militare". Gli USA offrono al Pakistan un piano di aiuti economici e militari per arrestare l'avanzata dell'URSS in Afghanistan. Luglio. I ribelli afghani si accordano per creare un governo provvisorio nelle regioni da loro controllate. Novembre. Con l'adozione della risoluzione 35, l'ONU chiede "Il ritiro immediato delle forze straniere dall'Afghanistan". 1981 Febbraio. Il segretario generale dell'ONU, Kurt Waldheim, nomina Javier Pérez de Cuellar inviato speciale delle Nazioni Unite in Afghanistan: è l'inizio di un lungo e faticoso lavoro diplomatico che nel 1988 porterà alla firma degli accordi di Ginevra. 1982 11 agosto. Per la prima volta le forze della guerriglia antigovernativa attaccano Kabul. 1983 Il numero dei profughi afghani ha raggiunto livelli altissimi: circa 3 milioni e mezzo di persone sono rifugiate in Pakistan, 2 milioni in Iran e diverse migliaia in India, in Europa e negli Stati Uniti. Le truppe sovietiche in Afghanistan ammontano ormai a più di 100 mila unità. 1984 L'URSS lancia una offensiva estiva contro la guerriglia nella valle del Panshir. Il presidente americano Ronald Reagan annuncia che gli USA forniranno missili Stinger ai ribelli.
1985 Marzo. Mikhail Gorbaciov, neopresidente dell'URSS, lancia segnali di disponibilità a una soluzione politica del conflitto afghano. Maggio. I 7 maggiori partiti della guerriglia antigovernativa formano un'alleanza militare con base a Peshawar. Luglio. Gli USA cominciano a fornire al Pakistan missili Sidewinder e Sfinger. Novembre. Gorbaciov e Reagan si incontrano a Ginevra. 1986 Aprile. Gli USA inviano missili Stinger alle forze della guerriglia. Il sostegno economico da parte degli Stati Uniti alla resistenza afghana raggiunge i 470 milioni di dollari. Maggio. Babrak Karmal perde l'appoggio dell'uRSS e viene costretto a dimettersi. L'ex capo della polizia segreta, Najibullah, lo rimpiazza alla carica di segretario del PDPA. Nei mesi successivi i sovietici riportano in patria, dimostrativamente, 6 reggimenti. Ma a Mosca continua la difficile discussione se ritirarsi oppure no. Najibullah proclama l'inizio di una politica di riconciliazione nazionale. 1987 Settembre. Viene approvata una nuova carta costituzionale. Dalla denominazione ufficiale dello stato viene eliminato l'aggettivo "Democratica", introdotto ai tempi del controllo sovietico, e il Paese torna a chiamarsi "Repubblica di Afghanistan". Dicembre. Najibullah ammette che l'80% delle campagne e il 40% delle città sono al di fuori del controllo del governo. 1988 Aprile. Dopo anni di incontri tra il governo afghano, i gruppi ribelli e i rappresentanti di USA e URSS, sotto l'egida dell'ONU, a Ginevra si firmano gli accordi per il definitivo ritiro sovietico. Maggio. L'URSS rivela che 13.310 soldati sovietici sono morti e 35.478 sono rimasti feriti nel corso degli 8 anni di guerra in Afghanistan. Il 25 maggio inizia ufficialmente il ritiro dell'Armata Rossa. Ad agosto il contingente sovietico nel Paese è già dimezzato. Luglio. A Kabul Najibullah forma un governo di coalizione con alcuni ministri non comunisti. 1989 15 febbraio. Ritiro definitivo delle truppe sovietiche.
Aprile. I mujaheddin, guerriglieri mussulmani, si trasformano progressivamente in un esercito regolare, organizzato e ben equipaggiato, al comando di ex ufficiali della Repubblica di Afghanistan. 1991 Marzo. Guidati dal comandante Jalaluddin Haqqani, i mujaheddin conquistano Khost, facendo più di 2000 prigionieri. Nei mesi seguenti, rafforzano le loro strutture militari e finanziarie, ricevendo supporto logistico ed economico da Iran e Pakistan. Novembre. Burhanuddin Rabbani guida una delegazione mujaheddin a Mosca per discutere di un possibile cessate il fuoco. All'incontro partecipano anche rappresentanti dell'Ucraina, dell'Uzbekistan, del Tagikistan e del Kazakhstan. Le parti si accordano per il trasferimento del potere a un governo islamico ad interim e per lo svolgimento di libere elezioni entro 2 anni. Alcuni leader mujaheddin, tra cui Gulbuddin Hekmatjar del partito Hebz-e-Islami, accusano però Rabbani di cospirazione con Mosca. 8 dicembre. L''uRSS cessa di esistere. Al suo posto nasce la Comunità di Stati Indipendenti (CIS). 1992 Aprile-giugno. Kabul è presa dai mujaheddin. Dopo giorni confusi e sanguinosi scontri intestini alle forze ribelli, si costituisce un governo di coalizione sotto la guida di Burhanuddin Rabbani. Vi entrano rappresentanti dei 7 partiti della guerriglia. Ahmad Shah Massud viene nominato ministro della difesa. 1993 Aspri combattimenti fra le truppe fedeli a Rabbani e gli uomini di Gulbuddin Hekmatjar provocano almeno 10 mila morti. 1994 8 gennaio. Il generale uzbeko Abdur Rashid Dostum si allea con Hekmatjar, suo storico avversario. Insieme attaccano Kabul per rovesciare il governo di Rabbani e Massud. 30 marzo. Tentativo dell'ONU di mediare tra le fazioni mujaheddin. L'inviato delle Nazioni Unite, Mehmud Mestiri, incontra a Jalalabad i membri della Shura, o Consiglio degli Anziani. 12 agosto. Robin Raphel, vicesegretario di stato USA, puntualizza la posizione americana: "largo governo di coalizione" e ritorno di re Zahir Shah. 28 ottobre. Il primo ministro pakistano, Benazir Bhutto, incontra ad Ashkhabad il leader sciita Ismael Khan e Dostum.
4 novembre. Un gruppo di guerriglieri assalta nei pressi di Kandahar un convoglio di 30 camion pakistani diretto in Asia centrale. Nello scontro perdono la vita 20 persone. I taliban (letteralmente "studenti di teologia coranica"} compaiono per la prima volta sulla scena come gruppo armato che dichiara di proteggere la libertà di traffico e di transito in Afghanistan. 5 novembre. Kandahar viene presa dai taliban: 50 morti in 4 giorni di combattimenti. 25 novembre. I taliban prendono il controllo di due province del sud, lashkargarh e Helmand. 1995 1 gennaio. Una colonna di 3000 guerriglieri islamici pakistani parte da Peshawar per l'Afghanistan e si unisce ai taliban. 2 febbraio. I taliban entrano nella provincia di Wardak, a 25 miglia da Kabul. 11 febbraio. I taliban prendono anche la provincia di Logar e hanno ormai 9 province su 30. Rabbani invia una delegazione per incontrarli. 14 febbraio. I taliban conquistano Charasyab, quartier generale degli uomini di Hekmatjar. Hekmatjar si ritira senza combattere. 6 marzo. Le fanterie di Rabbani e Massud attaccano le forze dello Shii Wahdat (hazarà), annidate nella periferia sud-ovest della città di Kabul. 7 marzo. L'avanzata investe Nimroz, Farah, verso Herat. Un'altra avanzata dei taliban verso Kabul, mentre le forze delle tribù hazarà si ritirano. 13 marzo. Il leader hazarà, Abdul Ali Mazari, catturato dai taliban, muore in un misterioso incidente aereo mentre viene trasferito a Kandahar. Proseguono intanto gli scontri tra i Taliban e le truppe di Massud. 31 maggio. Il capo dei servizi segreti sauditi, principe Turld, visita Kabul e Kandahar. 10 giugno. Tutte le maggiori agenzie umanitarie decidono di chiudere le loro operazioni di soccorso ai profughi afghani in Pakistan entro ottobre. 2 luglio. L'inviato personale e nipote di Zahir Shah, Sardar Abdul Wali, incontra a Islamabad il presidente pakistano Leghari. 3 agosto. Un Ilyushin-7° russo, che i taliban affermano trasportare munizioni per il governo di Kabul, viene catturato dai taliban e dirottato su Kandahar.
5 settembre. Dopo mesi di combattimenti, Herat cade nelle mani dei taliban. Il leader sciita Ismail Khan, luogotenente di Rabbani nella città, fugge in Iran. All'ONU, il ministero degli esteri di Rabbani accusa il governo pakistano di "aggressione diretta" per il sostegno fornito ai taliban nella presa di Herat. 6 settembre. L'ambasciata pakistana a Kabul è data alle fiamme dagli uomini di Massud. L'Iran mette in guardia i taliban dal varcare la frontiera. 20 settembre. I taliban inviano un ultimatum di 5 giorni a Rabbani perché lasci Kabul. 1 O ottobre. I taliban spostano 400 carri armati da Kandahar verso Kabul. 2 novembre. Il vicesegretario di stato USA, Robin Raphel, arriva in Afghanistan per colloqui con le diverse fazioni. Andrà anche a Islamabad. 7 novembre. Il ministro degli esteri pakistano, Sardar Aseef Ahrned, vola segretamente nel nord dell'Afghanistan per un colloquio cruciale con Dostum. I due concordano che le dimissioni di Rabbani sono la condizione per il ritorno della pace in Afghanistan. 10-11 novembre. Il premier pakistano, Benazir Bhutto, si reca in visita d'urgenza a Teheran e Tashkent per spiegare la posizione pakistana ai due governi. 11 novembre. Attacco con razzi su Kabul: 36 morti e 52 feriti. 26 novembre Bombardamento senza precedenti dei taliban su Kabul: 39 morti e 140 feriti. Le truppe governative riescono tuttavia a respingere l'offensiva taliban. 1996 7 febbraio. Dostum incontra a Islamabad i leader pakistani, incluso il capo dello stato maggiore, generale jahangir Karamat. 3 marzo. Rabbani visita l'Iran, il Turkmenistan e l'Uzbekistan. 20 marzo. La Shura dei taliban invita il popolo afghano alla Jihad (guerra santa) contro il presidente Rabbani. Il maulvi Mohammad Omar è proclamato condottiero dei taliban. 8 aprile. Il senatore americano Hank Brown arriva a Kabul. È il primo rappresentante americano eletto a visitare l'Afghanistan negli ultimi 10 anni. 20 aprile. Robin Raphel visita Kabul per la seconda volta per convincere le fazioni a un accordo tra loro.
26 giugno. Hekmatjar entra nel governo di Rabbani e ne diventa primo ministro. 11 settembre. Jalalabad cade sotto il controllo dei taliban. 25 settembre. i taliban conquistano Sarobi e Assadabad. 26 settembre. Da Sarobi i taliban muovono verso Kabul e la conquistano nella notte. Il presidente Rabbani e il primo ministro Hekmatjar fuggono. L'ex presidente Najibullah viene impiccato a un lampione. Mohammad Omar è nominato capo di un consiglio provvisorio formato da 6 membri. Iran, India, Russia e altri Paesi dell'Asia centrale condannano l'azione. Il Pakistan invia una delegazione a Kabul. 28 settembre. L'amministrazione americana esprime "rammarico" per l'esecuzione di Najibullah, ma si dichiara disposta a stabilire relazioni con il nuovo regime. I taliban intanto continuano ad avanzare verso il nord del Paese. 4 ottobre. Un summit della CIS, riunito d'urgenza ad Alma Ala (Kazakhstan), mette in guardia i taliban da eventuali incursioni nell'area. Il Pakistan conferma il riconoscimento dei taliban. 6 ottobre. Massud respinge un'offensiva dei taliban sulla valle del Panshir. 9 ottobre. Dostum e Rabbani si incontrano e si abbracciano nei pressi di Mazar-iSharif. Dostum, Massud e Karim Khalili (partito Hezb-i- Wahadat) siglano un patto di alleanza e costituiscono il Consiglio Supremo per l'Afghanistan. 24 ottobre. Il maulvi Mohammad Omar dichiara: "Combatteremo fino alla morte e daremo l'ultima goccia del sangue per Kabul". 2 novembre. L'Organizzazione della Conferènza Islamico decide di lasciare vacante il seggio dell'Afghanistàn. 1997 Gennaio. I taliban strappano a Massud la base di Baghram, Charikar e la cittadina di Gulbahar. Febbraio. Una delegazione taliban visita gli Stati Uniti. 19 maggio. Il generale Malik Pahlawan insorge contro Dostum e dichiara di volersi alleare con i taliban. 24 maggio. I taliban entrano a Mazar-i-Sharif, impongono la Sharia (la legge religiosa islamica) e chiudono le scuole femminili.
26 maggio. Il Pakistan riconosce il governo dei taliban. Falliscono i colloqui con Malik e ricominciano i combattimenti. 12-15 giugno. Rabbani si incontra con Malik a Mazar-i-Sharif e l'opposizione antitalibana da vita all'Alleanza del Nord. I combattimenti nei pressi di Mazar-i-Sharif si susseguono con esiti alterni fino alla fine dell'anno. 19 luglio. Massud riprende Baghram e Charikar. 7 agosto. La Croce Rossa Internazionale afferma che 6800 persone sono rimaste uccise negli ultimi 3 mesi. 16 agosto. L'Alleanza del Nord nomina un governo ombra. 4 settembre. Il maulvi Mohammad Rabbani, uno dei massimi dirigenti taliban, si reca in Arabia Saudita, dove a jeddah riceve promesse di aiuti da re Fahd. Accusa inoltre Iran, Russia e Francia di aiutare Massud. 16 novembre. Le truppe di Dostum dichiarano di avere scoperto 30 fosse comuni, nei pressi di Shebarghan, contenenti circa 2000 cadaveri di miliziani taliban. 18 novembre. Madeleine Albright, a Islamabad, definisce "deplorevole" la politica dei taliban in materia di diritti umani. 17 dicembre. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU condanna i rifornimenti di armi da parte di eserciti stranieri alle fazioni afghane e invita le parti a. cessate il fuoco. 1998 Febbraio. Un violento terremoto causa più di 4000 vittime e danni ingenti nella regione nordorientale del Paese, al confine con il Tagikistan. La regione è nelle mani delle forze di opposizione al regime dei taliban. 14 marzo. Intensi combattimenti a Mazar-i-Sharif tra uzbeki e hazarà. 17 aprile. Bill Richardson, inviato speciale americano, visita Kabul e Mazar. 17 maggio. Caccia taliban bombardano pesantemente Taloquan: 31 morti e 100 feriti. Forti combattimenti a nord di Kabul. 3 luglio. Il summit dei 5 Paesi dell'Asia centrale, riunito ad Alma Ata, fa appello alle parti perché cessino la guerra. 9 luglio. Un aereo dell'ONU viene colpito da un razzo a Kabul, il maulvi Omar mette al bando la televisione e annuncia la deportazione dei cristiani e punizioni per i comunisti.
18 luglio. L'Unione Europea sospende tutti gli aiuti umanitari a Kabul per le inaccettabili restrizioni cui è sottoposto il suo personale. 31 luglio. Leader taliban visitano la madrassa di Dar-ul-Uloom Haqqania e Akora Khattak in Pakistan, richiedendo urgenti afflussi di rinforzi. Cinquemila studenti pakistani partono alla volta dell'Afghanistan per unirsi alle truppe taliban. 7 agosto. Le ambasciate USA in Kenia e Tanzania saltano in aria: i morti sono centinaia. Gli americani ritengono che il responsabile degli attentati sia Osama binLaden, un miliardario saudita che sostiene anche finanziariamente i taliban. 8 agosto. I taliban riconquistano Mazar-i-Sharif uccidendo 11 diplomatici iraniani e un giornalista. Massacro di migliaia di hazarà. Altre migliaia in fuga dalla città. 18 agosto. L'ayatollah Ali Khamenei accusa Stati Uniti e Pakistan di usare i taliban come strumento anti-iraniano. Il leader talibano Omar dichiara che i suo governo darà asilo a Osama bin-Laden. 20 agosto. Gli Stati Uniti lanciano 75 missili Cruise sui campi di Jalalabad e di Khost, che sarebbero al comando di Osama bin-Laden: 21 morti e 30 feriti. 20 settembre. Massud bombarda Kabul con razzi: 65 morti e 215 feriti. 27 settembre. I taliban inviano 30 mila uomini al confine con l'Iran per fronteggiare imponenti manovre militari di Teheran. 2 ottobre. Aerei e carri iraniani violano lo spazio aereo e terrestre dell'Afghanistan nei pressi di Herat. La controversia si risolve tuttavia in pochi giorni con il rilascio dei prigionieri iraniani catturati dai taliban. 13 novembre. Mohammed Akbari, capo della fazione Hizb-e-Waha- dat, si arrende ai taliban a Bamiyan. 1 dicembre. I taliban sparano sugli studenti universitari a Jalalabad: 4 morti e 6 feriti. 29 dicembre. L'UNICEF denuncia il totale collasso del sistema educativo afghano. 1999 12 gennaio. Grave attentato, a Peshawar, alla famiglia dell'ex leader dei mujaheddin Abdul Haq. 31 gennaio. La prima delegazione cinese arriva a Kabul per colloqui.
