Adolescenti da brivido. Problemi, devianze e incubi dei giovani d'oggi 8860819539, 9788860819536

Ancora oggi è presente una viva inquietudine tra i genitori e gli insegnanti, uniti a far fronte a certi giovani i cui c

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Italian Pages 320 [319] Year 2012

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Adolescenti da brivido. Problemi, devianze e incubi dei giovani d'oggi
 8860819539, 9788860819536

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COLLANA MEDICO-PSICO-PEDAGOGICA

Pierre Coslin

ADOLESCENTI DA BRIVIDO Problemi, devianze e incubi dei giovani d’oggi

ARMANDO EDITORE

COSLIN, Pierre G. Adolescenti da brivido. Problemi, devianze e incubi dei giovani d’oggi ; pref. di Jean Dumas Roma : Armando, © 2012 320 p. ; 21 cm. (Medico-psico-pedagogica) ISBN: 978-88-6081-953-6 1. Adolescenti: indagine sociologica 2. Disadattamento sociale 3. Rifugio nella violenza CDD 155

Traduzione di Piero Bonanni Titolo originale: Ces ados qui nous font peur © Armand Colin, 2010 © 2012 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 03-00-289 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

Sommario

Nota del traduttore

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Prefazione di JEAN DUMAS

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Introduzione: Far paura quando si ha paura Farsi riconoscere Un faccia a faccia difficile I giovani fanno paura Disadattamenti sociali o società inadatta ad alcuni? In cerca di punti di riferimento, alla ricerca di limiti

11 13 14 15 19 25

Capitolo primo: Persi di vista Dalla fuga all’erranza Dall’erranza al carcere Rifugiarsi nelle sette

33 36 47 54

Capitolo secondo: La scuola è come la bicicletta Brontolare a scuola Se non si pedala… si perde l’equilibrio! Gli insegnanti davanti agli allievi

73 75 86 94

Capitolo terzo: Si divertono a farsi del male Aggredirsi non è giocare Il foulard della morte Il fenomeno Jackass L’happy slapping E Internet

105 106 110 117 128 134

Capitolo quarto: Bande che fanno paura Gli stupri di gruppo o “giretti” Gli hooligans Il rodeo Scrivere il proprio nome, scrivere il proprio no; tag e graf Le periferie della violenza Una nuova dinamica nelle sommosse

147 148 154 157 162 169 179

Capitolo quinto: Bere, fumare, sorvolare Io fumo, tu fumi… noi fummo… Hanno proprio bisogno di bere… I giovani e le droghe Musica, violenza e droga

191 192 197 211 221

Capitolo sesto: Il corpo che cambia Le modificazioni corporali Il corpo barattato Quando le diete diventano una filosofia di vita Coloro che si danno la morte

239 240 256 266 277

Conclusioni: Adolescenza e sintomatologia Bisogna aver paura degli adolescenti? Una generazione diversa Per concludere

289 290 296 305

Bibliografia

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Nota del traduttore

Se gli adolescenti fanno paura, il loro linguaggio non è certo da meno. La prima difficoltà da superare per capire i loro problemi è infatti la traduzione del linguaggio, gergale, sgrammaticato, frenetico e sincopato che utilizzano, un linguaggio reso “difficile” dalla sinteticità degli SMS, delle e-mail e delle espressioni dei rapper, ma certo non da problemi nell’uso di penna e calamaio; la seconda difficoltà è la “traduzione” dei legami sociali che, attraverso un linguaggio simile, si stringono. L’adolescenza di cui si parla in questo libro è, nei suoi aspetti estremi, distante da ciò che l’esperienza quotidiana ci propone, anche perché, l’intenzione dell’autore è di sottolineare taluni, statisticamente ridotti, comportamenti devianti, per spiegarli e affrontarli con la lucidità e il rigore scientifico di chi possiede strumenti per ingrandire, o in questo caso “ingigantire”, alcune devianze. Il lettore si troverà davanti a realtà forse sorprendenti, ma potrà, dopo una breve ricerca sul web, accertarsi di quanto fenomeni come l’anoressia on-line, il branding e il corsetry-piercing siano assolutamente diffusi e già datati. I giovani amano le nuove tecnologie (non sempre) a buon mercato che si diffondono rapidamente, ed essi le rendono status symbol indispensabili ad una “sana” integrazione nel mondo dei loro pari; gli adulti, invece, viaggiano mentalmente ad un’altra velocità e, proprio perché ogni società ha gli adolescenti che si merita, non c’è da sorprendersi che la scuola abbia talvolta la sensazione di “inseguire” i ragazzi per conquistarne l’attenzione. È così che i libri subiscono sempre più l’impari concorrenza dei nuovi strumenti di intrattenimento e di informazione, che tanto posto e tanto tempo sembrano occupare nei pomeriggi che gli studenti dovrebbero trascorrere a studiare. È lo scontro fra una civiltà della lentezza – quella dei genitori e degli insegnanti – e una civiltà della velocità – quella giovanile tecnologizzata 7

–, basato sulla sempre più parziale condivisione dei valori tradizionali, di cui gli adulti di oggi sembrano i goffi depositari. Come dovrebbe essere educato un ragazzo? I genitori devono preoccuparsi di ogni sia pur insignificante sintomo di malessere, per aiutarlo? Siamo cronologicamente, e forse anche ideologicamente, distanti da quell’entusiasmo militante che, secondo il Konrad Lorenz de L’Aggressività, faceva sì che gli adolescenti si fissassero, in una sorta di imprinting umano, su un ideale qualsiasi e lo portassero avanti, anche a costo della propria vita, integrandosi istintivamente in un gruppo. Questa teoria sembra davvero fuori luogo: non perché non si confaccia alla situazione contemporanea, anzi, ma perché presuppone, negli adolescenti, un innamoramento per ideali che essi, oggi, potrebbero possedere solo se li scaricassero da un sito Internet. Attenzione però, si parla sempre di minoranze: la maggior parte dei ragazzi sembra non avere nessun problema e Pierre G. Coslin non vuole certo far credere che tutti i padri e le madri del III millennio dovrebbero essere sociologi o psicologici per educare un figlio. Eppure viene da chiedersi che cosa accadrà, quando alcuni adolescenti cresceranno e tutti i tatuaggi, i piercing e le scarificazioni saranno stagionati sulla loro pelle di uomini ormai adulti e anziani: se i giovani tendono a creare una moda esaltando modelli distanti da quelli dei propri genitori, fra due generazioni si avranno dei ribelli con la barba perfettamente rasata, i vestiti ordinati e ben piegati? Gli adolescenti, su questo Coslin è assolutamente chiaro, sono l’investimento e il risultato della società che li ha prodotti. Come saranno, dunque, i giovani del 2050? Piero Bonanni

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Prefazione JEAN DUMAS

Ogni generazione si preoccupa dei suoi adolescenti e ha, talvolta, paura di loro o per loro. Se questo libro ci ricorda che tale preoccupazione non è nuova, ci mostra anche a che punto e attraverso quali mezzi, numerosi adolescenti ci sembrano terribili. Si tratta fortunatamente di una minoranza di giovani, un punto che Pierre G. Coslin sottolinea spesso e che non bisogna mai perdere di vista, poiché la maggior parte degli adolescenti giunge senza troppi ostacoli o stravolgimenti all’età adulta. La minoranza a cui questo libro, così precisamente, è dedicato, è particolarmente preoccupante, sia per la diversità dei suoi comportamenti problematici sia poiché la maggior parte degli adulti ne ha una conoscenza incompleta. Gli adolescenti che fanno paura non sono solamente quelli violenti, che si drogano o che tentano di suicidarsi, ma anche gli artefici e le vittime di nuovi eccessi, di cui gli adulti hanno forse sentito parlare o di cui sospettano l’esistenza, ma di cui solo raramente conoscono la portata. Che cosa si sa dell’influenza delle sette durante l’adolescenza, del gioco del foulard, del fenomeno Jackass, dell’happy slapping, degli stupri di gruppo, dei rodeo, delle sostanze che si fumano, si bevono o si iniettano, o ancora delle mortificazioni corporali o della glorificazione dell’ana on-line? Questi comportamenti, che a giusto titolo fanno paura, sono preoccupanti poiché spesso agevolati dalle nuove tecnologie di cui gli adolescenti fanno un grande uso, per l’anonimato che esse offrono e l’impunità che spesso ne deriva, così come per il tempo libero, di cui gli adolescenti dispongono abbondantemente: infatti l’adolescenza è dive* Jean Dumas, Professore all’Università di Ginevra, Direttore dell’Unità di Psicologia clinica dello sviluppo.

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nuta una fase della vita che comincia sempre più presto e che per alcuni si prolunga ben al di là della maturità ufficiale. Questi comportamenti sono facilitati anche da una società che non crede più ai miti e che non accorda più importanza ai riti religiosi o civili che, nel corso dei secoli, hanno marcato il passaggio dall’infanzia all’età adulta e permesso alle nuove generazioni di adolescenti di imparare a superare le loro paure o almeno a controllarle. Poiché Pierre G. Coslin ci ricorda a più riprese una cosa essenziale: gli adolescenti che fanno paura sono spesso giovani che hanno paura e che non sanno gestire questa emozione spesso pervasiva. Paradossalmente, molti sono proprio quelli che i genitori hanno voluto proteggere da tutti i pericoli e a cui hanno voluto risparmiare anche crescendoli nel grande conforto del “tutto è permesso”, tutto tranne la paura, la vera paura, quella che ciascuno deve imparare a gestire per crescere davvero. Senza limiti ben chiari e raramente messi di fronte a reali sfide durante l’infanzia, alcuni scelgono di far paura intorno a sé fino a quando siano loro imposti dai limiti, altri scelgono di farsi paura, nella speranza di poter un giorno superare dei veri ostacoli. Mai allarmista, Pierre G. Coslin descrive e aiuta a comprendere i comportamenti più vari degli adolescenti problematici, senza cercare di spiegarne sistematicamente le cause molteplici e senza prescrivere dei rimedi particolari. Con pennellate di umorismo, davvero benvenute, ci offre così un ricco panorama di una situazione in costante evoluzione: a un livello più profondo, questo libro ci mostra che non si tratta semplicemente di puntare il dito contro certi adolescenti per meglio conoscerli e, forse, controllarli. Poiché questi adolescenti sono, in molti casi, i nostri stessi figli. E, in tutti casi, i figli di una società che per molto tempo ha creduto, e che talvolta crede ancora, che sia possibile crescere un bambino senza imporgli dei limiti, senza frustrarlo e senza mai insegnargli a dominare le proprie paure. In breve, questo libro vi affascinerà per la facilità della lettura, per le scoperte che farete ad ogni pagina, o quasi, e per i numerosi interrogativi che non mancherà di sollevare. Buona lettura!

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Introduzione

Far paura quando si ha paura

Solo ieri i bambini avevano paura degli adulti: rispettavano i loro genitori, i loro educatori, le forze dell’ordine… invece oggi… Chi fra noi non ha mai sentito discorsi simili? Eppure, al di là di queste riflessioni allarmiste che si ritrovano in tutte le epoche, ai nostri giorni si rincontra una certa inquietudine, presso i genitori come presso gli insegnanti, ovvero all’interno della società nel suo insieme, riguardo a una gioventù o almeno ad alcuni dei suoi membri – “non i nostri, quelli degli altri…” – i comportamenti dei quali produrrebbero un malessere diffuso e una forte sensazione di impotenza. Una gioventù le cui condotte imprevedibili andrebbero ben al di là di quanto è comunemente ammesso. Forse alcuni giovani sono diventati indecifrabili, intoccabili, una specie di bambini “teflon” – per riprendere un concetto sviluppato alla fine degli anni ’80 dallo psicologo quebecchese Daniel Kemp1, per designare coloro sui quali niente “fa presa”, né punizioni né ricompense né sensi di colpa. Simili bambini sembrerebbero essere disadattati, non “sistemabili”, aggressivi e violenti eppure intelligenti, ma in possesso di un’intelligenza che ostacola in qualche modo la loro integrazione. Questi giovani danno forse l’impressione di sfuggirci come sfuggono inesorabilmente quelle scope che l’apprendista stregone ha animato per farsi aiutare. E alla dismisura risponde l’esagerazione. È così che in Francia si discute sulla possibilità di stabilire un coprifuoco notturno per i minori di 13 anni non accompagnati; è così che in Gran Bretagna si pensa di “tracciare” elettronicamente i bambini al fine di controllare la loro presenza nei locali scolastici; è così che alcune scuole americane sono provviste di 1

Kemp D. (1989), La syndrome de l’énfant téflon, Québec, E=MC2.

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metal-detector all’ingresso, un insieme di misure destinate, per un verso, a proteggersi dagli adolescenti, per l’altro a proteggere gli adolescenti da se stessi. Eppure, questi giovani dai quali vogliamo difenderci, sono in un certo modo – come sostiene Jacques Salomé2 – il riflesso delle nostre proiezioni interne, rappresentano forse una parte delle nostre aspirazioni più profonde, poiché mettono in atto, attraverso i loro comportamenti, le nostre pulsioni represse. Forse temiamo, vedendo i loro comportamenti, di passare noi stessi a degli atti che non autorizzeremmo, ma che inconsciamente ci sarebbe piaciuto compiere. Queste creature che ci sfuggono e che ci spaventano riattivano forse la nostra paura di lasciarci andare? E inoltre, questo fenomeno è davvero così nuovo come alcuni pretendono che sia? Aggressivi durante le partite di calcio, colpevoli di forme di inciviltà e di violenza gratuita all’interno delle città e spesso nelle scuole, capaci di violentare e di autodistruggersi, gli adolescenti sono oggi oggetto di dibattiti politici e sociali. Siamo realmente messi a confronto con una problematica che supera largamente i limiti che si rimproveravano un tempo alle giovani generazioni, oppure subiamo una specie di intossicazione mediatica volta a “normalizzare” la nostra società? Per alcuni è tempo di dar luogo a sanzioni più dure contro questa gioventù in rotta e di abbassare l’età della responsabilità penale, affinché non si lascino impuniti i suoi comportamenti. Per altri si tratta del recupero di condotte isolate, destinato a far accettare la messa in atto di una politica securitaria; per altri ancora sarebbe piuttosto la nostra società ad essere “malata” e bisognerebbe rapportare le condotte di questi giovani ai contesti di vulnerabilità a cui essi devono far fronte, essendo proprio loro le prime vittime dei mutamenti di una società in via di precarizzazione e di disumanizzazione. Come afferma Jean Ominus nella Encyclopaedia Universalis, l’esuberanza dei giovani non ha mai smesso di turbare la quiete degli adulti: così ad Atene, in cui la giovinezza dorata condotta da Alcibiade causava celebri scandali, così a Roma, al tempo di Catullo, quando i “giovani” si opponevano rumorosamente ai gusti e alle tradizioni dei “vecchi”, così nel Medioevo, quando bande di studenti saccheggiavano le città universitarie, ed era possibile contenerli solo con corpi di polizia specializzati. 2 Jacques Salomé è psicosociologo diplomato alla Scuola degli alti studi in Scienze Sociali di Parigi, formatore in relazioni umane, scrittore e poeta.

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Platone, 25 secoli fa, faceva dire a Socrate: «Il padre s’abitua a dover trattare suo figlio da pari a pari e a temere i suoi figli, il figlio diventa uguale a suo padre, non ha più paura di niente e non teme più i suoi genitori poiché vuole essere libero [563a]… il maestro […] teme i suoi discepoli e li blandisce, i discepoli non rispettano i loro maestri, non più di tutti quelli che si occupano di loro; e – per dirla tutta – i giovani imitano gli anziani e si oppongono violentemente a loro nelle parole e nei fatti, mentre gli anziani, scendendo al livello dei giovani, si ingozzano di sciocchezze [563b] e di scherzi, imitando i giovani per non mostrarsi sgradevoli e dispotici3». È chiaro, la transizione verso l’età adulta non si svolge mai con dolcezza, ma sembra oggi sempre più difficile e prolungata nel tempo, anche perché le società moderne hanno abolito tutti quei riti di passaggio che aiutavano gli adolescenti a integrarsi nella comunità. Se, dal punto di vista biologico, l’adolescenza potrebbe essere il miglior periodo della vita, per un buon numero di giovani essa si rivela molto più spossante che gratificante in ragione delle condizioni e delle restrizioni che l’accompagnano4.

Farsi riconoscere Philippe Jeammet, psicologo infantile e psicoanalista, ricorda che gli adolescenti hanno sempre provato questo bisogno fondamentale di essere riconosciuti, di avere fiducia e successo. È vero che oggi, essendo cambiate le condizioni esterne, essi hanno anzitutto libertà e possibilità 3 Platone, Repubblica VIII, 563a-563b, Ginevra, éd. Estienne (1578), trad. di Bernard Suzanne. 4 La maggior parte delle funzioni fisiche e mentali sono al loro apogeo, il senso del gusto e l’appetito sono particolarmente sviluppati, il sonno è profondo, la sensibilità alla musica eccellente. Gli adolescenti si caratterizzano anche per la loro resistenza, la loro capacità di superare le crisi, di trovare aspetti positivi in eventi negativi; idee nuove, radicali e divergenti da quelle degli adulti marcano la loro immaginazione, ma questo periodo è anche quello in cui passano il loro tempo in attività che preferirebbero non svolgere – lavorare per guadagnarsi da vivere o starsene dietro un banco a scuola ad acquisire conoscenze apparentemente inutili. Fuori da scuola devono confrontarsi con un’offerta di beni di consumo esorbitante, ma questi piaceri materiali e queste fonti di distrazione non li riguardano tutti per ragioni economiche evidenti, e questo genera frustrazioni considerevoli. Molti si sentono frustrati anche da quel poco di responsabilità che sono loro accordate, contrariamente agli adolescenti delle generazioni precedenti (Csikszentmihalyi, Encyclopaedia Universalis, 2007).

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di espressione, ma hanno anche bisogno di divieti che li rassicurino. Se non hanno fiducia in se stessi si sentono disorientati. Poiché la società li obbliga a compiere delle scelte, devono essere protagonisti della loro vita sia nella creatività sia nella distruttività e, in mancanza di successo, essi ricercano l’insuccesso, diventando così essi stessi i propri carnefici: si scarificano, si drogano o soffrono di disturbi alimentari… Davanti a simili comportamenti i genitori manifestano i loro interrogativi: bisogna aver paura degli adolescenti? Che cos’hanno dunque nella testa? Sono più violenti di un tempo? Hanno perduto i loro punti di riferimento? Come si può accettare la violenza gratuita, la dominazione brutale, la dipendenza dalla droga, il consumo di alcol, i marchi del corpo? Xavier Pommereau, nella sua ultima opera5 parla di adolescenti “in picchiata” che si confrontano con madri “nel pallone”. I giovani sono “in picchiata” quando esitano e balbettano, quando sono ubriachi di alcol e di droga, quando perdono le staffe senza ragione, scarificandosi, dedicandosi senza limiti ai videogiochi o quando decidono di trasformarsi in scheletri ambulanti; e le madri si sentono “nel pallone” quando capiscono di essere profondamente incapaci di impedire gli effetti della “caduta” dei loro figli, per i quali avevano sperato un’adolescenza promettente e serena. Dopo averli portati in grembo e averli cresciuti come fossero la loro stessa carne, le madri sentono quest’impotenza ancor più dei padri, soprattutto quando si sentono sole nel gestire questa fase di turbolenze, o quando attraversano esse stesse un momento difficile. “Un adolescente su sette presenta e riferisce oggi simili problemi”, precisa Pommereau, e aggiunge che sembra così disegnarsi una tendenza: i passaggi all’atto nelle crisi familiari comincerebbero sempre più presto, dall’età di 11 anni, con un picco di frequenza fra i 14 e i 15: si tratta più frequentemente di fughe, di sbornie, di automutilazioni, di dipendenza dai videogiochi e di disturbi delle abitudini alimentari che né la dolcezza né la fermezza educativa sembrano poter fermare.

Un faccia a faccia difficile Si può davvero contestare ai genitori il diritto/dovere di criticare, di fare appello a valori essenziali come il rispetto degli altri, l’uguaglianza 5

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Pommereau X. (2010), Ados en vrille, mères en vrac, Paris, Albin Michel.

o il rifiuto della violenza? Essi compiono la loro funzione di genitori, di adulti depositari dei valori che vorrebbero trasmettere. Devono riacquistare fiducia in se stessi e ritrovare una legittimità nell’applicare le regole dell’educazione. Essi sono, ricorda Jeammet, “troppo paralizzati dalla paura di sbagliare”. Ora, in quanto adulti, i genitori devono possedere del carisma, cioè una certa autorità sul bambino, perché egli possa integrare la tutela naturale che ritrova a scuola e nella vita sociale. Fino a 9-10 anni l’autorità parentale è abbastanza forte. In seguito, gli adolescenti vorrebbero essere considerati indipendenti, mentre i genitori vorrebbero ancora vegliare su di loro, e vivono male le loro manifestazioni di autonomia, sopportando a malincuore, constata il sociologo Michel Fize6, di non godere della loro ammirazione, di penare a farsi obbedire, di sentirsi vecchi tutto in una volta. «Essere genitori di un bambino ed essere genitori di un adolescente non è lo stesso mestiere – spiega Fize – e la paura che egli ci sfugga conduce spesso a mantenere, costi quel che scosti, la nostra autorità». Ora, se si vuole che l’adolescente obbedisca, è necessario fargli comprendere la ragionevolezza di ciò che gli si chiede. Bisogna persuaderlo, dialogare, perché vuole essere trattato da grande, anche se non ha ancora acquisito il modo di ragionare di una persona adulta; è necessario parlargli senza tergiversare, facendo riferimento a valori a cui normalmente gli adolescenti sono sensibili, come la giustizia, la solidarietà o il rispetto degli altri. “Quando questi valori sono radicati, si può lasciare la briglia, dargli fiducia ed affidargli delle responsabilità”, conclude Fize.

I giovani fanno paura I giovani fanno paura. Hanno sempre fatto paura. Le prime pubblicazioni apparse in Francia riguardo agli adolescenti insistevano già su questo aspetto: paura della loro sessualità incontrollata, della loro forza fisica e delle loro potenzialità rivoluzionarie e delinquenti. I giovani parteciparono alle sommosse del 1789, alle rivolte del 1830, del 1848 o del 1871, a quelle del 1956 in Ungheria, nel 1968 in Francia e alle rivoluzioni che misero fine ai regimi totalitari nell’Europa dell’Est, o, più recentemente, alle rivolte delle periferie francesi nel novembre 2005. Sono quei giovani 6

Fize M. (2006), L’adolescent est une personne, Paris, Seuil.

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dei ceti popolari che Duprat descriveva come potenziali criminali, come origine del male sociale, questa incarnazione di un pericolo che doveva condurre all’attivazione di meccanismi coercitivi specifici, come gli istituti assistenziali, le colonie agricole o le prigioni riservate ai minori di estrazione popolare, poiché quelli borghesi erano una responsabilità delle scuole superiori dell’epoca, una forma più sottile di sorveglianza. È anche vero che i gruppi giovanili sono sempre stati stigmatizzati. Questi hanno sempre suscitato delle apprensioni, ricorda il sociologo Laurent Mucchielli, poiché erano numerosi e sembravano incontrollabili. All’inizio del XX secolo erano gli “apaches”, poi negli anni ’60 i “giubbotti neri”. Sono oggi i “ragazzi di periferia” che, aggiunge il sociologo, hanno la particolarità di essere spesso di colore, circostanza che rinforza la paura che essi ispirano, poiché gli stereotipi prendono il posto di un’analisi sulle loro origini. Bisogna essere coscienti che, se spesso gli adolescenti hanno una pessima stampa, è perché i media li mettono in cattiva luce, parlando solo di quelli che hanno difficoltà e occupandosi raramente di quelli che, ad esempio, fanno volontariato. Selvaggi e “selvatici” La stigmatizzazione dei giovani non è nuova, sostiene Mucchielli. La stampa dei primi del ‘900 mette l’accento sul pericolo rappresentato dai giovani delinquenti, questi “apaches”, originari dei quartieri periferici e dei sobborghi parigini. Sono definiti ladri e violenti, ma anche stupratori e, talvolta, assassini, affiliati a territori di cui portano il nome, stigmatizzando quartieri e strade. All’epoca si parla di selvaggi – come oggi di selvatici – da cui il termine “apaches”. Sono lentamente spariti così come è sparita gran parte della gioventù durante la Prima Guerra Mondiale. Il periodo fra le due Guerre conosce un declino demografico ma un’economia fiorente, seguita dalla crisi degli anni ’30, che conduce al Fronte Popolare7 e alla Seconda Guerra Mondiale. La società dell’epoca non si preoccupa molto dei suoi giovani, ma poiché l’euforia della Liberazione porta a un forte aumento dei matrimoni e, correlativamente, a un baby boom, questa gioventù, divenuta pletorica, inquieta nuovamente la 7

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Nome di movimenti di sinistra, in Francia, ostili al nazismo, N.d.T.

società che, agli inizi degli anni ’60, dà vita a ciò che i media definiscono “giubbotti neri”, bande caratterizzate dal loro look e dalla loro violenza “irrazionale” e “gratuita”, secondo la stampa dell’epoca. Si evoca per la prima volta il lassismo delle famiglie, la perdita dei valori morali e l’influenza della cultura di massa americana. Di fronte alla crescita della generazione di James Dean, il prefetto Maurice Papon si domanda se non sia il caso di proibire il rock’n roll… A questi giovani erano attribuiti quattro tipi di comportamenti: 1. scontri violenti fra bande che si battevano a colpi di catena di bicicletta e spranghe di metallo per difendere il loro territorio, che organizzavano dei raid nei centri cittadini, nelle feste e nei concerti, saccheggiando tutto ciò che potevano; 2. la perpetrazione di stupri di gruppo; 3. furti per uso immediato e ostentatorio, legati ai nuovi beni di consumo, come automobili e motorini, furti spesso limitati al “prestito”8, per una passeggiata serale; 4. atti di vandalismo rivolti contro le istituzioni, scuole, edifici e tutti i luoghi pubblici – parchi, giardini – che offrivano una forte visibilità alla loro azione. La parabola storica è istruttiva – osserva Mucchielli – anche se ciò che si rimprovera oggi agli adolescenti è un po’ diverso. Né gli “apaches” né i “giubbotti neri” consumavano droghe, erano nati in Francia da famiglie europee, non si dicevano vittime di un complotto ordito dalla società, non bruciavano autovetture e si scontravano raramente con le forze dell’ordine. La maggior parte degli atti di delinquenza giovanile oggi constatati non sono dunque affatto nuovi, il che spinge a non cedere al catastrofismo di che crede che la nostra società sia caduta in una decadenza irreversibile, con la delinquenza che esplode anche nelle zone rurali, praticata da individui asociali, sempre più giovani e sempre più spesso di sesso femminile. Una società in cui la violenza invade anche i luoghi più sacri, come la scuola, a causa di genitori dimissionari e di forze dell’ordine impotenti. Ciò che è nuovo è che nel 1975 l’adolescenza iniziava con l’ingresso alle scuole superiori, estendendosi dai 15 ai 19 anni mentre 8 Furto, poi abbandono del veicolo – che, grazie all’uso dell’alcol, era spesso ammaccato – ai margini della strada.

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oggi, nei Paesi industrializzati, comincia in seconda media per estendersi fino ai 18 anni, quando non sono 25, momento in cui si approda finalmente all’autonomia. L’adolescenza comincia con la pubertà, ma non si sa quando finisce, visto che alcuni adulti danno l’impressione di comportarsi come adolescenti: «non saranno mica i genitori che, avendo paura di invecchiare, hanno la tendenza a mantenere la generazione successiva in una situazione di dipendenza, in modo da mantenere l’illusione della propria giovinezza?», si chiede Patrice Huerre. I giovani hanno paura Quando parliamo degli adolescenti, rischiamo ambiguità e doppi sensi. Si tratta di adolescenti che hanno paura, o di adolescenti che la provocano? Pensiamo che i giovani siano in pericolo o che lo costituiscano? E in tal caso, questo pericolo è per la società o per loro stessi? Il problema è complesso. Tanto più che esiste una prossimità tra i giovani che hanno paura e quelli che la ispirano. Un ispettore generale della Pubblica Istruzione, Jean-Michel Léon, l’aveva già sottolineato alla fine degli anni ’70 a proposito della violenza nelle scuole: c’era una forte prossimità tra gli allievi violenti e le loro vittime; gli uni e gli altri erano puniti più spesso dei loro compagni, beneficiavano di un minor sostegno, tanto in famiglia che a scuola, ed erano più frequentemente soggetti alla paura. Del resto non è raro, ancora oggi, che allievi vittimizzati dai loro compagni, abbiano avuto il ruolo di bulli in un altro istituto da cui sono stati espulsi. Ora, come notava recentemente Olivier Galland a proposito del disagio della gioventù9, i giovani francesi hanno paura, sono fra i più pessimisti d’Europa, poiché non hanno fiducia né nel futuro né negli altri né nella società. Le spiegazioni generazionali di simili timori si fondano su: 1. le discriminazioni economiche – aumento della flessibilità dell’economia e della precarietà del lavoro che toccano particolarmente i giovani, ascensore sociale inoperante, accesso all’autonomia problematico o addirittura impossibile per alcuni; 9 Colloquio del Centro culturale internazionale di Cerisy-la-Salle: La jeunesse n’est plus ce qu’elle était, juin 2009.

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2. la crisi della trasmissione e/o la crisi dell’educazione all’interno delle famiglie; 3. la scarsa rappresentanza politica dei giovani. I giovani sarebbero così scarsamente dotati economicamente, scarsamente inquadrati moralmente e scarsamente rappresentati politicamente. Un altro modo di vedere il problema, aggiunge tuttavia Galland, è di considerare la gioventù, i suoi dubbi e le sue angosce, non da questo punto di vista vittimizzante, ma come un elemento rivelatore della crisi istituzionale e culturale del modello meritocratico della formazione alla francese, che porta avanti l’elitismo repubblicano, cioè la selezione dei migliori secondo il principio della ricompensa del talento e degli sforzi di ciascuno. Se un tale modello funzionava quando la maggioranza degli allievi non aveva accesso alle linee generali dell’insegnamento secondario, funziona male in una scuola aperta alla massa, che è chiamata a gestire talenti e aspirazioni scolastiche molto diversificate. L’ossessione della classificazione scolastica sulla quale si fonda questo elitismo e la dicotomia che separa coloro che riescono da coloro che falliscono nella selezione scolastica, conducono a un sistema che, invece di promuovere, elimina un gran numero di allievi e produce allora uno scoramento che, a sua volta, provoca una mancanza di autostima.

Disadattamenti sociali o società inadatta ad alcuni? L’adattamento sociale deriva da un complesso processo di interazioni dinamiche, dialettiche e permanenti tra l’individuo e la società che gli riconosce la sua identità, le sue capacità e il suo status. Il disadattamento riguarda le resistenze e le difficoltà di integrazione e di partecipazione ai sistemi sociali e le disfunzioni della vita in società, il cui valore è relativo, poiché dipende dalle differenti forme di inserimento sociale e da criteri che possono variare da un gruppo all’altro in funzione dei loro codici normativi, in rapporto con il luogo e l’epoca. Bisogna dunque tener conto delle regole e delle norme così come dei valori del gruppo al quale ci si riferisce, ma anche dello status dell’individuo. La connotazione ideologica è forte e i comportamenti disadattati devono essere letti in una prospettiva normativa e gruppale, ma anche funzionale, per tener presenti sia le alte19

razioni intellettuali delle competenze sia i conflitti dei ruoli sociali, che possono essere originati dalle disfunzioni degli individui quanto da quelle del corpo sociale. La questione è allora di sapere se certi individui siano disadattati all’interno di una data società o se, al contrario, sia la società a non essere adatta ai bisogni di tutti i suoi membri. Non esiste nemmeno una relativa univocità per definire socialmente disadattati certi comportamenti, che sono, in generale, delle condotte pregiudiziali di opposizione al corpo sociale, di aggressione e di fuga, e più spesso di complesse combinazioni che mescolano strettamente fuga e opposizione. Alcuni adolescenti “disfunzionano” Non bisogna credere che la comunità adolescente sia composta solo di violenti, delinquenti e tossicodipendenti. Le indagini epidemiologiche di Marie Choquet ci mostrano d’altronde che per 9 giovani su 10 la situazione è abbastanza stabile. Per alcuni di essi, tuttavia, un insieme di problemi può indurre a importanti disfunzioni sociali, anche se non è facile distinguere il confine oltre il quale cominciano, poiché essere giovani significa essere in uno stato di continua evoluzione. L’adolescenza conosce delle crisi, cosa che alcuni definiscono anche stato patologico normale. Il giovane percepisce una sorta di violenza interiore che dilaga all’improvviso, senza sapere di che si tratti e senza poterla prevedere. Pervaso dalla propria metamorfosi, le sue pulsioni lo angosciano e mettono alla prova il controllo del suo corpo, costringendolo a trovare nuovi equilibri, nuove relazioni tra sé e gli altri, tra corpo e soggetto, tra il mondo del proprio narcisismo primario e le relazioni oggettali. Possono emergere conflitti in relazione alla problematica della dipendenza e a queste alterazioni fisiche e psichiche capaci di provocare comportamenti violenti. Trovandosi in una situazione di transizione, gli adolescenti sono portati a commettere trasgressioni necessarie al perseguimento di accomodamenti che permettano loro di progredire. I problemi di integrazione sociale e le difficoltà razionali e istituzionali di adattamento possono tuttavia apparire come difficoltà del processo di socializzazione associate a fattori interiori o esterni. Le incidenze dello sviluppo economico e il malessere della società contemporanea che ne deriva, recano danno alla stabilità di alcuni gruppi sociali, influenzando la coesione delle famiglie e perturbando l’in20

serimento dell’adolescente nella vita e nel lavoro scolastico. La società dei consumi e l’invasione mediatica veicolano dei valori che provocano una generalizzazione dei bisogni individuali. La complessificazione della vita attiva e l’innalzamento delle soglie di adattamento provocano l’aumento del numero di coloro che, incapaci di raggiungere il livello richiesto, si vedono respinti, sviluppando di conseguenza sentimenti di ingiustizia che veicolano il riscatto sociale o passaggi all’atto. Una società che “perde la testa”? Bisogna considerare, del resto, che l’adolescenza evolve parallelamente ai cambiamenti sociali. I giovani hanno sempre trovato dei modelli, dei valori e dei principi di condotta all’interno della loro famiglia. Seguono oggi un cammino identico a quello dei loro predecessori, ma in una società i cui adulti contestano i valori e i principi pur continuando a proporli. I giovani devono allora contare su se stessi per trovare una morale e una filosofia di vita. È forse qui l’origine di un fatto nuovo che caratterizza l’adolescenza: l’appartenenza a una classe, la gioventù, che si individua all’interno della società al di là di confini regionali, nazionali e culturali. L’adolescenza è in crisi, dilaniata da impulsi istintivi e convenzioni sociali, ma questa crisi caratterizza i giovani o la società nel suo insieme? La crisi adolescente è forse in relazione con la modificazione di legami parentali, con l’evoluzione delle famiglie e l’emergere di nuove culture e pratiche sociali. Inoltre, le difficoltà dei giovani sono forse da ricondurre al fatto che è proprio la società ad essere malata ed è tempo di prendere in considerazione l’eventualità di una relazione tra lo sviluppo di una società e quello dei suoi individui. La società è probabilmente inadatta a tutti i suoi giovani e, soprattutto, conosce delle disfunzioni che potrebbero in qualche modo perturbare le persone più fragili. Un’attualità che sbanda… Consideriamo, per esempio, l’attualità recente. Si sa dalla stampa che, poiché il governo francese aveva proposto, nell’estate 2009, l’acquisto di 94 milioni di dosi di vaccini in previsione dell’epidemia di influenza A, ha dovuto, nel gennaio 2010, liquidare l’ordinazione di 50 milioni di queste dosi e svenderne qualcosa come 38-39 milioni, poiché, dopo la 21

fine dell’epidemia, risultavano utilizzati solo 5 milioni e mezzo di vaccini. Aggiungiamo che l’informazione relativa a questa svendita capitava giusto al momento in cui le persone deluse per i loro regali di Natale o Capodanno cercavano di rivendere le dosi su eBay. E ciò che è più fastidioso è che non si tratta di un affare di politica, poiché altri Paesi, con governi di destra o di sinistra, sono in situazioni analoghe. Altra osservazione a proposito di questo stesso vaccino: è difficile credere che si sia dovuto aspettare il 12 gennaio del 2010 perché i medici di base e i pediatri fossero autorizzati a vaccinare i pazienti nel loro studio contro un’epidemia di cui si annunciava, il giorno dopo, 13 gennaio, la fine! Altri esempi ci riguardano allo stesso modo. Sempre più persone in miseria fanno appello, per nutrirsi, ad associazioni umanitarie come i Restos du cœur10, che, pur con un lavoro notevole, riescono difficilmente a far fronte alla domanda crescente, mentre si scopre che, poiché il prezzo del latte pagato ai produttori ha subito un ribasso del 30% nell’aprile del 2009, questi ne hanno distrutto migliaia di ettolitri nel mese di maggio, o che alcuni agricoltori che manifestavano contro le notevoli perdite dei loro incassi sono arrivati a distruggere tonnellate di legumi prodotti. In un altro ordine di idee, quando il Partito socialista ha riaperto, nel gennaio 2010, il dibattito sul voto degli stranieri negli scrutini elettorali locali, ci sono stati uomini politici che hanno difeso questi voti, poiché gli stranieri “pagano le tasse”… Lungi da noi l’idea di prendere parte a questo dibattito nella presente opera, ma l’argomento ci sembra un po’ ingannevole! Poiché legare il diritto di voto al pagamento delle tasse potrebbe fornire ad animi maligni l’ispirazione per interrogarsi sul diritto di voto di quelli che non le pagano… il che costituirebbe un bel regresso rispetto alle prodigiose acquisizioni del 1790. Si possono trovare altri esempi e in tutti i campi: i TGV che sono, ci si dice, i migliori del mondo, ma che per il gran freddo trovano difficoltà a passare il tunnel sotto la Manica, certe sonde sugli aerei di linea che non resisterebbero alla brina, quando questi aerei sono sottoposti a temperature nell’ordine dei 70° sotto zero, quando volano a 10.000 metri d’altitudine. E poi ci sono anche polemiche nate a proposito della catastrofe “naturale” senza precedenti che ha colpito Haiti, cui numerosi Paesi, per manifestare la loro solidarietà, hanno offerto soccorso alle vittime del 10 “Ristoranti del cuore”, associazione umanitaria diffusa in Francia, Belgio, Svizzera e Germania, che distribuisce il cibo gratuitamente.

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Paese colpito, ma sono riusciti a farlo poco e male, vista la profonda disorganizzazione degli interventi. O ancora i dibattiti che si sentono in TV, che ci fanno sapere che “la buona salute” del mercato delle autovetture nuove dovuta agli sforzi del marketing e alle promozioni offerte dai costruttori – il che favorisce l’impiego –, associata all’affidabilità crescente dei motori, provoca la più viva insoddisfazione tanto dei venditori dei veicoli d’occasione che dei meccanici, che vedono diminuire i loro affari… Quando assisteremo a manifestazioni di medici che protestano perché i loro pazienti hanno una salute di ferro o manifestazioni di impiegati delle pompe funebri, delusi perché l’influenza ha mietuto poche vittime? … che è difficile controllare Si ha talvolta l’impressione che le nostre società fondate su tecnologia e sviluppo economico abbiano perso la testa, ed è vero che ne avrebbero tutte le ragioni, se si pensa a quale velocità esse si siano sviluppate nel corso del secolo scorso, grazie al ruolo svolto dalle macchine che hanno ormai fatto in modo che l’uomo, lungi dal beneficiare dei progressi della scienza, divenga spesso l’oggetto delle tecniche che inventa. Pensate ai “progressi” realizzati nel corso del XX secolo: il primo collegamento radio tra Terranova e l’Inghilterra avviene solo nel 1901, ma, un secolo più tardi, ognuno comunica istantaneamente con il mondo intero grazie ad Internet e ai telefoni cellulari. Durante la Prima Guerra Mondiale ci si scontrava ancora alla baionetta, quasi come nel Medioevo, mentre durante la Seconda, trent’anni più tardi, le prime esplosioni atomiche rasarono al suolo le città di Hiroshima e Nagasaki. Nel 1927, la prima locomotiva elettrica collegava Parigi a Vierzon a una velocità di 80 km orari, cioè 6 volte più lentamente di un TGV… quando funziona. Sono passati appena 66 anni da quel mattino del 17 dicembre 1903 in cui Orville Wright sorvolò le dune del North Carolina ai comandi del suo aereo, toccando 3 m d’altitudine e ricoprendo una distanza di 45 m, per non parlare dei primi passi sulla Luna di Neil Alben Armstrong, il 21 luglio 1969… ma questi progressi tendono forse a disumanizzare la vita quotidiana, automatizzandola, e turbano i più fragili fra noi. Due altri esempi basteranno per illustrare la nostra tesi. Il computer è una meravigliosa invenzione – e non sono certo io a negarlo, visto che lo sto utilizzando ora per scrivere questo libro –, ma sembra altrettanto utile agli 23

operai di cui controlla i ritmi produttivi? La metropolitana di qualche decennio fa non ci accoglieva con più umanità? Uno o due di quei controllori cari a Gainsbourg11 ci aprivano allora l’accesso di ogni banchina, che era controllata da un capostazione, collega di quegli stessi impiegati che ci aspettavano nella hall per venderci i biglietti. Oltre al macchinista che conduceva la vettura, un capotreno controllava apertura e chiusura delle porte. Oggi i biglietti (ma presto saranno del tutto sostituiti da quelli elettronici acquistabili on-line) li vendono i distributori automatici, dei tornelli permettono di accedere alle banchine e, ma non sempre, c’è un conducente alla guida del veicolo. Non sempre perché il futuro ci porta treni senza pilota, come è già il caso della linea 14 della metropolitana di Parigi. Infine, per concludere, è inevitabile provare un po’ di nostalgia nell’evocare i commercianti di un tempo, che ci ricevevano nei loro negozi, mentre oggi frequentiamo i mercati della grande distribuzione in cui anche i cassieri andranno a sparire a vantaggio degli scanner che l’acquirente manipolerà di persona. Qualche nostalgia, ma anche delle paure davanti alla sparizione di impieghi, come risultato, e dunque davanti alla disoccupazione che ne risulta. Disoccupazione di cui spesso i giovani sono le prime vittime. Almeno certi giovani. La loro contestazione violenta finisce allora con il distruggere tutto e, se non possono davvero rompere e bruciare, come cantano gli NTM12, o come fecero alcuni giovani nelle periferie, altri ottengono lo stesso scopo rifiutandosi di accettare la realtà, tentando il suicidio, facendo uso di droghe o entrando in una setta. In questo caso c’è un rifiuto sistematico della società dai suoi fondamenti e, se passare dall’infanzia all’età adulta è passare dal principio di piacere a quello di realtà, alcuni adolescenti vogliono fuggirla e negarne il principio a profitto del piacere, negando l’urgenza di inserirsi nella struttura sociale, rifiutando queste esigenze materiali di sopravvivenza che non fanno altro che produrre angoscia, e negando la morte, negazione che provoca in loro un senso di superiorità.

11 Serge Gainsbourg, nome d’arte di Lucien Ginsbourg, cantautore, poeta, musicista e regista francese, Parigi 1928-1991. 12 NTM o Suprême NTM, rapper francesi in attività dal 1989.

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In cerca di punti di riferimento, alla ricerca di limiti Come ricorda Jeammet, durante l’adolescenza è facile perdere la testa, fra la pubertà, i primi amori, le relazioni familiari in trasformazione e una percezione ancora sfumata del futuro. In questo momento di crisi, di ricerca e di introspezione, il giovane deve costruire la propria identità personale, il che implica di dover effettuare un bilancio che gli permetta di rispondere a domande cruciali: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Solo lui può rispondere a queste domande, ma è agevolato se, nel suo ambiente, esistono dei punti di riferimento che gli permettono di stabilire quale sia la propria storia, quale sia la propria stirpe, e quali siano i valori che gli si propongono. Ed è qui che le difficoltà di inserimento nella società e diverse problematiche sociali possono in certi casi rendere il bilancio ben difficile da compiersi. Un fallimento in tal senso si salda allora, affermava Erikson, con la diffusione dei ruoli, con la confusione e un senso duraturo di alienazione. Alcuni adolescenti cambiano così il loro personaggio secondo l’ambiente che frequentano, sottomessi a scuola, ostinati in famiglia, pronti a tutto con i compagni. Questo stadio deve essere superato, perché, finché rimane, il giovane non riesce a stabilire delle vere relazioni intime. Se giunge infine a riconoscersi nel proprio personaggio, questo momento non sarà stato che una sperimentazione costruttiva nel suo sviluppo. Poiché, tuttavia, alcuni si sentono esclusi dalla cultura dominante e hanno l’impressione di essere rifiutati dalla società, si costruiscono ciò che Erikson definiva identità negativa, e definendosi attraverso la loro emarginazione, valorizzano i comportamenti antisociali. Se l’agire e i passaggi all’atto degli adolescenti preoccupano gli adulti, questi ultimi li vivono, d’altra parte, come una prova della loro esistenza e come il loro mezzo per guadagnarsi un posto nel mondo. Questo linguaggio del corpo è necessario per esprimere ciò che essi non possono formulare oralmente. Questo agire permette inoltre di alleggerire la tensione risultante dagli sconvolgimenti interiori. Nondimeno l’adolescente deve conoscere dei confini, dei limiti. Ne esistono diversi tipi: corporali, temporali, spaziali, morali. Durante l’adolescenza, sebbene questi limiti siano oggi cambiati, essi sono al centro delle preoccupazioni dei giovani, sia che li ricerchino, sia che li rifiutino. Essi permettono loro di mettersi in rapporto con l’ambiente in cui vivono. La loro accettazione va di pari passo con l’accettazione di una 25

certa frustrazione. Se tali limiti non sono dati e rispettati, l’adolescente non può e non sa gestire le frustrazioni in grado di “puntellare” la sua vita ed egli si crede onnipotente. La loro assenza è angosciosa, poiché allora non c’è più niente per inquadrarlo, trattenerlo e rassicurarlo. Io ti amo… poi ti odio Approssimativamente, fra gli 11 e i 14 anni, l’adolescente conosce un periodo di squilibri, dominato dal vacillamento delle vecchie formazioni relazionali e della sua difesa contro i vecchi oggetti. Egli deve abbandonare gli oggetti d’amore parentale, necessità che provoca conflitti con l’autorità parentale e con i simboli che essa investe. Poiché l’adolescente ha un’immagine dei suoi genitori differente da quella dell’infanzia, dovuta all’evoluzione delle loro relazioni, egli assiste in qualche modo alla loro morte sul piano del fantasma. Questo rifiuto, necessario per la conquista dell’autonomia, può condurlo a stravolgere i suoi affetti e l’amore verso i genitori diventa odio, il rispetto diventa disprezzo. Una tale trasformazione imprigiona l’adolescente e i suoi genitori in una relazione sadomasochista, accompagnata da angoscia e da sensi di colpa, che inducono meccanismi di proiezione che permettono all’adolescente di attribuire ai genitori i suoi sentimenti ostili. Egli può allora avere tendenze depressive se si sente abbandonato e colpevole. Questo avviene, in particolare, quando i genitori non rispondono alla sua aggressività. Certo, per la maggior parte degli adolescenti le cose non si spingono a tal punto. È anche vero, nota lo psichiatra infantile Daniel Marcelli, che quando è triste o in preda a difficoltà, contrariamente al bambino che sentiva il bisogno di avvicinarsi ai genitori e trovava calma e fermezza nella loro prossimità, l’adolescente ha bisogno di prendere le distanze da loro, di separarsene per poter crescere: infatti la prossimità non gli conferisce più calma, ma agitazione. Egli vuole – dunque deve – mantenere una distanza critica, perché troppa vicinanza è suscettibile di provocare una crisi, una rottura. “Slegami!”, gli fa gridare Marcel Rufo, altro noto psichiatra infantile. Evidentemente il giovane non può vivere senza legami, ma poiché quelli che lo uniscono ai genitori sono divenuti troppo esclusivi, egli deve poterli allentare. Ora, come quando era bambino, i 26

genitori vorrebbero sempre sapere in che luogo si trovi e rappresentarsi ciò che fa, e quando non possono si preoccupano, si fanno domande e ne fanno. L’adolescente, al contrario, vuole essere autonomo, frequentare luoghi in cui i suoi genitori non hanno più ragion d’essere. Egli vuole uscire dalla loro testa, poiché essi controllano la sua. Egli ha bisogno di questa separazione psichica, ma i genitori vorrebbero trovare nell’adolescente, come nel bambino che si trasforma, una continuità esistenziale e questo, dice Marcelli, tanto più che il legame coniugale diventa sempre meno significativo, e il legame di filiazione ne prende il posto13. I genitori, in qualche modo, contano sul bambino sul piano psichico, per avere questo sentimento di continuità esistenziale senza cui essi precipitano nell’angoscia. La presenza della prole li rassicura, la sua assenza provoca loro un’angoscia di separazione, cioè la sensazione che possa accadere qualcosa di brutto quando non si sa dove sia l’altro. Ora, per il giovane, quest’influenza è inaccettabile, poiché ciò che gli sta a cuore è proprio la segretezza e la riservatezza delle sue attività extrafamiliari. Tuttavia egli non tollera che i suoi genitori abbiano lo stesso atteggiamento. Bisogna ricordarsi che la relazione genitori/adolescenti non è simmetrica, che c’è una differenza generazionale che non bisogna in ogni caso cancellare. L’adolescente ha bisogno di sapere dove siano i suoi genitori poiché ha bisogno di sapere che può contare su di loro; ha bisogno del punto di riferimento che essi costituiscono, deve avere la loro rappresentazione, ma deve essere in grado di fuggire dalla loro testa. Ci troviamo così in una situazione alla “Io ti amo… poi ti odio” abbastanza caratteristica dell’adolescenza, perché il giovane è davvero disorientato e ha talora l’impressione di amare, talora quella di non amare più. “Io ti amo” è cosa spesso difficile a dirsi. Questa frase implica molti sentimenti e conseguenze. Implica generalmente la speranza di sentirsela rivolgere a propria volta, ma questa reciprocità è negata dall’adolescente che vuole bastare a se stesso, almeno per un po’.

13 La psicoanalista Caroline Thompson si spinge ancora più in là, notando che sempre più spesso, oggi, il bambino è divenuto il “capofamiglia”, in quanto un gran numero di matrimoni ha luogo solo dopo la nascita del primo figlio, che costituisce così il fondamento della famiglia.

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I compagni anzitutto Il gruppo dei pari ha un’importanza considerevole nella socializzazione degli adolescenti. Parallelamente al movimento di emancipazione dalle influenze familiari, avvengono degli investimenti in attività sociali che implicano partner affini. Così, dall’età di 10 anni, si formano gruppi di giovani dello stesso sesso. Legati al quartiere o alla classe a cui appartengono, creano amicizie che possono essere durevoli. La maggior parte degli adolescenti si interessa agli altri giovani. L’adolescente è preoccupato di se stesso, ma la presa di coscienza di sé si esprime attraverso uno sforzo di differenziazione dai suoi simili. Le sue nuove attività al di fuori della sfera familiare, i suoi nuovi incontri, sono propizi alla creazione di relazioni amicali, preludio alle relazioni eterosessuali e a relazioni non più gerarchiche ma democratiche, che manifestano la sua conquista dell’indipendenza. L’amicizia lo protegge inoltre dal rischio di sottostimarsi, di sentirsi svalorizzato, poiché gli amici conferiscono un senso nuovo alla sua vita e lo aiutano a costruire un nuovo universo di valori. L’amicizia gli permette di ricostruire se stesso dopo gli stravolgimenti che ha subito. Gli amici, con la loro capacità di ascolto, con la loro presenza, comprensione e disponibilità, gli forniscono quel sostegno che non trova più nei genitori. L’adolescente si sente perduto quando è solo, ma con gli altri si sente forte. Dall’adesione a un gruppo, una squadra, una banda risulta un ideale dell’io collettivo, poiché tutti i membri si identificano gli uni negli altri. Il giovane, del resto, non entra in un gruppo per incontrarvi altri adolescenti, ma piuttosto per tentare di fare, nei confronti di molti, ciò che ha difficoltà a fare a da solo: “trovarsi”, scoprire ciò che è e chi è. Si elabora allora un’immagine di gruppo con alcuni segni d’appartenenza che negano la singolarità dell’individuo per valorizzare il “noi”, fonte di protezione contro l’angoscia esistenziale. Fondersi nel gruppo gli permette di far sbocciare la sua personalità e di costruire la propria immagine attraverso la personalità collettiva che richiede l’uguaglianza di tutti e la sistematizzazione dei comportamenti e degli atteggiamenti. Questo fenomeno non è del resto molto paradossale, poiché i giovani vogliono sentirsi differenti dagli altri e vantare la loro originalità, ma anche basarsi su un unico modello, confondendosi nella massa. Nel gruppo, l’adolescente adotta una comunità di individui attraverso i quali egli si afferma, utilizzando una maschera comune a molti. 28

Che fumi o si droghi, che si dedichi ad alcune attività o credenze, come avviene all’interno delle sette, egli mira a dimostrare di non essere più un bambino e a conquistare lo status di adulto – o, almeno, a credere di conquistarlo. Si può riprendere la terminologia di Winnicott per assimilare il gruppo dei pari a un fenomeno transizionale14. A fronte del vuoto causato dal disinvestimento degli oggetti parentali, l’adolescente investe in un gruppo per rimediare all’angoscia che ne risulta. Questo gruppo gli procura una tutela temporanea, in quanto sostituto degli antichi oggetti d’amore. Si parla in questo caso di un secondo processo di separazione-individuazione, che segna una tappa verso l’indipendenza e l’emergere dell’identità personale. Infatti gli adolescenti sperimentano, all’interno dei gruppi, i ruoli e le situazioni sociali, attività che contribuiscono all’emergere dell’identità personale e che costituiscono un modo di esistere all’interno della società, il che ricorda il “fare e facendosi farsi” dei filosofi. Scoprendo limiti e divieti e scontrandosi con i genitori o il corpo sociale, gli adolescenti possono affermare la loro originalità e la loro identità. Notiamo, a questo proposito, l’esistenza di un rapporto dialettico fra questa nozione di divieto e l’incontro di limiti che possono essere di due nature complementari: i limiti propri dell’individuo (non sapere, non avere le capacità di, essere troppo piccolo per…), e i limiti morali e sociali. A rischio di perdersi Come sottolinea Jeammet, al momento della pubertà, il bambino vive un doloroso conflitto che nasce dal confronto tra la necessità di diventare autonomo e il bisogno di dipendenza che permane, più o meno, in base 14 Nei primi momenti della vita, la madre conforta il suo bambino nell’onnipotenza magica, adattandosi all’insieme dei suoi desideri e dei suoi bisogni. Lei è allora “sufficientemente adatta”, in una relazione fusionale, quando il bambino non si differenzia ancora da sua madre. In un secondo momento, poiché ella non si adatta più totalmente alle richieste del bambino, lo conduce ad adattarsi al reale e a prendere coscienza della loro separazione, il che provoca angosce e frustrazioni. Avviene allora, da parte del bambino, l’investimento su un orso di peluche, su un panno, un vestito, ecc., che è la sua prima proprietà “non io” od oggetto transizionale, che permette la transizione, appunto, tra la relazione fusionale e la futura relazione oggettale. Questo oggetto lo aiuta a sopportare l’angoscia di una situazione nuova vissuta come un abbandono e una perdita, poiché esso diviene una rappresentazione della madre.

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alla fiducia e alla sicurezza che prova. È dilaniato tra la sfida che egli desidera lanciare al futuro e questo lutto dell’infanzia che lo tiene in pugno. Egli vorrebbe cercare, come in precedenza, la fiducia che gli manca presso i genitori, che sono sempre per lui una fonte di sicurezza, ma può farlo solo con grande difficoltà. Egli vive, dice Jeammet, “tra la paura dell’abbandono e l’angoscia di intrusione”. Egli tende ad opporsi ai suoi genitori e ad allarmarli, credendo di evitare in questo modo l’angoscia di abbandono, ma ne patisce comunque l’influenza. Egli è al centro di un fenomeno di attrazione/repulsione nei confronti dei genitori. Qual è allora la distanza giusta, quella che gli permetterà ancora di “ricevere”, per sviluppare la fiducia in se stesso, staccandosi dai suoi genitori, senza perderli e senza perdersi? È vero che sia il modo in cui si sono svolte tutte le prime interazioni del bambino e di sua madre, sia l’infanzia nel suo insieme hanno una parte importante nelle difficoltà che egli può incontrare durante l’adolescenza. Possono essere distinte due situazioni, ricorda Marcelli: la prima corrisponde ai giovani che hanno conosciuto delle carenze nell’infanzia e che, giunti all’adolescenza, al momento di doversi separare dai loro genitori, ne rivivono le angosce, si danno all’ordalia e sprecano la loro vita per guadagnarsi l’indipendenza. La seconda è quella di bambini che hanno conosciuto dei genitori benevoli, ai quali sembra che nulla sia mancato fino a quel momento: tuttavia, se un bambino può essere soddisfatto dai suoi genitori, un adolescente non può esserlo, perché il corpo pubere richiede una soddisfazione sessuale implicante l’alterità nel desiderio dell’altro. In assenza di tolleranza alla frustrazione, incapaci di sublimazione, di crearsi in qualche modo, spiega Marcelli, “il loro cinema interiore, sia esso erotico o grandioso”, questi giovani vogliono evacuare la loro tensione fisica nel passaggio all’atto (le scarificazioni, i tagli, ecc.), ma anche tentare di annientarla attraverso l’alcol o gli spinelli, così da sentirsi “cool”. E questo, lo si è visto, avviene perché i giovani credono di appartenere ad una società dove può sembrare difficile vivere. A causa delle condizioni economiche, a causa dell’integrazione sociale e dell’inserimento professionale che si fanno sempre più complicati, numerosi giovani sono impreparati ad affrontare sia la loro adolescenza sia la scuola o l’inserimento all’interno della società, e questo tanto più che strutture e istituzioni evolvono lentamente e ancor più lentamente evolvono le mentalità. 30

Affrontare questo periodo della vita, un sistema scolastico più o meno appropriato e una società che è economicamente precaria, può far nascere comportamenti disadattati. Le condotte pregiudiziali di opposizione al corpo sociale, d’aggressione e di fuga si differenziano allora in base alle regole che sono infrante e possono essere distinte secondo la natura dei limiti violati o dei provvedimenti che ne risultano: giudiziari – tali le infrazioni della legge –, mediche – come il consumo abusivo d’alcol –, una combinazione dei due – l’assunzione di droghe illecite, per esempio. Altri comportamenti, più marginali e violenti si riconducono alla vita delle città, spesso ghettizzate e caratterizzate dalla disoccupazione e dall’esclusione dei giovani. Essi possono assumere l’aspetto estremo di sommosse, o quella “più banale” dei rodeo, dei “giretti”, degli hooliganismi e di vandalismi diversificati, andando dai tag e dai graf nei luoghi pubblici e privati, alla distruzione dei trasporti e degli edifici pubblici. Le violenze osservate sono di origini diverse. Le une sono legate al sottosviluppo dei servizi pubblici di alcuni quartieri e agli handicap sociali degli abitanti: disoccupazione che può raggiungere il 50% dei giovani, popolazioni non francofone e mal integrate, fallimento scolastico massiccio, tossicomanie, presenza di minoranze attive che considerano la città come un loro territorio e che vogliono proteggervi i loro traffici. Altre violenze sembrano più ludiche e banali, il che fa dimenticare la loro pericolosità, che pure non è meno certa: giochi violenti all’interno degli istituti scolastici, che si tratti di giochi d’aggressione obbligatori o no, del gioco del foulard, di happy slapping, di jackassing, sharking e violenze associate ad alcuni generi musicali come il rap o la techno. Altre riguardano infine una violenza che non è, almeno all’inizio, percepita come tale dalle vittime, come nel caso dei giovani che si integrano in un movimento settario, quelli che si scarificano o praticano piercing multipli, che si prostituiscono o seguono regimi alimentari che li mettono in pericolo, pretendendo che si tratti di una filosofia di vita.

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Capitolo primo

Persi di vista

In un rapporto sul reinserimento sociale dei ragazzi di strada esaminato dalla Camera dei poteri locali del Consiglio europeo, è stato recentemente sottolineato che i bambini spinti in strada dalla povertà, dalla disoccupazione, dalle violenze e altri problemi familiari rischiavano di essere sfruttati ed erano esposti a numerose violazioni dei diritti dell’uomo. Che si tratti di fughe o di altre forme di erranza, numerosi giovani si ritrovano così ogni anno in situazioni di estrema vulnerabilità. Certo, un buon numero di fughe dura solo qualche ora, ma esse tendono a ripetersi, conducendo un numero importante di adolescenti all’erranza e al carcere. Si contavano in Francia, nel 2007, 800.000 SFD “persone senza fissa dimora1” di cui 100.000 a Parigi: il 20% di queste aveva meno di 25 anni, e se il 17% dell’insieme era costituito da donne, la percentuale di donne tra i più giovani si rivelava molto più alta, raggiungendo il 70% per la fascia d’età dai 16 ai 18 anni, il 43% per la fascia d’età dai 19 ai 21 e il 19% per la fascia d’età dai 22 ai 24 anni. Chi sono questi giovani? Come sono giunti a questa situazione? Secondo lavori effettuati a Montréal2, molti di loro soggiornano per lo più sei mesi per strada prima di tornare a uno stile di vita più convenzionale, rivendicando la loro indipendenza e vivendo in qualche modo un rito di passaggio, un rituale di gruppo che marca il passaggio da una tappa a un’altra, integrando un’esperienza umana e culturale. Poiché essi risentono per un periodo di tempo il bisogno di emarginarsi, si confrontano 1 La sigla SFD – senza fissa dimora – nata dalla terminologia burocratica degli uffici di polizia – informazione annotata nei registri in mancanza della residenza di una persona su cui si sta effettuando un controllo – ha rimpiazzato la definizione di vagabondo dal 1983. 2 http://www.amlfc.org/Articles/2002_02_02_am.html.

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con la strada per crearsi un’identità che non sia dettata dalle norme, affrontando i loro limiti e il lato oscuro della loro psiche. La strada è per questi giovani, come sottolinea Frédéric Doutrelepont, psicologo in un centro sociale dei Servizi comunitari del Québec, «un ambiente che organizza pratiche, riti, rituali, che permettono [loro] di ricrearsi un’identità, di rivolgersi alla loro interiorità, spesso perché all’interno della famiglia d’origine non trovano valori che gli rassomiglino o che abbiano un senso ai loro occhi. Si ritrovano simbolicamente con un’altra famiglia nella quale si identificano». I giovani della strada non suscitano disprezzo ma compassione: si tratta spesso di giovani che soffrono. Secondo uno studio realizzato negli Stati Uniti all’inizio del 20003, riportato da Psychomedia, il 40% di questi giovani, alla domanda circa il luogo di pernottamento del giorno precedente, ha risposto: un rifugio per senza-tetto, il 16% una casa-famiglia, il 16% la casa di un amico o un conoscente, l’11% la casa di un parente e il 10% la strada o un immobile abbandonato. Con un’età compresa fra i 16 e i 19 anni, essi sono, in media, alla loro ottava fuga, due su tre di essi soffrono di almeno due disfunzioni fra le cinque prese in considerazione in questo contesto – disturbo depressivo maggiore, stress post-traumatico, abuso d’alcol, abuso di droghe, disturbi del comportamento. In Francia, Marpsat, Firdion e Meron riferiscono i risultati di un’indagine realizzata nel febbraio-marzo 1998 dall’Istituto nazionale di studi demografici su un campione di 461 giovani fra i 16 e i 24 anni, che utilizzavano diversi servizi e luoghi d’accoglienza destinati a persone in grande difficoltà (campione rappresentativo della popolazione che riguarda Parigi e la sua immediata periferia)4. Questi giovani sono nati all’estero tre volte più spesso di quelli della stessa fascia d’età residenti nell’Île-deFrance: il 56% di essi è nato nella metropoli, il 6% nei Domini francesi d’oltremare, il 38% all’estero, soprattutto nel continente africano o nei Paesi dell’Est. Il 75% di quelli nati in Africa del Nord e quasi tutti quelli giunti dall’Europa dell’Est è di sesso maschile. Le migrazioni che si accompagnano spesso ad una modificazione della composizione della famiglia hanno indebolito la solidarietà fra famiglie, fra conoscenti e coetanei. Mentre nella popolazione generale due giovani su tre di età compresa fra 3 Whitbeck L.B. et alii (2004), Mental disorder and comorbidity among runaway and homeless adolescents, «Journal of Adolescent health», 35 (2), pp. 132-140. 4 «Population et sociétés», n. 363, décembre 2000.

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i 16 e i 24 anni vivono ancora presso almeno uno dei loro genitori, quattro giovani su 10, in situazione precaria, non hanno più contatti con la madre e sei su 10 con il padre, poiché quest’ultimo è spesso sconosciuto o deceduto. Questi giovani lamentano spesso di aver subito maltrattamenti in passato e molti di essi sono stati collocati in istituti o in case-famiglia; un ragazzo su cinque ha conosciuto la prigione, fenomeno molto più raro per le ragazze che, in compenso, hanno conosciuto più litigi familiari e maltrattamenti, sono state più frequentemente collocate in istituti, si sono date più spesso alla fuga e hanno tentato più spesso il suicidio. Tentativi di suicidio, fughe, esperienze carcerarie si rivelano allora particolarmente frequenti presso questi giovani, poiché il 30% di essi ha già commesso almeno un tentativo di suicidio, il 15% l’ha commesso più volte, il 50% di essi è già fuggito almeno una volta, il 30% più volte, il 14% di essi ha conosciuto la prigione, di cui il 5% più volte. Questi avvenimenti si cumulano, cosicché risulta che il 16% dei fuggitivi ha conosciuto la prigione, il 44% di essi ha tentato il suicidio una volta, contro, rispettivamente, l’11-16% dei non fuggitivi; inoltre il 22% avendo tentato di suicidarsi è stato imprigionato, contro soltanto il 10% degli altri. Bisogna infine notare che il luogo di residenza a 16 anni (in Francia o all’estero) e la data del primo allontanamento dai genitori permettono di rinvenire tre principali categorie di situazioni, in relazione con la frequenza delle gravi situazioni che i giovani hanno affrontato: • migranti per ragioni economiche o politiche, generalmente ragazzi, che hanno abbandonato la loro famiglia verso i 16 anni e hanno raramente tentato fughe o il suicidio; • ragazze o ragazzi che vivevano in Francia e sono stati “messi alla porta” dai loro genitori dopo i 16 anni; • giovani che hanno un lungo passato di istituzionalizzazione, che hanno spesso abbandonato i loro genitori prima dei 16 anni e che hanno frequentemente tentato la fuga o il suicidio. Questi giovani hanno delle caratteristiche comuni: sono generalmente di origine modesta e hanno abbandonato prematuramente la scuola. La loro vita è stata marcata più o meno precocemente da crisi familiari o da migrazioni. Alcuni, collocati assai presto in istituti e dopo aver effettuato 35

fughe e tentativi di suicidio reiterati, provano difficoltà a dominare la propria sofferenza psicologica. Altri hanno dovuto fuggire da un Paese in guerra o sono espatriati per cercare un nuovo futuro. Per molti di loro, difficoltà di accesso all’impiego e alla residenza stabile legati al contesto economico sono stati spesso determinanti nelle difficoltà che essi hanno incontrato al momento in cui hanno acquisito l’autonomia.