9 febbraio. Il governo di Kabul respinge una lettera formale degli Stati Uniti in cui si richiede di consegnare Osama bin-Laden. Kabul dichiara che Osama bin-laden sarà sottoposto a restrizioni, ma non consegnato. 3 marzo. Il ministro degli esteri del Turkmenistan, Sheikhmuradov, visita per la prima volta Kandahar e viene ricevuto dal maulvi Omar. 7 aprile. Il ministro della difesa russo, Sergeev, incontra Massud a Dushanbè. La Russia annuncia la costruzione di una base militare in Tagikistan. 29 aprile. Taliban, Turkmenistan e Pakistan firmano un nuovo accordo per la costruzione di un gasdotto attraverso l'Afghanistan. Mancano i finanziamenti, ma si dichiara che verranno bene accolti. 14 maggio. Gli Stati Uniti diffidano ufficialmente il Pakistan dal dare aiuto ai taliban. Washington dichiara nuovamente il suo favore per un ritorno a Kabul di Zahir Shah, che si trova in esilio a Roma. 22 maggio. I taliban individuano una potenziale rivolta a Herat. Otto congiurati vengono giustiziati in pubblico. Un altro centinaio di nemici sono uccisi. 20 giugno. Zahir Shah convoca a Roma 70 delegati afghani per organizzare una Conferenza degli Anziani (la Loyajirga, tradizionale strumento istituzionale per risolvere i conflitti interni), ma i taliban rifiutano la sua mediazione. 6 luglio. Gli USA impongono sanzioni economiche e commerciali al governo dei taliban e congelano i loro patrimoni finanziari. I taliban si preparano intanto a un'offensiva estiva contro le truppe di Massud; migliaia di giovani arabi e pakistani si uniscono a loro. 1 agosto. Comincia l'offensiva estiva e Baghram cade in mano taliban. 2 agosto. I taliban conquistano Charikar, Massud si ritira nella sua vallata. Duecentomila persone fuggono dalla valle di Shomali. 5 agosto. Massud riprende Charikar e spinge i taliban sulle precedenti posizioni: 40 taliban sono uccisi e 500 catturati. 24 agosto. Attentato vicino alla casa del maulvi Omar a Kandahar: una bomba uccide 40 persone, tra cui alcuni parenti stretti di Omar. 10 settembre. Le Nazioni Unite calcolano che la produzione di oppio in teritorio afghano si sia raddoppiata, raggiungendo le 4600 tonnellate. Il 97% delle coltivazioni è sotto controllo taliban. 12 ottobre. Un colpo di stato militare in Pakistan rovescia il governo di Nawaz Sharif.
15 ottobre. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU vota a favore dell'imposizione di sanzioni contro il regime di Kabul se entro 30 giorni i taliban non consegneranno Osama bin-Laden agli Stati Uniti. 11 novembre. Centinaia di persone scendono in piazza nelle maggiori città afghane per protestare contro le sanzioni dell'ONU e chiedere il sostegno dei Paesi islamici. Contemporaneamente esplode in Pakistan la protesta antioccidentale degli integralisti islamici, che sfocia in una serie di gravi attentati. 14 novembre. Le sanzioni dell'ONU diventano operative. 2000 Gennaio. Aereo indiano dirottato a Kandahar. 13 marzo. Un giornale indiano rivela che Osama bin-Laden sarebbe gravemente malato. Aprile. Le forze di opposizione al governo dei taliban tentano di ricostituire l'Alleanza del Nord in funzione antitaliban. I generali Dostum, Massud e Malik si incontrano grazie alla mediazione dell'Iran. Maggio. I taliban lanciano un'offensiva a largo raggio contro le forze dell'opposizione afghana. La ripresa dei combattimenti interrompe il piano di scambio di 4000 prigionieri approvato nei mesi precedenti e un preventivato incontro per i colloqui multilaterali di pace, patrocinati entrambi dall'Organizzazione della Conferenza Islamica. Secondo i dati ONU la produzione di oppio in Afghanistan ha raggiunto cifre record, superiori alle 4800 tonnellate. La superficie coltivata è cresciuta del 23%. 11 luglio. Attentato a Kabul contro l'ambasciata pakistana. Altre 5 bombe esplodono nella capitale danneggiando i ministero dell'informazione, un deposito di carburante e un albergo del centro. 13 luglio. Massud lancia una controffensiva militare, ma la reazione dei taliban si dimostra più efficace del previsto. L'ex presidente Rabbani lamenta lo scarso sostegno all'alleanza antitaliban da parte della comunità internazionale. 17 luglio. Un'ondata di siccità colpisce le regioni occidentali e meridionali del Paese. Migliaia di profughi si rifugiano in Pakistan e Iran. Settembre. La diplomazia italiana tenta una mediazione tra l'Alleanza del Nord e i taliban e si impegna a devolvere un fondo di 4 milioni di dollari da destinare a progetti di sviluppo su entrambi i fronti.
1 ottobre. Una delegazione dei taliban è ricevuta a Washington al Dipartimento di Stato. Novembre. Dopo una lunga opera di mediazione compiuta dall'inviato speciale dell'ONU in Afghanistan, Francisc Vendrell, i taliban e l'opposizione dell'Alleanza del Nord firmano un impegno a partecipare entro dicembre a una serie di colloqui di pace indiretti. Il 21 novembre, tuttavia, Stati Uniti e Russia chiedono l'inasprimento delle sanzioni contro i taliban. Le organizzazioni umanitarie mettono in guardia le Nazioni Unite dai rischi dell'imposizione di ulteriori sanzioni, che causerebbero soltanto maggiori sofferenze alla popolazione civile già duramente provata. 10 dicembre. I taliban minacciano di boicottare i previsti colloqui di pace. 19 dicembre. il Consiglio di Sicurezza dell'ONU adotta una risoluzione, sostenuta principalmente da Stati Uniti, Russia e India, per l'inasprimento delle sanzioni contro l'Afghanistan se i taliban non consegneranno entro 30 giorni Osama bin-Laden, non smobiliteranno i campi di addestramento per i terroristi islamici e non cesseranno ogni commercio illegale di sostanze stupefacenti. 2001 19 gennaio. Entrano in vigore le nuove sanzioni dell'ONU contro il regime dei taliban. Febbraio. Un'ondata di freddo causa un terribile disastro umanitario: muoiono assiderati nei campi, fuori e dentro il Paese, centinaia di vecchi e di bambini. 20 febbraio. Secondo notizie raccolte da Human Rights Watch, i taliban avrebbero massacrato oltre 500 civili nell'assalto di Yakawlang. 28 febbraio. L'ambasciatore di Kabul in Pakistan, Abdul Salam Zaeef, conferma che il suo governo ha deciso la distruzione dei Buddha di Bamiyan, capolavori dell'arte ellenistico-orien-tale fiorita nel Paese prima dell'islamismo. 27 marzo. Un gruppo di giornalisti occidentali è ammesso nella valle di Bamiyan per certificare l'avvenuta demolizione delle statue. 5 aprile. Massud viene ricevuto a Strasburgo. 19 maggio. La polizia religiosa chiude a Kabul le panetterie del PAM (Programma Alimentare Mondiale) dove lavorano donne. 19 maggio. La polizia religiosa irrompe nell'ospedale di Emergency a Kabul. 23 maggio. Diventa legge l'ordinanza che impone agli indù di portare sugli abiti un segno distintivo.
3 RACCONTI DI UN VIAGGIO IN AFGHANISTAN di Giulietto Chiesa e Vauro
I reportages, variamente rielaborati, sono apparsinel periodo febbraio-maggio 2001 su "La Stampa", "Il Manifesto" e "Linus"
IL CORAGGIO SOTTO IL BURQA di Vauro Islamabad, venerdì 2 febbraio 2001.
Marian ha 21 anni, i suoi gesti sono sicuri e pacati. Zoia invece è vivace come lo sguardo mobilissimo dei suoi occhi neri. Eppure il marchio invisibile sui loro volti è impresso indelebilmente nelle loro storie, come una cronologia della tragedia dell'Afghanistan: il padre di Marian ucciso dai russi vicino a Kabul al tempo dell'invasione sovietica, il padre e la madre di Zoia morti entrambi nel 1993, vittime di uno scontro a fuoco tra opposte fazioni di mujaheddin "liberatori" nella Kabul "liberata". Zoia e Marian fanno parte del RAWA (Revolutionary Association of Women of Afghanistan). Zoia racconta: "Il RAWA è nato in Afghanistan nel 1977 come movimento di donne che lottavano per la loro emancipazione in una società dominata dagli uomini, ma anche come movimento politico per una rivoluzione socialista". Quale rivoluzione? Quella importata dai carri armati sovietici? Quella dei taliban? Zoia ha un moto di irrigidimento: "La nostra rivoluzione, da noi stesse, per noi stesse". Eppure con il governo di Najibullah e addirittura sotto l'invasione russa le donne afghane potevano studiare, uscire a viso scoperto... "Najibullah era solo un pupazzo dei russi", interrompe dura Marian. Poi ritrovando un sorriso riprende: "Se a Mosca pioveva lui apriva l'ombrello a Kabul". Zoia è ancora più drastica e non sorride affatto: "Se permettevano alle donne di frequentare l'università era per trasformarle in spie al loro servizio e anche in puttane, i russi offendevano profondamente il sentimento religioso della mia gente". Sentimento religioso? Ma se proprio quelli che si sono nominati custodi di quel sentimento religioso, i taliban, hanno imposto una delle più feroci oppressioni delle donne che la storia abbia mai visto? Zoia ripropone le sue certezze: "I fondamentalisti sono falsi religiosi, se li sono inventati gli americani e il Pakistan ha inventato i taliban che servono solo interessi stranieri". E l'alleanza del nord, i mujaheddin di Massud? "Uguali ai taliban, criminali come loro, l'unica differenza è che hanno padroni diversi". Le Nazioni Unite hanno imposto le sanzioni al governo dei taliban, "ma noi siamo contro le sanzioni, perché sono a senso unico: perché solo ai taliban e non a Massud?". "Le sanzioni - interviene Marian - non colpiscono i taliban che hanno molti modi di finanziarsi, per lo più illegali. Le sanzioni peseranno solo sulla nostra gente, aggiungeranno miseria a miseria, fame a fame". È proprio la fame, forse, più della guerra civile a riempire i campi profughi di Peshawar, in Pakistan: un milione e 200 mila rifugiati, una cifra che può dare la dimensione di questo esodo, ma che non può descrivere le condizioni di vita miserabili alle quali questa gente è condannata e che pure rappresentano un progresso rispetto a
quelle dentro l'Afghanistan, una speranza per chi vorrebbe fuggire dal Paese. Da novembre le frontiere del Pakistan sono chiuse e altri campi sono sorti dentro i confini dello stesso Afghanistan, campi fatti solo di corpi dove anche una tenda è un privilegio. La notte tra il 2 e il 3 febbraio a Herat la temperatura è scesa a -25 gradi, 110 di questi corpi - corpi di donne, corpi di bambini, corpi di vecchi - non si sono più rialzati, uccisi dal gelo. E cancellati anche dalla conoscenza e dalla coscienza dell'Occidente. Nel 1979, quando la guerra in Afghanistan era anche il teatro dello scontro tra le due superpotenze, l'URSS e gli USA, i riflettori delle "istituzioni umanitarie" illuminavano almeno a tratti quel dramma: l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati aveva stanziato 23 milioni di dollari di aiuti. Poi i riflettori si sono spenti. Nel 2000 gli stanziamenti dell'Alto Commissariato dell'ONU si sono ridotti a 2 milioni di dollari. Zoia, Marian e le donne del RAWA vivono tutti i giorni la realtà dei campi profughi: "Organizziamo scuole per le donne e per i bambini. Portiamo un minimo soccorso sanitario - dice Marian -, siamo impegnate con tutte le nostre risorse a tentare di rendere più umane le condizioni di vita nei campi, specialmente per le donne sulle quali oltre alla miseria continua a pesare l'oppressione del fondamentalismo religioso". Quali risorse? "I fondi che raccogliamo da persone e gruppi che all'estero conoscono il nostro impegno - risponde Zoia. I soldi che ricaviamo dalla vendita dei tappeti, tessuti a mano dalle nostre donne. Quando la polizia pakistana non chiude i nostri conti postali come è successo da poco. Siamo considerate un rischio dalle autorità pakistane, e delle criminali dai fondamentalisti; il pericolo di essere arrestate e picchiate è continuo. Eppure il 10 dicembre a Islamabad siamo riuscite a scendere in piazza con più di duemila donne contro il fondamentalismo; la manifestazione è stata attaccata dagli integralisti incoraggiati dall'indifferenza della polizia, ma è riuscita". Con orgoglio conclude che: "Circa duecento di quelle donne erano venute apposta dall'Afghanistan per parteciparvi". Dall'Afghanistan? "Andiamo e veniamo dall'Afghanistan. Anche là noi del RAWA istituiamo scuole clandestine nelle case private, facciamo propaganda, organizziamo le donne: siamo riuscite così a portarle anche alla manifestazione a Islamabad". Sotto il naso dei taliban? Zoia si apre in un sorriso divertito: "Il burqa, la veste che copre interamente il volto e il corpo delle nostre donne, proprio il burqa che i taliban ci hanno imposto come strumento di negazione e di umiliazione, è il nostro passaporto. Sotto il burqa siamo tutte uguali, alla frontiera non ci possono guardare in faccia e quindi non riescono a identificarci. Sotto il burqa facciamo entrare libri e pubblicazioni. Ci vogliono come i fantasmi? I fantasmi possono oltrepassare i muri. Figuriamoci le frontiere". Quando raccontano, le voci di Marian e di Zoia si riempiono di colore. Perdono la piattezza delle risposte alle prime domande, angustamente politiche, e acquistano la concretezza e la fantasia di chi trova e spende la dimensione politica nella realtà di tutti i giorni, accettando il rischio dell'ingenuità; come quando mi dicono di contare sul vecchio re Zahir Shah come punto di riferimento per la costituzione di un consiglio di governo nazionale che le comprenda ma escluda tutti i fondamentalisti. Quel re, che vive a Roma, nemmeno sa dell'esistenza del RAWA.
Davvero siete convinte che la vostra azione possa qualcosa contro il potente intreccio di interessi che strangola l'Afghanistan, contro una condizione che trova radici in tradizioni secolari? "Se non fossimo certe che la situazione può cambiare, almeno per le future generazioni di donne, non ci resterebbe che il suicidio". No, donne come Zoia e Marian non si suicideranno.
KABUL
ARRIVO A KABUL di Giulietto Chiesa
L'immensa conca, un cratere lunare di 100 chilometri di diametro, a 1800 metri d'altezza, è coperta di neve. Attorno, vette ripide innevate s'innalzano oltre i 3000 metri. Le loro lunghissime ombre sono adagiate come spade nere sulla pianura color ocra chiazzata di bianco. L'aereo delle Nazioni Unite, un piccolo bimotore, scende veloce sulla pista nera scavata tra due onde bianche di ghiaccio. Ricordo altri atterraggi su questa pista, a bordo di Tupolev e Ilyushin partiti da Dushanbé o Tashkent. Gli aerei sovietici arrivavano allora altissimi sulla conca - lontane, all'orizzonte, le vette dell'Indukush e quelle dell'Himalaya - e poi scendevano, velocissimi da togliere il fiato, in cerchi verticali stretti per tenersi lontani dai fianchi delle montagne, da dove poteva partire ad ogni istante uno Stinger made in USA, lanciato da uno qualunque dei gruppi di mujaheddin allora onnipresenti, incombenti come indici inesorabili di un tremendo errore politico e storico. Era la guerra contro gli shu-ravy, i sovietici senza Dio. Il cielo, dietro e sotto le ali, era una fantasmagoria di coriandoli caldi e luminosi. Traiettorie preziose: per stornare i missili, per attirarli con i loro fuochi lontano dalle fusoliere degli aerei; fuochi d'artificio dettati dalla paura che attanagliava tutti, equipaggi e passeggeri. Adesso tutto è diverso e irriconoscibile. Niente cerchi concentrici, niente razzi termici. La guerra sembra lontana, assente. Eppure prima ancora di toccare terra sentiamo che essa c'è e non è lontana. Un'altra guerra. Ma i giornali di Islamabad, da cui siamo appena partiti, descrivono anzi qualcosa di peggio d'una guerra: una catastrofe umanitaria così enorme da rendere inevitabile chiedersi com'è possibile che non ne sapessimo nulla, o quasi nulla, perfino noi che, per professione, dovremmo almeno saperne qualcosa. Ma che razza di villaggio globale è quello in cui viviamo? "Ehi, buongiorno cari passeggeri! Ma, in confidenza, che ci andate a fare in quell'inferno?". Lo spiritoso pilota danese del bimotore dell'ONU aveva salutato così gli otto passeggeri, tra cui due giornalisti e gli altri tutti membri di organizzazioni umanitarie e funzionari di agenzie delle Nazioni Unite. Domanda tanto legittima da apparire sarcastica. Le agenzie dell'ONU lanciano appelli a donatori sempre più avari e insensibili, ma non è affatto chiaro come vengono spesi i pochi denari che arrivano. A Islamabad sono ancora concentrate tutte le organizzazioni umanitarie per l'Afghanistan. Molto strano. Tutti sanno che i più ostinati, insistenti attacchi alla sovranità e alla pace dell'Afghanistan sono venuti e vengono da influenti circoli politici ed economici pakistani. Non sarebbe tempo di
rivedere questa situazione? I profughi dall'Afghanistan verso il Pakistan stanno aumentando. Negli ultimi mesi, anche dopo la chiusura della frontiera pakistana, il 9 novembre scorso, nei campi attorno a Pe-shawar sono arrivate 150 mila persone, in gran parte donne e bambini. Altre centinaia di migliaia si stanno muovendo dentro l'Afghanistan, verso est e nord, nella disperata ricerca di caldo, di cibo, per sopravvivere. Non è solo la guerra che continua, è l'effetto delle sue distruzioni irreversibili che segnala un collasso definitivo dello stato e della società afghana. Significa che nemmeno la relativa pacificazione prodotta dalla conquista del potere sul 90 per cento del territorio - si dice, ma chi può misurarlo? - da parte dei taliban riesce a dare risposta al problema della sopravvivenza per milioni di derelitti intrappolati - o addirittura nati e da sempre vissuti - in questo buco nero. L'aeroporto di Kabul è ormai un cimitero di carcasse d'aerei. Sulle piazzuole due Antonov della Ariana Airlines ricoperti di teli, ancora in funzione per radi voli interni di personaggi autorevoli. Mentre atterriamo sono in partenza, già con i motori accesi, due aerei della Croce Rossa Internazionale. Portano via stranieri bene imbacuccati e frettolosi. Nessun passeggero locale. Le guardie di frontiera non hanno divise, si riconoscono dai turbanti neri. Non ci sono divise in Afghanistan, almeno quelle cui siamo abituati nel resto del mondo e che servono a distinguere i soldati dai civili. I turbanti neri scrutano sospettosi passaporti e visti, senza sorrisi. Gli stranieri non suscitano entusiasmo, sono intrusi di cui si farebbe volentieri a meno. Sulla pista, accompagnati da un rumore assordante, sbucati da chissà quale hangar, sfrecciano uno dopo l'altro due vecchi Mig 21. Vanno a bombardare da qualche parte i caposaldi di Ahmad Shah Massud, l'unico rimasto a contrastare il potere degli "studenti pii" che da cinque anni comandano a Kabul e che sono ancora circondati di mistero. Come il loro capo, il maulvi Mohammad Omar, che se ne sta gran parte del tempo a Kandahar e che si dice abbia perduto l'occhio destro combattendo contro i sovietici quando militava nel partito Hezb-i-Islami di Yunus Khales, una delle sette fazioni dei mujaheddin che ora gli sono nemiche. Di Mohammad Omar si sa quasi nulla. Non è mai stato intervistato da un giornalista occidentale, non ci sono fotografie che lo ritraggano. Della Shura, o Consiglio, che governa Kabul sono pochi i personaggi esposti pubblicamente: interni, informazione, affari sociali, esteri, pochi altri. La loro età media è di circa 35 anni. Quando conquistarono Kabul, la notte tra il 26 e il 27 settembre 1996, erano quasi tutti dei trentenni. Si è detto e scritto che erano capi di moltitudini emerse e formate dalle poverissime madrassas, le scuole religiose islamiche fiorite in Pakistan tra i profughi pushtun afghani e tra i pashtun che il destino (e la "Linea Durand" dei colonialisti inglesi) volle restassero nei confini poi divenuti pakistani. Ma restano troppe cose da spiegare. Ad esempio come da scuole coraniche molto primitive e povere siano usciti migliaia di combattenti bene addestrati, e di come dalla povertà siano emerse armi moderne e in grande abbondanza. C'è più che un sospetto che, dietro le mitologie create attorno ai taliban, vi sia anche, se non soprattutto, la concretissima azione di finanziamento e addestramento militare attuata dal Corpo di Frontiera e dai distaccamenti scelti di commandos dell'esercito pakistano, sotto la supervisione del generale Naseerullah Babar, ex ministro dell'interno nel governo di Benazir Bhutto.
Ma ora, passato il tempo, molte cose si sono sedimentate. Quel disegno - di assoggettare l'Afghanistan sotto protettorato pakistano - risulta al tempo stesso sbiadito e pericoloso. Quei trentenni si stanno rivelando non all'altezza dei compiti loro assegnati. Il principale dei quali era di unificare il Paese sotto un potere certificabile, per rendere l'Afghanistan transitabile, senza troppi rischi, ai colossali flussi di petrolio e di gas del Mar Caspio. Altri compiti non erano stati loro assegnati. Non era loro compito quello di ricostruire, di avviare una qualche rinascita. E, infatti, non lo stanno facendo. C'è più d'un segnale che non sappiano come farlo, o che non vogliano. Così, chiusi in angolo, minacciano di diventare scomodi anche per i loro mentori. La tremenda crisi afghana rischia di debordare in Pakistan, come un boomerang. Osama bin-Laden, ex agente della CIA, dichiara guerra agli Stati Uniti dal territorio dell'Afghanistan. Delta Oil, Unocal e altri giganti petroliferi statunitensi, che hanno tenuto bordone, forse non gradiscono questi sviluppi, certo scomodi. E, dentro il territorio afghano, si addestrano a future diversioni (o come merce di scambio per futuri negoziati) gruppi guerriglieri islamici che puntano alla destabilizzazione dei nuovi regimi post-comunisti in Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizia. Anche la Cina ha qualche cosa da temere. E non è niente affatto lontana. Kabul pullula di strani arabi, di ceceni mascherati da arabi, di tagiki mascherati da taliban. Sia l'Hezb-i-Takhrir (Partito Islamico di Liberazione) della Kirghizia, sia il Movimento Islamico di Uzbekistan, entrambi illegali in patria, trovano aiuto e rifugio nell'Afghanistan dei taliban. Gli interessi petroliferi occidentali, che puntano ad aprire il passaggio, attraverso Afghanistan e Pakistan, delle risorse energetiche del Caspio, bypassando la Russia e l'Iran, non sono ancora stati soddisfatti. L'immensa partita per il controllo delle vie della droga, che s'incrociano in Afghanistan, è ancora tutta aperta e vale 30 miliardi di dollari all'anno. Faccio un giro per le vie di Kabul, dal centro fino al palazzo reale di Darulaman, poi lungo la via Maiwand, un tempo perla dei ricchi commerci di tutta l'Asia centrale, fino al Forte di Baia Hissar. Sono tutti ex luoghi, che conservano soltanto il loro nome. Paesaggi lunari di una città distrutta. Dall'ottobre 1996, quando vi giunsi, meno d'un mese dopo la vittoria dei taliban sul dilaniato governo di Burhanuddin Rabbani, non è cambiato nulla, non una casa è stata ricostruita, non una strada asfaltata. Eppure nel frattempo, almeno a Kabul, non si è combattuto. Tutto è immobile. Anche l'andirivieni caotico e rumoroso della Maiwand, ora divenuta grande posteggio per autobus e camion, tra le macerie dei negozi di tappeti, dei caffè di un tempo, appare piuttosto come un regresso ai traffici medievali di scambio tra merci. Nemmeno esistono più (o forse sono rintanati altrove) i ricchi cambiavalute, simili agli antichi banchieri genovesi, dove si poteva spendere - perfino ai tempi sovietici - un assegno cartaceo, in lire, di una banca italiana. Ricostruire è difficile anche per chi volesse provarci. Non c'è più una fabbrica di cemento, né esistono materiali per l'edilizia diversi da quelli importati. Non c'è più nemmeno la grande fabbrica del pane, costruita da Daud prima che arrivassero i sovietici. Le uniche divise che ancora si vedono sono quelle, irrimediabilmente stinte, dei rari vigili urbani agli incroci principali ormai orfani di semafori. Qualcuno lo
riconosco ancora: vecchi questuanti ormai barbuti, come tutti gli altri, con i loro fischietti afoni, in attesa di qualche mancia. Le altre divise sono quelle del tristissimo esercito dei burqa: cappuccio che nasconde le donne da capo a piedi, per legge. Allo stadio, quasi ogni venerdì, si mozzano mani e dita e si frustano in pubblico i violatori delle leggi coraniche nell'interpretazione taliban. Qualche volta i giornali occidentali se ne ricordano e s'indignano. Mentre non si ricordano mai che le stesse cose, o quasi, accadono da sempre anche a Rijad. Due pesi e due misure, perché l'Arabia Saudita gode di ampie e ottime relazioni con tutto il nostro Occidente, così attento ai diritti umani. Lo ricordo non per regalare attenuanti ai taliban: solo per toglierne qualcuna a noi. Gli "studenti pii" sono il nuovo esercito, con i loro turbanti bianchi o neri. Sono tanti, gli unici cui è permesso portare armi. Stazionano dappertutto, silenziosi e spavaldi, come solo i provinciali che arrivano nella capitale possono essere. Ma i loro sguardi curiosi rivelano il complesso d'inferiorità, mescolato all'odio per la miserabile modernità che ancora Kabul riesce, suo malgrado, a offrire. Pattugliano le strade dentro macchine civili senza contrassegni, le punte dei kalashnikov che emergono dai finestrini. A pranzo, in uno dei pochissimi ristoranti ancora degni di questo nome, dopo essere transitati tra due ali di bambini e di burqa questuanti, il proprietario ci ricorda - e scongiura - di uscire in fretta prima dell'ora della preghiera. Prima cioè dell'arrivo della speciale milizia del Ministero della Virtù, a verificare che l'esercizio sia chiuso. I taliban non hanno letto Orwell e non gliene importerebbe nulla anche se sapessero che è esistito. Ma credo di capire, da questi piccoli dettagli, perché i profughi aumentino invece che diminuire, anche in assenza di operazioni belliche di grande portata. E non solo perché vanno in cerca di maggiori libertà. In queste condizioni l'Afghanistan non potrà risollevarsi, nemmeno mangiare. Il pilota aveva ragione: questo è un inferno. Creato da un destino infelice che ha messo l'Afghanistan in un crocevia dove s'intersecano troppi interessi. Da Karmal, creato dai sovietici, fino a Omar, creato da americani, sauditi e pakistani, continua l'antico gioco che da queste parti ricordano come buzkashi. Lo si gioca fin dai tempi di Genghiz Khan, non c'è limite al numero dei giocatori e si può entrare in gioco in qualsiasi momento. Un tempo si puntavano gli schiavi e i giocatori erano guerrieri a cavallo che potevano ucciderli sotto i loro zoccoli. Quelli che restavano vivi erano la posta. Ora l'Afghanistan è la posta, non importa se vivo o morto, in questo buzkashi a cavallo tra due secoli.
UNA CITTA' INVISIBILE di Vauro
È un piccolo aereo bimotore delle Nazioni Unite quello che ci porterà da Islamabad a Kabul. Ma qualche sedile resta comunque vuoto. Oltre a noi c'è solo qualche funzionario dell'ONU. Ride il pilota danese affacciandosi dall'abitacolo: "Vedo che anche oggi il nostro Kabul tour ha attirato un bel po' di turisti". Dall'oblò dell'aereo la terra sembra uniforme e monotona come il ronzio delle eliche. Poi, all'improvviso, le montagne. La neve sulle cime da un'impronta di sacralità al paesaggio. Le montagne ci accompagnano finché l'aereo non inizia la manovra di atterraggio nella grande conca di Kabul. L'aeroporto è innevato e semideserto. Appena scesi dall'aereo il vento gelato ci accoglie insieme ad un surreale silenzio rotto improvvisamente dal rombo di Mig in decollo per chissà quale missione di morte. Sagome scure di uomini, avvolte da coperte e col turbante, si muovono lente stagliandosi nella neve. Vicino alla pista lo scheletro contorto di una vecchia postazione radar russa si proietta inutilmente verso il cielo, accanto la carcassa di un camion militare sta perdendo la sua ultima battaglia con la ruggine, archeologia della guerra. Il terminal è un edificio grigio e basso. Al posto delle vetrate, fogli di plastica sporchi, o nulla. Un unico vetro è rimasto su per scommessa nonostante i fori di proiettile. Negli avvallamenti del pavimento l'acqua della neve sciolta entra dal tetto e fa pozzanghere. Dal soffitto, come liane, pendono cavi elettrici strappati. Il taliban che controlla i nostri passaporti è avvolto dal turbante e dalla coperta, colpiscono per contrasto con la folta barba scura i suoi bellissimi occhi verdi. Ha modi gentili, non da sbirro. Appena fuori dell'aeroporto un anacronistico cartello, rimasto in piedi chissà da quando, recita "Welcome to Kabul" con caratteri sbiaditi. Ma è la miseria a darti subito il benvenuto, i volti e le mani dei bambini che ti si aggrappano addosso per chiedere l'elemosina. Questa è la parte della città più vicina alla montagna, la più protetta dai razzi e dalle distruzioni, ma i segni della guerra ti saltano subito addosso come i bambini, come i bambini invadenti. Gli squarci nell'asfalto che nemmeno la neve riesce a ricoprire, i muri delle case basse massacrati di fori di schegge e proiettili. I buchi, come le finestre senza vetri. Ma più ci si avvicina al centro della città e più le macerie inglobano tutto: colori, odori, persone, movimento, vite. Le macerie non sono ovunque, le macerie sono tutto. Le vecchie case sono solo cumuli di mattoni di fango secco dai quali a volte spunta la sagoma di un pezzo di muro ancora in piedi, come una grottesca stalagmite. Altri edifici, quelli più moderni, si sono afflosciati su se stessi, i tetti di catrame, come brandelli di pelle secca, ne coprono in parte le ossa di cemento. Il colore delle macerie è un non colore, come un buco nero, che assorbe, risucchia tutti gli altri colori. Hanno il non colore delle macerie le montagne che circondano
Kabul. Le macerie si arrampicano alle loro pendici mostrando le orbite vuote di quelle che erano finestre, porte di povere case. Sembrano quasi mangiare la montagna, inglobarla nel loro magma di distruzione o, al contrario, sembra che la montagna richiuda in sé la conca di Kabul per nasconderne pietosamente lo scempio. Il bianco della neve non riesce a spiccare sul non colore, non copre niente con il suo manto, porta solo l'insulto del gelo. Non è una consolazione vedere come le strade, tra questi ammassi di ruderi, siano movimentate. Gli uomini avvolti nel patù (così si chiama la specie di coperta che dovrebbe proteggerli dal freddo) hanno il capo coperto da turbanti o da vecchi colbacchi dell'armata rossa, i volti scuriti dalle lunghe barbe. Nascosti dal burqa sono i volti e i corpi delle donne, lenzuoli informi che spesso avvolgono anche i bambini che portano in braccio. Così pare che Kabul, la città che non ha più un volto, abbia voluto privarne anche i suoi abitanti. Il silenzio assordante delle macerie è più forte del rumore del traffico di auto gialle, dei vecchi taxi mezzi scassati e dei potenti fuoristrada dei taliban, che pure tentano di invadere quelle che erano strade. Vigili urbani dalle barbe lunghe e con divise rattoppate completano la parodia di caos urbano, una triste imitazione di fermento, di vita quotidiana. Nell'area del bazar baracche di lamiera e di cartone sono cresciute come mutte attaccate ai mozziconi di mura, ai moncherini di metallo contorto dei pali della luce, le mercanzie esposte non si distinguono dai rottami che le circondano. Non basta il colore dei mandarini né l'odore delle spezie a far rivivere, nemmeno lontanamente, il fascino di un mercato orientale. La polvere della distruzióne rende tutto opaco, uniforme. Non basta nemmeno la folla di persone che si aggira nel bazar a dargli una pennellata di vitalità. Si muovono, si spostano ma non sembrano animate, in attività, in fermento. Sembrano piuttosto comparse disorientate che si spostano a caso tra le quinte di una scenografia devastata. Sarebbe bello poter scrivere che tra tanta distruzione la vita continua. Ma qui a Kabul non è vero. Questa è una città morta che succhia via la vita ai suoi abitanti giorno dopo giorno, sera dopo sera. Assorbiti dalle macerie, trasformati in sassi, in calcinacci. Sì, i bambini afghani forse hanno occhi bellissimi. Ma non li puoi vedere perché impari subito ad evitare il loro sguardo quando ti si avvicinano a frotte per chiedere la carità. Da lontano gli occhi non si vedono, si vedono i corpi, piccoli, resi minuti dalla fame, che fanno apparire sproporzionate le teste: nani fuggiti da un circo macabro. Accovacciata su un marciapiede c'è una bambina, vende e sposta su un piatto di latta la sua mercanzia: una decina di piccoli fogli rosa di carta igienica. Se non lo sapessi, se non si muovessero per correre verso di te, non penseresti mai che sotto quei teli informi e azzurrini c'è un essere umano. Ma c'è una parte del corpo che, a quanto pare, i taliban consentono alle donne di sottrarre al burqa: la mano, la mano che elemosina. Penso a quante volte ho protestato contro la rimozione di queste tragedie da parte dell'Occidente evoluto, a quante volte mi sono comodamente indignato. Bene, io la mia rimozione l'ho cominciata qui, ho imparato subito a non guardare gli occhi dei bambini e le mani delle donne. La miseria è imbarazzante per chi non è povero. Ti mette davanti alla tua impotenza ed è labile il confine tra impotenza e arroganza.
Il palazzo reale tenta ancora di ergersi sprezzante tra le altre rovine. Ma è solo un rudere sventrato e squarciato come lo è la più misera delle case. Delle sue cupole resta lo scheletro. Ricorda quello dell'osservatorio di Hiroshima, monumento all'olocausto nucleare, o forse non ricorda nulla. Kabul è una città invisibile. Delle sue cupole resta lo scheletro.