Dalla fuga all’erranza Fughe ed erranze marcano nettamente la rottura dell’adolescente con il suo contesto ambientale. Sono delle condotte agite, ma non sono più delitti dal decreto dell’ottobre 1935. Esse tuttavia costituiscono infrazioni alle regole sociali dell’ambiente in cui vive il giovane e portano frequentemente a reati, se non altro perché il fuggitivo possa sostentarsi. Non sono necessariamente delle condotte patologiche. I comportamenti di erranza sono generalmente episodici e accessori, poiché i giovani vi ricorrono solo transitoriamente, non facendo altro che andare alla deriva in ragione di uno status incerto tra l’infanzia e l’età adulta, alla ricerca di una identità sociale riconosciuta. Le fughe sono normalmente abbastanza brevi poiché superano le 48 ore solo in un terzo dei casi. Diversamente, esse possono condurre ad alcune forme di erranza in cui il fuggitivo si sposta continuamente, con il solo scopo di non far ritorno alla dimora da cui è fuggito. L’erranza può allora diventare un processo di disinserimento sociale all’interno del quale il giovane rischia di stabilirsi mentre è alla ricerca di un nuovo stile di vita, e corre il pericolo di diventare lentamente un barbone. Se la fuga, spesso, non è che una momentanea ritirata davanti a problemi non risolti, che non reca soddisfazione in sé e per sé, la vita di “strada” consiste nell’infrangere in maniera più duratura i legami familiari per cercare, attraverso una sorta di nomadismo, una nuova forma di socializzazione in bande. La fuga deve dunque essere distinta dalla strada ma anche dal carcere, che marcano sia una volontà di rottura con i sistemi normativi, sia una situazione di deriva sociale. La strada è, come sottolinea Selosse, una condotta di erranza simbolica sostenuta da ideologie utopiste, mentre il carcere manifesta uno stato di disorganizzazione, destrutturazione e incertezza, in relazione ad un’assenza di riconoscimento sociale, ge36

neratrice di reazioni violente. Il carcere traduce una forma particolare di condotte di deriva sociale adolescente. Tutte queste condotte hanno certo in comune il fatto di manifestare la fuga da una tensione interna. Il giovane ha bisogno di assicurare nella realtà il distacco dalle sue relazioni oggettali conflittuali dell’infanzia. Spinto dalla sua ricerca di identità, egli deve sentire di esistere attraverso un allontanamento, suscettibile di permettergli nuove identificazioni che egli non può trovare nel suo qui e nel suo ora. Più i suoi bisogni sono grandi, più la manifestazione di essi è brutale. Bisogna infine prendere in considerazione, come propone Chobeaux (1996), che la maggior parte delle condotte erratiche si inserisce in una dinamica di emarginazione in 5 fasi: • la prima si caratterizza attraverso un malessere diffuso fin dalla prima infanzia; • la seconda corrisponde ad un’adolescenza marcata da numerosi segnali, che dovrebbero allertare le famiglie; • la terza, a una scoperta progressiva dell’erranza; • la quarta si accompagna ad una depressione abbastanza forte; • la quinta consiste in una stabile scelta dell’erranza come stile di vita definitivo, se all’adolescente non è fornito nessun sostegno. La fuga La fuga è un comportamento spesso solitario, impulsivo e improvviso, che consiste, per un bambino o un adolescente, nell’allontanarsi dal luogo in cui vive, momentaneamente e senza uno scopo preciso, sullo sfondo di un conflitto relazionale. Il termine, che deriva dal latino fuga, indica un atto precipitoso, o, per riprendere un’espressione di Pommereau, «un atto di evasione, che manifesta nel registro spaziale un imperioso bisogno di liberazione o di emancipazione giudicate salvifiche». C’è un affrancamento da vincoli, materializzato dal passaggio trasgressivo dall’interiorità verso l’esterno. Sono condotte di rottura che inaugurano spesso il passaggio all’atto di giovani in difficoltà. Le fughe sono frequenti e riguardano tutti gli ambienti. Negli Stati Uniti, ad esempio, un adolescente su 10 è fuggito almeno una volta. In Francia si contano più di 100.000 fughe all’anno, 37

di cui solo una su tre è segnalata alle autorità. Bisogna anche notare che, secondo statistiche già vecchie, poiché datate agli inizi degli anni ’80, un migliaio di bambini e di adolescenti minori di 16 anni spariscono ogni anno e non vengono più ritrovati. Tre fuggitivi su quattro segnalati sono ragazzi di una quindicina d’anni, mentre le ragazze sono, in media, più giovani di cinque-sei mesi. Molti provengono da famiglie smembrate dal divorzio o da lutti, colpite da malattie o alcolismo. Più di un adolescente fuggitivo su 10 soffre di gravi disturbi. In seguito alla grande indagine nazionale che hanno pubblicato nel 1994, Choquet e Ledoux constatano che circa il 4% degli adolescenti fra gli 11 e i 19 anni ammette di essere fuggito, condotta che varia in base il sesso, l’età e il grado di scolarizzazione. Se globalmente ragazze e ragazzi sono ugualmente interessati dal fenomeno, la fuga, per i ragazzi, tende a diminuire con l’età. Essa è più frequente presso le ragazze scolarizzate in istituti professionali. C’è un 67% di ragazzi recidivi, che rappresentano l’1% della popolazione nazionale. Le fughe vanno di pari passo con altri comportamenti a rischio. Il 56% dei fuggitivi fuma, contro il 21% della popolazione nazionale, e il 37% di essi fuma quotidianamente, contro il 14%. Essi consumano occasionalmente più alcol (il 62% contro il 52%) e anche regolarmente (29% contro il 14%). Il 42% di essi ha provato una droga illecita (contro il 14%) e il 22% di essi ne ha fatto uso più di 10 volte (contro il 5%). D’altra parte, la proporzione dei fuggitivi non varia secondo la zona abitativa o la nazionalità. Infine, il livello scolastico dei fuggitivi è più basso di quello dei loro compagni e, a parità di livello scolastico, essi presentano un disinvestimento più importante – assenze, sospensioni, lezioni marinate, ecc. Questo disinvestimento è generalmente di vecchia data: i fuggitivi avevano difficoltà ben prima della loro fuga, sin dai tempi della scuola elementare. Essi avevano, già a quell’epoca, più problemi dei loro compagni: malattie infantili, disturbi somatici a componente psicologica o funzionale, disturbi del sonno, del carattere, il che è un indicatore di rischio precoce, in grado di far prevedere un ritiro sociale. Molteplici significati La fuga può essere di origine reattiva. Il fuggitivo può essere cresciuto in una famiglia poco affettuosa, ovvero scostante, e si mostra emotivamente immaturo e solitario. La fuga può avere anche un carattere difensi38

vo rispetto all’influenza di un sistema che sottomette il giovane agli effetti paradossali di una duplice costrizione, in quanto lo addita come portatore del suo malfunzionamento. Altre fughe manifestano una reazione aggressiva, non socializzata, associata a diversi problemi psicopatologici. Alcune fughe sono direttamente legate a comportamenti delittuosi, o sono in relazione alla depressione adolescente, sia perché ne sono l’espressione, sia perché esse sono, al contrario, destinate a evitare questa depressione e le sofferenze che la accompagnano. I significati psicologici delle fughe sono numerosi: che siano premeditate o, come è spesso il caso, improvvisate, esse manifestano il desiderio di sfuggire a delle dipendenze affettive e/o materiali. Alcune esprimono la disaffezione, il dissenso, la disperazione e l’ansia, ma anche la rivendicazione e il senso di colpa. La fuga compulsiva, a causa delle sue ripetizioni, può essere il sintomo di un problema psicopatologico relativo al legame, ai limiti e agli scambi con l’esterno. Il ritorno a casa si rivela importante tanto quanto la fuga in sé, poiché i suoi effetti sono in grado di attribuire un senso e una funzione a questo movimento di separazione/individuazione che crea un legame al limite fra la dipendenza e la libertà. In effetti, ricorda Pommereau, la fuga sottende il tentativo di diventare – una volta terminato il passaggio all’atto – una specie di figliol prodigo, colui che si riaccoglie con gioia e sollievo: il fuggitivo ha la segreta speranza, sparendo per un certo tempo, di spiccare per la sua assenza, legittimando per difetto la sua presenza nella sua famiglia. L’adolescente si aspetta che i suoi genitori comprendano e che cambino. Vuole che lo riconoscano e che gli manifestino il loro amore. È in questo caso che Delaroche (1992) vede nella fuga una prova di forza, in cui l’adolescente sa che, presto o tardi, i suoi genitori lo ritroveranno per negoziare. C’è in tal senso un ricatto manifesto, volto a ottenere un cambiamento di comportamento da parte dei genitori. La fuga è una assenza-presenza, che obbliga i protagonisti a porsi delle domande. È un atto di rottura paradossale, poiché il gesto di sottrarsi a dei legami di dipendenza è volto anche a ritrovarli, ma cambiati e acconciati a misura dei desideri e dei bisogni del fuggitivo. Per lo psicoanalista, la fuga può corrispondere anche a una ricerca di oggetti narcisistici. La fragilità dell’Io adolescente genera, in effetti, una fragilità narcisistica. Il disinvestimento degli oggetti parentali, un sentimento pulsionale intenso, conducono il giovane a situazioni conflittuali 39

all’interno della famiglia. Durante l’infanzia, il narcisismo si fondava sul rapporto con i genitori e il rifiuto dei suoi oggetti parentali genera una certa fragilità. La fuga può allora corrispondere alla ricerca di nuovi oggetti che permettano di sentire la propria esistenza e un po’ di autostima. Essa può far credere al ragazzo che il suo passaggio all’atto gli permetta di dominare la realtà esteriore in mancanza di un dominio su di sé, mentre vive con difficoltà l’instabilità che sente. È comunque difficile trovare nuovi oggetti abbastanza validi, anche perché, se sono inadatti, il ristabilimento narcisista non può avvenire ed egli rischia di cadere in depressione. Eppure, la fuga può anche essere considerata come uno strumento di lotta contro la depressione. L’adolescenza porta con sé il rifiuto delle immagini parentali dell’infanzia, rinuncia che conduce al rischio di un conflitto aperto con i genitori. La perdita di una certa immagine di essi può allora provocare una reazione di lutto: la libido era investita unicamente negli oggetti parentali; poiché l’adolescente ha un’immagine dei suoi genitori differente da quella della sua infanzia, assiste in qualche modo, rifiutandoli, alla loro morte fantasmatica. Tale rottura è necessaria per la conquista della sua autonomia. Essa è una difesa i padri e le madri edipiche, ma anche contro il pericolo delle proprie pulsioni verso di loro. Questa rottura porta il giovane a non sentirsi più valorizzato e a perdere i fondamenti della propria autostima. Egli fugge per sottrarsi alla realtà ingannevole che lo circonda, manifestando la sua difficoltà a rinunciare ai vecchi oggetti, lottando contro la depressione provocata dall’impossibilità di stabilire una relazione oggettale con i genitori. Una fuga in avanti, la ricerca di un altrove Molte fughe sono il tentativo di allontanarsi da qualcosa: dalle sanzioni, dalle costrizioni del proprio ambiente, per esempio la famiglia. Vi si può associare, per dirla con Freud, una fuga dal padre (rivale in amore) e, per dirla con Adler, un desiderio di affermarsi contro il potere tirannico del padre; in ogni caso c’è una protesta contro un regime educativo. Spesso si ha anche un’assenza o un’inconsistenza dei punti di riferimento. La dimensione primaria della fuga è quella di una auto-sottrazione: l’adolescente cioè si estrae dall’ambiente familiare in cui egli ha molto investito e che, allo stesso tempo, egli giudica invivibile e/o minaccioso, in quanto generatore di tensioni e ingerenze. Piuttosto che subire, egli tenta, attraverso l’agire, di riprendere il controllo su di sé e sugli altri, 40

spiega Pommereau. Questo è tanto più vero nel caso di violenze familiari e/o di abusi sessuali incestuosi. La fuga può anche servire a trovare luoghi privilegiati di cui si è privati o separati: è il qui simbolizzato da una persona, un animale, un paesaggio presente nel ricordo; tali sono le fughe dei preadolescenti collocati in collegi o istituti. La fuga può essere anche un effetto della delusione relativa al qui in cui risiede il soggetto. Allora non c’è nessun altro posto a cui pensare; tali fughe si riscontrano in adolescenti che hanno i genitori separati. Può esserci inoltre la ricerca di un altro luogo, ma senza che questo sia il motore essenziale della fuga. È il caso, per esempio, del reclutamento militare o dell’adolescente che va a “sistemarsi” in un istituto. Queste situazioni, in cui l’altrove sognato può essere di qualità discutibile, sono sostitutive delle fughe; si può infine avvicinare a questo comportamento l’ingresso in una banda di adolescenti. La fuga però può anche rivelarsi utile, nel caso in cui permette di evitare una dinamica patologica, mettendo una certa distanza fra l’adolescente e i suoi genitori. Essa acquisisce, in questo caso, il valore di una rottura positiva che introduce una soluzione transitoria volta a regolare una problematica edipica fino a quel momento non risolta. Tuttavia c’è il pericolo che la fuga diventi un’erranza in grado di portare il giovane all’emarginazione e all’esclusione. I giovani della strada Per alcuni giovani l’altrove è vissuto come un bisogno esclusivo che non è mai soddisfatto. La fuga è allora elevata al rango di condizione permanente: diventano barboni, finiscono in carcere. Senza una meta, vagano a volte non lontano dalla loro vecchia casa, facendosi ospitare ora da uno, ora da un altro, oppure, al contrario, si allontanano, prendendo le loro distanze, finendo all’estero, vivendo ai margini della società e unendosi a bande già esistenti, credendo di poter curare momentaneamente le loro ferite affettive attraverso la solidarietà di altri esclusi, che, come loro, sono in una fase di rottura. Essi si stabiliscono con loro nel mondo del provvisorio e dell’instabilità, nella clandestinità, e, per dirla con Pommereau, spinti a vivere di espedienti e di traffici illeciti, si mettono in pericolo e conoscono la droga, il racket, la prostituzione e lo stupro. Credendo di dotarsi di un’identità propria, questi giovani alla deriva hanno, in un primo momento, l’illusione dell’autonomia e non hanno «coscienza 41

di cercare, nell’evitare norme e costrizioni, un nuovo comportamento, sia pur emarginato o delinquente». Sono le prede ideali per sette di ogni tipo, poiché sono in uno stato di sottomissione, di dipendenza, ciechi e sordi ai richiami della loro famiglia, che queste sette vogliono impiegarsi a demonizzare. Dopo aver tentato di sottrarsi alle costrizioni familiari che essi giudicavano alienanti, essi si condannano in questo modo a un’influenza ben più limitante. L’erranza è coscientemente legata al desiderio di fuggire da un ambiente giudicato intollerabile, ma manifesta anche una mancanza di punti di riferimento spaziali, che la sola liberazione del piano interiore verso l’esterno non può risolvere. Fuggendo se stessi, questi giovani cercano inutilmente di uscire dalle loro angosce. Essi non ricercano più soltanto, osserva Pommereau, “il semplice svanimento nella fuga” o “questa sparizione momentanea che suppone… l’attesa scontata di un recupero salvifico”. Essi vogliono dissolversi nello spazio di tutti i perduti, “nel caos di un mondo interiore privo di punti di riferimento”, confondono le proprie tracce nella speranza di fondersi con esse “per far sparire le domande rimaste senza risposta”. La rottura avviene generalmente per gradi e i legami familiari sono raramente tagliati in modo totale, sia perché i giovani sono ancora, di quando in quando, ospitati dai loro genitori, sia perché di solito mantengono dei legami privilegiati con un membro della famiglia allargata. Possono anche ricevere un aiuto pecuniario episodico o un sostegno nella loro ricerca di un impiego o di uno stage lavorativo. Eppure, poiché col tempo gli incontri si diradano, essi si integrano presto nel mondo della strada, inserendosi nel percorso dell’esclusione sociale. Due fattori sono all’origine di questo stato: il loro allontanamento spaziale e temporale – ritmo di vita insostenibile o la distanza stabilita tra il vecchio domicilio e la nuova residenza –, e il sentimento di vergogna che provano di fronte al proprio deterioramento fisico oltre al senso di colpa nei confronti dei propri genitori. La loro situazione scolastica e professionale è negativa quanto il loro inserimento familiare. Avere un mestiere è la condizione per una vita sociale rispettata. Lavorare vuol dire avere ottenuto un diploma, senza il quale il rischio della disoccupazione cresce considerevolmente. I fallimenti ripetuti nella formazione scolastica e le difficoltà di integrazione nel mondo del lavoro rendono difficile il loro inserimento professionale. Inoltre, l’assenza di identificazione con modelli classici di integrazione 42

rende la loro stabilizzazione professionale rischiosa e illusoria. Non avendo spesso né lavoro né un domicilio né soldi, sono costretti ad arrangiarsi. Bisogna allora distinguere le pratiche “escludenti” dalle pratiche “inserenti”. Le prime possono prendere la forma dell’accattonaggio e/o di condotte delittuose suscettibili di condurli in prigione, le seconde manifestano una volontà di riprendersi e consistono nel cercare stage lavorativi o di formazione professionale, nel frequentare centri per l’assistenza ai senza tetto, nel seguire cure di disintossicazione in caso di tossicomania, oppure nello scontare una pena carceraria che può condurli a una presa di coscienza circa la precarietà della loro situazione. La loro volontà di integrarsi alla società è però labile, poiché conduce a frequenti fallimenti, da cui il ritorno al carcere, all’erranza e al rifiuto sociale. Per sopravvivere, si costruiscono un romanzo familiare, rielaborando la loro storia sotto forma di una sorta di teleromanzo di cui essi sarebbero gli eroi. Vivono come avventurieri partiti alla conquista di uno status, di una condizione sociale da cui usciranno vincitori per riguadagnare il proprio ambiente d’origine, in cui mostreranno ciò che essi sono divenuti grazie alla loro volontà, senza l’aiuto di nessuno. Questa speranza è necessaria alla loro sopravvivenza mentale, li allontana dalla follia, permette loro di negarla, rendendo compatibili la loro autostima e le loro condizioni di vita e proteggendo la loro identità attraverso questa proiezione in un futuro valorizzante, anche se è solo fantasticato. Il sogno è in effetti necessario per sostenere la loro vita quotidiana, fatta di stazioni della metro, di case occupate, di androni e di scantinati di case popolari oppure di locali destinati alle immondizie. Questi luoghi non sono scelti a caso. Sono luoghi di passaggio, in cui un importante flusso di persone facilita lo scippo o l’elemosina, che permettono di spostarsi in fretta o di crearsi delle nicchie di sopravvivenza. Sono anche luoghi che permettono loro di realizzarsi, di restaurare la loro autostima, che forniscono l’occasione di provare emozioni forti, di correre dei rischi. Lo stesso dicasi per i luoghi in cui si devono confrontare con le istituzioni: l’ospedale, in cui possono ricevere cure conseguenti al loro pessimo stato fisiologico (dovuto agli incidenti, ai colpi ricevuti durante le zuffe), ma in cui possono anche sgraffignare qualcosa da mangiare; i centri di assistenza psichiatrica, a cui li conducono l’alcolismo, la droga, le crisi d’angoscia e i tentativi di suicidio; la prigione, dove finiscono quando rubano o spacciano. 43

Davanti all’alternativa tra il processo di sottomissione/identificazione, che permette loro di rendersi nuovamente simili agli altri, e quello di innovazione/ricerca di identità, che permette loro di differenziarsene, di prendere le loro distanze dalla società, essi scelgono piuttosto il secondo, correndo il rischio di ritrovare la strada, se non il marciapiede. Operano degli sforzi di adattamento permanenti, testimoniando l’inventiva necessaria alla loro sopravvivenza. Eppure vivono anche una dinamica di esclusione/inserimento da cui le vie di fuga si rivelano difficili, se non impossibili. Le erranze Le erranze sono la realtà di quegli adolescenti che presentano un’instabilità fisica, psicologica e sociale. Esse corrispondono a situazioni caratterizzate dalla durata e dalla precarietà – assenza di una residenza fissa, vita in case occupate o nelle trombe delle scale, ecc. –, dall’assenza di motivazioni esplicite – indifferenza verso la propria situazione, inconsistenza delle rivendicazioni fondate sull’origine della propria condizione, ecc. – e da comportamenti delittuosi diversificati. Le erranze devono essere considerate attraverso il rapporto che il giovane intrattiene con lo spazio. Per lo psicoanalista, il sovrainvestimento nello spazio geografico sarebbe un modo per lottare contro le debolezze interiori di origine narcisistica, in relazione con una carenza di cure durante l’infanzia ma anche con una relazione materna fusionale. Le erranze avrebbero allora per scopo la ricerca di un oggetto perduto o, più esattamente, un oggetto che potrebbe non essere mai esistito. Sarebbero delle difese adottate contro un’angoscia pervasiva, che permettono di provare una sensazione di onnipotenza e dominio sul mondo. Erranza deriva dal verbo errare, che significa sia “camminare qua e là, a caso e senza una meta precisa”, sia “sbagliarsi, essere in errore”. Etimologicamente, questo termine ha una doppia origine latina, da iterare ed errare, e si trova alla base di due parole: itinerario ed errore (Birraux, 1994). In questa prospettiva, l’erranza è l’espressione di una falsa credenza propria a ciascun errante e del tentativo impossibile e ripetuto di riparare a un errore fondamentale e originario. Convinto che l’oggetto è cattivo, l’errante, per vivere la sua verità, crea delle illusioni, predicando 44

il falso per allontanarsi dal vero e assicurarsi della propria verità – il proprio errore –, poiché errare è sbagliarsi. Questa definizione, ripresa da Birraux, è abbastanza restrittiva e corrisponde solo a una situazione particolare, quella cioè di adolescenti su cui, durante l’infanzia, i genitori non hanno investito in quanto soggetti, ma in quanto prolungamento narcisistico della madre. La prima relazione oggettale si è allora stabilita sulla base del bambino oggetto soggettivo della madre. Il sentimento di esistere in sé e per sé e nei confronti degli altri si è costruito solo su un legame primario con la madre, oggetto libidico patogeno. L’errante non ha dunque mai avuto della verità in sé, non essendo altro che il fondamento della verità della madre: ciò lo conduce a credere di non esistere, a meno di “non essere” o “non essere lì”. L’“errore” dell’errante, prosegue Birraux, si fonda sull’ineluttabilità del crollo del suo ambiente, in rapporto a una depressione profonda e precoce del bambino. Dilaniati dal rischio depressivo riattivato dai lutti puberali e dai disinvestimenti adolescenti, gli erranti credono di poter ritrovare l’equilibrio solo attraverso l’insoddisfazione pulsionale, poiché possono immaginare un eventuale sollievo solo restando nell’ambiente negativo che costituisce la loro “verità”. La scelta dell’erranza evita la disgregazione del mondo e del Sé di fronte ad oggetti cattivi, come, a volte, l’influenza materna. Anche l’incontro con oggetti soddisfacenti rinvia ad un’angoscia di annientamento, poiché, lontano da quest’influenza materna che egli fugge, il soggetto non sente più di esistere. Eppure, le erranze possono intendersi in un’accezione più vasta. Askevis e Romo-Jimenez (1994) distinguono così quattro tipi di comportamenti: fughe di giovani che non hanno subito maltrattamenti, erranze in città, fughe di giovani che hanno subito abusi (supposti o comprovati) all’interno della famiglia, e situazioni di giovani messi alla porta dai genitori. • I “fuggitivi non maltrattati” sono i più numerosi. Si tratta spesso di giovani provinciali di 16 anni, poco interessati agli studi, in via di descolarizzazione, cresciuti in famiglie unite e numerose, in cui l’immagine paterna presenta dei difetti – un padre disoccupato, deceduto, carcerato, ecc. Il loro stato di salute non è buono e il consumo di droghe, tabacco e alcol è elevato. 45

• Gli “erranti” costituiscono un decimo della popolazione dei giovani in erranza. Sono per lo più ragazzi le cui condizioni di vita in famiglia erano precarie: famiglie poco numerose ma genitori separati, abitazioni di basso livello. Molti sono descolarizzati ed errano per le strade di Parigi. Lo stato di salute non è malvagio, malgrado le droghe, l’alcol e il tabacco. Alcuni hanno già avuto dei contatti con la giustizia. Si tratta di un gruppo a rischio elevato. • Il gruppo “fuggitivi maltrattati” è composto per il 50% da ragazze cresciute in famiglie unite e numerose. I padri, molto spesso unici lavoratori in famiglia, vi esercitano una posizione dominante. Le condizioni abitative sono soddisfacenti. Godono di buona salute. Il consumo di droga, alcol e tabacco è debole. Il rischio resta basso. • I giovani “cacciati dal domicilio della famiglia” sono per lo più cresciuti in famiglie con genitori separati. È spesso il padre ad averli messi alla porta. Generalmente i due genitori lavorano e le loro condizioni di vita sono soddisfacenti. Questi giovani sono spesso descolarizzati. Molti lavorano per alleviare la mancanza del sostegno economico della famiglia. Il loro livello di salute è buono e il consumo di droghe, alcol e tabacco è abbastanza basso. I primi due gruppi sono associati a una partenza volontaria dal domicilio familiare e a una ricerca di esperienze nuove. Il loro elevato consumo di droghe, alcol e tabacco manifesta una ricerca di limiti e un bisogno di sperimentare. Presentano dei rischi certi. Gli ultimi due, al contrario, sono associati a una partenza forzata dal domicilio familiare. Non sono tanto “erranti”, ma giovani in difficoltà, che chiedono di poter beneficiare di un alloggio o di una casa-famiglia. Questi ultimi due gruppi presentano pochi rischi. Partendo da un altro punto di vista, Gutton e Slama (1994) contrappongono l’erranza psichica all’erranza agita, poiché la prima è necessaria nel percorso adolescente, la seconda ha un aspetto psicopatologico. Esistono molti piani intermedi tra questi due livelli, tra l’erranza episodica e passeggera e quella che si è più o meno stabilizzata. Si pone allora la questione di sapere come una semplice fuga possa condurre all’erranza, come una condotta passeggera diventi cronica. Da un punto di vista epistemologico, l’erranza si oppone alla fiducia, e l’errante non crede all’intersoggettività; collocandosi al di fuori del sistema, lo attacca implici46

tamente. Il pensiero degli erranti è quasi malinconico, vicino a funzioni psichiche vuote, che manifestano, attraverso la noia, violenti movimenti sadomasochisti. Errare è creare il vuoto, è smettere di pensare. Possono così sorgere dei problemi, sottolineano questi autori. Poiché non può riuscire a “storicizzare” il suo passato, lo spazio psichico dell’errante è come un abisso senza fondo, che lo spinge a conquistare lo spazio reale. La sua sopravvivenza psichica ha allora per corollario la sua sopravvivenza nella strada, vera e propria proiezione del suo spazio psichico, mentre i limiti tra l’interiorità e il mondo esterno sono sfumati ed evanescenti. Inoltre, il giovane errante è spesso in rottura con la filiazione transgenerazionale. La fuga dalle origini che non può effettuarsi nello spazio psichico, si realizza attraverso una ricerca feticista e senza tempo dello spazio reale. Donde il rischio di entrare nella psicosi allucinatoria, nella depressione e nella frammentazione a causa di una specie di dipendenza dalla mobilità.

Dall’erranza al carcere Alcuni adolescenti diventano asociali, si escludono e si ritrovano in carcere, a raggrupparsi con altri erranti privi di punti di riferimento. Alcuni, dopo essere stati abbandonati, maltrattati o brutalizzati, o dopo essere vissuti in famiglie con gravi problemi, hanno conosciuto dei ripari o delle famiglie adottive. Altri, cresciuti in famiglie smembrate a causa di un decesso o del divorzio, o cresciuti in famiglie sopraffatte dalla loro condotta, sono stati “cacciati via”. Altri, infine, che hanno conosciuto un padre autoritario, incapace di trasmettere loro dei saperi o dei saper-fare, che non ha fatto altro che imporre obblighi, sono stati, allo stesso modo, messi alla porta di casa sin dalla più tenera età. Secondo Dubet, il carcere è come un universo grigio e smorto, senza coerenza né scopo, ben noto ai giovani delle periferie e delle grandi città. Questa forma di emarginazione può essere dovuta a un mondo industriale che sta invecchiando, che non è più capace di proporre a tutti dei sistemi di identificazione stabili, atti all’integrazione all’interno di una società nuova. Tale emarginazione può essere ricondotta a un’evoluzione delle classi lavoratrici generata dal declino, tanto sul piano qualitativo che su quello quantitativo, del mondo operaio, dei partiti politici e dei movimenti sindacali che li rappresentavano, ma anche dall’influenza di una cultura 47

di massa omogenea, legata allo sviluppo dei media, e, più in particolare, della TV. La sparizione delle vecchie forme di coscienza di classe e l’assenza di nuovi movimenti capaci di mobilitare i giovani, nota Dubet, hanno fatto sparire degli avversari sociali tradizionali e il carcere è così divenuto l’espressione: • di una scomposizione del sistema d’azione della società industriale; • della disgregazione del tradizionale sistema di integrazione operaia; • dell’alterazione di alcune forme di partecipazione e mobilità presso i giovani della classe popolare. Bisogna in effetti rilevare l’esistenza di stravolgimenti economici e industriali che hanno marcato la fine del XX secolo, ma anche l’esodo rurale e i fenomeni migratori che hanno indotto lo sviluppo sconsiderato delle periferie e delle città nel quadro di un’urbanizzazione selvaggia. Ne è risultata una relativa disorganizzazione sociale, illustrata dal declino dell’influenza delle regole sociali sugli individui, che si manifesta attraverso l’indebolimento dell’adesione ai valori proposti dalla società e la valorizzazione di pratiche individuali. Le istituzioni non sembrano più adatte a una parte della popolazione e appaiono incapaci di rispondere alle sue domande. Così questi adolescenti finiscono in galera, vivono una decomposizione del loro universo sociale sulla base di tre principi: disorganizzazione, esclusione, rabbia: • la disorganizzazione corrisponde all’assenza di norme e di valori, al disinserimento nell’ambiente familiare e scolastico, alla difficoltà, ovvero impossibilità, di comunicare con gli altri; • l’esclusione porta la passività, il ritiro e il compimento di delitti, in relazione con il fallimento cronico interiorizzato e con il desiderio represso di vivere in un gruppo molto organizzato, strutturato intorno a valori forti; • la rabbia corrisponde al desiderio di distruggere tutto, al nichilismo, all’odio cieco: è il no future.

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Il disinserimento sociale La disorganizzazione sociale della vita delle città è sia materiale che relazionale. Essa riguarda sia il contesto urbano e le condizioni di vita, sia l’immagine negativa che hanno i giovani e la stigmatizzazione che ne risulta. La città diventa un “mondo marcio” in cui si vive male, in cui i problemi personali sono molteplici, sia in quanto associati al quartiere, sia in quanto associati alla famiglia o alla scuola. • Le condizioni di vita all’interno di alcune periferie, in particolare gli appartamenti, sono spesso difficili e conducono a fenomeni di segregazione sociale, poiché le case popolari, strutturalmente fragili e su cui i residenti investono poco, risultano concentrate in uno stesso luogo. I numerosi giovani che vi abitano sono privi di punti di riferimento, di norme, di modelli, di dialogo e di limiti, e non hanno né la capacità né la costanza che potrebbero permettere loro di aderire alle norme della società; essi conoscono la frustrazione all’interno di un mondo le cui regole sociali appaiono sfumate. Ne risultano tensioni tra gli abitanti, tra i giovani e i meno giovani, dissensi che si manifestano attraverso un’ostilità marcata, un’assenza di comunicazione e una mancanza di solidarietà tra generazioni. • I problemi familiari sono particolarmente gravi, e sono spesso associati alla presenza di disfunzioni all’interno delle famiglie. Per questi giovani, il disaccordo fra i genitori e l’assenza del padre sono frequenti. Questa assenza, più o meno fisica, costituisce per il giovane una mutazione notevole dei suoi legami con la società. Il padre, guardiano dei valori e immagine della Legge, è frequentemente colui che fa rispettare regole e proibizioni. Il confronto con lui è necessario e se è assente o indifferente, troppo indulgente o autoritario, la sua relazione con il bambino rischia di rinforzare un orientamento verso l’asocialità. • La democratizzazione dell’educazione ha avuto l’effetto perverso di portare la massificazione dell’insegnamento e, attraverso questo, di mettere in grande difficoltà i giovani privi di risorse. Rinchiusi nel loro fallimento scolastico, lo metabolizzano a livello interiore, non trovando nella scuola nessun mezzo di valorizzarsi. Molteplici 49

ragioni possono allora condurre al disinserimento scolastico e sociale: il rifiuto dell’autorità; l’esistenza di difficoltà ad integrare un modello scolastico che sembra loro rigido, in cui si “segue o no”, ma in cui non esiste una via di mezzo; le divergenze fra insegnanti e allievi per quanto riguarda concetti come “rispetto”, “diritti”, “doveri” e “apprendimento”; e soprattutto, “assenza di dialogo”. In questo momento in cui la relazione con i genitori è messa in discussione, in cui gli adolescenti devono trovare altre risorse per alimentare la propria autostima, la scuola non fornisce le risposte di cui essi hanno bisogno. Che dire allora dei giovani immigrati, per i quali vengono ad aggiungersi gli effetti della designazione sociale e dell’emarginazione? Dall’esclusione alla rabbia Alcuni adolescenti in carcere, sentendosi in qualche modo guidati da un destino immutabile che li svincola da ogni responsabilità circa le proprie azioni, finiscono col lasciare che gli eventi decidano per loro. Tendono ad arrendersi, a chiudersi in se stessi, non hanno alcun progetto scolastico, sono incapaci di proiettarsi nel futuro. Il fallimento scolastico li spinge ad abbandonare gli studi e a descolarizzarsi. L’esclusione si manifesta anche attraverso un elevato tasso di disoccupazione e la marcata precarietà delle famiglie, a maggior ragione quando essi sono figli di immigrati. Bisogna osservare che i modelli e i valori proposti dalla società dei consumi sono generalmente agli antipodi delle loro possibilità: il conformismo e l’ottenimento dei risultati, la disciplina e il lavoro, il successo e la competizione. Per proteggersi dai mali generati dalla propria incapacità di inserimento, questi giovani si chiudono in isole di sopravvivenza, dove sviluppano una socialità che li autorizza a vivere alla giornata, dopo aver messo da parte i loro problemi, al riparo da un mondo da cui si sentono esclusi. La vita in una banda permette loro di costruire delle microsocietà che la società non può offrire. Risentendo del rifiuto sociale, interiorizzano la loro esclusione rappresentandosi come emarginati inadatti alle norme imposte dal corpo sociale: ragazzi che hanno fallito a scuola, che sono disoccupati, che vivono in una città di pessima reputazione. 50

L’esclusione genera la frustrazione. Alcuni giovani vorrebbero beneficiare di ciò che la società sembra offrire ad altri. Desidererebbero vivere “normalmente”, cioè avere una casa, una compagna e un lavoro ben remunerato. Eppure questi desideri rimangono insoddisfatti e si vedono costretti a vivere nella loro periferia, cioè nella precarietà. Può risultarne un effetto di conformismo frustrato, che li conduce a strategie marginali e delinquenti, in particolare al furto di vestiti di marca, di veicoli, di telefoni cellulari, di stereo, il che è per loro una forma di integrazione attraverso la scappatoia del consumo, anche se questo consumo è fraudolento. Simili circostanze richiamano alcuni lavori della fine del XX secolo che mantengono tutta la loro attualità, lavori in cui Cohen, poi Cloward e Ohlin supponevano l’emergere di “sottoculture” oppositive alle frustrazioni provate da una cosiddetta “classe inferiore”. La delinquenza, secondo questi autori, era allora l’unica soluzione collettivamente praticabile da alcuni ragazzi delle classi economiche sfavorite per “uscirne”, poiché le vie che avrebbero potuto condurli a migliorare legalmente le loro condizioni di vita erano bloccate, e poiché non potevano raggiungere criteri di successo stabiliti dalla cultura globale. Stando a questi autori, la contraddizione tra le aspirazioni dei giovani e le limitate possibilità di accesso ai mezzi per realizzarle sarebbe stato uno dei fattori più importanti all’origine della delinquenza. Un sentimento di dominazione è generalmente associato al sentimento di esclusione. Una dominazione senza un viso, senza un principio, che esprime l’assenza di ogni movimento sociale che doni un senso all’esperienza di questi giovani. Una dominazione che si caratterizza attraverso un odio esacerbato diretto contro tutto l’universo, in particolare contro la polizia, che è, allo stesso tempo, il simbolo del puro dominio della violenza e dell’assenza di rapporti sociali. Questi giovani hanno la sensazione di essere dominanti nella loro città, nel loro quartiere, nel loro “territorio”, ma provano anche un sentimento di rifiuto e di esclusione che fa di essi dei “dominati” e non dei “dominanti”, per riprendere l’espressione di Joël Bordet. I loro rapporti con lo spazio illustrano questo duplice movimento: mentre dominano alcuni spazi della città, giudicano certamente inaccessibili le aree esterne, a causa del costo dei trasporti e dei controlli di polizia, ma manifestano anche la sensazione di sentirsi giudicati come stranieri. Questo movimento di onnipotenza/impotenza impedisce loro di collocare i loro confini e quelli degli altri. Il senso di impotenza contro 51

una simile dominazione è manifesto tanto contro gli altri che contro di sé, in una sorta di volontà autodistruttiva che si esteriorizza attraverso condotte a rischio. La delinquenza che ne risulta può essere considerata come una condotta di rabbia normale, diretta contro l’ambiente in cui si vive. Essa diventa un modo banale di agire che risulta dalla disorganizzazione della città e dalla dissoluzione delle tradizioni. Integrata nella vita del carcerato, essa diventa il suo modo di esistere dopo essere stato quello di sussistere. Due lati della rabbia possono essere distinti: il primo concerne la rabbia associata a una fascinazione della forza, che spinge il giovane ad essere ancor più selvaggio del mondo in cui vive. Egli valorizza allora le condotte virili ed eroiche. I valori maschili sono lodati e quelli femminili respinti. La necessità di farsi “giustizia” da soli è in prima posizione; gli educatori sono rifiutati perché, per questi giovani, essi non sanno far altro che parlare. Il secondo lato può essere associato al nichilismo, questo bisogno disperato di distruggere tutto, visto che il futuro sembra privo di ogni senso. La violenza latente si esprime attraverso una violenza apparentemente gratuita, senza un oggetto distinguibile né un’origine evenemenziale, in cui si esprime solo il piacere di passaggi all’atto associati alla rabbia. La distruzione ha come unico oggetto il distruggere ed esso si giustifica solo attraverso una vita condotta in un “mondo marcio”, da cui i giovani non si aspettano più nulla. Tre principi, tre logiche… Ai tre principi di disorganizzazione, esclusione e rabbia corrispondono anche tre logiche d’azione eterogenee di protezione, espedienti e violenza senza un oggetto: • fra disorganizzazione ed esclusione si instaura una logica di protezione intorno a cui gli adolescenti si raggruppano per gestire la loro noia e trasformare, per un istante, i propri fallimenti in successi o in sogni; • la logica degli espedienti si costruisce a partire dall’esclusione e dalla rabbia: è la legge del più forte, di colui che, senza farsi catturare, è capace di sfidare la società; 52

• rabbia e disorganizzazione sono infine associate nella logica della violenza senza oggetto, che consiste nell’agire contro tutto ciò che esiste, tutto ciò che propone o difende questo “mondo marcio” che bisogna provocare e distruggere per farsi ascoltare. Quest’ultima logica è rafforzata dai media, che rendono particolarmente visibili i comportamenti dei giovani che bruciano autovetture, che scatenano risse con i poliziotti o con i vigili del fuoco e danneggiano gli edifici scolastici (Floro, 1996). Una logica di protezione In carcere, luogo caratterizzato dall’assenza di frontiere e di leader, il gruppo dei pari non è né stabile né organizzato. Essa crea una socialità basata su legami relativamente fragili ma valorizzati, in quanto permettono di organizzare il ritiro all’interno di un istituto marcio, dove i giovani cercano di procurarsi degli isolotti di vita accettabili, in cui possano “cazzeggiare” fra loro. Questo aspetto è associato a una domanda di protezione indirizzata agli adulti attraverso la scappatoia dei servizi sociali per rivendicare il diritto di essere riconosciuti ed, eventualmente, essere presi in considerazione. Benché le bande in cui questi giovani si integrano siano emarginate e violente, bisogna notare che essi ricercano un’identità attraverso il gruppo dei pari, che diventano poli d’identificazione, di strutturazione e d’integrazione. Una logica di espedienti Nella logica degli espedienti i giovani considerano che solo i forti e i furbi possono sopravvivere e avere successo. Per ottenere queste qualità, essi fanno ricorso a mezzi illegali, generalmente non violenti – furti e traffici diversi – per guadagnare del denaro e tirare avanti. Tali comportamenti non permettono loro di sentirsi meno esclusi o impotenti, perché non li aiutano realmente a migliorare davvero la loro immagine sociale. Eppure, simili espedienti possono, malgrado tutto, dimostrarsi benefici, se permettono loro, in seguito, di approfittare delle opportunità offerte dalla società attraverso degli stage lavorativi e di formazione. Una logica di violenza senza oggetto La logica di violenza senza oggetto è caratterizzata dal nichilismo e 53

dalla sensazione di vivere in un “mondo marcio” da cui i giovani dicono di non potersi aspettare niente, un mondo che definiscono una “giungla”, che li rende “pazzi” e dove si sentono isolati, senza alcuna possibilità di solidarietà, che si tratti di relazioni fra giovani o fra giovani e adulti. La violenza è allora un modo per esprimere il malessere e per creare un legame sociale, anche se si rivela effimero e negativo. I comportamenti sono spesso assurdi e la violenza gratuita e provocatrice illustra il malfunzionamento di un soggetto il cui scopo è far vacillare l’altro per il solo piacere che ciò gli procura. Una simile violenza, apparentemente gratuita, appartiene a queste logiche di azione e si spiega, secondo Badache (2000), attraverso una crisi del legame sociale e della genitorialità. • La prima si accompagna a una crisi simbolica, perché i sistemi di rappresentazione, i punti di riferimento dell’agire collettivo e i divieti sono, per questi giovani, divenuti inoperanti. Questa violenza, che è l’unico modo di esprimere la loro disillusione, il loro fastidio e la loro rabbia, è anche un mezzo per costruirsi un’identità e affermare la loro presenza nel mondo. • La seconda deriva dal fatto che i genitori appaiono troppo severi o troppo permissivi con i loro bambini. La crisi dell’autorità si duplica allora in una crisi della coerenza di istituzioni che si rivelano incapaci di istruire i giovani in carcere, di inserirli e di socializzarli, lasciandoli precipitare nell’esclusione. Le parole di questi giovani esprimono l’assenza di prospettive future e di vie d’uscita da questo labirinto in cui essi errano, la mancanza di un senso e di riconoscimento, il malessere. La violenza finisce con il riempire queste lacune, riesce a dare un’apparenza di senso a una vita che essi non sono in grado di controllare, poiché l’agire predomina sulla parola e sul pensiero.

Rifugiarsi nelle sette Come ricorda la MIVILUDES5, i minori costituiscono un pubblico particolarmente fragile, sia in quanto bersaglio di un gruppo settario, sia 5

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Missione interministeriale di vigilanza e lotta contro le devianze settarie.

in quanto oggetto conteso fra i genitori e un guru, sia in quanto subiscono più fortemente le credenze. Poiché rappresentano il futuro e lo sviluppo potenziale dei loro movimenti, duttili e senza difesa, bambini e adolescenti destano il più grande interesse nei capi delle sette. Essi possono essere manipolati fin dalla prima infanzia, persino da prima della loro nascita. Rischiano, con o senza il loro “consenso”, di essere separati dai genitori-adepti e di essere spediti lontano da casa in un ashram remoto. Sono un investimento redditizio, che assicura il ricambio generazionale in una setta e che può renderla ancor più nota. Giunti all’età adulta, in uno stato di dipendenza dalla setta, questi giovani rischiano di non essere autonomi e di non saper condurre la loro vita. Il termine “setta” è apparso nella lingua francese fra il XIII e il XV secolo. Derivato da due radici latine, questo vocabolo si situa fra l’idea di seguire una credenza comune e quella di ritagliarsi delle credenze, all’opposto della “religione”, che, secondo la sua etimologia, “crea un legame”, “lega”. Al contrario del linguaggio, in cui il termine setta ha sempre subito un senso svalorizzante6, essa designa, nel linguaggio colto, ogni gruppo religioso minoritario che si distingue da una religione stabilita e che vi si oppone. Nelle sette, spiega Louis Hourmant nella Encyclopaedia Universalis, c’è un potenziale di rottura con l’ordine sociale che si esprime in vari modi, andando dal conflitto aperto proprio dei movimenti apocalittici, che si pretendono investiti di una missione di rinnovamento del mondo, a un’integrazione sociale particolarmente forte di adepti il cui scopo è realizzarsi pienamente all’interno della società per affermarvi i propri valori. Questa separazione settaria passa anche attraverso la formazione di comunità che tendono ad attualizzare, nei loro comportamenti, l’utopia di un mondo liberato dal peccato, oppure a interiorizzare quest’utopia senza manifestarla, attraverso condotte in contrasto con la vita sociale. Il rifiuto del mondo è generalmente simbolizzato attraverso segnali distintivi, come indossare un particolare vestito o rifiutare pratiche quali la trasfusione di sangue o lo svolgimento del servizio militare. Così, se il termine setta ha anzitutto designato un insieme di persone che condividevano la stessa dottrina religiosa o filosofica, o un gruppo più o meno cospicuo di individui che si separano dalla dottrina ufficiale di una chiesa per creare una dottrina particolare, esso ha acquisito, dagli anni ’80, una dimensione polemica, 6

La parola setta è spesso associata a individui intolleranti e fanatici.

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indicando delle organizzazioni a connotazione spesso religiosa i cui comportamenti e le cui credenze sono giudicati dannosi dal resto della società. È vero anche che scandali politico-finanziari, alcuni suicidi di gruppo e alcune situazioni di esercizio illegale della medicina hanno gettato fango su simili gruppi, rendendoli assai noti negli ultimi decenni. Che cos’è una setta? La definizione di setta non è facile a stabilirsi proprio a causa di una certa mobilità nominale, storica e geografica, ma anche a causa del carattere occulto e del gusto per il segreto che ne caratterizza l’attività. È difficile elencare le sette, poiché possono acquisire identità diverse. Le definizioni sono d’altronde evolute nel corso del tempo. Una definizione era stata adottata negli Stati Uniti all’epoca della Conferenza sulla prevenzione delle sette, nel 1985: «Una setta è un gruppo o un movimento che mostra una devozione ed un impegno eccessivo nei confronti di una persona, un’idea o una causa, e che utilizza tecniche di manipolazione contrarie alla morale per influenzare e persuadere un individuo, e per conseguire gli obiettivi del leader, a scapito presente o futuro dell’individuo o della sua famiglia». Dieci anni più tardi, Abgrall ha proposto un’altra definizione, abbastanza simile alla precedente: «Una setta è una struttura di gruppo chiusa, fondata sulla manipolazione mentale, organizzata intorno a un maestro, un guru, e a un’ideologia. Essa è volta stabilire una differenza fra gli aderenti alla struttura e i non aderenti. Il suo fine, dichiarato o nascosto, è l’arricchimento del gruppo o di una parte di esso. Essa si stabilisce e si sviluppa attraverso lo sfruttamento dei manipolati da parte dei manipolatori. La sua azione sull’individuo è suscettibile di comportare dei disordini fisici o psichici, reversibili o no». Oggi la MIVILUDES preferisce esprimersi in termini di “devianze settarie”, per descrivere i gruppi e le organizzazioni, più spesso a carattere religioso, «le cui credenze o comportamenti sono giudicati oscuri o malevoli dal resto della società e i cui responsabili sono accusati di attentare alle libertà individuali all’interno del gruppo e di manipolare mentalmente i propri discepoli, per appropriarsi dei loro beni e mantenerli sotto controllo». Secondo Harvey Cox, professore di teologia all’Università di Harvard, ci sarebbero quattro “miti” ricorrenti nella messa all’indice di questi movimenti, e il termine 56

“mito” non è utilizzato per indicarne l’aspetto fantasioso, ma anzi perché essi sono fondamentali e ricorrenti, sebbene possano anche non attribuirsi ad un gruppo in particolare: • il mito della sovversione: la setta rappresenta una minaccia per la società; • il mito sessuale: la setta si dedica a pratiche sessuali perverse: pedofilia, orge, poligamia o astinenza totale; • il mito della dissimulazione: la setta è volontariamente ingannevole; • il mito del malocchio: la setta ha reclutato i suoi adepti attraverso la manipolazione mentale, perché nessuno vi avrebbe aderito volontariamente. Il peso delle sette Nell’aprile 1985, il rapporto Vivien elencava, in Francia, 116 sette in senso stretto, che riunivano circa 33.000 adepti, per la maggior parte giovani adulti o adolescenti; da 200 a 300 sette in senso lato, che riunivano circa 160.000 adepti e 500.000 simpatizzanti7. Su 116 sette, 48 gruppi erano di obbedienza orientale – induista, giapponese, coreana – e coinvolgevano 15.500 adepti; il movimento esoterico riguardava 45 gruppi e 10.500 adepti; infine, 23 gruppi e 6.500 adepti facevano capo a diversi movimenti, un buon numero dei quali qualificabili come razzisti e fascisti. Il loro numero aumenta rapidamente, poiché, nel 1996, se ne contavano un migliaio, di cui 173 qualificati “pericolosi”, secondo un rapporto depositato al Parlamento, che proponeva delle modifiche alla legislazione. Queste modifiche condussero, nel 2001, alla legge About-Picard, che rinforzava la legislazione in tema di abuso di debolezza psichica, determinava la possibilità che un’organizzazione colpevole di devianze settarie potesse essere sciolta e accordava ad alcune associazioni anti-setta il diritto di costituirsi parte civile nei processi. Il riferimento, molto controverso, a una lista di sette finì con l’essere abbandonato nel 2005, con una 7

Ci sarebbero più di 50 milioni di adepti nel mondo.

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circolare del Primo Ministro, per privilegiare una logica che, di fatto, ha il pregio di allargare il campo delle investigazioni, senza limitarle ai raggruppamenti identificati in precedenza. Il Ministero degli Interni ricordò così, in una circolare del febbraio 2008, che non si trattava, nell’intervento dei poteri pubblici, di stigmatizzare delle correnti di pensiero, ma di basarsi su fatti compiuti e penalmente perseguibili, costituenti un danno nei confronti dell’ordine pubblico, dei beni o delle persone. Nel febbraio 2009, nonostante tutto, nacquero nuove tensioni riguardo al progetto di una nuova lista. Bisogna notare che gli Stati sono costretti ad oscillare fra una tolleranza applicabile a tutte le forme di religione e di adesione a un dogma, e la protezione degli individui e della società, da cui il dibattito che oppone coloro che pensano che, di fronte a movimenti considerati settari e pericolosi, sia necessario intervenire per proteggere i cittadini e, dall’altra parte, quelli che pensano che non si abbia il diritto di infrangere le libertà di religione e di associazione. Oggi ci interessa piuttosto caratterizzare le devianze settarie. È così che la MIVILUDES riprende i criteri stabiliti dai Dipartimenti informativi delle forze dell’ordine per definire queste devianze: la destabilizzazione mentale, il carattere esorbitante delle esigenze finanziarie, la rottura con l’ambiente d’origine, l’esistenza di pericoli per l’integrità fisica, il reclutamento dei bambini, una teoria antisociale, problemi di ordine pubblico, l’importanza dei problemi giudiziari, l’eventuale sviamento dei circuiti economici tradizionali e i tentativi di infiltrazione nei poteri pubblici. La MIVILUDES aggiunge: la minaccia di danni per l’ordine pubblico, di condizioni di vita destabilizzanti, di danni a persone in stato di debolezza psichica e di ignoranza, la soggezione mentale che conduce ad atti o astensioni pregiudizievoli, il rifiuto degli altri e l’isolamento in gruppo, la violazione dei principi fondanti della Repubblica e il mancato rispetto delle Convenzioni internazionali ratificate dalla Francia. Dalla facciata attraente all’occulto ammaliatore Una delle principali critiche mosse alle sette è che esse si fondano su tre principi occulti. Il primo consiste in una dottrina, che propone ufficialmente la pace, la felicità e l’amore universale, a volte anche (ma solo per 58

l’élite degli adepti) dei poteri sovrannaturali e l’onnipotenza dello spirito sulla materia. All’origine della setta si trova generalmente un uomo che ha avuto una rivelazione, che gli derivi dalla sua interiorità o da Dio, quale che sia il titolo che egli si dà: guru, professore, maestro, reverendo, pastore o altri ancora. Quest’uomo è colui che sa e che ha, come prova, la propria parola. Il suo potere è assoluto, al limite del totalitario e del dittatoriale; questo potere è esercitato attraverso un apparato strutturato in una gerarchia rigorosa. Il secondo principio è in relazione con l’esistenza di un sottogruppo di adepti particolarmente favoriti all’interno delle sette. Esse sono spesso dotate di grandi ricchezze di cui approfitta solo una piccola parte dei membri, mentre la maggior parte degli adepti vive in una condizione di povertà e subisce dei regimi alimentari carenti, che possono condurre a una disastrosa condizione fisiologica e alla rovina psichica. Il terzo principio occulto è relativo alla regressione degli adepti attraverso la rottura dei legami familiari e alla profonda destabilizzazione della civiltà occidentale. Sono così respinti lo spirito critico, la fiducia nella volontà individuale, la tolleranza, il rispetto per l’essere umano, la libertà democratica, l’iniziativa, l’azione, il progresso – in particolare in ciò che riguarda la medicina ufficiale. Sono, al contrario, incentivate la sottomissione assoluta a un maestro e a un’idea, e l’elitarismo, e il tutto può condurre ad una sorta di monarchia schiavistica di diritto divino. Disimpegnarsi per impegnarsi… Molte sette hanno in comune la promessa di una felicità che si ottiene disimpegnandosi dalla propria famiglia e dalla società per obbedire al guru. La promessa settaria di felicità dà un senso nuovo alla vita dell’individuo. È in qualche modo la felicità “chiavi in mano” alla quale bisogna credere, aderire, investendo le proprie energie nel gruppo e negando ogni valore a coloro che sono in disaccordo con il movimento. L’assenza di fede è colpevolizzata, perché essa equivale a un rifiuto della partecipazione a un compito grandioso, che consiste nel salvare il mondo. Ora, il mondo ha bisogno di essere salvato perché la sua fine è vicina – la guerra atomica, un’invasione extraterrestre… –, ma la felicità può essere raggiunta solo fondandosi sull’unità e rifiutando la singolarità. Bisogna dunque disimpegnarsi dalla famiglia e dalla società, disimpegno che risulta da una ridefinizione del concetto stesso di famiglia imposta dal guru. Questa 59

rivisitazione della famiglia di origine mette in discussione anche l’inserimento nella società che è legato a quello familiare. Poiché la setta vuole affermarsi come rifugio, spinge a tagliare i legami che associano l’adepto al mondo. Il rifiuto del contatto esterno è volto a derealizzare l’adepto, che vede, in qualche modo, nella setta la sua nuova famiglia. C’è allora una regressione dell’individuo che riconosce un nuovo spazio familiare, reinterpretato e ridefinito all’interno di una vita gruppale fusionale. Il tema della rinascita comune a quasi tutte le sette conduce l’adepto a morire simbolicamente per rinascere all’interno della setta, unica salvezza in una società malata di droga, di delinquenza, di alcolismo e di disorganizzazione familiare. Ne risulta una rottura nella trasmissione intergenerazionale a causa della separazione della setta dal resto del mondo. L’adepto è aiutato dal guru, la cui esistenza si riferisce alla tradizione orientale. Costui inizia i discepoli attraverso il contatto diretto e attraverso dei testi “sacri”. E questi testi sono generalmente i suoi. Il guru legittima il proprio potere attraverso la propria conoscenza, la propria predestinazione e il proprio status. Eppure egli domanda più che semplice obbedienza; vuole la sottomissione, poiché egli detiene la saggezza. Questa saggezza alla quale sono iniziati i discepoli è limitata all’universo della setta. Tutto ciò che è esteriore è allontanato, ogni critica proibita. Esiste spesso la possibilità di uno shock culturale quando un occidentale si rapporta a una cultura che viene dall’Oriente, che lo rende fragile e lo pone alla mercé di chi lo guida, facendogli perdere il contatto con la società in cui vive. La perdita dei punti di riferimento è favorita dal sincretismo: infatti i profeti e le divinità sono sempre gli stessi, ma le dottrine sono confuse e riunite dalla setta nei modi che il guru preferisce. Il posto del bambino e la sua educazione nel quadro istituzionale Se i genitori appartengono a una setta, il posto del bambino all’interno della famiglia è modificato. L’unità del gruppo è più importante dell’unità familiare. La famiglia diventa il luogo di trasmissione di ciò che fonda l’appartenenza al movimento. È un luogo di educazione per i primi anni del bambino, prima che egli sia eventualmente inviato in un istituto dipendente dalla setta. L’impegno settario dei genitori può avere conseguenze catastrofiche sull’equilibrio fisico o mentale dei bambini, nel caso in cui, accecati dalle loro credenze, costoro li coinvolgano in pratiche pericolose, mancando al 60

proprio dovere di educatori e/o sottoponendoli a maltrattamenti affettivi, fisici o psicologici. Infantilizzati dalla loro posizione di adepti, lasciando il controllo della loro vita a un guru, alcuni genitori non sono più capaci di assicurare le cure necessarie ai propri bambini e se ne liberano, affidandoli al maestro o a un adepto incaricato dell’educazione. In effetti, l’apprendistato elimina rapidamente il luogo familiare. In un certo numero di sette c’è anche una separazione fisica o per lo meno affettiva fra il bambino e i suoi genitori. Il fine ricercato è che i genitori, come il bambino, arrivino a una migliore padronanza di sé. Questa e l’accettazione della sofferenza fanno, del resto, parte del discorso elitario di numerosi gruppi. Il guru investe nel super-Io del bambino attraverso un’onnipresenza fisica o simbolica. L’educazione basata sui precetti della setta è colpevolizzante e le attività incessanti. L’appartenenza comunitaria è ribadita e la società demonizzata, rendendo difficile ogni velleità di individuazione. La paura è del resto alimentata (su uno sfondo apocalittico): si pretende che il mondo esterno sia malvagio, popolato da esseri inferiori che ignorano la “verità” e che cercano solo di danneggiare i “veri credenti”. Ai bambini si insegna che il mondo corre verso la sua fine e che solo un pugno di eletti sarà salvato, mentre gli altri conosceranno una morte terrificante. L’educazione nel quadro istituzionale va da sé. La scuola è in effetti un luogo privilegiato per la trasmissione del sapere. Le sette, assicurando loro stesse l’educazione dei figli dei loro adepti, operano una relativa rottura nelle relazioni che si stringono abitualmente tra scuola e famiglia. Alcuni bambini vivono l’isolamento in comunità chiuse, poiché la formazione scolastica è interna alla setta o avviene per corrispondenza. Le dottrine sono ripetute in maniera incessante, attraverso libri di lettura della setta che rimpiazzano i libri di testo scolastici. I saperi trasmessi ai bambini sono in totale rottura con il sapere dominante all’interno della civiltà occidentale, nel tentativo di distruggere ogni singolarità a vantaggio dell’integrazione in uno stampo. Anche le attività extrascolastiche sono interessate – gite, vacanze, giochi… – e si fondano sulla convinzione che il bambino è un adulto in miniatura e non ha bisogno di giocare, il che limita la sua possibilità di proiezione in una posizione infantile. Ne risultano dei bambini saggi, obbedienti e ragionevoli, ma privi della gioia di vivere. Quelli che, andando a scuola, si confrontano con il mondo esteriore, non possono che trovarlo strano e cercano di non farsi coinvolgere nelle attività, camminano vicino ai muri, ignorano gli 61

altri bambini, cercano di “farsi dimenticare” dagli insegnanti, poiché la loro “saggezza” è dovuta a una volontà di conformarsi a un mondo di cui essi ignorano le regole. Questo conduce alcuni a passaggi all’atto, ma, più spesso, essi sono incapaci di proiettarsi nel futuro e, dunque, di diventare pienamente adulti8. I danni all’integrità fisica delle persone I danni all’integrità fisica delle persone sono frequenti, specialmente nei bambini. La società riconosce loro dei diritti che sono spesso messi in discussione dalle sette, in particolare in ciò che riguarda la salute, il maltrattamento fisico e lo sfruttamento sessuale. Così, in certi gruppi, il guru codifica la violenza perpetrata sui bambini e induce una certa violenza in famiglia attraverso i precetti che impone agli adepti. Questa violenza gli permette di controllare le emozioni dei genitori e la loro adesione alla setta. Essa si fonda moralmente sulla necessità della purezza dei bambini, indispensabile alla salvezza dei genitori. Anche il diritto alla salute è schernito: privazioni alimentari, rifiuto di cure e di igiene, medicina futuristica basata sulle vibrazioni, sull’imposizione delle mani e la preghiera, rifiuto di donare e di ricevere sangue. La gestione della vita sessuale degli adepti da parte del guru è già discutibile di per sé, quando si tratta di controllare gli adepti quanto al loro corpo e alla loro vita affettiva. Quando poi si tratta di bambini, i precetti appaiono criminali: violenza, incesto, relazioni con i minori o prostituzione. L’attrazione settaria durante l’adolescenza Si è potuto constatare un rapido sviluppo delle sette che è certamente in relazione con il contesto sociologico, con la riconsiderazione dell’insieme dei valori e con la crisi economica che il mondo conosce. Dopo aver perso i suoi punti di riferimento nel tempo e nello spazio, la sua fiducia nel futuro, messo a confronto con la precarietà del proprio destino, l’uomo disorientato si cerca, e l’adolescente lo fa a maggior ragione. La religione non sembra più fornire delle risposte soddisfacenti agli interrogativi e la scienza sembra trovare più domande che risposte. L’attrazione 8

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http://www.miviludes.gouv.fr/-LES-mineurs-?iddiv=3.

per le sette esprime perciò lo spostamento dei sentimenti religiosi dei giovani che sarebbero, come sosteneva il reverendo Jean Vernette9, passati da una attitudine di adesione senza problemi a quella di ricerca senza sosta, dal “discorso” al “percorso”, dal dogma collettivo all’esperienza individuale. Questa attrazione corrisponderebbe a una ricerca di senso, di sicurezza e di identità, che spinge i giovani a cercare delle risposte spirituali. Bisogni personali L’adesione a una setta può essere motivata dai bisogni personali dell’adolescente: la sua ricerca comunitaria, il suo bisogno di essere riconosciuto socialmente e la sua aspirazione a una visione positiva del futuro. Tali motivazioni sono in disaccordo con la modernità e rischiano di condurre a un rifiuto di questo mondo a vantaggio di un futuro più o meno prossimo. Centrato su di sé, rimettendosi in discussione alla minima difficoltà, il giovane può, così, essere tentato dalle sette perché potrebbe trovarvi sollievo a un’angoscia generata dalla società razionale, a causa anche di conflitti psicologici – magari proprio in un momento di crisi. Dopo aver perduto la maggior parte dei suoi punti di riferimento, mentre nessuna ideologia si rivela capace di instaurarsi in maniera duratura, la società moderna ha generato una crisi della speranza. Le sette si sono collocate in questo spazio libero, focalizzandosi sulla dimensione affettiva dell’individuo e indirizzandosi al suo desiderio di sicurezza e di unità all’interno di un mondo migliore. Rispetto alla complessità e al disordine della società, all’interno delle sette tutto sembra semplice. Tutto sembra magico e la felicità appare finalmente accessibile. Accentuando le sue inquietudini, esse propongono all’adolescente, in effetti, un mondo che sembra trascendere le difficoltà attraverso la presentazione di una comunità calorosa e strutturata, dedita all’altruismo. Come nota Hayath El Mountacir, incaricato del dossier Enfants, nel 2002, al CCMM10/ Centro Roger Ikor, l’ipertrofia dell’Io fa sì che il minimo fallimento conduca a delle riflessioni profonde e autocritiche: il narcisismo prelude alla ricerca del mito. La setta vende questo mito all’uomo a cui una società razionalizzata si rivela incapace di calmare l’angoscia. Essa sostituisce per lui 9 Sacerdote che è stato per quasi 30 anni il Segretario nazionale dell’Episcopato francese per lo studio delle sette e dei nuovi movimenti religiosi. 10 Centro di documentazione, educazione e azione contro le manipolazioni mentali.

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l’ordine al disordine, la costruzione al caos, rispondendo a due grandi esigenze contemporanee: comunicare con gli altri e avere successo. Inoltre, le sette sviluppano un sapere pseudoesoterico, che dà l’impressione di essere superiori agli altri, giocando, nello stesso tempo, sulla volontà di potenza degli individui e sulla loro ricerca affettiva. Non bisogna dimenticare che le sette hanno preso piede in una società in cui la vita quotidiana induce rischi e paure, in cui la disoccupazione, l’instabilità familiare, il divorzio, lo stress, l’affaticamento e la depressione possono colpire chiunque. Una società vissuta come pericolosa, constata Barrucand (1995), da cui bisogna difendere i propri figli. Eppure, facendo ciò, li si spinge alla dipendenza e alla deresponsabilizzazione. Bisogna del resto notare che, da una ventina d’anni, con il prolungamento dell’adolescenza nella “adulescenza” l’età d’ingresso in una setta si è estesa. Un’offerta attraente Secondo Fournier e Monroy (1999), è possibile riassumere l’attività delle sette a partire dalle loro principali caratteristiche: • assicurano all’adepto un futuro radioso, sia sulla terra sia nell’aldilà: sviluppo personale, piena padronanza di sé, salute, potere, salvezza elitaria, ma mascherano i costi derivanti dall’adesione settaria; • sotto l’autorità di un guru e/o di un’organizzazione burocratica ereditiera di un “messaggio”, sviluppano un’ideologia alternativa, esclusiva e intollerante, che sfrutta inquietudini e paure; • fanno riferimento alla loro interpretazione del mondo, che si tratti di credenze, di scienza, dell’etica o dei comportamenti individuali e collettivi; • preconizzano una rottura con il passato tradizionale: la famiglia, gli amici, le convinzioni e i punti di riferimento precedenti; • favoriscono la standardizzazione degli adepti, escludendo ogni autonomia personale. Lolli (1993) assimila le sette a dei gruppi alternativi che fanno appello non a una conversione religiosa ma ad una conversione ideologica. Nate dopo il ’68, esse hanno per origine quelle comunità che si rifiutavano 64

di vivere secondo le norme della società dei consumi e auspicavano il ritorno alla natura. Esse deviano l’individuo verso un mondo nuovo alla Huxley, provocando una emarginazione dell’individuo che crede di accedere a un’élite. In ricerca di ideali e di identità, in preda ad un’angoscia esistenziale, l’adolescente può lasciarsi coinvolgere. Tentato dalle esperienze alternative, egli aderisce a una dottrina che tende a dirigere la sua vita, che gli permette di plasmarsi all’interno di un gruppo uniforme e di distinguersi dagli altri, i non eletti. I bisogni degli adolescenti sono molteplici. Risentendo dolorosamente dell’immaturità infantile, sono inclini a dar luogo a procedimenti irrazionali e magici ai quali il linguaggio delle sette è uno dei pochi a rispondere. Per costruirsi un’identità, essi hanno anche bisogno di ideali: alcuni credono di trovarli all’interno delle sette. La società conosce una crisi di valori. I giovani si riferiscono difficilmente ai modelli proposti dagli adulti. La famiglia è in crisi. L’immagine del padre è sfumata, quando non scomparsa in modo definitivo, come in alcune famiglie ricomposte o monoparentali. Ci si aspetta una soluzione dalla scuola, dai suoi fondamenti tradizionali. L’individualismo, la ricerca di una felicità egoista, la permissività familiare e sociale e il materialismo non conducono il giovane a trovare i propri limiti. Ora, dei limiti sono indispensabili alla sua costruzione. La ricerca di nuovi sostegni può allora condurlo verso le sette. Gli adolescenti hanno anche bisogno di credere in qualcosa. Se i genitori o la società si rivelano incapaci di trasmettere loro dei valori su cui basarsi, le sette sembrano fornire una risposta appropriata al loro appello. Infine, molti giovani che non si sentono valorizzati né in famiglia né a scuola, possono cercare di restaurare la propria autostima in gruppi che sembrano tender loro delle mani affettuose. Bisogna inoltre prendere in considerazione che il mondo conosce attualmente una triplice regressione, sociale, politica e culturale, che influisce considerevolmente sugli adolescenti: • sociale, perché la disoccupazione e il precariato li minacciano direttamente, ma anche perché la destrutturazione familiare può condurli alla perdita di ogni punto di riferimento; • politico, a causa del disinteresse dei giovani alle grandi cause politiche; 65

• culturale, infine, che condiziona i giovani a considerare favorevolmente i prodotti che un marketing aggressivo propone (o impone) loro, fra cui quello delle sette. Basta allora che un giovane conti fra i suoi amici il membro di una setta, che faccia l’incontro significativo di un adepto, che se ne innamori o che si senta, più semplicemente, valorizzato attraverso la sua presenza, perché sia attratto da un movimento settario. Motivazioni personali e sociali Klosinski (1997), distinguendo cause psicologiche da cause sociali, propone una lista di motivazioni e di fattori in grado di spiegare l’arruolamento degli adolescenti nelle sette. Essi sono, sul piano psicologico: • la presenza di conflitti psichici che predispongono l’individuo alla dipendenza; • il fatto di trovarsi in un momento di crisi; • la ricerca di un benessere spirituale, affettivo o psichico; • la ricerca di soluzioni destinate a riempire un vuoto o a contenere un’angoscia; • la ricerca di consolazione nella sofferenza; • una profonda autocritica o un problema esistenziale; • una sensazione di impotenza rispetto al futuro, di destabilizzazione; • il bisogno di esperienze nuove, la ricerca di emozioni, il bisogno di mettersi alla prova e la curiosità per l’ignoto. Sono, sul piano sociale: • l’esistenza di relazioni amichevoli con l’adepto di una setta; • l’esistenza di relazioni amorose o coniugali con l’adepto di una setta; • la filiazione da genitori adepti di una setta; • il desiderio di sentirsi valorizzato, di far parte di un’élite, di acquistare prestigio agli occhi degli altri; • il desiderio di potere, di onnipotenza su di sé e sugli altri. 66

Come ricorda El Mountacir (1994), due approcci sono particolarmente frequenti per adescare l’adolescente: uno terapeutico e l’altro spirituale. Il primo riguarda le medicine non convenzionali e le medicine parallele, attraverso la promessa, a coloro che sono indeboliti da malattie o da droghe, di una guarigione assicurata a patto che cambino il loro modo di pensare, il loro regime alimentare e il loro stile di vita, il che tende a separarli progressivamente dal loro corpo. Non bisogna dunque sorprendersi che l’uscita da una tossicomania possa, oltre che in altri modi, avverarsi attraverso l’ingresso in gruppi settari, che si tratti, per questi gruppi, di un’attività collaterale destinata a reclutare giovani infragiliti o della loro attività principale. L’attrazione settaria non è così diversa dall’inizio di una tossicomania, poiché il divario fra il reclutatore di una setta e uno spacciatore di trascendenza è davvero molto sottile. Il secondo, l’approccio spirituale, ha per bersaglio giovani alla ricerca di una nuova spiritualità e il reclutatore si presenta loro spacciandosi come appartenente a diversi orientamenti religiosi: fondamentalista, cattolico, protestante, induista, ecc. Altri approcci sono vicini ai primi e propongono ai giovani un miglioramento delle loro potenzialità. Altre sette fanno appello all’ecologia, all’umanesimo, all’interculturalità o, in modo indiretto, in quanto associazioni che mascherano le loro origini, intervengono in maniera diversificata nella vita dei giovani, organizzando corsi sull’AIDS, sulla famiglia o sulla droga, proponendo corsi di musica o di disegno, ma anche di recupero scolastico, partecipando alla creazione di asili nido, ecc. Onnipresenti! Così le sette sono presenti quasi nell’insieme degli ambienti frequentati dagli adolescenti: • la scuola è un terreno in cui, per una setta, è relativamente facile introdursi, sia direttamente, cioè all’interno di istituti strettamente associati al movimento, sia indirettamente, cioè attraverso l’arruolamento di una parte del personale (stage, animazione, conferenze, servizi vari…); • luoghi pubblici diversi (bar, uscita delle scuole, metropolitana, palestre e altri luoghi di pratiche sportive…) lo sono allo stesso modo; 67

• Internet, infine, che i giovani sfruttano in massa per poi confrontarsi con i forum e con lo spam11. I mezzi generalmente utilizzati dalla maggior parte delle sette consistono anzitutto nel conoscere il più intimamente possibile il futuro adepto, proponendogli intrattenimenti o test di personalità per poi sedurlo e sovrastimarlo, fornendogli risposte semplici a domande complicate, come quelle sulla vita, sulla morte o sulla malattia, all’interno di gruppi affettuosi che trattano temi stimolanti (la vita oltre la morte, gli extraterrestri, gli UFO…), facendo appello a tecniche di relax e meditazione, blandendolo e assicurandogli felicità e fama in altre dimensioni. L’esca e l’approccio del futuro adepto partono da interrogativi cruciali durante l’adolescenza: “Dov’è la verità?”, “Come rendere il mondo migliore, meno diviso?”… La risposta sembra evidente e in linea con le problematiche adolescenti: è l’alternativa radicale che consiste nel cambiare tutto e nel rimettere tutto in discussione. Eppure, tali stravolgimenti possono avvenire solo se gli individui accettano di evolvere, di trasformarsi. Gli adepti servono allora da modello alla recluta attraverso le loro testimonianze, i loro rituali e le loro… messe in scena. Il fine proposto al futuro adepto è, d’altronde, come attestano i discorsi e gli scritti del guru, non solamente di evolvere, ma di sorpassarsi. Poiché, se lo stato che bisogna raggiungere è, certo, lo stesso per tutti, solo gli eletti riusciranno a trasformarsi e, facendo ciò, a cambiare il mondo, a ritrovare “l’età dell’oro”. La salvezza consiste nel ribellarsi contro questo destino che la società impone e nel cogliere la seconda occasione, quella proposta dalla setta: divenire unico e insostituibile al suo interno, ma, per fare ciò, rifiutare il mondo che è malvagio, per affermare la propria purezza e ottenere la salvezza. Solo le dottrine e le credenze della setta sono ammesse, radicalmente differenti, oppure diametralmente opposte a quelle in uso all’esterno. La nozione di individuo si sfuma all’interno della storia del gruppo e di quella del guru. Costui richiede una specie di culto idolatra. Sacralizzato, non deve partecipare ai doveri comuni, è dispensato dalle problematiche della vita e, modellandosi sulle aspirazioni e sui desideri dei suoi adepti, riceve l’omaggio della loro ammirazione e della loro devozione. L’investimento degli adepti è 11

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Posta elettronica indesiderata.

preteso e indiscusso, poiché la fedeltà è rinforzata dalla sacralità della parola del maestro, discutere la quale potrebbe condurre all’esclusione, alla vergogna e alla morte sociale. Inoltre questa parola passa attraverso un linguaggio ermetico, che svia spesso le parole dal loro senso primario, affinché l’adepto diventi estraneo alla propria lingua. Questo linguaggio lo induce a credere l’inverosimile. Tende a isolarlo e a consolidare il suo percorso (Schlesser-Gamelin, 1999). I mezzi utilizzati dalle sette tendono così, in un secondo tempo e in maniera più occulta, ad anestetizzare lo spirito critico e la personalità del futuro adepto, provocando in lui uno stato di fatica (marce, meditazioni, limitazioni del sonno, attività diverse come danze, visite a domicilio, seminari e conferenze), cambiando le sue abitudini alimentari, riducendo la sua intimità, intervenendo nella sua vita relazionale, modificando il suo linguaggio, alternando momenti di elogio a momenti di critiche vivissime e regolando la sua vita sessuale. La presa della setta sull’adepto è allora totale; non c’è più vita privata ma solo un’incondizionata sottomissione al guru, l’unico che possa determinare ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è buono o cattivo per l’adepto (Fournier e Monroy, 1999). Ne risultano effetti che, in un primo tempo, possono sembrare positivi per il giovane, anche agli occhi delle persone che frequenta: eventuali depressioni sembrano calmarsi; l’astinenza dalle droghe e dall’alcol tende a liberare dalla dipendenza (spesso al costo di grandi sofferenze) chi viveva una tossicomania; il senso d’inferiorità diminuisce e accresce l’autostima; le nuove esperienze arricchiscono certamente il giovane adepto. I primi benefici sono evidenti: aumento del controllo su di sé e sugli altri, aumento della produttività personale, attuazione di un ideale comune, ecc. Però il ritiro sociale che ne risulta e il disinserimento scolastico e professionale provocano dei problemi finanziari e rinforzano la dipendenza dell’adepto dal guru. Il suo orizzonte temporale è ristretto, la sua identità si fonde all’interno di un gruppo in cui egli è sempre più dominato dagli altri adepti. Rinforzando l’adesione al gruppo, le sette favoriscono, infine, le rotture – abbandono degli studi, soggiorni all’estero, separazione dai genitori, dai figli – che rendono difficile il reinserimento nella società, a causa dell’assenza di entrate, di una copertura previdenziale, di un’esperienza professionale e di spostamenti frequenti che impediscono di stringere legami duraturi. 69

Farsi coinvolgere fino in fondo I meccanismi che permettono di arruolare il futuro adepto sono complessi e consistono, in un primo momento, nell’ottenere un’acquiescenza iniziale e un impegno limitato, poi, in un secondo momento, nell’organizzare una concatenazione di consensi successivi che non gli sembrano imposti ma liberamente concessi. Questi impegni sono puntuali: pratiche cultuali, partecipazione a diverse attività, donazione di soldi o di ore di lavoro per il bene della comunità, esercizi fisici dolorosi, digiuni, ecc. Approfittando delle perturbazioni psichiche che l’adolescente può transitoriamente conoscere e approfittando dei suoi stravolgimenti psicologici, la dinamica del gruppo settario conduce anzitutto il futuro adepto a “dimenticare” i conflitti che ha vissuto, a entrare in un universo nuovo e accogliente, senza obblighi apparenti, e a beneficiare del sostegno dei suoi compagni. Le acquisizioni e lo sviluppo personale proposti non sembrano presentare dei rischi. Eppure, l’adepto deve fare tabula rasa della sua vita anteriore, rompere i legami che lo univano al suo passato tanto sul piano culturale e sociale che su quello emotivo. L’arruolamento presuppone una destabilizzazione psicologica del soggetto, un periodo di oscillazione in cui i suoi punti di riferimento passati sono rimessi in discussione, in cui deve disapprendere e accettare di essere destabilizzato per potersi ricostruire e compiere nuove acquisizioni essenziali. L’alternanza di fatica e frustrazione legate ad esercizi stancanti e la soddisfazione nel riuscire e nell’oltrepassarsi sono alla base del processo. L’inquadramento del giovane da parte degli adepti veterani tende a “sostenerlo” e a sorvegliarlo affinché non devii dal cammino e cerchi di compiere la propria iniziazione. L’influenza settaria, caratterizzata dalla fedeltà dell’adepto, si fonda generalmente su argomenti di ordine etico, che esigono un’obbedienza senza riserve e una lealtà immancabile nei confronti della comunità. A proposito delle credenze si pretende una fede unanime, che scoraggi la contestazione di certezze comuni al gruppo nel suo insieme. Il “training” settario comprende la dominazione del guru, la ripetizione quotidiana delle regole della comunità con l’intenzione di costruire certezze perentorie e di normalizzare comportamenti più o meno strani. Diversi meccanismi permettono di riuscirci: la generalizzazione, che consente di dedurre regole universali dall’osservazione di un fatto isolato, la sele70

zione arbitraria, che considera i soli fatti favorevoli alle credenze della setta, la massimizzazione o la minimizzazione di un evento in base alla sua adeguatezza agli obiettivi settari, l’inferenza arbitraria, che permette di giungere a conclusioni erronee a partire da un dato qualsiasi, il ragionamento dicotomico associato a un pensiero manicheo e la personalizzazione, che consiste nell’attribuirsi la responsabilità di avvenimenti indipendenti da sé. Il gruppo settario si basa anche sulla ribellione frequente durante l’adolescenza, e vuole, in qualche modo, presentarsi come una via di liberazione. In questo senso, si può, ad un primo approccio, assimilare l’influenza settaria ad alcune forme di psicoterapia, che suppongono, allo stesso modo, un impegno volontario del soggetto, ma hanno, invece, come obiettivo autentico, il trattamento delle sofferenze e soprattutto, contrariamente alle sette, l’indipendenza del soggetto dal terapeuta e non la sua dipendenza da un guru. Si può, per concludere, con Joly (2002), introdurre la nozione di “droga mentale” per caratterizzare le sette. I reclutatori sono assimilati a spacciatori. Come loro, essi sanno creare una dipendenza sottile e insidiosa all’insaputa della recluta. Inoltre, come fosse una droga mentale, la setta consente al giovane di sfuggire alla realtà esteriore e gli procura un senso di benessere, offrendo risposte rassicuranti alle sue domande esistenziali. C’è allora uno scivolamento insidioso del soggetto verso l’assoggettamento e la dipendenza. Come per la droga, l’aspetto traumatico della dipendenza avviene gradualmente, senza violenze apparenti, ma piccoli traumi ripetuti conducono comunque il futuro adepto ad un’irrimediabile distruzione della sua personalità. Come i tossicomani, l’adepto diviene dipendente, apparentemente di sua volontà e spesso anche con piacere.

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Capitolo secondo

La scuola è come la bicicletta

Violenze scolastiche, assenteismo, descolarizzazione, malessere fra i docenti… il tema mantiene tutta la sua attualità dai primi studi effettuati da Jean-Michel Léon, agli inizi degli anni’80, o dai lavori iniziati con la gara d’appalto indetta dal Ministero della Pubblica Istruzione nel 1994. Ben lungi dall’attenuarsi, il fenomeno sembra accrescersi sia per il numero dei ragazzi sia per quello degli istituti coinvolti, fenomeno che preoccupa famiglie ed insegnanti. È così che un recente sondaggio realizzato per l’emittente radiofonica RTL dall’agenzia di sondaggi Harris Interactive1 ci fa sapere che l’aumento della violenza scolastica preoccupa vivamente quasi tutti i francesi, a prescindere dalla loro condizione: nove persone su dieci pensano che la violenza sia aumentata nel corso dell’ultimo decennio, il 52% di essi pensa anche che sia accresciuta fortemente. I genitori di bambini che frequentano le scuole sono sempre più preoccupati, le donne (92%) più degli uomini (86%), e le persone di categorie sociali in difficoltà (92%) – spesso più esposte al problema della violenza – lo sono più dei benestanti (88%), e in provincia (91%) più che a Parigi (86%). In una lista di misure proposte per affrontare il problema, i francesi votano a stragrande maggioranza il rafforzamento di misure di sorveglianza nelle scuole (91%), accordando anche un ruolo importante al controllo operato dagli insegnanti (83%). La maggioranza di questi auspica sistemi di sicurezza più efficienti, come accessi elettronici all’entrata degli istituti 1 Sondaggio realizzato on-line dall’agenzia Harris Interactive, su richiesta di RTL, il 15 e 16 febbraio 2010 su un campione di circa 1000 persone rappresentativo della popolazione francese di almeno 15 anni di età – sistema di percentuali e bilanciamento applicati alle variabili sesso, età, categoria socio-professionale dell’intervistato e grandezza dell’abitato di residenza.

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(69%) e la presenza di poliziotti nei pressi delle scuole (75%). La presenza dei poliziotti all’interno degli istituti è invece rifiutata dal 70% della popolazione. Le osservazioni e le inquietudini sono condivise da tutti, a prescindere dall’orientamento politico, ma la divisione sinistra/destra è quanto mai netta se si osserva la scelta, optata da persone di sinistra, di un aumento del personale scolastico, e più favore per l’aumento di controlli di polizia e di sistemi di sicurezza, mostrato da persone di destra. È vero che le circostanze che favoriscono il passaggio all’atto sono molteplici, poiché la democratizzazione dell’educazione avviata nel 1959, lodevole sul piano dei principi, ha avuto l’effetto perverso di portare una massificazione dell’insegnamento, senza tener conto delle differenze individuali. La creazione di istituti di grande capienza, che raggruppano in condizioni difficili numerosi giovani di ceti disagiati, ha creato situazioni che sono divenute esplosive nel momento in cui è sopraggiunta la recessione economica e ha dato davvero poche possibilità ai giovani più sfavoriti, che arrivavano alle scuole medie senza aver saputo o potuto approfittare dell’istruzione elementare. Così, alcuni giovani entrano in prima media senza saper leggere, scrivere o far di conto correttamente. Si annoiano al solo pensiero di lunghi anni in classe, che non corrispondono né alle loro esigenze né a quelle della loro famiglia. Bloccati dal fallimento scolastico, a scuola non trovano nessun mezzo per valorizzarsi e devono cercare altre risorse per alimentare la propria autostima. In fondo, la scuola, è un po’ come la bicicletta… se non si pedala, si perde l’equilibrio! E quando si perde l’equilibrio, si cade… Gli allievi, i loro genitori, ma anche gli insegnanti e i responsabili politici si preoccupano da più di 30 anni di questo aumento della violenza scolastica, divenuta un vero tema sociale nel corso degli anni ’90, favorita dallo slancio dei movimenti studenteschi, dalla disperazione dei giovani dei quartieri difficili, dal bisogno sociale di sicurezza e… dall’interesse dimostrato dai media. Non è tuttavia l’unico argomento di inquietudine che la scuola ispira. Tra i comportamenti adottati dagli studenti delle scuole medie e superiori, anche l’assenteismo è allarmante. Ritirati, descolarizzati, assenteisti, persi di vista…, le definizioni che designano questi giovani e le loro condotte eterogenee, che ricoprono realtà diverse, sono numerose: stillicidio di assenze, assenteismo persistente, rotture comportamentali e cognitive, diversità che rinviano alla singolarità delle situazioni individuali. Inciviltà e violenze, assenteismo, descolarizzazione… ci danno l’impressione che 74

invece di gioire per questo formidabile vantaggio che è il diritto all’istruzione per tutti, numerosi giovani abbiano più voglia di “brontolare” in classe che di andare a scuola, o che preferiscano piuttosto andarci per protestare e opporsi! Questo diritto fondamentale all’educazione, questa occasione di ascesa sociale istituita nel 1882, sembra quasi divenuta per numerosi giovani un obbligo ributtante di cui vorrebbero sbarazzarsi al più presto e con tutti i mezzi possibili. Obbligo il cui non rispetto costituisce, in teoria, un’infrazione, un delitto suscettibile di sanzioni, poiché la legge del 31 marzo 2006 per le pari opportunità prevede la creazione di un contratto di responsabilità genitoriale e la facoltà di sospendere parzialmente o del tutto gli assegni familiari per il bambino nel caso di una mancanza di quest’ultimo all’obbligo della frequenza scolastica2.

Brontolare a scuola Poiché la scuola è vissuta come un luogo in cui devono aderire a una serie di obblighi successivi, dove tutto è deciso per loro, alcuni giovani rifiutano la situazione nel suo insieme e manifestano il loro rifiuto attraverso condotte di ritiro – fantasticherie, passività, mancanza di impegno – o di agitazione – aggressività, sfoghi, rivendicazioni varie. Poiché non si riconoscono più in quanto individui all’interno del proprio istituto, poiché vi provano confusamente un senso di minaccia, un pericolo, scattano dei meccanismi di difesa che vanno dalla sottomissione alla fuga, all’aggressione, alla violenza. Ne risulta un clima che destabilizza la comunità scolastica. Alcuni insegnanti sono minacciati dagli allievi e dai loro genitori; nelle scuole ci sono anche il racket, la vendita e il consumo di droghe, le aggressioni a sfondo sessuale, le violenze. Il furto di beni e materiali scolastici è all’ordine del giorno. Il problema è serio, perché, da una parte, questi comportamenti colpiscono gravemente gli allievi e sempre di più gli insegnanti e, dall’altra, possono preludere ad un difficoltoso inserimento sociale nell’età adulta. Certamente, l’impressione che se ne ha è esagerata, amplificata dai media, ma il fenomeno può, a giusto titolo, 2 In Gran Bretagna, la politica verso i genitori giudicati responsabili dell’assenteismo dei figli è nettamente più severa che in Francia: fra il 2005 e il 2007, 133 genitori sono finiti in manette per questa ragione, e, nel 2008, sono state distribuite più di 8.000 multe alle famiglie per motivi inerenti alla frequenza scolastica.

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preoccupare, poiché comporta un duplice rischio: quello rappresentato dalla diffusione della violenza nella nostra società, ma anche l’altro, cioè quello di privilegiare abusivamente la repressione di quella violenza in seguito alla sopravvalutazione della sua ampiezza. Bisogna anche sapere che i problemi posti sono percepiti in modo differente dalle differenti categorie di persone che vi si confrontano. Come nota Debarbieux, la violenza delle parole è minimizzata dagli adolescenti, mentre è sopravvalutata dagli insegnanti e gli uomini e le donne percepiscono in modo diverso i bisticci nel cortile durante la ricreazione; si tratta di zuffe di socializzazione fra “piccoli uomini” che costruiscono la loro differenza sessuale per gli uomini, danni gravi al bambino, secondo le donne. Inoltre, alcuni giochi con cui si divertono gli adolescenti non hanno nulla di “ludico” agli occhi degli adulti. Tutto è questione di interpretazione… Anche le inciviltà non sono considerate da tutti allo stesso modo: dalla volgarità del linguaggio dei ragazzi ai loro atti vandalici, allo squat degli scantinati e degli androni delle case, alla mancanza di rispetto per i beni e per le istituzioni, queste inciviltà minacciano l’ordine pubblico per alcuni, trasgrediscono, per altri, i codici della vita nella società, producendo scalpore, sporcizia e disordine, ma sono solo, per altri ancora, manifestazioni di una gioventù che bisogna tollerare, anche se simili fenomeni provocano spesso dei danni. Quel che importa è la sensazione che se ne ha e che dipende dalla tipologia sociale degli istituti e dei quartieri in cui tali fenomeni si producono, che crescono in proporzione all’esclusione da cui è affetto l’ambiente d’origine del ragazzo. Nel momento in cui la sensazione di essere esclusi li travolge, alcuni giovani, poiché non vedono e non vogliono vedere delle prospettive d’integrazione, trovano una legittimità nel lavoro proposto dalla scuola solo in quanto è imposto dagli insegnanti. Ora, questi ultimi sono spesso i primi ad essere incerti, in preda a molteplici interrogativi sul proprio ruolo e sul proprio status, il che non è certamente utile a rassicurare i giovani. Il rifiuto dell’educazione scolastica è allora legato in gran parte al senso di inutilità di una scolarità che non ha nessun significato ai loro occhi. Insomma, perché non brontolare a scuola, se si è costretti ad andarvi?

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Inciviltà e violenze Oggi, all’interno delle scuole, si osservano frequentemente inciviltà e violenze. Laddove, in passato, un allievo scontento si sfogava ornando di graffiti i banchi della classe, ora sfida lo sguardo del professore, lo insulta, lo minaccia e, nei casi più gravi, lo colpisce: si sono così contati, tra 2004 e 2005, 80.000 atti di violenza nelle scuole medie e nelle scuole superiori pubbliche, a partire dall’indagine del SIGNA3, in base ai dati raccolti nel 70% degli istituti. Poiché un gran numero di istituti ha rifiutato di partecipare a questa indagine nel 2005-2006, alcuni dati statistici non hanno potuto essere stabiliti. Il SIGNA era in effetti controverso nel quadro della Pubblica Istruzione. Recensendo atti che rispondevano almeno ad uno di tre criteri (avere una conseguenza penale, essere stato oggetto di una segnalazione all’autorità competente o aver avuto una ripercussione importante nella comunità scolastica) l’indagine risultava falsata, perché l’ultimo criterio poteva essere variamente interpretato dai responsabili degli istituti. Inoltre, gli atti dichiarati sul SIGNA erano raccolti senza alcuna restrizione e i paragoni fra gli istituti, fondati unicamente sul numero di atti segnalati, non prendevano in considerazione la loro differente gravità, tanto più che essi potevano aver ricevuto una valutazione particolare in base all’istituto. Dal SIGNA al SIVIS Nel settembre del 2007, è stato attivato un nuovo sistema, il SIVIS4, per rimpiazzare il vecchio dispositivo, in funzione dal 2001. Questo sistema comportava tre importanti evoluzioni: • una valutazione più omogenea degli atti di violenza, incentrata sugli atti più gravi, coerentemente con il Memento sui comportamenti da tenere in caso di infrazioni in ambiente scolastico, diffuso nel settembre del 2006, in cui la nomenclatura degli atti era basata ormai su 14 voci invece che sulle 26 del SIGNA; • l’aggiunta di un questionario trimestrale che valuta il clima degli 3 4

Sistema informatico di raccolta degli atti di violenza. Sistema d’informazione e di vigilanza sulla sicurezza scolastica.

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istituti e la sua evoluzione, destinato a permettere la contestualizzazione del numero lordo di incidenti recensiti; • un’indagine realizzata su un campione di un migliaio di scuole medie e superiori e di scuole elementari, rappresentativo a livello nazionale (Francia metropolitana e Domini francesi d’oltremare) e non un’indagine esaustiva come con il SIGNA. In questo dispositivo, per i fatti che implicavano solo gli allievi, erano registrati solamente gli incidenti che presentavano una gravità sufficiente quanto alle circostanze e alle conseguenze dell’atto, in particolare il fatto che si presentasse almeno una delle condizioni seguenti: motivazione a carattere discriminatorio, uso di un’arma, uso della costrizione o di minacce, un atto cui fossero seguite cure ospedaliere o che avesse causato un danno economico importante, un atto che fosse giunto a conoscenza delle forze dell’ordine o della giustizia, che avesse dato luogo a una denuncia o a un provvedimento disciplinare. Erano inoltre presi in considerazione tutti gli incidenti che implicavano il personale scolastico. D’altra parte, effettuare un’indagine esaustiva tramite il SIGNA portava a una scappatoia legata alla sottostima dei fatti da parte di alcune persone interpellate, preoccupate dell’immagine del loro istituto. Nel caso del SIVIS, le risposte fornite dagli istituti erano protette dal segreto e potevano essere utilizzate solo per fini statistici, mentre i dati, totalmente anonimi, non potevano permettere dei confronti fra gli istituti. E questo è stato certamente uno dei principali obiettivi della scelta di un nuovo sistema. Il SIGNA, pur altamente protetto, era stato, infatti, “visitato” dai giornalisti del “Point” che dichiaravano, nel gennaio del 2007, di aver ottenuto “le cifre segrete della violenza di tutte le scuole medie e delle superiori pubbliche” e annunciavano la pubblicazione della “lista degli istituti più pericolosi” di Francia! Il punto della situazione nel 2007-2008 L’utilizzo di un nuovo dispositivo rende, evidentemente, quasi impossibile il paragone fra i dati anteriori e i dati più recenti, poiché le condizioni di raccolta dei dati sono differenti. A prescindere da ciò, è di notevole interesse considerare gli ultimi dati comunicati dal Ministero e riguardanti l’anno scolastico 2007-2008. Circa 4.500.000 studenti hanno adempiuto all’obbligo scolastico in uno dei 7.800 istituti pubblici (scuole medie e 78

superiori) della Francia metropolitana e dei Domini francesi d’oltremare. Le scuole medie, che rappresentano il 60% di questi istituti, hanno accolto il 56% degli allievi, i licei e gli istituti tecnici (LEGT5), cioè il 20% degli istituti, ne hanno accolto il 34%, e gli istituti professionali (LP6) – il 13% degli istituti – ne hanno accolto il 10%. La violenza riguarda questi istituti in modo differente. Se essi hanno, nell’insieme, dichiarato in media 11,6 incidenti gravi ogni 1.000 allievi, questa percentuale è solo del 4‰ nei LEGT, tocca il 13,1‰ nelle scuole medie e il 15,1‰ negli LP, mentre 4 istituti su 10 dichiarano di non aver subito incidenti nell’arco di un trimestre. Le violenze sono diversificate. Le scuole medie e gli LP sono relativamente più interessati da problemi di aggressioni verbali, mentre gli LEGT registrano più frequentemente danni a strutture e problemi di sicurezza. I danni alle persone costituiscono l’80% dei casi gravi di violenza recensita. Il 40% di essi sono aggressioni verbali di allievi contro il personale scolastico, mentre più del 33% dei casi di violenza è fra allievi, principalmente aggressioni fisiche; l’85% degli incidenti ha per autori degli allievi, il 15% di essi è commesso da persone esterne all’istituto, mentre meno dell’1% da un membro del personale. In media, il numero degli atti constatati maschera forti diversità all’interno di una stessa categoria di istituti. Nessun incidente grave è stato constatato in un trimestre, fra il dicembre del 2007 e il febbraio del 2008, nel 37% delle scuole medie, nel 33% degli LP e nel 44% dei LEGT, mentre se ne sono avuti almeno 4, rispettivamente, nel 19%, nel 18% e nel 9% di essi. I fatti gravi sono particolarmente concentrati (14%) in un piccolo numero di importanti istituti della Zona di Educazione Prioritaria (ZEP7) o in istituti “SEGPA” – che offrono cioè una formazione in sezioni di insegnamento generale professionale adattato ad allievi che presentano difficoltà scolastiche gravi e di lunga durata – e che accolgono solo il 6% degli studenti delle scuole medie provenienti da istituti pubblici. Gli istituti “sfavoriti” sembrano dunque più esposti degli altri a questi fenomeni di violenza. Più del 25% di essi, tuttavia, non ha subito nessun incidente grave.

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Lycees d’enseignement général et technologique, N.d.T. Lycees professionnels, N.d.T. 7 Le Zone di Educazione Prioritaria (suddivisa a sua volta in 3 fasce di “priorità” decrescente) sono quelle in cui gli istituti scolastici sono dotati di più mezzi e di maggior autonomia per fronteggiare situazioni locali particolarmente complicate, N.d.T. 6

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Condotte che disturbano Questa violenza, come sottolinea Debarbieux, deriva dall’esclusione e arreca danni all’ordine stabilito e ai valori comunemente ammessi all’interno della società. Socialmente determinata, essa è correlata tanto a variabili strutturali, come la forma o la grandezza degli istituti, quanto alle caratteristiche della popolazione che li frequenta. Essa può essere definita in vari modi, ad esempio assimilandola a delitti o a crimini, il che consentirebbe dunque di escludere un buon numero di condotte che turbano la vita nelle scuole. Una tale limitazione è tuttavia discutibile, perché bisogna considerare anche le forme di inciviltà descritte dal personale e dagli allievi, inciviltà che permettono ad alcuni giovani di esprimere la propria differenza rifiutando le regole imposte. Tali inciviltà sono molteplici e possono essere verbali (come le conversazioni in classe per disturbare le lezioni, le canzonature o gli insulti) o fisiche (spintoni, danni all’istituto e atti aggressivi). Lo scopo di tali atteggiamenti non è tanto quello di infastidire l’insegnante, ma quello di divertirsi e di distinguersi dagli altri facendo baccano. Queste forme di inciviltà fanno parte di un clima di tensione e di indisciplina presente negli istituti e non sono gli atti di violenza penalmente perseguibili a porre più problemi, ma proprio queste inciviltà ripetute che minano e destabilizzano il personale educativo durante la giornata lavorativa. Come nota Debarbieux, queste condotte non sono meno gravi delle violenze, perché esse sono il segnale di una rottura profonda nella civiltà scolastica, di una rottura fra “loro” e “noi”, fra il mondo dei professori e quello degli allievi. Marcando una trasgressione dell’ordine pubblico, esse manifestano una perdita inaccettabile di punti di riferimento che permettono di orientarsi all’interno della società. La scuola, come la società, conosce un processo di desacralizzazione. Non esistono più divieti impliciti e l’ascesa dell’individualismo cambia il rapporto con gli altri, in generale, e il rapporto maestro-allievo in particolare. L’insegnante trova delle difficoltà nel mettere in atto questa asimmetria inerente alla sua posizione generazionale e al suo ruolo di trasmettitore di saperi. Alcuni giovani, del resto, pensano che l’insegnamento sia illegittimo: questo pensiero non è altro che un riflesso appena deformato di alcune domande degli adulti, i quali, a loro volta, si chiedono se essi abbiano o no il diritto di “formare” i giovani, correndo il rischio di “deformarli”. 80

Le violenze sono diversificate, possono essere aggressioni esterne alle scuole che si infiltrano al loro interno, possono essere violenze scolastiche e comportamenti antiscolastici. Le prime consistono in regolamenti di conti tra bande cittadine o nel racket, che approfitta delle possibilità offerte dalle scuole. I giovani allora non fanno altro che trasportare i loro comportamenti abituali all’interno della scuola. La seconda forma di violenza riguarda quei giovani che non vedono l’utilità di rimanere a scuola e che sono incapaci di interiorizzare l’ordine scolastico e di dare un senso al lavoro che vi svolgono, marcando il proprio rifiuto del sistema attraverso manifestazioni anomiche. La terza è diretta contro gli istituti e gli adulti che sono loro associati, compiuta da giovani che vivono la propria esperienza come un fallimento, che trovano nella violenza l’unico modo per affermarsi e valorizzarsi. Quale che sia la forma della violenza, poiché si colloca in un contesto globale di malessere e poiché la scuola è permeabile alle tensioni che dilaniano la società, queste condotte sono la risposta dei giovani a condizioni di vita intollerabili e che conducono all’esclusione: infatti molti allievi si rivoltano contro l’insegnante e contro la scuola perché non vi trovano altro che umiliazione, insuccesso e rifiuto. Queste forme di inciviltà e queste violenze producono nel personale docente uno spiccato sentimento di incertezza e un profondo disagio, anche se i fatti incriminati sono di importanza diseguale e riguardano più spesso i rapporti fra i giovani. Le offese, l’agitazione quotidiana degli allievi, il fatto che essi non ascoltano, che non “seguono”, la loro mancanza di rispetto, le loro trasgressioni dei codici sociali disorganizzano il mondo scolastico. Non è certo una “guerra civile”, dice Debarbieux, ma è un “conflitto di civiltà”. L’esistenza di uno “zoccolo duro” Le violenze occasionali sono diffuse. Secondo lo studio condotto da Choquet e Ledoux (1994) su 7.611 studenti delle scuole medie, il 20% degli adolescenti – il 25% nelle periferie e anche il 33%, in caso di sesso maschile – sarebbe violento. Nelle classi ci sarebbe un gruppo di allievi, più o meno importante, che sarebbe all’origine delle violenze riscontrate quotidianamente. Si tratta di quello “zoccolo duro” che Léon segnalava già nel 1983, quando riprendeva un’espressione utilizzata dagli insegnanti delle scuole superiori. Dei fenomeni legati al gruppo tenderebbero ad accrescere il suo peso e questi allievi andrebbero a costituire il “detona81

tore” in grado di innescare delle reazioni a catena in grado di incendiare un’intera scuola. La natura di questo zoccolo duro, affrontato attraverso l’esperienza degli insegnanti, ha permesso di portare alla luce un inventario dei comportamenti che perturbano la vita scolastica. Alcuni fra essi sembrano causare disagi particolarmente gravi al personale, che si tratti di azioni poco frequenti ma di indubbia gravità, o di condotte meno gravi ma irritanti per la loro ripetitività. In un’indagine condotta sull’Île-deFrance nel 2003, si era osservato che due insegnati su tre si dichiaravano particolarmente sconvolti tanto da condotte che tendevano a interrompere i loro corsi – abbandonare la classe senza permesso, rifiutare dichiaratamente di partecipare all’attività, fare rumore, ridere con uno o più compagni –, quanto da condotte di opposizione – non accettare rimproveri e critiche – e di violenza verbale o fisica – insultare un professore, colpirlo dopo un rimprovero, fare a pugni con i compagni in classe. Altri comportamenti, del resto, sono considerati dannosi solo per un insegnante su tre. Si tratta, al contrario delle precedenti, delle condotte passive di chi, ad esempio, guarda fuori dalla finestra, guarda la porta o “altrove”, non segue, non guarda il professore mentre si rivolge alla classe, esprime la propria noia attraverso sbadigli e sospiri, o infine dorme in classe. Altri atteggiamenti sono denunciati solo da un insegnante su dieci. Si tratta di comportamenti frequenti ma poco gravi, come le canzonature o i ritardi, o di condotte gravi ma rare, come fumare durante le lezioni o portare a scuola un’arma bianca. Il confine fra inciviltà e violenza è spesso labile. Come nota Bernard Charlot in un’intervista rilasciata ad «Alternative Santé» nell’aprile del 2000, alcuni incidenti possono prodursi a causa delle difficoltà relazionali fra gli allievi o fra allievi e insegnanti, partendo da un mini-conflitto: i protagonisti, semplicemente, cercano di scongiurare la paura reciproca facendo mostra di aggressività. Gli attori del conflitto si innervosiscono e questo può sfociare in violenza verbale o fisica. È l’esito fatale, quando non si tratta più di un confronto fra un insegnante e un allievo ma di due “Io” che si confrontano in una situazione in cui le emozioni non sono più regolate, in cui nessuno trova il mezzo di salvare la faccia. Se ne ritrova un bell’esempio in Entre les murs, film di Laurent Cantet, Palma d’oro a Cannes nel 2008.

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Mettere i voti alla vita? Tali comportamenti producono un disagio sia all’interno della società nel suo insieme sia nel personale della Pubblica Istruzione. Come si può ovviare a questa situazione? Come reintrodurre il senso civico e la “morale repubblicana” nelle scuole? Nel rispondere a questa domanda, Jack Lang, all’epoca Ministro della Pubblica Istruzione, affermava nel 2001, durante la prima Conferenza mondiale sulla violenza scolastica8, che bisognava ristabilire l’autorità nelle scuole. Se negli anni ’70 si era costruito un ideale educativo, dissociandolo dall’autoritarismo che l’aveva per tanto tempo impregnato, non si doveva, d’altra parte, trascurare l’esigenza del rispetto reciproco e di fiducia, ma anche di autorità. Non bisognava confondere quest’ultima con l’autoritarismo, confusione che poteva giustamente, se non provocare, almeno permettere l’irruzione della violenza negli istituti. La scuola, come del resto l’insieme della società, diceva, aveva perduto senza volerlo questa nozione positiva di autorità, parola che sembrava essere sparita dal lessico pedagogico, mentre ad alcuni sembrava peggiorativa, Ora, l’autorità è necessaria, poiché fissa dei limiti. Nessuna società democratica può reggersi senza di essa. E Jack Lang concludeva che c’era urgenza di intraprendere la ricostruzione dell’autorità dell’istituzione scolastica e di coloro che vi lavoravano. Secondo la stessa logica, anche se l’orientamento politico dei governi successivi è stato differente, è nata l’idea di accordare un’importanza crescente alla nozione di “vita scolastica”, importanza che ha potuto concretizzarsi attraverso l’imposizione di un “voto di condotta” agli allievi. Una misura legale… Il voto in condotta è una misura prevista dalla Legge d’orientamento e di programma per il futuro della scuola, che fa dell’educazione alla responsabilità un punto cruciale della formazione, avente per concetti chiave l’educazione al rispetto e l’apprendimento dei valori della Repubblica. Attiva dal settembre del 2006, essa riguarda gli studenti delle scuole medie, e il suo obiettivo è di fornire ai giovani un inquadramento comportamentale che, sottolineando il legame fra vita scolastica e vita sociale, permetta loro di integrarsi in società e di divenire adulti responsabili. 8

Violences à l’école et politique pubblique, Paris, UNESCO (2001).

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Il regolamento della Pubblica Istruzione dispone che: «la Nazione stabilisce come missione primaria alla Scuola di far condividere agli allievi i valori della Repubblica», valori trasmessi da tutto il personale scolastico e per tutta la durata della vita scolastica e parascolastica. Nel quadro di questa missione è stato stabilito un “voto di condotta”, i cui elementi costitutivi e le cui modalità d’attribuzione sono così definiti: L’apprendimento della civiltà e l’adozione di comportamenti civici e responsabili costituiscono due punti centrali per il sistema educativo. Il voto di condotta si inserisce in questo procedimento educativo che riguarda la durata della scuola secondaria di primo grado. Esso diviene una componente integrale nella valutazione degli allievi, finalizzata all’ottenimento del diploma di licenza media. Esso contribuisce, fornendo dei limiti agli allievi, a creare un legame fra la vita scolastica e la vita sociale. Esso è destinata a valorizzare le attitudini positive nei confronti della scuola e degli altri. Come tutti i voti che sanzionano il successo di un apprendimento, esso valuta così i progressi compiuti dall’allievo durante l’anno scolastico (Circolare n. 2006-105 del 23/06/20069).

Questo voto è attribuito agli allievi delle scuole medie, oltre a quelli degli LP, e si applica anche nelle scuole private. La sua elaborazione è fondata su quattro punti: l’assiduità, il rispetto delle disposizioni del regolamento interno, l’ottenimento dell’attestato scolastico del corso di Sicurezza stradale e dell’attestato di Formazione per il primo soccorso e la partecipazione alla vita dell’istituto e/o alle attività organizzate o riconosciute dall’istituto, che valorizzano l’impegno, l’autonomia ed incoraggiano lo spirito di solidarietà e il civismo. Possono essere distinti due tipi di impegni: la partecipazione alla vita dell’istituto – esercizio di funzioni rappresentative nei differenti ambiti – e la partecipazione alle attività organizzate – aula socio-educativa, associazione sportiva o qualsiasi altra associazione con sede all’interno dell’istituto, coinvolgimento in interventi di “sanità-prevenzione”, partecipazione attiva ad azioni educative per la sicurezza stradale, tutorato verso allievi più giovani (dove riconosciuto dall’istituto), attività di assistenza agli anziani o ai portatori di handicap, attività contro le discriminazioni, di solidarietà internaziona9

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«Bollettino ufficiale della Pubblica Istruzione», n. 26, 29/06/2006.

le, attività in favore di uno sviluppo sostenibile… Queste attività possono riguardare progetti la cui iniziativa spetta agli allievi o all’istituto. Per determinare questo voto “alla vita scolastica”, il preside raccoglie le valutazioni del coordinatore di corso (che ha precedentemente consultato i suoi colleghi) e l’opinione del consigliere principale dell’educazione (CPE10). Costui fissa in seguito il voto di condotta e lo comunica al consiglio di classe. Riportato nella pagella trimestrale dell’allievo, esso fa media con gli altri voti per l’ottenimento del diploma. …ma controversa… Questo voto non è stato accolto all’unanimità dal personale educativo. Esso è contestato dai sindacati degli insegnanti e da alcune associazioni di genitori degli allievi che temono le devianze contenute nell’idea stessa di un “voto” per valutare un comportamento. Alcuni si interrogano anche sulla sua finalità. A che serve? Ad orientare dei comportamenti? A sanzionare degli atti devianti? Secondo loro, questo è confondere le sanzioni con l’educazione, il rispetto delle regole e l’impegno civico. Mettono in discussione il valore di un comportamento assunto al solo scopo di guadagnare dei punti, attraverso cui si rischia di generare delle strategie da parte di alcuni allievi, di provocare, insomma, una “cittadinanza di superficie”. Non si capisce se un voto negativo assegnato a degli allievi in difficoltà li dissuada davvero dall’agire, se questo voto possa costituire davvero una “minaccia” efficace. Sindacati e associazioni ostili al provvedimento temono, infine, che i ragazzi rispettino la legge solo perché la temono, senza averla integrata. Per i detrattori di questo voto, la sua applicazione rischia di non permettere una reale valutazione formativa che favorisca degli apprendimenti. Inoltre, sembra ingiusto calcolare, nella valutazione finale, le difficoltà incontrate dall’allievo. Aggiungere ai suoi risultati dei punteggi che prendono in considerazione il suo merito sembrerebbe creare una discriminazione positiva, ma porta anche a penalizzare quelli che hanno avuto dei problemi. Abbassare la media ad allievi le cui difficoltà si sono tradotte attraverso un comportamento dannoso ha il sapore, dicono loro, della “doppia punizione”: ad alcuni sembrerebbe preferibile una specie di permesso a punti, con l’allievo che inizierebbe l’anno con un capitale iniziale, diminuito o aumentato in base al suo comportamento. 10

Il responsabile per gli aspetti disciplinari delle scuole francesi.

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Se non si pedala… si perde l’equilibrio! Fenomeno crescente, multiforme e poco noto, l’assenteismo riguarda dal 5 al 10% degli studenti delle scuole medie e superiori francesi. Esso mescola agli aspetti sociali le mancanze del sistema scolastico, il ruolo giocato dalle famiglie e la psicologia degli adolescenti. Alla complessità del fenomeno, non può che rispondere un approccio diversificato, preventivo, educativo, pedagogico e sanitario. Queste pratiche diversificate, queste traiettorie individuali sfuggono a ogni determinismo e non possono essere ricondotte a tipologie, ma devono essere affrontate attraverso le interazioni fra ciò che si costruisce nello spazio e nel tempo scolastico e ciò che si gioca nello spazio familiare e amicale, per poter evidenziare i momenti e le logiche fondamentali nel processo di abbandono scolastico. L’aumento dell’assenteismo è dovuto a cause diverse. Huerre distingue così gli allievi “che fanno zapping”, che hanno cioè un comportamento da consumatore, da quelli che hanno una fobia scolastica e che mollano la scuola senza mezzi termini. Fra l’adolescente che si assenta occasionalmente e colui che non trova più la motivazione necessaria per andare a scuola, o che è in preda a una fobia scolastica, l’assenteismo può sembrare, secondo i casi, la trasgressione normale di un adolescente o un sintomo della sua patologia. Impossibile da ignorare, esso preoccupa ormai sia i genitori che gli educatori. Non deve essere né trascurato né banalizzato. Non deve neanche diventare oggetto di catastrofismo né far dimenticare che gli assenteisti sono il riflesso della nostra società. Il numero dei giovani che escono senza una qualifica dal sistema scolastico, di quelli che mollano la scuola, è notevole, tanto più che il fenomeno si estende oggi a un nuovo pubblico. Le situazioni di descolarizzazione e di interruzione scolastica sono eterogenee e fortemente differenziate. Obblighi sociali e rappresentazioni collettive vi hanno certo la loro parte, ma interagiscono con i problemi del percorso scolastico, poiché la maggior parte di quelli che abbandonano gli studi hanno conosciuto difficoltà scolastiche precoci. La loro disaffezione verso la scuola è condivisa anche da studenti che rimangono nel sistema ed è chiaro che una congiunzione di fattori contestuali ed evenemenziali è necessaria perché si inneschi il processo di rottura. Ogni anno, 60.000 giovani abbandonano così il percorso della Pubblica Istruzione senza una qualifica né un diploma. Mollano tutto dall’oggi al domani. Depressione, fobie scolastiche, 86

fallimenti a ripetizione, problemi familiari o sentimentali, le cause sono molteplici e tutti gli ambiti sociali sono interessati allo stesso modo. Dall’assenza cronica alla descolarizzazione In un’opera molto recente11, pubblicata con Marie-Christine Mauren-Siméoni, Marie-France Le Heuzey, psichiatra infantile all’ospedale Robert-Debré, insiste sul fatto che l’assenteismo scolastico è un indice obiettivo del malessere provato da numerosi adolescenti. I suoi fondamenti sono molteplici, ma un fattore psico-patologico è spesso parallelo a fattori scolastici, sociali, familiari ed economici, mentre i fattori ambientali e psicologici si intrecciano e si rinforzano reciprocamente. Con il termine fobia scolastica si definiva, storicamente, il caso di quei giovani che si rifiutavano di andare a scuola per dei motivi irrazionali, manifestando fortissimi segni d’angoscia se si tentava di forzarli. Oggi, psicologi e psichiatri preferiscono utilizzare il termine più vasto di rifiuto scolastico, che prende in considerazione l’insieme delle situazioni di sofferenza riguardanti la situazione scolastica. Bisogna, precisa lei, distinguere gli adolescenti che soffrono di problemi emotivi – disturbi ansiosi e/o depressivi – da quelli che hanno disturbi del comportamento. I disturbi ansiosi sono vari: ansia da separazione, che si manifesta attraverso sintomi appariscenti, quando il bambino deve allontanarsi dalla famiglia, ma che cessano quando è autorizzato a restarsene a casa; ansia generalizzata, quando il bambino è angosciato dalla scuola a causa della sua paura degli altri, della paura di fallire o sembrare ridicolo, ma anche per situazioni vissute come pericolose, per esempio il percorso per andare a scuola; agorafobia, quando ha paura di trovarsi da solo fuori da casa, per strada, in mezzo alla folla, su un mezzo pubblico; fobia sociale, caratterizzata dalla paura del contatto con gli altri, del loro sguardo, ovvero delle loro critiche e delle loro canzonature; disturbi ossessivi compulsivi, in cui il rifiuto della scuola ha motivazioni differenti – paura della contaminazione in caso di contatto con gli altri, impossibilità di utilizzare i bagni, grande lentezza dovuta ai rituali di verifica che rendono impossibile consegnare i compiti in classe nel tempo stabilito, ecc.; depressione, di 11

Le Heuzey M.-F., Mauren-Siméoni M.-C. (2008), Fobie scolaire, Paris, Josette

Lyon.

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cui il calo del rendimento scolastico e la perdita di interesse per le attività abituali sono segnali eloquenti. Anche i disturbi del comportamento allontanano i ragazzi dalla scuola: iperattività, che provoca difficoltà di attenzione e costituisce un grave handicap, l’agitazione e l’impulsività del ragazzo, che lo rendono un elemento di disturbo mal tollerato dall’insegnante; disturbi opposizionali e disturbi della condotta in cui l’adolescente si oppone in toto alle richieste degli adulti, vive male i rimproveri e le regole, non svolge i suoi doveri, si assenta senza motivo e assume comportamenti trasgressivi fino a perdere il contatto con l’ambiente scolastico, dopo aver accumulato troppe assenze e troppe lacune. Quando l’esclusione diventa diserzione Talvolta, il fallimento e le difficoltà d’adattamento si manifestano attraverso un abbandono scolastico che fa sì che la scuola perda di vista alcuni ragazzi. I casi di descolarizzazione, sempre più spesso evocati, non possono essere ridotti a casi specifici, perché, da qualche anno, le percentuali di abbandono degli studi prima dei 16 anni d’età conoscono una crescita notevole. Intendersi sulle parole Il linguaggio degli addetti ai lavori consacra molti termini per designare i protagonisti dell’abbandono scolastico: “quelli che hanno mollato”, cioè gli allievi che hanno abbandonato, più o meno improvvisamente, gli studi, sono anzitutto da distinguersi dagli “esclusi”, poiché l’esclusione è il risultato di una decisione dell’autorità scolastica. La designazione “persi di vista” è adoperata per gli allievi di cui l’amministrazione scolastica ha perso le tracce. Quella di “descolarizzati” si riferisce a una moltitudine di situazioni in cui l’adolescente non frequenta più il proprio istituto. Poiché propone una definizione ampia, il termine “descolarizzazione” permette di considerare diverse ipotesi riguardanti il processo che allontana dal sistema scolastico dei giovani di neanche 16 anni. È un termine generico, che raggruppa in uno stesso insieme diversi casi individuali. Bisogna tuttavia distinguere la descolarizzazione parziale da quella totale, poiché la difficoltà o l’incapacità dell’adolescente di mantenersi nello spazio sco88

lastico costituisce l’elemento centrale della definizione. Bisogna, inoltre, da un punto di vista giuridico, prendere in considerazione l’età dell’adolescente, poiché i minori con più di 16 anni di età non infrangono il Codice educativo12, mentre la descolarizzazione cronica di un ragazzo minore di 16 anni può, in certi casi e su decisione di un giudice, implicare la sua collocazione in una struttura sociale specializzata. Conviene, infine, non trascurare il caso particolare di bambini extracomunitari recentemente stabilitisi in territorio francese, in un contesto familiare o in uno stato di abbandono proprio dei minori definiti “isolati”. Questi minorenni devono scontrarsi con la barriera della lingua, e le loro difficoltà li espongono al rischio della descolarizzazione, tanto più che la loro assegnazione a un dato livello scolastico non prende in considerazione né il loro grado di acquisizione della lingua nazionale né il loro livello scolastico, ma solamente la loro età. L’utilizzo di strutture adatte e selezionate per favorire la loro integrazione scolastica non è, in realtà, ancora sufficiente e riguarda bambini dai profili troppo eterogenei per essere davvero efficace. È importante, infine, non assimilare l’assenteismo e il fallimento scolastico alla descolarizzazione: l’allievo assenteista non è condannato all’interruzione degli studi e la correlazione manifesta fra fallimento scolastico e interruzione della scolarità non deve mai essere considerato in termini di causalità. Assenteismo e abbandono scolastico L’assenteismo è vecchio quanto la scuola. Oggi, tuttavia, suscita la più viva preoccupazione, a causa della concentrazione delle assenze in alcuni istituti e indirizzi in cui raggiungono tassi regolari nell’ordine del 12-15%, ovvero, nei casi estremi, del 50%. Da un allievo all’altro, l’assenteismo si diversifica e può preannunciare, per alcuni, l’abbandono degli studi che li conduce alla descolarizzazione. Infine, le sanzioni applicate agli assenti cronici dai consigli disciplinari consistono troppo spesso nell’escluderli dall’istituto per un certo periodo, cioè a ufficializzare le loro assenze, trasformando in qualche modo l’illecito in lecito. 12 L’allievo descolarizzato di almeno 16 anni non infrange la legge sull’obbligo scolastico. Al contrario, il ragazzo minore di 16 anni che si sottrae (o è sottratto) all’obbligo scolastico, commette un’infrazione. Egli non rientra più nella definizione legale di bambinostudente e fa parte dei “ragazzi presumibilmente refrattari”: possono essere esercitati degli obblighi legali nei confronti dei suoi genitori o dei suoi tutori.

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Differenti tappe conducono i giovani ad abbandonare la scuola. Le difficoltà incontrate nell’apprendimento li spingono a rinunciare a seguire le lezioni, anche quando hanno inizialmente cercato di impegnarsi nei loro sforzi, impegno non sempre riconosciuto dai loro insegnanti, che non hanno tempo per occuparsi in modo quasi individuale degli allievi in difficoltà. L’insufficienza del suo inquadramento conduce allora l’adolescente verso la noia e il disinteresse per ciò che avviene in classe, ma anche, assai spesso, verso la contestazione e la violenza. Tanto più che esistono incomprensioni fra insegnanti e allievi a proposito di nozioni come lavoro, rispetto, fiducia o successo. In seguito al fallimento scolastico, tre processi conducono alcuni studenti ad abbandonare la scuola: • alcuni, assaliti da problematiche familiari, si autoescludono dalla scuola e la descolarizzazione si rivela per loro l’ultimo anello di un sistema con cui si chiude un percorso di sofferenze che non possono guarire; • altri vivono una situazione di fallimento scolastico, ma la loro docilità e chiusura non pongono problemi all’istituto: si escludono pur continuando a frequentare l’edificio scolastico; • altri allievi sono infine espulsi dal consiglio disciplinare. Quale che sia il processo, la descolarizzazione dipende così dall’interazione di più fattori che si possono studiare collocando il giovane al centro di un sistema costituito da un triangolo i cui vertici sarebbero la scuola, la famiglia e i pari. La scuola Alcuni allievi sono esclusi dal consiglio disciplinare perché hanno contravvenuto al regolamento interno all’istituto, spingendolo a reagire con un’espulsione. Ogni infrazione grave alle regole non conduce tuttavia all’espulsione. Questa dipende anche dal modo in cui i comportamenti e le attitudini dell’allievo sono percepiti dalla scuola. Le sue relazioni con il personale influenzano pesantemente la decisione e possono intervenire due elementi: l’evidenza della situazione dell’allievo (che fa pensare che lo si possa contenere oppure no) e la capacità relazionale con i docenti, che può aiutare a chiarire alcune situazioni. Eppure, l’istituto non deve 90

essere privo di controllo sul proprio ambiente, poiché docenti e amministrazione devono poter comunicare tra loro, ma anche con le famiglie e con le differenti strutture educative e terapeutiche del settore. Più gli scambi fra scuola e strutture sono rapidi, più la situazione dell’allievo e della sua famiglia è nota, più i provvedimenti sono adeguati ai suoi atti. Al contrario, più sono degradate le relazioni fra scuola e famiglia, più l’allievo è esposto all’esclusione. Nel momento in cui il personale educativo ha difficoltà a dare un senso ai problemi delle famiglie, ovvero alle difficoltà che devono progressivamente affrontare, il personale rischia di impegnarsi in relazioni basate sulla diffidenza e sui dubbi. La ripetizione dei passaggi all’atto è un altro fattore di esclusione, poiché mette in crisi lo sforzo di contenimento operato dai docenti. Questa capacità di contenimento è tanto più limitata quanto più i passaggi all’atto sono gravi e frequenti. Spesso, i docenti si sentono soli, messi a confronto con situazioni del tutto nuove per loro. Questa sensazione li rende fragili e può demoralizzarli se non condurli a difendersi attraverso l’espulsione. La famiglia Secondo alcuni lavori che chi scrive ha diretto nel 2003 per l’Accademia di Parigi, la maggior parte dei giovani descolarizzati era di sesso maschile, cresciuti in famiglie instabili, interessate da problemi di disoccupazione. La metà di loro era cresciuta in famiglie monoparentali. Una famiglia su tre non disponeva di uno stipendio derivante da un’attività lavorativa, la metà delle famiglie beneficiava di un solo stipendio, tre famiglie su quattro non parlavano neanche francese. Gli aiuti del sostegno scolastico erano carenti. Queste famiglie, che spesso avevano problemi di comunicazione con il personale scolastico, partecipavano raramente alla vita dell’istituto e non erano presenti né negli organismi rappresentativi né nelle associazioni dei genitori degli studenti, poiché si sentivano sole nell’affrontare i problemi dei figli. Queste famiglie vivevano di norma in abitazioni vecchie in quartieri poveri. La precarietà della residenza riguardava un allievo su due e quella della frequenza scolastica riguardava un allievo su tre. I ragazzi avevano conosciuto diverse separazioni, vivendo spesso lontano dai loro genitori a causa di un’immigrazione recente. Tre famiglie su quattro avevano vissuto una perdita la cui traccia era ancora recente. In un nucleo familiare su tre, uno dei genitori era affetto da una 91

patologia cronica. Un giovane su cinque aveva inoltre vissuto una perdita o la malattia di un parente stretto. Sulle relazioni fra genitori e figli all’interno di queste famiglie si pongono molte domande. Nel momento in cui queste famiglie comprendono i problemi dei figli, esse vi fanno fronte attraverso misure che sembrano loro fondamentali, ma che sono, in genere, eccessive. Alcuni adolescenti preferiscono d’altronde non esprimere le proprie difficoltà a casa, perché, strutturate secondo le regole della loro cultura d’origine, queste famiglie potrebbero risolvere ogni problema “rispedendoli” nel Paese d’origine. Si sa, del resto, che l’integrazione scolastica dei bambini dipende in gran parte dalle attitudini dei genitori di fronte alla scuola, attitudini che sono, esse stesse, legate all’inserimento del padre nella vita sociale, in particolare sul piano professionale. Se le famiglie manifestano indifferenza, o anche ostilità, verso la scolarità dei loro figli, se esse desiderano vederli lasciare la scuola il prima possibile, con un’indifferenza o un’ostilità rinforzate spesso dai mediocri risultati scolastici, i rischi di esclusione e/o descolarizzazione si accrescono. Questa disaffezione genitoriale rinforza sempre più nei giovani i cattivi rapporti che essi hanno sia con gli insegnanti che con i compagni. La scuola appare come un luogo di fallimento e questo sentimento è tanto più violento quanto tende, per loro, a rappresentare il luogo simbolico di una società umiliante. L’etichettatura negativa del fallimento scolastico è generalmente la prima stigmate sociale e istituzionale che si aggiunge agli effetti discriminatori dell’esclusione sociale. I pari I ragazzi descolarizzati investono molto sul gruppo dei pari, dando l’impressione di fondersi e di confondersi con esso, rendendo difficile l’individuazione. L’iscrizione territoriale del gruppo dei pari è legata alla frequenza scolastica. Allievi che frequentano normalmente le lezioni investono su questo gruppo all’interno della scuola, ma i descolarizzati investono esclusivamente sulla strada. Solo una piccola minoranza di descolarizzati mantiene degli amici conosciuti in classe. Poiché la famiglia e la scuola non offrono spazio sufficiente perché essi si esprimano, poiché questi due ambienti si rivelano spesso in conflitto, i descolarizzati rinforzano il proprio investimento sui pari facendo un passo avanti verso la strada, dando l’impressione di 92

essere risucchiati dall’esterno, opponendosi “all’interno”, rappresentato dalla famiglia e dalla scuola. Questo investimento e il suo luogo di iscrizione territoriale distinguono i descolarizzati dagli altri. Tre elementi individuano la loro appartenenza a un gruppo di strada: l’immagine sociale di questo gruppo, la sua gestione dei confini con la collettività e il modo di investire sui pari. Questo gruppo ha un’immagine molto negativa agli occhi della famiglia e della scuola. I fatti e gli avvenimenti che vi si svolgono all’interno e quelli che esso provoca – delinquenza, violenza, erranza, ecc. – rinforzano quest’immagine e la legittimano agli occhi della società. I descolarizzati danno la sensazione di sentirsi vivi solo attraverso i loro compagni, mentre la famiglia e la collettività non offrono loro abbastanza stimoli. Il loro investimento affettivo sul gruppo è talmente massiccio da non poter individualizzarsi né separarsene. Il giudizio negativo circa il gruppo espresso da famiglia, scuola e varie strutture sociali ne consolida i confini: l’iscrizione nella delinquenza e nel margine sostituiscono le norme della banda a quelle della società, il che permette ai giovani di tutelarsi contro la sparizione delle relazioni intersoggettive e di mantenere un’immagine positiva di sé malgrado rotture e discontinuità. A differenza dei descolarizzati, quelli che sono soltanto assenteisti, appartengono, in parte, a dei gruppi interni alla scuola, in parte a gruppi di strada: il portone d’ingresso dell’istituto diventa la frontiera spaziale fra il dentro e il fuori, frontiera in grado di trasformarsi in terreno di scontro fra quelli che sono ancora “dentro” ma che “il fuori” viene a cercare. Questa aggressività di frontiera può far orientare gli assenteisti verso l’esterno e verso l’esclusione. Ragazzi che abbandonano o ragazzi abbandonati? Una domanda diventa cruciale: gli allievi che si descolarizzano sono ragazzi che abbandonano la scuola o che sono abbandonati? In altre parole, abbandonano la scuola di loro volontà o se ne sentono irresistibilmente respinti? L’una e l’altra cosa si combinano, perché gli insegnanti sono spinti ai loro limiti da giovani dalle esigenze e dai bisogni smisurati e i giovani si mostrano tanto insopportabili che si finisce con l’escluderli. I rischi di esclusione sono tuttavia diseguali, perché derivano sia dalle 93

acquisizioni scolastiche che dalle caratteristiche sociali degli adolescenti. Poiché le prime difficoltà sono state incontrate nella scuola primaria, talvolta persino nella materna, in alcuni queste si rinforzano, mentre in altri sorgono all’ingresso delle scuole medie, tanto più che l’istituto tende a confortare la situazione di questi ragazzi raggruppandoli spesso nelle stesse classi. Per questi adolescenti, l’indisciplina praticata collettivamente contribuisce, in un primo tempo, a rendere sopportabile la noia, anche se la situazione sociale che ne risulta è deviata. Avere accesso al sostegno scolastico aiuterebbe forse alcuni ad “aggrapparsi” alla scuola, ma questa possibilità è raramente disponibile e, se mancanze e crisi all’interno della famiglia innescano il fenomeno, questi giovani si avviano indisturbati alla descolarizzazione. Eppure, c’è da chiedersi quale sia il loro obiettivo. Forse rinunciano agli studi, dopo aver perso fiducia nell’utilità stessa della formazione seguita, o desiderano rompere i rapporti con un’istituzione in cui si sentono mal considerati? Oppure vogliono allontanarsi dagli altri allievi, poiché non si sentono in armonia né a livello di socializzazione verticale con gli insegnanti, né a livello di intersocializzazione giovanile? Cercano forse di darsi una nuova posizione rispetto ai progetti dei loro genitori o il loro è semplicemente un modo di restaurare un’immagine di sé svalorizzata nell’ambiente scolastico?

Gli insegnanti davanti agli allievi Le conseguenze delle violenze possono essere gravi per coloro che ne sono vittime o testimoni impotenti. Lo sono anche per l’impatto sulla rappresentazione del mestiere dell’insegnante, percepito sempre più come penoso. L’importanza della professione si attenua, dando l’impressione che la missione attribuita alla scuola sia impossibile a realizzarsi, anche se la violenza non è l’unica causa di questa situazione. E anche quando le cifre della violenza scolastica sono stabili, la scuola mantiene comunque una “cattiva reputazione” e sembra aver perso la propria immagine di santuario. Sempre più insegnanti hanno paura degli allievi e, più spesso ancora, provano un vivo abbattimento e un malessere più o meno diffuso. È così che Lantheaume e Hélou (2008) hanno fatto luce sulle difficoltà ordina94

rie e quotidiane di questa professione, le sofferenze che ne risultano e il modo di gestirla in relazione alle sue evoluzioni, ponendo l’accento sulle variabili che vanno dalla difficoltà di insegnare in una situazione in cui il professore si trova “a disagio”, alle fonti dei loro disagi, che ne causano l’impotenza, l’usura morale e il senso di fallimento e di inutilità sociale che caratterizza la loro esperienza professionale. Si possono, del resto, notare le testimonianze pubblicate nel marzo 2003 nei «Cahiers pédagogiques», sulla “sofferenza dei prof”, vittime o testimoni di chiasso, violenze, sconforto, in cui Gaubert evoca una sindrome da esaurimento degli insegnanti, questo stato di abbattimento e scoraggiamento che può condurli alla spossatezza, se non alla paralisi. In un’indagine condotta da Anne Barrère sulla gestione della classe da parte del professore, gli incidenti e i conflitti possono essere raggruppati in tre categorie: • quelli che hanno per motivo un giudizio scolastico – una nota, una valutazione; • quelli che hanno per motivo le modalità in cui il docente fa valere la sua autorità – sanzioni disciplinari, modi di dire e di fare dell’insegnante per ristabilire l’ordine in classe; • quelli che avvengono all’interno della vita giovanile – scontri fra allievi –, ma che l’insegnante deve intervenire per gestire, se non vuole che la situazione precipiti. Questi incidenti si distinguono sia dal chiasso tradizionale, che ha per bersaglio un insegnante o una materia – l’azione di un gruppo unito e solido –, sia dal chiasso anomico, costituito dall’agitazione larvale di allievi isolati. Il vocabolario utilizzato dagli insegnanti per descrivere questi problemi quotidiani spesso tabù e marcati da un senso di colpa professionale, fa appello a un lessico psicologizzante, che allude ad allievi che “deragliano” o che “perdono la testa”, riflettendo in parte il modo in cui i professori traducono i propri problemi di autorità, spesso interpretati in termini di deficienze personali passeggere (stress, fatica) o più stabili, e che riguardano aspetti diversi del carattere (personalità rigida o eccessiva debolezza) che penalizzerebbero gli allievi. Gli insegnanti verificano così delle difficoltà di ordine psicologico e relazionale che si osservano nei giovani: la noia in classe, le difficoltà 95

di concentrazione, i problemi di comunicazione, la lentezza, l’apatia, il consumo di cannabis, il sonno durante i corsi, l’aggressività e il disinteresse per la scuola. Hanno spesso la sensazione di avere davanti dei ragazzi “fuori portata”, “che non possono toccare” o “che non si lasciano toccare”. Questi adolescenti “irraggiungibili”, questi allievi “fuori campo d’azione” mettono in scacco i tentativi di trasmettere e di comunicare messi in atto dai docenti e non permettono loro di creare un’empatia. Ora, proprio la sensazione che i docenti hanno di poter comprendere e raggiungere l’allievo, razionalmente ed affettivamente, partecipa in modo importante al buon funzionamento della classe e al mantenimento del giovane all’interno del percorso scolastico, malgrado i suoi notevoli attacchi alle regole. Al contrario, la difficoltà che i docenti hanno nell’affrontare, gestire o mediare l’oscurità di talune situazioni rischia di portarli alla demoralizzazione e/o a un dietrofront professionale (i docenti ripiegano sulla pedagogia, il CPE e l’assistente sociale ripiegano sul ramo educativo e sociale e il preside trova un altro impiego nel ramo amministrativo), privandosi invece di scambi indispensabili alla complessificazione del proprio approccio, scambi che permetterebbero loro di considerare i problemi affrontati come un rischio condiviso e non come un fallimento personale. Speranze deluse Gli insegnanti sono poco o nient’affatto preparati alle condizioni di insegnamento che si osservano in alcuni istituti. La maggior parte di loro proviene dalla classe media. L’accesso alla professione rappresenta per alcuni una promozione sociale a un ceto superiore. Molti di loro avevano una vocazione pedagogica certa appena hanno scelto questo mestiere, ma spesso la loro vocazione non è coerente con la realtà degli istituti in cui sono stati insediati per la loro prima cattedra. Essi incontrano delle difficoltà nell’inculcare delle conoscenze nei loro allievi, tanto più che questi ultimi non mostrano un grande entusiasmo nell’approfittarne. Alcuni hanno enormi difficoltà a far integrare allievi di origine umile; altri vanno a privilegiare con i loro allievi un ideale educativo basato sulla negoziazione, ma hanno ugualmente delle difficoltà a far regnare l’ordine in classe, come mostra il film Entre les murs. Essi allora si aspettano che il CPE o il preside assicurino dei provvedimenti disciplinari. Altri ancora conoscono 96

allora la scarsa collaborazione dei vertici amministrativi, come illustra al meglio Une vie de prof, un reportage realizzato nel 1994 da Hervé Chabalier in una scuola di Saint-Denis, notevole per l’assenza, sia reale che simbolica, del preside. “Non dovrebbe essere così”, notava Jack Lang, all’epoca della Prima Conferenza mondiale “Violenze a scuola e politica pubblica”, ma fino ad oggi né Jack Lang né nessun altro Ministro della Pubblica Istruzione hanno messo fine a questo nazionale “maltrattamento di matricole”, che consiste nell’insediare i giovani insegnanti nelle zone più difficili. Giovani e insufficientemente preparati a questa situazione dalle scuole di formazione per gli insegnanti, non hanno né la sicurezza né la professionalità dei colleghi più anziani e riescono ad applicare ciò che hanno appreso solo in modo molto parziale al pubblico che devono affrontare. Questi insegnanti non sono stati formati, è vero, per insegnare a degli allievi che mettono in discussione il loro sapere e che presentano condotte totalmente inadeguate all’ambiente scolastico. I docenti si sentono allora incapaci di prevedere e capire i comportamenti degli allievi. Nella sua classe, l’insegnante deve contemporaneamente imporsi ed esporsi nei confronti degli studenti. La ricezione della sua parola passa non solo attraverso la mediazione delle orecchie, ma anche attraverso quella degli occhi. Un insegnante può costringere gli allievi al silenzio, ma l’eloquenza dei loro sguardi è comunque viva e può turbare la sua sicurezza e la sua parola. Tanto più che non si tratta di sguardi individuali ma di uno sguardo collettivo, che aumenta la vulnerabilità dell’insegnante. Questo sguardo indebolisce la sua autorità. Chi determina la propria influenza solo in base al potere istituzionale e non possiede nessuna autorità intrinseca, rischia di subire il chiasso in classe o il rifiuto degli allievi. Eppure, la fragilità del docente rende aggressiva la sua attitudine difensiva e il malessere manifestato da un insegnante inquieta anche gli allievi. Questo malessere sottolinea la loro vittoria in un gioco quasi sadico che consiste nel gioire e nel giocare con la paura dell’altro e nel farla crescere. E l’insicurezza provata dall’insegnante si allinea a quella più diffusa provata dall’adolescente, che si scopre incapace di trovare una risposta alla sua ricerca di limiti (Pujade-Renaud, 1983). Sentendosi isolati, avendo paura di chiedere aiuto, molti insegnanti perdono fiducia nella gerarchia scolastica, pensando che essa non sappia né ascoltarli né rispondere alle loro domande, poiché la sua unica aspetta97

tiva è che essi contengano gli studenti all’interno dell’istituto per evitare delle “fuoriuscite” all’esterno. Hanno l’impressione che, di fronte alla loro confusione, la risposta dell’amministrazione si muova tra lo schivare problemi e il mettere in discussione la capacità di chi insegna, ma non per questo gli insegnanti si avvicinano ai loro sindacati, visto che i tassi d’astensione più forti corrispondono per lo più al personale delle scuole del livello Ambizione-Successo13 – da sempre associate alle ZEP – all’interno delle quali c’è sia poca vita sindacale sia poca coesione tra il gruppo dirigente e il gruppo pedagogico14. I rischi del mestiere Inciviltà e violenze destabilizzano gli insegnanti e fanno sorgere in loro il dubbio angosciante di non essere all’altezza della situazione. Eppure non sono gli unici rischi che corrono. Essi temono anche la giurisdizionalizzazione dei loro problemi. La Federazione degli autonomi di solidarietà laica (FAS), che tutela il personale educativo, ha così recensito, fra il 2006 e il 2007, 57 dossier di docenti accusati di aver colpito degli allievi, su 1760 dossier di aggressioni, insulti, minacce di insegnanti, di presidi e di allievi. Come nota Daniel Husson, tesoriere generale della FAS, il clima è considerevolmente cambiato tra il 1995 e il 2005, periodo che ha visto quadruplicarsi il numero dei dossier trasmessi alla sua federazione e raggiungere i 1680 casi, su un totale di 540.000 iscritti. Un professore di educazione tecnica si è ritrovato, recentemente, in stato di fermo, poi condotto in tribunale e condannato per aver schiaffeggiato un allievo che lo aveva insultato. Il mondo docente diventa il bersaglio di genitori esperti di procedure ed è appoggiato solo nel 50% dei casi dalla propria gerarchia, come nota un avvocato nella rivista della MAIF15. Ne risulta una devianza securitaria che spinge l’amministrazione scolastica a impedire agli insegnanti di dedicarsi ad attività che potrebbero danneggiare gli allievi – il che si può comprendere –, a contattare le famiglie per il minimo incidente che si verifica nell’istituto e 13 Sono gli istituti delle ZEP (Zone di Educazione Prioritaria) che rappresentano, su tre fasce individuabili, il primo livello, cioè quello più problematico, N.d.T. 14 Cfr. SGEN/CFDT, http://sgen-cfdt-versailles.org/article.php3?id_articòle=164. 15 Cfr. «MAIF Magazin», 147, juin 2008.

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che potrebbe lasciare tracce sullo studente (cadute nel cortile, tagli, ecc.), ma anche… a mostrarsi reticente a integrare i bambini handicappati, con turbe psichiche o con allergie. I docenti hanno anche paura di essere accusati di abusi sessuali che non esistono. Dal 2002, numerosi insegnanti non osano più restare soli, in un’aula la cui porta sia chiusa, con uno o due allievi, per paura di essere sospettati di pedofilia. Il sospetto è in effetti tale che basta che un bambino si lamenti di una parola o di un gesto del suo professore – che potrebbero essere male interpretati – perché questi incorra in 48 ore di fermo e in un’indagine di cui subirà le conseguenze pur uscendone perfettamente pulito. Ci sono poi i rischi associati allo sviluppo di Internet. Dei blog creati da e/o per allievi hanno permesso di mettere pubblicamente i voti agli insegnanti, di diffamarli e di insultarli. Tali blog affermano di voler instaurare un equilibrio nella relazione allievo/docente con il fine di… creare un’emulazione positiva, non per opporre professori e allievi, ma per dare la parola a tutti, affinché il sistema educativo francese migliori, permettendo agli allievi di non subire solo dei giudizi ma di esprimerne. È vero che tali blog hanno avuto un grande successo, in Germania, in Gran Bretagna in Canada e negli Stati Uniti, ma gli insegnanti francesi beneficiano già di un doppio voto annuale assegnato loro dai superiori: una valutazione amministrativa da parte del preside e una valutazione pedagogica da parte dell’Ispettorato. Le valutazioni assegnate dagli allievi non hanno, in tal senso, alcuna legittimità. Dalla disperazione allo stress Le violenze contro gli insegnanti rappresentano solo una parte limitata delle violenze scolastiche, poiché su 80.000 incidenti registrati sul SIGNA fra il 2004 e il 2005, 12.586 avevano come vittima un professore, e di questi solo 173 avevano portato la vittima a sporgere denuncia. Inoltre, dal settembre del 2007 al gennaio 2008, la FAS registrava 1.900 casi di aggressione, minacce e insulti contro il personale della Pubblica Istruzione, ed elencava 755 casi di insulti e di minacce – di cui 166 necessitavano dell’intervento di un avvocato e 16 si concludevano con un’istanza giudiziaria –, 385 cause per diffamazione e 222 dossier di aggressioni fisiche. 99

Due volte su tre, la vittima era un insegnante e una volta su tre l’aggressore era uno studente, le altre due i suoi genitori. La natura dell’incidente giustifica la denuncia alle autorità: così, gli insegnanti non sporgono quasi mai denuncia quando sono vittime di insulti o di minacce, benché vi siano frequentemente esposti. Anche le denunce relative a violenze fisiche con o senza un’arma sono meno frequenti di quanto ci si potrebbe aspettare, infatti raggiungono rispettivamente il tasso del 40 e del 25%, benché si tratti di azioni perseguibili penalmente. Ciò potrebbe interpretarsi come un modo per rispettare determinati regolamenti interni, per evitare una pubblicità scomoda o… per paura di rappresaglie da parte degli studenti o dei loro genitori. Queste statistiche, relativamente poco elevate, non devono far dimenticare l’importanza del sentimento delle vittime di aggressione. Si può così parlare di stress acuto, quando avvengono incidenti con una minaccia dell’integrità fisica – colpi, ferite volontarie, minacce di aggressione fisica, per esempio – e lo scatenamento della reazione emotiva dell’insegnante – paura intensa, sentimento di impotenza o di orrore. Questa situazione è stata analizzata in uno studio consegnato nel 1996 da Horenstein e Voyron-Lemaire, i quali osservano che il 12% del personale che ha vissuto simili avvenimenti soffre di una sintomatologia seria, paragonabile all’impatto psicologico subito dalle vittime di attacchi terroristici, e che il 31% di essi presenta un presumibile stato di stress post-traumatico, mentre i certificati medici emessi dopo le visite d’urgenza notano stadi di ebetismo, di confusione, di shock, di crisi acuta, di ansia e di distacco emotivo. Una psicologa clinica, Anne Jolly, ha discusso nel 2002 una tesi ben documentata su Stress e traumi: approccio psicologico dell’esperienza degli insegnanti vittime di violenza. Al momento dell’incontro, sostiene l’autrice, la vittima presenta delle manifestazioni neurovegetative, immediate o differite, abituali in questo tipo di situazioni: crisi di pianto, tremori, ma anche senso di soffocamento e calore, o ancora palpitazioni e, più raramente, brevi episodi di derealizzazione, di distorsione temporale e di atto automatico, che interessano, anche se non a lungo, gli atteggiamenti difensivi. La sorpresa suscitata dall’aggressione e la rapidità con cui essa si è svolta limita tuttavia la consapevolezza di queste reazioni d’allarme, e le vittime si ricordano soprattutto delle manifestazioni legate alla scarica emotiva seguente all’attacco. Nelle ore e nei giorni che seguono 100

l’aggressione, si riscontrano spesso degli stadi consequenziali importanti, che mescolano reminiscenze, condotte d’evitamento, disturbi ansiosi e disturbi del sonno, oltre a una presa di distanza dalle attività quotidiane e un bisogno di parlare dell’avvenimento. L’attenzione si focalizza sul ricordo dell’accaduto, tanto più gli stimoli evocatori sono frequenti: cure mediche, pause lavorative, pratiche amministrative, ma anche le cure dei parenti o la prossimità degli aggressori, se si tratta di allievi che non sono stati espulsi dalla scuola. Questi sintomi durano da qualche giorno a qualche settimana, per poi fermarsi, per quasi un insegnante su tre, mentre persistono negli altri anche per più di un mese. Per la vittima è doloroso dedicarsi alle occupazioni abituali, mentre il ricordo dell’aggressione subita si impadronisce del suo animo. Questa sindrome da reminiscenza è accompagnata da un bisogno di verbalizzare ciò che è accaduto. Eppure, se questo bisogno di “testimoniare” è vivo in presenza degli altri, l’insegnante prova a non pensarci quando è solo. Riferendosi a tempistiche più lunghe, Jolly nota che manifestazioni cliniche di reminiscenza appaiono in maniera ripetuta e, per alcuni, senza tempi di latenza. Si tratta di un tipo di sindrome da ripetizione che prende la forma di ruminazioni mentali, che ruotano intorno al senso di colpa – di ciò che avrebbe dovuto fare per non arrivare a quel punto –, ma anche riguardo alle cause e alle conseguenze dell’atto, tanto per lui che per l’aggressore. L’aggressione suscita degli interrogativi insolubili. Numerosi docenti provano a comprenderla, analizzando a fondo la propria condotta e quella degli allievi, interrogandosi sul proprio futuro privato o professionale. Questa sindrome può anche manifestarsi attraverso allucinazioni, che giungono all’improvviso o in occasione di uno stimolo che ricorda l’aggressione – vista dell’allievo, luogo dello scontro – o la simbolizza – perizie mediche, anniversario dello scontro –, oppure di uno stimolo che ha un rapporto anche molto lontano con l’aggressione – trasmissione radiofonica, parole di una canzone. Esse riproducono visivamente l’aggressione – il viso dell’aggressore, il suo sguardo al momento dei fatti – e tendono ad attenuarsi nel tempo. Lo scontro ritorna negli incubi, che sono vettori di una profonda disperazione associata a un senso di paura, di ingiustizia, di impotenza o di senso di colpa, oltre che a reazioni neurovegetative come tremori e palpitazioni. Nei casi più intensi, queste reminiscenze si accompagnano a reazioni neurovegetative ed emotive le101

gate alla paura, all’impotenza, all’ingiustizia o al senso di colpa provati dagli insegnanti. Le vittime conoscono anche delle alterazioni della personalità che, tuttavia, non sono sempre immediate: • condotte di evitamento legate a tutto ciò che può ricordare il trauma – cure mediche, consigli disciplinari, pratiche amministrative, ecc.: gli insegnanti provano a non pensare all’aggressione e a non lasciarsi travolgere dalle emozioni, ma, allo stesso tempo, diventano più prudenti e più attenti a ciò che li circonda, sorvegliano le proprie intenzioni e i propri gesti, e alcuni sviluppano una diffidenza di cui si vergognano, in particolare quando i pregiudizi legati all’aggressore si estendono progressivamente all’insieme dei suoi compagni; • delle manifestazioni di attenuazione della reattività generale: l’impressione di un futuro precluso, una perdita di interesse per tutto ciò che li appassionava in precedenza; • il distacco nei confronti degli altri. Infine, alcuni sintomi non specifici possono manifestarsi, e corrispondono a disturbi diversi come astenia, disturbi del comportamento, fobie e disturbi psicosomatici. Così, molte vittime si sentono affaticate e incapaci di concentrarsi. Alcuni insegnanti sono in preda ad angosce, a fobie che ignoravano prima di essere aggrediti: paura degli allievi, delle conseguenze che la diffamazione o un pettegolezzo potrebbero comportare, del modo in cui la giustizia tratterà una data situazione… E Jolly deve concludere che il vissuto riguardante l’aggressione si accompagna a sentimenti: • di sorpresa, legata al brutale sopraggiungere di un passaggio all’atto incompatibile con i valori di un insegnante e inimmaginabile in quanto illogico, imprevedibile e ingiusto; • di ingiustizia e di incomprensione, che provocano un senso di colpa: come ha fatto a provocare una tale aggressività? Anche l’immagine di sé ne esce danneggiata: l’umiliazione subita provoca una rappresentazione negativa di sé, una disillusione, in qualche 102

modo. L’identità è messa in discussione e l’insegnante teme per la propria integrità, prova un senso di pericolo. Quest’ansia rimanda al senso di impotenza provato durante lo scontro e all’assenza di controllo sugli avvenimenti che lo hanno travolto in quel momento. Uno stress prolungato Da questi fatti risulta un relativo senso di insicurezza anche in molti insegnanti che non sono stati vittime di aggressione. È così che il 33% di essi conosce uno stato ansioso e il 10% soffre di depressione. Come nota Horenstein, le malattie legate allo stress (insonnia, allergia, ulcere, emicranie) sono più frequenti negli insegnanti che nel resto della popolazione. Pur senza essere stati mai aggrediti, senza correre davvero dei rischi, senza essere stati vittime di genitori pignoli o anche solo sospettati di comportamenti contestabili, essi provano un disturbo più o meno diffuso nell’esercizio della professione. Questo disagio rileva uno stato di stress cronico che può essere messo in relazione con la novità, l’imprevedibilità, l’imminenza, la durata e l’ambiguità delle situazioni che essi vivono – o che immaginano di poter vivere. Secondo uno studio epidemiologico condotto nel 2001 dalla Sanità, il 70% degli insegnanti teme la fatica, la tensione e lo stress, il 20% ha paura di aggressioni fisiche e il 60% delle donne ha paura di essere insultato. Si nota, però, nel 2005, in un’indagine effettuata dal Sindacato degli insegnanti della scuola superiore, che un professore su cinque si dichiara “permanentemente affaticato”, e che sei su dieci lamentano un “affaticamento fisico o nervoso”, dovuto alla pressione quotidiana che pesa sulle loro spalle. Questa fatica, questo sentimento di insicurezza e la paura che ne deriva in numerosi insegnanti possono allora interpretarsi come una mancanza di fiducia nella propria capacità di attingere al repertorio di ciò che sanno fare per rispondervi, secondo le prospettive aperte da Yvane Wiart. Una tale mancanza non è indipendente da una rappresentazione di sé basata su un’impotenza molto più immaginaria che reale. Più gli avvenimenti che temono si fanno attendere, più il loro stress s’accresce. La predisposizione a preoccuparsi li induce a valutare come stressanti delle situazioni che non lo sono realmente e l’assenza di sicurezza e l’ambiguità delle situazioni aumentano correlativamente al loro stato di stress. È 103

così che un quadro abbastanza chiaro delle componenti ambientali può, dice Yvane Wiart, «generare […] una certa confusione nell’animo dell’individuo, se questi non sa bene come affrontarla»16. Alcuni insegnanti finiscono con il focalizzarsi più sull’aspetto negativo, sebbene minoritario, delle situazioni che vivono, per estrapolarne una valutazione globale, mettendo in ombra gli altri aspetti contraddittori in rapporto a un punto di vista negativo di cui essi divengono incapaci di liberarsi. Tali inferenze arbitrarie vanno di pari passo con una generalizzazione che conduce a una conclusione negativa tratta da osservazioni relative ad altri avvenimenti che non sono tra loro paragonabili. Esse accompagnano anche, sottolinea Horenstein, la proiezione in situazioni vissute da altri colleghi, ma il cui verificarsi è, nel loro caso, poco probabile, il che può condurli a un trauma vicario: trauma psicologico senza relazione a uno shock diretto, ma conseguente ai contatti con una persona traumatizzata. Allora è l’esperienza dell’incontro con l’altro che costituisce in sé e per sé l’evento traumatico. Più è alta la frequenza di tali contatti, più il rischio aumenta, per effetto cumulativo. Non solo queste persone si sentono incapaci di affrontare ciò che potrebbe capitar loro, ma non sono neanche capaci di chiedere od ottenere aiuto, né dai colleghi né dagli specialisti. Tra inciviltà o violenza, in quanto vittime o in quanto testimoni, gli insegnanti non escono indenni dal confronto con le situazioni oggi constatate all’interno di alcuni istituti. Il disagio è frequente, la sofferenza è grande nei casi più gravi e per i più fragili di loro. La maggior parte tuttavia lavora con coraggio e devozione all’interno di una società in continuo cambiamento, in cui gli insegnanti sono chiamati a stabilire, se non a ristabilire, dei legami sociali fra persone che si individualizzano sempre di più.