IL TURBANTE E IL KALASHNIKOV di Vauro
Le uniche uniformi che si vedono nelle strade di Kabul sono quelle verde marcio dei vigili urbani. Vecchie divise addosso a vecchi dalle lunghe barbe grigie. Sono tutti vecchi i vigili urbani di Kabul, rimasti pateticamente attaccati al loro antico mestiere, come le assurde pareti di qualche casa restate in piedi tra i cumuli di calcinacci. Non percepiscono alcuno stipendio e vivono delle mance che ricevono dal personale straniero delle varie organizzazioni umanitarie che hanno sede a Kabul. Tra i fantasmi dei burqa, quasi tutti di un azzurro sbiadito, e il marrone sporco dei patù, le coperte che avvolgono gli uomini, la folla di Kabul sembra fatta di stracci che si muovono spinti dal vento freddo che a tratti scende dalle montagne. È difficile notare tra gli altri i turbanti neri dei taliban, distinguerne le barbe, obbligatorie per tutti i maschi adulti. Ma quando da un lembo sollevato del patù si intravede il ferro brunito della canna di un kalashnikov, quello è un taliban. Non hanno divise, non hanno gradi, basta un capo per ogni gruppo. Si riconoscono solo dall'arma, impugnata negligentemente come un bastone da pastore. Pastori erano i taliban, pastori poveri di etnia pushtun, prima che il Pakistan per allargare la sua influenza sull'Afghanistan li trasformasse nei feroci pacificatori di una Kabul dilaniata dagli scontri tra mujaheddin "liberatori". I gruppi di Hekmatjar, Dostum, Massud e Rabbani impegnati a scannarsi tra loro e a radere al suolo la città: distrutta l'università, distrutta la fabbrica del pane, distrutte le case, distrutto il museo, distrutto lo zoo, distrutte le scuole, con una sistematicità terrificante. Non furono gli invasori sovietici a trasformare Kabul nella città spettro che oggi è, furono i suoi liberatori. In città ora non si spara più, se non la domenica per le esecuzioni capitali che, tra le macerie dello stadio, si alternano al taglio delle mani per ladri o blasfemi, uniche distrazioni in un Paese dove è vietato il cinema, la televisione, qualsiasi immagine, fare o ascoltare musica; dove l'unico giornale è il foglio dei taliban, le uniche scuole le madrassas, rozze scuole religiose, serbatoi di carne da macello per il fronte. A Kabul il coprifuoco scatta ben prima delle 21 e 30, l'ora ufficiale, avvolgendo nel buio e nel silenzio tutta la città. Una pacificazione buia quella dei taliban. Non una casa è stata ricostruita dal loro arrivo nel 1996, né è consentita una qualche attività sociale o culturale. Gestione del potere da anno zero che trae la sua forza dall'impedire la rinascita o l'affacciarsi di qualsiasi accenno di modernità. Una gestione tragicamente simile a quella dei khmer rossi nella Cambogia di Pol Pot. "Le origini sociali dei taliban sono poverissime - dice Sabjar Latif -. Per loro un pugno di riso era un sogno, non avevano mai conosciuto l'energia elettrica. La condizione miserabile nella quale vivono e fanno vivere Kabul è comunque un miglioramento rispetto al loro precedente modo di vita. Perché
dovrebbero temere le sanzioni? Non gli importa niente di quello che potrebbero perdere: il caffè, quel poco di sistema elettrico che è restato? Ne possono benissimo fare a meno". Sabjar Latif è una specie di rappresentante afghano, non ufficiale, degli interessi della Bridas, multinazionale petrolifera argentina in competizione con la Unical americana per la costruzione dell'oleodotto che partendo dal Tagikistan dovrebbe attraversare l'Afghanistan per giungere in Pakistan. Perché sotto le macerie della guerra combattuta ce n'è un'altra tra le multinazionali, tra gli interessi economici che vedono nell'Afghanistan un crocevia strategico per le loro politiche mondiali di dominio finanziario; il petrolio e il traffico di droga sono i perni intrecciati della sussistenza di questo Paese senza stato. Una guerra sotterranea, come le mine, e che come le mine reclama i suoi morti. Il controllo dei taliban a Kabul non è evidente come lo sono le rovine, vi si nasconde. E un'aria di paura che si respira nello strano silenzio dei bazar affollati, che si legge nelle espressioni preoccupate dei venditori all'ora della preghiera, quando la polizia religiosa gira per assicurarsi che tutto si fermi. E davvero iltempo si è fermato qui a Kabul. Il tempo è il primo nemico dei taliban perché significa cambiamento, progresso; e loro possono governare soltanto una società immobile, bloccata a livelli primitivi, senza progetti né competenze. Sbaglierebbe chi immaginasse tutte barbare e feroci le facce dei taliban. Rahmatullah ha 29 anni, un'espressione vivace, e un ciuffo di capelli castani che esce ribelle dal cupo turbante nero. Accetta di parlare, anzi ne sembra anche divertito: "Sono di Hellman vicino Kandahar - racconta. Fino a 17 anni ho studiato, ho il diploma di un corso superiore. C'erano i russi, i mujaheddin bruciarono la scuola, era una scuola comunista - aggiunge come fosse una spiegazione naturale -. Io sono andato con loro, con il gruppo di Hekmatjar, a combattere contro i sovietici, era un obbligo morale. Ma non ho ucciso nessuno, anzi una volta ho dato dei soldi a due prigionieri afghani dell'esercito filosovietico di Najibullah perché potessero fuggire in Pakistan. Quando i russi se ne sono andati ho pensato che fosse la pace ma è durata solo pochi giorni, e sono cominciati gli scontri tra mujaheddin. Allora sono entrato nei taliban. Pensavo fossero gli unici a poter imporre pace e sicurezza". "La pace e la sicurezza di Kabul ti piacciono, Rahmatullah? - gli chiedo -. Ti bastano? Non c'è niente che non ti va nel governo dei taliban?". "Qualcosa che non mi piace c'è, ma non te lo posso dire" inizia. Poi invece parla, quasi con foga: "Hanno distrutto il sistema educativo, non ci sono più scuole, questo non mi piace, non mi piace affatto". Forse avrebbe voluto continuare a studiare, il taliban Rahmatullah... Mi saluta portandosi la mano al cuore come si usa qui, sulla mano ha una cicatrice. Con un tatuaggio l'ha trasformata in un disegno: la mezza luna dell'Islam.
CADRANNO PRESTO? di Giulietto Chiesa
Sono al potere da quattro anni e non hanno ricostruito nulla. Colpisce. Eppure non sono i denari che mancano. È come se l'antica Kabul, capitale di un regno orgoglioso che sconfisse gli inglesi, non li interessasse. Tant'è vero che il loro capo supremo, il maulvi Mohammad Omar, non si degna neppure di lasciare la sua nativa Kandahar, terra di pushtun, terra di sunniti. Non c'è segno di un qualunque progetto. Dove vogliono andare? Anche questo è un mistero, come il loro arrivo improvviso apparve misterioso. Apparve ma non lo era. Venivano, vengono tutt'ora, dalle madrassas, le scuole coraniche nate in Pakistan, finanziate da chi aveva interessi e denaro: i mercanti della droga. E anche chi ha armato i taliban non è affatto misterioso: sono i servizi segreti pakistani, e settori dell'esercito di Islamabad, che non è detto perseguano gli stessi obiettivi del governo di Islamabad. È stato così fin dall'intervento sovietico, ma allora quei circoli pakistani finanziarono, armarono, istruirono, protessero i mujaheddin, i sette partiti di Peshawar, chi più, chi meno. Poi i sovietici se ne andarono, restò Najibullah, sempre più solo, finché nella primavera del 1992 i mujaheddin entrarono a Kabul, sotto la guida formale di Abdul Haq e sotto quella sostanziale di Ahmad Shah Massud e di Gulbuddin Hekmatjar. È a quel punto che cominciò la nuova, inattesa tragedia. I vincitori cominciarono a scannarsi. E, mentre prima si combatteva nelle campagne, da quel momento si combattè dentro le città conquistate, casa per casa. Kabul fu distrutta dai mujaheddin. E, poiché essi non avevano saputo corrispondere ai voleri dei loro burattinai, ecco la ricerca di una soluzione inedita, che garantisse i corridoi della droga, quelli degli altri commerci minori, e quelli del petrolio che, dal Caspio, dovrebbe fluire agli utilizzatori occidentali, attraverso un Afghanistan pacificato, "a tutti i costi", e il Pakistan meridionale, fino al Golfo Persico. Con il doppio risultato (utile per Washington, per Rijad e ovviamente per Islamabad) di tagliare fuori in un colpo solo la Russia e l'Iran. Qualcuno li ha chiamati - appropriatamente - i "khmer verdi". Qualcuno, certo una acuta mente postcoloniale, deve aver pensato che solo un esercito di lanzichenecchi fanatici poteva ricominciare il discorso in un Afghanistan distrutto. E la parola d'ordine, l'unica, che ha consentito loro la vittoria, è stata questa: "Con noi arriva la pace". Hanno potuto mantenerla solo in parte. A Kabul non si combatte più, a Kandahar, Jalalabad, Herat, Mazar-i-Sharif neppure. I mujaheddin sono stati sgominati, Rabbani sta in Pakistan, Hekmatjar sta in Iran, Abdul Haq fa affari negli Emirati del Golfo. Ma Ahmad Massud non è stato sloggiato dal Panshir e nel nord ancora si combatte. E non passano oleodotti - esattamente come in Cecenia - dove chiunque può farli saltare ogni notte.
Si dice che combattano male, i taliban. Raccontano che vanno all'assalto senza rispettare le minime cautele tecniche. Muoiono come le mosche. L'addestramento attorno alle madrassas non deve andare troppo per il sottile. Imparano a usare il kalashnikov e poco più. Poco importa. Se ne muoiono mille, dopo qualche giorno aerei senza insegne sbarcano altre schiere cenciose. Combattono "quasi" gratis, non come ai tempi dei mujaheddin, quando i dollari correvano facili. Adesso è il Corano che tiene bassi i prezzi. Se perdono una battaglia ricompaiono moltiplicati, come se sorgessero dalla terra. Nei campi profughi pakistani la forza lavoro disoccupata è più che sufficiente alla bisogna. Idea geniale e tragicamente democratica. Anche i loro leader sono della stessa pasta, hanno la stessa provenienza. "Chi non ha mai mangiato due volte al giorno scopre adesso, salendo sulla Mercedes nera che lo porta nel suo ministero, che tre pasti di riso e carne sono un paradiso. S'inebria della prospettiva di tornare a casa, la sera, dalle sue due o tre mogli. Non provi a dire loro che, nel mondo, esistono altri paradisi, ben più suggestivi di questo appena conquistato: non la capiranno, non gli interessa, non possono fare un balzo più lungo della loro gamba. E sono abbastanza astuti da pensare che cedere alle tentazioni potrebbe portarli a perdere ciò che hanno". Chi ragiona così è un giovane imprenditore di Kabul di cui è bene tacere il nome. Ha 32 anni, chiamiamolo Hadij. Ha la barba e vorrebbe non averla: "È pericoloso". Ha dei soldi, ma sa che, con questi governanti, non potrà farne di più. "È gente - continua che non ha mai usato aerei e non intende usarne; che non ha mai bevuto vino e non intende berne. Bevevano tè in case di fango o in tende di profughi. Se vietano la televisione è anche perché non l'hanno mai vista. I loro mullah recitano litanie semplici come quelle dei loro credenti. E sono l'unica fonte d'informazione che essi abbiano mai avuto". Coincide con quello che ho visto e sentito raccontare. All'aeroporto di Kabul, il commissario politico dei taliban è appena sceso da una Toyota bianca quasi nuova. Ha l'aria di uno che si è appena alzato, e sono le undici. La barba è pettinata, la camicia e pulita. Porge una mano molle e neghittosa allo straniero. Gli occhi sfuggenti pensano ad altro. Poi tira fuori una biro inesorabilmente occidentale e se la infila in un orecchio, perlustrandolo a fondo. Quello che ne esce viene nettato con un lembo del turbante nero a righe gialle e sottili, quasi elegante. Il ministero degli esteri è il più pulito dei dicasteri della capitale. Ma è deserto. Non c'è una politica estera da fare. E come potrebbe farla quel giovane poco più che trentenne che ci ha convocato semplicemente per vederci in faccia e magari prendere una tazza di tè con questi stranieri incomprensibili che vengono da un Paese incomprensibile, vestiti come dei buffoni? Se si passa dal ministero per gli affari sociali si percorrono scale maleodoranti, stamberghe con i pavimenti luridi, ancora ricoperti di pezzi di moquette dell'era sovietica. Sbirciando tra le porte si vede gente seduta per terra. Un alto funzionario riceve i visitatori togliendosi le scarpe e pulendosi le unghie delle dita dei piedi, accovacciato nella poltrona. Adesso vogliono fare anche loro tabula rasa, proprio come i khmer. Non sono loro che hanno distrutto l'Afghanistan, ma stanno diventando, ogni giorno che passa, coloro che impediranno all'Afghanistan di rinascere. Vietato di guardare ogni tipo d'immagini.
Vietato tutto, obbligatorio il resto. Echi di lontananze bibliche, come se il mondo che erroneamente ci appare contemporaneo - sprofondasse all'indietro nel tempo. "Dio è uno - proclama da Kandahar il maulvi Mohammad Omar, capo e guida unica dei taliban - ma le statue sono state costruite per essere adorate. E questo è male. Affinchè esse non siano adorate è necessario distruggerle". Non è un'esagerazione. È notizia ufficiale dell'agenzia Bakhtar, unico strumento d'informazione e di comunicazione con il mondo esterno del governo di questo "emirato" islamico. Governo di un Paese che si avvia a diventare analfabeta al cento per cento e che non ha scuole, né università degne di questo nome, e che si accontenta di scuole coraniche dove non s'impara a scrivere, né a leggere, ma solo a ripetere a memoria un catechismo elementare e brutale non meno lontano dal messaggio di Maometto di quanto lo siano le peggiori eresie degli "infedeli". Non sarà facile, ai miliziani del ministero della virtù, trovare statue e simulacri di qualche sorta - dopo avere abbattuto le statue di Bamiyan - da distruggere in un Paese già distrutto, dove non esistono più musei, né raccolte private d'arte, né immagini di sorta. Non ha salvato i Buddha di Bamiyan né il fatto che essi risalissero ai secoli dal terzo al settimo dopo Cristo, né che essi fossero antecedenti a Maometto. L'UNESCO li aveva proclamati patrimonio della cultura mondiale. Niente da fare. "Le statue - aveva rincarato la dose il portavoce del maulvi supremo, Abdul Hal Momait - quale che sia l'anno di costruzione, sono un insulto ad Allah". Insulti, anche se postdatati; bestemmie di granito degne soltanto dei più acerrimi nemici e denigratori dell'Islam. Solo fanatismo? Se si trattasse soltanto di mullah ignoranti, lo si potrebbe anche pensare. Ma si ha ragione di sospettare che essi abbiano suggeritori meno sprovveduti, e che dunque vi siano motivazioni politiche nascoste sotto decisioni che appaiono fatte apposta per isolare e screditare il regime. Forse si tratta di decisioni ben meditate, per rispondere alle sanzioni decise dall'ONU contro i taliban. Una ripicca elementare, oppure moneta di scambio per qualche segreta trattativa che sta molto a cuore ai taliban e ai loro amici pakistani. Quanto reggeranno i taliban? Difficile dirlo. Ma se cadranno non sarà per tutto questo, né per le donne col burqa (che non sono diverse, in questo, da quelle che stanno dalla parte di Massud). Cadranno, forse, perché non sono più utili a nessuno Residuati dei secoli, riportati alla superficie da calcoli maldestri comunque più grandi di loro.
HANNO SPENTO LA LUCE di Giulietto Chiesa
"Vedi? Quello è Ahmed, lui sa parlare russo". In uno stentato inglese il ragazzo mi indica un signore allampanato, con la barba grigia e lunga e un copricapo bianco, rotondo, pulito. Vuoi farmi un piacere, questo ragazzo dagli occhi svegli, una mano intatta, l'altra, la sinistra, senza anulare e mignolo. Mi ha sentito dire qualche parola in russo. Forse ha pensato di rendersi utile. E io, come spesso capita agli stranieri incauti, che non conoscono abbastanza il posto in cui si trovano, mi avvicino ad Ahmed con aria allegra e gli tendo la mano: "Kak delà?", come va? Una scossa elettrica sarebbe stata meno forte della reazione che provoco. Gli occhi piccoli e neri di Ahmed sembrano affogare nella paura, cercano una via di fuga, esplorano fulminei lo spazio circostante. Qualcuno ha sentito? Qualcuno ha captato il suo scatto rivelatore? Ahmed sembra molto più vecchio dei suoi quarantadue anni. Ha studiato a Mosca per otto anni: da ingegnere. E ovviamente ha imparato il russo, alla perfezione. L'ha quasi dimenticato e non soltanto perché non aveva con chi parlarlo. Tenerlo in testa equivale a portarsi dentro una colpa, è pericoloso. È la lingua degli atei shumvy, e parlarla è come insozzare Dio. Qui ancora ricordano le "puttane" russe che giravano sfrontate per Kabul con le gonne corte, i capelli al vento e le braccia nude. Adesso Ahmed vende farina, che cava da un sacco bianco arrivato chissà da dove, attraverso i tornanti del passo che, da Jalalabad, sale verso l'altopiano di Kabul. Ahmed non può fare l'ingegnere perché da queste parti non si costruisce nulla, da gran tempo ormai. E quella farina, che vende a bicchieri ad acquirenti rari, non è sua. Lui è solo un venditore. Il suo stipendio rimane molto lontano dal mitico dollaro giornaliero delle statistiche con cui il Fondo Monetario Internazionale descrive i Paesi poveri. Tanto lontano che ci vogliono tre giorni interi di lavoro per fare quel dollaro. I quattro figli maschi, tutti sotto i dieci anni, sono fuori casa, a caccia di cibo, di legna da bruciare o da vendere, legna preziosa come l'oro. Ahmed è un intellettuale e se ne vergogna. Vorrebbe che i suoi figli imparassero a scrivere e leggere, per bene, come capitò a lui. Ma solo la sera, dopo l'inizio del coprifuoco, al buio o quasi, se non fa troppo freddo, si può insegnare loro qualcosa. Ma il fatto è che non si vivrebbe senza il loro aiuto. La moglie lavorava, in altri tempi di cui si può solo sussurrare, in un ministero. Adesso non può uscire di casa da sola, nemmeno a prendere un secchio d'acqua. È rigorosamente vietato. Metà della popolazione afghana vive reclusa senza avere mai subito condanne. Basta quella decretata da Mohammad Omar. Tutta Kabul è come è sempre stata: un formicaio impegnato in un incessante movimento in cerca di cibo, di kerosene per scaldarsi, di qualche litro di benzina. Ma si vede che tutto è invecchiato, che i banchi dei venditori sono più sgangherati di un tempo. Negozi degni di questo nome ne restano pochi, con le vetrine impolverate e i vetri rattoppati con lo scotch. Rimangono visibili le mille e una farmacie, con qualche
medicina occidentale, tanta aspirina e altre cose misteriose che vengono dall'India e dal Pakistan. Sono gli unici "esercizi" che - chissà perché - possono affiggere un'insegna in inglese: pharmacy. Ma la loro frequenza dice solo come è facile morire da queste parti. Gli altri negozi si sono trasferiti sui marciapiedi, man mano che le case venivano sventrate dai combattimenti. Se si guarda meglio sui banchetti sbilenchi, è possibile distinguere all'incirca due flussi di merci: ortaggi, semi, spezie, frutta secca e fresca, carne di capretto, tutta roba che viene dalle campagne circostanti. Il resto, tutti i manufatti, dalle saponette alle forbici, alle biro, alla stoffa per turbanti, alle coperte che fungono da scialle e cappotto per gli uomini, alle camicie jeans, viene da fuori. Carovane di tir si muovono a passo d'uomo per non spezzare gli assali tra le voragini delle strade. I loro padroni, i mercanti ricchi, non si vedono mai. Non certo tra i rigagnoli di escrementi delle vie del centro. Ma sono loro, dalle ville di Peshawar e di Islamabad, che assicurano la sussistenza, impiegando gli spiccioli del grande traffico d'oppio in uscita per acquistare a basso prezzo generi di consumo che i loro uomini venderanno a caro prezzo ai contadini che hanno prodotto l'oppio che permette loro di vivere nelle ville di Peshawar e di Islamabad. Tasse, nel senso che noi attribuiamo al termine, non esistono. Gli uffici pubblici, quelli che non sono stati sventrati dalle bombe, sono coperti di ragnatele. E poi: chi saprebbe fare i conti? E chi potrebbe fare le verifiche dei redditi? I taliban sono truppa d'occupazione e altro non sanno fare. Perfino la posta non esiste più, anche se riesce difficile immaginare che gli afghani ne abbiano bisogno. Esistono invece le tangenti su tutti i traffici, evento più inesorabile di ogni tassa. Adesso metteranno sui panni la striscia, forse gialla, per distinguere al volo i non musulmani, o forse i non pushtun. A noi questa idea non torna nuova e suscita associazioni immediate tutt'altro che gradevoli. Ma questi ministri barbuti non sanno niente della storia europea. E del mondo. Del resto le strisce gialle saranno poche. Gli indù e i gurkha, che vendevano le sete dell'Asia orientale nei loro negozietti bui e lunghi, puliti e ombreggiati, con i loro turbanti neri e azzurri e la retina sottile a imbrigliare la barba, sono già scappati quasi tutti da tempo. Sulle bancarelle ci sono anche le pile. Chissà a cosa servono, visto che la musica è rigorosamente vietata, come il cinema, come la televisione. Qua e là, appese ai tralicci, ghirlande di nastri di videocassette o di cassette musicali oscillano al vento coperte di polvere. Nessuno le tocca. Sono i trofei dei taliban nella lotta contro le degenerazioni portate dagli stranieri. Civiltà senza immagini, senza luce, senza telefoni, senza giornali, senza comunicazione, senza trasmissione d'idee che non siano quelle dei muezzin e quelle, anch'esse esclusivamente orali, che avvengono all'interno delle mura domestiche. Che, a loro volta, sono il perimetro rigido dentro cui è raccolto tutto intero l'universo culturale degli individui. Nessuno dei lumi, che da trecento anni almeno rischiarano (e talvolta accecano) le menti degli uomini e delle donne occidentali, è mai giunto fino ai villaggi afghani. Chi pensa che i taliban siano soltanto una mostruosa degenerazione oscurantista rischia di farsi illusioni.