16 Wiart Y. (2005), Stress, peut-on et doit-on chercher à y échapper a tout prix?, «Perspectives psy», 44, 5, p. 408.

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Capitolo terzo

Si divertono a farsi del male

Non c’è un’accezione omogenea del termine “aggressione” e le principali teorie al riguardo sono difficilmente conciliabili. Le teorie meccaniciste behavioriste o neobehavioriste prendono in considerazione dei dispositivi di scatenamento dell’aggressività o della collera, attivati da privazioni, proibizioni o iper-stimolazioni. La posizione behaviorista definisce aggressione ogni comportamento che danneggia o arreca pregiudizio ad altri, i neobehavioristi invece introducono il concetto di intenzione di danneggiare o di arrecare danno ad altri. La posizione cognitivista considera un comportamento come aggressivo se è intenzionale e se rappresenta una violazione della norma che regola la situazione in cui essa si produce. Infatti, la considerazione dell’intenzione del soggetto permette soprattutto di distinguere l’aggressione ostile dall’aggressione strumentale, che consiste nell’utilizzare un potere coercitivo per raggiungere uno scopo differente da quello di arrecare danno. Alcune teorie insistono, più in particolare, sull’importanza di modelli la cui scarica emotiva ha un ruolo centrale nell’apprendimento dell’aggressione. Giovani delinquenti sarebbero stati così dei bambini maltrattati e affettivamente trascurati. Altri hanno sottolineato l’importante impatto sul bambino di modelli di comportamento aggressivo diffusi dai media, in particolare la TV, soprattutto quando il soggetto è in uno stato di frustrazione. L’aggressione è allora facilitata dall’imitazione, dall’imprinting, dalla disinibizione degli istinti aggressivi, dalla mancanza di sensibilità, dallo scatenamento di azioni aggressive già strutturate in passato e dall’aumento generale dell’eccitazione. L’aggressività troverebbe la sua causa principale nella frustrazione, poiché, mentre le risposte adeguate agli stimoli ricevuti sono inibite, essa si rivolgerebbe contro la fonte della frustrazione. Se anche per questa via 105

essa è inibita, l’aggressione è deviata o ridiretta contro il soggetto stesso. Essa può allora essere considerata come una catarsi della frustrazione.

Aggredirsi non è giocare Le condotte violente sembrano avere un posto importante all’interno dell’attività adolescente. Bisogna tuttavia distinguere quel che riguarda la violenza fondamentale, pulsione conservatrice a scopo difensivo, istinto di sopravvivenza esente da odio o da sadismo, dall’aggressività più elaborata, che si soddisfa attraverso la sofferenza dell’altro. Se la violenza primitiva si integra nel flusso libidico sotto l’influenza di un ambiente familiare e sociale benefico, tutto va per il meglio, ma se la violenza è stata mal incanalata dall’ambiente, essa rischia di dominare la situazione e di condurre a delle forme perverse di libido, che lega odio e aggressività, sadismo e masochismo. Interrogarsi sulla specificità della violenza durante l’adolescenza consiste nel ricordare quale sia il suo posto in questo periodo della vita in cui ogni individuo conosce degli intensi stravolgimenti psicologici e somatici, ma anche cognitivi ed affettivi. L’adolescenza è una transizione tra l’infanzia e l’età adulta, un momento in cui si presentano problemi di identità del soggetto, in rapporto al suo corpo, al suo nome, al suo posto nella famiglia e in rapporto alla differenza fra i sessi. È un periodo attivo di costruzione identitaria, attraverso l’interazione dialettica fra l’identità personale e l’identità sociale, identità che gli adolescenti negoziano, rimettendo in discussione i rapporti precedentemente stabiliti e impegnandosi in una ricostruzione sociale fatta di negoziazioni, mentre le loro eventuali devianze si rivelano più aggiustamenti e orientamenti che disfunzioni. Talvolta, nonostante abbiano un aspetto ludico, alcuni comportamenti possono comportare una pericolosità certa, come nel caso di “giochi” che si svolgono all’interno degli istituti scolastici o che consistono nel riprodurre delle acrobazie, mentre tutto è filmato per poter esibire le prodezze realizzate. L’esultante trasgressione dei divieti morali è una delle motivazioni fondamentali di queste pratiche, mentre un’altra consiste nel mettere in pericolo se stessi o gli altri. Da sempre, gli adolescenti hanno apprezzato le condotte a rischio. Alcune hanno oggi un carattere molto allarmante, perché possono essere 106

mortali. Un esempio evidente è quello del successo che incontrano dei giochi molto violenti praticati nei cortili delle scuole o nei pressi di esse. La situazione è grave perché decine di giovani sono morti a causa di questi giochi durante gli ultimi anni. La maggior parte dei genitori pensa, tuttavia, che i propri figli non siano interessati da questi fenomeni, ma peccano di superficialità, perché numerosi giovani ne conoscono l’esistenza e molti li praticano senza essere consapevoli della loro pericolosità, come mostra la prima indagine francese realizzata da TNS Healthcare SOFRES, finanziata dall’associazione SOS Benjamin e dalla Fondation de France1: il 71% dei giovani fra i 7 e i 17 anni afferma di conoscere questi giochi e l’84% ne cita almeno uno; il 13% non pensa che possano essere pericolosi, mentre solo il 65% dei genitori pensa che i propri figli li conoscano. Questi giochi possono essere praticati sin dalla scuola materna, ma il 40% dei genitori pensa che non siano praticati neanche alle scuole elementari. Questo studio stabilisce anche che il 26% dei giovani afferma di aver avuto modo di parteciparvi, cioè circa 2.000.000 di bambini e di adolescenti, se si considera l’insieme della popolazione, mentre il 12% vi ha effettivamente preso parte – circa 1.000.000 di bambini. Anche le femmine sarebbero interessate dal fenomeno (45% contro il 55%). Si tratta di una vera e propria questione di sanità pubblica, ma solo il 4% dei genitori pensa che il proprio figlio vi abbia partecipato; circa la metà dei giocatori non ne ha mai parlato a un adulto, di cui il 9% per paura di una lavata di capo o di una punizione. Questi giochi hanno spesso luogo nel cortile della scuola, durante la ricreazione (73%), ma anche nel quartiere intorno all’istituto (46%). I giovani vi partecipano per fare come gli altri (59%) e perché questo li diverte (46%). Il 17% di essi li trova “molto buffi” e “assolutamente innocui”. Esiste attualmente più di un centinaio di giochi pericolosi, i cui nomi possono variare. Alcuni consistono in aggressioni o attacchi e hanno per denominatore comune l’uso della violenza fisica gratuita, da parte di un gruppo verso un individuo. Altri giochi sono detti di svenimento o di non-ossigenazione, e uno dei più comuni è il gioco del foulard o il gioco dell’asciugamano, citato dal 72% degli intervistati dalla SOFRES. 1 Indagine realizzata tra il 27 luglio e il 3 agosto 2007 su 489 ragazzi dai 7 ai 17 anni e su 578 genitori che avevano almeno un figlio di età compresa fra i 7 e i 17 anni.

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I giochi aggressivi In Francia, la pratica dei giochi aggressivi porta ogni anno alla morte di una decina di bambini, oltre a numerose conseguenze come ematomi, coma, traumi cranici, fratture ed emorragie, ma anche manifestazioni psicotraumatiche – angoscia, chiusura, perdita di fiducia, disturbi del sonno, reviviscenze dell’evento traumatico, disagi mentali e sintomi ansio-depressivi in grado di evolvere verso la fobia scolastica e pensieri suicidi, con rischio di passaggio all’atto. La violenza è tuttavia percepita come un gioco dalla maggior parte dei giovani, mentre il personale amministrativo e i docenti vi vedono un vero massacro di gruppo2. Esistono pochi lavori importanti sui bambini responsabili di aggressioni e sui bambini vittime di questi “giochi”. Tuttavia, molti studi hanno permesso di confermare alcune caratteristiche, che si tratti di vittime e/o di aggressori. Le vittime sono generalmente dei bambini ansiosi e timidi che appaiono delle prede facili. Non difendendosi, essi diventano rapidamente dei capri espiatori. Altre vittime, al contrario, non sono timide, ma possiedono delle qualità, sul piano fisico, scolastico o socio-economico, che suscitano la gelosia e/o l’eccitazione dei loro pari. Gli aggressori sono nella maggior parte dei casi maschi, mentre le femmine possono esercitare una violenza che si manifesta sul piano psicologico o emozionale. Fra questi aggressori, si possono distinguere due profili: gli aggressori attivi e gli aggressori passivi: • gli aggressori attivi e/o iniziatori sono dei bambini dominanti che presentano spesso un disturbo di comportamento antisociale, che si traduce in attitudini trasgressive e violente, bambini spesso individuabili per il loro bisogno di sensazioni forti, che presentano una grande impulsività e che tendono ad perdere l’autocontrollo; • gli aggressori passivi sono soprattutto trascinati da un effetto di gruppo che li spinge a diventare violenti sotto lo sguardo dei loro pari, e più in particolare del leader; alcuni non hanno sicurezza in se stessi e presentano un profilo di personalità dipendente; la paura delle rappresaglie che subiranno se non parteciperanno si rivela il motivo della loro azione. 2 http://media.eduscol.ecation.fr/file/Action_sanitaire_et_sociale/52/0/jeux_dangereux_ 114520.pdf.

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Si distinguono giochi intenzionali e giochi su costrizione. Nei primi, i bambini partecipano volontariamente alle pratiche violente, nei secondi il bambino che subisce la violenza non ha scelto di partecipare e può essere chiaramente identificato come vittima poiché non ha dato il proprio consenso. I giochi intenzionali I giochi intenzionali vedono la partecipazione volontaria dei giocatori. Alcuni, come il gioco dell’aerosol, coinvolgono il gruppo solo in qualità di spettatore; gli altri giochi si praticano in gruppo e il principio è generalmente lo stesso: si lancia un oggetto all’interno di un cerchio di gioco, il giocatore che non lo afferra diventa la vittima e gli altri lo riempiono di colpi. • Il gioco dell’aerosol si svolge inalando delle bombolette di qualsiasi tipo per trasformare la voce del giocatore e far ridere i compagni; • il gioco del solvente, attività simile, porta i giovani a respirare dei solventi, dei prodotti per le pulizie o colla, per raggiungere uno stato di ebbrezza o di euforia che diverte gli spettatori; • il gioco dei giudici ha per regola che dei giudici auto-designati emettano una “legge” e quelli che non la rispettano subiscono sanzioni corporali; • il piccolo tunnel del massacro3 si svolge come una partita di calcio, ma il giocatore che subisce un tunnel è allora colpito da tutti gli altri giocatori; una variante consiste nell’utilizzare un bottiglia vuota al posto del pallone, da cui l’appellativo di gioco della bottiglia; • il gioco del cerchio infernale è assai simile al precedente: si lancia un pallone al centro di un cerchio di giocatori. Se la vittima, designata in precedenza, non l’afferra, è riempita di colpi da tutti i partecipanti; • il gioco del capro espiatorio: un bambino “in carica” designa un altro bambino come capro espiatorio e questi è preso a calci e a pugni ed è trascinato per terra per tutta la giornata; il giorno successivo, il bambino in carica può a sua volta divenire il capro espiatorio. 3

Football-trash.

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Giochi su costrizione I giochi su costrizione sono generalmente molto brutali e la vittima è colpita contro la sua volontà e spesso a sua insaputa: • l’imboscata, detta anche mischia o cartone rosso, gioco in cui un gruppo si procura una vittima potenziale: al segnale di uno dei partecipanti, questa viene messa a terra e colpita violentemente; • il gioco del cappottone è dello stesso tipo: si trova un giovane e gli altri si precipitano su di lui per picchiarlo; • il gioco della morte improvvisa o del colore: un bambino che indossa il maggior numero di indumenti del colore designato al mattino è colpito e umiliato per tutta la giornata; • il gioco della ronda consiste nel creare una zuffa per attirare dei curiosi; questi ultimi sono allora catturati dalla ronda e picchiati; • il gioco del toro: un gruppo di bambini o di adolescenti “carica”, a testa bassa, un bambino prescelto; • il gioco di Beyrouth: dei bambini chiedono a un altro bambino quale sia la capitale del Libano; se il bambino non sa rispondere a questa domanda, viene colpito ai genitali; • l’happy slapping, in italiano “schiaffi allegri”: si tratta di una pratica consistente nel riprendere, con il cellulare, un’aggressione a sorpresa per poi procedere a una diffusione di questa immagine via cellulare o tramite Internet; questa pratica, oltre a provocare danni fisici, tende a ledere la dignità e l’immagine della vittima.

Il foulard della morte A prescindere dal nome assegnatogli dai giovani4, i giochi di svenimento hanno in comune l’arresto dell’ossigenazione al cervello, che provoca degli stordimenti o degli svenimenti in base alla sua durata. Per produrre l’effetto desiderato, sono generalmente utilizzati due metodi e di ciascuno esistono molteplici varianti. Il primo metodo consiste nel far 4 Gioco del foulard ma anche “sogno indiano”, “30 secondi di allegria”, “notte meravigliosa”, “sogno blu”, “gioco del cosmo”, “coma indiano” o “navetta spaziale”, tutte varianti che si praticano comunque tramite strangolamento. Sotto il nome di “gioco dello sterno”, del “pomodoro” o “della rana”, si pratica bloccando le vie respiratorie.

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pressione sulle carotidi e nel ridurre l’afflusso di sangue al cervello, con il secondo metodo si blocca la respirazione tramite la compressione dello sterno. Quale che sia la tecnica utilizzata, l’apporto di ossigeno al cervello è fortemente limitato, provocando degli stordimenti, ovvero uno svenimento o delle “visioni”. Quando il gioco è praticato in gruppo, il giocatore è risvegliato improvvisamente dagli altri e il brusco ritorno dell’ossigeno provoca una sorta di flash vissuto come “cool” dai partecipanti. I giovani si iniziano a questo gioco quando sono in gruppo, a scuola, in colonia o in incontri pomeridiani. Praticati nel più grande segreto, questi atti sono spesso impercettibili per gli adulti. Una pratica datata ma divenuta nota solo di recente Esistono pochi studi documentati sul gioco del foulard. Questo gioco esiste almeno dagli anni ’505, prima che dei ricercatori si dedicassero al suo studio. I primi lavori che hanno recensito dei casi di strangolamento auto-erotico da parte di adolescenti sono in effetti datati alla fine degli anni ’80, come anche uno studio epidemiologico che riferisce decessi di bambini di età fra gli 8 e i 12 anni, la cui natura si rivelava difficile da precisare: incidenti domestici, condotte auto-erotiche, suicidi… Più recentemente, dei ricercatori canadesi, israeliani e cinesi6 hanno indagato sugli shocking games che i bambini praticano utilizzando degli asciugamani. Dai primi segnali d’allarme alla prevenzione La prima attenzione degli insegnanti e dei genitori verso il fenomeno risale alla fine degli anni ’90. Nel novembre del 1995, un giovane, che si è soffocato con un asciugamano nel bagno della scuola, muore in ospedale dopo sei giorni. Alcuni mesi più tardi, nel settembre del 1996, si apre un’indagine e i giornalisti iniziano ad interessarsi alla cosa. Da questa tragedia nascerà l’associazione SOS Benjamin, che riunisce genitori e professionisti preoccupati per la salute di bambini e adolescenti. È l’epoca in 5

Si praticava a scuola, ma anche nei gruppi scout e nelle colonie.

6 Le D. e Macnab A.J. (2001) in Canada, Slamowitz (2003) in Israele e Kay Ming Chow

(2003) in Cina.

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cui la Pubblica Istruzione emette una circolare sulla “Prevenzione delle condotte a rischio”, facendo presenti «le tendenze al consumo di sostanze lecite o illecite [che] sono sempre più diffuse», ma senza menzionare in alcun modo i giochi pericolosi. Più recentemente, nel settembre del 2000, un altro giovane muore, impiccato nella sua camera. Sua madre scopre allora l’esistenza di questi “giochi” di soffocamento diffusi tra i giovani e accoglie le testimonianze di numerose famiglie che hanno vissuto le stesso dramma. Messa a confronto con la propria ignoranza e con quella dei genitori che incontra, decide di allertare i media circa questa pratica che prende progressivamente il nome di “gioco del foulard”. L’opera di Françoise Cochet, intitolata I nostri figli giocano a strangolarsi… in segreto: il gioco del foulard, pubblicata nel 2001, costituisce il primo lavoro che testimonia questo gioco mortale, diffuso sia in Francia che all’estero. Intanto, il 23 ottobre del 2000, una circolare ministeriale è diffusa fra i presidi, gli insegnanti e gli infermieri scolastici per informarli del problema. Il Ministro della Pubblica Istruzione ordina un’indagine nel 2001 e le associazioni dei genitori degli studenti ne sono informate nel gennaio del 2002. Alcuni anni più tardi, nel 2006, appare Allerta giochi pericolosi, il libro di Magali Duwelz, fondatrice di SOS Benjamin. Si continua oggi a deplorare questi casi di asfissia “ludica”, con la differenza che l’origine ne è ormai nota e che non vengono più trattati come incidenti domestici o suicidi. Perciò, nel giugno 2007, il Ministro della Pubblica Istruzione ha richiesto all’insieme dei dirigenti scolastici di attuare le dovute disposizioni per allertare la comunità educativa sui pericoli di questo gioco, demandando loro il compito di diffondere presso le famiglie un’informazione chiara sull’esistenza, i rischi e i sintomi di questa pratica, e di condurre un’azione di prevenzione a beneficio degli allievi. In seguito, è stata diffusa una brochure dal titolo I “giochi” pericolosi e le pratiche violente7. Nello stesso tempo, il Ministro ha avviato un dialogo con Françoise Cochet, Presidente dell’APEAS8, poiché la scuola non poteva rimanere immobile di fronte ai danni causati agli studenti. Infine, molto recentemente, l’APEAS ha organizzato a Parigi un Colloquio internazionale che ha riunito ricercatori, professionisti della sanità, dell’educazione, della sicurezza e della giustizia così come i 7

Brochure consultabile sul sito http://eduscol.education.fr. dei genitori di bambini interessati da fenomeni di strangolamento.

8 Associazione

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genitori delle vittime coinvolte, in un’azione di allerta e prevenzione, per definire la problematica delle differenti pratiche note, fornire dati storici e causali, valutare gli effetti fisiologici osservati, interrogarsi sulle motivazioni e proporne un chiarimento psicologico, sociologico e antropologico. Questo colloquio aveva inoltre l’obiettivo di studiare i differenti metodi di informazione e di prevenzione e le strategie che operavano nuove prospettive di intervento su scala nazionale e internazionale. Un sondaggio nazionale Il fenomeno è comunque ancora poco noto. L’informazione, tuttavia, inizia a diffondersi. Si nota così, a partire dai risultati di un sondaggio IPSOS per l’APEAS nell’aprile del 2007, su un campione di 1013 persone rappresentativo della popolazione francese di almeno 15 anni di età, che il 91% dei francesi ha sentito parlare del gioco del foulard, che il 66% di essi ne ha un’idea molto precisa, tanto più precisa per quelli che hanno compiuto studi superiori. Il livello di conoscenza aumenta con l’età, infatti il 25% dei ragazzi di età compresa fra i 15 e i 19 anni dichiara di non averne mai neanche sentito parlare. Solo il 4% delle persone che hanno sentito parlare di questo gioco dicono di averlo praticato quando erano bambini o adolescenti – il che conduce, fatte le dovute proporzioni, a 1.500.000 francesi; ma circa il 10% di esse conosce giovani che vi giocavano, percentuale che oscilla tra il 16 e il 19% per i minori di 25 anni – il che ci conduce a circa 3.500.000 francesi. Che sia stato osservato o praticato, il gioco è associato soprattutto a ragazzi di età compresa fra i 10 e i 14 anni. Il 4% di essi e l’8% dei giovani dai 20 a 24 anni dichiara di conoscere ragazzi che vi giocano ancora, mentre il 6% dei genitori e il 22% di quelli di età compresa fra i 22 e i 24 anni crede che i propri figli abbiano certamente praticato questo gioco. Il 50% delle persone che hanno praticato o hanno visto praticare questo gioco dichiara di non esser stato consapevole di giocare o assistere a un gioco pericoloso, il che è paradossale, poiché, allo stesso tempo, il 5% delle persone coinvolte dichiara di conoscere bambini o adolescenti che hanno subito danni o che sono morti a causa del gioco del foulard, percentuale che raddoppia per gli intervistati di età compresa fra i 15 e i 19 anni.

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Un gioco rischioso, una vita persa Si tratta di un gioco attraente agli occhi dei bambini. Il gioco del foulard si svolge generalmente all’insaputa degli adulti e si confonde talvolta con altre pratiche. Al contrario degli altri giochi pericolosi, che presuppongono una separazione fra vittima e carnefice, è un gioco di condivisione che comporta dei rischi. Si pratica inizialmente in gruppo, nel tentativo di condividere le proprie esperienze con gli altri e non implica il consumo di nessuna droga. Alcuni “giocatori” sono solo “spettatori”, mentre altri partecipano attivamente. Il giocatore attivo è sostenuto e valorizzato dal gruppo e il gioco può dunque essere considerato come un mezzo di integrazione attraverso un’esperienza condivisa. Perché giocano? Possono essere abbozzate tre caratteristiche: • ogni partecipante ha un’esperienza personale; • il gioco si svolge con e per il gruppo; • il gioco procura piacere. I giocatori non hanno consapevolezza dei rischi che corrono. Non è valorizzata una situazione in cui si mette in pericolo la vita di qualcuno, ma la condivisione di un momento intenso in cui ciascuno partecipa a turno. I partecipanti ricercano anzitutto un’esperienza di coscienza alterata generata da un principio di anossia, e gli adolescenti ammettono anche di provare un piacere sessuale. Gli stati ricercati sono legati alle manifestazioni cliniche dell’anossia e variano secondo la durata e l’intensità del gioco. All’inizio della sincope, proprio prima della perdita di coscienza, la persona può provare diverse sensazioni che vanno dallo stordimento, ai punti luminosi davanti agli occhi, alla vista sfocata, al ronzio nelle orecchie, ad allucinazioni uditive. Questi effetti sembrano abbastanza simili a quelli procurati dal consumo di psicofarmaci: l’impressione di fluttuare, la perdita di coscienza, la creazione di un nuovo stato psichico. L’anossia, in qualche secondo, può condurre al coma. Prolungata di qualche minuto, essa può provocare delle lesioni cerebrali irreversibili. Anche senza giungere fino a questo punto di non ritorno, le conseguenze di un’anossia cerebrale possono perdurare dopo il ritorno dell’ossigeno, ed esistono de114

gli stadi intermedi fra il recupero completo e la morte cerebrale: una mancanza di ossigenazione leggera può condurre dei disturbi dell’attenzione e problemi di coordinazione motoria. Nei casi più gravi, le conseguenze consistono nel coma più o meno profondo, in crisi epilettiche, in movimenti involontari, in tremori e amnesia. Il gioco del foulard induce i giovani a comportamenti estremamente pericolosi per la loro integrità fisica e mentale. Non esistono statistiche ufficiali relative ai decessi e agli handicap conseguenti a questa pratica, ma sono stati diffusi alcuni dati dall’APEAS che recensisce 75 decessi nella seconda metà del XX secolo, cifra messa in discussione dalla Pubblica Istruzione, che rimproverava alle associazioni di gonfiare le cifre attraverso “amalgami che mischiano il gioco del foulard, suicidi e morti violente”9. I risultati di un’indagine più recente realizzata dallo SMUR10 pediatrico Necker-Enfants malades in base ai dati di 63 (su 97) SAMU11 di Francia e 48 (su 91) SDIS12, parlano chiaro: per l’anno 2005, sono stati riportati 9 casi e riguardano ragazzi di età compresa fra i 7 e i 16 anni, di cui 6 sono morti (1 sul posto e 5 in sala rianimazione); per l’anno 2004, sono stati segnalati 5 casi. Questo censimento rileva, in realtà, soltanto i bambini e gli adolescenti il cui stato ha necessitato di un intervento medico d’urgenza. Secondo le associazioni dei genitori dei bambini vittime di “giochi” di non-ossigenazione, le cifre sarebbero nettamente superiori, poiché questo tipo di gioco si pratica al di là di ogni controllo degli adulti e le sue conseguenze sono spesso interpretate in termini di incidenti o di suicidi. Dei profili tipici? Il gioco del foulard, benché comporti un rischio innegabile, è praticato da giovani che non sono generalmente suicidi, ma che cercano, al contrario, di provare delle emozioni intense che procurano loro la “sensazione di esistere”. Si mettono in pericolo senza esserne coscienti e senza pensare ai rischi corsi. Questi giovani sentono generalmente un’attrazione 9 Elementi di informazione sul gioco del foulard. Rapporto 2002-019 dell’Ispettorato generale della Pubblica Istruzione (marzo 2002). 10 Unità di pronto soccorso, N.d.T. 11 L’equivalente italiano, anche se a vocazione internazionale, delle aziende che forniscono il servizio sanitario legato al 118, N.d.T. 12 Servizi dipartimentali antincendio e di soccorso.

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per altri comportamenti a rischio come l’assunzione di droghe, la guida imprudente dei veicoli a motore, gli sport estremi, ecc.; subiscono particolarmente il fascino del proibito. Il rapporto stabilito nel marzo 2002 dall’Ispettorato generale della Pubblica Istruzione classifica i partecipanti al gioco del foulard in tre tipologie: • gli occasionali, che rappresentano la larga maggioranza dei casi; partecipano per “giocare”, per non tirarsi indietro, per provare nuove sensazioni, fare scoperte o semplicemente perché non osano rifiutare; • i regolari, praticano frequentemente altre condotte a rischio e sono alla ricerca di emozioni, in un periodo di fragilità, o soffrono di un disturbo della personalità più o meno marcato; • i suicidi, rari a causa della logica stessa del gioco, sarebbero dei giovani che presentano un malessere particolare e una depressione certa. Il gioco del foulard si pratica soprattutto durante la preadolescenza e l’adolescenza, fra gli 8 e i 18 anni. Bisogna tuttavia segnalare il caso di un bambino di 5 anni in una scuola materna che era stato iniziato da alcuni “grandi” della scuola elementare. Né il sesso né le origini sociali permettono di differenziare le vittime. In alcuni istituti, la pratica di questi giochi riguarda spesso più della metà degli allievi. Si trova in questi luoghi un’attrattiva deviata per il rischio. Tanto più che, se per alcuni l’esperienza è unica, per altri essa si ripete fino a due-tre volte al giorno per molti mesi. Alcune varianti del gioco del foulard rendono il fenomeno difficile da comprendere, complicandone la prevenzione. Le ragioni sono molteplici. Le une riguardano le caratteristiche dei giocatori; altre riguardano le incertezze relative alle cause di decesso. Poiché questo gioco è praticato da giovani dai 4 ai 21 anni di età, cioè anche da adulti, è difficile considerare una problematica comune su un periodo così vasto. Inoltre, questo gioco è frequentemente deviato dalla sua forma d’origine grazie all’introduzione di una competizione fra i partecipanti, che devono tenere il foulard il più a lungo possibile senza svenire, o all’introduzione di un obbligo, una sorta di “tanto non ci riesci” per “il giocatore attivo”, che non esiste nella sua forma iniziale. Il rischio è allora notevolmente accresciuto. 116

Se il gioco è inizialmente sempre praticato in gruppo, alcuni finiscono con il tentare l’esperienza da soli a casa loro e di nascosto dai genitori. La nozione di condivisione e di integrazione si attenua, in questo caso, a vantaggio della sola esperienza individuale. Nel gioco solitario, il ruolo di regolazione e di sostegno del gruppo sparisce e aumentano così i rischi per il giovane: ricorso “abusivo” al gioco, controllo difficile della durata e dell’intensità, assenza di testimoni che permettono di dare l’allarme in caso di problemi. La pratica solitaria si rivela dunque ben più pericolosa della pratica in gruppo; è questa, del resto, a causare più morti. Così, il censimento delle cause dei decessi è difficile da stabilire, perché, di norma, si può parlare di incidente domestico per i più piccoli, di suicidio o di incidente dovuto a comportamento autoerotico per gli adolescenti, in particolare per i maschi.

Il fenomeno Jackass Il fenomeno Jackass è legato ai giochi violenti evocati in precedenza. Jackass significa “idiota” o “buffone” in gergo californiano13. È, all’origine, il nome di una decina di persone di età compresa fra i 18 e i 34 anni che giocano a testare su di sé i limiti della violenza e del dolore14, filmando le proprie azioni prima di diffonderle attraverso la TV o Internet. Il peso dei media Uno show di White Trash TV15 fa nascere un vero fenomeno sociale il cui unico fine è il “fun”, cioè il divertimento. Poiché nel 1996 l’acrobata Johnny Knoxville si propose di testare su di sé delle tute protettive, Jeff Tremaine, redattore capo di «Big Brother», rivista di skateboard e di humour, ebbe l’idea di filmarlo, realizzando così un video esilarante e 13 Letteralmente, “persona che somiglia a una scimmia a causa della sua ostinazione e della sua mancanza di intelligenza”. 14 Johnny Knoxville, Bam Margera, Chris Pontius, Ryan Dunn, Brendon Di Camillo, Dave England, Ehren McGhegan, Steve-O, Jason “Wee man” Acuna, Raab Himself. Tutti sono professionisti dello spettacolo: acrobati, appassionati di sport estremi, skater professionisti o artisti da circo. 15 “Tv spazzatura guardata da bianchi”.

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sconvolgente. Seguirono molte riprese, facendo aumentare la popolarità di Knoxville nel mondo dello skate. Ne nacque un pilot, che associava alle acrobazie di Knoxville dei videoclip dei CKY (Camp Kill Yourself16), piccolo gruppo guidato dallo skater Bam Margera, che registrava già le sue buffe acrobazie su video. MTV America comprò questo pilot. Jackass era nato… divenne rapidamente lo show più seguito su MTV USA, sottoponendo i telespettatori a provocatorie e dannose acrobazie per tre stagioni, dal 1999 al 2002, seguite da molteplici repliche. Lo sviluppo del fenomeno L’Europa non è risparmiata. Il fenomeno raggiunge la Gran Bretagna con il gruppo Dirty Sanchez17. In Germania, il Project Senseless viene trasmesso sul canale ZDF; in Spagna è Lalefa.com e in Italia, gli Italian Jackass. Anche la Polonia è interessata dal fenomeno. In Canada lo show ispira anche il proprietario di un bar che propone ai clienti di eseguire delle acrobazie in cambio di consumazioni gratuite. In Francia, il programma, in onda dopo le 23.00 a partire dal 2001 su MTV France, conoscerà il suo apogeo nel 2003-2004, con un aumento dello share di oltre il 170%. Il fenomeno è presente anche nel cinema. Jackass movie esce nelle sale USA nel 2002 e incassa 25.000.000 di dollari nel primo week-end. I Jackass si dedicano a tutte le esperienze di cui avevano dovuto privarsi su MTV e ne approfittano a livello pubblicitario, insistendo sul fatto che il film presenta delle sequenze che non possono essere mostrate in TV, come torture praticate con stimolatori muscolari elettrici o gli effetti dei morsi di un piccolo coccodrillo. Due altri film, Jackass II e Jackass III, seguono rapidamente. In Francia, Michael Youn e i suoi compari escono nel 2004 con il film Les 11 commandements, realizzato da François Desagnat e Thomas Sorriaux, in cui si vede la banda saccheggiare un supermarket, trasformare una casa in piscina, fare pattinaggio notturno dopo aver assunto dei sonniferi, prendere in pieno volto dei calci di punizione scoccati da Djibril Cissé18 o giocare al beach volley con un’erezione in corso. 16

“Campo suicidati”. Dirty Sanchez è prodotto da un gruppo formato da tre gallesi e un inglese, emuli di Jackass, ma con comportamenti ancora più provocatori; le loro prodezze sono accompagnate da consumo di alcol e ubriachezza. Anche i loro video sono diffusi da MTV. 18 Calciatore francese attualmente attaccante della S.S. Lazio, N.d.T. 17

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Questi programmi televisivi e questi film suscitano le controversie più vive. Scandalizzano e provocano le reazioni delle associazioni di famiglie e quelle di numerosi genitori quando mostrano, per esempio, giovani che scendono di corsa le scale o un pendio ripido dentro a un carrello per la spesa, si danno una martellata sui piedi, si colpiscono brutalmente la testa con un paletto o si agganciano i testicoli a una tavola sotto l’occhio di una telecamera. Le sequenze – che pretendono di essere delle gag… – sono molteplici e diversificate e vanno dal classico “gioco delle torte in faccia” alle acrobazie, a scherzi crudeli, scatologici o vandalici, alle torture più violente. Così si vedono giovani che rotolano nello sterco, mangiano del vomito o che si fanno infliggere delle scosse elettriche nelle parti più sensibili del corpo, mentre le scene presentate sono contemporaneamente stupide e pericolose e giocano sulla derisione e la provocazione, spingendosi fino all’esibizionismo e al masochismo. Jackass è infine sul web, su siti come quello di Steve-O o di FunHumour.com, che si vantano di mostrare sequenze che sarebbero censurate se fossero trasmesse in TV. Questi siti consentono anche di scaricare degli screensaver, dei font, delle immagini e dei giochi, il cui obiettivo è, per esempio, “trucidare Johnny Knoxville”. Fatto ancor più grave, alcuni emuli di Jackass riproducono le imprese che hanno ammirato in TV o al cinema, le filmano e le pubblicano sui propri siti. Il fenomeno prende così i tratti di una vera “cultura” per adolescenti. La situazione in Francia Il CSA19 può difficilmente intervenire per le immagini diffuse via satellite dall’estero. Poiché i bollini rossi segnalano che le trasmissioni sono riservate ad un pubblico di maggiorenni e che le scene presentate non devono in nessun caso essere riprodotte dagli spettatori, essi sono spesso percepiti dagli adolescenti come incitamenti a guardarle e a imitarle. Alcuni giovani riprendono queste sequenze, filmandosi con delle telecamere o dei telefoni cellulari. Sono, per riprendere l’espressione utilizzata da Canal+, nel film Di Valentine Gay ed Ariel Wizman realizzato da Bernard Faroux, i “nuovi adolescenti masochisti”, emuli della “Trash TV”. Questi adolescenti sono fan di Jackass. Anche se non sono adolescenti quelli che, all’origine, ne sono gli eroi, sono tuttavia dei giovani, spesso mino19

Consiglio Superiore delle trasmissioni Audiovisive.

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renni, a imitarli. Gli autori del reportage realizzato da Canal+ hanno così incontrato a Chalon-sur-Saône quattro diligenti studenti delle superiori, di età compresa fra i 15 e i 17 anni, che vivono in famiglie perfettamente sane e che, come altri gruppi di adolescenti, imitano i loro idoli davanti alla telecamera, per poi diffondere le proprie imprese su Internet. Il loro entusiasmo è grande, anche se, come evidenzia il documentario, l’argomentazione sviluppata per spiegarlo è delle più tristi: «Si può provare vergogna, ma si è talmente contenti di mostrare agli altri che si è deficienti e coglioni, che l’entusiasmo ti trascina». Sguardo e sentimento I comportamenti osservati in questi giovani possono orientarsi secondo due assi, uno relativo allo sguardo e uno relativo al sentimento. Il primo ha a che fare con l’esibizionismo, il voyeurismo e la provocazione; il secondo ha a che fare con il sadomasochismo, l’automutilazione, l’umiliazione e la scatologia. Questi adolescenti cercano di mettersi in mostra in situazioni pericolose e/o scatologiche, a volte al limite della sopportazione, compiacendosi del dolore proprio e di quello altrui. Tali comportamenti si abbinano a condotte a rischio frequenti durante l’adolescenza, che associano l’espressione di un malessere e la ricerca di emozioni, permettendo ai giovani di mettersi alla prova e di accertarsi della propria esistenza grazie ai pericoli che corrono. Questi rischi sono di tre tipi: • un rischio fisico – il fenomeno comporta un’escalation continua nelle condotte di sfida e nella ricerca di sensazioni estreme, e l’alternativa che deriva dai comportamenti non può condurre che al successo o al fallimento, cioè ad incidenti gravissimi, ovvero mortali20; • un rischio sociale – questi comportamenti trasgressivi possono generare la desocializzazione del ragazzo; • un rischio psicologico – ci si può interrogare sulla rimozione che avviene in loro: la pulsione alla conservazione dell’Io potrebbe 20 Dalla comparsa del fenomeno, si sono ripetuti incidenti che hanno coinvolto giovani emuli di Jackass; alcuni si sono rivelati persino mortali e hanno costretto MTV USA a sospendere la trasmissione del programma.

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rimuovere l’insieme di questi stimoli che mettono in pericolo il giovane, ma questa rimozione lascerebbe temere un ritorno del rimosso che potrebbe esprimersi sotto altre forme, come violenza, la depressione, perdita del buon senso e tendenze suicide. Questi comportamenti permettono inoltre agli emuli di Jackass di dimostrare agli altri la propria esistenza, di far vedere che sono determinati, che sono capaci di sfidare la paura, di giocare con la morte e di guadagnare così il diritto di vivere. Perciò, bisogna andare avanti, bisogna spostare i propri limiti. La domanda che si pongono allora è: “Fin dove possiamo arrivare?”. Questa ricerca è tanto più disperata durante l’adolescenza quanto i cambiamenti fisiologici legati alla pubertà generano il desiderio di testare questo nuovo corpo, e l’escalation nell’accettazione del rischio corrisponde alla difficoltà di scoprire nuovi limiti. Tuttavia, come nota Le Breton (2004), questi limiti non riguardano solo l’esperienza corporea, ma anche una dimensione contemporaneamente sociale e morale. Le loro “Jackassate” sono così un modo simbolico di dimostrare, in una società che non propone più dei riti iniziatici per divenire adulti, che essi non sono più bambini. Tali condotte necessitano della presenza di un pubblico, quello dei pari che partecipano all’azione, che stimolano la competizione e la sfida, che li spingono ad andare sempre oltre, così come il vasto pubblico di Internet. Eppure, il tutto sembra un appello disperato. Le loro provocazioni si rivolgono probabilmente anche agli adulti in generale, e più in particolare ai genitori, per domandare loro se non provino dispiacere per la sofferenza – esteriorizzata nel dolore fisico – dei figli. Ricercando i propri limiti, questi giovani non cercano forse di mettere alla prova i limiti degli adulti? Le sfide affrontate dai giovani adepti di Jackass si svolgono sempre sotto lo sguardo dei pari, che li valorizzano ed incoraggiano. Questo sguardo, ricorda Le Breton, ha l’effetto di rendere più preziose queste condotte a causa della valorizzazione del rischio nell’immaginario adolescente della virilità, ma anche attraverso il timore di essere considerati dei vigliacchi. È impensabile sottrarsi alla prova: tirarsi indietro produrrebbe una perdita di autostima e del posto che si occupa all’interno del gruppo. Perdere la propria identità è certamente più temibile che perdere la salute e la vita. 121

In passato, i giochi in cui si trasgredivano i divieti e a cui si dedicavano gli adolescenti erano nascosti. Ora, i giovani si sovraespongono allo sguardo degli adulti e della società. Come sottolinea Marcelli, ciò che affascina ormai questi adolescenti “moderni” è fare tutto il possibile per mettere lo spettatore in uno stato di disagio. Bisogna attirare lo sguardo per farsi riconoscere. Bisogna provocare per essere ammirati. Questo sguardo è indispensabile ma fugace. Per eternarlo, è necessaria la registrazione. Come sottolinea Tisseron, gli adolescenti sono stati abituati sin dall’infanzia a farsi filmare dai genitori in circostanze particolari: i primi passi, il primo taglio di capelli, i compleanni, ecc. E i video delle “Jackassate” imitano proprio quel tipo di situazioni. Queste immagini hanno infatti la funzione di un’incisione, ma ogni incisione ha il suo rovescio e le immagini registrate oggi rischiano forse di tormentare l’adulto di domani. Quel che è poco chiaro è se questi ragazzi siano o saranno mai in grado di provare vergogna. I loro comportamenti esibizionisti e scatologici traducono la rottura con le proibizioni tutelate normalmente dalla paura del ridicolo. Ora, la minaccia della vergogna sembra qui senza effetto e affrontarla manifesta in qualche modo un distacco dal legame sociale. L’humour permetterebbe di regolare questa vergogna facendo prendere le distanze dall’avvenimento e rinforzando l’unione del gruppo. Rito iniziatico o ritualità desimbolizzata? Non ci sono più, ai nostri giorni, in Paesi come la Francia, dei riti iniziatici che permettano ai giovani di segnare la propria storia individuale e di consacrare il proprio valore esistenziale, da cui queste prove cui essi si sottopongono in presenza di alcuni amici e sotto l’occhio di una telecamera: siamo in presenza di una specie di rischiosa ordalia. Attraverso l’accettazione del rischio, essi affrontano la morte per affermare di esistere, sperando di ottenere, se ne escono vivi, il senso di sicurezza che manca alla loro esistenza. Eppure, la morte, ad ogni momento, può reclamare ciò che è suo. Il rischio veramente corso non è percepito oppure è ignorato. È negato il fatto stesso di mettersi in pericolo. I salti sconsiderati e le acrobazie illustrano bene il fantasma ordalico di affidarsi al destino. Certo, la dimensione ludica è pregnante: partecipano per il “fun”; 122

l’ordalia è tuttavia evidente perché rischiano davvero e il senso di questa sfida è perfettamente simbolizzato dal logo di Jackass: il teschio. Questa ordalia segna la fine dell’infanzia e l’ingresso nel mondo degli uomini. Il gusto per il rischio assomiglia allora, come sosteneva Françoise Dolto, a una specie di parto attraverso cui l’adolescente si mette in pericolo per rinascere adulto. Knoxville e i suoi compagni hanno dunque reintrodotto le prove rituali che mancano agli adolescenti di oggi? Si può davvero tentare di confrontare queste sofferenze auto-inflitte e quelle che erano imposte dalla società e a cui i giovani non potevano sottrarsi? Allora era la società che decideva, in uno spazio e secondo regole ben definite, le prove alle quali i giovani dovevano sottoporsi. Oggi questo non avviene più e, come ricordava Pommereau in un colloquio con Jacques Brodeur21, «in una società in cui gli spazi di evoluzione non sono più definiti dagli adulti, i giovani devono arrangiarsi per trovare i loro spazi di confronto. E meno gli adulti reagiranno, più le provocazioni si radicalizzeranno, tanto questa ricerca di conflitti dipende dal disinteresse del campo sociale». Una condotta a rischio può forse diventare una prova rituale? Questo non è escluso, sembra, se tale prova beneficia di una certa considerazione da parte degli adulti. Qui però si tratta di una trasgressione delle norme socialmente stabilite, di rituali autoreferenziali che sfuggono totalmente al controllo degli adulti e i trentenni di Jackass non sono percepiti in quanto adulti capaci di iniziare i più giovani, ma piuttosto come degli adolescenti in ritardo, una specie di “adulescenti”, che introdurrebbero una confusione generazionale. Baudry (2000) parla così di “ritualità stravolta”, per designare questo rito d’iniziazione che non è comunemente condiviso, ritualità “desimbolizzata” che si caratterizza per la sua ripetitività, per la sua terrificante escalation nel pericolo, segno evidente del suo fallimento a significare qualcosa. I comportamenti eccessivi adottati da questi giovani alimentano la loro convinzione di appartenere a un gruppo all’interno del quale l’“oltre i limiti” e il “fun” sono chiamati a designare dei nuovi valori. Trovando in questi teams una nuova affiliazione, essi vi sono gratificati e partecipano ad azioni prestigiose che li valorizzano. Poiché sono alla ricerca di identità, essi ritrovano questo senso di sicurezza già evocato nella loro somiglianza con i pari. Rito di passaggio 21

Les dommages de Jackass, «Parents-ados», marzo 2004.

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o no, per questi giovani l’impresa filmata crea un senso e permette loro di integrarsi in un gruppo. E bisogna ancora interrogarsi sulla qualità di questo gruppo! Le condotte che li coinvolgono fisicamente permettono agli adolescenti di gestire la sovreccitazione corporale legata alla pubertà e l’angoscia che ne deriva. L’esasperazione filmata di questi comportamenti traduce allora un senso di tensione interiore, legata all’insoddisfazione pulsionale provata e permette loro di evacuarla. Essi tentano di estraniarsene praticando queste condotte pericolose, esibizioniste e scatologiche ispirate dalla trasmissione. Più il giovane ha paura, più tende a far paura per dissimulare la sua ansia, la sua “paura di aver paura”, di essere scavalcato dai propri desideri, di non essere all’altezza di ciò che gli altri si aspettano da lui. E se fallisce nell’azione intrapresa, la contraddizione che lo pervade gli presenta il suo fallimento come una scelta personale. Questa è l’essenza stessa di Jackass: la valorizzazione e il successo attraverso il fallimento. Regredire a una fase primitiva di sviluppo permette inoltre all’adolescente di scongiurare le minacce di un cambiamento di cui egli comprende i significati. Il reinvestimento in ciò che è anale si inserisce in questa prospettiva dialettica. Gli stravolgimenti che il giovane deve affrontare conducono a un’incertezza riguardo alla domanda: “Che cos’è mio? Che cosa non lo è?”, da cui il reinvestimento di quel che fu la prima appropriazione possibile del soggetto in divenire: l’oggetto anale, che spiega sia il fascino sia la riproduzione delle scene scatologiche di Jackass (Ladame, 2003). Questo fenomeno può non avere alcun impatto su uno spirito solido e corazzato, se è vissuto come un momento di divertimento puro e disinibito. Diversamente, mostrare a dei giovani dal carattere influenzabile e alla ricerca di identità che gli adulti possono fare e dire quel che vogliono, giocando con il pericolo, l’autorità e la salute, può rivelarsi disastroso; e questo tanto più se questo modello non è distanziato dalla realtà. In effetti, girato come un video amatoriale, nella logica dei piccoli filmati di famiglia, Jackass si avvicina più alla realtà che alla finzione. Gli adolescenti si identificano più facilmente agli acrobati di Jackass che agli attori del cinema. Il mondo degli eroi di Jackass non si contrappone più alla realtà della vita quotidiana, mentre l’impossibilità del rischio vissuto fonda l’importanza del rischio fantasticato e di eroiche avventure vissute per interposta persona. 124

Che si tratti di giochi pericolosi cui si dedicano a scuola, delle brutalità o delle pagliacciate che imitano, questi comportamenti hanno molteplici dimensioni: la provocazione, l’incoscienza e il bisogno di sfide, ma anche la necessità di mettere alla prova i propri limiti corporali e psichici, di rimuovere le proprie angosce, i propri timori e la paura di aver paura. Non si tratta di giovani che presentano patologie, ma che manifestano l’esigenza adolescente di riconoscimento da parte degli altri e da parte del gruppo. Le vittime accettano il supplizio perché è anche un modo di essere accettati dagli altri e di integrarsi. È una manifestazione della ricerca identitaria: dire che si esiste e mostrarlo a qualsiasi prezzo, fosse anche attraverso una cultura deviata, impregnata di masochismo, poiché la sofferenza che ci si infligge – e che procurerà piacere agli altri – è in qualche modo il prezzo da pagare per gioire dell’integrazione nel gruppo. Gli Skins parties Un altro fenomeno ricorda l’impatto di Jackass sui giovani, si tratta di quello generato dalla serie televisiva britannica Skins, trasmessa dal gennaio 2007 in Gran Bretagna, poi in Francia su Canal+ nel dicembre 2007, e su Virgin 17 a partire dal gennaio 2009, oltre che sul web. Questa trasmissione racconta la vita dissoluta di studenti di 16-18 anni che vivono a Bristol, nell’Inghilterra sud-occidentale, e che annegano i loro problemi nell’alcol, nella droga e nel sesso. Skins affronta temi controversi come il rapporto tra i sessi, la tossicomania, i disturbi della personalità o l’omosessualità, le famiglie monoparentali e la morte. Le prime stagioni raccontano storie di ragazzi come Tony, un abile manipolatore, della sua amica, l’ingenua Michelle, di Efy, la giovane sorella di Tony; di Sid, il loro amico sfortunato, innamorato di Michelle; di Anwar, che tenta di conciliare la religione musulmana con il sesso e la droga; di Cassie, l’anoressica; di Chris, l’allegro festaiolo innamorato di una delle sue professoresse; di Maxie, un ballerino gay, e di Jal, una clarinettista razzista. Disincantati, frustrati e bizzarri, questi adolescenti gestiscono con difficoltà i propri problemi familiari e sono grandi consumatori di droga. Gli adulti – genitori e insegnanti – sono abbastanza nevrotici e, in preda a problemi psicologici e sessuali, si rivelano incapaci di fornire dei punti di riferimento o dei valori credibili. I vari episodi si incentrano su uno di 125

questi personaggi, mentre i primi e gli ultimi riguardano piuttosto i protagonisti nel loro insieme. Secondo il giornalista Alain Carrazé, direttore della 8 Art city22, questa serie seduce gli adolescenti, perché è “un esempio di autenticità spogliata di una visione moralizzante” e i giovani si riconoscono in questi personaggi bizzarri. Il suo successo è stato tale da condurre giovani inglesi a creare un nuovo tipo di serate nel corso delle quali tutto è permesso, in cui riproducono le orge che hanno visto in TV. La cosa ha ispirato gli adolescenti francesi che si ritrovano, a loro volta, in alcuni Skins parties, dove provano sesso, droghe e provocazione. In un articolo apparso ne “L’Express” del 14 settembre 2009, intitolato In uno Skins party non ci sono divieti né limiti, Franck Berteau descrive una di queste serate. La scena si svolge a Quai-de-la-Gare23, a Parigi, un venerdì verso le 23.00. C’è un gruppo di ragazzi che bevono e fumano spinelli, mentre aspettano di entrare in una chiatta all’ingresso della quale una ragazza timbra gli avambracci dei maggiorenni che avranno il diritto di consumare dei super-alcolici; i minorenni dovranno accontentarsi solo di birra o champagne. La provocazione e l’eccentricità sono i principali ingredienti di questa serata, dove ognuno può presentarsi vestito come vuole, a condizione che dia nell’occhio. Sulla pista da ballo, dei giovani si agitano freneticamente a ritmo di musica elettronica, mentre all’esterno, nell’area riservata ai fumatori, l’odore del tabacco e della droga si mescolano. In uno Skins party non ci sono, di norma, né divieti né limiti, è questa l’etichetta che garantisce la sua follia. Questa serata è abbastanza controllata: ci sono guardie che assicurano la sicurezza. Altre lo sono molto meno, poiché non sono organizzate in un luogo pubblico ma in abitazioni private o in locali abbandonati, dove i giovani possono lasciarsi andare davvero e i partecipanti sono avvisati all’ultimo momento sull’ora e sul luogo, via Internet. A Parigi, dal febbraio 2009, un’associazione ha così già proposto una decina di serate ispirate dalla serie televisiva, le cui parole d’ordine erano “libertà totale”, feste frequentate da un numero sempre più alto di skinners – da 150 a 1.300 persone. Il loro obiettivo era: “2010 = più alcol, più orge, più Skins parties”. Alcune serate si tengono perfino all’estero. Così, nel marzo 2010, è stata organizzata una serata in Belgio, con partenza da Parigi e parteci22 Agenzia 23

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specializzata in serie e fiction televisive di ogni tipo. Fermata della metropolitana di Parigi sulla linea 6°, N.d.T.

pazione (pasti esclusi) alla festa al prezzo modico di 40€. Il programma era attraente: «Voi lo aspettavate, noi lo abbiamo fatto. Lasciamoci andare, scoppiamo, amiamo, urliamo, balliamo, travestiamoci, festeggiamo, Skins! Scoprite un mondo a parte in luogo magico, come voi non lo avete mai visto […]. La regola è semplice: non ci sono regole». Il programma menzionava, inoltre, la presenza di ben due bar… “per risparmiare la metà del tempo24”. Questi skinners, ricorda Berteau, appartengono a ceti sociali diversi e hanno il comune obiettivo di «spingersi il più lontano possibile, senza preoccuparsi del domani… Perché in uno Skins party c’è di tutto, alcol, cocaina, hashish, ecstasy. Lo scopo è provare sensazioni forti». Per la sociologa Monique Dagnaud25, tali serate illustrano il “pessimismo sociale” che tormenta gli adolescenti, poiché costituiscono una parentesi in un’esistenza angosciata, resa problematica dalla paura del futuro e anche dalla vita quotidiana, poiché la società ha sempre più difficoltà a far loro posto e la pressione scolastica, alimentata dai meccanismi di selezione, è sempre più forte. Il fenomeno manifesta anche un’evoluzione della sessualità adolescente. Secondo l’INSEE, ricordano Laurence Debril e Julie Joly26, l’età del primo rapporto sessuale in 30 anni è cambiata poco, passando dai 17,9 anni per i maschi e ai 18, 9 per le femmine, a rispettivamente, 17,4 anni e 17, 6. Dietro a queste medie, ci sono, però, dei comportamenti inquietanti, poiché sempre più adolescenti hanno un’esperienza precoce della sessualità e poiché la banalizzazione della pornografia, Internet e i telefoni cellulari hanno trasformato la loro iniziazione sessuale, inducendo devianze e rischi. Le pratiche sono cambiate e, ai giorni d’oggi, avviene un culto della performance e una banalizzazione dei film pornografici. La dimensione del sogno e dell’ignoto è sparita, constata Le Breton, e gli adolescenti entrano in un universo sessuale formattato, nel quale domina il desiderio maschile. Il corpo è percepito come un oggetto da cui ci si può, o da cui si pensa di potersi, staccare, spiega lo psicologo infantile Stéphane Clerget. Sempre più giovani ragazze pensano che il corpo sia un oggetto da esibire su Internet, alcune finiscono con l’avere relazioni sessuali in cambio di re24

http://skinsparty-paris.com/contact_2602htm. Dagnaud M. (2008), La Teuf. Essai sur le désordre des générations, Paris, Seuil. 26 “L’Express”, 14 settembre 2009. 25

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gali o di soldi. Alcuni giorni adepti del sexting27 diffondono foto e video intimi della propria ragazza, senza sapere che questo sexting è un reato. Altri ragazzi praticano il dedipix. Si tratta della dedica di un’immagine – contrazione della parola “dedica” e “picture” –, fenomeno osservato nell’ambiente dei giovani blogger che postano il loro corpo fotografato dopo avervi scritto a pennarello il proprio nickname, affinché gli altri blogger possano scrivere dei commenti: ciò provoca un’escalation del fenomeno, perché il numero dei commenti è direttamente proporzionale al carattere pornografico dell’immagine. Negli Stati Uniti, alcuni giovani di 16 e 17 anni sono stati accusati di possesso di materiale pedopornografico nel gennaio 2009, in seguito alla diffusione di fotografie di nudi e una ragazza di 18 anni si è impiccata dopo che il suo ragazzo aveva diffuso a scuola alcune immagini in cui lei compariva nuda. Inoltre, tale pratica può attirare dei predatori pedofili che contattano i giovani attraverso il loro blog. Bisogna infine notare che l’evoluzione delle situazioni familiari (proliferazione dei divorzi, delle famiglie monoparentali e delle famiglie ricomposte) ha prodotto adolescenti più maturi, ma anche più liberi e più disillusi, che hanno un rapporto semplificato con la sessualità. Tuttavia è vero, come scrive Daniel Marcelli28, che se «l’esercizio della sessualità non è più conflittuale, la rottura sentimentale è una delle motivazioni più spesso riscontrate negli adolescenti che tentano il suicidio».

L’happy slapping Differente dai fenomeni precedenti poiché non si svolge necessariamente all’interno di un gruppo, l’happy slapping è particolarmente brutale. Consiste nello schiaffeggiare – colpire ancora più duramente o pestare – una persona che non se lo aspetta, mentre un compagno riprende la scena, generalmente con l’aiuto di un cellulare. La sequenza è giudicata tanto più buffa quanto più la vittima è presa alla sprovvista e non può reagire. Una volta filmata la scena, i “compagni” si scambiano il video di cellulare in cellulare oppure lo postano sui loro blog. La vittima conosce così una 27 Il sexting o sexto consiste nell’inviare delle fotografie sessualmente esplicite dai cellulari, attività praticata soprattutto dai giovani adulti e dagli adolescenti. 28 Marcelli D. (2008) in D. Le Breton, D. Marcelli, Ph. Merieu, P. Duret, Cultures adolescentes – entre turbolence et costruction de soi, Paris, Autrement.

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duplice umiliazione: anzitutto nel cortile della scuola nel momento in cui viene colpita, poi nei giorni successivi, a causa della diffusione del video. Esiste una variante consistente nel danneggiare i beni materiali, più spesso autovetture, e a incendiarle. Si parla in quel caso di happy burning. Uno studio preliminare Alcune aggressioni superano la semplice espressione di violenze ordinarie, poiché dei giovani sono arrivati a violentare una bambina di 11 anni e a filmare il tutto con il cellulare. Iniziato nel sudest di Londra nell’autunno del 2004, l’happy slapping è un fenomeno tipico della yob culture29. La nascita di questo fenomeno in Inghilterra è associata, secondo alcuni, a una reazione diretta dei giovani all’Anti-social Behaviour Order30, emesso nel 2002 e modificato nel 2003 e 2004, per sanzionare i comportamenti antisociali degli adolescenti. Esso manifesterebbe le reazioni di sfiducia espresse da alcuni giovani verso i membri del Governo inglese che hanno seguito e/o sostenuto l’adozione di un simile provvedimento. Dopo l’Inghilterra, l’happy slapping ha conosciuto un grande successo in Germania, in Olanda e anche in Nord America. Si è diffuso dai cortili delle scuole alla strada e ai mezzi pubblici, e i semplici schiaffi sono spesso divenuti pestaggi in piena regola ai danni di un passante scelto a caso. È così che un uomo di 37 anni è morto in Inghilterra a causa delle ferite che gli avevano inflitto 4 giovani31. Altri 200 casi di happy slapping si sono verificati a Londra, nel corso dei sei mesi che seguirono questa vicenda. Simili attività ricordano l’inquietante escalation della violenza osservata negli ultimi anni negli Stati Uniti a causa di ciò che gli ameri29 Il termine anglo-australiano yob significa “teppista”, “hooligan”, e qualifica il gusto degli slappers per la provocazione senza mezzi termini. Alcune trasmissioni televisive come Jackass o Dirty Sanchez sono state accusate di aver favorito questo fenomeno, che consiste, in fondo, nello sviluppare dei comportamenti assurdi e infliggersi o infliggere ad altri delle pene corporali (Pavilloud, 2006). 30 Preceduto dal Crime and Desorder Act del 1988. 31 A Londra, il 30 ottobre del 2004, David Morley, 37 anni, è riempito di colpi, lungo il Tamigi, da una baby-gang di 4 adolescenti, tre ragazzi e una ragazza di 14 anni, che filma l’omicidio con una telecamera. I tre ragazzi sono stati condannati a 12 anni di prigione e la ragazza a 8.

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cani definiscono “catch da giardino”, che consiste nel battersi, appunto in giardino, con tutto ciò che capita sottomano, dal tosaerba alle cesoie per potare: anche in questo caso i combattimenti sono filmati e diffusi sul web. La Francia non è risparmiata: nell’aprile 2006, nel dipartimento di Yvelines, un’insegnante è stata vittima di happy slapping addirittura all’interno di una scuola. Dopo aver rimproverato un allievo per un ritardo, questi l’ha aggredita violentemente, mentre uno dei suoi compagni filmava la scena per postarla su un blog. All’inizio dello stesso anno, le immagini di uno stupro di gruppo ai danni di una ragazzina delle medie avevano già fatto il giro di un istituto nizzardo, mentre un po’ prima, in un istituto agrario, un ragazzo era stato aggredito da altri nove, mentre un complice li filmava. Sempre nel mese di gennaio, nell’Eure32, anche un adolescente di 15 anni e un giovane adulto di 20 sono stati vittime di schiaffi da parte di aggressori di 15 e 16 anni, e le immagini sono state postate su Internet. Altri quattro adolescenti sono stati così colpiti e filmati nel mese di marzo in una casa di Chesnay, nel dipartimento di Yvelines. L’happy burning si è sviluppato in Francia durante il periodo delle proteste nelle periferie nell’autunno del 2005. Alcuni sobillatori avevano incendiato delle autovetture e s’erano fatti immortalare in foto o video davanti ai resti fumanti. Un fenomeno vicino è quello prodottosi nella primavera del 2006, all’epoca delle manifestazioni giovanili contro il progetto del Contratto di inserimento voluto dal Governo, quando dei “vandali”, che gettavano sassi contro le forze dell’ordine, si sono fatti filmare dai loro compagni. Aggredire, ma filmare Queste aggressioni sono dirette non solo a rendere vulnerabili le persone, ma anche le relazioni interpersonali, manifestando, allo stesso tempo, una negazione dell’altro e un’attività comunicativa distruttiva. Esse sono raramente premeditate, si svolgono di nascosto e su bersagli casuali, secondo la fantasia dello slapper. Il ricorso a Internet per depositare le 32

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Distretto della Normandia, N.d.T.

espressioni di questa socialità deviata pone il problema dell’esistenza di una frontiera fra le pratiche sociali violente e quelle non-violente e il loro carattere legittimo/illegittimo, divertente/non-divertente. L’happy slapping va al di là di una contestazione implicita o esplicita, della denuncia di un potere coercitivo che esercita una sorveglianza sui giovani. Non manifesta più un bisogno di integrazione sociale attraverso una simbolizzazione negativa; non ha gli attributi tradizionali della piccola delinquenza, anche se ne prende spesso le forme. Come nota Tisseron33, gli adepti dell’happy slapping sono in uno stato di confusione che bisogna prendere molto sul serio a proposito del valore da accordare alle immagini, poiché i giovani pensano che esse rappresentino sempre avvenimenti realmente accaduti. Pensano così che basti mostrare la propria immagine mentre compiono qualche violenza per imporsi sui compagni. Questi ultimi, però, possono sempre mettere in dubbio la veridicità delle immagini, affermando che potrebbero essere truccate, che le scene sono recitate come a teatro. È l’eco che i media conferiscono agli avvenimenti ad assicurare credibilità alle foto e ai video degli slappers. Questi giovani non riescono neanche ad integrare la dimensione del gioco e del “come se” nella propria vita, perché sono troppo spesso messi a confronto con il mondo iperrealista degli adulti: bisognerebbe pertanto spingerli ad operare quell’integrazione e a guarire simili erranze attraverso il teatro e il gioco di ruolo. Quale rimedio applicare alla situazione? Alcuni istituti scolastici inglesi hanno proibito i telefoni cellulari che dispongono di una foto-videocamera per tentare di arrestare il fenomeno. Altre scuole hanno espulso i protagonisti di queste azioni. Ciò non ha prodotto un calo della popolarità delle aggressioni, perché poi si sono prodotte in luoghi pubblici. Il controllo dei giovani slappers da parte dei genitori si è rivelato inoperante, almeno così sembra, infatti è molto difficile sorvegliare e controllare atti che si svolgono in maniera tanto rapida. È difficile impedire la distribuzione dei video delle aggressioni su 33

In “20 Minutes”, 14 giugno 2006, Le happy slapping est à prendre au sérieux.

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Internet. Certo, alcune delle nuove disposizioni previste dalla legge del 5 marzo 2007 relativa alla prevenzione della delinquenza (Art. 222-33-3 del Codice penale), precisano le pene cui vanno incontro gli autori di queste infrazioni: tre anni di carcere e 45.000€ di multa se le violenze sono commesse su un minore di 15 anni, una persona in condizioni di vulnerabilità o un dipendente pubblico, come un insegnante. Sono inoltre punite dalla legge la registrazione e la diffusione di scene di violenza, così come è punito chiunque diffonda la moda di compiere simili atti. Forse sono pensabili altre soluzioni. L’effetto della tecnologia mediatica conduce a uno spostamento dell’indagine suscitata da questa pratica. Davanti alla difficoltà di un intervento diretto, bisogna operare indirettamente, impedendo che l’happy slapping diventi uno spettacolo. Bisogna proibire l’uso dei telefoni cellulari ai minorenni? È inimmaginabile che si impedisca ai giovani di accedere alla telefonia mobile. Sarebbe un inaccettabile attacco alla libertà di espressione, se si pensa che il 95% dei giovani possiede un cellulare, che è spesso visto come un garante della sicurezza personale, poiché permette a genitori e figli di contattarsi in caso di problemi. Il cellulare dà a ciascuno la possibilità di coordinare meglio la vita individuale e quella familiare. D’altronde, questo stesso cellulare, che alcuni utilizzano per praticare l’happy slapping, può anche prevenire un pericolo o salvare delle vite, come ad esempio quelle delle vittime dell’happy slapping… Forse si potrebbe bloccare a distanza alcune funzioni del cellulare – la videocamera, per esempio – nei luoghi come gli istituti scolastici, oppure in alcuni momenti particolari: non sopprimere l’uso del telefono cellulare, ma controllare l’accesso allo spazio di socialità digitale, cioè i blog, dove si condividono e si visualizzano i cortometraggi degli slappers. Lo sharking Lo sharking è un’attività estrema di strada che consiste nello spogliare i passanti, più spesso giovani ragazze. Questa pratica, nata in Giappone, è stata recentemente introdotta in Francia. È così che nel luglio 2008, nel nord, a Lille, vicino a una scuola, dei giovani hanno parzialmente denudato un’adolescente di 15 anni, tenendola per le braccia. Lo sharking quindi si pratica in due. Mentre uno dei protagonisti filma l’azione con 132

il cellulare o una videocamera nascosta, l’altro – lo shark34 – spoglia la vittima. Il duo seleziona un obiettivo, generalmente una ragazza in un luogo isolato. Il cameraman filma l’inizio della caccia per mostrare che si tratta di una semplice passante, non di una complice o di un’attrice. A un tratto interviene il predatore e, secondo la sua “specialità”, va a strappare i vestiti della vittima per esporre il corpo denudato, e poi si mette in salvo fuggendo, mentre il primo continua a filmare la scena: • il topsharking consiste nel denudare la parte superiore del corpo: lo shark attacca la giovane ragazza da dietro e tira verso il basso i suoi vestiti; • il lowsharking ha per bersaglio gonne e pantaloni; • il fullsharking tende a denudare del tutto la vittima. Le sequenze filmate sono in seguito diffuse su siti Internet come Youtube o Dailymotion. Questa azione, vissuta dai suoi autori come uno scherzo senza conseguenze, costituisce in realtà un danno all’integrità fisica delle vittime che può rivelarsi particolarmente umiliante, se non traumatico. Questa pratica ne evoca un’altra, osservata ogni anno, dall’inizio del nuovo millennio, nella metropolitana di New York, quella del No Pants, consistente, per qualcosa come 900 newyorkesi, nel riunirsi nel centro di Manhattan per togliersi pantaloni e gonne… Però si tratta di volontari, a differenza delle vittime di sharking. Il bum fighting Negli Stati Uniti, è appena apparso un nuovo “gioco”, il bum fighting35, che consiste nell’organizzare delle risse fra SFD adescati con un premio di qualche dollaro oppure con una bevanda alcolica. Questi combattimenti, filmati e postati su Internet, provocano la viva inquietudine delle associazioni che aiutano i senza tetto. Si contano così nel luglio 2008, secondo il National Coalition for the Homeless, più di 5.700 video di combattimenti tra barboni su Youtube. Questo fenomeno ricorda alcuni 34 35

Squalo. Combattimento fra barboni.

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video apparsi nel 2001, in cui alcuni SFD erano incitati ad eseguire delle acrobazie particolarmente pericolose, come saltare dal primo piano di un palazzo in un cassonetto della spazzatura. Siamo spesso in presenza di delitti, di crimini, che non sono molto lontani dalle discriminazioni e dal razzismo. Le vittime spesso esitano a testimoniare questi atti, per paura della polizia. Gli “attori” sono generalmente uomini giovani, spesso adolescenti. Inoltre i senza tetto filmati hanno “accettato” di prestarsi a queste umiliazioni, ma che valore ha un accordo in casi come questi, con persone alcolizzate e/o psicologicamente disturbate, che vivono in uno stato di miseria tale che un pugno di dollari o qualche bottiglia di birra costituiscono una posta in gioco allettante?

E Internet Nel 2006, il 50% delle abitazioni era dotato di un computer connesso a Internet, percentuale che saliva all’88% se si consideravano i professionisti. Il computer, Internet, i blog e soprattutto i videogiochi conoscono così uno sviluppo notevole: l’accesso a Internet è considerevolmente aumentato nel corso degli ultimi cinque anni e ha raggiunto oggi il 98% degli studenti, soprattutto quelli di sesso maschile. I giovani costituiscono di conseguenza la popolazione più esposta e la più bersagliata dai predatori del web. Già nel 2003, si connetteva più dell’87% dei ragazzi fra i 12 e i 17 anni (per giungere presto al 100%), mentre il fenomeno si è amplificato con l’introduzione di Internet mobile. In quanto spazio ludico, il web è uno spazio a rischio36. La capacità di interagire e di comunicare con gli altri è, per l’adolescente, una delle più grandi attrattive offerte da Internet, con le chat, i blog, i giochi. La sua vita privata può in questo modo essere violata in molti modi, quando per esempio riempie dei moduli per partecipare a concorsi commerciali, fornisce dati personali a sconosciuti incontrati in chat, si iscrive a differenti servizi che propongono vantaggi e regali, o crea il suo profilo se apre un account. L’accesso facile che Internet dà alla pornografia è anche una delle principali cause di inquietudine per i genitori, poiché ci si può ritrovare 36

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http://www.ac-toulouse.fr/web/1736-quelques-dangers-dinternet.php.

(accidentalmente?) su un sito pornografico. Anche la cyber-intimidazione è possibile – insulti e minacce giunti via e-mail, circolazione di commenti rabbiosi o razzisti. Dei predatori sessuali possono cercare un contatto, facilitato dall’anonimato delle comunicazioni che spingono alcuni a confidarsi, a svelare la propria intimità. Bisogna anche ricordare lo spam e le e-mail che invadono le caselle di posta elettronica, e tutte le informazioni equivoche che circolano sul web – siti estremisti e rabbiosi, che hanno intenti diffamatori, siti commerciali che, con la scusa di false informazioni, cercano di fare promozione e di vendere, siti che diffondono falsi allarmi, ecc. Sul web si trova anche un universo di violenze e di sadismo, come testi o canzoni altrove censurati. Ci sono infine giochi d’azzardo e siti di scommesse che possono provocare delle vere e proprie dipendenze, mentre alcuni videogiochi on-line possono rivelarsi pericolosi. I videogiochi Il giro d’affari dei videogiochi è oggi più importante di quello del cinema e ha toccato i 40 miliardi di dollari nel 2007, mentre in Europa le vendite hanno fatto registrare un incasso di 9 miliardi di euro nel 2003 e quasi 15 miliardi nel 2009. Circa 2.000.000 di francesi spendono ogni anno più di 115.000.000 di euro solo per l’acquisto di videogiochi per il loro telefono cellulare. Anche il mercato delle console è fiorente e la Nintendo Wii è cresciuta notevolmente sul mercato mondiale a causa del suo target familiare, mentre la XBox360 e la PS3, il cui target sono per lo più giocatori veterani, si differenziano poco, benché siano sempre in lieve crescita. Si contavano così in tutto il mondo, nel gennaio 2010, più di 66.000.000 di console Nintendo Wii (49% del mercato mondiale) contro 37.500.000 XBox360 (28%) e più di 32.000.000 di PS3 (24%). Questi giochi conoscono un immenso successo presso i giovani, ma presentano dei rischi. Possono infatti essere considerati come una droga. La questione crea un dibattito fra gli esperti ed è abbastanza ben esposta sul sito dedicato al “gioco eccessivo” dell’Istituto di medicina sociale e preventiva dell’Università di Ginevra. In alcuni giocatori, si ricorda, sono osservabili la perdita di controllo, pensieri ossessivi, comportamenti che non tengono affatto conto delle conseguenze socio-ambientali negative, che ricordano insomma fenomeni di dipendenza. Si sarebbe allora in 135

presenza di dipendenze comportamentali non dovute all’uso di sostanze psicotrope, talvolta qualificate come cyber-dipendenze, che si caratterizzano per il fatto che i videogiochi diventerebbero l’elemento organizzatore della vita dell’adolescente, che presenterebbe dei cambi d’umore notevoli, un sempre più frequente bisogno di giocare per raggiungere un certo benessere – fenomeno di tolleranza –, una viva irritabilità in caso di impedimento della pratica – sintomi di astinenza –, e il tutto conduce a un deterioramento delle sue relazioni sociali, delle sue attività scolastiche o professionali, uno stato avanzato di affaticamento e soprattutto l’impossibilità di regolare l’attività ludica. In altri casi, al contrario, la pratica eccessiva di questi giochi si presenterebbe piuttosto come uno dei sintomi delle difficoltà adattative correlative agli stravolgimenti puberali e alle modificazioni sociali e affettive che insorgono dopo qualche anno, ovvero alle difficoltà incontrate oggi per inserirsi socialmente e professionalmente. Sembra così necessario considerare con prudenza ogni relazione eccessiva con questi giochi prima di interpretarli in termini di dipendenza, coscienti però che spesso serve una diagnosi precoce. Bisogna anche considerare la molteplicità e la diversità delle motivazioni della pratica dei videogiochi: esse legano la ricerca di divertimento, di piacere e di eccitazione al bisogno di esperienze diverse, di interazioni sociali che escono dalla banalità quotidiana, ma anche di uno spazio che permette di esprimersi senza incorrere nella critica degli altri in un periodo in cui l’immagine di sé si deteriora, in cui si cerca la propria identità e i propri limiti. Internet può allora essere uno spazio in cui ci si può far riconoscere, mantenendo il proprio anonimato e mascherando il proprio aspetto reale sotto quello virtuale di un avatar37. Questa pratica, inoltre, permette di sfuggire, per un periodo, ai problemi della vita quotidiana e alle difficoltà emotive. Giochi utili allo sviluppo personale Giocando ai videogiochi, gli adolescenti sviluppano le competenze che permettono loro di “funzionare” meglio in società. Questi giochi divertono ed incoraggiano il gioco di squadra, iniziano gli adepti alla tecnologia, sviluppando le loro abilità scolastiche, le loro capacità di analisi e di problem solving, rinforzando la loro autostima attraverso la gestione 37 In origine, la parola avatar significa “trasformazione, metamorfosi”. È qui considerata nel senso di “personaggio che rappresenta il giocatore nei videogiochi”.

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di situazioni complesse e procurando loro la sensazione di appartenere a un gruppo di iniziati. Essi hanno dei comportamenti interattivi, che stimolano la creatività e la perseveranza, e partecipano alla socializzazione quando necessitano degli altri per scambiarsi dei consigli o superare delle difficoltà. Per risolvere i problemi, sono richiesti pazienza e spirito di iniziativa. Attraverso questi giochi, i giovani sviluppano competenze e strumenti cognitivi necessari alle esigenze della loro vita futura, scoprono un know-how tecnologico e apprendono l’uso di codici iconici utili nell’informatica. Questi giochi li conducono anche a delle identificazioni che permettono loro di appropriarsi degli elementi del mondo fittizio dei giochi e di confrontarsi con dei limiti e degli obblighi, di esprimere fantasie e sentimenti, oltre a sublimare l’aggressività che provano. Molteplici motivazioni Dedicarsi ai videogiochi può anche manifestare, per alcuni, il bisogno di colmare un vuoto emotivo e/o il desiderio di essere riconosciuti dagli altri, ma anche quello di fuggire la vita quotidiana: in questo caso, la dipendenza dai videogiochi è vista come un male minore rispetto ad altri tipi di dipendenza, per esempio quella dagli psicofarmaci. Bisogna anche considerare che i sistemi di retribuzione offerti dai videogiochi sono stabiliti in modo da indurre la dipendenza del giocatore, sia attraverso il sistema della competizione e del riconoscimento sociale, sia attraverso la crescente difficoltà delle azioni proposte. La reputazione del giocatore è costantemente a rischio e, per essere mantenuta a buon livello, deve essere alimentata dalle sue performance e dalla sua disponibilità, che sono veri e propri criteri di ammissione all’interno della maggior parte delle gilde. Questa reputazione deve potersi basare anche sull’equipaggiamento virtuale del giovane, sul tempo trascorso a giocare, sui titoli che egli ottiene e sui punti che totalizza. Si assiste inoltre alla tendenza crescente presso i giovani a privilegiare queste attività che si svolgono a casa: alcuni parlano addirittura di “esperienze fisiche”, quando vivono particolari avvenimenti virtuali, come battersi attraverso gli avatar, tendenza che si è diffusa anche nei meno giovani, se si pensa al successo ottenuto dalla console Wii e dal suo Wii Sports, che propone, fra le altre, cinque esperienze sportive differenti – tennis, baseball, golf, bowling, boxe – ognuna in grado di offrire delle sensazioni naturali, intuitive e realiste. I giocatori possono utilizzare una caricatura personale (Mii) nel gioco e sfidare quel137

la dei loro amici per personalizzare l’esperienza di gioco. Migliorando le proprie capacità, si accrescono anche quelle della caricatura e possono così vedere l’andamento dei loro progressi. È vero che i meno sportivi possono accontentarsi di sport intellettuali e di giochi come il celebre Brain Training del dott. Kawashima, elaborato da Nintendo, che, benché si rivolga ai più grandi, ha già venduto più di 9.000.000 di esemplari dalla sua uscita, nel maggio 2005. L’universo virtuale favorisce il narcisismo e l’avatar è un mezzo per farsi riconoscere e amare senza correre i rischi della vita reale. Così, alcuni giovani si dedicano intensamente a delle relazioni virtuali, che pensano non possano causar loro delle sofferenze reali o mettere in discussione la propria immagine, poiché nel gioco vige l’anonimato e possono farsi passare per chi vogliono, nascosti dietro all’apparenza ideale – ma virtuale – di un personaggio. Bisogna però valutare il rischio dell’alienazione del giocatore a causa del suo avatar, che è certamente un intermediario, ma anche l’unico depositario dello sguardo degli altri. Una passione divorante Negli anni ’60, con lo sviluppo dell’informatica, il termine geeks ha cominciato ad essere utilizzato per indicare i “secchioni” e i ragazzi “bravi in matematica” che, all’interno degli istituti scolastici e universitari, non si interessavano alla maggior parte delle attività dei loro colleghi. Intellettuali, rifiutati dagli altri, essi, in qualche modo, a spese della loro vita sociale, hanno trovato rifugio nel mondo immaginario del fantastico, della science-fiction o… dell’informatica. A differenza del nolife, che vive in un relativo isolamento, i geeks appartengono a comunità che si raggruppano su Internet e nel mondo reale, intrattenendo stretti rapporti con l’informatica e gli universi fantasy, senza essere dei puri e semplici adepti di strumenti tecnologici. Un nolife è una persona che consacra tutto il tempo di cui dispone alla propria passione, a scapito di altre attività, in una situazione di reale dipendenza che colpisce l’insieme delle sue relazioni sociali. L’espressione qualifica così, molto spesso, degli adolescenti che sono dipendenti dai videogiochi. Essa è stata anzitutto utilizzata per designare i giocatori dipendenti dai giochi on-line, come gli sparatutto in prima persona38. Dedican38

tiva.

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Giochi FPS (First Person Shooter), cioè con la prospettiva del giocatore in sogget-

dosi completamente alla propria passione, il nolife ottiene cattivi risultati scolastici e professionali, altera le proprie relazioni sociali, non si interessa neanche dell’igiene personale e provoca l’incomprensione di quelli che lo circondano, famiglia o vecchi amici. Alcuni nolife ne soffrono, ma altri non ne sono neanche coscienti e non pensano che il tempo trascorso in un universo virtuale li tagli fuori dal mondo reale. Tuttavia, essi avrebbero un’immagine negativa di sé e, secondo Michaël Stora, questa dipendenza fungerebbe in qualche modo da antidepressivo: le difficoltà incontrate all’interno della società, a scuola per esempio, e la fragilità emotiva potrebbero predisporre alcuni giovani alla ricerca di una via d’uscita dai loro problemi nei videogiochi, che permetterebbero un isolamento dalle pressioni sociali, da un ambiente giudicato ostile e dal loro stesso corpo. Giochi pericolosi? Insomma, i videogiochi – come del resto Internet – fanno paura alle famiglie, tanto più che la generazione dei genitori sa poco o nulla del loro funzionamento e, in ogni caso, ne sa meno dei figli. L’immagine del giocatore è spesso quella di un adolescente frustrato e con scarsa autostima. Questo sembra uno stereotipo, ma alcuni giovani – e del resto anche alcuni meno giovani – vivono in uno stato di dipendenza reale. Il rischio che i videogiochi influenzino il giovane, facendogli perdere il libero arbitrio, si rivela in parte una diceria introdotta dalle case produttrici come strategia di marketing. Esiste comunque un rischio di dipendenza e/o di isolamento, ma anche di stress, nel caso di giochi particolarmente violenti. I giochi on-line, giochi di ruolo in tempo reale, nei quali i partecipanti cambiano di identità ed entrano in una realtà alternativa, possono anche rendere alcuni giovani più fragili. I giochi violenti, per esempio, possono indurre chi li pratica a pensare che i problemi si debbano risolvere rapidamente e senza impegnarsi, che il miglior modo di risolverli sia eliminarli, che la società sia manichea e che sarebbe meglio agire secondo il proprio istinto invece che riflettere. Inoltre, il contenuto di alcuni giochi può rivelarsi particolarmente pericoloso. È così che un gioco creato in Giappone nel 2006 ha fatto recentemente scandalo in Francia, ma anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti: l’eroe si muove in un universo virtuale in cui deve violentare tutte le donne che può. Questo gioco inizia in una fermata della metropolitana, in cui il personaggio incarnato dal giocatore incontra una madre di fami139

glia che egli deve infastidire e poi violentare. Le occasioni di incontro si ripetono in seguito, lasciando libero sfogo alle pulsioni del giocatore che, se non è soddisfatto dell’effetto dei propri atti sulle vittime, può far partecipare altri personaggi. Può aggredire anche in altri luoghi, in un parco o in capannoni abbandonati. Se le vittime rimangono incinte, deve costringerle ad abortire: in caso di fallimento, il giocatore perde la partita… Però perde anche se… la vittima riesce a pugnalarlo. Tale videogioco è stato disponibile su un certo numero di negozi on-line prima di essere ritirato dal commercio e oggi lo si può acquistare solo in Giappone. Eppure, è ancora scaricato da alcuni in versioni crackate. Una simile rappresentazione di stupri può, secondo il sessuologo quebecchese Mario Larivée, incitare persone che soffrono di carenze affettive e sessuali a diventare dei veri e propri aggressori, e può apportare danni potenziali molto superiori a quelli di un film pornografico, che descriverebbe situazioni simili: solo che qui non si tratta di essere semplici spettatori, poiché il giocatore partecipa attivamente e controlla la situazione. Inoltre, aggiunge Larivée, presentare un crimine sessuale violento sotto forma di gioco contribuisce a banalizzare il crimine, oppure a renderlo accettabile, lo stesso dicasi di tutte le forme di umiliazione che il giocatore può far subire alla propria vittima. Anche altri giochi, sebbene meno violenti, possono rivelarsi problematici. Si può citare Clodogame, giocabile su Internet. Creato in Germania nel 2007, è stato lanciato in Francia nel luglio 2009. Esistono anche delle versioni in inglese, polacco e spagnolo e si sta espandendo in altri Paesi (Turchia, Russia, Stati Uniti). Gioco di strategia, propone di incarnare un senza tetto parigino il cui scopo è lasciare la strada e arricchirsi fino a diventare… castellano di Versailles. Per riuscirci, tutti i mezzi sono utili. Deve calcolare ogni cosa, fare economia, ragionare e manipolare gli altri senza tetto… Può comprarsi un animale da compagnia – o rubarlo – per impietosire i passanti, o farlo combattere con gli animali di altri senza tetto, imparare a suonare uno strumento musicale per poi esibirsi in metropolitana, creare una banda per attaccare altri senza tetto e controllare un quartiere, rubare orologi, portafogli o gioielli, o ancora assalire un venditore ambulante, il tutto senza dimenticare di monitorare la propria alcolemia. Il concetto ha sedotto la Germania, dove si contano 2.000.000 di giocatori, mentre in Francia sono poche migliaia. Se i creatori del gioco dichiarano che bisogna prenderlo alla leggera, per Benoist Apparu, Segretario di Stato all’edilizia, si tratta piuttosto di un’offesa alla dignità 140

umana. Pone il problema della legittimità di un videogioco basato sulla sofferenza fisica, morale e sociale delle persone che vivono per strada. Presentandole assetate di denaro e di ricchezze, ignora la complessità della loro situazione e le riduce a degli oggetti senza dignità. Non tutti gli adepti, certo, diventano dipendenti dai videogiochi, ma alcuni si rivelano più fragili di altri. Davanti alle difficoltà incontrate per trovare un’identità e accedere all’autonomia, essi cercano nel gioco una scappatoia che permetta loro di uscire dal mondo reale e di mostrare le proprie qualità senza abbandonare la famiglia né cercare un confronto diretto con i genitori. Si destreggiano così fra un difficile lutto dell’infanzia e una sfida sociale dura da affrontare. È allora che si verifica una chiusura nel gioco. Si parla di dipendenza quando i videogiochi diventano il principale o l’unico centro di interesse del giovane, quando si chiude in se stesso e abbandona tutte le altre attività. Egli gioca quasi tutti i giorni e per molte ore; ne trae una viva eccitazione, è di cattivo umore se gli si impedisce di farlo, abbandona le attività sociali, scolastiche e sportive e fallisce in ogni tentativo di regolare e diminuire il tempo consacrato al gioco. Cercando di dissimulare a tutti, in particolare ai genitori, il tempo che passa a giocare, egli si descolarizza per consacrare tutto il tempo di cui dispone alla sua passione, va a dormire tardi, salta i pasti e gli incontri con familiari e amici. Interventi possibili Dall’inizio del nuovo millennio, nel Centro medico Marmottan è stato organizzato un luogo d’accoglienza specifico per le persone che soffrono di dipendenze “non da droga”, più in particolare gli utilizzatori di videogiochi. Secondo Kavciyan, Rossé e Codina (200839), i giocatori che frequentano questa struttura sono per lo più giovani uomini, di meno di 25 anni, spesso celibi, che vivono con i genitori. Due momenti cruciali caratterizzano il loro percorso, il primo verso i 14 anni, quando stavano concludendo le scuole medie, il secondo alla fine delle scuole superiori, entrambi momenti di difficoltà in vista del conseguimento del diploma. Sono generalmente i loro genitori che, preoccupati perché li vedono stare giorno e notte davanti al computer, contattano inizialmente i medici; i giovani si presentano in un secondo momento, spinti dai loro conoscenti, 39

http://www.hopital-marmottan.fr/spip/spip.php?article91.

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talvolta di propria iniziativa. La loro problematica può essere accostata a quelle generalmente trattate in questo tipo di struttura, tossicomania e alcolismo, e riguarda il giusto modo di considerare il proprio corpo, o più esattamente l’assenza di un corpo, al quale si sostituisce un avatar che si batte, muore e rivive all’interno di un universo alternativo. Secondo Kavciyan, Rossé e Codina, possono essere distinti tre grandi profili: • il primo corrisponde a giovani che soffrono di disturbi psichici gravi, che trovano un nuovo equilibrio nei giochi di ruolo, e che bisogna orientare rapidamente verso dei luoghi che possano offrire loro delle cure appropriate, come i centri medico-psicologici, senza peraltro escludere un intervento mirato quanto al problema del gioco; • il secondo riguarda giovani alle prese con un conflitto “ordinario” genitori-adolescente (cristallizzato intorno a una pratica eccessiva di giochi on-line) che necessitano spesso di un breve periodo di monitoraggio; • l’ultimo profilo riguarda delle persone completamente assorbite da una pratica dipendente, per le quali si congiungono difficoltà sia a livello psicologico sia a livello familiare. Sembrerebbe che le pratiche eccessive di giochi on-line servano spesso a fuggire da una realtà giudicata inquietante e poco gestibile. Il primo tentativo di “fuga” ha spesso luogo all’epoca delle scuole medie, un periodo ricco di stravolgimenti legati alla pubertà e al prossimo cambio di ciclo scolastico. Poiché la perdita di un riferimento e il cambiamento spaziale in un corpo sconosciuto producono forti angosce riguardo alla realtà fisica, alcuni cercano allora rifugio in una realtà virtuale che li rassicuri. Questo universo è delimitato dallo schermo del computer. La prevedibilità è completa: se il giocatore eseguirà correttamente le azioni dovute, la sua evoluzione all’interno di questo universo magico sarà gratificante. Egli sfugge alla complessità dei rapporti umani e, se si impegnerà a sufficienza, la mancanza di influenza che aveva sul mondo reale importa assai poco. Il secondo distacco dalla realtà ha luogo alle scuole superiori, quando le relazioni tra pari di sessi diversi si intensificano, quando avvengono i primi innamoramenti ma anche le prime delusioni amorose. La fuga nella realtà virtuale è allora per essi l’unico modo di sopravvivere. 142

E i blog? Il termine blog deriva dalla contrazione delle parole web e log, che significa in inglese “giornale di bordo”. Il blog è un sito Internet semplificato, su cui una o più persone si esprimono liberamente secondo una certa periodicità. Si scompone in unità cronologiche che possono essere commentate dai lettori e ogni messaggio, chiamato “post”, consiste in un testo che può arricchirsi di elementi multimediali come fotografie, musica, video o link ad altri siti. L’autore di un blog vi esprime i propri umori e le proprie riflessioni in modo personale, ma può anche utilizzarlo come diario personale, con l’obiettivo di appuntarvi emozioni e pensieri. Apparso abbastanza presto sul web, il blog ha avuto solo di recente una grande diffusione, dovuta al considerevole aumento delle connessioni a Internet. I primi sono apparsi negli Stati Uniti alla fine degli anni ’90 e avrebbero preso piede in Francia solo qualche anno dopo, poiché il mercato degli editori on-line ha impiegato un po’ di tempo a mettersi all’opera. Skyblog, apparso nel 2002, è una delle prime piattaforme ad ottenere un rapido successo, in particolare fra gli adolescenti. Si possono contare così su questo sito qualcosa come 6.000.000 di blog nel 2006, e circa 28.000.000 all’inizio del 2010! Al loro interno esiste una frattura generazionale, che separa nettamente i giovani dai più grandi, sia per la frequenza dell’uso del blog che per la sua natura. Molti problemi giudiziari sono sorti così a causa di allievi che insultavano i propri insegnanti o che pretendevano di valutarli attraverso un blog. Diario intimo, diario “ex-time” Gli adolescenti sono sedotti dall’aspetto contemporaneamente intimo e comunitario dei blog, e dal fatto che permettono dei raggruppamenti per centri di interesse. Come sottolinea Serge Tisseron, questi blog forniscono loro l’occasione di esporsi, costituendo una pratica nuova che egli definisce di “ex-time”. Questa attitudine è paradossale solo in apparenza, perché i giovani vi condividono valori e opinioni, e partecipano così a identificazioni reciproche. Inoltre, poiché permettono loro di esprimere ciò che provano e di ricevere i commenti dei lettori, questi blog, come nota Lejeune (2000), li conducono a coniugare l’espressione personale con il bisogno di riconoscimento utile alla loro ricerca identitaria, e procurano la sensazione di costruire una comunità con regole e un linguaggio 143

specifico. Questo linguaggio è colloquiale, fonetico, compreso dai soli iniziati, i membri di una blogosfera40. I blogger non provano imbarazzo nello svelare la propria intimità, poiché sanno di beneficiare dell’anonimato e della comprensione dei pari virtuali, in una situazione che protegge sia la loro responsabilità sia la loro reale identità. Si danno, dunque, un’identità virtuale, uno pseudonimo attraverso cui essi marcano questo spazio personale che costituisce il proprio blog, si creano una nuova vita e assumono nuovi ruoli e nuovi status. Attenzione, pericolo! Avere un blog può dunque essere benefico, ma a condizione di essere coscienti dei pericoli che i giovani possono correre, poiché Internet è tutto fuorché un luogo intimo. Se, grazie ai blog, numerosi adolescenti hanno trovato un mezzo per esprimersi, questa presenza sul web comporta un’esposizione della loro persona che può essere usata da adulti malintenzionati per ottenere informazioni personali, o, fingendosi degli “amici”, per infastidirli. Postare delle foto e delle informazioni su di sé o su altri alla portata di tutti è pericoloso. Da una parte, la pubblicazione di fotografie di compagni minorenni senza l’autorizzazione dei loro genitori è illegale e comporta la responsabilità dei genitori dell’adolescente che le posta. Dall’altra, i blog sono concepiti per pubblicare ciò che si vuole in totale libertà – il fornitore del sito, infatti, declina ogni responsabilità sulla questione in un contratto che bisogna accettare per convalidare la propria iscrizione. Poiché l’accesso è gratuito, può essere compiuto all’insaputa dei genitori, ma non diminuisce in niente la loro responsabilità. I numerosi link disponibili in ogni blog permettono inoltre di navigare su molti altri siti e danno la possibilità di comunicare mascherando la propria identità. Ogni interlocutore, però, può evidentemente fare altrettanto e un adulto pedofilo potrebbe così, ad esempio, comunicare con dei bambini, facendosi passare per uno di loro. Molti giovani non hanno consapevolezza di questi pericoli e pensano che solo i loro amici e qualche sconosciuto – altri adolescenti… – possano avere accesso al blog. Essi rivelano così un numero spesso grande di dati personali e/o intimi, come la propria età, la residenza, la sede scolastica, i passatempi o i nickname di chat e il numero di cellulare. Queste informazioni permettono di rico40 Questo termine viene utilizzato per indicare sia l’insieme dei blog collegati da link, sia l’insieme dei loro autori.

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struire i loro percorsi, le loro attività e i loro centri di interesse. A causa dell’interattività del blog, che facilita il contatto diretto con il suo autore, questi dati possono presentare un carattere pericoloso per il giovane, se finiscono nelle mani sbagliate.

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Capitolo quarto

Bande che fanno paura

C’è una crisi della gioventù attuale? Questo tema, presente nei media, ricorda probabilmente che i giovani sembrano in crisi agli occhi della generazione adulta, perché questa non si riconosce più in essi, poiché non riesce più a far rientrare i loro comportamenti in schemi conosciuti come quelli relativi al conflitto tra le generazioni o ai problemi esistenziali, che permettevano, fino a poco tempo fa, di comprendere i fatti osservati. Le disfunzioni a cui si assiste ai nostri giorni quando si tratta dell’adolescenza sono sempre esistite, seppure in forme variate. Eppure, bisogna constatare che la violenza è diffusa e, se certamente non deve essere localizzata o stigmatizzata, è necessario riconoscere che oggi alcuni comportamenti sono particolarmente preoccupanti, tanto per la loro diffusione che per la loro precocità. Questo problema è, ciononostante, meno recente di quanto sembri. Certi giovani sono sempre stati stigmatizzati. Nel corso degli anni ’50 è così apparsa una nuova forma di socialità, quella delle bande giovanili. Strettamente localizzata a livello di età, essa faceva adepti in tutte le classi sociali. Minacciava l’ordine pubblico e prendeva la società alla sprovvista, poiché, a differenza delle bande che le avevano precedute nella storia, questi giovani non si appropriavano dei beni altrui, ma li distruggevano, gratuità inconcepibile nei termini della criminologia classica. Il mondo intero sembrava interessato dal fenomeno: giubbotti neri in Francia, halbstarken-kravalle in Germania, teddy-boys in Inghilterra, skunafolkke in Svezia, hooligans in Polonia, stiljagy in Russia, anderupen in Danimarca, nozem in Olanda, vitelloni in Italia, tsotsies in Africa, patotes in America Latina e hells angels negli Stati Uniti. Si isolavano dalla società adulta e reagivano attraverso comportamenti simbolici all’immagine ideale della giovinezza che era stata loro socialmente imposta (Monod, 2004). 147

Così, all’interno di una cultura marginale caratteristica, si costituivano delle bande, con il loro linguaggio, il loro look, i loro luoghi di ritrovo e i loro riferimenti culturali: stili musicali, etnia, ecc. A differenza di oggi, tali bande erano solo un preludio all’integrazione sociale, non certo il risultato dell’abbandono scolastico e della rinuncia a un futuro professionale. Senza la speranza di potersi integrare socialmente, c’è la forte tentazione di cercare (senza del resto trovarla) una qualche legittimità nell’azione antisociale e nella violenza, e le bande rappresentano allora non, come nel passato, un rito di passaggio dall’adolescenza allo status adulto, ma piuttosto un rischio di devianza verso attività a delinquere, come le sommosse nelle periferie, gli stupri di gruppo, i rodeo o l’hoolinganismo.

Gli stupri di gruppo o “giretti” La condizione delle ragazze che vivono all’interno delle periferie è particolarmente degradata. Devono infatti spendere molte energie per proteggersi dalle minacce e dalle violenze maschili, oltre che da costumi e tradizioni arrivati dall’estero. Devono, infatti, fare attenzione sia a chi frequentano sia a come si vestono, perché corrono il rischio di essere considerate “ragazze facili” e di essere “abbandonate dalla propria famiglia”. Truccarsi, fumare, mettere una gonna, questi comportamenti possono essere mal interpretati o anche provocare la collera del/dei fratello/i. Questo “protettorato” maschile e l’insicurezza tipica delle periferie problematiche spesso non lasciano alle adolescenti che la soluzione di “passare inosservate”, mascolinizzandosi o prendendo il velo islamico, mentre le altre rischiano la violenza sessuale, dai palpeggiamenti nel cortile della scuola o nello scantinato di un palazzo fino agli stupri di gruppo, i cosiddetti “giretti1”. 1 Come ricorda Mucchielli, l’espressione gergale “giretto” apparve nei media al posto di “stupro di gruppo” a partire dal 2001. Quella fu anche l’epoca di un vero e proprio incendio mediatico, poiché, fino a quel momento, tali fatti erano stati raramente riferiti dalla stampa. In quel periodo, invece, erano presentati come “argomenti sociali”, che provocavano analisi, commenti e testimonianze di professionisti e associazioni. Questa rilevanza mediatica si inseriva nel contesto delle campagne elettorali del 2001 e del 2002, centrate sul tema della “sicurezza”. La tematica entrava generalmente nei dibattiti relativi alle violenze sulle donne, all’integrazione e alla paura dell’Islam e aveva dei legami con la creazione del movimento politico “Né puttane né sottomesse”.

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La parola deriva dall’espressione gergale “girarsi una donna”. Alcuni ragazzi tentano brutalmente di appropriarsi in modo stabile dei servizi sessuali di una ragazza che conoscono e che, poiché ha già avuto delle relazioni sessuali con uno dei membri del gruppo, è in seguito “condivisa” con gli altri. I responsabili hanno 14 o 15 anni, mai più di 25. Le vittime hanno fra i 15 e i 16 anni. Esse in un primo momento tacciono per paura delle rappresaglie e per vergogna, spesso incoscienti della gravità della situazione che vivono. Tanto che, a un certo punto, i ragazzi si convincono che le vittime erano “d’accordo” e che, ad ogni modo, “andavano a letto con tutti”. Lo stupro può essere commesso senza violenza, perché la paura e la pressione psicologica esercitata dal gruppo basta a paralizzare la vittima, che si sottomette ai suoi aggressori, convincendoli così dell’esistenza di un accordo implicito. L’assenza di resistenza genera nella vittima un senso di colpa che, come lo stupro, può portare delle conseguenze gravi. Inoltre, il primo stupro macchia la vittima di una “reputazione” che ne fa il bersaglio di aggressioni successive; essa è qualificata come “taspé”, come “lopsa”. Se sporge denuncia è inoltre definita “lanceba2”. Nella primavera del 2000, un primo avvenimento, che risaliva in realtà al 1993, faceva la sua comparsa nei media: un’adolescente stuprata in due occasioni nello scantinato di una palazzina di Parigi. Dopo aver avuto dei rapporti consenzienti con il suo ragazzo diciannovenne, la giovane aveva visto spuntare 14 amici di lui: egli, infatti, aveva deciso di lasciarla a loro disposizione. Violentata a più riprese, ebbe il coraggio di sporgere denuncia. Qualche tempo dopo, raggiunta da alcuni dei suoi stupratori, veniva trascinata in uno scantinato per poi essere seviziata, “affinché”, dichiararono loro “si pentisse di aver sporto denuncia”. Un incendio mediatico per una pratica antica Nel 2001, la Francia scopre dunque i “giretti”, commessi da ragazzi di periferia. Il fenomeno degli stupri di gruppo è nuovo? Se ci si riferisce ai media, i “giretti” sarebbero un fenomeno apparso solo nel XXI secolo, in piena diffusione e individuabile in una determinata fascia della popola2 In un particolare tipo di slang giovanile, in cui si invertono le sillabe delle parole: “taspé = pétasse, baldracca”, “lopsa = salope, donnaccia”, “lanceba = balance, banderuola, traditrice”.

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zione: i “giovani di città”. Questi stupri di gruppo3 sarebbero più spesso commessi nelle periferie popolari da ragazzi nati da genitori immigrati, motivati da un maschilismo di ispirazione musulmana. Sono ampiamente oggetto dei media da qualche anno, anzitutto dal 2000, con il film La squale4, di Fabrice Génestal, poi nel 2002, con il libro-testimonianza di una giovane donna, Samira Bellil, Nell’inferno dei giretti, e con la nascita del movimento femminista “Né puttane né sottomesse”. Gli stupri di gruppo sono stati presentati come un fenomeno nuovo, in piena espansione, imputabile a giovani cresciuti in un determinato ambiente, che abitano quartieri problematici. La denuncia di questi “nuovi barbari” è stata oggetto di un consenso sia mediatico che politico. Si assiste, nel dibattito politico, a un fenomeno di “panico morale”, secondo l’espressione consacrata dalla sociologia anglosassone. Per il sociologo Laurent Mucchielli, la pratica non è nuova. Lo stupro di gruppo è un comportamento giovanile che si osserva nella storia delle società urbane almeno dalla fine del Medio Evo, poiché lo squilibrio fra i sessi, il controllo delle ragazze da parte dei loro genitori e la difficoltà del mercato matrimoniale metteva in crisi gli uomini giovani, celibi e poco ricchi. Esso ha un posto notevole nelle statistiche giudiziarie relative ai “giubbotti neri” negli anni ’60. Lo scenario è stereotipato e si svolge in due tempi: l’approccio con la vittima – spesso attraverso il suo ragazzo – poi, in un luogo isolato, in presenza della banda, rapporti sessuali forzati con ciascuno dei ragazzi, il tutto possibilmente registrato su un supporto audio o video. Il fenomeno, stabile da più di 20 anni, sarebbe cambiato, tendendo anche a diminuire, se ci si riferisce alle statistiche stilate dal Ministero della Giustizia5 o alle indagini che rivelano il debole peso degli stupri di gruppo rispetto ad altri crimini.

3 Per stupro si intende “ogni atto di penetrazione sessuale, di qualsiasi natura sia, commessa su un’altra persona tramite violenza o costrizione o di sorpresa” (Art. 222-23 del Codice penale). È punibile con 15 anni di prigione. La pena può arrivare a 20 anni se lo stupro è accompagnato da una circostanza aggravante, in particolare “quando è commesso da più persone che agiscono in qualità di autori o di complici” (Art. 222-24), cioè quando si tratta di uno stupro di gruppo. 4 La donna-squalo, N.d.T. 5 Il numero delle condanne per stupro di gruppo sarebbe passato da 172 nel 1984 a 145 nel 2002.

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Gli stupri di gruppo Secondo Mucchielli, il ruolo dei coetanei è normalmente equilibrato da poli di socializzazione che sono l’universo familiare e quello scolastico, e ogni polo è tanto più forte quanto gli altri due sono deboli. Dalla debolezza del polo familiare e scolastico deriva un forte senso di ansia, di autosvalutazione, di collera e di ingiustizia. L’appartenenza a una banda permette di sopravvivere psicologicamente e l’adolescente vi trova il suo posto e vi è valorizzato, al punto da avere l’impressione di dominare gli altri e di ottenere un riscatto sociale. In base all’orientamento della banda, si fa coinvolgere in comportamenti ribelli e in attività a delinquere. Queste logiche interne alle bande, i loro valori virili e il processo di affermazione attraverso la sfida e la provocazione possono essere all’origine di molti stupri di gruppo, in cui alcuni ragazzi si affermeranno come dominanti, mentre altri non faranno altro che seguirli, per dimostrare anch’essi le proprie doti e per evitare così l’esclusione dal gruppo. I “giretti” ne manifestano la coesione, un’affermazione virile collettiva, spesso anche un’iniziazione sessuale a carattere ludico, se non ritualizzato. Questi atti esteriorizzano il privilegio della mascolinità, esprimendo frustrazioni e pulsioni dirette contro la società; i responsabili sembrano vendicarsi – depersonalizzando la vittima – di una società in cui essi non possono collocarsi facilmente e che ricorda loro quanto siano esclusi e svalorizzati. Il senso di colpa è evacuato attraverso il funzionamento gruppale che scarica la colpa sulla vittima. I colpevoli Sfogliando un campione di 25 dossier giudiziari della zona parigina, Mucchielli rivela le principali caratteristiche socio-demografiche relative a fatti di periodi anteriori, notando che gli autori di stupri di gruppo sono nati in ambienti sfavoriti e cresciuti in famiglie numerose, e che hanno avuto più spesso dei percorsi scolastici fallimentari. Più della metà di essi, all’epoca del delitto, è senza un lavoro e circa la metà è stata già condannata per furto, rissa, oltraggio a pubblico ufficiale, uso o spaccio di droga, ma quasi mai per stupro. Unico fatto nuovo oggi: sono in maggioranza dei giovani d’origine straniera. Lo psicologo infantile Patrick Huerre, analizzando un campione di 52 dossier di perizie psichiatriche effettuate su richiesta della Giustizia sugli 151

autori di stupri, aggressioni e oltraggi al pudore commessi in gruppo, dà una serie di informazioni che definiscono un insieme di soggetti abbastanza omogeneo: questi adolescenti hanno più di 13 e meno di 26 anni – il 21% di essi ha 16 anni, il 15% ne ha 15, il 15% 17. Solo tre di essi hanno più di 23 anni. Sono ragazzi più giovani rispetto agli altri aggressori sessuali, che appartengono a una fascia d’età che va dai 20 ai 30 anni. La loro scolarità è problematica, per alcuni caotica; l’86% di essi è stato ripetente almeno una volta, il 42% alle scuole elementari, il 60% alle medie e il 18% in entrambe. Nessun soggetto ha studiato in un indirizzo scientifico, la metà ha studiato in un istituto professionale e il 15% si trova in una situazione critica, senza una reale speranza di inserimento lavorativo. Le professioni praticate dai genitori sono generalmente poco qualificate e poco gratificanti. Questi adolescenti sono spesso nati in famiglie umili, che vivono in periferia. Circa la metà di essi ha cinque o più fratelli, ma si ha anche un caso di una famiglia con 11 figli. Sono per il 52% originari del Maghreb e per il 20% dell’Africa nera; il 75% dei bambini di origine maghrebina è nato in Francia. Questi giovani non sono mai stati ricoverati in un reparto di psichiatria o di medicina per una causa psichiatrica. Non sono mai stati seguiti da psichiatri né hanno mai ricevuto dei trattamenti psicotropi. Solo un adolescente fra questi risulta aver tentato il suicidio. Invece, il 30% di essi ha già avuto a che fare con la giustizia, nella quasi totalità dei casi per furto, più spesso senza l’uso della violenza. Solo due soggetti sono stati condannati in precedenza per stupro. Per Mucchielli, questa pratica nei quartieri poveri dei grandi agglomerati deve essere compresa attraverso l’analisi delle bande e dei loro sistemi di norme. Laddove le fragilità familiari, l’emarginazione e il fallimento scolastico interessano i ragazzi dei ceti popolari, la banda e le sue norme maschiliste offrono a tutti un rifugio e un modo di valorizzarsi. In una banda, ogni adolescente può costruirsi una reputazione e acquisire il “rispetto” dei suoi pari, facendo sfoggio di coraggio e di intelligenza (dimostrando del “vizio”, come dicono loro) e sfidando gli adulti, in particolare quelli che rappresentano le istituzioni. Le vittime Mucchielli compila anche il profilo delle giovani vittime di aggressioni. Si tratta di adolescenti generalmente fragili, isolate sul piano relazionale, in conflitto con la propria famiglia, spesso fuggitive, che frequentano dei 152

ragazzi più grandi, benché ne conoscano la cattiva reputazione. Questo permette di dimostrare la loro emancipazione. Si integrano rapidamente in una banda, accettando di avere delle relazioni sessuali con alcuni dei componenti, comportamento che li conduce a discolparsi attraverso il disprezzo, pensando cioè che esse “meritino” quello che dovranno subire, che, insomma, “se la siano andata a cercare”. All’occasione, e per un pretesto più o meno futile, si compie il passaggio all’atto, iniziato da uno dei ragazzi, che trascina gli altri. La tendenza a praticare condotte a rischio aumenta la possibilità di essere una vittima, in particolare il consumo di alcol e droga può indurre una certa difficoltà motoria e cognitiva, che rende l’adolescente fisicamente incapace di resistere a un rapporto sessuale indesiderato. Avere diversi partner sessuali aumenta anche il rischio di essere vittima di stupro, perché si possono inviare dei segnali ambigui al/ ai partner. Per le vittime aumenta il rischio di malattie croniche, di disturbi somatici, di alcuni disturbi mentali, come la depressione e lo stress posttraumatico. Spinte a svalorizzarsi, a sentirsi pervase dalla vergogna o dal senso di colpa, alcune vittime sviluppano idee suicide e/o presentano condotte a rischio, come l’uso eccessivo di alcolici, l’uso di psicofarmaci, le scarificazioni, ecc. Tali comportamenti servono a consolare il loro disagio mentale ed emotivo, ma aumentano anche la loro vulnerabilità, e possono portarle a subire altri stupri e/o a sviluppare un’avversione per la sessualità, che potrebbe, a sua volta, spingerle a un consumo di alcol o di droga preliminare a ogni atto sessuale. Uno stereotipo pericoloso per una situazione complessa Lo scenario che si presenta ai nostri giorni, dice Mucchielli, non è certamente nuovo né specifico di quartieri poveri o dei giovani figli di immigrati. Lo stereotipo mediatico che associa questi ultimi agli stupri di gruppo si rivela doppiamente erroneo. Da una parte, in altre epoche, bande di adolescenti di quartieri popolari avevano già comportamenti simili, senza che questo avesse a che vedere con l’origine dei loro genitori. Dall’altra, gli stupri di gruppo si producono in altri contesti sociali – i campus universitari nordamericani, per esempio, che vedono coinvolti 153

dei caucasici6, membri delle confraternite di studi, cresciuti in famiglie di ceto medio-alto. Il problema è tuttavia complesso, perché le statistiche non sono affidabili. L’arcaismo di una cultura patriarcale si manifesta nelle periferie e attraverso micro-violenze che sottomettono il sesso femminile. I “giretti” sono una delle espressioni più gravi della posizione dominante dei maschi nello spazio pubblico delle città, e dell’assenza di spazio e di potere per le donne. Questi stupri di gruppo hanno generalmente un carattere premeditato e ripetitivo, e sono il risultato di un sistema di intimidazione e di minacce che costringono la vittima al silenzio e autorizza la ripetizione degli atti nel tempo. Questa violenza si spiega in parte attraverso il funzionamento stesso dei quartieri e il tipo di relazioni che lega ragazzi e ragazze. La dominazione si sviluppa nella vita quotidiana e nelle interazioni più banali all’interno del gruppo dei pari, a scuola e nella città, come testimoniano i termini che designano le donne e le relazioni sessuali, che insistono, appunto, sulla loro oggettivazione e sulla loro passività.

Gli hooligans L’origine del termine “hooligan” è incerta. All’indomani della rivoluzione d’ottobre, questo termine designava i giovani disadattati che circolavano in bande, che ignoravano le leggi socialiste e commettevano violenze. In seguito, anche i giovani, gli studenti e gli operai accusati di indisciplina dal Partito comunista sarebbero stati chiamati “hooligans”. Il termine designa oggi un giovane che si abbandona alla violenza e al vandalismo, specialmente durante le manifestazioni sportive, in particolare il calcio. Come nota Bodin, gli hooligans si rappresentano spesso come dei giovani delinquenti inglesi, di origine sociale sfavorita, mal inseriti socialmente, che rivendicano un’ideologia di estrema destra e appartengono a piccole cellule neonaziste. Questi non si interesserebbero veramente al calcio e verrebbero allo stadio solo per far danni, dopo essersi ubriacati. Si impegnerebbero così in devianze estremiste, tendenti a discriminare le persone in base alle loro origini etniche e culturali, e rivendicherebbero una preferenza nazionale o regionale esacerbata, per assicurarsi uno status 6 Il termine “caucasico” è correntemente utilizzato negli Stati Uniti per designare la popolazione bianca.

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all’interno di una società che li esclude. Tali rappresentazioni derivano da alcuni lavori anglosassoni degli anni ’80, basati su statistiche della polizia. In realtà, l’hooliganismo non si incontra solo in Gran Bretagna, esiste anche in Francia, anche se la sua esistenza tende ad essere taciuta, ovvero negata; presenta – in termini di violenze fisiche fra tifosi, di attacchi alle forze dell’ordine e di danni all’interno e all’esterno degli impianti sportivi – le stesse caratteristiche dell’hooliganismo osservato oltre-Manica. Si nota in particolare a Parigi, ma riguarda anche squadre calcistiche di altre città, come Bordeaux, Lille, Lyon, Marseille e Saint-Étienne. All’origine, l’hooliganismo non riguardava solo il calcio. Così il quotidiano sportivo “L’Auto” utilizza questo termine nel 1906 per qualificare il comportamento di vandali che danno problemi al Tour de France. Il fenomeno si rivela abbastanza frequente negli anni precedenti alla Prima Guerra Mondiale, ma diventa raro fra le due Guerre. Riprende dopo la Seconda Guerra Mondiale, cresce negli anni ’60 per raggiungere un’importanza notevole negli anni ’70. L’Inghilterra è particolarmente toccata, ma è in Francia, nel 1967, che i tifosi della Stella Rossa di Belgrado, scontenti di una decisione arbitrale, appiccano il fuoco e iniziano a devastare le tribune. La stampa a volte evita di criticare simili comportamenti. “France football”, per esempio, non disapprova alcune azioni violente che rispondono a decisioni arbitrali contestabili o a un intervento delle forze dell’ordine giudicato troppo forte e qualificato come “provocatorio”, come nel caso delle azioni della polizia spagnola ai Mondiali del 1982. Così, proprio all’inizio degli anni ’80, alcuni movimenti di estrema destra reclutano i tifosi più violenti all’interno dei propri servizi d’ordine, il che contribuirà a dare agli hooligans un’immagine politicamente marcata, benché il loro “orientamento politico” sia più vicino a una filosofia anarchica che a un modello fascista. Il 1985 è rattristato dal dramma di Heysel, il grande stadio di Bruxelles. Il 29 maggio, durante una partita di coppa UEFA, i tifosi della Juventus sono attaccati da sedicenti tifosi del Liverpool. Il servizio d’ordine è sopraffatto. Si contano 39 morti e 600 feriti. Le immagini trasmesse in diretta televisiva sconvolgono l’Europa, che fa finalmente la conoscenza dell’hooliganismo. Gli hooligans inglesi sono sotto accusa e l’UEFA, che troppo tardi sembra scoprire il fenomeno, esclude le squadre inglesi dalle competizioni europee per diversi anni. La polizia belga e l’UEFA sono condannate dalla giustizia belga per la loro incompetenza. Il 15 aprile 155

del 1989, il club del Liverpool è di nuovo colpito, in occasione della semifinale della Coppa d’Inghilterra a Sheffield, quando 95 tifosi dei Reds muoiono in una rissa. I tifosi inglesi non sono tuttavia gli unici ad essere coinvolti in incidenti gravi. Così, durante i Mondiali del 1998, sono degli hooligans tedeschi che organizzano a Lens, il 21 giugno, una vera operazione di guerriglia urbana, dopo l’incontro Germania-Jugoslavia, ferendo in modo grave un poliziotto francese. L’hooliganismo non risponde a una logica di determinismo sociale, ma può essere associato a una specie di “periodo di latenza psico-sociale”, in cui non si è ancora integrato il ruolo e lo status dell’adulto, e i giovani si inseriscono in una logica di costruzione identitaria e di concorrenza fra gruppi in un contesto di anomia sociale. Questa situazione anomica genererebbe i comportamenti hooligans. Si tratterebbe in qualche modo di un processo amplificatorio, che, dall’impossibilità di partecipare a un’azione attraverso movimenti leciti, condurrebbe alla ribellione. L’hooliganismo trova un ancoraggio nella disponibilità di alcuni dirigenti di club calcistici che, sotto il pretesto di una “liberazione controllata delle emozioni”, permettono agli stadi di diventare il teatro degli eccessi più gravi. La mancata applicazione delle leggi e delle norme in materia di sicurezza, questa forma di complicità con tifosi così pericolosi, mette in scacco ogni politica di prevenzione. Simili attitudini accentuano il concetto di “no man’s land” grazie al quale si commettono dei reati che rinforzano negli hooligans l’impressione che il campo da gioco goda di una certa extraterritorialità. Il deregolamento sociale rischia allora di indurre un processo di imbarbarimento che incita ad approvare la violenza. Contrariamente alle teorie suggerite, l’hooliganismo è opera di tifosi che si interessano al calcio e non di individui completamente estranei a questo sport. Questi giovani appartengono a gruppi strutturati. L’hooliganismo è infatti la devianza estrema del tifo. Ciò che lo rende deviante da esso è lo spostamento del campo da gioco verso gli spalti: parallelamente alla competizione che si svolge sul campo, le squadre di tifosi ingaggiano uno scontro fisico parossistico e la loro violenza tende a spostare i poli di visibilità dal campo da gioco verso le tribune. Harrington pensava che gli hooligans fossero dei tifosi autentici. Accade la stessa cosa oggi, come osserva Bodin. Sono generalmente dei giovani che hanno meno di 21 anni, che hanno una buona conoscenza del loro sport preferito e dei giocatori del loro club, di cui sfoggiano le insegne distintive. Leader 156

presenti a tutte le partite della loro squadra, sia in casa sia in trasferta, gli hoolingans costituiscono lo zoccolo duro dei tifosi. Si è notato che gli hooligans sono generalmente giovani. La loro importanza nell’ambiente calcistico, rispetto ad altri sport, è da mettere in rapporto con l’età media delle tifoserie: nell’ambiente del calcio, in effetti, il 61% dei tifosi ha meno di 25 anni, contro il 27% del basket, per esempio. L’hooliganismo può essere allora accostato al desiderio di autonomia di azione associata all’adolescenza. Questo desiderio di indipendenza si manifesta, del resto, anche nei confronti dei dirigenti dei club, dei quali rifiutano gli aiuti e gli incarichi, e questo tanto più se i giovani sono cresciuti in quartieri sfavoriti e fra gente che ha subito l’esclusione sociale. Come il tifo, l’hooliganismo si è sviluppato in Francia a partire dagli anni ’80, cioè in un contesto economico difficile, in cui molti giovani erano preda di vive inquietudini sul proprio avvenire. Integrarsi nel mondo degli ultras è una specie di sfogo per le difficoltà di integrazione sociale. Il calcio, sport popolare e praticato da numerosi giovani, glorifica il successo sociale e può sembrare il mezzo ideale per uscire da una situazione precaria. I dirigenti dei club calcistici hanno gestito in maniera ottimale le attività sportive e le loro ricadute economiche, ma non hanno saputo canalizzarne le passioni e si sono rivelati incapaci di limitarne gli effetti perversi. Hanno lasciato che si stabilisse un vuoto sociale nel quale si sono installati il tifo e la sua devianza, l’hooliganismo. È così che in assenza di un sostegno reale da parte dei club, e catalizzata da alcuni media, la passione per uno sport ha potuto trasformarsi in comportamenti violenti, trasformando la competizione fra giocatori in un conflitto violento fra persone. Come nota Becker, le norme sono trasgredite impunemente perché i club, come i tifosi, trovano un reciproco vantaggio nel chiudere un occhio di fronte ai reati che ne derivano.

Il rodeo Etimologicamente, il rodeo è una festa celebrata negli Stati Uniti in occasione della marchiatura del bestiame, quando i cow-boys gareggiano in prove di abilità il cui scopo è controllare una cavalcatura non addomesticata. Nelle periferie, in quartieri particolarmente degradati, la bestia 157

selvaggia è un’automobile di grossa cilindrata, che i giovani rubano e portano nel quartiere perché possano “marchiarla”. Il “rodeo”7 è dunque caratterizzato da un’orchestrazione precisa, ricorda Begag (1993). Un giovane va in città e ruba un’automobile di grossa cilindrata, corre nei vicoli, per le strade, tra le case, facendo fischiare le ruote e rombare il motore, poi lancia l’auto contro un ostacolo e la incendia. Per molto tempo appannaggio delle persone benestanti, l’auto, all’epoca della sua prima apparizione in Francia, ha suscitato dei conflitti sia fra le classi sociali sia fra la popolazione rurale e quella urbana. Oggi, democratizzata, l’auto divenuta accessorio banale della vita quotidiana, è ancora fortemente caricata di simboli e incarna la potenza e i rapporti di forza fra gli individui. È anche un simbolo di prestigio e di dominio, il cui possesso è associato, da alcuni giovani, alla virilità e in qualche modo a una “maturazione magica”, spiega Esterle-Hedibel. Essa rappresenta anche la mobilità sociale a cui i giovani di alcune periferie hanno difficilmente accesso; esclusi dal mondo del lavoro e dei consumi, si sentono costretti a una specie di immobilismo, mentre, fuori dalla città, la società “si muove” con frenesia, nota Begag. L’automobile fa parte, secondo loro, della panoplia del proprietario, come i vestiti e le scarpe firmate, e diviene l’oggetto da possedere per vivere l’illusione fugace di un ruolo nella società. Dal furto del veicolo alla devastazione finale Il furto della vettura è la prima fase di una condotta a rischio come il rodeo. Il ragazzo tende ad appropriarsi in maniera effimera degli attributi di potere e ricchezza del proprietario. Il fenomeno riguarda generalmente automobili prestigiose (spesso una BMW), la cui appropriazione fa credere al giovane di ottenere un certo status sociale, pur senza implicare un vero avvicinamento al resto della società. Praticato spesso in gruppo, il rodeo permette di organizzare sfide fra giovani e lo scopo è la ricerca di un piacere immediato, senza pensare alle eventuali conseguenze. Si tratta anche di provocare la società e le sue leggi, poiché queste condotte si manifestano spesso senza alcuna discrezione. Il furto è visto sotto la prospettiva del piacere e delle sensazioni che suscita – fenomeno ben illustrato 7 Si utilizza questo termine per la prima volta in Francia, in occasione di incidenti che si verificano a Vénissieux e a Villeurbanne nel 1981.

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dal modello psicobiologico della ricerca di emozioni di Zuckermann – in quanto evoca l’accesso a un livello ottimale dell’attività del sistema dopaminergico in caso di condotte pericolose: infatti, a differenza del furto a scopo d’uso, la vettura rubata è condotta in città per un rodeo. La condotta al volante riguarda abitualmente i legami sociali, poiché essa coinvolge gli altri in modo permanente e implica una responsabilità verso di loro. La condotta selvaggia testimonia, al contrario, un disprezzo delle regole sociali: i giovani che la praticano non hanno generalmente la patente né l’età per ottenerla e non rispettano in alcun modo il codice della strada. Guidare a velocità sostenuta permette loro di far mostra di virilità: sono pervasi da un senso di onnipotenza, possono mostrare la propria destrezza al volante e impressionare i pari attraverso una guida spettacolare. La “guida selvaggia”, come il furto che l’ha preceduta, è basata sulla ricerca di emozioni e si accompagna a un desiderio di competizione, di superamento di limiti e di affermazione di sé, come nota Le Breton. Il giovane non crede sia rischioso intrufolarsi fra le altre auto, bruciare semafori rossi o superare ogni limite di velocità, poiché, al volante del potente veicolo, egli si sente invulnerabile e sicuro di avere il totale controllo della situazione. Si instaura un gioco simbolico con la morte, che tende a legittimare la sua esistenza e il suo valore, tanto più che la società, che rifiuta ed è rifiutata, lo giudica negativamente. Si tratterebbe, come sostengono Michel et alii o Le Breton, “di provare il potere legato al fatto di sopravvivere”. Il fischio degli pneumatici e il rombo del motore, il rumore stridulo del cambio utilizzato senza premere la frizione testimoniano l’aggressività del pilota, esprimono la sua frustrazione e la sua impotenza, e permettono in qualche modo di espellere l’odio che egli prova per la società, e contro l’ostracismo che essa decreta; il tutto si conclude con i fuochi d’artificio finali, l’incendio del veicolo, che, lanciato velocemente su un ostacolo – contro un muro o un altro veicolo – è così marchiato, addomesticato, come il cavallo o il toro delle cerimonie americane. La distruzione finale offre allora un’ultima prova dell’indifferenza del ragazzo riguardo all’automobile, quale simbolo di integrazione sociale. Il peso dei pari nell’affrontare la morte Nei rodeo, i pari giocano un ruolo considerevole. Il gruppo spinge 159

l’adolescente ad affrontare il rischio: bisogna stupire gli altri, soggiogarli per mettersi in mostra in qualità di eroe ribelle. Rinunciare a tali comportamenti condurrebbe il giovane a perdere la stima della banda. Il concetto di rischio ha un diverso significato in base ai valori della cultura in cui si inserisce. Esiste una sfasatura fra le norme dominanti e quelle delle bande dei giovani cresciuti in ambienti difficili, impregnati di valori virili, in cui i comportamenti a rischio fanno parte integrante del loro modo di vivere. La partecipazione ai rodeo concorre altamente all’interiorizzazione di questi valori, tanto più che questo rapporto con gli altri si colloca nel breve termine, considerata l’assenza di ogni progetto sociale o professionale. Uno dei fini principali sarebbe allora l’azione. Questa, intrapresa di per sé, per le sensazioni che fa provare, deve essere immediata, poiché il giovane si mostra incapace di integrare dei progetti a lungo termine. Essa deve implicare il rischio e l’incertezza, permettere di vivere intensamente. Come nota un criminologo quebecchese, Maurice Cusson, essa contribuisce alla crescita personale dell’adolescente. Queste condotte sono una soluzione molto discutibile sul piano sociale; eppure, esse testimoniano un disperato bisogno di attività da parte del giovane che, per svilupparsi, ha bisogno di stimoli, di stress, di frustrazioni. In questi passaggi all’atto c’è una componente ludica, oltre al bisogno di fuggire la passività. La vita per la strada, l’obbligo di una vigilanza costante, di decisioni rapide, di uso della forza fisica, la necessità di essere astuti, di osservare e di lottare per difendersi, di manipolare gli altri, contribuiscono allo sviluppo individuale. Eppure, queste condotte hanno bisogno di ciò che Cusson qualifica come “presentismo”, un’attitudine rispetto al futuro caratterizzata dall’importanza del presente e dalla soddisfazione immediata del desiderio. La maggior parte degli adolescenti di circa 15 anni inizia a pensare al futuro e si fa un’idea più o meno confusa del lavoro e degli studi che compirà, ma almeno cerca delle gratificazioni non legate alla situazione immediata. Il presentismo, al contrario, induce condotte caratterizzate dall’assenza di perseveranza nei progetti a lungo termine, da una relativa incostanza e dall’impossibilità di compiere determinate attività se il risultato è collocato nel futuro. Il presentismo è originato da due fattori: l’assenza di una disciplina familiare e una lunga serie di fallimenti. Se il bambino non ha mai conosciuto dei limiti alle proprie esigenze nell’ambito familiare, si mostra incapace, in ciò che riguarda la scolarità, di inserire la realizzazione dei propri desideri in un orizzonte 160

temporale, ottenendo solo fallimenti e frustrazioni. E così, egli infrange la legge e i divieti per incapacità di prevedere il futuro e per necessità di soddisfare all’istante ogni desiderio. Noi ritroviamo in queste situazioni gli elementi riuniti da Gibello sotto il nome di “disarmonie cognitive”, tipiche della funzione cognitiva dei giovani delinquenti: • la dispraxia, discontinuità sottile nella rappresentazione mentale degli oggetti, che si manifesta attraverso l’incapacità di anticipare le conseguenze di un’azione; • la discronia, incapacità di pensare e di investire su un oggetto secondo la sua permanenza nel tempo, il che si manifesta attraverso disinvestimenti brutali dei beni e delle persone che si pongono al di là di una disponibilità immediata; • la disgnosia, perturbazione della funzione semiotica che articola la rappresentazione della cosa e della parola, con l’agire che diviene la modalità relazionale principale e con il linguaggio che non permette più delle buone interazioni sociali. Queste condotte a rischio tendono a trasgredire le regole sociali stabilite. Esse rappresentano anche una messa in scena dell’opposizione all’integrazione attraverso la distruzione simbolica del suo bene di consumo più diffuso, cioè l’automobile; è un modo di denunciare le ingiustizie, le disuguaglianze e l’ipocrisia della società. Eppure, questo rapporto con la società sembra abbastanza ambiguo, poiché i rodeo possono corrispondere, da una parte, a un rifiuto della società e dei suoi valori, ma, dall’altra, celebrano l’accesso fittizio a uno status sociale ambito attraverso l’appropriazione di un veicolo di lusso. I rodeo rappresentano anche una gara simbolica con la morte, in cui la posta in gioco è l’esistenza stessa: l’adolescente tenta così di assicurarsi del valore della propria vita e della propria presenza nel mondo. Alla ricerca di un senso da dare alla vita, egli interroga la morte per sapere se vivere ha ancora un senso, da cui questa ricerca deliberata di rischi, sia per sé che per gli altri. Tali comportamenti, a dispetto dell’atmosfera festosa che vorrebbero associare loro alcuni giovani, derivano da disagi e sofferenze. Bisogna dunque pensare che si tratti di una nuova forma di violenza giovanile associata al malessere delle periferie e all’esclusione di alcune categorie sociali o di alcune minoranze culturali? Non dimentichiamo allora che, se 161

Fast and furious, il film di Rob Cohen realizzato nel 2001, illustra molto bene questo fenomeno, mettendo in scena i giovani eroi dei rodeo moderni, un altro film, di più di 50 anni fa, Gioventù bruciata, di Nicholas Ray, ritraeva già una gioventù senza valori, che manifestava la propria rabbia al volante o attraverso la violenza. Che dei giovani si riuniscano in bande per darsi a imprese pericolose è qualcosa di già visto in passato, quel che costituisce una novità, oggi, è che essi si filmano e che espongono le loro imprese perché tutti le vedano.

Scrivere il proprio nome, scrivere il proprio no; tag e graf Dopo aver disinvestito i propri genitori, l’adolescente, per trovare se stesso, per soddisfare questo bisogno di una figura vicina, cerca nuovi modelli fra i suoi pari, investendo su partner che gli sono simili. Tag e graf gli procurano la stima degli altri writer. Imponendosi allo sguardo degli altri, egli impressiona i suoi simili attraverso le proprie realizzazioni originali e spettacolari, auto-attribuendosi una caratteristica identitaria poiché gli altri gliela conferiscono. Così, le pratiche dei tag e l’appartenenza al gruppo dei writer partecipano alla costruzione identitaria dell’adolescente, assicurando, fra l’altro, delle funzioni iniziatiche essenziali, che gli permettono di liberarsi dall’influenza dei genitori e degli altri adulti, che gli danno la possibilità di sperimentare altri ruoli sociali in una dinamica di personalizzazione e di socializzazione, legandosi strettamente a un percorso di sperimentazione di ruoli di transizione. La strada, spazio di transizione fra il dentro – la casa, la famiglia – e il fuori – il mondo –, è un luogo libero da ogni influenza, sia quella dei genitori che quella della scuola: perciò alcuni giovani investono sulla strada, che può essere marcata attraverso la loro presenza pervasiva, ma anche attraverso quella dei loro tag e dei loro graf (Felloneau e Bousquet, 2001). Tag e graf “Graffiti” è il termine generico che indica segni, disegni e altre scritte lasciati di nascosto sui muri, per una comunicazione generalmente anonima. Tag e i graf sono, in pratica, dei graffiti realizzati in serie. 162

Dal tag al troop Come ricorda Lafortune8, per gli adolescenti la rivolta si svolge attraverso il tag prima di evolvere nel graf. Inventati dai giovani dei quartieri difficili di New York negli anni ’60 e ’70, come modo per lasciare firma e indirizzo dei writer, i tag si sono diffusi nei ghetti americani, prima di apparire, vent’anni dopo, sui muri delle città francesi; il tag rifletteva in quel caso non l’affermazione, come in America, di giovani sfavoriti, esclusi e precari, ma piuttosto di quelli del ceto medio. Localizzati nella zona parigina all’inizio degli anni ’80, i tag hanno invaso le periferie a partire dal 1987, per raggiungere l’apice nel 1990, senza essere legati né a un’etnia particolare né a una religione né a una data classe sociale, caratterizzati solo in quanto manifestazioni creative giovanili nel mondo urbano. I tag sono delle firme ripetute, in lettere stilizzate, effettuate con una bomboletta spray o con un pennarello. Sono tag anche le ripetizioni multiple sull’arredo urbano, su edifici o veicoli destinati ai trasporti pubblici, di sigle a tratti semplici e monocromatici, sono brevi pseudonimi, di due-tre sillabe al massimo, di sonorità anglosassone, le cui lettere, scelte minuziosamente, sono associate per formare un insieme calligrafico, che deriva spesso da giochi di parole e/od ortografici, e che fanno spesso riferimento a personaggi dei fumetti. L’azione è rapida. Se il tag deve essere particolarmente visibile, collocato, se possibile, in un luogo poco accessibile, il writer, al contrario, non deve essere visto. Non deve “farsi beccare”. La visibilità del tag non implica la sua intelligibilità per tutti, ma, come spiegano Felloneau e Bousquet, deve provocare un certo fastidio, un senso diffuso di insicurezza nell’adulto che lo scopre, poiché questa pratica deve essere tanto clandestina e discreta nella sua realizzazione quanto onnipresente, provocatrice ed enigmatica nel prodotto che ne risulta. Poiché l’obiettivo dei writer è mostrare i tag ai propri pari ed essere compresi; essi, spiega Lafortune, lavorano molto sullo stile del loro marchio, poiché una “a” deve restare una “a”, malgrado le variazioni delle sue forme grafiche. Il valore del tag, ciò nonostante, non si limita solo a una questione stilistica: marchio di rivolta che sa di compromesso, è anche un modo per affermarsi, una rivendicazione identitaria che i giovani impongono alla città, ben visibile agli adulti, ma soprattutto visibile agli altri writer, che devono poter decodificare il nome del loro rivale, 8

«Télérama», gennaio 1996.