L'Afghanistan è, nella sua enorme prevalenza, non importa da che parte dei fronti volta a volta ci si trovi, nelle stesse analoghe condizioni che qui si descrivono. Per esempio le donne - tutte le donne - afghane vivono tutta intera la loro vita (quella piccola parte che è consentita al di fuori della casa-fortezza in cui sono nate) sepolte sotto il burqa, a prescindere da dove si trovino. I mujaheddin che sconfissero i sovietici (e che vennero reclamizzati in Occidente come combattenti per la libertà) non erano e non sono più "progressisti" - in questo senso - dei taliban che li sconfissero e che ora sono al potere. La distruzione delle statue dei Buddha di Bamiyan è - esaminata sotto questo angolo - una "aberrazione razionale" per gente che vive mentalmente e organizzativamente e istituzionalmente nei primi secoli del millennio precedente a questo. Intendo dire che non dovremmo stupircene più di tanto. Il che non significa che dobbiamo disinteressarcene, o che non dobbiamo provare dolore e sgomento per un patrimonio dell'umanità che va in fumo. Ma un approccio più realistico e più utile ai fini pratici è quello "relativistico", che evita gli sdegni facili e le esclamazioni a effetto. La vera domanda che ci si deve porre è questa: la società afghana è andata avanti o indietro in questi anni? Se per "avanti" s'intende un avvicinamento ai valori di libertà individuale, economica, istituzionale, alla cultura, al progresso civile delle società occidentali, la risposta, univoca, inequivocabile, è no. La società afghana è oggi più "indietro" di quanto non lo fosse ai tempi di Daud; più indietro di quanto non lo fosse ai tempi dell'intervento sovietico; più indietro dei tempi di Najibullah. Difficilmente, in quei diversi e non lontanissimi passati, sarebbe venuta in mente a qualcuno dei governanti afghani l'idea di bombardare statue. E, infatti, nessuno le distrusse. Dunque siamo di fronte a un arretramento secco, a un allontanamento dalla civiltà. È una risposta, evidentemente, densa di implicazioni e corollari. In ogni caso non avremmo il diritto comunque di attenderci da loro, nella migliore delle ipotesi, che un percorso di avvicinamento graduale, con i loro tempi, alla nostra sensibilità. Avvicinamento che potrebbe non significare mai identificazione, omologazione. E dovremmo essere pronti ad accettare una diversità "perenne" tra noi e loro come un fatto inevitabile, come una legge della natura. Nello stesso tempo credo che sarebbe profondamente disonesto concludere questo ragionamento senza riconoscere autocriticamente che il mondo esterno ha gravi responsabilità per tutto ciò che è accaduto, per i passi indietro che sono stati compiuti. Dico mondo esterno perché in questo caso non è solo l'Occidente a dover fare autocritica. Stati Uniti, Russia, Cina, Pakistan, Arabia Saudita, India, Iran: tutti, ciascuno con la propria e diversa misura di peso che gli compete, hanno responsabilità. La Gran Bretagna coloniale, a sua volta, sparse i primi segni di disordine e di odio, che hanno fruttato nel tempo. Gli afghani hanno demolito il proprio Paese perché armati, sospinti, consigliati, costretti da potenti forze esterne. Pensare che essi possano oggi rimettersi in piedi e in cammino da soli è cosa senza senso. Naturalmente sarebbe altrettanto sciocco ritenere che si debba costringerli con la forza. Non funzionerebbe, perché i secoli non lo consentirebbero. Ma un aiuto rispettoso e prudente è indispensabile. In primo luogo costringendo - questo sì - i mestatori esterni a smetterla. Sono forze potenti, che controllano con la droga ingenti quantità di denaro, di armi, di uomini, e
che hanno nelle loro mani potenti leve di ricatto, in grado di agire anche da molto lontano, attraverso meccanismi bancari, finanziari, riciclaggi, corruzione, terrorismo. Per fare questo è indispensabile un'iniziativa politica e diplomatica congiunta, finalmente saggia, che coinvolga anche quegli stessi Paesi e governi che hanno creato il "problema afghano". Problema inedito: quello di una colossale emergenza umanitaria creata dall'insipienza politica e dall'egoismo dei potenti, non solo e non tanto dall'arretratezza degli afghani. Questo pensavo davanti al palazzo diroccato di Darulaman, isola austroungarica costruita da Zahir Shah nel mezzo della piana di Kabul. Ahmed ha conservato un mangianastri - racconta a bassa voce - ben nascosto in un buco del muro di tufo della sua capanna sulle alture. Ma non può farlo funzionare. "Solo qualche volta, di notte, quando i bambini dormono". Ma guai se una nota fuggisse al di fuori. Dovunque si mette in funzione il Grande Fratello ecco spuntare spie e delatori. Quando scende la sera, e l'ora del coprifuoco s'avvicina, nessuno sembra affrettarsi. Ciascuno sa quanto gli occorre per togliersi di mezzo, arrivare prima non ha senso. Kabul, vista dall'alto, nei pochi momenti che restano prima di rinchiudersi in una casa, sembra una grande bocca con pochi denti. Due terzi della città sono senza luce. Non ci sono né pali, né fili, e larghissime chiazze nere si distendono nella conca. Solo qua e là, dove abitano gli stranieri delle organizzazioni umanitarie, dove sono alloggiati i "diplomatici" di misteriose legazioni senza bandiere, dove alloggiano i taliban, restano chiazze di luce. Poi si dorme, gli occhi dei bambini sbarrati nel buio, e sussurri di preghiera, e forse fruscii di atti d'amore, consumati sullo stesso giaciglio dove si dorme tutti assieme, per scaldarsi.
L'OSPEDALE KARTE-SE DI KABUL di Vauro
La via che porta all'ospedale Karte-se di Kabul è una sequenza di macerie. Case sventrate, palazzi accartocciati da un lato e dall'altro di un'ampia strada sconquassata da buche e crateri. Ogni tanto, a rompere la monotonia del colore della distruzione, una bandierina rossa su un mucchio di calcinacci. Segnala la presenza di mine. Le mine sono il cancro invisibile della terra dell'Afghanistan. Si celano ovunque, come una inarrestabile metastasi. Ma sono fiori che sbocciano a primavera. Ora che è inverno uccidono e strappano meno arti. La neve, il gelo fanno sì che gli uomini e i bambini escano più di rado per lavorare o per giocare. È con l'arrivo della stagione più mite che il letargo della morte finisce. Si salvano spesso solo le donne: l'oppressione religiosa che le costringe nel burqa le costringe anche, qualsiasi sia la stagione, a non allontanarsi mai dalle mura domestiche o da ciò che ne resta. Così le priva, insieme ad ogni altro diritto, anche di quello di saltare sulle mine con i loro figli. "Con l'arrivo della primavera giungono in ospedale quattro o cinque feriti da mina alla settimana, la media si alza con il progredire della stagione" dice un capo infermiere dalla immancabile lunga barba: ne parla con il fatalismo di un contadino che descrive i tempi del raccolto. È un cartello esterno con su disegnata la sagoma nera di un kalashnikov barrata da una striscia rossa e la scritta "No weapons", niente armi, che distingue l'ospedale dalle macerie che lo circondano; altrimenti, da fuori, la sua struttura bassa e incolore con le finestre vuote o coperte da stracci di plastica strappati, si confonderebbe facilmente con il resto della desolazione. L'ospedale fu costruito nel 1988 dalla Croce Rossa Internazionale che ora lo gestisce a distanza - il personale è tutto afghano - occupandosi di rifornirlo di attrezzature e medicine - che però per lo più finiscono poi nel mercato nero - e di "incentivare" gli stipendi dei dipendenti. "Incentivi" di 65 dollari al mese a fronte del salario di 8 dollari mensili che un medico percepisce dallo stato. I "corsi" per formare medici sono organizzati dal governo dei taliban, lo stesso che ha distrutto totalmente tutto il sistema educativo e scolastico: facile immaginarne il livello. Anche un analfabeta con le giuste conoscenze può accedervi. Perché non è la Croce Rossa a farsi direttamente carico della formazione del personale locale, invece di abbandonare a se stesse le proprie strutture? Abbandono, abbandono di cose e di uomini: è la sensazione che si prova subito entrando in una stanzona bassa, semibuia, le finestre oscurate dai pochi vetri opachi rimasti o da teli di plastica. Prima che gli occhi si abituino alla semioscurità è l'odore dell'abbandono che aggredisce alla gola: odore di feci, di orina, di marcio. Una puzza terribile, l'odore di chi si attacca alla vita pur miserabile che sia. La puzza si condensa in un liquame scivoloso, umido sotto le scarpe. I volti, le facce si vedono appena nella penombra. Emergono da mucchi di stracci sudici che sono le lenzuola e le coperte dei settanta
giacigli stipati in questa corsia. Sono facce scurite dalla barba, illividite dal dolore; se a tratti il biancore di uno sguardo senza curiosità non desse loro un movimento, avrebbero lo stesso colore del buio. Negli spazi all'aperto, tra un padiglione e l'altro dell'ospedale, sembra di respirare aria pulita nonostante l'immondizia ammucchiata qua e là e i pitali sporchi abbandonati. Arrivano voci di donne da una bassa costruzione cinta da un muro, le finestre sono accecate da teli pesanti, là dentro il buio deve essere ancora più fitto. Si può solo immaginarlo, perché lì non si entra, è il padiglione femminile. La legge dei taliban non transige, le donne, cancellate nella vita, devono esserlo anche nella sofferenza, il loro dolore invisibile come i loro volti. Così ha deciso il mullah taliban che dirige l'ospedale della Croce Rossa Internazionale. Eppure nello sguardo degli infermieri e dei medici che ci accompagnano non c'è solo diffidenza per il disgusto che questo sfacelo potrebbe ispirare a visitatori occidentali; c'è anche orgoglio, orgoglio legittimo, perché questo, fatta eccezione per l'ospedale militare riservato ai taliban, è il miglior ospedale non solo di Kabul, ma di tutto l'Afghanistan. La stanza dove sono ricoverati i bambini è più piccola, anche lì entra poca luce. Poca è anche la luce rimasta nei loro occhi, guardano seri, quasi assenti, non rispondono al sorriso né al cenno di saluto della mano. Sono visi di bambini quelli che spuntano dagli stracci lerci sopra le brande ma si fatica a riconoscerli così svuotati dall'infanzia. Vuoti, come i vuoti dei corpicini che si vedono quando un infermiere scosta i panni che li coprono: vuoto dove c'erano le gambe, vuoto dove c'erano manine, moncherini avvolti in bende sporche restano ad indicare quei vuoti che non saranno mai più colmati dal movimento, se non da quello di qualche riflesso di contrazione muscolare. Su una branda, a un angolo, in fondo alla corsia c'è qualcosa che sembra un mucchietto di garza sanguinolenta gettato via, immobile. È una bocca gonfia, tumefatta, l'unica cosa che si scorge di Khalil tra le bende. La bocca emette un lamento flebile, quasi timido, quando l'infermiere lo tocca, nient'altro. A Khalil la mina non ha rubato solo lo sguardo dell'infanzia, gli ha cavato tutti e due gli occhi, gli ha cancellato la faccia, gli ha strappato le dita dalle mani. Quanti anni avrà Khalil? È difficile dare un'età a un mucchietto di garza e a una bocca ustionata. Ma che importa, Khalil e gli altri bambini di questa corsia sono solo i frutti prematuri di un raccolto, più abbondante, di braccia, di mani, di occhi, di vite che verrà quando sarà la stagione, la stagione dei fiori.
L'ISOLA BIANCA DI EMERGENCY di Vauro
La neve è caduta su Kabul. Ma qui la neve non è bianca, è inghiottita dal lezzo delle strade, la sua lucentezza persa nella opacità smorta dei cumuli di macerie, intrisa dalla polvere invisibile della distruzione che annulla ogni colore. Forse è per questo che il bianco candido, luminoso, delle mura del nuovo ospedale di Emergency sorto nel centro di Kabul, sembra riflettere mille colori, come la pennellata di un pittore pazzo impressa di forza su un quadro grigio di desolazione. Sembra davvero un pittore pazzo, più che un chirurgo, Gino Strada, il medico di Emergency che ci conduce dentro l'ospedale. È alto, barbuto e spettinato, ha un naso a becco d'uccello e l'andatura un po' curva e saltellante che hanno i piccioni quando passeggiano nelle nostre piazze. "L'ospedale è ancora vuoto - dice Strada - sarà operativo entro marzo". Ci mostra gli spazi aperti, tra i diversi padiglioni resi luminosissimi dal bianco pulito delle mura e da ampie e ariose finestre, e gesticola con le mani: "Là pianteremo le buganvillee, qui ci sarà un giardino di gelsomini, e lì alberi, alberi frondosi che d'estate diano frescura e ombra ai nostri pazienti che potranno mangiare all'aperto. Qui una siepe, questo è il padiglione femminile - i taliban non transigono, deve essere delimitato - e io ci metto una bella siepe, verde, mica un muro". Gesticolano le mani di Gino e sembrano pennelli che dipingono nell'aria i fiori e i giardini nei quali sarà immerso l'ospedale, già pare di vederli e sentirne il profumo: "I malati e i feriti che verranno qui hanno negli occhi la guerra e la miseria, l'ospedale non può essere solo un luogo di sofferenza, hanno diritto a un po' di bellezza!". Hanno infatti l'espressione serena di chi sta costruendo qualcosa di bello gli operai, i pittori, i muratori, i carpentieri afghani affaccendatissimi a rifinire ogni angolo dell'ospedale. Non sembrano la stessa gente che è fuori dalle basse mura di cinta, anch'esse bianchissime. Fuori non si costruisce né si ricostruisce niente da anni, dall'arrivo dei taliban. Fuori avere una competenza e volerla mettere a frutto è un rischio, un motivo per essere sospettati. Forse è per questo che, insieme all'orgoglio, si legge anche timidezza nello sguardo di Hafizullah, l'ingegnere afghano che ha progettato l'ospedale, mentre ce ne mostra un modellino. Hafizullah ha studiato a Mosca nelle scuole degli "infedeli". "Oggi qui lavorano operai, tecnici afghani, domani ci saranno inservienti, infermieri, medici afghani - dice Gino -. Intorno alla costruzione e alla gestione dell'ospedale si ricrea un tessuto economico ma soprattutto sociale che si può ampliare, diffondere come un contagio, il contagio della civiltà. La guerra potrà ridurre in macerie anche le mura di questo ospedale, ma non cancellare l'esperienza di umanità, di cultura che le persone avranno vissuto qui. I medici, gli inservienti, gli infermieri che si formeranno nei corsi che istituiremo resteranno qui".
Intorno alla gestione dell'ospedale si ricrea un tessuto economico ma soprattutto sociale che si può diffondere come un contagio, il contagio della civiltà. Il 50% del personale sarà formato da donne, incredibile in un Paese dove alle donne non è riconosciuto nessun diritto. Con un paziente e intelligente lavoro diplomatico con il governo dei taliban Gino ed Emergency hanno saputo strappare questo accordo, e quello che garantisce loro la completa gestione dell'ospedale. Le donne sono già lì al cancello dell'ospedale. Una fila di più di cento burqa, dalla quale si affaccia ogni tanto il visetto curioso di un bambino. Sono venute a ritirare il modulo per la domanda di lavoro, declinano le loro generalità; e si scopre che sotto i burqa tutti uguali si celano insegnanti, sarte o donne analfabete. Alcune scarpe con i tacchi spuntano dal velo come un timido accenno di ostinata femminilità. "Sai che non riusciamo a trovare in Italia un solo chirurgo oculista disposto a venire qui a insegnare per tre mesi? - continua Gino -. Tre mesi! E lo pagheremmo 3.000 dollari al mese, mica gratis! Niente, fanno troppi soldi là, non mollano. E anche i chirurghi plastici, sono troppo impegnati a rifare tette, sai che gliene frega della pelle ustionata dei bambini bruciati dalle esplosioni delle mine!". "Eppure - gli dico - in Italia e in tutti i Paesi occidentali di diritti umani si parla molto, si fanno addirittura guerre in nome dei diritti umani". "Stiamo andando verso un mondo virtuale, virtuali sono anche le guerre, tranne per chi le subisce. Appelli, tavole rotonde, grandi organizzazioni internazionali, fondi... tutto per i diritti umani, eccetto praticarli. Le vittime della guerra hanno facce, nomi, storie, ognuno la sua, non sono dati statistici. Da quando è nata, nel 1994, Emergency è riuscita a curarne 150 mila di questi sfigati. Siamo tra le pochissime organizzazioni specializzate in vittime di guerra, quella che ha più ospedali nel mondo: tre nel Kurdistan iracheno, uno in Cambogia, uno in Sierra Leone, due qui in Afghanistan, questo a Kabul e quello nel Panshir di Massud. Ne stiamo progettando altri in Serbia, in Eritrea, in Palestina". Ecco le corsie, le sale operatorie. I telai dei letti già pronti odorano di legno e di vernice fresca. Le macerie di Kabul sembrano lontanissime. Solo in un cortile dell'ospedale ce n'è qualche pezzo: lamiera e stracci colorati formano una piccola casetta circondata da sassi, monumento umile a ricordo di un'intera famiglia che proprio qui è morta dilaniata da un missile. Le mani di Gino ora dipingono attrezzature mediche e medicinali, riempiendo i padiglioni ancora vuoti dell'ospedale: "E in arrivo un aereo dall'Italia con 45 tonnellate di medicine e attrezzature ospedaliere - dice - sarà un bel segnale per questa gente, tanto più ora che le sanzioni dell'ONU rischiano di condannarla al più completo disastro umanitario". "Ma, Gino, come fai a vivere costantemente immerso in queste tragedie?". Non gli piace, si vede, questa domanda, si schermisce ma poi risponde: "No, non ci si abitua mai, ancora oggi quando vedo un bambino sfracellato da una mina mi vengono i conati di vomito. Quello che mi aiuta davvero a sopportare le tragedie è infilarci le mani dentro, fisicamente, non dimenticare che sono un chirurgo". Le mani, domani userò le mie per disegnare sulle pareti bianche della corsia dei bambini animaletti buffi e fiori con la faccia. Saranno probabilmente gli unici disegni per bambini in tutta Kabul, i taliban proibiscono i disegni; ma se le mine non gli
avranno strappato gli occhi, qualche bambino potrà forse guardarli e sorridere un attimo, almeno dentro di sé. Ma le mani di Gino e di quelli come lui resteranno qui a dipingere speranze e a ficcarsi nelle ferite, nelle budella della tragedia. Le mani dentro.
UN CATINO DI GUAI di Vauro
I visionari come Gino sono contagiosi e io comincio a vedere le pareti bianche dei padiglioni dei bambini riempirsi di animaletti buffi, di pupazzi simpatici, un mondo di colori vivaci e allegri. "Bene, allora domani cominci subito a disegnare le pareti della corsia", mi dice Gino. Ride. "A Kabul anche i disegni sono proibiti dai taliban. L'ospedale di Emergency sarà una splendida eccezione". Gino è un visionario molto pratico e l'indomani mattina mi trovo davanti alle pareti bianche con in mano una scatola di carboncini russi, eredità civile dell'invasione sovietica. Li vedo anch'io i bambini che presto saranno qui, menomati nel corpo, con negli occhi solo il dolore e i colori cupi della guerra e della miseria. Allora la mia mano comincia a correre sul muro. Ne esce un delirio di figure: buffe rane, farfalle in cravatta, vermetti col salvagente, serpenti in papillon e cilindro... La parete si riempie fitta fitta di piccole storie di tanti personaggi di fantasia. I bambini spesso staranno qui per lunghi periodi, vorrei che ogni giorno potessero giocare a scoprire un particolare nuovo, una possibile storia diversa, che per qualche attimo il mondo fantastico sul muro li facesse entrare in una nuova dimensione gioiosa e allegra lontana dalla sofferenza alla quale le mine e la guerra li hanno condannati. Su una parete ora c'è uno stagno popolatissimo di animaletti. Sull'altra un cielo pieno di uccelli, buffi aquiloni, palloncini e nuvole con la faccia e sull'altra ancora un fondo marino gremito di pesciolini, granchi, stelle marine e calamari. Ma è ancora tutto a carboncino in bianco e nero, domani dobbiamo partire per il Panjshir. Chi potrà colorare, riempire tutto di colore? Mi viene in mente che gli unici segni che i taliban non vietano sono quelli della scrittura. I calligrafi afghani costretti a mettere nella pittura dei caratteri arabi tutta la loro arte sono bravissimi col pennello. "Cerchiamo un calligrafo!". L'indomani mattina è già lì nella corsia dell'ospedale, guarda i disegni sulle pareti, ma non pare allibito e incredulo come gli operai, alcuni ragazzini che stanno lavorando a rifinire la struttura ospedaliera. Loro hanno l'espressione che dovevano avere gli spettatori del primo film dei fratelli Lumière all'arrivo del treno. Lui invece li guarda divertito e calmo come avesse ritrovato un mondo che conosce. Mi mostra i suoi pennelli, le tinte che ha portato, mi chiede che colori vorrei per i miei disegni. "Scegli tu", gli dico, "sono sicuro che ne sceglierai di bellissimi!". Ha un guizzo di orgoglio negli occhi scuri e mobilissimi sul viso incorniciato dalla lunga barba nera obbligatoria. "Sai, sono un collega", mi sussurra timidamente. "Un collega??". "Sì, un cartoonist come te!". Piano piano la sua storia vien fuori. "Posso disegnare solo caratteri di scrittura ma di nascosto faccio un giornale, tutto da solo, un giornale di satira: lo disegno e lo coloro a
mano, una copia sola, che gira di mano in mano e quando torna da me preparo il numero successivo". Il suo giornale si chiama Catino di guai. Sì, perché Kabul, affogata nella conca, chiusa dalle montagne sembra davvero immersa in un catino. "Mi firmo Parnion", dice, "è il mio nome da vignettista clandestino", e lì mi mostra i giornali fatti a mano. Li ha portati con sé, nascosti in una spessa busta di carta gialla. I suoi disegni denunciano la barbarie del burqa, l'ottusità di un potere basato solo sui kalashnikov, l'assurdità di un popolo costretto a scannarsi da solo. È contento quando ci facciamo scattare una foto insieme davanti alla parete disegnata da noi. "Ma se pubblichi la foto", mi avverte con un cenno di tristezza, "cancella la mia faccia, per me è pericoloso. Se i taliban la vedessero mi ammazzerebbero". Poi ha un guizzo da vignettista e aggiunge: "Anzi, perché non me la disegni tu la faccia sulla foto? E senza barba per favore!". Mentre me ne vado lo vedo là. Parnion ha un corpo minuto ed è piccoletto, sembra appeso alla sua mano che già si è messa a muoversi alta e veloce sulla parete, a giocare con i colori e con i segni. Pare davvero solo nella corsia vuota. Allora ho una visione: e se tornassimo tutti qui, io, Altan, Ellekappa, Vincine, Bucchi, Mannelli, Staine, tutti con Parnion il vignettista clandestino a dipingere colori per i bambini di Kabul? Chissà...
NELLA VALLE DEL PANSHIR
L'AFGHANISTAN SPEZZATO di Vauro
Alle cinque di mattina, quando partiamo in direzione del fronte, Kabul è ancora avvolta nel buio. Un buio quasi totale (l'elettricità manca in gran parte della città) rotto solo qua e là da qualche flebile luce e da quelle spettrali che illuminano le alte mura grigie del carcere di Pul-i-Charki, l'unica struttura che i taliban hanno conservato intatta e in piena efficienza. La strada è deserta, si incrocia solo, ogni tanto, qualche figura goffa avvolta in coperte che pedala su pesanti biciclette cinesi. Presto anche l'asfalto squassato finisce e la strada si trasforma in una pista pietrosa che inizia ad aggredire la montagna che incombe sulla città. Il posto di blocco taliban al limite di Kabul (ci vuole un permesso per lasciare la città) è una casupola di fango bassa, illuminata a malapena da una lampada a petrolio. Ne esce un soldato dal turbante nero, infagottato nelle coperte da cui spunta l'immancabile kalashnikov. E infreddolito e ha gli occhi arrossati dal sonno, con un cenno della canna del fucile ci fa segno di proseguire. Andiamo in direzione di Jalalabad. Dovremo fare un lungo giro tra le montagne per raggiungere la valle del Panshir perché la strada che da Kabul permetteva di arrivarci in meno di un'ora di auto è stata completamente minata, impercorribile. Si entra in una gola stretta, rocce altissime da un lato della pista, dall'altro un precipizio al fondo del quale scorre un fiume vorticoso per lo sciogliersi della neve, nelle buche della strada si rapprendono lastroni di ghiaccio. Appaiono le prime sagome di metallo contorto di carri armati russi esplosi con i loro cannoni sporgenti, costelleranno il panorama di tutto il nostro viaggio come alberi pietrificati, macchie di una assurda vegetazione di ferro arrugginito tra le rocce nude. Dietro i picchi della montagna comincia ad albeggiare, sacchi bianchi di farina si confondono con la neve. Il grosso camion che li trasportava giace rovesciato tra le pietre, abbattuto da un ripido tornante della pista. Poco più avanti, caricato all'inverosimile di informi involti di tela, un dromedario cammina indolente sul bordo del burrone. È già giorno fatto quando la strada comincia a scendere più a valle. Vicino al fiume il sole illumina piccoli villaggi in macerie, ma anche le macchie verdi dei campi coltivati a grano, terra fertile che gli abitanti hanno strappato alla montagna e alle mine. Le mine impestano tutto l'Afghanistan, ce ne sono più di undici milioni a fronte di circa otto milioni di abitanti, più di una mina a testa. Ai bordi della pista bambini, ne incontreremo tanti, più piccoli dei lunghi manici di legno delle pale che impugnano, le
usano per gettare pietrisco e terra nelle buche della strada quando vedono arrivare uno dei pochi automezzi, camion e furgoni scassati, che attraversano questo accidentato percorso. Fanno cenno di fermarsi con la mano, sperano in una mancia dai conducenti, salario della sopravvivenza. All'altezza della città di Sarobi lasciamo la strada per Jalalabad e ricominciamo ad arrampicarci verso la grande diga del lago di Shomal in direzione di Tagab dove passa la linea del fronte. A un tratto le pietre del fondo stradale vengono sostituite da lastroni di cemento dove si aprono, sparse a caso, buche di granata. Conducono a ciò che resta della vasta base militare sovietica che sorgeva ai piedi della diga. Tra alberi di pino le orbite vuote delle finestre di alcune caserme restate in piedi, capre tra le macerie di altre, in un piazzale enorme decine di carri armati e mezzi blindati con la stella rossa finiscono di arrugginire assediati dagli arbusti. Inutili, come la diga abbandonata che sovrasta la scena con la sua acqua silenziosa e ferma che non produce più elettricità da anni, solo riflette la maestosità della montagne che la circondano. Attraversiamo villaggi, i più sperduti di questa area. Qui l'energia elettrica non è mai arrivata. Sono case basse di fango secco e paglia aggrappate alle rocce che ne sfalsano la prospettiva. Alberi spogli, qualche capra sul greto del fiume, uomini accovacciati a piccoli gruppi vicino ai muri, bambini con vestiti stracciati ma coloratissimi. Anche qui, unici segni di una modernità inquietante, carcasse di carri armati arrugginite stanno assumendo il colore antico dei mattoni di fango secco delle case. Ai limiti dei villaggi cimiteri, rocce piatte e sassi anonimi piantati nel terreno fungono da lapidi, qua e là sventolano stracci verdi attaccati a rami secchi, su tumuli di pietre: sono le tombe dei martiri della Jihad, la guerra santa. Più sperduti sono i villaggi, più grandi sono i cimiteri. Le condizioni di vita primitive, l'isolamento, forse più della guerra, pensano a riempirli. Avvicinandosi ancora alla linea del fronte si infittiscono i cimiteri e gli stracci verdi dei martiri come i kalashnikov in mano a gruppi di uomini con i turbanti scuri. Ciuffi di nastri di video e di musicassette pendono da pali e canne di mitragliatrice come scalpi, al posto di blocco dei taliban all'ingresso delle immediate retrovie della prima linea. Sono gli scalpi della modernità da sconfiggere e vengono esposti come trofei, attorno il nero dei turbanti, il nero delle barbe, il nero delle canne dei fucili. Il comando di questo settore del fronte non si distinguerebbe dalle altre basse costruzioni di fango secco se non perché circondato da carri armati, non carcasse ma mezzi di morte perfettamente efficienti. Accovacciati sui blindati come pastori sulle pietre, gruppi di taliban armati e immobili. Immobili sono anche le espressioni dei soldati attorno al comandante venuto a controllare i nostri permessi. Giacconi mimetici coprono le loro spalle, sotto, come pigiami, i larghi vestiti afghani. C'è la neve, ma molte caviglie nude spuntano dalle scarpe basse. Non c'è né curiosità né ostilità nei loro sguardi, solo una fissità inquietante e indecifrabile. Alcuni bambini stanno in disparte, sono addetti a portare rifornimenti alle postazioni sul fronte e hanno sul viso la stessa espressione vuota dei soldati. Mentre gli occhi del comandante, incorniciati da lunghe ciglia nere e da una sottile linea di kajal, potrebbero sembrare addirittura femminili se non vi si scorgesse un'intelligenza feroce, selvatica, volta solo alla guerra. La pista si inerpica ancora fino
a scomparire in un torrente pietroso formato dall'acqua della neve che si scioglie. Il fuoristrada lo risale arrancando e sobbalzando, tra lo sciabordio della corrente. Per arrivare alla linea del fuoco bisogna valicare un passo a più di 2800 metri di altitudine. Ci impantaniamo nella neve e nella melma vicino a una casamatta scavata nella terra come una tana: un mortaio piazzato di fronte al buco dal quale vi si accede, un cane nero accucciato accanto; nella neve, a pochi passi, una bomba inesplosa. Sembrano ombre che tagliano il bianco della neve i gruppi di taliban che salgono camminando verso la casamatta, appesantiti dai portacaricatori allacciati al busto e dalle armi in spalla. Paiono figure antiche, avvolti come sono da ampie coperte e dai turbanti, le barbe lunghe. Li immagineresti armati di lance o spade, invece il ferro che portano è quello brunito dei kalashnikov. Dietro di loro camminano dei bambini, caricati di grossi fagotti di tela, probabilmente rifornimenti, alcuni hanno i piedi nudi nella neve gelata. I soldati e i bambini ogni tanto si fermano a raccogliere una manciata di neve e la mangiano. L'ultimo avamposto taliban, prima della terra di nessuno, è in un villaggio con case di fango e strade di fango. Da lì bisogna proseguire a piedi per tredici o quattordici chilometri fino alle prime linee dei mujaheddin. Un gruppo di ragazzine si ferma intimidito e incuriosito incrociandoci. Le bambine hanno vestiti colorati e brocche d'acqua presa dal fiume. Cominciano a seguirci ridendo e cantando una nenia incomprensibile ma dal chiaro tono canzonatorio. Si fermano ben prima di un cavo di plastica teso di traverso tra i due lati della strada, dal quale pendono i soliti scalpi di nastri: è l'ultimo confine del territorio controllato dai taliban. Tre sentinelle lo vigilano, accovacciate accanto a un muretto di fango, le mani appese al kalashnikov. Se questa guerra da incubo ha un volto è il loro: lo sguardo di odio ottuso e fisso di una, quello inebetito dell'altra reso selvaggio da una striscia rossa dipinta in verticale sul volto e dalle lunghe unghie delle mani, rosse di smalto, e l'indifferenza provocatoria della terza. Il taliban che ci ha scortato fin qui da Kabul discute animatamente con loro finché non si decidono a lasciarci passare. "Sono asini, bestie, altrimenti non si troverebbero in prima linea" mi dice poi, mentre camminiamo sulla strada di pietre stretta tra la montagna e il precipizio che attraversa la terra di nessuno. Si è tolto il turbante nero, la sua divisa. Improvvisi come un temporale estivo risuonano colpi di cannone e di mortaio, l'eco si infrange sulla montagna. Immediatamente dopo un boato sordo, l'aria ha come un ansimo, un respiro amplificato e roco, è il rumore di un razzo katiusha che passa invisibile. Pare un miraggio acustico, si sente chiaro il canto di una voce di ragazzo che si fonde con il rimbombo degli spari. E un giovane pastore con le sue capre: si vede lontano, in alto, sul fianco della montagna. Qualcuno è venuto a prenderci dall'altro lato del fronte, ci raggiunge, abbraccia il nostro taliban senza turbante, si scambiano buste e pacchetti prima che lui torni indietro. Segno che ancora esiste qualche esile filo di contatto tra i due schieramenti nemici. Noi proseguiamo. Bisogna passare di traverso, la schiena attaccata alla roccia, per varcare lo spazio angusto lasciato da un container riempito di pietre che blocca la pista tra la montagna e il precipizio.
Mujaheddin armati, diversi dai taliban solo per il cappello rotondo tipico dei montanari afghani e per le espressioni un po' più aperte, scendono nella neve dalle alture vicine, per venirci incontro. Siamo nel territorio di Massud. Ci avviamo verso la stretta gola di roccia porta della imprendibile fortezza della valle del Panshir.