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poiché chi vince non è chi “tagga” di più, ma chi realizza l’opera nel luogo migliore. Il writer diffonde dunque le sue firme lungo un percorso personale, sui portoni, all’ingresso della metro, sui vetri, sulle facciate degli edifici, sui segnali stradali, adattandosi a taggare tardi la sera in luoghi che ha trovato di giorno. Tuttavia, quello dei tag non è che un periodo, ricorda Lafortune. I giovani iniziano a taggare all’inizio dell’adolescenza, fra gli 11 e i 15 anni, e sperimentano dopo i 15/16 anni altri tipi di marchi agli antipodi del tag, come il troop, un rituale grafico che condurrà al graf, pittura murale basata sulla scrittura e sulla raffigurazione di personaggi, che si osserva in particolar modo sui muri e sui ponti ferroviari. Dal troop ai graf I writer, continua Lafortune, si dedicano dunque a una nuova scrittura, il troop, accedendo alla seconda fase grafica del rituale al quale si sono dedicati. Il tag si presentava sotto forma di una scrittura spontanea, disarticolata; il troop è una scrittura organizzata, con regole formali. Questo richiamo alle convenzioni grafiche può essere messo in relazione con l’acquisizione di fiducia da parte del writer e con la sua gestione dell’angoscia adolescente. Il giovane impiega ormai la prospettiva, dando alle lettere del troop un volume che conferisce loro una solidità plastica. Anche i luoghi sono differenti da quelli del tag, poiché sono meno provocatori e meno equivoci: ponti e muri ferroviari, palizzate di terreni abbandonati, muri di cantiere, ecc. Spazi nuovi, per questi adolescenti, vuol dire maggiore libertà e maggiore penetrazione nel tessuto urbano. La superficie del troop preannuncia il graf, fase finale di questo rito di passaggio urbano. Composto di marchi, lettere la cui forma è articolata, contiene anche dei personaggi ispirati dai fumetti, vero e proprio bestiario del mondo contemporaneo. I luoghi di realizzazione del graf sono gli stessi del troop, ma richiedono una strategia più elaborata. I graf sono come dei tag abbelliti da forme grafiche complesse, in cui i marchi pittorici si distinguono su uno sfondo che associa diverse decorazioni. Le lettere sono rappresentate con l’aiuto di una doppia linea che delimita una forma riempita, in cui si può giocare sulle sagome, sui contorni, gli effetti di rilievo e i riempimenti di colori, il tutto, eventualmente, in uno sviluppo grafico che può riprodurre personaggi ispirati ai fumetti, ma anche ai cartoni animati e al cinema, creando come dei muri di colori, notano Felloneau e Busquet. Una tale pratica si avvicina all’arte: necessita anzitutto 164

di tempo per la progettazione e il suo sviluppo valorizza, dice Vagneron, la collaborazione di più writer a un progetto comune. Operando di notte, essi sfidano i sistemi di sorveglianza. La loro devianza, tuttavia, non si riduce solo all’aspetto negativo che le conferisce la legge, poiché il disegno realizzato crea spesso un notevole effetto estetico su un muro sporco o su un vagone utilizzati come supporto, effetto estetico che non ha bisogno dell’apprezzamento unanime degli adulti, se è riconosciuto da alcuni. Pratiche frequenti dai molteplici significati Tag e graf sono pratiche molto frequenti durante l’adolescenza e riguardano ragazzi dai 15 ai 24 anni, più in particolare quelli fra i 16 e i 18. Un’indagine condotta nella primavera del 2003 da Marion Haza su un campione di 500 giovani rivela così che il 13,7% di essi si dichiara “tagger”, il 13,1% “grafer”, il 7,3% entrambe le cose; il 16,7% dei ragazzi realizza tag e il 16,4% realizza graf, contro rispettivamente il 6,2% e il 5,4% delle ragazze. Così, il marchio sul muro conferma l’identità di genere presso gli adolescenti alla ricerca di un’identità sessuale. Attraverso queste pratiche proibite dalla legge, i ragazzi aderiscono alle norme sociali, in una conformità di luoghi e di ruoli che sentono propri; i tag e i graf appaiono sempre più come modi per accedere alla società e alle norme degli adulti, mentre le reazioni del loro gruppo amplificano il sentimento di identità. La percentuale dei writer è la stessa in città e in periferia, nell’ordine dell’11%, mentre per i graf la periferia si rivela dominante, con il 14%, contro solo l’8% della città. Il che, spiega Haza, è dovuto alla presenza fuori città di numerosi muri abbandonati, capannoni, ecc., che implicano la decentralizzazione dei marchi e lo spostamento dei grafer che si allontanano dal quartiere per creare le loro opere. Infine, il livello sociale non influenza questa pratica: si ha l’11,5% di tagger e grafer sia in ambienti favoriti che in ambienti sfavoriti. Scrivere il proprio nome, ma sceglierlo! Gli adolescenti hanno delle difficoltà a capire un mondo urbano senza punti di riferimento e provano, dicono Felloneau e Busquet, un bisogno irrefrenabile di costruire la propria identità, prendendo possesso di un ter165

ritorio che marcano attraverso uno pseudonimo. I tag, che siano sui ponti, sui muri che costeggiano le autostrade o sui treni, ricordano il bisogno di erranza dei giovani. Sui vagoni abbandonati, segnalano il loro isolamento e la loro solitudine. Tag e graf permettono loro di prendere possesso di questi spazi abbandonati e anonimi all’interno delle città, ambienti vuoti che entrano in risonanza con il loro vissuto di vuoto interiore. Utilizzano così il proprio corpo – e delle produzioni grafiche – per dimostrare di esistere. Per Haza e Ducousso-Lacaze (2006), le lettere che essi tracciano hanno lo stesso valore del loro corpo e i tag non devono essere visti come un’attività creatrice, ma come un atto che impegna l’intero corpo in una ricerca identitaria. Così, la sovrapposizione delle lettere, in un condensato quasi illeggibile, è a immagine della goffaggine degli adolescenti, della loro difficoltà a “lasciarsi vedere”. Allo stesso modo, precisa Haza, in cui alcuni marchiano il proprio corpo attraverso scarificazioni e tatuaggi, altri preferiscono marcare l’arredo urbano e i muri, che divengono una vera pelle simbolica, metafora della pelle umana. Questi giovani, che si interrogano sul proprio posto nella società, nella famiglia e nella relazione con gli altri, trovano nel tag un mezzo per orientarsi in un’esistenza instabile. Eppure, queste tracce non sono casuali, poiché rappresentano uno pseudonimo scelto minuziosamente attraverso le qualità grafiche delle lettere che lo compongono e attraverso la loro associazione. Esse identificano il writer, gli permettono di esistere di fronte agli altri. Scegliersi un nome, insistono Catheline-Antipoff e Soulayrol, è definirsi un’identità che permetta di essere riconosciuti e, soprattutto, di riconoscersi. Il giovane fa anche evolvere il proprio pseudonimo, disegnandolo in modo differente via via che la sua carriera di writer e i suoi gusti evolvono. Chiaramente associato all’identità, questo pseudonimo rinvia coscientemente alla sua persona e vi si rapporta solo attraverso connotazioni latenti poco accessibili, che necessitano di un ritorno alle origini, all’infanzia, ovvero a un rilevamento della rimozione, poiché alcuni writer sono i soli – o credono di esserlo – a conoscere il senso nascosto del proprio pseudonimo. Questa scelta però corrisponde anche, dice Tassel (2003), al desiderio di allontanare le immagini parentali, poiché il tag, in fondo, libera l’adolescente da un attaccamento, vissuto come infantile, al proprio nome e alla famiglia, grazie alla creazione di un nome che il giovane si assegna da sé. 166

Si tratta di un atto di affrancamento dalla filiazione che sottolinea il rifiuto di sostituire la generazione che lo ha preceduto. Lo pseudonimo gli permette di esistere in quanto individuo a sé, di auto-generarsi, insomma. Noi arriviamo così, nota Haza, alla costruzione dell’Io del soggetto adolescente, che cerca di ristabilire le proprie origini. L’abbandono del nome che gli ha lasciato suo padre è solo una “disaffiliazione” provvisoria, poiché l’identità reale non è rinnegata ma messa in disparte per un periodo, durante il quale prende le distanze psichiche e spaziali dai genitori. Attraverso questa “sfida al proibito”, il writer marca dunque, spiegano Felloneau e Bousquet citando Balas (1994), la sua uscita dall’infanzia e dalla sottomissione agli adulti. Scrivere il proprio “no”, correre dei rischi I tag sono delle devianze momentanee destinate a mettere alla prova le regole di socializzazione del mondo adulto. Caratterizzati dalla loro quasi illeggibilità, attaccando la scrittura, distruggendone i caratteri, manifestano la rivolta contro la famiglia e più ancora contro il sistema scolastico, di cui la scrittura è uno dei fondamenti, nota Lafortune. Il writer vive però una contraddizione, perché deve scegliere fra la distruzione definitiva del linguaggio, riducendolo a una specie di scarabocchio, e l’accettazione di un compromesso che consiste nel conservare le regole formali dell’alfabeto quale che sia il rifiuto che ne ha. Il desiderio di riconoscimento del writer passa spesso attraverso l’accettazione del rischio, per acquistare un certo prestigio presso i pari, impressionarli e trovare la “gloria” attraverso le proprie creazioni. Felloneau e Busquet fanno anche notare che molti writer parlano del “buzz” – la notorietà (e il rispetto) – che sperano di ottenere per aver taggato in luoghi pericolosi e di difficile accesso. I giovani writer rispettano le regole che fondano la loro attività, dice Balas. Anche se infrangono le leggi, fanno riferimento ad altri valori, quelli della loro tribù d’appartenenza. Perciò non taggano ovunque. Queste regole permettono loro di non sentirsi colpevoli. Spiegano, per esempio, che non scelgono questo o quel luogo per fare dispetti, ma perché la loro opera sia più visibile; spiegano che non taggano su qualsiasi superficie, poiché evitano i muri in pietra, ma non i muri in cemento. Gli adolescenti, del resto, si proiettano intimamente e inconsciamente sui muri, spiega Haza. Dai loro discorsi si viene a conoscenza dei luoghi che apprezzano e di quelli che detestano, della stima 167

per il patrimonio culturale e storico e dell’odio per i quartieri degradati e deserti in cui regna l’anonimato, oltre che per i luoghi connotati negativamente in rapporto alla loro storia personale – scuole medie, scuole superiori, commissariato… ed è proprio su questa seconda categoria di luoghi che fioriscono tag e graf. Essi sperano così, conclude Haza, di prendere possesso dei luoghi abbandonati o negativi della città. Eppure, quel che cercano in primis è il riconoscimento e la stima degli altri writer e, se si assumono dei rischi, se scelgono le superfici più visibili, è per conquistare una certa gloria presso i loro pari. Agli occhi della società, tag e graf sono forme di inciviltà e vandalismo, una mancanza di rispetto per la proprietà privata, mentre per i giovani sono un mezzo per esprimersi e mostrare che esistono. Sono tuttavia dei gesti trasgressivi, anche se non danneggiano fisicamente e direttamente le persone, qualificati come “atti di deterioramento dei beni pubblici e privati, attraverso scrittura di segni o di disegni” secondo l’Articolo 322/1 al. 2 del Codice Penale. Questo rapporto ambiguo con l’illegalità conferisce ai tag e ai graf la forza simbolica che tanto piace ai writer, come notano Felloneau e Busquet, anche se quelli affermano che i loro “lavori” sono un contributo positivo al paesaggio urbano e meriterebbero di essere legalizzati. Essi amano, tuttavia, sfidare e seminare i poliziotti, contando sull’inganno e la velocità piuttosto che sulla forza, e impiegando, come scrive Lachman (2007), la stessa ingegnosità e lo stesso atteggiamento sprezzante quando rubano le bombolette spray necessarie alla propria pratica, facendo del furto una questione d’onore, anche nei casi in cui le loro produzioni sono remunerate9. Si sa da tempo che “esaltare il pericolo rinforza la gloria”, ricordano Felloneau e Bousquet, a proposito di alcuni writer che architettano tutto un immaginario che amplifica la dimensione eroica delle proprie imprese, esagerandone il carattere delittuoso. In caso d’arresto, questi giovani percepiscono la cattura come se dipendesse dalla propria negligenza, attribuzione interna che alimenta la loro illusione di gestire i rischi derivati da questa pratica delittuosa. È una devianza poco grave per esprimere l’opposizione alla legge e ai suoi rappresentanti, infatti i writer non sono realmente divisi dalle norme e dai valori del mondo degli adulti. Sono 9 Alcuni writer riescono in effetti a negoziare con gli enti pubblici, per ufficializzare le proprie opere. Accettati, non sono più trattati come dei writer irresponsabili ma come degli “uguali”, con cui la società dialoga e a cui offre contratti di lavoro.

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coscienti del proprio comportamento e del danno che causano, ma sviluppano delle giustificazioni che tendono a neutralizzare gli effetti dannosi della loro attività per salvaguardarne l’aspetto valorizzante e ridurre allo stesso tempo il proprio senso di colpa.

Le periferie della violenza Dagli anni ’80, il tema delle violenze nelle periferie suscita l’interesse di un pubblico sempre più vasto, e si impone come un vero e proprio problema sociale. I media, i politici e i ricercatori si interrogano su questi quartieri difficili che concentrano la maggior parte dei problemi della società: disoccupazione, immigrazione clandestina, esclusione, fallimento scolastico, delinquenza, mercato nero, violenza collettiva… Sembra definirsi un consenso sull’esistenza di un trittico che associa le periferie, i giovani e la violenza. All’origine c’erano i sobborghi, con costruzioni edificate fuori dalle mura cittadine. Poi questi sobborghi presero il nome di “periferie”, per indicare che esse si collocavano su una determinata parte di territorio sotto l’autorità cittadina10. Queste periferie, oggi, sono evidentemente autonome, fatte di quartieri di una certa omogeneità. Tali agglomerati sono diversificati: alcuni sono ricchi e ospitano poche case popolari, altri raggruppano abitanti in condizioni di grande precarietà, spesso giunti a seguito di un’immigrazione regolare o clandestina. Le condizioni di vita al loro interno, in particolare le condizioni degli immobili, sono lungi dall’essere soddisfacenti: in simili periferie si assiste a una crescita illimitata degli spazi edificati, alla costruzione di un tipo di abitazioni “adattate” alla domanda dei più poveri, al mantenimento di baracche e alla costruzione di palazzi con appartamenti a buon mercato. Questo tipo di centro abitato ha rinforzato la segregazione di alcune categorie sociali, concentrando in uno stesso luogo abitazioni degradate e proprietari non proprio tagliati per la manutenzione. Alcuni grandi agglomerati della periferia parigina contano così migliaia di abitazioni e ospitano circa il 50% dei giovani minori di 20 anni – contro il 27% nell’Île-de-France – e più dell’80% dei lavoratori dipendenti e operai. Il tasso di disoccupazione vi è considerevolmente elevato e la popolazione 10 Banlieue, “periferia”, richiama etimologicamente, da una parte, l’autorità cittadina (ban), dall’altra l’estensione di una lega (lieue).

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di origine straniera è tre o quattro volte superiore alla media nazionale. Il tutto conduce a rivalità e a scontri fra bande che reclamano la propria appartenenza a una città, a un quartiere o a un gruppo etnico, come già constatava Beaujeu-Garnier nel 1995. Dagli “apaches” dell’inizio del XX secolo agli “zulu” degli anni ’90, passando per i “giubbotti neri” degli anni ’60, le bande continuano a essere considerate come devianti e come una minaccia per l’ordine pubblico. Il raggruppamento dei giovani all’interno di esse risponde a un bisogno di socialità giovanile e contribuisce alla loro costruzione identitaria. Questi raggruppamenti non sono, è vero, sempre violenti. Spesso di tratta di comitive di amici che si riuniscono per chiacchierare, divertirsi o fare sport. Si tratta di passare del tempo insieme, non di organizzare dei crimini. Eppure, le passeggiate sotto casa o per strada sono percepite come fattori che generano un clima di insicurezza, anche se i giovani che hanno comportamenti realmente problematici – manifestando violenze verbali e fisiche – costituiscono solo il 10% della popolazione giovanile maschile di questi quartieri, notano sociologici come Mucchielli o Sauvadet. Alcuni gruppi di giovani, tuttavia, creano disagi nelle periferie a causa delle loro aggressioni e delle loro inciviltà, e tre aspetti fondamentali li caratterizzano: sono gruppi spesso costituiti da figli di immigrati in condizioni disagiate, sono associati a un dato territorio e comprendono principalmente maschi. Sono il risultato della disorganizzazione sociale e dell’esclusione, condizioni che generano sentimenti di frustrazione economica, di ghettizzazione sociale e di umiliazione, che conducono all’odio, come notava già Michel Fize 20 anni fa. Queste bande offrono a chi ne fa parte quel minimo di socialità, solidarietà e regole che la società non è più in grado di offrire e aprono delle prospettive di integrazione e di valorizzazione personale. La violenza è dunque un modo per esprimere la rabbia, per provare la propria esistenza, per crearsi un’identità e acquisire onore, nota Lepoutre. Le pressioni esercitate sui membri spiegano le condotte più o meno violente di competizione e di sfida, che conferiscono al loro protagonista uno status di iniziato, aggiunge Sauvadet. Contrariamente al passato, tuttavia, queste bande che si aggirano in città e in periferia non sono più organizzate e dominate da un leader, ma si formano occasionalmente, come durante le scaramucce con la polizia o con i giovani di un’altra città. 170

Cose mai viste in Francia? Nel novembre 2005, delle sommosse hanno incendiato le periferie. Spesso, poiché i giovani agivano secondo una logica “rifiuto-sfida-delitto”, le sommosse non coinvolgevano comunità o gruppi determinati. Questi giovani avevano però in comune una scolarità caotica, dei genitori impotenti se non dimissionari, un’esclusione sociale legata ad un’assenza di punti di riferimento, una mancanza di sensibilità verso le misure educative e le sanzioni, il tutto paradossalmente associato ad uno sfrenato desiderio di beni di consumo. Questi adolescenti abbandonati a se stessi non costituivano delle bande organizzate permanenti, ma dei “branchi11”. Cresciuti spesso in famiglie destrutturate, si raggruppavano intorno a uno zoccolo duro delinquente molto attivo. Per le autorità sono dei “selvatici”; per l’uomo della strada sono “gentaglia”, giovani che “reggono i muri”, degli hitistes12. L’appartenenza territoriale è all’origine del loro raggruppamento. Sono solidali e motivati dall’attrattiva di un guadagno, anch’esso in relazione con le frustrazioni provate o vissute. Si sono conosciuti a scuola, hanno gusti comuni e vivono in una relativa autarchia, commettendo delitti che vanno dallo scippo alla rapina a mano armata, a volte all’omicidio. Il problema della violenza si rivela particolarmente difficile da affrontare perché non è solo una realtà obiettiva, ma anche una nozione soggettiva che cambia in base alla situazione, al momento e alla persona che la subisce. Secondo Lagrange, tuttavia, possono essere distinte due forme di delinquenza. La prima assomiglia alle condotte dette “espressive”, che non tendono a un guadagno materiale, come le risse o gli scontri con le forze dell’ordine. La seconda, detta “acquisitiva”, raggruppa le condotte che hanno per obiettivo un beneficio economico, come i furti o i traffici illeciti. Nello spazio di alcuni anni, la delinquenza giovanile è considerevolmente evoluta, caratterizzandosi, secondo il Ministero degli Interni, per tre aspetti: i minorenni che delinquono sono sempre più numerosi, 11 Utilizziamo questo termine che sembra più vicino a quello adottato dai sociologi americani “posse”, che rinvia all’epoca della “frontiera” negli Stati Uniti, dove si formavano delle “orde” di cow-boys che controllavano i nuovi centri abitati, impiegando esclusivamente il linguaggio delle armi e contribuendo a formare l’immagine violenta della zona. 12 Questo termine, preso in prestito dagli algerini, indica quei giovani che sembrano trascorrere le loro giornate a sostenere gli edifici della loro città; addossati continuamente ai muri, sembrano non far altro che contemplare la vita sociale.

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sono sempre più giovani, sono sempre più violenti e armati. Il loro numero è così passato da 14.000 nel 1955 a 193.600 nel 2005. Circa il 25% di quelli che sono condotti davanti a un giudice minorile ha meno di 14 anni. La metà di loro è processata per danni a beni privati, circa il 20% per danni alla persona. Nel 2008, in Francia ci sono state 181.449 accuse riguardanti atti di minori, di cui 150.333 perseguibili a norma di legge. I giudici minorili si sono occupati di più di 78.800 dossier di minorenni delinquenti e di più di 96.000 dossier di minorenni a rischio. Circa 452.000 minorenni e giovani maggiorenni sono stati condotti in un tribunale e 386.000 di loro sono stati dati in affidamento, in quanto colpevoli, ad associazioni per la loro tutela: su circa 218.000 arrestati da polizia o carabinieri, cioè il 17% di quelli identificati come presunti autori di crimini, circa 161.000 sono stati oggetto di una decisione della Procura della Repubblica (74%), 57.000 non erano perseguibili o i loro casi sono stati archiviati (5%). Circa la metà delle decisioni (48%) prevedevano un perdono giudiziale da parte del Procuratore o del suo delegato, un patteggiamento o un risarcimento; 83.000 minorenni erano, al contrario, presentati al giudice per le indagini preliminari e indagati. Circa 92.000 sono stati affidati ai servizi sociali o alla Protezione Giudiziaria Giovanile (PJJ13), per essere seguiti da un educatore. Circa 5.500 minori sono stati allontanati dalla loro famiglia, 3.000 sono stati collocati in istituti penali minorili e 3.500 sono finiti in carcere. Contemporaneamente, circa 291.000 minorenni hanno beneficiato dell’intervento di enti quali Infanzia in pericolo e della Protezione dei giovani maggiorenni, 212.000 sono stati affidati ad enti governativi come Aiuto sociale all’infanzia (ASE) o al settore privato. C’erano in “totale” 170.500 minorenni affidati alla PJJ, di cui 92.000 delinquenti minorili, 72.000 minorenni a rischio e 5.500 giovani maggiorenni. È vero, infine, che i recidivi erano particolarmente rari, poiché due minori su 3, dopo l’intervento giudiziario, non commettevano un altro reato l’anno successivo. La violenza interpersonale si concentra principalmente nei quartieri poveri della periferia, e i giovani, oltre ad esserne i principali autori, ne sono anche le principali vittime. La probabilità di essere vittima di violenza è due volte più elevata se si abita in un quartiere problematico piuttosto che in centro. Inoltre, nelle periferie si è radicato un vero e pro13 Protection Judiciaire de la Jeunesse, servizio pubblico con compiti educativi e correttivi che opera su incarico del Tribunale per i minori, N.d.T.

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prio mercato parallelo, con l’aggravamento della situazione economica. Questo mercato è legato a diversi traffici e ricettazioni, tuttavia coinvolge un numero limitato di adolescenti, nota Sébastien Roché (2001). Il 5% dei giovani di città e periferia, generalmente maschi, sarebbe, da solo, responsabile di metà della microcriminalità, dell’86% dei reati gravi e del 95% dei traffici illeciti. Perciò, questa delinquenza giovanile è costituita da alcune inciviltà dei giovani – offese, minacce, atteggiamenti provocatori, schiamazzi notturni, problemi con il vicinato, atti di vandalismo, incidenti sui trasporti pubblici – che dominano la percezione dei problemi della vita quotidiana di alcuni quartieri. Queste inciviltà non provocano fisicamente dei danni alle persone, ma violano le regole elementari della vita in società. Degradando la qualità della vita degli abitanti, ma non essendo – spesso – giuridicamente definite, generano la sensazione che i poteri pubblici si siano arresi. Violenza urbana e delinquenza sono spesso concomitanti, così come gli scontri fra bande. È così che nel 2005 “Le Monde” recensiva 435 scontri gravi e un bilancio di otto morti, di cui la metà nell’Île-de-France, contro i 225 scontri e 14 morti dell’anno precedente. I responsabili erano per la maggior parte francesi (87%), benché frequentemente appartenenti a minoranze culturali. La metà di loro era costituita da giovani adulti di età compresa fra i 19 e i 25 anni; l’80% di essi è stato processato per reati comuni, in particolare per traffico e uso di stupefacenti. La violenza di alcuni è estrema, i poliziotti parlano di “barbarie”, di selvatichezza e di brutalità. In gruppo si può perdere il controllo in ogni momento e uccidere un uomo è per alcuni un rito iniziatico che permette di essere riconosciuti dagli altri. Molti di essi fanno uso di droghe che li spingono spesso alla violenza, in particolare le anfetamine – presentate talvolta come ecstasy – e di cocaina14. Descolarizzazione e violenza scolastica sono frequenti. La delinquenza sui trasporti pubblici è normale: rapina a mano armata, racket, vandalismo, aggressioni contro i conducenti, i controllori, i passeggeri. Il degrado e la distruzione dei veicoli pubblici sono un mezzo di espressione banale della ribellione e della violenza gratuita, oppure servono per attirare la polizia e i vigili del fuoco in veri e propri agguati. 14 Alcuni sniffano anche prima di affrontare dei gruppi rivali, per rendersi insensibili al dolore.

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La Direzione Centrale per gli Affari Generali ha creato nel 1991 un osservatorio delle violenze urbane e realizzato un grafico destinato alla valutazione dei disordini pubblici e dei conflitti fra giovani e istituzioni. Così, secondo Bui-Trong (2000), sono stati evidenziati tre importanti sviluppi: • i rapporti fra i giovani e le istituzioni si sono degradati con il tempo, per quanto riguarda le forze dell’ordine, il sistema scolastico, i servizi sociali, i trasporti, i servizi pubblici o i vigili del fuoco; • la violenza evolve nel tempo e nello spazio: se, nel 1991, 106 quartieri erano interessati dalle violenze urbane, essi sono diventati 636 nel 1995 e 818 nel 1999; • le zone in cui sono diffuse violenza e delinquenza sono principalmente quelle con case popolari, caratterizzate da un’alta concentrazione di immigrati. Scuola abbandonata e famiglie sconvolte La condizione critica delle periferie può essere compresa solo attraverso un’analisi multifattoriale che prenda in considerazione la segregazione urbana e la concentrazione spaziale della disoccupazione, dell’immigrazione e del razzismo, ma anche dell’individualismo dei costumi e l’assenza di valori, gli effetti della descolarizzazione di massa, l’influenza della famiglia e del gruppo dei pari. Le violenze hanno, infatti, origini molteplici. Alcune sono legate alle carenze nei servizi pubblici in alcuni quartieri e agli handicap sociali degli abitanti: una disoccupazione che può riguardare il 50% dei giovani, popolazioni non francofone e male integrate, fallimento scolastico massivo, tossicomanie, presenza di minoranze molto turbolente che pensano che il quartiere sia il “loro” territorio e/o che vogliono proteggere i propri traffici. Il peso dell’ambiente scolastico e familiare si dimostra, inoltre, fondamentale. Le difficoltà scolastiche Il fallimento scolastico costituisce una variabile determinante nell’emergere delle condotte violente o delinquenti degli adolescenti. La 174

funzione della scuola democratica è divenuta paradossale, poiché vuole essere un luogo d’integrazione per tutti, ma fabbrica le proprie logiche segregative, generando così immense frustrazioni nei giovani in difficoltà. L’uguaglianza repubblicana si dimostra fallimentare in partenza, perché gli studenti entrano a scuola portandosi dietro tutte le differenze che hanno accumulato fuori, in base alla famiglia o al quartiere in cui sono cresciuti. Così, i ragazzi che appartengono a minoranze culturali, malgrado la scolarizzazione elementare uniforme, si distinguono per inevitabili difficoltà nel leggere e nello scrivere, difficoltà di cui raramente la scuola o i genitori si fanno carico. Esistono anche delle “classi pessime”, in maggioranza composte da studenti di origine non francofona. Gli allievi sono consapevoli delle proprie differenze e del ritardo rispetto agli altri compagni e sanno che, fuori da scuola, rischiano di dover provare l’esperienza angosciante dell’esclusione dovuta alla disoccupazione. In certe classi, se non in certi istituti, bisognerà dunque arrivare ad abbassare i livelli a “zero” e, come dice Brighelli15, a formare dei “cretini”? Si ha talvolta l’impressione di essere regrediti a quella scuola coloniale destinata agli “indigeni”, per la quale i manuali accademici precisavano che il francese insegnato doveva essere semplice. Nella scuola coloniale si privilegiava l’espressione orale, si rifiutava lo scritto e la lingua non si apprendeva «grazie alla grammatica, ma attraverso il metodo diretto della conversazione e degli esercizi di fonetica: tutto attraverso la pratica, per la pratica». I maestri, in quelle situazioni, dovevano parlare il meno possibile, per far sì che parlassero gli allievi, non dovevano esprimere “niente di astratto, niente di complicato, niente di colto” e non dovevano affrontare lo studio della letteratura16. La scuola moderna deve tornare ad essere così? Ad ogni modo, pensando che il modello sociale proposto sia inaccessibile, alcuni giovani scelgono di rifiutare le norme del sistema educativo. Spesso si escludono da sé attraverso l’assenteismo o sconvolgendo la vita scolastica, preferendo uscire dalla logica della selezione scolastica e delle sue dinamiche competitive per conservare un minimo di autostima (Lefrançois, 2002). 15

Brighelli J.-P. (2005), La fabrique du crétin, Paris, J.-C. Gawsewitch Éditions. Lecherbonnier B. (2005), Pourquoi veulent-ils tuer le français, Paris, Albin Michel; Lecherbonnier B. (2005), Cretin!, prefazione al libro di Brighelli, op. cit. 16

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Famiglie sconvolte Alcune difficoltà sono associate alle strutture familiari, la cui funzione è sconvolta dagli obblighi sociali e dalle violenze istituzionali, oltre che dalla contestazione dell’autorità dei genitori a causa delle loro differenze culturali e del loro status di stranieri. Spesso ricomposte o monoparentali, segnate da esperienze difficili, disorientate dall’immigrazione, con l’handicap della disoccupazione o del precariato, queste famiglie non sono organizzate per affrontare il problema della delinquenza, della violenza o della descolarizzazione dei figli. Le loro reazioni possono andare dall’incomprensione all’indifferenza, ovvero al lassismo. Le difficoltà materiali che affrontano le conducono talvolta a pretendere, o per lo meno tollerare, le entrate economiche clandestine procurate dai ragazzi. Alcune, invece, le ignorano. Anche il deficit di autorità legato all’assenza reale del padre o all’assenza di supervisione parentale sul bambino gioca un ruolo innegabile (Roché, 2001). L’immagine del padre è spesso degradata; egli è non solo identificato attraverso la sua povertà operaia e la sua disoccupazione, ma anche attraverso il suo atteggiamento passivo verso questa situazione. Spesso, a causa della carenza del ruolo educativo dei genitori subentra la tutela esercitata dai fratelli maggiori. Eppure, non è sempre così, come si è potuto osservare in occasione degli eventi che incendiarono le periferie nel novembre del 2005. Il declassamento dei padri può infine comportare una riorganizzazione familiare intorno alla figura materna, attraverso delle relazioni spesso fusionali con i figli, che li privano di ogni relazione educativa realmente costruttiva: questo può introdurre delle pericolose confusioni circa il ruolo e il posto di ciascuno (Ricordeau, 2001; Lefrançois, 2002). Esclusione, segregazione e cultura di strada Altre difficoltà sono in relazione con i rapporti sociali che gli abitanti hanno con l’esterno: senso di esclusione, di segregazione, di stigmatizzazione e di rifiuto, che conduce gli abitanti ad adottare una “cultura di strada”. Esclusione e segregazione La distanza che separa le periferie problematiche dal centro della città 176

accresce la barriera che divide le popolazioni. Non si tratta della distanza fisica, che tende a ridursi grazie allo sviluppo dei trasporti pubblici che sono creati per favorire, almeno in teoria, l’integrazione fisica dei giovani di periferia, ma della distanza mentale, poiché i quartieri problematici sono diventati per alcuni un vero e proprio rifugio. Da più di 20 anni, la chiusura dei giovani all’interno delle periferie ha indotto questa cultura di “puntellatori di muri” di cui parlano Begad e Rossini (1999). Il loro allontanamento dalle regole della società li mette fuorigioco, poiché sono nati e cresciuti fra simili, lontano dal centro cittadino. Tutto ciò che non appartiene al loro ambiente finisce con l’essere rifiutato: autobus presi a sassate e incendiati, scuole devastate, vigili del fuoco aggrediti… Anche le offerte d’impiego non destano il loro interesse, se implicano l’allontanamento dalla periferia-rifugio. Questo atteggiamento incontra il favore degli eventuali datori di lavoro, che raramente assumono ragazzi provenienti da certi quartieri. Inoltre, se “vanno in città”, questi giovani sono stigmatizzati dai controlli d’identità e dai divieti d’accesso in alcuni luoghi. È in particolare la situazione di quelli che, cresciuti in famiglie di immigrati, continuano ad essere percepiti come immigrati, pur essendo, per nascita, francesi. Le uscite dalla periferia sono per loro simili ad attraversamenti di frontiera, viaggi che ricordano un’umiliante immigrazione simbolica, che segna una duplice rottura fra il quartiere e il centro: la prima è associata alla memoria dell’esclusione, con la città che è vista come un luogo di discriminazione; la seconda è legata alla percezione della città come un luogo di consumo, spazio in cui si concentrano le loro frustrazioni. La città può essere un luogo di attività, ma la periferia resta il rifugio. Nei quartieri alti si può rubare un’automobile, ma essa sarà esibita in un rodeo all’interno della periferia. I comportamenti che “incendiano” le periferie riguardano una delinquenza collettiva di giovani che si riuniscono, poiché si riconoscono e si identificano l’un l’altro. È una delinquenza di prossimità motivata dalla volontà di conquistare il potere “urbano” e dall’oppressione vissuta quotidianamente da chi vorrebbe non rispettarlo. Generalmente spontanee, le violenze cittadine hanno un’ampiezza mediatica affermata, che conduce a reazioni esasperate della popolazione, che accusa i genitori di essere assenti e lassisti, o addirittura beneficiari delle attività illecite dei figli, e che critica le autorità che non svolgerebbero il compito di mantenere davvero l’ordine repubblicano. 177

La crisi delle periferie si inserisce anche in un contesto di “perdita dei valori”. Lo sviluppo di un mondo in cui dominano l’arricchimento e il successo personale opprime la costruzione identitaria e la socializzazione giovanile. Questi adolescenti privilegiano i legami con i pari piuttosto che quelli con le istituzioni. Spesso privi di un’istruzione elementare, si trovano abbandonati a se stessi, messi a confronto con un ambiente sociale destabilizzato. Privi di un sistema di valori e di un rapporto chiaro con la legge, o anche di un’identità culturale unificata, si danno a tutti gli eccessi, alla delinquenza e alla violenza, senza provare il minimo senso di colpa nei confronti degli adulti che essi criticano, menzionando le folle nei grandi centri commerciali che per loro sono off limits, le frodi dei grandi dirigenti o le truffe nel mondo della finanza o in quello politico, i cui responsabili sono raramente condannati (Ricordeau, 2001). Ovviamente, essi non capiscono come mai, chi rompe una vetrina durante una manifestazione per rubare qualche centinaio di euro di materiale hi-fi e di prodotti di lusso, finisca quasi immediatamente davanti a un giudice e poi in galera, mentre chi ruba milioni di euro nel mondo degli affari o della finanza, grazie a un’interminabile sfilza di processi, non sia condannato. La crisi delle istituzioni diventa allora la crisi del controllo sociale, poiché inciviltà e violenze invadono alcuni spazi pubblici in cui non si esercita più la sorveglianza (Marchal, 2006). Anche il deregolamento sociale è all’origine di queste situazioni, e l’evidente indebolimento delle regole collettive cui spetterebbe il compito di controllare le condotte individuali, accelera la creazione di zone di non-diritto e rafforza i comportamenti problematici. Dal conformismo alla segregazione e alla cultura di strada Nel momento in cui si confrontano con la vita che viene loro proposta da una società sempre più segregativa e sempre meno egualitaria, molti giovani sono assaliti dal lassismo e dall’esasperazione. Le loro aspirazioni, tuttavia, sono convenzionali e Dubet le qualifica persino conformiste. La società li trasforma in consumatori di esclusione scolastica, professionale e culturale, fa nascere in loro un senso di svalutazione personale, di ingiustizia e di “rabbia”. Nelle periferie vivono adolescenti che non solo non hanno i mezzi economici per essere i consumatori che predicano i media, ma che inoltre sanno che non faranno presumibilmente parte del mondo del lavoro. Alcuni sviluppano allora delle strategie devianti con cui si ven178

dicano di una politica che li tratta come dei “cittadini di serie B”, optando per una strategia di consumo ostentatorio di prodotti di marca. Delinquenza e violenza derivano allora dal loro “conformismo frustrato”. Esse si basano su un senso di segregazione spaziale. La popolazione relegata nelle periferie difficili è spesso ignorata dai poteri politici e i giovani si percepiscono come i difensori del quartiere, come gli abitanti di un territorio delimitato dall’emarginazione. Così, incidenti frequenti oppongono i giovani alle forze dell’ordine e tendono a cristallizzare la violenza di una gioventù esclusa, pronta a gettarsi nella prima rissa e a trasformarla in una prova di forza che oppone quelli che rappresentano la società e quelli che non ne fanno più parte. Inoltre, inciviltà e violenze invadono gli spazi in cui la sorveglianza degli adulti non si esercita più. Una simile situazione spesso genera negli abitanti un senso di impotenza e di collera verso questi giovani che, agendo o standosene semplicemente sotto casa, negli androni e negli scantinati, ricordano costantemente che sono loro a controllare la città. Si può allora, con Marchal, parlare di una “cultura di segregazione”. L’appartenenza al luogo in cui abitano è il cuore stesso dell’identità di questi adolescenti e si associa a due tipi di comportamento: appropriarsi di uno spazio e proteggerlo. Il quartiere è oggetto di un vivo attaccamento e la socialità degli “amici sotto casa” fa da contraltare alla disorganizzazione e all’esclusione. L’identificazione con un ambiente stigmatizzato converte l’handicap in forza, protegge i suoi membri dal disprezzo sociale e diventa così, secondo Lagrange, un mezzo di socializzazione.

Una nuova dinamica nelle sommosse Nel novembre del 2005, due avvenimenti, vicini nello spazio e nel tempo, hanno contribuito a scatenare una nuova dinamica nelle sommosse, anzitutto nel municipio di Seine-Saint-Denis, poi in numerosi municipi e circoscrizioni problematici del 93° distretto e di quelli limitrofi, per estendersi, dopo una settimana, alla totalità del territorio nazionale: la morte, il 27 ottobre, di due adolescenti di 15 e 17 anni che, nel tentativo di sfuggire a un controllo di polizia, si erano rifugiati in una centralina dell’EDF17, 17

Società Francese per l’Energia elettrica, N.d.T.

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nel municipio di Clichy-sous-Bois; poi, la sera del 30 ottobre, nello stesso municipio, dopo diverse notti di protesta per questo dramma, l’esplosione di una granata lacrimogena all’interno di una moschea. Se, apparentemente, le rivolte ricordano quelle di Minguettes18 nel 1981, – incendio di automobili, scontri con la polizia, danni a strutture pubbliche –, le sommosse del 2005 sono eccezionali per ampiezza e durata. Ricordiamo brevemente i fatti, a partire dal lavoro di Mauger19: il 27 ottobre del 2005, a Clichy-sous-Bois, un inseguimento tra la polizia e alcuni adolescenti conduce tre di questi a nascondersi in una centralina elettrica, dove ricevono una scarica di 20.000 volt. Due di essi muoiono fulminati, il terzo è gravemente ustionato. Queste morti scatenano, la sera stessa, violente proteste all’interno del quartiere, che si intensificano dopo le dichiarazioni del Ministro degli Interni, secondo cui i ragazzi avrebbero svaligiato un capanno da cantiere, ma non sarebbero stati realmente inseguiti dalla polizia. Le rivolte giovanili si diffondono rapidamente, prima nei dintorni di Parigi, poi in tutto il Paese. Dureranno tre settimane, devasteranno 300 comuni e produrranno danni materiali per 250.000.000 di euro. Le rivolte, che si fanno sempre più gravi, spingono il Governo a decretare lo stato di emergenza, applicando una legge che risaliva al 1955, all’epoca della guerra d’Algeria. L’insieme della società francese legge sui giornali i bilanci sulle automobili incendiate e sugli edifici danneggiati, ma la Francia sembra, al resto del mondo, un Paese a un passo dalla guerra civile. Tornando all’analisi offerta da Mauger riguardo a queste rivolte, Martinache20 nota anzitutto che due elementi hanno alimentato i dibattiti interpretativi: il bilancio degli avvenimenti e, soprattutto, le caratteristiche sociali dei rivoltosi. Si tratta, per un buon numero, di minorenni di ogni origine etno-culturale, che in precedenza non hanno mai avuto problemi con la giustizia e non, come affermavano alcuni giornali, di giovani delinquenti originari del Maghreb o dell’Africa nera. Martinache nota anche che Maguer propone più una “sociologia dell’attualità” che 18

Quartiere residenziale di Lione. Mauger G. (2006), L’émeute de novembre 2005, Bellecombe-en-Bauges, Éditions du Croquant. 20 Martinache I. (2006), L’émeute de novembre 2005, un ouvrage de Gérard Mauger, Lectures, «Lien social», 6 novembre 2006, http://www.liens-socio.org/article.php3?id_ article=1562. 19

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un’esegesi della crisi, e che si sforza di illustrare i valori simbolici nascosti nei discorsi giornalistici e politici, distinguendo gli atteggiamenti in cui si evidenziano aspetti politici da quelli in cui questi sono taciuti. I primi sottolineano che le cause e le conseguenze delle sommosse sono: la rivolta del “precariato” che incarna una specie di lumpenproletariat21, la ghettizzazione dei quartieri e la rivolta della minoranze visibili – con la coesione di popolazione immigrata e popolazione di origine coloniale. I secondi si basano su argomenti giuridici – “i rivoltosi sono dei delinquenti” –, morali e culturali – il nichilismo dei giovani di periferia – ed etno-religiosi – la poligamia e l’integralismo islamico. Numerose interpretazioni chiamano così in causa: • gli effetti sociali dei processi di vulnerabilità di massa, sulla base di discriminazioni etniche nelle assunzioni, che colpiscono soprattutto i giovani figli di immigrati maghrebini e subsahariani; • il clima di tensione e di provocazione reciproca fra forze dell’ordine e giovani dei quartieri problematici; • il disinteresse dello Stato per alcuni problemi – impiego giovanile, sovvenzioni alle associazioni, ecc. A proposito di queste rivolte, sono state realizzate due indagini sui giovani dei quartieri popolari: a Saint-Denis da Kokoreff, Barron e Steinauer22, e ad Aulnay-sous-Bois da Cicchelli, Galland, de Maillard e Misset23. Esse permettono di constatare che la linea di demarcazione tra partecipazione attiva e passiva alle sommosse è piuttosto sottile, e i giovani confessano solo con molta difficoltà di essere stati coinvolti nelle aggressioni. Temono, sembra, di poter essere identificati, ma esitano ancor di più a dichiararsi rivoltosi o no, e soprattutto a indicare dei giovani che avrebbero commesso delle violenze: è come se si sentissero tutti toccati 21

Sottoproletariato, N.d.T. Enquête sur le violences urbaines: comprendre les émeutes de novembre 2005, l’exemple de Saint-Denis, realizzata da Michel Kokoreff, Pierre Barron e Odile Steinauer, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Centro d’analisi strategica, Dipartimento Istituzioni e Società (novembre 2006). 23 Enquête sur le violences urbaines: comprendre les émeutes de novembre 2005, l’exemple de Aulnay-sous-Bois, realizzata da Vincenzo Cicchelli, Olivier Galland, Jacques de Maillard, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Centro d’analisi strategica, Dipartimento Istituzioni e Società (novembre 2006). 22

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da questi avvenimenti in base ad un’appartenenza generazionale e territoriale, in base all’esperienza condivisa della vita nelle periferie e in base alla sensazione che parlare sarebbe tradire il loro gruppo. Ciò non significa che tutti abbiano indirettamente partecipato a queste violenze. Tanto più che, come notano Cicchelli et alii, pur provando una forma di solidarietà con l’avvenimento in sé, alcuni si dissociano nettamente da azioni estreme o pericolose, come le sassaiole contro i vigili del fuoco o gli incendi delle scuole. Secondo Kokoreff et alii, sono apparsi due elementi fondamentali: da una parte, la giovane età dei protagonisti e la loro azione autonoma dai ragazzi più grandi e dagli adulti durante le sommosse; dall’altra, il peso delle polemiche locali. La giovane età dei rivoltosi I più giovani, gli adolescenti, mostrano una forte identificazione con il loro quartiere. Oltre a collocarsi in una scala sociale, essi sono anzitutto di “Allende”, di “Bel-Air”, o di “Francs-Moisins”24. Questa appartenenza li protegge, offrendo loro uno spazio in cui trovano dei punti di riferimento, ma li opprime, a causa dell’interconnessione molto forte fra le persone: essa fa sì che “si sappia tutto subito”, che i più grandi possano controllare i più piccoli e che i maschi possano limitare la libertà delle femmine. Questa identità si basa sulle esperienze quotidiane che la creano e la mantengono. L’appartenenza a una condivisione di esperienze dà loro in qualche misura il diritto di far parte di un gruppo e il dovere di difenderlo. Questa solidarietà coatta permette di capire determinate relazioni e di giustificare questa identità legata al quartiere. Se non la mostrassero, correrebbero il rischio di essere esclusi. Nel quartiere si trova anche uno spazio frazionato in cui ogni giovane si affilia a uno o più gruppi, percependo all’interno di essi un forte attaccamento ai pari, che gli adolescenti designano spesso come la propria banda. Quelli che hanno fra i 20 e i 30 anni sottolineano, al contrario, una certa distanza dagli avvenimenti, disconoscono ciò che è avvenuto nel loro quartiere e ne hanno conosciuto i dettagli attraverso i media. La24

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Tutti quartieri del municipio di Seine-Saint-Denis, N.d.T.

sciano trasparire un forte senso di disperazione. Usciti molto giovani dal sistema scolastico, senza neanche aver conseguito il diploma dei già poco brillanti indirizzi che stavano seguendo, continuano, per la maggior parte, a vivere con i genitori, non hanno un lavoro fisso e si occupano di ciò che definiscono un “piccolo business”, senza precisare di che si tratti – spaccio di cannabis, lavoro nero, lavori con contratto ad interim… la frontiera fra legale e illegale non è chiaramente stabilita. Essi non nutrono nessuna ragionevole speranza circa il proprio futuro e circa quello dei giovani del quartiere, di cui parlano in modo rassegnato. Quelli che hanno 14-20 anni sembrano, al contrario, molto interessati alle rivolte. Spesso scolarizzati o recentemente usciti dal sistema scolastico, non hanno né la stessa percezione né la stessa esperienza sociale dei ragazzi più grandi, in particolare non sembrano rassegnati. Questa parte di gioventù è stata disposta a sollevarsi, prendendo nettamente le distanze dalle figure che nel loro quartiere rappresentavano l’autorità. Gli abitanti che abitualmente contavano e agivano per controllare e calmare i più giovani, sembravano aver perso questa prerogativa. La squalifica della figura dei fratelli maggiori è particolarmente notevole. Essi vivono in situazione di precariato, sono poco invidiati dai più giovani, perché non sono riusciti ad emanciparsi da una misera condizione sociale e non sono capaci di costituire un modello. Questo vale sia per i ragazzi che si sono adeguati al sistema, che hanno compiuto studi relativamente avanzati e che si sono ritrovati poi senza lavoro, sia per quelli che si adattano a lavori di ogni tipo, che si occupano del “piccolo business” e che continuano a “puntellare i muri”, o a perdere tempo nei sottoscala. Il quadro dei comportamenti genitoriali è composito e alcuni giovani ammettono che i propri genitori tentano di esercitare un’autorità in casa, mentre altri interlocutori adulti – presidi, responsabili di associazioni – parlano di “genitori paralizzati, stanchi o che hanno rinunciato ad esercitare la propria autorità”. Alcuni adolescenti dichiarano, dal canto loro, che “i genitori hanno paura dei figli”. E comunque, anche se a casa si esercita una qualche autorità, sembra davvero poco efficace (Cicchelli et alii). Se l’età è una discriminante forte, come la posizione sociale e l’esperienza (o l’inesperienza) che essa implica, non può tuttavia bastare a spiegare la partecipazione alle rivolte. Bisogna ragionare sui processi che hanno fatto sì che una parte dei giovani vi fosse “favorevole”. Il profilo dei rivoltosi, così come è stato realizzato attraverso l’indagine condotta 183

da Kokoreff et alii, è quasi lo stesso delle tre vittime di Clichy-sous-Bois: hanno fra i 15 e i 17 anni e sono scolarizzati; non hanno precedenti penali e provengono da famiglie di immigrati. Conoscono bene, per averle vissute, le motivazioni che hanno spinto alla fuga le vittime di Clichysous-Bois, ma non possono dire di conoscere altrettanto bene quei poveri ragazzi: sanno solo che uno studiava a Saint-Denis e giocava a calcio in una squadra locale. L’inserimento all’interno del tessuto del quartiere sembra una condizione necessaria alla partecipazione alle rivolte. Certo, i gruppi che incendiavano le automobili o che devastavano gli edifici non erano necessariamente gruppi preesistenti, ma si fondavano sulla base di forti legami di interconnessione e potevano corrispondere all’unione, in misura parziale o totale, di gruppi preesistenti. I rivoltosi erano, infatti, poco propensi a sconfinare in altri quartieri, perché le diverse componenti locali non potevano accettare simili intrusioni. La maggior parte di loro è caratterizzata da una condizione di “né-né”, cioè la situazione di chi non ha né qualcosa da perdere – lavoro, “piccolo business”… – né si sente rassegnato come i ragazzi più grandi. Non solo la rivolta ha interessato i ragazzi più giovani, ma può essere interpretata come un atto di sfiducia verso i “fratelli maggiori”, un modo di non accettare la loro autorità, visto che occupano spesso delle posizioni degradate all’interno dello spazio sociale. Questa volontà di esautorare la figura del fratello maggiore, benché temporanea, può segnare una rottura e modificare parzialmente l’organizzazione dei rapporti individuali che esistono all’interno di questo spazio. Il peso del contenzioso Anche l’esistenza di contenziosi individuali e collettivi permette di comprendere che cosa sia accaduto in quei giorni di rivolta: contenziosi con la polizia, ma anche con i quartieri immediatamente vicini, i negozi, l’istituzione scolastica. Inoltre, la selezione dei bersagli da parte dei rivoltosi rispondeva a una certa razionalità. Così, le automobili danneggiate non erano sempre scelte a caso, anche se la facile accessibilità a questo o a quel veicolo poteva rivelarsi decisiva. Allo stesso modo, alcuni istituti scolastici particolarmente danneggiati avevano in precedenza provocato polemiche da parte degli studenti, come quello il cui preside, nel 2005, 184

aveva spesso richiesto l’intervento delle forze dell’ordine. Il rifiuto della polizia da parte dei giovani non è dovuto a chissà quali brutalità, ma all’aspetto persecutorio dei frequentissimi controlli cui alcuni quartieri sono sottoposti. Sono coinvolti solo i maschi, le ragazze restano fuori da un conflitto in cui si possono così distinguere due aspetti ulteriori. Il primo è simbolico: ci sarebbe, cioè, una sfida permanente fra questi giovani e la polizia sul piano dell’onore. Il secondo si lega al rifiuto dell’intervento repressivo della polizia sul territorio delle periferie, perché una parte dei giovani, soprattutto i minorenni, ha sviluppato una cultura dell’illegalità associata alla sensazione che l’azione della polizia sia illegittima. Così, per esempio, poiché i ragazzi di periferia si considerano privati del lavoro a causa delle discriminazioni di cui sarebbero vittime, avrebbero il diritto di procurarsi, per vie illegali, i beni di cui hanno bisogno per “piacersi” e conformarsi ai codici del gruppo dei pari di appartenenza (cultura dell’apparenza). Bisogna tener presente l’effetto determinato dal gruppo: la vita in città è retta da una cultura, da una solidarietà, da codici condivisi e da una pressione conformista. Questa pressione del gruppo è evidente nell’azione, come è accaduto durante le rivolte, ma anche in altri momenti ritualizzati come la Festa nazionale francese o la notte di Capodanno (Cicchelli et alii). Anche il contenzioso relativo alla scuola è importante. La questione dell’orientamento scolastico sembra centrale. Gli adolescenti descrivono un sistema in cui, alla fine delle scuole medie, l’orientamento si svolge in modo estremamente arbitrario: si domanda loro, a 14 o 15 anni, che mestiere vogliano svolgere da grandi, quando non ne hanno alcuna idea a causa dell’assenza di informazioni affidabili sui mestieri e gli indirizzi formativi, e poiché i loro genitori non sono in grado di aiutarli. Questi giovani non possono compiere da soli la scelta che la scuola pretende e che dunque viene loro imposta. Ciò produce una profonda insoddisfazione che porta allo scoraggiamento, alla demotivazione, all’abbandono o al fallimento. La critica della scuola si fonda sulla sensazione che, in questi quartieri, i licei, benché situati in ZEP, siano disorganizzati. Come notano Cicchelli et alii, i giovani subiscono la relegazione scolastica e la ghettizzazione in “istituti marci”. Le rivolte si inseriscono così in un quadro di rancori e di frustrazioni che alimentano e legittimano gli atti più estremi. Il desiderio di rivolta è latente e può restare sopito per poi svegliarsi all’improvviso, poiché molti ragazzi evocano un grande senso di abbandono e 185

di degrado nel quartiere, associato a una situazione di chiusura. Il tutto crea un’esasperazione generale. Se tuttavia, come constatano Kokoreff et alii, i rivoltosi sono furenti, riescono raramente ad esprimere in modo chiaro delle rivendicazioni sul piano sociale e politico. Essi sembrano privi del dono della parola, poiché non hanno spazi in cui esprimersi, ma, ancor di più, non dispongono di mezzi che permettano loro di descrivere e trasformare in rivendicazione il disagio che provano. Non ignorano le forme dell’espressione politica che li circondano (rappresentanti politici, attivisti nel volontariato), ma percepiscono la propria incapacità di modificare radicalmente lo stato del quartiere in cui vivono. Profili e motivazioni Si può tentare di delineare il profilo dei rivoltosi. A livello nazionale, si sono opposte due tesi, quella dello zoccolo duro di delinquenti e quella di una rivolta popolare più generalizzata. In seguito ai processi che immediatamente seguirono, si è potuto tuttavia constatare, sottolineano Cicchelli et alii, che erano coinvolti sia individui che avevano precedenti penali sia giovani che avevano la fedina penale pulita. Una distinzione dicotomica fra rivoltosi/non-rivoltosi è in realtà troppo semplicistica e ambigua per essere presa per buona. Si può, al contrario, considerare un quadro a quattro livelli di implicazione, che vanno dal più blando al più intenso. • il giovane non coinvolto, che si mostra più o meno indifferente, critico o perplesso, ma più sui metodi impiegati dai rivoltosi che sulle motivazioni della collera; • lo spettatore passivo, che osserva gli avvenimenti dalla finestra di casa sua e li commenta al telefono con i suoi amici; • lo spettatore attivo, che si trova per strada al momento delle rivolte, insulta le forze dell’ordine, si dà alla fuga e si nasconde quando i poliziotti caricano… ma che si rifiuta di dar fuoco a un’automobile o di affrontare direttamente le forze di polizia; • il giovane coinvolto, che è probabilmente stato responsabile di incendi e di scontri fisici con le forze di polizia. 186

Cicchelli et alii precisano che non si tratta di categorie chiuse, ma più di un continuum all’interno del quale questi quattro livelli di implicazione hanno un valore indicativo, poiché è possibile il passaggio dall’uno all’altro, per esempio, quando il giovane si fa “trascinare” dai pari o, al contrario, quando un avvenimento o una persona lo fa calmare e desistere. Non c’è più una coerenza. Stando ai giovani intervistati, i moventi potenziali, il grado di coinvolgimento nelle sommosse e persino i loro fattori scatenanti sono variabili: • la volontà di farsi sentire – tematica del riconoscimento: si tratta di mostrarsi nello spazio pubblico e di esprimersi. La parola di questi giovani non era abitualmente presa in considerazione e la violenza sembrava l’unica forma espressiva disponibile e l’unico mezzo efficace per farsi capire; • la collera circa i fatti di Clicy-sous-Bois è spesso menzionata, ma i rivoltosi si sono rapidamente resi autonomi rispetto a quella causa iniziale, mostrando un’altra dinamica: la morte dei due adolescenti che si erano rifugiati nella centralina ha fatto da detonatore a un processo crescente, radicalizzato dagli scontri con la polizia, dall’aspetto ludico delle sommosse e dalla competizione fra le città; • l’opposizione al Ministro degli Interni, alla sua reazione alle rivolte e alla sua passata politica contro i comportamenti incivili dei giovani; • lo scontro con i poliziotti, poiché i rapporti fra la polizia e i giovani sono fortemente degradati ed esageratamente tesi; • la relegazione scolastica e professionale, la discriminazione nelle assunzioni, poiché un numero notevole di giovani era iscritto a indirizzi scolastici poco brillanti, diveniva assenteista o abbandonava gli studi, mentre i ragazzi più grandi avevano generalizzate difficoltà d’inserimento lavorativo; • la dimensione ludica, poiché le rivolte costituivano un grande sfogo, soprattutto per i più giovani, come emerge chiaramente dal registro lessicale impiegato per designare gli avvenimenti: “casino”, “bordello”, “caos”, “fare un macello”, “fare un bordello”, “far piovere merda”…; • il coinvolgimento da parte del gruppo, la forza d’attrazione e 187

d’influenza esercitata dai pari sui giovani, illustrati del resto da un’espressione specifica: “farsi trascinare”. • l’orgoglio associato alla trasgressione e all’accettazione del rischio, poiché i giovani avrebbero potuto esibire le loro “imprese” all’interno del gruppo; • la competizione fra le città: ben al di là di una forma di solidarietà con gli abitanti di Clichy-sous-Bois, il tema della concorrenza fra le città è stato indicato quale causa dell’estensione, nel tempo e nello spazio, delle rivolte; • l’impatto mediatico e il rapporto ambivalente che i giovani hanno con i media, cassa di risonanza strumentalizzata e manipolata dai rivoltosi. Comprendere o interpretare? Se non esiste una “spiegazione” che permette di capire davvero gli avvenimenti, tre “figure interpretative” lasciano tuttavia intravedere gli schemi tipici di processi come questi. Tali “figure” sono state suggerite da Cicchelli et alii, sulla base di almeno tre criteri: • il modo in cui i giovani si riferiscono al gruppo dei rivoltosi, pensando siano una piccola minoranza, la maggioranza o la totalità di un’intera generazione di adolescenti; • il modo in cui essi danno una spiegazione delle sommosse, associandole in parte o completamente alla delinquenza, all’esclusione sociale o al carattere ludico dello scontro con le forze dell’ordine, agli incendi, ecc.; • il modo in cui essi esprimono distacco o prossimità, approvazione o disapprovazione nei confronti dei rivoltosi. Le rivolte e la devianza I giovani pensano che le rivolte siano state provocate da una minoranza attiva da cui essi sperano di distinguersi. Essi vorrebbero capire fino a che punto la delinquenza in cui vivono i giovani delle proprie città possa permettere di capire la dinamica di questi avvenimenti. È spesso evidenziata l’influenza di una banda diretta da leader, ma non l’esistenza di boss 188

che sarebbero associati alla malavita organizzata. Secondo gli intervistati, i rivoltosi sono delinquenti abituali o delinquenti occasionali: • nella prima variante, i rivoltosi sono visti come giovani che non avrebbero niente da perdere, in quanto già implicati in traffici illeciti – spaccio, furti, atti di vandalismo –, gente che ha potuto approfittare, durante le rivolte, delle “competenze” acquisite nella vita delinquente e quotidiana, ad esempio per rubare il carburante dai serbatoi delle automobili posteggiate in città e creare bombe molotov; questi rivoltosi-delinquenti hanno potuto realizzare dei guadagni grazie alle rivolte, percependo una percentuale sui rimborsi liquidati dalle compagnie assicurative a taluni compiacenti proprietari di automobili distrutte; • nella seconda variante, i rivoltosi non sono designati come delinquenti e i loro comportamenti in occasione delle rivolte, che si tratti degli scontri con la polizia, degli incendi o dei saccheggi, sono considerati come devianti solo poiché sarebbero la conseguenza inevitabile, benché spiacevole, di rivolte di una simile ampiezza; questi delinquenti occasionali beneficiano dunque di una certa indulgenza e sono assimilati a una minoranza attiva che rappresenterebbe, attraverso la protesta, una maggioranza silenziosa. Le rivolte e la protesta In base a quest’ultima prospettiva, i giovani pensano che le cause scatenanti delle rivolte – disoccupazione, discriminazione, rapporti tesi con la polizia, indifferenza dei politici, esclusione sociale – abbiano degradato, da diversi anni, le condizioni di vita dei giovani. Non tutti hanno partecipato alle rivolte, ma una gran parte di essi avrebbe potuto e voluto. La spiegazione, basata su un diffuso senso di esasperazione, acquisisce qui la sua connotazione pienamente critica. I rivoltosi, insomma, sarebbero stati dei ragazzi normali. Chi è favorevole a questa interpretazione insiste sull’ampiezza e sulla durata delle proteste oltre che sull’importanza della mobilitazione collettiva; rifiuta, al contrario, l’esistenza di uno zoccolo duro o di una manipolazione dall’esterno, perché il primo non rende giustizia all’ampiezza della partecipazione e la seconda non dà abbastanza rilievo al suo carattere autonomo e spontaneo. I rivoltosi non sono considerati come membri di bande, ma solo come membri di gruppi che, 189

all’origine, non avrebbero né una vera e propria struttura né un’organizzazione. In questa figura, possono essere infine distinte altre due varianti, in base al giudizio, più o meno positivo, assegnato alle rivolte. Le rivolte e la dimensione ludica e nichilista In quest’ultimo tipo di figura interpretativa, i rivoltosi sono percepiti come adolescenti incontrollabili in ragione della loro giovane età. È evidente che persone davvero adulte e lucide non avrebbero potuto prendere parte a certe azioni. Il ruolo dell’età è in qualche modo “amplificato”, affinché acquisisca un aspetto generazionale. L’esplosione della violenza caratterizza dei soggetti molto giovani, determinati a spingere la rivolta quanto più lontano possibile. Questa figura interpretativa non suggerisce elementi esplicativi netti quanto le precedenti e insiste soprattutto sulla debolezza dei quadri di socializzazione: i giovani non conoscerebbero più dei limiti e non ascolterebbero né i loro genitori né i ragazzi più grandi né i religiosi. Niente può fermarli. L’aspetto protestatario della rivolta è messo in secondo piano rispetto al suo carattere nichilista. I motivi che spingono i giovani a scontrarsi con la polizia e a colpire dei bersagli sensibili non hanno a che vedere né con la delinquenza né con una manifestazione di dissenso. Le azioni hanno piuttosto un aspetto ludico, in cui i giovani ricercano anzitutto piacere e gioia. Non si tratta più di una piccola minoranza o di giovani di periferia, ma di una generazione particolare, quella degli adolescenti, per i quali i pari giocano un ruolo fondamentale. È con loro che ci si diverte a vedere e rivedere le foto e i video realizzati durante gli scontri, è con loro che ci si vanta delle proprie imprese in una logica di competizione. Di conseguenza, si avvia una specie di gara fra le città e i quartieri per ottenere il “primato” negli scontri con le forze dell’ordine, proprio perché questi scontri sono fine a se stessi e non un’azione contro lo Stato.

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Capitolo quinto

Bere, fumare, sorvolare

L’adolescenza si è sempre presentata come un periodo caratterizzato da trasformazioni fisiologiche, psicologiche e sociali. Oggi lo è ancor più, con la crisi dei valori, quella della famiglia e le angosce per il futuro. Fra le tematiche spesso discusse si trovano il consumo di droga e di alcolici. Messi a confronto con il malessere provato dalla società, alcuni giovani vogliono tentare di “curare”, con alcol e droga, la crisi che attraversano, mentre altri – spesso gli stessi – si danno al tabagismo. Nel 2008, il 70% dei giovani di 17 anni aveva già fumato una sigaretta, il 92,6% di essi aveva bevuto alcolici, il 59,8% aveva conosciuto delle ebbrezze e il 42,2% aveva fumato della cannabis. Al contrario, la percentuale di adolescenti che non aveva sperimentato nessuna di queste droghe era scarsa, nell’ordine del 5%, benché in leggero aumento dal 2005. La grande maggioranza degli indicatori considerati dall’OFDT1 si rivela tuttavia in calo: alcol, tabacco e cannabis sono sempre sostanze apprezzate dagli adolescenti, ma l’indagine ESCAPAD2, realizzata su 39.542 giovani di 17 anni in occasione della visita medica di leva, rileva che, malgrado importanti differenze regionali, essi tendono a consumare meno alcol, tabacco e cannabis che in passato. Al contrario, sperimentano più spesso poppers3 e cocaina, e conoscono sempre più di frequente delle intossicazioni alcoliche acute: • il 79% dei giovani ha già fumato una sigaretta, ma il consumo di tabacco diminuisce, passando dal 41,1% nel 2000 al 28,9% nel 2008; 1

Osservatorio Francese di Droghe e Tossicomanie. Indagine sulla salute e i consumi svolta durante la visita medica di leva. 3 Vasodilatatori, eccitanti, assunti per inalazione, N.d.T. 2

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• il consumo sperimentale o regolare della cannabis sembra in leggera diminuzione, benché il 42,2% degli adolescenti ne abbia già fumato; • il consumo di cocaina, ecstasy, di anfetamine e di eroina è in rialzo; • il 92,6% di essi ha bevuto alcolici almeno una volta. Nel 2008, l’età media per la prima sigaretta è di 13,4 anni per i maschi e 13,7 per le femmine, mentre quella per la prima ebbrezza risale rispettivamente ai 14,9 e ai 15,3 anni. Quella del primo spinello è di 15,1 anni per i maschi contro i 15,3 per le femmine. La situazione e i percorsi scolastici sono fortemente legati al consumo di prodotti psicotropi leciti e illeciti. I dati dell’indagine ESCAPAD rilevano così che i giovani che studiano negli istituti professionali o che hanno abbandonato la scuola, fumano, consumano alcolici, si ubriacano e assumono cocaina più frequentemente degli studenti di altri indirizzi. Anche quelli che hanno trovato difficoltà negli studi hanno dei consumi superiori a quelli dei loro compagni. Quelli che hanno raggiunto precocemente il mercato del lavoro sono comunque più esposti agli adulti che fumano rispetto ai coetanei che studiano ancora. L’ambiente sociale sembra così influenzare i consumi, poiché i figli dei professionisti e degli agricoltori fumano meno degli altri, ma sono più spesso ubriachi, mentre i figli di artigiani, commercianti e manager sono dei grossi consumatori di droga. Infine, i figli di genitori separati e quelli che non vivono con i genitori, presentano consumi più elevati – tranne che per gli alcolici – rispetto ai coetanei.

Io fumo, tu fumi… noi fummo… In Europa, la parola tabacco4 designa, in origine, la pianta e il sigaro confezionato con le sue foglie. Questa pianta erbacea, ricca di nicotina, conosciuta da tre millenni, era utilizzata da Incas e Atzechi per comunicare con gli spiriti. Si usava generalmente per calmare i dolori, alleviare la fatica o per raggiungere l’ebbrezza. Dopo che Cristoforo Colombo lo scoprì a Cuba, lo importò in Europa. Introdotto in Portogallo, poi in Francia 4 Termine derivato dalla spagnolo tabaco, originato dalla parola che in lingua arawak indicava un tipo di pipa.

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nel 1556 da padre Thévenet, il tabacco fu presentato a Caterina de’ Medici da Jean Nicot, nel 1560, come pianta medicinale in grado di alleviare le emicranie di suo figlio Francesco II. Si diffuse allora in Europa grazie alla sua reputazione di potente farmaco. Il Cardinale Richelieu impose una tassa sulla vendita del tabacco nel 1621 e Colbert rese la sua produzione e la sua vendita monopolio reale nel 1674, mentre la produzione francese era la più sviluppata d’Europa. La sua espansione avrebbe dovuto tuttavia attendere il 1843 e gli inizi dell’era industriale perché fosse venduto sotto forma di sigarette. Nel 1944, l’arrivo dei soldati americani giunti a liberare l’Europa avrebbe portato una rapida invasione dei tabacchi biondi5 dei grandi latifondi americani. A quell’epoca tuttavia, il consumo del tabacco non rappresentava che il 5% di quello attuale. I rischi associati al tabacco Il termine tabagismo indica l’intossicazione da tabacco. Il prodotto si caratterizza per un’elevata concentrazione di nicotina, alcaloide che contribuisce alla dipendenza e che è un potente veleno, utilizzato, in decotti, come insetticida. Una volta in circolo nel sangue, la nicotina si fissa a dei recettori del cervello che registrano i suoi messaggi e, in caso di mancanza, la richiedono. In piccole dosi, ha un effetto stimolante: provoca un aumento della pressione arteriosa e del battito cardiaco oltre che una liberazione di adrenalina; riduce inoltre l’appetito. A dosi massicce provoca nausee e vomito, perfino la morte per paralisi respiratoria. Produce un effetto gradito al cervello, stimolando la produzione di dopamina, senza alterare il comportamento, ma dà assuefazione e la tolleranza del cervello conduce ad un’assunzione regolare e in dosi sempre più alte perché gli effetti siano gli stessi. La dipendenza fisica che ne deriva si esprime attraverso spiacevoli sintomi di astinenza, quando la nicotina diventa insufficiente nell’organismo. Anche se questi sintomi non sono drammatici come quelli causati dall’astinenza da eroina o cocaina, l’uso di nicotina porta a una dipendenza abbastanza forte. In precedenza, le sigarette erano costituite solo da carta e tabacco, ma dagli anni ’60 sono state effettuate numerose aggiunte. Il tabacco 5 Tabacco di qualità ideale per le sigarette, a differenza di quello scuro, utilizzato per i sigari, N.d.T.

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non bruciato contiene più di 2.500 sostanze chimiche (fra cui pesticidi e numerosi additivi utilizzati durante la lavorazione), il fumo di sigaretta contiene più di 4.000 sostanze chimiche, di cui almeno una sessantina riconosciute come cancerogene – acetone, acido cianidrico, monossido di carbonio, DDT, arsenico, ecc.6. La complessità della composizione chimica è legata a quella della pianta, ma anche ai numerosi trattamenti realizzati sui raccolti per assicurarne la conservazione, il colore, il profumo, il gusto e la morbidezza. L’industria del tabacco ha tenuto per lungo tempo nascosta ai fumatori la presenza, nelle sigarette, di polonio 210, sostanza altamente cancerogena, derivante dall’utilizzo di concime a base di apatiti, atti a conferire un sapore particolare alle foglie. Tabagismo e nicotina danno anche dipendenza psicologica. Ogni sigaretta permette di aspirare nicotina per circa 10-12 volte e dunque di assumere una decina di volte una droga che contribuisce a “sentirsi bene”. Il cervello associa positivamente ogni tirata all’avvenimento o alla situazione vissuta, e la sigaretta diventa indispensabile. Le conseguenze nocive del consumo tabagico sono numerose. È all’origine di malattie cardiovascolari e di più della metà delle morti per cancro. È anche nocivo alla gravidanza e allo sviluppo del feto. È infine responsabile di un alto numero di malattie respiratorie, di disturbi gastrointestinali, di carie dentali e di disturbi del sonno. Anche il tabagismo passivo – aspirazione involontaria, da parte di un non-fumatore, del fumo emesso da chi gli sta vicino o da uno o più fumatori – si rivela dannoso, poiché il fumo così aspirato è particolarmente ricco di monossido di carbonio e di catrame. Nelle donne incinte è, per esempio, in grado di provocare i rischi di nascite premature e malformazioni congenite. L’inizio del consumo Gli effetti tossici del tabacco costituiscono un vero e proprio problema di sanità pubblica. Le conseguenze nocive si manifestano tardi nella vita del fumatore e, molto spesso, sebbene noti, i rischi sono negati. Il tabagismo ha spesso inizio durante l’infanzia e si consolida durante l’adolescenza. Il processo di avvio al comportamento tabagico si stabilisce attraverso 6

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http://www.tabac-stop.net.

l’integrazione progressiva del tabacco nello stile di vita dell’adolescente e si possono rilevare differenti tappe in base all’età: • fra i 7 e i 10 anni i bambini sono generalmente ostili alla sigaretta di cui detestano l’odore e non comprendono il piacere che ne traggono coloro che fumano; alcuni, sensibili alle immagini delle campagne di prevenzione, sono anche spaventati dai danni che i loro cari potrebbero subire a causa del fumo, ma sono comunque affascinati dal segreto celato da queste sigarette che associano alle “persone grandi”; • fra gli 11 e i 13 anni la curiosità supera l’orrore e i bambini desiderano sperimentare: fumano di nascosto, trasgredendo il divieto dei genitori, e fumare diventa una specie di rito di passaggio iniziatico verso un nuovo status, che permette loro di essere riconosciuti socialmente. A quest’età, diversi fattori intervengono inoltre per strutturare il consumo del tabacco: la curiosità naturale del bambino, l’uso del tabacco in famiglia o presso i conoscenti, l’impatto della pubblicità e le possibilità di accesso al prodotto. I “nico-logi” Durante l’adolescenza, la percentuale dei fumatori e la frequenza del comportamento tabagico aumentano, e i giovani passano dallo stato di fumatori occasionali a quello di fumatori regolari, e poi di fumatori dipendenti. Nel corso di questo periodo, appare un buon numero di condotte di dipendenza. In preda a stravolgimenti fisici e psichici, l’adolescente si rifugia nel consumo di varie sostanze tra cui il tabacco, che ostacola il processo di autonomizzazione. È vero però, come sottolinea François Marty (1999), che questi consumi hanno la funzione di calmare l’angoscia (che emerge nel momento in cui bisogna elaborare il lutto degli oggetti dell’infanzia), di riorganizzare il registro delle identificazioni e investire, sul piano libidico, su oggetti extrafamiliari. Oggi meno che ieri! Questo consumo tuttavia è diminuito dall’inizio del XXI secolo. I dati raccolti da ESCAPAD permettono di constatare che oggi fuma solo un 195

ragazzo su tre, risultato di una politica di prevenzione associata a un forte rialzo dei prezzi e, soprattutto, al divieto di fumare nei locali pubblici, che emargina i giovani fumatori. Le differenze regionali sono deboli, anche se si constata che gli adolescenti fumano meno nell’Île-de-France e nella regione di Rhone-Alpes che nel resto del Paese. C’è un abbassamento della percentuale degli adolescenti che dichiarano di aver già fumato, ma anche della percentuale di chi fuma tutti i giorni, che è passata dal 33% nel 1999 al 16% nel 2007 fra le femmine, e dal 30% al 18% per i maschi. Il passaggio al tabagismo quotidiano è un fenomeno che riguarda ragazzi sempre più giovani, con un’evoluzione quasi identica nei due sessi, e resta rara fra gli sperimentatori tardivi. La percentuale di coloro che fumano più di 10 sigarette al giorno è, al contrario, rimasta stabile, intorno al 5%. Bisogna anche notare che la legge non è rispettata dai tabaccai: l’86% dei giovani di 15 anni dichiara di aver potuto comprare del tabacco presso un rivenditore. I motivi per cui si fa uso di tabacco sono equivoci: il 47% dichiara di fumare per abitudine, il 34% riconosce di avere una dipendenza, 31% lo consuma per calmarsi e dormire meglio, e solo il 25% dei fumatori associa il tabacco a una festa. Una molteplicità di fattori Differenti fattori possono influenzare il consumo degli adolescenti. Ci sono anzitutto delle determinanti sociali, come l’influenza familiare. Nelle famiglie di fumatori, bambini e ragazzi hanno più facilmente accesso alle sigarette. Inoltre, anche i comportamenti e i discorsi dei genitori possono influire sul comportamento tabagico dei figli. Le pratiche educative sono decisive: un atteggiamento autoritario, per esempio, tende a diminuire il consumo di tabacco dei bambini, ma l’autorità non basta a impedire che i giovani fumino: servono anche il dialogo, le informazioni e le campagne scolastiche di prevenzione. Inoltre, se, prima della nascita, i bambini sono stati esposti al tabagismo materno, aumenta il rischio che essi possano un giorno iniziare a fumare. Infine, alcuni lavori dimostrano che la dipendenza tabagica potrebbe essere influenzata da fattori genetici. Poiché il gruppo dei pari acquisisce una grande importanza durante l’adolescenza, anche la sua influenza può giocare un ruolo decisivo. Fumare permette ad alcuni di sentirsi accettati dal gruppo. Anche i media e la pubblicità hanno un ascendente molto forte sui giovani, che sono il principale target dell’industria del tabacco. Le pubblicità che associano 196

sempre l’immagine della sigaretta a valori che i giovani considerano importanti: potere, indipendenza, potenza sessuale, socializzazione, ecc. e la personalità o alcuni stati d’animo (un senso di incomprensione o di malessere), che rendono i giovani più vulnerabili, possono favorire l’avvio al consumo di tabacco.