DA KABUL ALLA VALLE DEL PANSHIR di Giulietto Chiesa
Da Kabul all'imboccatura della valle del Panshir, in condizioni normali, cioè trent'anni orsono, ci sarebbero volute due ore d'auto. Tutte in pianura, su strada asfaltata. Adesso ce ne vogliono dieci, in montagna, salendo a 2900 metri d'altezza. La strada diretta è interamente minata. L'ultimo autobus che ha tentato di passare è saltato in aria. Dieci morti. Allora non resta che farsi i centoventi chilometri di strade sterrate, che s'inerpicano in mezzo a vallate lunari di aspra bellezza. Colabrodi che rammentano battaglie furibonde a colpi di mortaio, voragini, relitti di carri armati e gru e blindati. Ferraglia di scheletri depredati con cura di ogni suppellettile utilizzabile. Dalla piana della capitale ci s'immerge nella vertiginosa discesa che porta a Jalalabad. Un tempo era una fantastica carrozzabile, progettata dai genieri coloniali britannici, asfaltata da re Zahir Shah che andava a passare i fine settimana sul lago artificiale di Shomal e non voleva rompersi la schiena. Si era costruito una villa, proprio sul pelo dell'acqua, quando l'invaso raggiungeva il massimo. Uno chalet che avrebbe potuto stare benissimo in una vallata del Tirolo. Unica abitazione in mattoni, fatti arrivare allora - si dice - direttamente dall'Europa. Adesso tutta la strada è un incubo di buche, l'asfalto è sparito, enormi camion multicolori e stracarichi procedono a passo d'uomo, in interminabili colonne, sollevando ondate di melma, o di polvere. Kabul vive dei loro carichi. Chiudere questa strada equivarrebbe alla resa. Ed è per questo che la strada fu sempre aperta, anche ai tempi sovietici, anche se per tenerla le truppe governative dovevano giocarsi ogni giorno dell'anno la vita di decine di pedoni. Adesso non ci sono combattimenti. I taliban controllano la situazione, a quanto pare senza problemi. Solo un posto di blocco all'imboccatura del passo. Ma, appena superato lo strapiombo di 1000 metri che separa l'altopiano di Kabul dalla pianura fertile di Jalalabad, si svolta a destra, a Sarobi, verso Tagab, la diga e il lago di Shomal, la lunga valle del fiume Panshir. Cento chilometri in salita e falsopiano, in mezzo a una successione di villaggi, case di fango, torme di bambini, verso la neve alta del passo. Non fosse per l'ansimare della jeep, e per i rari taxi Toyota che s'incrociano, potremmo pensare di essere ritornati indietro di cinquecento anni. Non c'è mai stata luce, qui, né turisti. Il buio della notte non è figlio della guerra, che abbatte i lampioni: è il buio dei secoli. Niente luce, niente televisione, niente radio. Il mondo qui non arriva, con le sue notizie, i suoi rumori, la sua civiltà. Ma di qui sono passati i carri armati. Sulla vetta, a uno degli ultimi controlli taliban prima di arrivare nella terra di nessuno, c'è un intero cimitero di blindati. Alcuni sono "vivi". Si vedono gli uomini dentro le torrette a scrutare le montagne tutto attorno. Poi ci s'incammina verso il valico, con le ruote che affondano nel fango fino al mozzo, in mezzo a bambini carichi come asini, scalzi nella neve, superando
taliban con fucile mitragliatore e sacchi di munizioni, che vanno a dare il cambio nelle garitte affondate nella neve. Anche nella terra di nessuno brulica la vita. Poi si devono lasciare le macchine e proseguire a piedi. Un chilometro prima dell'ultimo avamposto. Quattro case appollaiate, tre taliban sulla strada che attendono torvi. Scrutano il lasciapassare con grugniti di disapprovazione. Guardano i nostri scarponi, le nostre facce relativamente glabre. Uno ha le unghie colorate di rosso, l'altro ha occhi bistrati. È normale in campagna, tra i guerrieri, ma qui, in questo silenzio gelido, sembra un avanspettacolo irreale. Mi chiedo come questi tre disgraziati se la passino in questo posto, con la prospettiva, ad ogni momento, di finire ammazzati da un commando avversario. Ma non c'è spazio per la commiserazione. Il kalashnikov del capo colpisce il terreno con un rumore secco del calcio metallico. È di cattivo umore. Questi stranieri che passano dall'altra parte non gli piacciono. Questi stranieri che fumano e gli offrono una sigaretta peccaminosa. Eppure gli occhi di uno dei tre sono spenti, come se avesse fumato qualcosa di ben più pesante della nicotina di una Marlboro. Infine si passa, chinando il capo sotto un pezzo di corda addobbato con festoni di nastri di musicassette. Sfregio all'infedele e monito al fedele che cede alle lusinghe dell'Occidente satanico. È la linea di confine tra due presunte civiltà. Ora bisogna affrontare altri dieci chilometri di strada sterrata e abbarbicata al fianco della montagna. Dieci chilometri, cosparsi di casematte deserte, di container riempiti di sassi piazzati alle svolte strette della stradina per impedire il passaggio dei mezzi pesanti. Non un viandante, non un contadino. Solo, sui contrafforti della montagna, un pastore, in mezzo a pecore pericolosamente affacciate sullo strapiombo, che canta nel silenzio una nenia incomprensibile. Su quei costoni non ci sono mine, ma tutto attorno alla strada ce ne devono essere a bizzeffe. Ci hanno spiegato che è meglio non uscire dal sentiero. L'Afghanistan, si è già detto, è terra di mine. Quasi una per abitante, certamente più di una per ogni bambino. Per gli anni, i decenni a venire, migliaia di afghani continueranno a cadere dilaniati, spezzati, mutilati. Ci vorrebbero miliardi di dollari per risanare questa terra e si sa già che non si troveranno mai. Mine piazzate da tutti i contendenti che si sono avvicendati in questi ventuno anni. Non si salva nessuno. Russi, mujaheddin, pakistani, taliban. Poi giù verso la piana di Kapisa. La base aerea di Baghram, Charikar, s'intrawedono lontano. I cannoni suonano litanie lente, lontane. Ogni tanto il rantolo terribile, ansimante, lacerante di un katiusha. Massud spara sui taliban, che stanno adesso dall'altra parte del fiume. Su un cucuzzolo appaiono i mujaheddin, segno che siamo arrivati dall'altra parte. E la prima differenza che si coglie è nel fatto che molti uomini sono armati. I soliti kalashnikov, ma anche vecchi fucili ad avancarica, che perfino i bambini portano a tracolla. Una distribuzione mortale, ma più "democratica". La differenza non riguarda le donne, tutte rigorosamente coperte dal burqa. Solo che sono più numerose nelle strade. Ma, per intanto, si vede bene l'estensione delle forze di Ahmad Shah Massud nella pianura. Pensavo, prima di arrivare fin qui, che fosse chiuso nella sua irta vallata, invece un bel pezzo della pianura è in suo possesso, almeno adesso. Praticamente tutto il distretto di Kapisa, e la piana che da Gulbahar, all'imboccatura della valle, si spinge fino ai confini di Baghram.
Quanto sia terra sicura e quanto precaria non è possibile dire. Si capisce però che è una guerra "contigua", dove le spie, gli informatori, passano ogni giorno il fronte, travestiti da contadini, cioè da se stessi. Proprio come ai tempi dei sovietici, che non potevano mai dire con sicurezza se un territorio era stato conquistato. Qui l'unica presenza straniera è di nuovo quella di Emergency. Miracolo, anzi "scandalo evangelico", come l'ospedale che si sta costruendo a Kabul. Là quelle mura bianche, quelle corsie luminose, erano l'unico segno di vita in una città morta. Gino Strada è riuscito dove nessuno sta riuscendo: a convincere i taliban che non può essere un mullah a decidere come si cura e si opera la gente. Qui, dall'altra parte del fronte, sei centri di pronto soccorso di Emergency sono sparsi nella pianura, collegati da ambulanze all'ospedale di Anabah, più su nella valle. È raro provare orgoglio nel sentirsi italiano, ma qui e a Kabul - dove si salva la gente, da una parte e dall'altra del fronte, senza chiedergli sotto quale straccio è stata dilaniata - confesso di averlo provato. Ospedali, presidi costruiti con i denari della gente italiana e anche (notizia non meno consolante) con il contributo della Cooperazione Italiana, del nostro governo cioè: "Due miliardi più mezzo miliardo di materiali" conferma Strada. Ma c'è poco tempo e poche ragioni per gioire. Ripenso al piccolo Khalil, visto su un lettino dell'ospedale Karte-se, ancora sotto la sigla della Croce Rossa Internazionale, il migliore ospedale mi dicono - di tutto l'Afghanistan. Khalil è saltato su una mina nella regione di Bahmian ed è qui da due giorni. Avrà sei anni, e non avrà mai più la vista, perché la mina gli ha strappato gli occhi, e una parte del viso e quasi tutte le dita delle mani. Si lamenta con una vocina flebile, che esce da una bocca ustionata sotto un cumulo di bende sporche. Difficile guardare, perché ci vuole forza, e io sento di non averla mentre guardo le mie scarpe confortevoli e asciutte, su un pavimento lercio, e penso alla mia auto di media cilindrata, parcheggiata sotto una casa lontana dove c'è sempre l'acqua e i termosifoni e un frigorifero con tanta roba da mangiare, da quando sono nato. E allora distolgo lo sguardo. Ma Khalil tossisce e la sua tosse debole, catarrosa mi ricorda che quel bambino cieco è ancora sotto quella coperta verde, sporca non solo del suo sangue, e che la mia commozione non cambierà il suo destino. Che in quell'antro squallido sembra essere così smisurato da non poter avere altri padri che Allah il Grande, e quindi nessun risarcimento, e nessuna spiegazione.
BAMBINI PROFUGHI NELLA TERRA DI NESSUNO di Vauro
Lasciandosi alle spalle le montagne innevate che segnano e attraversano la terra di nessuno, la linea del fronte tra i taliban e i mujaheddin, si entra nel territorio dell'Afghanistan controllato dalle truppe di Massud. Attraversando il passo di Kapisa ai bordi delle strade di melma appaiono i primi villaggi di case basse, misere, fatte con mattoni di fango essiccato. Di molte non restano in piedi che grotteschi pinnacoli arrotondati dalla neve che si scioglie. I bombardamenti dei Mig dei taliban si susseguono, due o tre alla settimana. In questo periodo il gelo invernale limita i movimenti di truppe, e la guerra di terra si riduce a scambi sporadici di colpi di mortaio, cannone e razzi katiusha tra le due parti del fronte, ma i missili che partono dai Mig non risparmiano le case. Sono bombardamenti rabbiosi, alla cieca, che distruggono i villaggi più vicini alla linea del fronte costringendo gli abitanti alla fuga. Sono probabilmente quelli che si vedono, attraversando Kapisa avvolti in coperte, riempire i cassoni di vecchi camion russi che arrancano nella melma, o ammucchiati a decine su incredibili calessi tirati da asini sfiancati incrociare i gruppi di mujaheddin armati di kalashnikov che si dirigono, a gruppi silenziosi, nella direzione opposta, verso il fronte. Vecchi container a file lungo la strada sono stati trasformati in botteghe con tettoie di fango e paglia rette da pali di legno. Davanti, a mo' di tettoia, espongono stracci, pelli mal conciate e puzzolenti, pezzi di carne di montone anneriti. Vecchi accovacciati su pezzi di muro, gruppi di bambini con facce da adulto, molti armati di archibugi ad avancarica che ancora gli artigiani fabbricano per la caccia. Qua e là la fugace apparizione di un burqa, il cappuccio di tela che nasconde interamente le donne, e poi le stampelle di legno, tante: sostengono corpi mutilati dalle mine. Lasciata Kapisa ci si addentra nella stretta gola rocciosa dove scorre il fiume Anjumar. È la porta di ingresso alla valle del Panshir. Una porta angusta, tra due alte pareti di roccia frastagliata che scendono a picco verso il letto tortuoso del fiume che ha reso imprendibile il Panshir ai sovietici e lo rende imprendibile ai taliban. La pista pietrosa è chiazzata di ghiaccio, neve e carcasse schiantate di vecchi carri armati russi, immobili come giganteschi fossili preistorici. In una piccola spianata di fango e neve, schiacciata tra la montagna e il greto del fiume, pezzi di tela grigia sono tesi con corde tra il terreno e i cannoni che spuntano dai rottami di carro armato, altri sono attaccati ai cingoli arrugginiti, barriere di fango secco ne chiudono - per quel che possono - le aperture lasciando lo spazio di una porta. È il primo dei tanti campi di rifugiati disseminati nel nord dell'Afghanistan. "Solo nel Panshir ci sono più di 220 mila rifugiati – dice Nazary Enahitullah, ministro per i rifugiati del governo di Massud -. Facciamo il possibile per aiutarli, ma molti campi sono irraggiungibili, non ci sono vie, le montagne sono piene di neve, la strada da Kabul al Panshir è minata, non abbiamo cibo. La siccità dell'estate scorsa ha fatto
salire il prezzo della farina a 3 dollari e mezzo per 7 chili. Sono costretti a nutrirsi di erba che fanno bollire nell'acqua della neve sciolta. Non arriva nessun aiuto dalle Nazioni Unite, che nemmeno li riconosce come rifugiati, perché sono afghani in territorio afghano. Gli aiuti finiscono tutti in Pakistan per i campi di Peshawar e sono gestiti dai pakistani, mentre nella zona di Herat in sole tre notti più di 500 persone, quasi tutti vecchi e bambini, sono morte assiderate a 25 gradi sotto zero". Il gelo ha seccato e reso livida la pelle del viso dei bambini del campo di Anabah che ci circondano a decine, curiosi, non appena mettiamo piede nel labirinto di fango e corde e immondizia ghiacciata che si snoda tra le centinaia di teli tesi che sono l'unica protezione dal freddo delle più di 4800 persone che vivono qui. Un muro di bambini vestiti di stracci colorati che contrastano con l'uniformità del marrone sporco della melma e delle tende rotta a tratti da cumuli di neve sudicia. Il muro di bambini si sgretola e si scompone quando un anziano avvolto di coperte strappate li fa allontanare per lasciarci libero il passo, ma poi si ricompatta subito, qualcuno meno timido azzarda un "How are you?" verso di noi e, ottenuta la risposta, "How are you?" si moltiplica in cento bocche diverse come un'eco. La curiosità si è trasformata subito in un gioco e noi in un giocattolo mai visto, ma poi sono gli anziani del campo, molti sono qui già da diciotto mesi, a guidarci. Alcuni di loro vengono dal nord di Kabul dove avevano frutteti, erano di famiglie ricche e nei loro gesti è ancora impressa una ostinata dignità, nessuno chiede elemosina. Sono di etnie diverse: hazarà, pushtun, tagiki. Ma, mentre la guerra sta assumendo sempre più i connotati di una pulizia etnica condotta dai taliban (che sono pushtun, mentre i mujaheddin sono per lo più tagiki), qui la miseria ha annullato ogni possibile conflitto tra gruppi e ha reso obbligatoria la solidarietà. Tra le tende montate una a ridosso dell'altra si apre ogni tanto uno spazio vuoto, un telo sfondato, spalmato sul fango: sono le tende schiacciate dal peso della neve ridotte a uno straccio inutilizzabile. Intorno a quel vuoto, in piedi, in silenzio, fissandolo come fosse un feretro, si raccolgono gruppi di sfollati. "Le famiglie che vivevano lì - ci spiega uno di loro - ora devono vivere in altre tende con altre famiglie, ci sono tende nelle quali ormai sono costrette tre intere famiglie di 7 o 8 persone l'una, in 6-7 metri quadrati". Le donne non ci accompagnano, le scorgiamo in penombra sotto i teli delle tende, le intravediamo tra i muretti di fango secco che ne coprono le aperture per proteggere l'interno dal vento ghiacciato che scende dalle montagne. Attorno a loro qualche tegame di latta annerito, in terra vecchi tappeti e mucchi di stracci, altri muretti di fango secco ad angolo vicino alle tende formano rudimentali focolari, ma la legna scarseggia e si bruciano cespuglietti secchi, unico dono di questa terra gelata e brulla. Gli uomini più validi non ci sono. Fanno chilometri a piedi ogni giorno per andare nei villaggi a cercare cibo in cambio di lavoro, ma il mercato della miseria è avaro e i segni della denutrizione sono evidenti nei corpi minuti dei bambini e nelle facce scavate dei vecchi e delle donne. Il vento sta alzando nuvole di neve sulle creste delle montagne che si accendono di un rosso vivo nella luce del tramonto. Uno spettacolo bellissimo. Ma con la notte il freddo, fino a 25 gradi sotto zero, si porterà probabilmente via altre vite. Mentre ci allontaniamo alcuni bambini ci rincorrono: "How are you?" gridano.
ANABAH di Giulietto Chiesa
Hafizullah ha tre anni, è scalzo, tossisce a colpi catarrosi da bronchite acuta, il naso pieno di muco. Vive, temo ancora per poco, in una tenda a malapena ancorata a terra da mucchi di fango. Con lui, nella stessa tenda, vivono, si fa per dire, altre quindici persone, otto sono bambini, quattro vecchi. I quattro adulti restanti sono in cerca di cibo, forse torneranno più tardi, non è detto che troveranno qualcosa. Fuori, la notte, la temperatura scende sotto i dieci gradi centigradi. Tutto attorno altre tende, molte delle quali sfondate dalla neve, testimoniano tragedie già consumate. Come Hafizullah vivono ad Anabah cinquemila persone. A decine muoiono ogni settimana, quasi tutti bambini. Aspettano una lontana primavera, a 2700 metri, in mezzo a montagne altissime ancora coperte di neve scintillante, come una speranza per sopravvivere. Provengono quasi tutti dai villaggi a nord di Kabul. Sono fuggiti ai combattimenti tra taliban e mujaheddin, si sono rifugiati nella valle controllata da Ahmad Shah Massud, scegliendo quello che ritengono il minore dei mali, visto che temono di più il governo di Kabul. Ma è improprio chiamarla scelta, perché in mezzo a queste montagne si muore di fame e di freddo, e laggiù, nell'altopiano dove sono rimaste le loro case, si muore di bombe, di mine cosparse nei campi, dove i bambini perdono gambe e occhi e mani al ritmo di cinque o sei a settimana solo nel pugno di villaggi che si affollano attorno all'imboccatura della valle. Cosa accada, ogni giorno, nel resto di un Paese divenuto un immenso campo di mine nessuno è in grado di dirlo, d'immaginarlo. Nello spiazzo deserto, battuto dal vento gelido, appena fuori l'edificio cadente dell'aeroporto di Kabul, si legge ancora una scritta. Tracciata da chissà quale organizzazione umanitaria che chiedeva aiuto, in inglese, che risale ancora a Najibullah: "In Afghanistan ci sono dieci milioni di mine". Nessuno sa quanti siano oggi gli abitanti di questo paese martoriato: forse dodici, tredici milioni. Dal momento in cui quella scritta fu tracciata, sicuramente le mine sono cresciute di numero, anche tenendo conto di quelle che sono esplose, adempiendo al loro compito di straziare esseri umani. Una mina a persona. Credo che non ci sia paese al mondo in queste condizioni. Nella stretta valle del Panshir, mentre scrivo queste righe, di profughi come Hafizullah ce ne sono all'incirca 220 mila. Piccoli grumi di stracci miserabili, tende ancorate a terra da mucchi di pietre, bambini minuscoli che, lungo la strada, gettano terra sotto le ruote della jeep che s'inerpica lungo la strada sterrata che dall'imboccatura della valle porta fino ad Anabah. Aspettano una moneta, un pezzo di pane, qualcosa che li faccia arrivare all'indomani. Sono bambini senza sorriso, le faccine già rugose di pensieri adulti di vita e di morte.
Eppure sono figli di famiglie benestanti. Non nel senso nostro, europeo, ma in quello afghano, di gente che aveva frutteti e campi. Adesso non hanno più niente, come quasi tutti gli altri afghani che ho incontrato per le strade di montagna e di pianura fino a giungere in questo ultimo inferno. Che è un inferno relativo, di privilegiati all'interno della tragedia. Perché i cinquemila profughi di Anabah sono accampati attorno all'ospedale di Emergency. Ed Emergency - che pure ha costruito l'ospedale per curare le vittime della guerra e che, quindi, non avrebbe il compito di aiutare i profughi - ha letteralmente salvato centinaia di disgraziati fornendo tende, pasti caldi, cisterne per l'acqua, coperte, gabinetti chimici, perfino una grossa tenda per una moschea di fortuna. Dell'ospedale italiano dovremmo essere orgogliosi tutti: non c'è in Afghanistan qualcosa che possa essergli paragonato. Ma di questo racconterò ancora, perché Emergency - e Gino Strada che ne è la bandiera - sono esempi assolutamente straordinari non solo di cooperazione e di solidarietà, ma anche di elaborazione di una strategia del soccorso che meriterebbe di essere additata ad esempio alle organizzazioni internazionali, governative e non, che teoricamente dovrebbero fronteggiare emergenze di questo genere. Perché constato che nessuno fa nulla per questa gente disperata. E sono dati mostruosi. Ci sono un milione e 200 mila profughi afghani in Pakistan; un milione e 300 mila sono in Iran; almeno 300 mila si trovano dislocati nelle regioni nordoccidentali dell'Afghanistan attorno alla città di Herat. Qui nell'ultimo mese sono morte di freddo altre 500 persone, di nuovo in gran parte bambini. Più questi nel Panshir. Cifre approssimative per difetto, che segnalano una tragedia nazionale e una vergogna internazionale. Già, perché l'Alto Commissariato dell'ONU per i Rifugiati (UNHCR) si occupa solo dei profughi all'estero e non è autorizzato a intervenire per gli "internally displaced", cioè per i rifugiati che restano all'interno di un paese. E i profughi crescono di giorno in giorno, in tutte le direzioni, mentre il Pakistan e l'Iran hanno chiuso le frontiere. Crescono perché i taliban, ormai da più di quattro anni al potere a Kabul, non sembrano in grado di affrontare nessun problema del paese, né di garantire una qualche forma di sviluppo. E la gente fugge perché non ha da mangiare, né da lavorare, oltre a temere per la sua sorte se si tratta di tagiki, di uzbeki, di hazarà, cioè di etnie diverse da quella dei pushtun che compongono esclusivamente la leadership talibana. Ebbene, di fronte a questo il programma di aiuti dell'UNHCR che fu, nel 1979 (anno dell'intervento sovietico), esattamente di 26 milioni e 237 mila dollari, era sceso nel 2000 a 2 milioni 427 mila dollari. E l'altra organizzazione dell'ONU, World Food Program (WFP), dispone soltanto di 50 mila tonnellate di farina, il pane per un mese e per il 10 per cento scarso dei rifugiati in Pakistan. Poi sarà un'ecatombe anche per loro. All'ONU si sono decise sanzioni contro il governo dei taliban, ma questo non solo non risolve il problema: aggrava le capacità operative dell'aiuto dall'esterno. Un aiuto che - colmo della vergogna - è stato e continua ad essere incanalato attraverso il Pakistan, il cui governo, i cui servizi segreti, i cui vertici militari sono - secondo tutte le più autorevoli, attendibili e informate analisi - tra i principali organizzatori della vittoria militare dei taliban e della tragedia che l'ha preceduta nelle furibonde lotte intestine tra i mujaheddin.
I donatori internazionali di aiuto stanno diventando sempre più avari: tanto più avari quanto più sono diventati ricchi. Il signor Camdessus, ex direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale e autore della teoria del "diventare più ricchi per aiutare i più poveri" potrebbe andare a fare una visitina a Herat. O ad Anabah. Forse uscirebbe dalla sbornia. E, ad esempio, dov'è L'UNICEF, il cui scopo è aiutare e difendere i bambini? Non ho visto molto in queste due settimane passate in Afghanistan, da una parte e dall'altra del fronte. Anche se ho visto a Kabul gipponi con tutte le sigle del mondo di ONG (organizzazioni non governative). Ma dove i profughi muoiono concretamente ho visto solo un centro di pronto soccorso della Croce Rossa Internazionale (chiuso), e un centro dell'UNICEF (chiuso anch'esso). Non spetterebbe a loro mettere in moto un soccorso di emergenza? Altrimenti a chi spetta? E siamo sicuri che ci vogliano molti denari per fare tutto questo? Emergency ha messo in piedi, funzionanti 24 ore su 24, ben sei centri di pronto soccorso nelle zone di guerra, tra Charikar, Baghram, Gulbahar, tutti collegati con ambulanze all'ospedale di Anabah. Possibile che tutti gli altri messi assieme non possano fare altrettanto? Per questo mi chiedo se è così che dobbiamo aiutare la gente afghana e, in generale, se non sia giunto il momento di adottare altri criteri per l'aiuto internazionale. Certo, tutti distribuiscono qualcosa. Mi viene anzi il sospetto che l'Afghanistan, per quel poco che ancora esiste di vita organizzata, si regga sul fallout di denaro che proviene dalla miriade di organizzazioni internazionali dalle sigle varie e strane, che mettono in pace, con la loro sola esistenza, la coscienza dell'Occidente. Ma mi chiedo anche quanta parte dei flussi di denaro stanziati dai governi e raccolti tra la gente vada davvero a finire in aiuti concreti alle popolazioni e quanta invece rimanga, per così dire, impigliata nelle infrastrutture burocratiche, negli stipendi generosi che il grande business della cooperazione internazionale elargisce ai suoi funzionari e burocrati. Scende la notte e il campo di Anabah precipita nel buio, inghiottito nel silenzio. Non c'è petrolio per riscaldarsi, figuriamoci se ne resta per illuminare. Qualche filo di fumo si staglia contro il cielo limpidissimo rischiarato dai riflessi della neve. Le donne, con il loro burqa in testa, escono dalle tende per andare a prendere l'acqua gelida del fiume Anjumar. Sotto i teli si preparano i giacigli di paglia sulla terra nuda, indurita dagli escrementi. In nessuna delle tende ho visto qualcosa che assomigliasse a un letto: solo coperte polverose in una lordura che permea ogni cosa, in mezzo a un lezzo inesorabile, pungente. A ogni svolta della ripida salita che s'incunea tra le montagne, dove si aprono brevi spiazzi a precipizio sul fiume, altri grumi di tende, alcune con il marchio sbiadito della mezzaluna rossa, altre senza nomi di donatori. I carri armati sovietici, monumenti di ruggine, testimoni di un madornale errore di calcolo, alzano ancora i loro cannoni contro l'ingresso della valle. Qualcuno di quei giganti di ferro era riuscito perfino, chissà a quale prezzo, a inerpicarsi all'interno della valle per qualche chilometro, e ora giace, con la torretta esplosa scaraventata a decine di metri di distanza, sul bordo stretto, a un passo dallo strapiombo, della strada di Ahmad Shah Massud. Ma neanche i taliban hanno finora potuto entrare fin qui. Oggi non è nemmeno passato uno dei loro Mig, residuati dell'aiuto sovietico a Najibullah. La gente di Anabah racconta che, ogni tanto, il governo di Kabul manda un aereo per gettare qualche bomba a casaccio, tanto per dimostrare che esiste. Dove colpisce non fa
differenza: le tende non sono rifugio minore di quello offerto dai mattoni di fango delle case dei villaggi. Qui la luce elettrica non c'è mai stata per nessuno. Questo è un mondo dove non c'è nessun "digital divide", e dove non ci sarà per intere, altre generazioni. Non so se Hafizullah sia ancora vivo quando queste righe andranno in stampa. Ma ho la sensazione che il suo destino abbia dei responsabili. Certo non solo tra coloro che si rivelano incapaci di aiutarlo a vivere. E non riesco a togliermi dalla testa l'idea, sommamente sgradevole, che ci sia un nesso, mediato ma preciso, tra coloro che hanno finanziato i signori della guerra afghani, quegli altri che hanno loro venduto le armi e quegli altri, infine, che controllano ogni mattina le quotazioni di borsa a Wall Street o a Milano, senza neanche sospettare di avere a che fare con il destino di un piccolo bambino di Gulbahar. E non riesco neppure a togliermi dalla testa l'altra idea, ancora più sgradevole, che un nesso preciso esista anche tra il destino di quel bambino scalzo e i miei scarponi impermeabili da inviato speciale. In queste tende quelli che hanno avuto la fortuna di trovare qualcosa da mangiare, stanno cucinando. Per gli altri c'è il sonno della fame, e della morte. L'intera, aspra vallata del Panshir si spegne in un silenzio irreale. Qui la storia si è fermata. Non ci sono nemmeno i pianti dei bambini. I bambini afghani non hanno tempo per piangere.
LA CITTADELLA DI ANABAH. INCONTRO CON GINO STRADA di Vauro
Per quasi undici ore consecutive Gino Strada ha guidato il fuoristrada, con la bandiera bianca di Emergency sul cofano, che attraverso una pista insidiosa e squassata da buche, fango e neve, valicando passi a 2900 metri di altitudine ci ha condotto da Kabul al Panshir di Massud. Gino ha attraversato con noi a piedi i quindici chilometri di terra di nessuno che separano le prime linee dei taliban da quelle dei mujaheddin, dove si incrociano i colpi di mortaio e i cupi sospiri dei razzi katiusha. Ci siamo da poco accovacciati sul tappeto in una stanza della casa di Emergency ad Anabah. Gino dovrebbe essere stravolto di stanchezza, e probabilmente lo è, fuma nervosamente una sigaretta, ha fretta. Ha fretta di recarsi nell'ospedale che Emergency ha aperto qui nel dicembre del 1999. Manca solo da poche settimane ma non ce la fa nemmeno a prendersi il tempo di sorseggiare con calma un tè ristoratore tanta è l'ansia di tornare dai suoi pazienti. Il tè ce lo porta Jalil, il padrone della casa che Emergency ha affittato. Una casa di due piani, mattoni di fango secco. Ma Gino l'ha fatta dipingere, ci ha fatto costruire dei bagni, l'ha dotata di generatore per la corrente elettrica e di un impianto idraulico per l'acqua del serbatoio. Lussi da "signore" ad Anabah, come in tutti gli altri centri del Panshir dove corrente e acqua non sono mai arrivate e le strade sono di fango in inverno e di polvere in estate. Infatti Jalil si è inventato un altro Jalil. "Coco Jalil" (coco significa signore, in lingua farsi) perché il proprietario di una così bella casa non poteva essere un poveretto come Jalil ma un vero signore, Coco Jalil appunto. Jalil è stato sette anni chiuso nella terribile galera di Pul-i-Charki a Kabul, prima sospettato di essere un mujaheddin, poi semplicemente dimenticato. Ma se gli si chiede qualcosa risponde ridendo che sì, Jalil è stato in carcere, picchiato e torturato ma "Coco Jalil" mai! I signori non finiscono in galera. Non è passata un'ora da quando siamo arrivati ad Anabah che già attraversiamo l'unico tratto di asfalto di tutto il Panshir: quello che porta all'ospedale che sorge nell'immediato limitare del villaggio. Le mura bianchissime, sorvegliate da guardie che Emergency ha voluto disarmate, per dare un segnale di pace in questo paese dove spesso, seppur di artigianali archibugi ad avancarica, anche i bambini girano armati. A fianco delle mura, le immancabili carcasse di carro armato, "Ma - ci dice Gino alcuni pezzi di quelle carcasse ci sono serviti per costruire l'ospedale. E difficilissimo far arrivare fin qui i materiali da costruzione, i medicinali e le attrezzature sanitarie. Avete visto, la strada che porta al Panshir è bloccata da container pieni di pietre. Bisogna portare tutto con gli asini e i muli".
La serenità che regna dentro le mura dell'ospedale non può fermare la voracità della guerra che lacera il Paese. Attorno all'ospedale è cresciuto un grande campo profughi, più di 5000 persone. Le tende, centinaia, sono piantate proprio a ridosso delle sue mura bianche. L'ospedale sembra una cittadella assediata. Ma, al contrario, è la cittadella che assedia la miseria del campo. Qui almeno i rifugiati, che in altri campi muoiono dimenticati dal mondo, hanno ricevuto tende, coperte, cibo, medicinali, addirittura sono stati impiantati bagni chimici per arginare il disastro sanitario. Soran, Jussef: alcuni infermieri sono kurdi, vengono da Sulaimaniya. Si sono formati nell'ospedale di Emergency nel Kurdistan iracheno e ora sono qui come personale internazionale. Non è solo la lingua kurda, molto simile al farsi afghano, a renderli preziosi, ma soprattutto la loro conoscenza, vissuta e diretta, dell'orrore della guerra che li avvicina a chi ne è vittima. Fra le mura di cinta dell'ospedale e i padiglioni bianchi a schiera come villette, si aprono ampi spazi aperti, curati e pulitissimi che danno respiro a tutta la struttura: la mensa, la sala giochi per i bambini, la scuola, il deposito di medicine, il distributore di carburante, la stanza del generatore, fino al campo di pallavolo e alla piazzola di atterraggio per l'elicottero, che sarebbe utilissimo viste le enormi difficoltà di spostamento, ma che ancora non c'è perché non ci sono sufficienti fondi per l'acquisto. Gino già si è dimenticato di farci da guida nell'ospedale impegnato com'è a controllare tutto, a discutere con gli infermieri e il personale. In una delle sale linde e luminose dell'accettazione, alcuni pazienti appena arrivati già indossano i pigiami puliti che passa l'ospedale. Gino si arrabbia con chi li ha accolti: "Hanno solo dei calcoli renali. Se i taliban bombardano qualche villaggio e arrivano decine di feriti gravi, dove li metto se loro occupano i letti?". Questo ospedale e i sei centri di primo soccorso che Emergency ha costruito sono gli unici presidi sanitari di tutto il Panshir. La corsia delle donne e delle bambine è piena. C'è stato un bombardamento di Mig sul villaggio di Gulbahar. Ferite da schegge, da ustioni le donne e le bambine riempiono i letti con lenzuola fresche e coperte pulite. A viso e capo scoperto, libere dai veli, ritrovano, seppur nella sofferenza, una dimensione di dignità e umanità garantita dalla assidua assistenza dei medici e degli infermieri, in un ambiente ordinato e pulito. Sul piazzale si è fermato un furgone che viene da uno dei centri di primo soccorso, sorretto da due infermieri, ne scende un uomo. Una benda bianca gli copre il volto per metà, è stato colpito all'occhio da una scheggia di bomba. La serenità che regna dentro le mura dell'ospedale non può fermare la voracità della guerra che lacera il paese ma, ed è molto, strappargli alcune delle vittime. Il bambino steso in uno dei letti ha gli occhi socchiusi, sua madre gli accarezza la fronte, una infermiera scosta un lembo delle lenzuola che lo coprono. Gino ha un moto di rabbia: "No, il moncherino della gamba non deve stare in questa posizione, se il muscolo si atrofizza così non sarà più possibile mettere la protesi". Con un movimento deciso afferra il pezzetto di gamba che resta sotto il ginocchio del piccolo e lo forza nella giusta posizione. Il bambino grida e si mette a piangere. "Devi tenerlo così - gli
dice Gino parlando in italiano - se no non potrai più camminare". Il bambino lo guarda serio e smette di piangere, come se avesse capito che qualcuno potrà restituirgli la gamba che una mina gli ha rubato. L'Afghanistan non è terra di miracoli anche se questo ospedale lo sembra. Sono l'intelligenza, la volontà, l'amore e la fantasia di una piccola organizzazione italiana come Emergency, delle persone che vi spendono la vita come Gino Strada a farlo sembrare tale.
QUELL'UNICO MADE IN ITALY CHE CI PIACE di Vauro
"E qui pianteremo le buganvillee, perché questa gente ferita dalla guerra, con negli occhi solo orrore, ha diritto a un po' di bellezza!". Era lo scorso febbraio e Gino Strada mi mostrava l'ospedale di Emergency a Kabul quasi ultimato. Il 25 aprile di quest'anno già l'ospedale è diventato operativo. Ci sono luoghi che si imprimono nel cuore oltre che nella memoria e le mura bianche di quell'ospedale, unica isola di civiltà dentro una Kabul martoriata, sono uno di questi. Siamo a maggio e le buganvillee saranno sicuramente fiorite. Chissà se i taliban che hanno fatto irruzione nell'ospedale le avranno viste? Chissà se questi fiori di speranza calpestati susciteranno la stessa indignazione nel mondo "evoluto" delle statue dei Buddha fatte saltare? Chissà se in questa nostra Italia dove si riscopre con gran clamore l'amor di patria, l'orgoglio nazionale si sentirà offeso dall'aggressione al lavoro svolto con intelligenza, amore e fantasia da alcuni dei suoi migliori "ambasciatori", gli italiani di Emergency, che hanno portato in quel lontano paese il "made in Italy", non nella forma di vestiti griffati, ma nella sostanza di un eroico e ostinato aiuto a un popolo dimenticato e sofferente? Io l'ho provato l'orgoglio di essere italiano, quando ero tra le mura di quell'ospedale a Kabul, cogliendo la stima e il rispetto negli sguardi che gli operai afghani che lavoravano nella struttura rivolgevano al personale di Emergency. Vadano là a tagliare il nastro tricolore per la riapertura dell'ospedale di Emergency il presidente della Repubblica, il vecchio o il nuovo presidente del Consiglio. Vadano là a dimostrare che l'Italia è fiera di essere "rappresentata" all'estero da cittadini come Gino Strada e soprattutto che non li lascia soli.