Hanno proprio bisogno di bere… L’alcol, ottenuto dalla fermentazione di vegetali ricchi di zuccheri e/o tramite distillazione, è una sostanza psicotropa che agisce sul sistema nervoso centrale, procurando distensione o ebbrezza. È una droga che si può classificare fra gli inebrianti tanto quanto l’etere, i solventi o i collanti. Le modalità del consumo vanno dall’uso occasionale, regolare o limitato alle feste, alla dipendenza, per poi passare al consumo a rischio e al consumo dannoso per la salute. Integrato nel nostro patrimonio socioculturale, l’alcol è consumato specialmente dagli adulti di sesso maschile. I giovani ne fanno ampiamente uso e, in Paesi come la Gran Bretagna, il consumo femminile non solo non differisce molto, ma talvolta supera quello maschile. Per quanto riguarda la Francia, l’ESCAPAD 2008 ci comunica che, nei 30 giorni che hanno preceduto l’indagine, il 77,4% dei giovani aveva bevuto degli alcolici. Il consumo regolare, che corrisponde a più di 10 assunzioni mensili, a livello nazionale, si è tuttavia abbassato, passando dal 12% all’8,9% fra il 2005 e il 2008, tendenza che, in teoria, dovrebbe confermarsi negli anni a venire grazie al divieto di vendita di alcol ai minorenni previsto dalla legge Bachelot (malgrado i produttori di alcolici possano continuare pubblicizzare i loro prodotti su Internet). Al contrario, dall’inizio del 2000, il binge drinking7 è in crescita e il 60% dei giovani ammette di averlo provato. L’ebbrezza alcolica ripetuta, definita da almeno tre episodi annuali di ebbrezza acuta, assume degli aspetti inquietanti presso i giovani, un buon numero dei quali – più di un ragazzo su quattro – cerca delle ebbrezze potenzialmente distruttive piuttosto che una semplice euforia alcolica: il binge drinking è un fenomeno che riguarda in particolar modo la Bretagna, in cui è praticato da circa il 40% degli adolescenti. Le differenze regionali sono importanti: i Paesi della 7

Lett. “bere freneticamente”, N.d.T.

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Loira contano così un 14% di consumatori regolari, il Poitou-Charentes, la Borgogna e il Languedoc-Roussillon presentano tassi elevati di consumo regolare, mentre l’Île-de-France, il resto del Nord e del Sud sono più moderati. Una droga tollerata dalla società La società francese è piuttosto tollerante quanto all’alcol, almeno se è associato ad un contesto di festa. Il suo consumo presenta tuttavia una pericolosità certa. Durante l’adolescenza, c’è un’importante comorbidità che associa l’alcol ai tentativi di suicidio e riguarda in primo luogo i maschi, per i quali il rischio è tre volte più elevato rispetto alle femmine; queste, dal canto loro, possono subire alterazioni del comportamento alimentare, se gli alcolici sono assunti per calmare la fame, come in alcuni casi di bulimia. Un forte consumo comporta anche un senso di fatica e la perdita di memoria, aumenta il rischio di rapporti sessuali non protetti e tende ad accompagnarsi all’uso di altre sostanze: infatti l’alcol può essere il primo di una serie di sostanze assunte, può inoltre essere percepito come mezzo per affrancarsi da un’altra tossicomania e, infine, può contribuire a una pluri-tossicomania. L’alcol è responsabile di incidenti domestici e stradali, di comportamenti aggressivi e violenti, di emarginazione e di descolarizzazione; è all’origine del 40% delle morti sulla strada, che costituiscono la principale causa di mortalità dei giovani fra i 15 e i 24 anni. Un consumo moderato di alcolici non è certo da impedire, perché si conoscono gli effetti perversi del proibizionismo nei Paesi in cui fu applicato e si sa anche che la trasgressione dei divieti è una delle caratteristiche dell’adolescenza. L’alcol riveste, inoltre, un ruolo importante nell’economia francese, poiché una parte notevole della popolazione vive, direttamente o indirettamente, della sua produzione e distribuzione. È l’uso eccessivo ad essere pericoloso. Durante l’adolescenza è possibile distinguerne tre forme. La prima può essere considerata come un mezzo d’integrazione – sebbene deviato – nel mondo degli adulti. Inquietante, benché tradizionale, somiglia all’uso dell’alcol tipico dei Paesi mediterranei. La seconda forma è più allarmante e comporta la riprovazione del corpo sociale, che lo associa all’emarginazione e alle devianze. Essa consiste in assunzioni sporadiche in cui l’alcol è utilizzato per raggiungere 198

il prima possibile l’ebbrezza, lo “sballo”: l’ebbrezza non è fortuita ma ricercata per ciò che essa permette di fare o per come permette, illusoriamente, di essere. Si tratta di uno stato di ebbrezza acuta, che consente di provare una liberazione da limiti corporei e linguistici e di immergersi in una sensazione di benessere, dimenticando pericoli e problemi quotidiani. L’alcol è in questo caso assunto nel quadro di una vera e propria tossicomania, o di una pluri-tossicomania, insieme a tabacco, psicofarmaci e droghe illecite, delle quali accresce e accelera gli effetti. In grado di modificare il pensiero, può essere associato a tranquillanti o essere assunto al posto di psicofarmaci. L’ultima forma di consumo eccessivo, meno frequente, riguarda soprattutto giovani ragazze, che ne fanno una specie di automedicazione, consumando alcol, in modo discreto, solitario e colpevolizzato, per i suoi effetti euforizzanti, sedativi, disinibitori e ansiolitici. In preda alle difficoltà, alcune ragazze iniziano così a far uso di alcol, rischiando l’alcolismo cronico, prima moderato e poi sempre più regolare e in grado, in poco tempo, di divenire patogeno. Dai primi consumi all’abuso Alla fine degli anni ’80, l’80% degli adolescenti ammetteva di aver consumato almeno una bevanda alcolica. Questo primo consumo era molto precoce, poiché il 16% dei maschi e il 10% delle femmine diceva di aver bevuto alcolici prima dell’età di sette anni, e il 6% di questi prima dei cinque anni. Questa precocità era più evidente nei maschi che nelle femmine: più del 25% di essi ne aveva già consumato fra i sette e i dieci anni, ma bisognava aspettare i 12 anni, per le femmine. Choquet e Ledoux, a metà degli anni ’90, constatavano inoltre che il 52% dei giovani dagli 11 ai 19 anni consumava alcolici: il 40% occasionalmente o ubriacandosi solo una o due volte all’anno, mentre più del 12% beveva almeno due volte a settimana o si ubriacava almeno tre volte all’anno, con un consumo variabile in base al sesso – il 58% dei maschi e il 47% delle femmine – e in considerevole aumento con l’età. La situazione è un po’ evoluta nel primo decennio del XXI secolo. Se l’11% dei giovani dichiara di non aver mai bevuto degli alcolici, un adolescente su due ne fa uso almeno una volta al mese e il consumo regolare, proprio come le prime ebbrezze, inizia verso i 13-14 anni. Il consumo 199

aumenta rapidamente, soprattutto nei maschi, ma le femmine, che bevono sempre più spesso superalcolici, si avvicinano ai loro colleghi. La maggior parte delle indagini effettuate in questi ultimi anni conduce a risultati simili, evidenziando l’attualità del problema e la relativa preminenza di atteggiamenti eccessivi nella popolazione maschile. Secondo i dati francesi dell’indagine nazionale HBSC8, pubblicata nel 2005, l’iniziazione all’alcol avviene precocemente, poiché circa il 25% dei bambini di 11 anni e il 60% dei ragazzi di 15 hanno già bevuto alcolici. Le differenze legate al sesso sono sfumate per quanto riguarda il consumo occasionale, che riguarda il 65% dei maschi e il 59% delle femmine. A 15 anni, il 33% dei giovani dichiara di aver provato delle ebbrezze – la prima già verso i 13 anni e mezzo, tre mesi prima delle femmine. L’abuso d’alcol nel corso del mese precedente all’indagine (definito da un consumo uguale o superiore a cinque bicchieri in una stessa occasione) riguarda un po’ più del 15% degli adolescenti, la metà dei quali in modo ripetuto durante il mese. Questi risultati sono molto vicini a quelli ottenuti in occasione della realizzazione, in Francia, nel 2003, dell’inchiesta ESPAD: il 70% dei maschi e il 63% delle femmine di 12 anni hanno già consumato alcolici, il consumo regolare aumenta, fra i 12 e i 18 anni, dal 4 al 22% per i maschi e dal 2 al 7% per le femmine. L’astinenza rimane maggioritaria fra gli 11 e i 15 anni (nel 70% dei maschi e nell’80% delle femmine), ma la percentuale diminuisce con l’età, in particolare verso i 13 anni. Come ricordano Choquet et alii, se il consumo medio è di due-tre bicchieri al mese per ragazzi di 13-14 anni, esso è superiore a un bicchiere al giorno all’età di 19 anni, a prescindere dal sesso. L’inchiesta ESCAPAD rileva così che numerosi giovani dai 17 ai 18 anni sono consumatori di birra, vino e superalcolici – whisky, tequila o vodka –, il 18% dei maschi e il 6% delle femmine di 17 anni bevono regolarmente, e circa la metà di questi hanno bevuto di nascosto nel mese appena trascorso. Allo stesso modo, l’inchiesta realizzata nel 2007 dalla SMENO9 rileva che il 16% degli studenti delle scuole superiori e il 9% delle studentesse hanno provato delle ebbrezze, e che il 41% dei maschi e il 19% delle femmine ammettono di bere spesso, in un mese, sette bicchieri di alcolici nel 8 HBSC, Health Behaviour in School-aged Children, indagine sulla salute e il benessere degli studenti di 11, 13 e 15 anni, condotta ogni quattro anni dal 1982. 9 Servizio sanitario per gli studenti del Nord e del Nordovest con compiti di prevenzione.

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corso di una stessa serata. Questi lavori evidenziano infine che il 2,3% dei giovani di 17 anni si è dato al binge drinking un giorno su tre negli ultimi 30 giorni prima dell’inchiesta, riuscendo così a rimanere ubriaco quasi senza soluzione di continuità per un mese intero. Il che può sembrare eccessivo, ma non è nulla in confronto al consumo dei giovani britannici di 16 anni, che è dieci volte superiore a quello dei francesi! Alcol, famiglia e amici Per Assailly (2007), l’influenza dei genitori sui comportamenti alcolisti, così come quella dei pari, è importante. Alcuni sono tentati di pensare che durante l’adolescenza, poiché l’autorità genitoriale viene meno, solo i pari e i media siano influenti, ma l’influenza genitoriale resta essenziale nei comportamenti degli adolescenti, attraverso il modello sociale, il livello di intesa e di comunicazione, attraverso l’identificazione nel genitore dello stesso sesso e la comunicazione della cultura. Questa influenza è particolarmente marcata durante la fase di iniziazione all’alcol, poiché quella dei pari interviene soprattutto quando il comportamento è già avviato. È in famiglia che il bambino scopre gli alcolici, in occasione delle feste, dei banchetti o delle vacanze. È allora “invitato” dai suoi genitori a prendere un po’ di vino o di champagne. Spesso avviene una prima ebbrezza, perché il bambino ha bevuto dai bicchieri lasciati pieni dagli invitati. Tali ebbrezze suscitano l’ilarità degli adulti, ovvero la loro derisione. L’inizio di un consumo meno episodico avviene più tardi, fra i 12 e i 14 anni, con gli amici. Il “vero” primo bicchiere è quello celato ai genitori, quello che gli fa conoscere birra e superalcolici. Conosce spesso in questa occasione la sua vera “prima ebbrezza”. Questo gli permette di integrarsi nel gruppo dei pari e, strutturando il proprio tessuto sociale, di darsi dei punti di riferimento identitari: dimentica così gli stravolgimenti dell’adolescenza e i problemi esistenziali che lo assillano. Dopo i 15 anni, soprattutto verso i 16-17, durante le scuole superiori e con le nuove libertà che quegli anni comportano, il consumo avviene fra compagni, più spesso durante il week-end, poi le sere del venerdì e del sabato, nei bar e nelle discoteche. Due giovani su tre dichiarano del resto che i genitori impediscono loro il consumo di alcol durante la settimana. Dopo i 19 anni, però, essendo maggiorenni, essi dicono di avere – di essersi presi – il diritto di bere ciò che vogliono, quando vogliono. Il modo di bere dei giovani francesi sembra così passare da quello tradizionale a quello anglosassone 201

– astinenza durante la settimana e poi, fra sabato e domenica, “sballo” a base di birra e superalcolici. Per alcuni, quello è il momento di “bere per bere”, senza riflettere: si rompono i rapporti con il consumo in famiglia, socialmente accettato, per bere fino all’estremo, al di là dei propri limiti, fino a star male (Le Garrec, 2002). Non c’è festa ben riuscita senza alcol In Totem e tabu, Freud si riferiva a una festa primitiva che definiva come «un eccesso consentito ovvero prescritto, una violazione solenne dei divieti, […] permesso accordato di fare ciò che è proibito in un tempo normale». Le feste servono per dimenticare collettivamente e temporaneamente la quotidianità. Il consumo di alcol ha un ruolo rituale e normalizzatore dei livelli di coscienza dei partecipanti. Bere diventa un rito necessario all’ingresso nella festa e l’alcol permette di far cadere le inibizioni, di condividere valori comuni e di creare un legame sociale. La “festa” è del resto menzionata dall’80% dei giovani nell’inchiesta ESCAPAD quale principale occasione di consumo, assai più dello “sballo”, citato solo nell’11% delle risposte, dei consumi a scopo ansiolitico, distensivo o calmante, che riguardano solo il 4% delle persone; solo il 5% degli adolescenti ammette di bere per abitudine e l’1% ammette di esserne dipendente. Notti di ebbrezza… Le serate dei giovani seguono, secondo Freyssinet-Dominjon e Wagner (2003) un ritmo elevato, in due o tre tappe generalmente improvvisate: l’inizio della serata o “riscaldamento”, che si svolge sia a casa di qualcuno sia in un pub e consiste nel bere in attesa che il gruppo sia al completo. La serata prosegue a casa di qualcuno, in un ambiente chiuso o aperto, in cui il pasto ha di per sé una funzione accessoria, perché i giovani hanno già cenato, ognuno a casa propria oppure tutti insieme, dopo aver cucinato qualcosa di poco impegnativo, ordinato pizze o mangiato snack. Poi, durante tutta la serata, consumano alcolici, superalcolici, birre e premix10, mentre parlano o giocano. L’ebbrezza non è più allora un “in10

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Si tratta sostanzialmente di cocktail preconfezionati, N.d.T.

cidente” isolato, ma rappresenta una modalità di consumo particolare, in cui non è necessariamente ricercato il piacere, poiché lo scopo è di essere KO il prima possibile: infatti gli adolescenti cercano i limiti del proprio Io – lo spazio psichico – e quelli della realtà esterna – lo spazio sociale – all’interno dei quali essi evolvono. La notte sembra legittimare pratiche estreme ed eccessive, spazio sociale privilegiato in cui possono esprimersi le emozioni, al contrario del giorno, caratterizzato dalla necessità di controllarsi. La notte permette di giungere alla disinibizione, al gioco e al piacere. Le feste serali sono associate all’alcol, all’euforia e all’ebbrezza. In questi luoghi e in questi momenti di seduzione e di gioco, in cui i ruoli sociali e le apparenze si modificano e le norme della buona educazione si dimenticano, le differenze sociali sembrano cambiate. L’atemporalità fa perdere l’orientamento e il consumo notturno si inserisce nella normalità del bere. Il consumo nel contesto della festa è studiato da Anne-Marie Thomazeau, che associa al profilo del “festaiolo” – chi beve per festeggiare – una delle quattro tipologie di consumatori. Gli altri sarebbero l’“avventuriero” – che beve per conoscere nuove sensazioni –, il “timido”, che beve per fare come gli altri e integrarsi, e il “fuggitivo” – che beve per evitare la realtà e i suoi problemi. Da tali profili emergono anche analisi delle motivazioni al consumo evidenziate nei nostri lavori: ricerca del piacere, di una sensazione di benessere, di sensazioni forti, di integrazione sociale e di disinibizione. Spesso, ricorda Le Garrec, i consumi sono associati a dei giochi e l’alcol è l’unica sostanza tossica impiegata in pratiche ludiche. I giochi, che si tengono generalmente in occasione di incontri fra amici, facilitano l’accesso al clima della festa e prolungano l’euforia, perché costituiscono in qualche modo una difesa contro la noia che, in un’occasione simile, sarebbe assimilata a un vero e proprio fallimento identitario, un’infrazione alla regola del presente, che dovrebbe essere vissuto nella gioia. La natura dei giochi verte sulla competizione e sull’esibizione delle proprie imprese, del coraggio e della competenza, per esempio attraverso una buona resistenza alla quantità di alcol ingerito. Questi giochi implicano scommesse e sfide. Lo svolgimento e i risultati delle prove permettono ai pari di esprimere dei giudizi di valore che attribuiscono stima e popolarità o manifestano disprezzo. Questi giudizi conferiscono ad ognuno una certa immagine, una reputazione. In assenza di riti iniziatici, questi giochi 203

ricordano le ordalie, i duelli e i combattimenti presenti in alcune società, anche se si mostrano sotto forme simboliche. In questa fase di ricerca identitaria in cui l’autostima è così fragile, simili giochi consentono ad ognuno di mettersi alla prova e di mostrare quanto valga. …ma non prive di pericolo Gli alcolici hanno dunque un ruolo di iniziazione ai rituali sociologici della festa. Legati, secondo alcuni, alle tappe della vita sociale, sono associati da altri a un bisogno di emancipazione, a un bisogno di ritrovarsi con i pari e di mettere alla prova i propri limiti. Fra i 17 e i 25, la birra, i premix e i superalcolici rendono più gradevoli le serate di festa dei giovani. Bere permette allora di provare un senso di vertigine, di vivere un’ebbrezza che può essere leggera e sembrare piacevole. Tanto più che i riti associati al consumo, come pagare il proprio giro o portare una bottiglia da casa, permettono una convivialità condivisa, che, associata alla capacità di saper reggere l’alcol, manifesta i segni di un “sapere-bere” all’interno del gruppo. Eppure, bere può diventare rapidamente problematico. Festeggiare, divertirsi con gli amici, può infatti tradursi per alcuni in voglia di “prendersi una sbornia, una sbronza”, di consumare in modo esagerato, organizzato e ben visibile. Da un consumo che si vorrebbe moderato all’abuso il confine è sottile, e alcuni adolescenti lo superano con facilità, poiché le tradizioni e la convivialità fanno loro dimenticare che non solo l’alcol non è indispensabile all’alimentazione, ma che il suo eccesso è molto rischioso, e la forza, l’allegria o la gioia che il suo consumo sembra procurare sono spesso fittizi; e dimenticano anche che l’illusione dura solo un istante e se, in un primo tempo, sembra facilitare la comunicazione, costringe rapidamente ognuno alla sua solitudine. Per ludici che siano, precisa Le Garrec, tali comportamenti possono orientarsi verso pratiche molto più estreme, soprattutto quando l’alcol è associato a sostanze come cannabis o ecstasy. Il consumo ludico è vicino a quello tipico delle tossicomanie. In coloro che abusano di alcolici si riscontrano spesso, del resto, alcuni aspetti comuni. Choquet e Ledoux notano così in giovani che fanno un uso eccessivo di alcolici, delle caratteristiche familiari, scolastiche e personali come la difficoltà ad intrattenere buoni rapporti con i genitori, la mancanza di autorità di questi, l’irregolarità della frequenza e dell’impegno scolastico, l’instabilità dei risultati ottenuti e la mancanza di adesione ai valori del 204

mondo adulto. Stando a questi autori, il giovane consumatore è un ribelle, non un asociale, poiché manifesta soprattutto il desiderio di non fare e di non essere come i suoi genitori. L’alcolismo è allora il sintomo di una fallita relazione e di un’assenza di comunicazione che induce una confusione estrema. In un mondo in cui le prospettive future e il successo sono segnati dall’incertezza, l’alcol permette ad alcuni giovani di esprimere il malessere nato dall’assenza di uno status sociale e dalla mancanza di responsabilità civica. Il consumo di sostanze psicotrope permette insomma di creare “un momento a parte”, di operare una rottura con la realtà. I premix Per un buon numero di adolescenti, l’alcol sembra indispensabile alla festa, al divertimento, al fun. I pubblicitari lo sanno e ne fanno uso nelle operazioni di marketing, quando vogliono attrarre e fidelizzare la clientela per i produttori di alcolici. Propongono così delle bevande che, sotto apparenze rassicuranti e inoffensive, sono adatte a sedurre le famiglie e più in particolare i giovani. Queste bevande mascherano la propria pericolosità, facendo credere che siano poco alcoliche. Sono chiamati premix o ancora alcopops11. Apparsi in Gran Bretagna nel 1995 e in Francia alla fine degli anni ’90, i premix acquistarono una fama abbastanza negativa presso gli adulti, mentre incontrarono appieno il favore dei giovani. Sono bevande alcoliche in cui il sapore dell’alcol è mascherato dal sapore di zucchero e aromi. Derivati da un mix di bevande alcoliche e analcoliche, più spesso soda, esse si presentano in confezioni attraenti e vivaci. In bottiglie o lattine da 20 o da 50 cl, sono estremamente maneggevoli ed economicamente abbordabili dai giovani, poiché la strategia di marketing è diretta proprio a loro. Questo fa sì che se ne possano consumare molti, senza rendersi conto della quantità ingerita. Bevande molto dolci e piacevoli al palato, i premix hanno una gradazione alcolica analoga a quelle delle birre di uso comune, nell’ordine dei 5-6°, gradazione di cui il consumatore non si accorge, perché lo zucchero maschera l’amarezza dell’alcol spesso non gradito dai più giovani, specie se di sesso femminile. I premix più getto11

Parola composta da “alcol” e da “pop”, cioè “soda” in inglese.

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nati sono il whisky-cola, la vodka-cola, il rhum-cola, la vodka all’arancia e quella alla mela. Questi nuovi prodotti rappresentano un rischio per i giovani poiché, se la facciata attraente e la varietà di gusti ne spiegano il successo, a livello di effetti sulla salute sono come tutti gli altri alcolici. Bere un premix porta ad ingerire la stessa quantità di alcol presente in una birra, in un bicchiere di vino o di superalcolico. Quando l’istruzione fa rima con beone: il binge drinking Il binge drinking12 corrisponde a un’intossicazione alcolica acuta, normalmente conosciuta come “sbronza express”, che deriva dall’assunzione di una grande quantità di alcol per riuscire ad essere ebbri il più rapidamente possibile. Questa pratica alcolista parossistica e intermittente, osservata in origine nell’Europa del Nord, riguarda oggi in particolare i giovani studenti francesi. I ragazzi si ubriacano in gruppo: sono maschi nella maggior parte dei Paesi, tranne che in Danimarca, Finlandia e Gran Bretagna, dove sono le femmine ad ubriacarsi più spesso. Questa assunzione è facilitata dalla politica dei venditori di bevande, che incitano i vari “Guido”13 a non bere, affinché possano accompagnare a casa i propri compagni dopo le loro serate, così come dalla moltiplicazione dei bar dove gli happy hour permettono, a determinati orari, di bere alcolici a metà prezzo. Le complicazioni si rivelano gravi: coma etilico, traumi, problemi respiratori e cardiaci, patologie epatiche… che, in taluni casi, possono portare alla morte. Bisogna anche tener conto dei disturbi del 12 Il binge drinking equivale a bere, in due ore, cinque o più bicchieri di alcolici per un maschio, e quattro o più bicchieri per le femmine, anche se esistono variazioni dovute a fattori come la massa corporea, l’età, l’assunzione recente di cibi o droghe. È una modalità di consumo di una violenza estrema, che porta a tassi alcolemici elevati, che possono superare i due grammi. Il tasso di intossicazione provocato dal fenomeno è tuttavia abbastanza controverso, poiché non si tiene conto né della velocità con cui l’individuo beve né la durata complessiva dell’assunzione né la statura o il suo peso corporeo, mentre ne prende in considerazione il sesso. Ora, rispetto all’alcol, ognuno reagisce diversamente non solo in base al proprio sesso, ma anche in funzione di altri fattori come l’età, la corporatura, le abitudini di consumo e lo stato fisico e mentale del momento. 13 Bob in Belgio e Olanda, Sam in Francia, Guido in Italia, sono i soprannomi affibbiati al “guidatore designato”, il ragazzo che, nelle serate di divertimenti alcolici, deve rimanere sobrio perché è il suo turno di guidare l’automobile e portare a casa, senza problemi, gli amici, N.d.T.

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comportamento, degli incidenti e delle violenze che possono derivarne, oltre al fatto che si può abbassare la guardia contro rischi derivanti dal sesso: si possono infatti provocare gravidanze indesiderate, contrarre malattie sessualmente trasmissibili o subire stupri. Dally e Choquet (2007), riferendosi ai risultati delle indagini ESPAD14 e HBSC riguardanti gli episodi di ebbrezza e binge drinking dei ragazzi dagli 11 ai 16 anni, notano delle differenze notevoli fra i Paesi europei, con la Francia che si colloca fra gli ultimi posti quanto a ebbrezze regolari: a 16 anni, il 3% degli adolescenti francesi è stato ubriaco almeno tre volte durante i 30 giorni precedenti all’indagine, contro il 26% della Danimarca, il 23% della Gran Bretagna e il 16% della Finlandia. In nove Paesi su 28, fra il 1999 e il 2003, le ebbrezze regolari sono aumentate. Per gli altri Paesi sono rimaste stabili o sono diminuite. I Paesi interessati da un aumento delle ebbrezze regolari e del binge drinking sono spesso collocati nell’Europa dell’Est. In Francia, il binge drinking è più frequente dell’ebbrezza: l’83% dei giovani ammette di non aver mai provato un’ebbrezza, ma solo il 71,3% di essi non ha mai sperimentato il binge drinking, che, presso i giovani, è un modo come un altro per consumare alcol in gruppo. Bere con i pari facilita il consumo e procura una più grande euforia rispetto al bere da soli. Inoltre, il livello di consumo alcolico è legato alla percezione che il giovane ha dell’intensità del consumo degli altri. Le Grands Écoles coinvolte Questo fenomeno di eccessivo consumo d’alcol si è largamente esteso all’interno delle Grands Écoles francesi15, i cui studenti l’hanno istituito come rito di passaggio nelle serate o nei week-end di socializzazione, quando si festeggia il superamento del concorso d’accesso e l’integrazione nella nuova comunità in qualità di membri effettivi. Questo valore è così importante e profondo che essi spiegano così la radicalità del rito: entrare nel gruppo o restare dei “no bodies”. Perciò i veterani impongono questa sfida. Nelle serate degli studenti, spesso l’alcol è sinonimo di 14 European School Survey Project on the Alcohol and other Drugs, indagine condotta in 35 Paesi nel 1995, 1999 e 2003, circa le abitudini di consumo di alcol e di droga fra gli adolescenti. 15 Istituti d’istruzione superiore di livello universitario, accessibili, dopo aver superato un concorso molto selettivo, alla fine del corso di studi in “classi preparatorie alle Grands Écoles”, sezioni speciali ospitate in alcuni licei, N.d.T.

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relax: gli open bar invitano a un consumo che, se diventa regolare e/o eccessivo, può creare una dipendenza tanto più forte quanto più i suoi effetti si manifestano tardi e quanto più il consumatore “regge bene l’alcol”. Lo studente non si rende conto di essere entrato in una dipendenza. Se il 17% di essi non consuma mai bevande alcoliche, il 2% beve una-due volte a settimana, il 6% tre-quattro volte e l’1% ogni giorno. Uno studente su tre ha già avuto la sensazione di aver bevuto troppo nel corso della sua vita, il 42% ha la stessa sensazione, ma riferita agli ultimi 12 mesi. Le “sbronze liberatorie” nelle classi preparatorie prefigurano queste serate, nota Anne Delaigue, psicologa alla Scuola politecnica. Questa generale tendenza allo sfogo è normalmente autorizzata dall’istituto delle classi preparatorie nell’ultimo giovedì del trimestre, tanto la pressione accumulata è stata forte. Il fine è di ubriacarsi il più rapidamente possibile per entrare in una specie di trance. I giovani pensano allora di poter far di tutto, amoreggiare, spogliarsi, rotolarsi nudi nella neve… Questa “sbronza”, almeno per una serata, permette loro di smettere di pensare a corsi e concorsi. Quando poi accedono alle Grands Écoles, l’alcol fa parte integrante della loro vita di studenti. Fa parte di ogni festa e gli “anziani” si impegnano a trasmettere rapidamente questo rituale, di promozione in promozione, di concorso in concorso, per continuare la tradizione. I nuovi arrivati hanno l’impressione che bere significhi stare dalla parte degli anziani, quindi degli adulti. Proseguendo negli studi, essi finiscono col conoscere un vero e proprio addestramento fisico, che li abitua ad aumentare le dosi, poiché si innalzano le soglie di saturazione. Il saper-bere, la capacità di reggere l’alcol, la conoscenza dei riti associati al suo consumo sono, ricorda Masse, le prove tangibili dell’attitudine alla convivialità dello studente della Grand École. Bere come si deve ed esser capace di “lasciarsi andare” diventa così, per esempio nell’ESSEC16 o alla Centrale17, un mezzo di integrazione e valorizzazione particolarmente importante. A coloro che sanno festeggiare, chiamati “star” “leggende” “miti”, si oppongono quelli che, rimasti in un’ottica scolastica, non hanno saputo integrarsi: “sgobboni”, “casa e chiesa”, “no bodies”. Infatti, alcuni scelgono di non bere, segnando nettamente la propria differenza e rischiando di essere stigmatizzati dal gruppo che apprezza assai poco i comportamenti devianti. 16 17

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Grand École del commercio. Grand École delle arti e dell’artigianato.

Le Grands Écoles non sono le uniche ad essere interessate dal fenomeno, poiché in alcuni luoghi delle grandi città della Bretagna avvengono raduni notturni e spontanei di studenti fortemente ubriachi, come quelli che ci sono a Brest di giovedì sera, al punto che, come segnala il quotidiano “Le Télégramme” del 28 novembre del 2009, i residenti hanno costituito comitati per esigere l’intervento delle autorità municipali. La LMDE, organizzazione per il servizio sanitario agli studenti, che gestisce indagini regolari sul loro stato di salute, ha del resto recentemente constatato un forte aumento del numero dei consumatori di alcolici e dei loro eccessi: infatti, il 62% degli studenti dichiara di bere superalcolici. Di questi, il 58% è di sesso maschile, il 52% di sesso femminile, ma sono accomunati, per loro stessa ammissione, da un consumo alcolico eccessivo nel corso degli ultimi mesi. Ancora una volta, il pericolo è nell’aria… Questo consumo non è senza pericolo. Attraverso il binge drinking, i giovani corrono il rischio di esporsi ai problemi legati all’alcol – vandalismo, risse, incidenti, relazioni sessuali non protette –, a quelli successivi, legati alla salute, al disinserimento sociale, alle difficoltà economiche, ovvero a conseguenze legali. Questo consumo eccessivo può talvolta provocare il coma etilico, ma conduce molto più spesso al cambiamento di personalità, alla perdita di lucidità, a visioni deformate di situazioni che possono indurre alla violenza. Si è così osservato che negli Stati Uniti, per studenti astemi che vivevano in campus con alta concentrazione di binge-drinkers, c’era un rischio di subire aggressioni e danni materiali due-tre volte più alto rispetto agli astemi che vivevano in campus in cui la percentuale dei binge-drinkers era bassa. Allo stesso modo, un incidente stradale mortale su tre è direttamente legato all’alcol e nell’85% dei casi i conducenti sono bevitori occasionali. Questi incidenti coinvolgono spesso i giovani durante i week-end, a notte fonda o all’alba, mentre tornano da feste in cui hanno bevuto troppo. L’alcol rallenta, in effetti, i tempi di reazione, nuoce alla precisione nelle manovre, alla previsione delle traiettorie, all’elaborazione delle informazioni visive e al recupero della lucidità dopo un colpo di sonno… esiste una relazione fra questi effetti e la quantità di alcol assunta, come esiste (nel 30% dei casi, in particolare per gli adolescenti di sesso maschile) un legame tra il consumo di alcol e il suicidio. 209

Perché così beoni? L’alcol è associato alla festa per il 75% degli studenti, alla convivialità per il 58%, al relax (34%), al piacere (37%), ma anche all’eccesso (23%), alla dipendenza (18%) e alla depressione (11%). La maggior parte degli studenti ha dunque un’immagine abbastanza positiva dell’alcol e quest’immagine varia con l’età. Gli studenti più giovani associano il consumo alla festa: l’81% dei ragazzi di 19 anni o meno, contro il 64% dei ragazzi dai 26 anni in poi. Più sono grandi, più trovano piacere nel consumo. Soprattutto i non-consumatori, benché menzionino il piacere che l’alcol presumibilmente provoca, attribuiscono il suo consumo a persone che hanno bisogno di dimenticare i problemi, che ne hanno una dipendenza, o che soffrono di depressione. Gli adolescenti sono, nell’insieme, poco sensibili agli avvertimenti presenti sulle bottiglie di alcolici, che ricordano che “l’abuso d’alcol nuoce gravemente alla salute… e bisogna consumarne con moderazione”. Inoltre, bisogna tener conto del senso che essi danno alla nozione di moderazione e alla quantità che essi pensano si possa assumere “ragionevolmente”. Certo, in particolare se consumatori occasionali18, una donna non dovrebbe superare le due-tre unità alcoliche in 24 ore, e un uomo le tre-quattro unità; invece, il consumo è giudicato “a rischio” se si può rispondere positivamente a due o più di questi quesiti estratti da un questionario realizzato dalla SMEREP, un’azienda che fornisce servizi sanitari per gli studenti: 1. Hai già sentito il bisogno di diminuire il tuo consumo di alcol? 2. Le persone che ti circondano ti hanno già fatto notare il tuo consumo? 3. Hai già provato la sensazione di aver bevuto troppo? 4. Hai già sentito il desiderio di alcolici sin dal mattino, per sentirti in forma? Analizzando il processo che porta gli studenti a trovare nell’alcol i mezzi per affrontare le situazioni difficili, in particolare lo stress, e deter18 Un’unità d’alcol corrisponde approssimativamente a un bicchiere di vino da 10 cl, un bicchiere di aperitivo da 6 cl, una coppa di champagne da10 cl, una birra media da 25 cl, un bicchierino di whisky o di liquore da 3 cl. Ogni unità assunta fa aumentare di circa 0,20 grammi l’alcolemia in un litro di sangue ed è necessaria più di un’ora perché sia smaltita.

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minando quali fossero i sintomi intercorrenti in grado di facilitare l’alcolismo, dei ricercatori americani hanno dimostrato che le abitudini alcoliste acquisite durante l’adolescenza durerebbero tanto quanto il contesto che ne ha facilitato l’instaurazione. Sono soprattutto gli studenti maschi a fare appello all’alcol per poter affrontare lo stress degli studi e sono sempre loro ad avere la più alta probabilità di diventare alcolisti da adulti. Una società molto individualista come quella americana, mossa dallo spirito di competizione, spinge i propri membri all’isolamento, favorendo, in individui che non trovano un conforto all’interno della comunità, il ricorso all’alcol nelle situazioni stressanti.

I giovani e le droghe Il consumo occasionale di alcuni prodotti illeciti è quasi divenuto uno degli aspetti sociologici caratteristici di una parte della gioventù contemporanea. Un buon numero di studenti delle scuole medie e superiori ha in effetti assunto, almeno una volta, un prodotto definibile come droga, che si tratti di sostanze lecite o di prodotti di uso comune utilizzati in modo deviato. Secondo l’indagine ESCAPAD del 2008, su otto anni, i livelli di sperimentazione dei prodotti psicotropi illeciti – cannabis a parte – sono aumentati. Si distinguono quattro gruppi di prodotti: • il primo comprende la cocaina e le anfetamine, in crescita continua dal 2000, con una percentuale di sperimentazione da parte di nonconsumatori abituali che raggiunge il 3%; • il secondo gruppo riunisce l’ecstasy e i funghi allucinogeni, in leggero calo dal 2005; • il terzo raggruppa l’LSD, l’eroina, il crack, il subutex19, il GHB20 e la chetamina, i cui livelli di consumo aumentano, benché inferiori o vicini all’1%; • il quarto gruppo riunisce le droghe inalate, che aumentano in maniera incostante dal 2005, e i poppers, la cui sperimentazione ha 19 Buprenorfina, oppioide utilizzato per trattare la dipendenza da oppiacei e come analgesico, N.d.T. 20 Cfr. infra.

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conosciuto un rialzo coerente con quello delle altre droghe inalate nel corso degli ultimi anni21. L’origine di tali consumi – che, aumentando, possono condurre alla tossicomania – è di ordine individuale e sociologico. Tanto l’assunzione di una droga è da interpretarsi come sintomo di un malessere personale – ed è in qualche modo un meccanismo difensivo contro depressione e ansia –, tanto essa è da considerare come una condotta di gruppo. La ripetizione dell’uso si mostra tuttavia relativamente rara e cambia nettamente da un prodotto all’altro. Così, il 15,8% dei giovani che hanno sperimentato l’eroina, ne ha fatto uso per più di dieci volte in un anno e questa percentuale raggiunge il 9,7% per la cocaina, il 9,2% per l’ecstasy, il 6,7% per i poppers e il 4,6% per le droghe inalate. Ad ogni modo, il ruolo svolto dall’ambiente è innegabile e bisogna cercare di comprendere questo fenomeno sia attraverso i problemi familiari che attraverso l’adattamento alla società. Il termine droga designa differenti sostanze ricercate per i loro effetti psicotropi e il cui uso abituale conduce alla tossicomania, che si manifesta attraverso una dipendenza fisica e/o psichica. Questo stato si caratterizza attraverso modificazioni comportamentali e un desiderio pulsionale di un prodotto che tende sia a provocare effetti psichici soddisfacenti, sia a evitare la sofferenza legata alla sua privazione, conducendo ad aumentare le assunzioni a causa dell’assuefazione. La dipendenza psichica corrisponde a un consumo per il piacere legato all’uso e/o per il malessere dovuto alla mancanza di una determinata sostanza. La dipendenza fisica è quella che coinvolge direttamente l’organismo. Essa si manifesta quando c’è un’interruzione del consumo. L’assuefazione è la resistenza progressiva del corpo agli effetti di alcuni prodotti. Essa comporta la necessità di aumentare le dosi consumate per tentare di riprodurre la soddisfazione iniziale.

21 L’aumento del consumo dei poppers può legarsi allo status legale di questi prodotti, la cui vendita era limitata ai maggiorenni nei sexy-shop, prima di essere vietata nel 2007, poiché contenevano degli alchil nitriti; ne derivò un aumento dell’offerta e l’abbassamento del prezzo per liquidare le scorte di fabbricanti e rivenditori. Tuttavia, nel maggio 2009, il Consiglio di Stato ha annullato questo decreto e la visibilità e la disponibilità di questi prodotti sono in crescita su Internet.

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I rapporto dell’individuo con la droga porta all’analisi di un’equazione a tre variabili: la sostanza utilizzata, la personalità del consumatore e il contesto socioculturale del consumo. La sostanza utilizzata Esistono diverse classificazioni delle droghe. Le più semplici tengono conto solo della natura del prodotto in sé, lasciando da parte ogni considerazione sociologica o psicologica del consumatore. Altre, al contrario, sottolineano i loro effetti, separando le droghe pesanti (eroina, cocaina, morfina) da quelle considerate leggere (hascisc, marijuana, LSD). Le classificazioni ispirate da Lewin sembrano più logiche e qui le evocheremo brevemente, in quanto una rappresentazione più adeguata ne è stata offerta altrove (Coslin, 2003). Gli euforizzanti Il gruppo degli oppiacei comprende l’oppio, i suoi derivati e diversi prodotti di sintesi. Analgesici e calmanti per la tosse, comportano numerosi effetti. A partire dall’oppio22, si ottengono una ventina di alcaloidi. La diacetilmorfina è ottenuta artificialmente e si ricollega ai derivati del fenantrene. Questa sostanza, creata nel 1879 per trattare la dipendenza da morfina e i disturbi respiratori di asmatici e tubercolotici, è nota con il nome generico di eroina. Anche diversi analgesici sintetici sono riconducibili agli oppiacei. Alcuni sono utilizzati come anestetici, altri lo sono nelle terapie sostitutive. L’utilizzo endovena produce tre effetti, quello del “flash”, quello dell’“orbita” e quello della “discesa”. L’effetto flash e quello dell’orbita sono gli unici ad essere poi ricordati dal soggetto. Gli eccitanti Numerose sostanze sono state da sempre utilizzate come stimolanti: caffè, arsenico, tabacco, qat, ecc. Attualmente, è consumato anche un 22 L’oppio, o “pianta della gioia”, era già noto nel VII sec. a.C. Ha fatto parte sia della farmacopea antica che della mitologia. Il suo utilizzo fu duplice: medico, come il nepenthès citato nell’Odissea come analgesico, passando per la theriaca romana, nota a Gallieno, e poi al laudanum; per usi non medici è nota l’oppiofagia in Inghilterra, il consumo aperitivo di laudanum in Europa centrale e l’oppio fumato in tutto il mondo.

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certo numero di prodotti farmaceutici, le anfetamine, alle quali si unisce spesso la cocaina, il cui effetto è sia euforizzante che eccitante. Non bisogna minimizzare né l’importanza né la dannosità di questi prodotti, anche se, a livello sociale, il loro consumo è abbastanza accettato. L’uso tossicomanico più frequente è endovena. Gli effetti sono simili a quelli che derivano dall’iniezione di euforizzanti, ma si provoca un’eccitazione cerebrale più viva e, in seguito, una più marcata melancolia depressiva. L’azione delle anfetamine comporta, inoltre, un aumento della vigilanza e, di conseguenza, il sopraggiungere di disturbi del sonno. La dipendenza è più psichica che fisica. L’ecstasy23, anfetamina di origine inglese, venduta in compresse, capsule o polvere, è molto consumata in Francia e in Europa. Procura una viva stimolazione cerebrale e sensoriale, euforia, eccitazione, relax, piacere, sensazione di benessere ed esasperazione della sensualità. Induce una resistenza alla fatica, al sonno e alla fame, ma aumenta anche la tensione arteriosa e l’ansia e accelera il ritmo cardiaco. Gli effetti durano spesso molte ore prima di essere seguiti da una “discesa”. I rischi sono molto gravi. Il qat è una sostanza vegetale estratta dalle foglie di un arbusto di una famiglia delle celastraceae originario dell’Arabia, coltivato soprattutto nell’Africa orientale. Le foglie contengono degli alcaloidi simili alle anfetamine. Assunto per via orale, è uno psicostimolante che sopprime la fame, la fatica e che, per alcuni, avrebbe virtù afrodisiache. I rischi associati al suo consumo sono di ordine digestivo (gastriti), cardiovascolari e psichiatrici (deliri). La coca è utilizzata da molto tempo dagli indiani d’America del Sud. Si tratta delle foglie di coca, arbusto della specie Erythroxylon coca ed Erythroxylon novo gratense. La cocaina è stata isolata nel XIX secolo a partire dalle foglie della pianta. Si tratta di un alcaloide dalle proprietà intermedie fra quelle degli eccitanti e quelle degli euforizzanti. Entrò nella preparazione di prodotti parafarmaceutici, ma anche di sigarette e di bevande (Coca-Cola24 e Vin Mariani). L’uso della cocaina procura una sensazione di benessere, di 23 La composizione di una compressa o di una pillola venduta come ecstasy è generalmente molto dubbia. Può essere mischiata ad altri prodotti dannosi e la metilendiossianfetamina non è sempre presente (MLDT-CFES 2001). 24 La Coca-Cola attualmente in commercio ovviamente non ne contiene.

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euforia e stimolazione intellettiva; inoltre è utilizzata come afrodisiaco. A forti dosi può provocare tremori e convulsioni. Il crack è un derivato della cocaina dalla dannosità marcata che, giunto dagli Stati Uniti, dove ha conosciuto un grande successo ed ha procurato numerosi incidenti, ha fatto il suo ingresso in Francia nel corso degli anni ’80. La sua dannosità è accentuata dal basso prezzo rispetto ad altre sostanze come eroina e cocaina. Fumato e inalato, il crack è considerato la droga dei poveri. Gli allucinogeni Gli allucinogeni fanno parte di quelle che alcuni definiscono “droghe leggere”, oppure droghe ideologiche. Possono essere distinte due grandi categorie: la canapa e suoi derivati da una parte, e gli altri allucinogeni. La canapa è nota per le sue virtù inebrianti sin dall’antichità. Si tratta di una pianta erbacea, la Cannabis Sativa, originaria dell’Asia centrale e introdotta in Francia nel XIX secolo, in seguito alla campagna d’Egitto. Si usa principalmente in tre forme: come resina, al naturale e liquida (hascisc). È spesso disciolta in una bevanda alcolica o no (sciroppo ai fiori d’arancio, anice, ecc.) e ingerita, ed entra nella composizione di dolci orientali. La resina è frequentemente tagliata con prodotti più o meno tossici. Se la dipendenza psichica è relativamente nota, la dipendenza fisica è particolarmente controversa: resta da chiarire se sia una sostanza cancerogena, se abbia effetti sul sistema immunitario, sulla spermatogenesi e sul ciclo femminile. Gli altri allucinogeni sono sostanze che producono delle ebbrezze oniriche. Sono rappresentati da numerosi prodotti di origine naturale o artificiale. Così, la mescalina e la psilobicina sono estratte da funghi e da cactaceae originari dell’America centrale e meridionale, ma l’LSD 25 è un prodotto di sintesi scoperto nel 1943. Gli allucinogeni producono allucinazioni di ogni tipo anche se ciascun prodotto ha la propria specificità. Bisogna infine menzionare gli anticolinergici (datura, belladonna), piante delle solanaceae che contengono scopolamina e fenclidina (PCP), usata anticamente come anestetico e antalgico, poi abbandonata (ma non in veterinaria) a causa degli sgradevoli effetti collaterali al risveglio. La PCP, o polvere d’angelo, è spesso venduta e/o utilizzata al posto della mescalina. 215

Gli inebrianti Degli inebrianti si fa sia un uso corrente, non etichettato come tossicomanico (alcol), sia un uso domestico deviato (inalazione). Distribuzione e consumo non sono a priori delle condotte illecite. Gli inalanti sono sostanze utilizzate da tempo, benché la natura dei prodotti scelti sia variabile nel tempo e nello spazio. Quelli utilizzati ai nostri giorni possono raggrupparsi in quattro categorie: le colle, che contengono acetone, acetato di etile, metiletil-acetone, esano, toluene o benzene; i solventi, che contengono acetone, toluene e acetati alifatici; gli anestetici volatili come l’etere, il tricloroetilene e il protossido d’azoto; il gas contenuto nelle bombolette spray (fluorocarbone), la benzina e il gas emesso dalle automobili. Secondo i casi, l’inalazione si realizza a partire dal flacone che contiene il prodotto, da un tampone imbevuto, da un recipiente caldo o, in un modo più pericoloso, da un sacchetto di plastica. I sedativi Tranquillizzanti e ipnotici costituiscono una categoria di prodotti largamente consumati in Francia (barbiturici – idrossibutirrato e benzodiazepine). I barbiturici sono derivati della malonilurea e sono sintetizzati dal 1903. Sono state isolate circa 2.500 molecole, di cui una cinquantina in commercio. I tossicomani utilizzano preferenzialmente i barbiturici a breve durata, che perdono il loro effetto sedativo quando sono consumati più volte al giorno, lasciando il posto a un effetto di stimolazione psichica. Il consumo combinato di alcol e di barbiturici è frequente e particolarmente pericoloso. L’idrossibutirrato, o GHB, è utilizzato nelle terapie come anestetico ad azione rapida e come sonnifero. Successivamente, gli effetti sono euforizzanti e sedativi. La dipendenza è psichica e fisica. L’alcol, l’ecstasy e le anfetamine rafforzano i suoi effetti, ma la cannabis li contrasta. Le benzodiazepine occupano un posto importante nella farmacopea, con 3.000 molecole sintetizzate, di cui una ventina in commercio. Queste sostanze sono utilizzate dai tossicomani come trattamento per calmare l’astinenza e/o in associazione con altri prodotti. I poppers A questi prodotti si possono aggiungere i poppers, preparati che contengono dei nitriti alifatici in soluzione o in solventi organici. Si crede che posseggano proprietà afrodisiache e furono inizialmente consumati negli 216

ambienti omosessuali. Il consumo da parte di eterosessuali è abbastanza recente. I primi consumi L’utilizzo regolare di una droga è sempre preceduto da un primo contatto. Più un adolescente è in rapporto con coetanei che fanno uso di droghe, più il rischio di una prima sperimentazione è alto. All’origine, l’opinione del giovane, formatasi all’interno della famiglia e della scuola, è piuttosto ostile alla droga, ma, iniziata la sua ricerca di autonomia, l’adolescente è sensibile all’opinione dei propri pari, che è generalmente favorevole al consumo. I fumatori di spinelli non manifestano, tuttavia, né la volontà di ostracizzare i non-iniziati né un “marketing” aggressivo. La prima sperimentazione avviene generalmente all’interno di un gruppo in cui si verificano fenomeni di similarità e di imitazione. Si possono distinguere due gruppi tipici di adolescenti, in base alla loro esperienza in fatto di droghe: • in un gruppo di neofiti, la sperimentazione avviene tra inesperti che non vogliono provare da soli un prodotto fino a quel momento sconosciuto e che desiderano inoltre valorizzarsi in rapporto agli altri giovani coetanei. La sperimentazione fra novizi permette di non temere lo sguardo degli altri. Questa è la situazione in cui avviene una sperimentazione ludica; • in un gruppo di esperti25, al contrario, il giovane subisce una pressione indiretta da parte dei pari. Gli spinelli “girano” e vengono offerti e, se è certo possibile rifiutare l’esperienza, tirarsi indietro non è facile perché ciò potrebbe portare una non-integrazione nel gruppo, oppure l’allontanamento di chi si sottrae a un “delirio comune”. Terminata l’iniziazione, l’adolescente può non ripetere l’esperienza o passare a un consumo occasionale o regolare. La prima scelta deriva da un mancato apprezzamento degli effetti del prodotto, mentre il consumo 25

Nel 95% dei casi, la sostanza proposta è la cannabis.

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ripetuto è coerente sia con la piena soddisfazione delle aspettative del giovane e di ciò che ha provato, sia in relazione con l’integrazione all’interno del gruppo. L’iniziazione alla cannabis si svolge secondo tre fasi: l’apprendimento della tecnica, la percezione degli effetti, la sensazione di piacere. Se questo apprendimento avviene in condizioni positive, il coinvolgimento è molto probabile. Il ruolo dell’iniziatore è primario, perché sono i suoi consigli a guidare il neofita verso gli effetti desiderati. Questa iniziazione e i primi consumi sono associati alla festa, momento che permette di astrarsi dal quotidiano, dalle difficoltà e dai problemi. Il consumo procura il desiderio di infrangere la legge26. Alcuni momenti di incontro possono rivelarsi particolarmente pericolosi, i rave parties per esempio, in cui, al consumo di cannabis e alcol, può associarsi quello di altre sostanze altrettanto nocive come ecstasy, acidi, funghi, cactaceae allucinogene o cocaina. Uno studio preliminare Nei 30 giorni che hanno preceduto l’indagine ESCAPAD 2008, il 24,7% dei giovani aveva fumato della cannabis. Il motivo del consumo è spesso una festa (61%), ma la ricerca dello “sballo” è frequente (38%), come gli scopi ansiolitici, sonniferi o coadiuvanti (11%) e i consumi abitudinari (14%) o legati a una condizione di dipendenza (7%). I prodotti più pericolosi sono i meno utilizzati dai giovani. Alcuni aspetti, tuttavia, sono particolarmente preoccupanti, come l’aumento della diffusione della cocaina (3,3%), delle anfetamine (2,2%), del crack (1,1%), dell’eroina (1,1%) e del GHB (0,4%). Questi comportamenti sono ancora marginali, perché manifestano l’interesse di alcune frange della popolazione adolescente, mentre l’ecstasy sembra un po’ passato di moda. Anche l’aumento della sperimentazione delle droghe inalate e dei poppers è preoccupante, ma il loro consumo sembra interrotto prima di altri prodotti. L’età media della loro sperimentazione si è alzata fra il 2000 e il 2003 e poi si è stabilizzata intorno ai 16 anni. La cocaina è passata dallo 0,9 al 3,3% fra 2000 26 La legalizzazione della cannabis, ovvero la sua depenalizzazione, sottrarrebbe una parte notevole dell’interesse di cui gode presso alcuni giovani, che potrebbero però essere tentati da nuove sostanze, il cui consumo rappresenterebbe di nuovo una trasgressione. La festa può condurre, attraverso reciproche influenze, a provare altre sostanze.

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e 2008, l’eroina dallo 0,7 all’1,1% fra 2005 e 2008, e l’uso delle droghe da inalare, come i poppers, è in forte aumento, ed è passato, nel corso degli anni, dal 5,5% nel 2005 al 13,7% nel 2008. Anche i farmaci sono deviati dal loro uso normale: il 30,4% degli adolescenti ammette di aver provato un prodotto fitoterapico od omeopatico, il 18,4%, dei tranquillanti, il 14,6%, dei sonniferi, il 7,2% degli antidepressivi, il 2,2% degli antipsicotici, l’1,4%, degli psicofarmaci, e l’1% della ritalina27. Più della metà dei soggetti che ne fanno uso afferma di aver preso la medicina dietro prescrizione medica, il 30% dai loro genitori e il 3% da un amico; l’8% dichiara di averlo preso di propria iniziativa e il 4% in “altri modi”. I sonniferi si rivelano i farmaci più sperimentati al di fuori di ogni controllo medico, sia in quanto somministrati dai genitori (37%), sia in quanto assunti su iniziativa personale (20%). Queste sperimentazioni riguardano soprattutto lo femmine, tranne che nel caso della ritalina, due volte più diffusa fra i maschi. Nell’uso delle droghe si possono distinguere quattro fasi: • utilizzo occasionale e ricreativo, in cui il consumo – generalmente della cannabis – si svolge in una festa, fra pari (ricerca di convivialità, condivisione e di evasione dalla realtà, senza tuttavia disconnessione totale). Il giovane consuma in un contesto di socialità e la droga ha il ruolo di mediatore sociale; • l’uso regolare, in cui il gruppo continua a far uso della sostanza, mentre i vari membri avviano dei consumi anche privati, con il conseguente aumento della tolleranza al prodotto. Questo consumo si verifica spesso in situazioni di conflitti familiari e può accompagnarsi all’abbandono scolastico. Ragioni economiche spingono i giovani a diventare spesso spacciatori per assicurarsi l’approvvigionamento personale a costi inferiori; • l’uso quotidiano, in cui il giovane non ha più il controllo del proprio consumo e perde ogni consapevolezza della dannosità delle sostanze. La droga serve da scappatoia a un disagio e permette di fuggire una realtà vissuta come opprimente. Lo “sballo” è ricercato attraverso l’aumento delle dosi delle sostanze e attraverso miscugli; 27

Farmaco utilizzato per curare il disturbo da deficit dell’attenzione, N.d.T.

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• la tossicomania, in cui si ricerca l’effetto dello “sballo” e in cui la droga è divenuta il fulcro del comportamento di un soggetto. La vita sociale è impossibile ed è orientata verso l’emarginazione e la rottura con la società. I fattori di consumo Numerosi fattori sono associati alla diffusione dell’uso delle droghe presso gli adolescenti. Alcuni sono legati alla loro psicologia, al disadattamento sociale, al loro bisogno di sfuggire artificialmente ai problemi concreti che incontrano. Fra questi possono essere indicati: l’indebolimento del nucleo familiare, il rifiuto dei valori tradizionali, la scomparsa di qualsiasi freno alla curiosità, di rivolta contro un mondo adulto che è giudicato assurdo, l’imitazione di alcuni “idoli” dello spettacolo, il desiderio di sottrarsi all’angoscia, la fuga da una società tecnicizzata e orientata verso la produttività, le difficoltà di inserimento e il senso di esclusione. Altri fattori, più direttamente legati al consumo, sono l’influenza e l’emulazione dei pari, la pubblicità indiretta (letteratura, cinema, musica, ecc.), la facilità dell’approvvigionamento, la farmacodipendenza, creata legalmente fin dall’infanzia, l’abuso di medicine in famiglia e soprattutto l’ignoranza degli effetti reali delle droghe. La pubblicizzazione delle droghe, diretta o indiretta, è sospetta di incitare al consumo. In un’inchiesta da noi realizzata nel 1999, più della metà dei giovani la menzionavano in modo più o meno certo. Il coinvolgimento e l’iniziazione motivano spesso i primi consumi. Che si chiamino in causa i compagni di classe, altri conoscenti o le personalità del mondo dello spettacolo, la parte accordata all’influenza sembra preponderante. Il 75% dei giovani attribuisce così ai pari un ruolo importante nell’avvio del consumo. Né il sesso né l’età né il livello socioeconomico differenziano gli adolescenti quanto ad esso. Si fa menzione anche della voglia di imitare gli idoli dello spettacolo, gli eroi dei film, i personaggi della letteratura o del mondo dello sport. Alcuni gruppi rock o musicisti (che dichiarano pubblicamente una dipendenza da questa o quella sostanza) e alcuni libri, che sono vere e proprie apologie della tossicomania, sono citati quali istigatori della prima iniziazione. Infine, il 73% degli adolescenti menziona la facilità di approvvigionamento della droga per 220

spiegarne il consumo: questa percentuale varia poco in base al sesso, ma si differenzia in base all’età, passando dal 41% nei più giovani al 50% nei più grandi.

Musica, violenza e droga Come ricordava Élisabeth Rossé, psicologa all’ospedale Marmottan, nella sua tesi discussa nel 2005, riferendosi ai lavori di Green, dall’inizio del XX secolo l’urbanizzazione e le innovazioni tecnologiche hanno sostenuto lo sviluppo della musica popolare. Dagli anni ’50, tuttavia, c’è una novità: i giovani hanno un posto sempre più importante nel consumo musicale. Le tematiche delle canzoni cambiano considerevolmente, la sessualità e le rivendicazioni sociali tendono a cambiare l’insieme delle produzioni e nuovi stili musicali trovano origine nei movimenti giovanili. L’ascolto e i gusti musicali sembrano allora uno dei punti fondamentali dell’investimento culturale degli adolescenti (Galand, 1990). I comportamenti riguardo al fenomeno musicale differiscono tuttavia da un gruppo all’altro, anche se manifestano l’esistenza di una comunità generazionale in cerca di libertà, di evasione, di dinamismo e di costruzione identitaria. Il consumo di prodotti musicali partecipa anche a un sistema di scambio e di produzione di valori codificati, sostenuto dall’industria culturale. La musica, durante l’adolescenza, è certamente uno dei modi per differenziarsi dagli altri e per affermare la propria identità e integrazione sociale. Negli anni ’50, i giovani cominciano così ad appropriarsi di stili musicali che permettono di affermare dei valori oppositivi rispetto a quelli degli adulti. Scelgono musiche che trasmettono il messaggio ideologico cui essi aderiscono. Agenti di socializzazione, esse influenzano la loro definizione di sé e contribuiscono alla costruzione di senso che essi attribuiscono agli avvenimenti costitutivi della propria vita, guidando i giovani verso la vita adulta. Il ruolo della musica non si limita al momento dell’ascolto. Come sottolinea Green, gli usi sociali della musica si prolungano ben al di là della sua contemplazione. Il gusto per un genere musicale non dipende solo dalle preferenze dei giovani, ma anche da quelle delle persone che essi apprezzano e in cui si identificano. La musica permette loro di creare dei 221

significati e degli stati di coscienza condivisa, di farsi un’impressione dell’altro e di costruire delle reti amicali. L’interesse per una forma musicale consolida l’appartenenza a una data cultura e rinforza le barriere che separano il fuori dal dentro. La conoscenza, la competenza riguardo a uno stile musicale, la frequentazione di eventi musicali in linea con quello stile, caratterizzano i giovani che vi hanno aderito. L’abbigliamento degli adolescenti è modellato dalla loro appartenenza culturale. È così che, negli anni ’50 e ’60, i giovani erano mods, e avevano un look BCBG28 – giacca e cravatta – o erano disinvolti rockers – jeans, stivali e giubbotto nero. Dopo il 1966, in Gran Bretagna si sviluppa una contro-cultura psichedelica che condurrà agli hippy, caratterizzati dal pacifismo, dall’edonismo e dalla musica psichedelica. Questi predicano la libertà sessuale, la legalizzazione della marijuana e sono contrari alla guerra in Vietnam. Questi acidheads portano i capelli lunghi, camice a fiori e pantaloni a zampa d’elefante. È l’epoca delle utopie e dei grandi raduni comunitari. In reazione, iniziano ad apparire, all’interno della classe operaia, gli skinheads, con teste rasate e abiti militari, anti-hippy e anti-immigrati. Lo shock legato al punk del 1977 riconduce alle origini del rock autodidatta, si accompagna a violenze sociali e razziali, a hooliganismi e sommosse in un clima di no future. I punk portano i capelli con cresta alla irochese, si ornano di spille da balia e indossano giubbotti borchiati a colori vivaci, riflesso della loro attitudine destroy. La spontaneità originaria diverrà rapidamente un fenomeno di moda (Geil, 2001; Rossé, 2005). Dopo il 1980 esplodono gli stili: all’aumentare dell’immigrazione corrisponde l’emergere delle culture etniche. Il reggae introduce lo stile rasta e i dreadlocks, mentre dai ghetti si alza la voce dell’hip hop. Il movimento hip hop e il rap L’hip hop nasce negli Stati Uniti negli anni ’80. L’aspetto culturale scavalca rapidamente il movimento musicale. Gli adepti hanno un look che unisce la tuta da ginnastica alle scarpe da basket, un linguaggio – lo slang – e dei rituali – quelli dogon. Questa cultura riguarda soprattutto 28

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“Bon Chic Bon Genre”, adattamento dall’inglese “Good Style & Good Class”.

gli ambienti sfavoriti, spesso quelli degli immigrati, caratterizzati dalla confusione dei punti di riferimento mentali, derivante dal vivere a metà strada fra due culture e dalla sensazione di essere emarginati. Il rap, che è l’espressione di questa cultura, è nato negli ambienti urbani delle città in preda al mutismo e alla precarietà. Fenomeno basato sulla consapevolezza sociale, si appropria rapidamente della strada. Rossé ce ne descrive la storia: negli Stati Uniti, all’inizio degli anni’80, i ghetti dei neri delle metropoli vivono in una precarietà estrema e cercano l’oblio nel crack e negli squat. È allora che i bad boys del Bronx e di Brooklyn sviluppano un’arte nuova, preferendo la danza, il graffitismo e la musica agli scontri a mano armata. Nasce così l’hip hop. Denominazione derivata dallo slang, con il significato di “sfida di parole, di gesti e di pittura”, questa filosofia di vita avvia un nuovo stile musicale afroamericano che fuoriesce dai confini del ghetto newyorkese per invadere il mondo, trovando un’eco in tutti gli ambienti in cui la disoccupazione, la violenza, il fallimento scolastico e la crisi della famiglia hanno consolidato un clima di angoscia (Bocquet e Pierre-Adolphe, 1996). I temi, ricorda Rossé, ruotano intorno agli scontri fra bande, alla violenza delle istituzioni, alla droga e ai soldi. Il rap, la marijuana e il crack appaiono allora ad alcuni come l’unica possibilità di uscire dal ghetto. I gruppi musicali dedicano i loro album alla droga, e uno di essi ha come emblema delle foglie di cannabis accanto a un teschio29. La popolarità di questa musica cresce di pari passo con le censure e i divieti che la colpiscono: rivendicazioni razziali sono martellate al ritmo di parole violente, provocatrici, spesso caustiche, a proposito della polizia. Il rap distilla così dei messaggi politici dalla quotidianità di ambienti problematici, dando voce agli esclusi e lenendo a parole la loro angoscia e la loro disperazione. Scandire le parole permette di rivendicare, non tanto per trasmettere un messaggio, ma per provocare una presa di coscienza e per esporre una visione del mondo (Lagree, 1982). In Francia, i giovani di città si riconoscono in questa forma espressiva e se ne impossessano, identificandosi nei propri omologhi dei ghetti d’oltre-Atlantico. Inizialmente apparso nella danza (la break dance, lo smurf), il rap si diffonde alla fine degli anni ’80. Il pubblico, nonostante le trasmissioni televisive e radiofoniche, impiegherà più di dieci anni a scoprirlo e apprezzarlo. Esiste oggi un rap francese originale e specifico 29

I Cypress Hill.

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per il suo linguaggio e per la sua sintassi fratturata, il suo vocabolario meticcio e sua la grammatica maltrattata. È diffuso soprattutto fra gli immigrati, e se ne possono distinguere tre famiglie: • il rap dal vivo, in diretta sulla vita dei giovani di città, portavoce, come dichiarano gli NTM30, del “désarroi déjà roi31”; • il rap cosciente, che presenta un linguaggio più controllato ma militante quanto il precedente; • il rap annacquato, la cui vera motivazione è guadagno e/o l’estetismo, ma non l’autenticità (Rossé, 2005). La techno La techno ha diverse origini: Kyrou (2002) evoca a pari merito la musica disco afroamericana degli anni ’70, il funk, le sperimentazioni elettroacustiche dell’Europa, nel periodo fra le due Guerre, e il dub giamaicano. Sembra che questa musica sia nata e Detroit, all’inizio degli anni ’80, associata all’espressione dei ragazzi che sperimentavano allora una droga nuova, l’ecstasy. La techno si associa allora all’ambiente delle feste dei locali notturni e delle serate in spiaggia. È così che alla fine degli anni ’80, techno ed ecstasy sbarcano in Gran Bretagna, nei locali e nei primi rave. Ciò provoca rapidamente l’instaurarsi di rapporti burrascosi con le forze dell’ordine. Malgrado i divieti della polizia, i giovani britannici organizzano delle serate che riuniscono molte migliaia di adepti nei luoghi più insoliti. La techno arriva poi in Francia, invade diversi locali di Parigi e il termine techno inizia a designare anche nuovi modi di organizzare le feste. I rave illegali fanno la loro apparizione nel 1991 e dalla Francia si diffondono in Europa, dove provocano incidenti, annullamenti e divieti. Dal 2001, si organizzano dei free parties in Francia, sotto lo stretto controllo delle autorità, piccoli “free” del paesaggio dell’underground techno e importanti “technivals”, che riuniscono grandi folle in luoghi controllati e resi sicuri, lontani dalle grandi città. I controlli, però, si rivelano impo30

Cfr. supra. “Confusione al potere”, gioco di parole impossibile da rendere in italiano, in quanto il termine “désarroi”, scomposto, origina l’avverbio omofonico “déjà” e il nome “roi”, e ricompone insieme ad essi un’espressione di senso compiuto, N.d.T. 31

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tenti nell’arginare il consumo di sostanze psicotrope che, in queste feste, sembrano circolare come se fossero legali (Rossé, 2005). Gli adepti del movimento techno non presentano caratteristiche sociologiche tipiche. Non c’è un discorso ideologico comune. Non si tratta di un movimento di rivolta come il furioso rock o il rap. Stando a Fontaine e Fontana (1996), si possono tuttavia distinguere tre diversi profili di ravers in funzione di ciò che essi si aspettano da un rave: • i neo-mistici, per i quali la festa ha una dimensione spirituale; • gli edonisti puri, per i quali la festa favorisce l’ingresso in un mondo immaginario, che permette di esplorare la propria individualità e di realizzare un Io che è inibito dalla vita quotidiana; • gli adepti dello sballo, che prolungano indefinitamente il tempo del rave e abusano di psicotropi, poiché, per essi, la droga non rappresenta solo un accompagnamento al divertimento, ma è fine a se stessa. Come ricorda Rossé, nelle feste techno, non c’è una gerarchia che distingua il pubblico dagli organizzatori. Si ricerca un effetto di decentramento strutturale a favore del pubblico e della pista da ballo, lo spazio è “de-costruito”. Comunque ognuno vi svolge il suo ruolo specifico: c’è chi sistema l’attrezzatura e gli stand, chi ha compiti amministrativi e chi si occupa di far sparire tutto il prima possibile… la vita comunitaria tende all’indipendenza di ciascuno in una “zona d’autonomia temporanea”, e l’atmosfera e la riuscita della festa devono essere una dimostrazione collettiva della buona volontà di tutti i partecipanti. La cultura dark Il movimento dark nasce nelle città industriali dell’Inghilterra settentrionale alla fine degli anni ’70. Arriva in un periodo in cui il tasso di disoccupazione è preoccupante. Volto a reagire contro l’idealismo hippy, riguarda giovani del ceto medio e favoriti dalla società, studenti e artisti. Questa cultura si ispira a uno stile architettonico, ma anche alla letteratura romantica e fantastica dell’età Vittoriana. Influenzato dalla corrente punk e dal Romanticismo nero, il movimento manifesta una preferenza 225

per i colori scuri, il nero, il porpora e il pallore del volto. Dopo un passaggio a vuoto negli anni ’90, si diffonde in Europa e negli Stati Uniti. Così si hanno dei raduni regolari in Germania e in Inghilterra ma anche in Francia, in occasione di serate a tema come il “ballo dei vampiri”. Sul piano musicale, in opposizione ai cliché sonori e stilistici dell’heavy metal, musica giudicata eccessivamente sottomessa alle leggi del mercato, il grindcore è impegnato in una caratterizzazione più radicale, in cui la melodia è rifiutata e la voce “grugnita”. Questo stile influenza il death metal finendo poi per confondersi con esso. Il grindcore è in continuità con un hardcore accompagnato da riferimenti morbosi alla cultura “splatter” dei film horror e dalle voci spesso “ruttate”. I testi sono poco comprensibili e il trattamento del sound è isterico. La corrente dark è così influenzata dalla new wave più tetra, con una melodia dai ritmi trascinanti e da sonorità di chitarra sprofondate nell’effetto eco. La musica è malinconica, pervasa spesso da un’atmosfera inquietante. I temi delle canzoni sono ricorrenti, evocano il suicidio, la psicosi, la follia e, più raramente, il satanismo (Lledo, 2006). Si possono distinguere diversi generi: medievale, curista, fetish, elettro, metal, visual key, travestito, androgino. Ad ognuno di questi sottogruppi corrisponde un orientamento culturale specifico e originale all’interno del movimento, ma tutti aderiscono alle stesse concezioni di fondo. • lo stile medievale, barocco, si caratterizza per i lunghi vestiti di velluto e pizzo, camice a sbuffo, con davantino, e accessori come triscele e rune, ombrelli, cappelli e ventagli. Le donne portano capelli lunghi e acconciature elaborate, braccialetti a sonagli ai polsi e alle caviglie – con riferimento ai malati di peste –, anelli e, in casi eccezionali, delle cotte di maglia; • lo stile curista – ispirato ai The Cure – è soprattutto maschile: capelli nero corvino accotonati, rossetto color sangue, jeans o pantaloni di cuoio neri, Dr. Martens32, scarpe alte e t-shirt di gruppi dark; • lo stile fetish, feticista, è marcato dalle modificazioni corporali: piercing, scarificazioni, tatuaggi, branding. Fa ricorso ad accessori come catene, manette, camice di forza, fruste, guinzagli, tacchi a 32

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Marca di scarpe ortopediche di moda negli anni ’90.











spillo, bustini, ecc. I materiali più usati sono il vinile, il latex, la lycra e il cuoio. Si apprezza anche il look babydoll: minigonne a pieghe, gambaletti, acconciature esuberanti, ecc.; Lo stile elettro è associato al piercing, alle mimetiche nere o ai pantaloni da equitazione, stivali o scarpe alte, t-shirt strappate o piene di spille da balia, capelli rasati o dreadlocks multicolori alla Bob Marley; lo stile metal è imbevuto di simbolismo religioso, mistico o esoterico: croce, pentagramma e martello di Thor. Il viso è truccato perché diventi una maschera dai motivi diversificati, gli occhi e la bocca sono cerchiati di nero, il resto del viso è bianco. Gli uomini portano i capelli lunghi e sciolti; lo stile visual key è quello più colorato. Rosa fluorescente, blu elettrico, spesso anche bianco. Le scarpe sono ortopediche. Le acconciature femminili presentano anche delle meche colorate, dreadlocks o code; lo stile travestito riguarda uomini etero e bisessuali, ma che si travestono con scarpe col tacco e calze a rete, cinte di cuoio e pantaloni aderenti in vinile. Hanno un top di pelliccia, nera o rosa confetto, oppure delle “reti da pesca33”. Sono molto truccati, portano i capelli rasati o i dreadlocks; altre culture dark si dicono androgine se gli uomini hanno un look e un comportamento femminile. Questa androginia rivela la confusione dei generi nell’ambiente dark, in cui i due sessi si mostrano poco differenziati.

Le caratteristiche proprie dei gruppi dark sono i piercing, i tatuaggi e le scarificazioni. Non indossano vestiti firmati, ma alcune marche come Pimkie cercano di recuperare uno “stile dark”; in città come Londra o Parigi, delle riviste si specializzano sul loro look. In più di 25 anni, tuttavia, l’abbigliamento dei dark non è mai cambiato. Le loro preferenze culturali, letterarie34 e cinematografiche35 sono orientate verso il fantasy, verso 33

T-shirt a maglie larghe come quelle delle reti da pesca. Citiamo, per esempio, Baudelaire, Lovecraft, Lautréamont, Mary Shelley, Edgar Allan Poe e Sade. 35 Citiamo certamente Dracula, Intervista col vampiro, La notte dei morti viventi, o ancora Matrix, Il Signore degli anelli e l’universo cinematografico di Tim Burton. 34

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eroi che, come loro, prediligono un look da zombie, con la pelle chiara, il trucco pesante nero o rosso scarlatto e i vestiti lacerati. I dark sono, a torto, spesso confusi con i satanisti, e si sospetta perciò che partecipino a messe nere o a pratiche di sacrifici animali. Solo una piccola minoranza sembrerebbe in realtà coinvolta, poiché, per la maggior parte, essi sono atei, pagani o cristiani. Questi giovani fanno parte di una popolazione che si può certo definire marginale, ma che non corrisponde all’immagine satanista o suicida che troppo spesso le attribuiscono i media. La musica della morte Alcune musiche, come l’heavy metal36, riempiono un vuoto, quello dell’appagamento dei fantasmi della violenza. L’atmosfera in cui si vive attraverso queste musiche forti e aggressive evoca certamente distruzione e morte, crimini e violenze. Quest’associazione di immagini risuona in qualche modo nelle teste degli adepti. Ascoltare queste musiche permette di disinibirsi, di soddisfare il bisogno di una violenza irrealizzabile. Nate dall’underground, queste musicalità crescono nell’inconscio del pubblico. Per alcuni musicisti37, e per loro stessa ammissione, “la morte è un’ossessione […], una specie di filtro […], la promessa di un cambiamento”, affascinante per gli uni, repellente per gli altri. I musicisti declinano tuttavia ogni responsabilità – “poiché non sono dei guru” –, se un loro fan, ispirandosi a un tema dei loro spartiti, potrebbe tentare un gesto suicida. Eppure, queste musiche permettono anche di liberarsi dalle costrizioni abituali e di esprimersi con trasporto e abbandono, esprimendo l’ambiguità delle passioni, fra uno slancio vitale e una pulsione nociva che rinvia a immagini sociali di eccesso, di inciviltà e di violenze. I codici relazionali cambiano e le regole abitualmente ammesse del saper-vivere passano in secondo piano rispetto ad altre norme, lasciando il posto a una comunicazione non verbale. L’espressione corporea è dunque facilitata 36 L’heavy metal è un genere musicale apparso nei Paesi anglo-sassoni alla fine degli anni ’60; il termine può avere molti significati in base al contesto in cui è impiegato: può essere sinonimo di hard rock, designare l’heavy metal tradizionale che, nel corso degli anni ’70 e ’80, si è distinto dall’hard rock, allontanandosi dalle sue radici blues e, in senso lato, tutti i sound derivati dall’heavy metal e dall’hard rock. 37 Kirk Hammett, mitico chitarrista dei Metallica, intervistato da Christian Eudeline, nel novembre 2009, per la rivista web di SFR Music.

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dai comportamenti di consumo, che si tratti o no di prodotti leciti, permettendo di liberare le emozioni e di rimuovere le inibizioni. Musica e droga Come sottolineano Legley e Beck, alla luce dei dati di ESCAPAD, il legame fra uso di prodotti psicotropi e socialità è molto importante durante l’adolescenza. Gli incontri fra amici nei bar e nei pub sono condivisi dai due sessi, poiché il 40% dei giovani dichiara di andarci almeno una volta a settimana. Le serate passate con gli amici, fuori o in casa (almeno una volta a settimana), sono invece più frequenti per i maschi (47,5%) che per le femmine (37%). L’aspetto delle uscite serali è contrastante: a 18 anni, circa il 75% dei giovani va in discoteca almeno una volta all’anno, e più del 10% di essi una volta a settimana. I concerti di musica reggae38, ragga39, dub40, rap e hip hop sono i più frequentati e il 20% dei giovani vi si reca almeno una volta all’anno. I concerti rock e hard rock hanno attirato circa un giovane su sette, e la categoria “altro stile musicale” circa il 25% dei giovani (funk41, soul42, R’n B43, varietà, musica classica e jazz). Questa categoria “mista” ha attratto la maggior parte del pubblico femminile. Le feste techno hanno interessato più di un giovane su sei nel corso degli ultimi 12 mesi. Le serate musicali possono essere ricondotte a sei profili distinti, ma si deve notare che, a 18 anni, le femmine escono meno dei maschi: • profilo “rock e indigestione di concerti” (11,6% dei giovani, più spesso maschi); • profilo “rap, reggae e discoteca” (11,4% dei giovani, più spesso maschi); 38 Espressione musicale giamaicana, divenuta portatrice di una cultura peculiare che non ha perso forza a seguito del suo successo internazionale. 39 Genere musicale caratterizzato da una pronuncia ripetitiva. 40 Genere musicale derivato dal reggae, si caratterizza per il forte abbinamento ritmico di basso e batteria e un uso massiccio di effetti applicati agli altri strumenti e/o creati elettronicamente. 41 Funk, forma musicale afroamericana che significa letteralmente “sudato e puzzolente”, offesa tradizionalmente rivolta ai neri dai razzisti, e recuperata proprio dagli artisti neri per nobilitarla attraverso la musica. 42 Il soul è una musica popolare afroamericana derivata dal gospel, dal rhythm e dal blues. 43 Genere musicale nato dall’incontro fra hip hop e soul.

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• profilo “feste techno e discoteca” (5,9% dei giovani, più spesso maschi); • profilo “discoteca” (12,6% dei giovani, più spesso maschi); • profilo “altro stile” (12,7% dei giovani, soprattutto femmine); • profilo “uscite rare” (circa il 50% dei giovani, soprattutto femmine). All’interno dei diversi profili, i consumi dei giovani sono molto differenziati. Ad eccezione dell’uso regolare di cannabis, più frequente all’interno del profilo “rap, reggae e discoteca”, è quello “feste techno e discoteca” a presentare le percentuali più elevate, in particolare per l’ecstasy. Il profilo “rock” occupa una posizione mediana, assai vicino a quello “rap, reggae e discoteca”, e si distingue per la rarità dei consumi quotidiani di tabacco e regolari di cannabis. Per entrambi i sessi le ebbrezze regolari non sono significativamente legate alla quantità di tempo trascorso in luoghi pubblici, ma dipendono da altri tipi di uscite. Per le femmine, contano soprattutto le serate trascorse nei bar, mentre per i maschi le serate fra amici. Per entrambi i sessi, il consumo regolare di cannabis è legato soprattutto alle serate e, in minor misura, al tempo trascorso fuori casa; per le femmine, le uscite nei bar sono associate a un consumo regolare più frequente, cosa che non avviene per i maschi. Infine, a proposito dell’uso di ecstasy, i risultati cambiano in base al sesso. Per le femmine, solo le serate fra amici sono associate all’uso di ecstasy, mentre i maschi tendono a farne uso anche in altri tipi di serata. Per entrambi i sessi le ebbrezze regolari sono più frequenti per chi è stato in discoteca, a concerti rock, hard rock o reggae, ragga e dub, così come a una festa techno. Al contrario, l’essere stati a un concerto rap, hip hop o di altri stili musicali non sembra aver condotto a ebbrezze regolari. Per le femmine, l’essere state a un concerto reggae, ragga o dub fa la differenza in questo caso, mentre per i maschi è piuttosto il fatto di essere stati ad un concerto reggae, ragga o dub, oltre che in discoteca. Tutte le uscite sono identiche, del resto, e l’uso di stupefacenti è più diffuso per le femmine che frequentano feste techno, e più ancora per quelle che vanno a concerti reggae, ragga o dub. Per i maschi, quanto a concerti reggae, ragga e dub, vale lo stesso discorso, ma con un consumo più moderato. Per entrambi i sessi, andare a concerti di “altri stili musicali” comporta un minor uso di cannabis. I rapporti statistici fra uscite e uso di ecstasy 230

nel corso dell’anno si dimostrano relativamente omogenei per entrambi i sessi, molto elevati per quanto riguarda la frequentazione di feste techno, meno elevati per quanto riguarda i concerti reggae, ragga e dub. I concerti, le serate in discoteca e i momenti al bar con gli amici sono occasioni di festa, distrazione e di rottura con il quotidiano, che permettono di allentare le tensioni e di esprimere vivamente le emozioni. E sono anche occasioni di consumo di alcol, tabacco o sostanze illecite: l’intensità e gli obiettivi di questi consumi sono più o meno speciali (concerti), più o meno normali (bar, uscite regolari), più o meno festivi. Come gli altri segni distintivi, musica e utilizzo di prodotti psicotropi sono due mezzi di definirsi e affermare la propria identità. Eppure, più generalmente, queste due pratiche affermano l’appartenenza a una contro-cultura. L’ascolto di musica può provocare una specie di ebbrezza, un’alterazione di uno stato di coscienza influenzato dall’assorbimento di sostanze psicotrope, così come l’assunzione di questi ultimi può modificare la percezione della musica, come dimostrano il movimento rock, il beatnik, lo hippy e poi, più di recente, il movimento techno e i rave. Gli atteggiamenti verso le sostanze psicotrope differiscono da un movimento musicale e culturale all’altro: se, nell’insieme, la corrente reggae valorizza il consumo di cannabis e conta tra le proprie file dei militanti per la sua legalizzazione, altri movimenti, come il rock, hanno un atteggiamento meno omogeneo, e le sue differenti sottocorrenti esprimono opinioni divergenti, dalla proibizione all’incitamento all’uso. L’immagine dell’alcol è ambigua: mentre il consumo di whisky e di birra fa parte integrante del movimento rock, l’alcol non beneficia sempre di un’immagine chiara o positiva nelle altre correnti. Uno degli aspetti tipici delle manifestazioni techno più radicali (free parties, technivals) è forse l’accentuazione di alcune caratteristiche di rottura con la società: illegalità e occupazione di luoghi insoliti, al margine dei centri urbani, pubblicità diffusa attraverso canali “clandestini” in modo da selezionare il pubblico, “cacce al tesoro” per riuscire ad arrivare alle feste, assenza di controlli all’ingresso o del servizio d’ordine, grande durata dell’avvenimento, desiderio di ebbrezza o di trance, numerosi partecipanti. In modo generale, l’uso di sostanze psicotrope è spesso banalizzato fra i maschi e le uscite costituiscono per loro, meno che per le femmine, occasioni particolari di consumo. Quanto alle serate in discoteca, sembrerebbe che i maschi vi assumano più sostanze (prima di arrivarvi o in loco), mentre le femmine 231

frequenterebbero più spesso questi luoghi senza far uso di sostanze psicotrope. Sylvain Aquatias, analizzando i consumi di alcol e di cannabis nei concerti rock metal, mostra che esistono più tipi di spettatori, il cui consumo e la cui frequentazione di concerti variano in base all’inserimento nell’ambiente, ma anche in base al giorno della settimana in cui capita il concerto, la sua durata e la fama del gruppo. Queste differenze di consumi manifestano il grado di rottura con la quotidianità di questi giovani, che trovano, nelle istanze di “de-controllo” emotivo che i concerti metal sono in grado di offrire, un modo per controbilanciare la necessità di controllarsi che è imposta loro dalla società. L’uso di prodotti psicotropi come alcol e cannabis contribuisce a creare la perdita di autocontrollo. Si possono così distinguere quattro categorie: • gli specialisti, presenti in tutti i concerti, che portano su di sé i segni della propria appartenenza culturale: t-shirt della band preferita, capelli lunghi e tatuaggi, hanno una conoscenza approfondita dei gruppi e una parte della loro identità rispecchia quella della corrente musicale cui aderiscono; • i fedeli, che vanno a molti concerti ma non a tutti. Hanno diversi interessi, ma il metal vi occupa un posto preponderante, anch’essi portano i segni distintivi del proprio stile preferito, ma sono aperti anche ad altre correnti musicali come il dark o l’hardcore; • gli amatori, che amano il rock e soprattutto il metal, ma si interessano anche ad altri stili: più grandi d’età, alcuni di essi sono vecchi specialisti o fedeli, il cui ritmo di vita è cambiato, oppure sono dei semplici esperti di musica e la loro caratterizzazione estetica è moderata; • i periferici, che apprezzano un buon concerto rock ogni tanto, ma possono assistere a concerti molto vari: la loro caratterizzazione estetica e corporea è debole. Queste categorie hanno origine dalla relazione fra l’intensità dei sentimenti provati dai giovani per la corrente musicale e le costrizioni della loro vita, che fanno sì che essi investano poco o molto nella musica. Tali categorie dipendono, ma non sempre, dalla loro situazione sociale: gli specialisti o i fedeli si trovano più frequentemente in situazioni precarie 232

e sembrano, stando ad alcune controverse opere sull’argomento, avere un livello di studi meno elevato degli amatori e dei periferici. La liberazione corporea è importante, ma i comportamenti tenuti durante il concerto differiscono in base all’età degli spettatori, poiché i più giovani – i cui vestiti sono particolarmente marcati dallo stile musicale – sono più numerosi davanti al palco e al centro della platea, pogano e surfano44, mentre invece i più grandi stanno intorno o dietro questi, oscillando sul posto a ritmo di musica. Il consumo di alcol e di cannabis varia molto in base ai concerti. Quelli a cui si associa un forte consumo hanno delle caratteristiche comuni: la durata, il numero limitato degli spettatori – meno di 200 persone, molte delle quali si conoscono –, la limitata fama della band (o il fatto che sia nota solo a livello locale) e la quasi assenza di controlli ufficiali. Il consumo di alcolici avviene sia sul posto sia fuori, a causa dei prezzi delle bevande, e capita che i consumatori bevano prima di entrare. Anche il consumo di cannabis è molto forte a causa dell’assenza di personale di sicurezza. Generalmente, la logica degli eccessi appartiene soprattutto agli avvenimenti underground, ma essi diminuiscono con l’aumentare del pubblico. Specialisti e fedeli – di norma forti consumatori – sono infatti diluiti fra gli altri tipi di spettatori. Inoltre, se i musicisti sono molto famosi, il pubblico è più diversificato. Le attività quotidiane implicano di solito un obbligo di civiltà e di controllo delle emozioni; le attività nel tempo libero permettono, invece, di liberarsi dalle tensioni dell’autocontrollo, offrendo spazi di libertà emotiva. Le attività musicali fanno parte di questo tipo di liberazione. Ed esse non sono l’unico mezzo a proporre questo rilassamento dell’autocontrollo, ricorda Aquatias. Alcuni prodotti psicotropi – alcol, cannabis, cocaina, ecstasy – provocano fenomeni di disinibizione. Durante le feste, esse facilitano il contatto tra le persone e l’emotività. Sono dunque frequentemente utilizzati per aumentare la sensibilità emotiva verso alcuni avvenimenti musicali: questi forniscono un’occasione perché le emozioni non debbano più essere trattenute, mentre la droga sensibilizza e disinibisce le persone. 44 Solecismi, citati da Aquatias (2003), che designano rispettivamente la danza degli appassionati di metal, il “pogo” – termine originario del punk rock – e l’uso di gettarsi sulla folla per “fare surf” sulle braccia stese degli spettatori.

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Musica e violenza La musica veicola un insieme di valori socioculturali. Riunendo gli adolescenti, essa li aiuta a costruire la loro identità, ma può anche condurli a delle devianze. È dunque interessante chiedersi se le preferenze musicali possano eventualmente influenzare il comportamento. Da qui si aprono due prospettive: la corrente socio-cognitiva, che considera la musica un agente attivo in grado di influenzare le condotte, e la corrente psico-sociale, che riconduce la scelta musicale al contesto socio-affettivo, la scelta musicale è allora da mettere in relazione con la personalità del soggetto. La violenza sembra espressa in maniera differente secondo gli stili musicali. I ricercatori hanno così constatato che la presenza di immagini violente nei videoclip varia in base agli stili: i video dei rapper, per esempio, fanno ampio riferimento alle armi da fuoco, all’alcol, alla droga e a insulti gergali. Degli studi rilevano, in adepti del rap e dell’heavy metal, delle tendenze asociali. I soggetti che hanno una preferenza per quest’ultimo stile percepirebbero più di altri l’esistenza di un ambiente violento e si darebbero più facilmente a comportamenti impulsivi. Inoltre, l’ascolto di messaggi critici verso la società nel rap attiverebbe uno schema antisociale nella memoria dell’adolescente che, a lungo andare, condurrebbe a una euristica della violenza e a passaggi all’atto. Anche la ribellione dei giovani è stata messa in relazione con il gusto per le musiche aggressive. Le preferenze musicali sarebbero in qualche modo legate ad aspetti della personalità e più in particolare alla ricerca di emozioni, relazione che si mostra particolarmente stretta negli amanti dell’heavy metal. Secondo una prospettiva simile, Miranda e Claes (2004) hanno studiato i legami che, durante l’adolescenza, potrebbero esistere fra, da una parte, il rap francese, il rap americano, l’hip hop/soul e il rap gangsta/ hardcore e, dall’altra parte, cinque tipi di comportamenti: violenza, furto, ingresso in bande e consumo di droghe pesanti o leggere. Dai loro lavori emerge che il rap è associato a dei comportamenti devianti, la cui natura differisce in base ai generi: il rap francese appare come lo stile musicale della violenza, dell’ingresso in una banda e del consumo di droghe leggere, mentre il rap gangsta/hardcore è associato al furto e al consumo di droghe pesanti. Anche altri lavori hanno rilevato, negli Stati Uniti, l’effetto dei testi violenti delle canzoni sui pensieri aggressivi e i comportamenti ostili degli adolescenti. 234

Questi diversi lavori evidenziano gli effetti a breve termine dell’ascolto di musiche violente, ma ci sono anche effetti a lungo termine? I dati sono incerti, poiché appena il 33% dei giovani comprende le parole delle canzoni che ascolta. Nei test proiettivi, l’avere o meno ascoltato canzoni le cui parole erano aggressive, non faceva riscontrare delle differenze notevoli. La violenza dei testi associati al rap ha spinto alcune associazioni di genitori americane a far imporre delle restrizioni alle case discografiche: sono state così apposte delle etichette sulle custodie dei CD, che mettono in guardia contro i testi. Tali avvertimenti rischiano, è vero, come in altre situazioni (i rischi associati al tabacco ricordati sui pacchetti di sigarette, la necessità di bere con moderazione menzionata sulle etichette delle bottiglie di alcolici), di provocare un fenomeno di reazione e di “contribuire” involontariamente alla pubblicità e all’appetibilità del prodotto. Inoltre, i media prendono di mira, di tanto in tanto, alcuni musicisti e cantanti e li accusano di incitare al consumo di droghe, alla ribellione e alla violenza, come avvenne, nell’aprile 1999, in occasione del massacro di 13 persone perpetrato nella Columbine High School da due adolescenti, massacro che i media associarono alla musica dark dei Marilyn Manson. La confusione, proposta dalla stampa, di simili icone e di simili responsabilità è sempre più fuori luogo, visto che la comunità dark non è particolarmente violenta e si dichiara apolitica e pacifista, anche se sono state talvolta constatate alcune spiacevoli devianze. Musica e tentativi di suicidio In diverse società, la musica spesso riveste la funzione rituale di evocare il lutto o il dolore per i defunti. Può l’ascolto della musica, in talune circostanze, favorire delle condotte suicide? Alcuni ricercatori nordamericani hanno studiato negli anni ’90 i pensieri suicidi in alcune adolescenti australiane adepte del rock o dell’heavy metal, mettendole a confronto con altre ragazze, adepte del pop. Le prime presentavano, secondo loro, due volte più spesso delle altre, dei pensieri morbosi (rispettivamente il 66% vs. il 36%) e passavano più frequentemente all’atto (62% vs. il 14%)45. Queste ragazze avevano tuttavia, secondo gli autori, dei problemi psicologici preesistenti, che le avevano avvicinate a forme musicali rock 45 Queste differenze sarebbero invece nettamente meno marcate nella popolazione maschile.

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ed heavy metal, le cui tematiche negative riflettevano i loro sentimenti. Non è la musica a influenzare le tendenze suicide, ma una personalità vulnerabile e attratta dal suicidio a compiere determinate scelte musicali. Bisogna inoltre notare che questo accostamento di adepte australiane del rock con quelle dell’heavy metal non è adatto ad altri giovani, come quelli nordamericani, i cui adepti dell’heavy metal fanno parte di gruppi più estremi e dalle caratteristiche negative più marcate, rispetto ai fan del rock o dell’hard rock. Altri ricercatori, studiando sempre il rapporto fra i gusti musicali e le tendenze suicide, constatano infine che gli adolescenti adepti dell’heavy metal trovano meno ragioni per vivere e hanno più idee suicide degli altri giovani. Aggiungono tuttavia che i gusti di questi adolescenti erano già influenzati da caratteristiche personali e familiari, e consideravano anch’essi l’ascolto musicale come indice di una problematica preesistente. Quest’interpretazione è confermata da Lacourse, Claes e Villeneuve (2001), che non trovano alcun legame fra questa musica e il rischio di suicidio nei casi in cui le variabili “socialità”, “situazione familiare” e “consumo di droghe” non sono allarmanti. Infine, valutando l’umore di studenti delle scuole superiori esposti a stili musicali che evocano il suicidio, Petersen (2005), benché rilevando un abbassamento significativo di sentimenti positivi, non evidenzia nessun innalzamento di quelli negativi. Per tornare al nostro quesito iniziale relativo all’eventuale influenza delle preferenze musicali sul comportamento, sembra che la musica non influenzi le condotte, ma che alcuni aspetti della personalità del giovane lo spingano, a volte, verso talune scelte musicali e verso un certo modo di essere. Non ci sarebbe un legame di causa ed effetto fra la preferenza musicale e una personalità suicida presso gli adepti di questi stili musicali, ma piuttosto delle caratteristiche associate allo sviluppo delle tendenze suicide, come il consumo di droghe, la propensione all’isolamento, una scarsa autostima e un senso di impotenza. Inoltre, i giovani che apprezzano queste correnti musicali avrebbero la tendenza a venerare i propri idoli e, identificandosi in essi, sarebbero disposti a integrarsi nella loro cultura. Dunque, sarebbe più il culto di questi idoli e l’integrazione alla cultura di determinati gruppi a predisporre a un comportamento suicida piuttosto che uno stile musicale in sé e per sé. Eppure, grazie a una catarsi, forse la musica potrebbe permettere ad alcuni giovani adepti di liberarsi delle proprie tensioni in maniera più so236

cializzata che non attraverso i passaggi all’atto. Inoltre, nel caso di alcune musiche come quella pop, le voci androgine dei cantanti evocherebbero negli adolescenti la fase della muta della voce, così come i ritmi sussultori ricorderebbero i battiti del cuore e il respiro umano: il tutto concorrerebbe a rassicurare i giovani circa le trasformazioni puberali. Infatti, non bisogna dimenticare, secondo la prospettiva di Winnicott, che la musica può anche rivestire una funzione “transizionale”.

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Capitolo sesto

Il corpo che cambia

La pubertà influenza la crescita, accelerando e intensificando le sue manifestazioni, provocando nei giovani un senso di affaticamento, una relativa fragilità generale e nuove forme di vulnerabilità, che si manifestano sia attraverso le immagini del corpo e dell’Io sia attraverso l’esperienza soggettiva delle trasformazioni. Alcuni giovani la vivono come una frattura fra l’infanzia e l’adolescenza. I cambiamenti del corpo inducono in loro impressioni confuse che possono condurli a chiudersi in se stessi. Esse portano sia a un disinvestimento sia a un sovrainvestimento del corpo, che provoca il bisogno di riappropriarsene – in quanto sembra fuori da ogni controllo –, di renderlo accettabile al proprio sguardo, perché possa di nuovo divenire accettabile agli occhi degli altri. Per gli adolescenti è difficile investire su questo corpo nuovo, la cui novità sembra “estranea”: il modo in cui gli altri lo guardano è strano e li disorienta perché è invadente. Questo corpo, senza che gli adolescenti sappiano bene il perché, è divenuto anche una fonte di piacere che li investe e li angoscia. Non riescono ad esprimere bene ciò che sentono, provano spesso vergogna, se non senso di colpa, ma soprattutto molta solitudine. Poiché non hanno tempo né punti di riferimento, essendosi distaccati dai genitori, che credono non si interessino più a loro, hanno bisogno di farsi capire, poiché hanno l’impressione di non essere né compresi né ascoltati né “riconosciuti”: infatti essi si cercano e si interrogano sulla propria identità rinata. I comportamenti che ne derivano sono molteplici. Che si tratti dell’effetto di una moda o dell’espressione di una sofferenza segreta, che il loro obiettivo sia adornarsi o mutilarsi, sempre più adolescenti sono attratti dalle modificazioni corporali come i piercing, che interessano circa il 239

33% dei ragazzi (sia perché ne hanno già uno, sia perché hanno intenzione di portarlo). Altri giovani, privi di autostima o alla ricerca di profitto, sono pronti a monetizzare il proprio corpo in maniera più o meno occasionale in cambio di un po’ di denaro, di un po’ di rispetto e di molte sofferenze. Altri ancora si dedicano a regimi alimentari più o meno carenzati per assomigliare alle modelle, la cui snellezza è associata, nella loro mente, non a disturbi alimentari, ma a un ideale di bellezza a cui bisogna aspirare. Altri, infine, sono pronti ad affrontare la morte come se fosse il preludio a una nuova vita. Tutti loro, però, vivono la modificazione del proprio corpo.

Le modificazioni corporali Le modificazioni corporali volontarie, come i tatuaggi, i piercing e i diversi tipi di scarificazioni, suscitano l’interesse crescente degli adolescenti. Per questi giovani, che soffrono di mancato riconoscimento, il segno sulla pelle è un modo di appuntare sulla carne i momenti chiave della propria esistenza. Questi segni costituiscono un problema generalmente sottostimato e riguardano sia gli adolescenti che i giovani adulti, e più in particolare le ragazze. Nel 2007, l’Accademia nazionale di medicina ha redatto un rapporto per informare le persone sugli incidenti e sui problemi conseguenti alle modificazioni corporali, designando queste pratiche come “reali aggressioni corporee con danni cutanei o mucosi e talvolta inserimento di corpi estranei”, e reclamando una loro regolamentazione. L’attività di tatuatori e piercer è in effetti circondata da una incertezza giuridica: si segnala un’assenza di formazione e di controllo dei professionisti, che ha avuto fine solo con l’applicazione del Decreto legislativo per regolamentarne la pratica, apparso sulla Gazzetta Ufficiale del 20 febbraio 2008. Esso ha elencato le complicazioni conseguenti alle modificazioni corporali, soprattutto le infezioni virali e batteriche, le allergie, l’epatite B e C e l’HIV.

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Modificazioni dalle forme variabili Questi danni corporei vengono inflitti senza uso di sedativi. In modi vari, essi consistono in ferite o in lesioni dolorose e intenzionali, che, secondo Sahuc (2006), possono essere interpretate come una liberazione delle tensioni che il giovane non riesce più a contenere o come riattualizzazione e aggravamento di condotte che ha già presentato durante l’infanzia. Queste pratiche hanno aspetti molto diversificati: • i piercing1 sono dei fori cutanei a scopo estetico, che permettono o no l’applicazione di un gioiello sulla pelle, spesso alle orecchie, all’ombelico, alle arcate sopracciliari, al naso, al collo, alle mani e alle braccia, ma anche ai capezzoli, al sesso o alla lingua; i maschi preferiscono il piercing all’arcata sopracciliare o all’orecchio, le ragazze all’ombelico, sul naso, sul labbro o sulla lingua; non sono definitivi e possono essere rimossi; • i piercing superficiali si applicano in zone del corpo che non sono né concave né convesse, come avambraccio o nuca; • lo stretching costituisce un allargamento del piercing per poter inserire un gioiello più voluminoso; • anche i tatuaggi hanno uno scopo estetico; si tratta di differenti motivi disegnati sulla pelle, che rappresentano simboli, immagini, disegni che possono essere realizzati su tutto il corpo attraverso incisioni sottocutanee e inchiostro, con l’aiuto di un ago o, in modo più doloroso – per chi cerca sensazioni forti – attraverso un piccolo rastrello di aghi imbevuti di inchiostro su cui si batte con un martelletto. I maschi si fanno tatuare i bicipiti e la spalla, le figure scelte sono spesso animali reali o fantastici – dragoni, scorpioni, serpenti – per evocare la virilità, mentre le ragazze preferiscono il tatuaggio sulla schiena, sulla nuca o sulla caviglia e scelgono figure che evocano delicatezza e fedeltà – farfalle, lucertole, salamandre o fiori; • i cuttings, incisioni superficiali e controllate, parallele o incrociate a determinare un reticolo, permettono di tracciare – attraverso un 1 Il termine piercing designa la procedura di impianto di un gioiello, il gioiello stesso e il foro praticato per impiantarlo.

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bisturi o altri strumenti taglienti come pezzi di lamette, schegge di vetro oppure oggetti stravolti dal loro uso comune, come la plastica delle custodie dei CD – delle figure geometriche o delle cicatrici a incisione o a rilievo, che un’eventuale aggiunta di inchiostro può rendere più visibili; i burnings consistono nel praticare sulla pelle delle bruciature, messe in risalto da inchiostro o colorante. Derivano dall’azione del fuoco (cenere di sigaretta, accendisigari) o dall’applicazione di sostanze caustiche spray; generalmente poco localizzati, i burnings possono essere profondi; il branding, in inglese “marchio”, è la tecnica di marchiatura a ferro, che consiste nel bruciare una parte del corpo con un oggetto metallico incandescente per lasciare volontariamente un marchio in rilievo, durevole – o meglio definitivo – sulla pelle, per questa tecnica si utilizza oggi anche il laser; il peeling consiste nel rimuovere delle superfici di pelle; queste abrasioni cutanee, meno frequenti, precedono o seguono le scarificazioni: sono ottenute attraverso sfregamenti o raschiamenti ripetuti – con unghie, zollette di zucchero, superfici ruvide – e producono delle zone di pelle morta, di solito la parte superiore dell’avambraccio o della gamba. I peeling sono facilmente individuabili perché necessitano di enormi bendaggi cicatrizzanti per essere curati o, al contrario, di tessuti irritanti per essere mantenuti; gli impianti sono qualcosa di simile ad incrostazioni: impianti sottocutanei (oggetti sagomati che si fanno scivolare sottopelle), impianti micro-dermici 3D (oggetti in silicone, titanio o acciaio chirurgico, che si collocano fra pelle e muscolo o fra pelle e osso, per formare una decorazione tridimensionale) e impianti trans-dermici (staffe e bulloni per avvitare gli oggetti più disparati).

Poiché piercing e tatuaggi si fanno sempre più comuni, alcuni giovani cercano pratiche più estreme, vissute come performance, nel senso che implicano il superamento di se stessi rispetto al dolore. Al contrario dei precedenti, questi tipi di modificazioni necessitano sempre della presenza di altre persone. Esse devono produrre un effetto spettacolare. Si distinguono: 242

• il playpiercing, che consiste nel farsi fare dei fori con delle siringhe in alcune parti del corpo, mentre il soggetto cerca di superare i propri limiti e di domare il dolore: un simile piercing superficiale non può durare a lungo; • il corsetry piercing, piercing superficiale che consiste nella disposizione di anelli o palline forate per potervi far passare dei nastri e dare l’effetto di un corsetto; • le sospensioni, che possono essere assimilate al piercing perché prevedono l’inserimento di uncini in diverse parti del corpo e l’installazione di una barra d’aggancio, che permette di sollevare la persona, di appenderla a una croce o di mantenerla sospesa per i polsi. Vecchi come il mondo ma eternamente giovani La pratica della modificazione corporale è plurimillenaria e multietnica. Nel 1991, la scoperta di un essere umano ibernato e disidratato sulle Alpi ha provato l’utilizzo dei tatuaggi già dal Neolitico, almeno in Europa. Nello stesso periodo, in Africa, si inserivano dei dischetti di pietra sul labbro inferiore o sui lobi delle orecchie. Le pitture rupestri del Tassili N’Ajjer in Algeria, datate al 6.000 a.C., mostrano delle donne tatuate sul petto. In Egitto, la scoperta del corpo tatuato e scarificato di una sacerdotessa, così come il ritrovamento di orecchini d’oro su corpi maschili, dimostrano l’esistenza di modificazioni corporali 2.000 anni prima dell’era cristiana. Praticate fin dai tempi più remoti e in quasi tutte le società, queste modificazioni avevano dei significati religiosi, culturali o estetici. Dalla decadenza… Se gli orecchini sono portati sin dall’Antichità, in Grecia, a Roma o a Bisanzio, questi gioielli scompaiono rapidamente nell’Europa del Nord e rimangono solo a Sud, sotto la probabile influenza di Bisanzio. Nelle società cristiane, gli orecchini sono rifiutati e connotati negativamente, perché sono un segno di infedeltà alla perfezione dell’opera divina. Ben lontano dall’essere, come nelle culture tradizionali, associati ai riti di passaggio, essi divengono dei segni di esclusione e stigmatizzano chi li ha. Spariscono dalle parure medievali per rimanere solo nell’iconografia, 243

dove caratterizzano gli empi. I pendenti, originari dell’Oriente, ornano così i popoli temuti dalla cristianità, perché costituiscono delle modificazioni corporali proibite dalla Bibbia. Inoltre, nella società medievale cristiana, gli “infami” – con questa definizione si intendono all’epoca i lebbrosi, le prostitute, gli eretici, gli ebrei, i musulmani… – sono spesso costretti a portare il marchio della propria “emarginazione”, marchio che permette alle “persone normali” di evitarle ed escluderle da alcuni luoghi pubblici. Questi codici vanno incontro a un’inversione di tendenza nel XVI sec., con la ripresa della cultura antica, che favorisce la moda degli orecchini, accessorio indispensabile delle donne aristocratiche; ma l’inversione di tendenza dura poco e questo ornamento smette di essere un tratto distintivo delle donne nobili per divenire l’attributo di pirati, prigionieri e altri emarginati. Gli orecchini saranno una delle caratteristiche prese in considerazione dai criminologi del fine XIX sec. per individuare i criminali. …alla rinascita grazie all’alta moda Da tempo associate, in Occidente, agli emarginati e agli ergastolani, ma anche ai marinai e ai soldati, le modificazioni corporali conoscono da qualche anno una tale fortuna presso i giovani che sono oggi divenute un vero fenomeno sociale. Questa rinascita avviene in due tempi: da una parte, l’avvento degli hippy, che, di ritorno da Kathmandu, portano l’anello al naso delle donne indiane e si adornano di tatuaggi per esprimere un desiderio di libertà, di piacere e d’amore; d’altra parte, la dissidenza nella società londinese della metà degli anni ’70, caratterizzata dagli emarginati e dal loro aspetto fisico e vestimentario aggressivo, in particolare i loro corpi trapassati da spille. Alla fine degli anni ’70 e negli anni ’80 si assiste così alla banalizzazione di queste modificazioni all’interno delle comunità urbane: punk2,

2 Punk è in origine un termine inglese che significa “senza valore” e, per analogia, “teppista”, “mascalzone” o “fuorilegge”. Si riferisce sia a un movimento culturale contestatario, sia al genere musicale, all’ideologia e all’estetica che gli sono associati. Apparso alla metà degli anni ’70, questo movimento esprime una rivolta contro i valori stabiliti, privilegiando l’espressione diretta e spontanea. In questo senso, esso è portatore di una volontà distruttiva, ma anche di un rinnovamento culturale, suggerendo una viva libertà creativa. È vicino al nichilismo, all’anarchismo e ai movimenti alternativi.

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grunge3, biker4 e dark. L’estetica contemporanea del piercing si sviluppa sulla West Coast americana, intorno a Fakir Musafar, figura emblematica dei Modern Primitives5, ma si diffonde progressivamente in tutta la società attraverso l’alta moda e attraverso star dello show biz e dello sport. Essa, in particolare, tende a continuare grazie ad alcuni stilisti come Jean Paul Gaultier, che, nel 1994, fa sfilare modelle adornate di piercing. La moda propone così queste modificazioni corporali, trasmettendo ai giovani la voglia di abbellirsi fisicamente. Il fenomeno diventa rapidamente popolare: numerosi tatuatori aprono boutique e queste pratiche acquisiscono ampiezza e si banalizzano. Tuttavia è vero, come nota Le Breton (2002), che queste modificazioni, in origine, non corrispondevano a una ricerca estetica, ma a una brutale volontà di dissidenza rispetto alla società britannica dei giovani che volevano testimoniare un rifiuto radicale dell’esistenza che era loro proposta, alterandosi derisoriamente il corpo, superficie proiettiva della propria contestazione. L’odio verso la società si trasformava allora in odio del corpo, ed esso simbolizzava il rapporto con gli altri. 3 Il grunge, sottogenere del rock alternativo, è un movimento apparso verso la metà degli anni ’80 negli Stati Uniti. Il successo commerciale giunto nella prima metà degli anni ’90, ha prodotto la popolarità del rock alternativo, che divenne all’epoca la forma di musica rock più popolare. A disagio con questa popolarità, la maggior parte dei gruppi grunge è sparita verso la fine degli anni ’90, continuando tuttavia a influenzare la musica contemporanea. 4 Benché il termine biker si traduca come “motociclista”, esso ha una connotazione particolare. In genere, i biker hanno motociclette di grossa cilindrata. Rifiutano la maggior parte delle nozioni convenzionali della società. Il loro look permette di identificarli con facilità: capelli lunghi, barba e tatuaggi, jeans o pantaloni di cuoio, t-shirt e giubbotti di cuoio, completati da un gilet di cuoio o jeans. Rivendicano il consumo di whisky e birra, manifestano un interesse marcato per la musica rock, il country o il blues. Negli eventi organizzati nel loro ambiente, si trovano concerti, esposizioni di motociclette, giochi come la gara di lentezza o il lancio del pistone, lo strip-tease, boutique di tatuaggi o stand in cui si possono acquistare accessori da biker. 5 I “Primitivi Moderni” costituiscono una comunità che tenta di cambiare vita attraverso le modificazioni corporali e altre pratiche rituali che ricordano le antiche civiltà. Questo movimento allea l’alta tecnologia, il tribalismo di base, l’animismo e le modificazioni corporali. Il movimento fu avviato alla fine degli anni ’70 da Fakir Musafar, un californiano che aveva eseguito ogni tipo di performance artistica con il corpo e che aveva pubblicato «Body Art», rivista consacrata alle modificazioni corporali. Movimento in cerca di emozioni, i Modern Primitives hanno seguito le orme dei praticanti del sadomasochismo e dei cyberpunk, nella convinzione che il risultato della modernizzazione e dell’industrializzazione è un torpore psichico e che, attraverso il dolore, si può ritrovare ciò che la società moderna ha portato via.

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Tempo di sviluppo Nel XX sec., nella nostra società occidentale, piercing e tatuaggi si sono banalizzati, attraendo intensamente i giovani che li associano spesso a pratiche artistiche. Basandosi sull’aumento esponenziale, all’inizio degli anni ’90, del numero delle boutique specializzate in tatuaggi e nella vendita di oggetti legati all’universo del piercing negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone, l’OMS6, nel 2001, ha stimato che più del 5% della popolazione mondiale sfoggerebbe un tatuaggio o un piercing. Alcuni Paesi europei, come la Francia, registrerebbero ogni anno 60.000 tatuaggi o piercing in più, cifra raddoppiatasi nel 2003. In Francia ci sarebbero attualmente più di 1.000 boutique per tatuaggi. Non c’è un’inchiesta recente e approfondita su simili pratiche, ma uno studio effettuato nel 1998 su un campione di 600 giovani francesi di età compresa fra gli 11 e i 15 anni, ha rivelato che più del 33% di essi sperava di avere un tatuaggio o un piercing, e si calcola attualmente che ogni anno ci siano 100.000 piercing in più. In una società in cui l’apparenza è fondamentale, l’idea di un corpo plastico e modificabile si banalizza, attraverso i regimi alimentari più o meno controllati, le pubblicità dei cosmetici, l’assunzione di prodotti come la DHEA7, la ginnastica e l’aerobica, la chirurgia estetica, ma anche le modificazioni corporali e il body art. I tabu spariscono e la voglia di giocare con la propria apparenza spinge i giovani a trasformarsi la pelle. Non è dunque solo un effetto della moda o la manifestazione di una dissidenza sociale, come negli anni ’70, ma un vero fenomeno culturale: per molti adolescenti queste modificazioni corporali sono un modo per integrarsi nella propria classe di età e per abbellirsi il corpo, piuttosto che un modo per stigmatizzarlo. Un segno di questa banalizzazione, nota la dermatologa Catherine Grognard, si trova nel fatto che, sempre più frequentemente, questi adolescenti si rivolgono ai dermatologi per questo genere di pratiche affinché i genitori, rassicurati del rispetto delle condizioni igieniche e asettiche che accompagneranno l’operazione, accettino la loro scelta. Secondo Pommereau, in Francia, il 20% dei giovani di età compresa fra i 16 e i 25 anni sarebbe tatuato o avrebbe un piercing. La fascia d’età 6

Organizzazione Mondiale della Sanità. La DHEA (deidroepiandrosterone) è un ormone steroideo secreto dalle ghiandole surrenali, ricercato per i suoi effetti anti-age particolarmente controversi. Non è in commercio in Francia, ma la sua vendita è ammessa negli Stati Uniti dal 1990. 7

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più interessata è quella che va dai 18 ai 22 anni. Queste modificazioni sono tipiche nel momento della trasformazione puberale, fra i 13 e i 18 anni, con un picco di frequenza intorno ai 16. Esse sono generalmente ripetute, spesso in modo compulsivo, e si verificano nel corso di episodi dell’adolescenza come l’inizio della pubertà o in occasione di un evento familiare o sentimentale che riattiva le tensioni edipiche. Se il piercing interessa maggiormente il sesso femminile, il tatuaggio, al contrario, riguarda per lo più il sesso maschile. Se i maschi che soffrono di problemi identitari sono alla ricerca di limiti esterni per esprimere i moti interiori e trovare dei confini in grado di contenerli, le femmine piuttosto se la prendono con la propria pelle, forma visibile e sensibile dell’esteriorità. Nei maschi, le lesioni auto-inflitte sono più rare, più atipiche. Esse si praticano prima della pubertà o dopo i 18 anni, sono durature e di intensità crescente. Le lesioni interessano il volto, il collo, il petto, l’addome, le gambe o i genitali. Le incisioni disegnano spesso parole morbose come “no future” o frasi ellittiche. Effettuate con una violenza estrema, queste modificazioni possono essere associate ad automutilazioni che ci si infligge in momenti di delirio. L’atipicità di simili condotte rappresenta un segno di gravità che permette di evocare l’ipotesi di disturbi gravi della personalità – stati limite, psicosi – e possono essere associate ai disturbi dell’umore. Simili “attacchi cutanei” costituiscono degli atti di rottura, condotte agite che, secondo Le Breton, sono spesso precedute da un senso di dispersione dell’Io, vertigine che caratterizza le condotte a rischio, con la sensazione di precipitare dentro se stessi, equivalente a una perdita di controllo e di lucidità. Anche se questi “attacchi al corpo” non sono considerati come mezzi per farla finita, essi sono tuttavia il segnale di indicibili sofferenze e costituiscono degli indicatori di tendenze suicide. Molteplici motivazioni Ai nostri giorni, il corpo serve da background a un buon numero di giovani. Che ciò avvenga per un fatto di identità o di moda, di ricerca di senso o di rivolta, il coinvolgimento del corpo è divenuto un mezzo d’espressione dai significati molteplici. Così, un corpo può essere marcato per una forma di rifiuto o, al contrario, per una forma d’appartenenza. 247

Dai riti alla moda Le Breton evoca a tal proposito l’ipotesi di un restauro di riti di passaggio. Nei Paesi occidentali, nessun rituale garantisce ai giovani, in questa fase della vita, che la loro esistenza ha un significato e un valore. La modificazione non sarebbe fine a se stessa, ma un’affiliazione portatrice di un valore identitario e di uno status, la cui scelta è squisitamente individuale, in quanto ha, come significato, quello che le è attribuito dall’adolescente. Eppure, come nota Birraux (2004), non esiste un rito auto-generato. Un rito non risponde solo a un’intenzione individuale, come non esiste un simbolismo che implichi solo un individuo e il suo immaginario. I simboli scritti sulla carne oggi non permettono più di riconoscersi e di condividere valori. E i tatuaggi esoterici che alcuni giovani si infliggono per rivendicare l’appartenenza a una comunità, non fanno altro che evidenziare la precarietà delle loro sedute narcisistiche e delle loro identificazioni. Riprendere fiducia e segnare delle tappe Le modificazioni corporali, inoltre, permettono ad alcuni di riacquistare fiducia in se stessi e di sentirsi meglio “nella propria pelle”. Esse aiutano a cambiare l’immagine che si ha di sé, o anche a riconciliarsi con un corpo svalutato, a rivalorizzarlo attraverso l’aggiunta di un gioiello o di un tatuaggio. Per Gutton (2004), la modificazione del corpo sarebbe la via intrapresa dall’adolescente quando non sa più in che cosa credere. Poiché le certezze dell’infanzia non sono più valide e quelle della pubertà sono caotiche, regna il dubbio, e il corpo che, a causa della maturazione sessuale, si trasforma e spaventa, è severamente indagato. Modificandolo, l’adolescente prova semplicemente ad appropriarsene. Queste modificazioni altro non sarebbero, secondo Birraux, che strategie difensive contro la “genitalizzazione” del corpo, tentativi di controllare il momento di passaggio da un corpo autoerotico a cui bisogna rinunciare, a quello di un adulto in grado di procreare. La modificazione corporale può anche essere vissuta come una “ri-nascita”, un modo simbolico di prendere possesso di sé. Quel corpo legato ai genitori deve essere modificato, poiché il bambino, spesso sovrainvestito, colmava le loro carenze narcisistiche. Lauru (2006) parla perciò di fantasmi di auto-generazione per rievocare questa riappropriazione del corpo attraverso le modificazioni. Tatuaggi e piercing possono infine es248

sere un modo simbolico di segnare delle tappe importanti nella vita dei giovani: la pelle segnata diventa memoria, questo archivio di sé era tanto caro ai detenuti di inizio ‘900, che nel tentativo di prendere simbolicamente il controllo in un periodo di dubbi e incertezze, appuntavano sulla pelle il passare del tempo8. La parte del sesso Un’altra motivazione delle modificazioni corporali riguarda il piacere sessuale. Le Breton cita così dei lavori in cui Fergusson riferisce la testimonianza di donne che sono riuscite a provare un orgasmo vaginale solo grazie a un piercing al clitoride. In questo caso il piercing è visto come uno strumento in grado di far emergere piaceri inediti, mettendo in risalto una parte del corpo a cui si conferisce un valore erotico e creando delle zone di intensità libidica che diventano luoghi intimi in cui il piacere si accresce. Oltre al dolore, il piercing lascia dunque il posto ad altre sensazioni, perché è difficile dimenticare questo oggetto estraneo che richiama costantemente la propria presenza a causa del suo peso e degli sfregamenti che provoca, il che porta a parlare di autoerotismo, se è situato in una zona erogena, che si tratti dell’occhio, delle labbra, della lingua, dell’orecchio o dei seni. Le persone che hanno un piercing alla bocca, ci giocano frequentemente, mordendolo o succhiandolo. Proprio come un bambino che, succhiandosi il pollice, realizza un atto autoerotico, chi porta un piercing alla bocca si riconforta attraverso il piacere della suzione, inserendosi nelle logiche parziali della sessualità infantile, infliggendo al corpo una ferita reale, sottolineata dal gioiello che la adorna e inducendo un’eccitazione permanente della zona erogena per effetto meccanico. Si può, con Le Breton, notare l’analogia con l’oggetto transizionale, anch’esso mordicchiato, sfiorato o accarezzato nei momenti di tensione. Tuttavia il piercing non è ridotto soltanto all’attività autoerotica infantile, 8 Il tatuaggio dei detenuti, per alcuni aspetti, si riallaccia a quello dei giovani dell’attuale generazione. Il divieto della pratica del tatuaggio in prigione incitava alla trasgressione e la sua attuazione diveniva un gesto di autonomia nei confronti del regolamento. Secondo Tenenhaus (1993), il tatuaggio traduceva la volontà dei prigionieri di riappropriarsi della propria esistenza. Da “vittime”, essi diventavano creatori, attraverso un senso di riconquista di sé, trasformando simbolicamente il destino in sovranità personale. Simonin (2005) paragona così il tatuaggio dei delinquenti a un curriculum vitae – luogo di nascita, amori importanti, campagne militari, luoghi di detenzione – con la pelle che diveniva il loro archivio.

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perché, sottoposto allo sguardo degli altri, assume una funzione libidica, che partecipa in questo caso ad un’attività “allo-erotica”. Marcarsi la pelle Il corpo è al centro della problematica adolescente, secondo Pommereau, cioè l’infragilimento narcisistico dovuto agli stravolgimenti fisici e alla ricostruzione psichica che questo periodo impone. Anzieu, con il concetto di “Io-Pelle”, fa del corpo una dimensione vitale della realtà umana su cui poggiano le funzioni psichiche. La pelle ha una triplice funzione: essa è l’involucro che contiene e unifica l’Io, la barriera dello psichismo e il filtro degli scambi e di registrazione delle prime impressioni, funzione che rende possibile la rappresentazione. Durante l’adolescenza, queste funzioni sono fragili e la “pelle nuova” che tradisce il giovane, di cui svela le emozioni, non contiene più il suo mondo interiore e non lo protegge più da quello esterno. Il corpo, investito in modo ambivalente, è amato e detestato, sostiene Jeammet. L’adolescente vuole appropriarsi di questo corpo estraneo, dominarlo e sperimentarne i limiti, e questa circostanza sembra permettergli la modificazione corporale, mezzo necessario per accedere a uno stato in cui egli sente di essere se stesso. Questo corpo, questa pelle, si rivela un rifugio che permette di aggrapparsi al reale e di non precipitare. Esercitando una funzione di continenza e di attenuazione delle emozioni che vengono dall’esterno o dall’interno, la pelle ha dunque un ruolo considerevole nel rapporto che ogni uomo ha con il mondo, sottolinea Le Breton. E quando l’incertezza identitaria lo costringe alla rottura, l’adolescente si attacca a questa pelle sia per sfogare la propria sofferenza sia per fare appello gli altri, alla ricerca di riconoscimento, aggiunge Pommereau. Come nota Grognard (2006), i segni sulla pelle collocano l’adolescente in una dimensione narcisistica, alla ricerca della sua identità, in quanto è il corpo, che subisce dei cambiamenti, a renderlo estraneo a se stesso. La pelle, che ha un rapporto sia con il mondo interiore che con il mondo esterno, è per lui il mezzo di impossessarsi sia del proprio corpo che della propria identità. Noi viviamo, ricorda François Marty (2006), all’interno di una società fondata sulle immagini. Perché allora non trasformarsi in immagine, percorso del riconoscimento di sé, dal momento che i pari la 250

convalidano? Per essere notati, bisogna essere marcati e dunque distinguersi. Questo riguarda in particolare gli adolescenti, per i quali lo sguardo degli altri è fondamentale e l’inquietudine riguardo al corpo è divenuta un aspetto importante della relazione con loro. Per divenire se stesso, bisogna che l’adolescente si collochi “fuori di sé”: in una società dove primeggia l’apparenza, la pelle, che è un luogo di registrazione di senso e di legame e una superficie di proiezione, diventa il luogo privilegiato di questa messa in scena. Piercing e tatuaggi permettono allora di abbellire il corpo – procurando a poco a poco il senso di sé –, di giocare con la propria identità per avvicinarsi a un’immagine giudicata più vantaggiosa e di sfuggire all’indifferenza. Queste modificazioni corporali hanno una dimensione esibizionista, poiché interpellano lo sguardo dell’altro e, attraverso esse, l’adolescente si impegna in una sfrenata ricerca di riconoscimento: egli esiste solo in quanto è visto. Riti di passaggio reinventati? Nelle società senza scrittura, dette “primitive”, i ragazzi erano marcati da scarificazioni e tatuaggi, e anche le labbra, le orecchie e il naso erano interessati da modificazioni. Esse avevano motivazioni e significati molteplici e non univoci, e permettevano di inserire l’uomo nel corpo sociale distinguendolo dall’animale. E così, ricorda Borel (1992), il corpo nudo veniva considerato come bestiale, mentre quello vestito, ma anche tatuato e/o mutilato, manifestava la propria umanità e la propria integrazione nel gruppo. Il marchio permetteva in qualche modo di “segnare” il corpo, questa materia malleabile e alterabile che si piegava docilmente alle volontà e ai desideri sociali. Una tale modificazione corporale permetteva inoltre di identificare il posto di ciascuno all’interno del gruppo, manifestando in maniera visibile il suo status, il suo sesso, il suo livello di maturità sessuale e la sua condizione matrimoniale. Così, nel momento della pubertà, per accedere al mondo degli adulti, il giovane doveva affrontare una cerimonia, il cui elemento essenziale consisteva nel segnare questa transizione anche sul suo corpo. Le modificazioni erano associate a simboli. Presso i Suias del Brasile, per esempio, dei dischi di legno ai lobi delle orecchie e alle labbra permettevano di distinguere gli adulti 251

dai bambini. Durante la pubertà, le orecchie erano forate perché gli adolescenti avevano il dovere di ascoltare gli anziani e l’ornamento labiale qualificava le qualità virili e le caratteristiche guerriere. Riti o simulacri? Per Pommereau, al contrario, si tratterebbe piuttosto di “riti simulacri”, poiché queste nuove pratiche non simbolizzano le stesse funzioni di integrazione. Sono delle condotte private, di natura trasgressiva, non sottomesse all’ordine sociale e tendenti a integrare qualcuno nella tribù adolescente, non nella società. Non si accompagnano a una trasmissione di valori e non sono organizzate dagli adulti. Si realizzano sia in luoghi nascosti del corpo, o, al contrario, in luoghi particolarmente visibili, in un atteggiamento di diffidenza e/o di sfida. E l’atto, essenzialmente individuale, si pratica lontano dallo sguardo degli altri, spesso in presenza di una terza persona, anche’essa iniziata o adepta di queste pratiche. La discrezione permette all’adolescente una certa flessibilità di utilizzo, di mostrare o di nascondere questi segni. In ciò, questi differiscono molto dalle scarificazioni rituali, controllate e imposte dal mondo degli adulti, che erano esposte per manifestare uno status all’interno del gruppo. Pommereau evoca, al contrario, la possibilità di un vicolo cieco identitario, che riguarda i grandi “plurimarchiati”, soggetti pieni di tatuaggi e piercing impegnativi, che ostentano spesso anche scarificazioni e impianti. La corsa sfrenata ai piercing può, ricorda Pommereau, segnalare una ricerca di identità fallita ed essere il sintomo di un conflitto psichico. Le modificazioni corporali divengono allora una forma di dipendenza, che può accompagnarsi all’aggressività e alla violenza, unici mezzi d’espressione: se il malessere è intenso, i giovani se la prendono con la propria pelle e iniziano a degradarla. Disadattamenti sociali? Se, per la maggior parte dei giovani, le modificazioni corporali hanno la funzione di decorazione e di messa in scena ludica di sé, e si tratta, solo per una minoranza, della ricostruzione di sé e della riappropriazione di un corpo sfuggente, esse costituiscono per altri il sintomo di condotte devianti o di disturbi psicopatologici. Numerosi lavori (Roberts et alii, 2004; Deschesnes et alii, 2006; Preti et alii, 2006; Stirn et alii, 2006) hanno del resto messo in evidenza le forti correlazioni fra le pratiche 252

del piercing e del tatuaggio e la percezione negativa della vita, la ricerca di emozioni, i disturbi del comportamento alimentare e l’esternazione di condotte a rischio quali: • la precocità delle condotte sessuali e la molteplicità dei partner; • la cattiva integrazione nella società e la pratica dei giochi d’azzardo illegali, l’assenteismo scolastico, la frequentazione di rave; • le condotte antisociali, le pratiche illegali e l’affiliazione alle gang; • il consumo di droghe illecite, l’abuso di alcol e il tabagismo. Farsi del male per non soffrire più Che sia un piercing o un tatuaggio, la modificazione non può avvenire senza una lacerazione della pelle, che provoca dunque dolore, perché la legge impedisce ai tatuatori e ai piercer l’uso di anestetici diversi da quelli superficiali. Allora, come comprendere questo amore giovanile per i tatuaggi e i piercing? Curare le proprie sofferenze Secondo Myers (1992), il piercing non ha niente a che vedere con un patologico “piacere del dolore”, poiché esso non è che un effetto secondario ma necessario di un rito di passaggio che, di per sé, è la motivazione che incita a praticare la modificazione corporale. Le Breton sottolinea anche il carattere essenziale di questo dolore agli occhi dei giovani, perché cristallizza l’efficacia simbolica del cambiamento d’identità: “no pain no gain”, proclamano alcuni adolescenti. In questo senso, la modificazione è un rito di passaggio personale che bisogna meritare. Questo merito è l’argomento che fonda la necessità di soffrire e il dolore è una potenza metamorfica, poiché scrive sulla carne la memoria del cambiamento operato dentro di sé. Stando a Thériault (2003), questo dolore deve essere collocato in un contesto di sviluppo normativo adolescente piuttosto che in quello della perversione. La marcatura va in effetti ad associarsi alle sofferenze dello sviluppo inerenti al cammino dei giovani verso la maturità. Secondo Le Breton, il dolore dovuto alla lacerazione restituisce un limite che mancava, una specie di parapetto che impedisce di precipitare 253

in un’emorragia di sofferenza. Il dolore permette di partorire un nuovo Io, marcato e ben definito, che, a differenza del vecchio Io, turbato dall’arrivo della pubertà, si innesta sulle angosce del giovane per affrancarlo. Eppure, il dolore può anche essere associato, a livello psichico, all’indicibile sofferenza procurata dalla separazione dai genitori. Le modificazioni manifestano un tentativo di gestire le angosce associate alla ripresentazione del conflitto edipico. Esse sono necessarie, in questo senso, per confermare la necessità di trascurare lo status di bambino e di indossare quello di adulto sessualmente maturo. Esprimere il proprio malessere L’atto di scarificazione è preceduto da una forte tensione interiore. Gli adolescenti si mutilano per esprimere il proprio malessere e un dolore psichico spesso insopportabile. Ferendosi, il dolore si materializza, prende corpo e diviene più facile da gestire. L’atto, sostiene Duverger (2006), manda in corto circuito lo psichismo e questo, nell’economia psichica del giovane, rivela la sua incapacità di usare le parole e di simbolizzare. Poiché la sofferenza psichica non trova parole per esprimersi, il corpo le sostituisce. Come sottolinea Le Breton, in assenza di linguaggio, le scarificazioni sono delle grida affidate alla carne. Questi passaggi all’atto sono dovuti a una mancanza di coesione interiore, al mal sostenuto narcisismo necessario all’esistenza, alla ricerca di punti di riferimento e di limiti. La scarificazione permette in qualche modo all’adolescente di ridefinirsi attraverso una situazione dolorosa, di lottare contro la paura del frazionamento. Attraverso la lacerazione del proprio corpo, egli tenta di sfuggire al senso di perdita narcisistica e all’aumento dell’angoscia che, altrimenti, potrebbe sommergerlo. Egli tenta di consolarsi anche a prezzo di una violenza fisica contro di sé, poiché il sollievo psichico prevale sul dolore fisico, che è come un argine simbolico che egli utilizza per trasferire l’angoscia in uno spazio in cui essa diventa, almeno per un momento, controllabile. Numerosi giovani che si sono inflitti delle modificazioni, osservano Corcos et alii, affermano tuttavia di non sentire alcun dolore al momento dell’intervento, il che pone la questione di un processo di resistenza a ogni percezione sensoria o di un fenomeno di allucinazione negativa che induce all’analgesia. Eppure, le scarificazioni, dice Perret-Catipovic (2005), hanno anche lo scopo di stimolare, attraverso il dolore, la perce254

zione dello sviluppo corporeo. Le endorfine prodotte a causa degli stimoli dolorosi diminuiscono tuttavia la sensibilità, agendo come regolatori delle emozioni. Questa produzione di endorfine sarebbe anche all’origine del bisogno di ripetere gli interventi. Attaccarsi alla pelle, restaurare i propri limiti, ricominciare da capo La pelle, oggetto di una rivendicazione estetica, incarna il luogo sensibile dell’identità. Carica di inconscio e di cultura, essa svela lo psichismo del soggetto e il suo posto all’interno del tessuto sociale. Essa è il punto di contatto con il mondo e con gli altri. Agire su di essa va dunque a modificare la prospettiva della relazione con il mondo. Laddove non resta che il corpo per provare che si esiste, la scarificazione diventa un modo di assicurare l’identità personale. La scarificazione è una specie di linguaggio del corpo, una scrittura di sé. In tal senso, le modificazioni corporali permettono di segnare dei limiti. Esse hanno il valore di un atto di passaggio per giovani che sono alla ricerca del senso della propria esistenza. Sono un tentativo di riappropriazione di sé, che passa attraverso questo corpo che si trasforma e fugge. Il danno corporale tende qui a cancellare lo sviluppo di questo corpo sessuato e pulsionale che essi non possono più sopportare. Attraverso un richiamo brutale alla realtà, la ferita deliberata provoca il ritorno all’unità di se stessi (Le Breton 2004, 2008; Duverger 2006). Marcare i limiti Secondo Le Breton, la restaurazione dei propri limiti si effettua attraverso il richiamo alla concretezza della pelle e del sangue. L’adolescente si marca il corpo per incidere un limite sulla pelle. Infrangendo i limiti del corpo, egli stravolge i propri. L’esternazione della tensione attraverso la ferita corporea è il primo livello di resistenza nei confronti della sofferenza. In quanto autore del danno, egli non è più vittima. Quando la sofferenza psichica lo sommerge, i limiti fra il dentro e il fuori crollano. La ferita testimonia il tentativo di ricostituire il legame interno-esterno attraverso una manipolazione dei limiti personali. Questo tentativo di separazione, di iscrizione di limiti, può anche essere compreso come un attacco ai legami affettivi familiari, una specie di rottura dei legami di 255

sangue con il corpo dei genitori, “un’espropriazione delle imago senza la totale cancellazione di sé”, per dirla con Corcos et alii (2006). Dopo essersi scarificato, torna la calma e il mondo diviene “pensabile”, anche se resta doloroso. La brevità della consolazione ottenuta spinge tuttavia l’adolescente ad un ricorso sempre più frequente alla scarificazione. Sottomessi alla coazione della ripetizione, le scarificazioni creano una sorta di dipendenza e perdono progressivamente il loro senso, per diventare un’attività meccanica. I rischi di dipendenza La proliferazione degli interventi sul corpo rischia, forse, di rinchiudere il soggetto nella prigione della ripetizione. Sebbene gli adolescenti tentino “magicamente” di dominare i conflitti interni attraverso la modificazione del proprio corpo, l’inevitabile ritorno delle loro angosce rischia di portare altre sofferenze psichiche: quando il tentativo di tener lontane le angosce dell’adolescenza fallisce, non fa altro che sottolineare l’incapacità di realizzare pienamente l’auto-generazione dell’adolescente. Secondo Thériault, poiché il sollievo procurato dalla soddisfazione di essere riusciti a sopportare il dolore fisico della modificazione non dura nel tempo, si ricercano altre esperienze, che conducono questi giovani a ripetere le sedute nelle boutique dei piercers. Tanto più, come sottolinea Lauru, che il piacere orgasmico della modificazione è tale che può indurre a riprodurla di continuo. Numerosi giovani evocano così il desiderio di riprovare un’esperienza che li ha profondamente toccati. L’adolescente è allora travolto da una ricerca di affermazione personale ed estetica, che lo spinge a ripetere più volte l’esperienza.

Il corpo barattato Lo sfruttamento dei bambini e degli adolescenti, che è cominciato con la nascita della prostituzione, si costruisce da secoli sulla miseria e l’isolamento. Oggi, migliaia di giovani vendono il proprio corpo in modo più o meno occasionale. Hanno tutti lo stesso profilo di monello sofferente, pieno di problemi identitari. Molti di loro sono sfruttati dalla malavita. Per la maggior parte sono giovani ragazze che, fuggite dalla miseria o dalla guerra, sono state vendute dalla famiglia o tratte in inganno da an256

nunci di lavoro per hostess, cameriere… se non modelle. Sognando la Torre Eiffel, si sono ritrovate poi a battere i marciapiedi di Parigi e a pagare, con il corpo, le spese di viaggio. Altre sono nate in Francia, ma la loro sorte è la stessa. Secondo la polizia, la prostituzione minorile in Francia è aumentata. Molte centinaia di giovani, giunti spesso dall’estero – in particolare dai Paesi dell’Est o dall’Africa – monetizzano il proprio corpo. Le ragazze provengono spesso dall’Albania, dal Kosovo, dall’Ucraina, dalla Bulgaria, dalla Repubblica Ceca o dalla Russia, o anche dalla Sierra Leone, dalla Nigeria, dal Ghana o dal Camerun, e i ragazzi sono soprattutto rumeni, marocchini e algerini. Altri sono francesi, spesso figli di immigrati. Francesi e stranieri, maschi e femmine, si prostituiscono nella stessa misura. Hanno per la maggior parte fra i 15 e i 18 anni, ma alcuni sono ancora più giovani. Sui marciapiedi si incontrano spesso bambini e bambine di appena dieci anni, e recentemente i Corpi Speciali per la tutela dell’infanzia hanno trovato anche un bambino di nove anni e mezzo che si prostituiva a Parigi. La maggior parte di loro avrebbe tuttavia iniziato a prostituirsi fra i 14 e i 16 anni, e queste iniziazioni non sono riconosciute come tali dai giovani coinvolti, perché non implicano – il più delle volte – una remunerazione pecuniaria: si concretizzano solo attraverso un interesse materiale – tramite il “prestito” di un ragazza a un amico del “fidanzato”, per esempio. Questo fenomeno molto recente non smette di crescere. Ha fatto la sua prima apparizione nel 2000, con l’arrivo in Francia di giovani prostitute venute dall’Europa dell’Est. Questo doloroso percorso è generalmente legato all’adolescenza. Molti di questi giovani non hanno famiglia. Molti hanno subito abusi sessuali durante l’infanzia. Molti cercano di fuggire dalle difficoltà economiche e politiche del proprio Paese e sono arrivati in Francia per chiedere asilo. Alcune organizzazioni si interessano della loro tratta, come le mafie dei Paesi dell’Est. I minorenni francesi sono spesso isolati, lontani dalla famiglia e accettano questa attività per procurarsi dei soldi. La prostituzione obbedisce a un micro-mercato organizzato quartiere per quartiere, strada per strada, vicolo per vicolo9. La situazione ha 9 A Parigi, in particolare, molte strade del centro della città, come i boulevards des Maréchaux (insieme delle strade tangenziali che circondano Parigi, che portano i nomi di Marescialli del Primo Impero), il bois de Boulogne e de Vincennes (i due grandi parchi cittadini).

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molte sfaccettature. Questi giovani sono vestiti in modo da adescare i clienti: sembrano piuttosto “carini” e “apparentemente in buona forma”, a seconda delle organizzazioni che li gestiscono, ma dormono in ambienti sordidi. I loro sfruttatori li trasportano in un furgone nei luoghi scelti e rimangono in zona per controllarli. Si prostituiscono “per strada” per qualcosa come 20€ per un rapporto orale o 50€ per un rapporto completo. Questa prostituzione di strada si pratica nei parcheggi, negli androni dei palazzi o nelle automobili dei clienti, il che suscita l’attenzione dell’opinione pubblica e contribuisce ad alimentare l’esasperazione dei residenti delle zone interessate dal fenomeno. Esiste anche, ma è più rara, una prostituzione “in studio”, con appuntamenti fissati tramite telefono cellulare e una lista di clienti habitué10. Giovani prostitute/i O’Deye e Joseph, in un rapporto realizzato nel 2006 su incarico del Ministero della Giustizia, richiamano alcuni dati essenziali che riguardano la prostituzione minorile. La prostituzione occasionale non riguarda i giovani che sono finiti nelle grinfie di organizzazioni criminali. Essa si pratica in cambio di vitto o alloggio, per lottare contro l’isolamento sociale, a causa della dipendenza da droga o per ottenere degli extra – acquisti, uscite, divertimenti. Non porta automaticamente a una prostituzione professionale. Mutevole e difficilmente rintracciabile – si svolge nei bar, nelle discoteche, nelle automobili, negli scantinati o nei parcheggi –, è marginale rispetto ai traffici classici. Associata a un senso di vergogna o di colpa, è raramente nominata e, quando lo è, viene negata. Il passaggio da una prostituzione occasionale a una stabile riguarda i giovani che, dandosi inizialmente alla prostituzione autonoma, dovuta alla loro erranza e alla necessità di sopravvivere, avviano un’attività più organizzata con l’aiuto di un protettore. Pensando inizialmente di poter liberamente gestire il loro percorso, e poi alternando fasi di autonomia con periodi di “tutela” da parte di sfruttatori, alcuni giovani credono di controllare la situazione, fin quando un protettore organizza in modo più stabile la loro attività.

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Il sito di Jean Charles Champagnat: www.droitsenfant.com.

L’inizio della prostituzione L’ANRS11, per descrivere l’inizio della prostituzione, propone una categorizzazione in base a quattro fasi: • una fase pre-prostituzionale, caratterizzata da disfunzioni legate alla storia personale e sociale, che sono riattivate da un evento destabilizzante; • una fase iniziatica di incontro con la prostituzione attraverso la mediazione di una persona o di un gruppo, che spinge progressivamente all’atto attraverso la persuasione, l’inganno, le promesse e/o il conformismo. Anche la curiosità, la soddisfazione di bisogni elementari o la voglia di divertimenti costituiscono una motivazione iniziale; il giovane si trova allora in una situazione ambigua, un piede nell’inserimento sociale, un piede nella prostituzione, e trova vantaggi nel prostituirsi pur soffrendone enormemente; • una fase semiprofessionale, in cui si investe sulla prostituzione in modo più attivo e in cui si opera il distanziamento dai servizi di aiuto sociale e di inserimento professionale; • una fase stabile, in cui l’attività è divenuta routine. L’ANRS fornisce anche un’analisi dettagliata delle modalità di avvio della prostituzione, che avviene essenzialmente attraverso incontri fortuiti legati alle condizioni di estrema miseria in cui si trova il /la ragazzo/a (54%). Altre occasioni possono offrirle i bar, i locali, le saune e gli ambienti gay, i club vacanze e divertimenti (12%), agenzie o alberghi camuffati (10%), un gruppo criminale e/o di sfruttatori (10%). L’avvio della prostituzione femminile passa spesso attraverso dei livelli intermedi di iniziazione: finte offerte d’impiego, attività “artistiche” come la fotografia, inviti a determinate serate, proposte di alloggio, ecc. La prostituzione maschile presenta caratteristiche differenti. Inizia spesso per reazione a un rifiuto familiare e sociale precoce, che impedisce il riconoscimento dell’identità di un giovane (l’omosessualità, per esempio). Al di là della spiegazione dei soldi facili, si mostra anche il peso della solitudine e della miseria, e la prostituzione fornisce l’occasione di “trovare” qualcuno o un alloggio per un po’ di tempo (O’Deye e Joseph, 2006). 11 Associazione

Nazionale di Riadattamento Sociale.

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Più del 50% dei giovani che si prostituiscono ha un percorso segnato da incidenti biografici distruttivi: maltrattamenti fisici (45%), violenze morali o verbali (35%), violenze e abusi sessuali (29%), tentativi di suicidio (6,5%), malattie gravi (6,5%), abbandono alla nascita (3%). Nella loro anamnesi si notano delle carenze affettive che generano fragilità, ma anche molta immaturità affettiva, ingenuità e tendenza alla sottomissione. Il rifiuto sociale da parte della loro famiglia costituisce un fattore determinante, esattamente come la loro integrazione in un’ideologia consumista. Possono intervenire dei fattori aggravanti nel meccanismo che porta alla fase iniziatica: i contesti di rottura familiare e di erranza, l’isolamento sociale voluto o subito, l’assenza di alternative socio-professionali e situazioni di precarietà economica, la frequentazione di gruppi a rischio vicini alla delinquenza, che fanno da tramite tra il ragazzo ed eventuali sfruttatori. Bisogna inoltre sapere che, troppo spesso, il dibattito mediatico fa da portavoce alla prostituzione glamour, visti i reality show, che sembrano talvolta legittimare la prostituzione, pur senza chiamarla con il suo vero nome. Per quanto riguarda la percezione che i giovani hanno della prostituzione, i media inducono spesso delle sfasature fra la rappresentazione della prostituzione e la realtà di oppressione, di prigionia e di violenza vissuta dalle persone integrate nei traffici di sfruttamento sessuale. Le forme della prostituzione giovanile Laurence Trellet-Florès, in una tesi discussa nel 2001, La prevenzione della prostituzione12, passando in rassegna le condizioni dei giovani di età compresa fra i 15 e i 18 anni e di quelli più grandi, precisa che molte forme di prostituzione non si svolgono sul marciapiede. L’autrice distingue, più esattamente: • la prostituzione dietro costrizione, dovuta a una persecuzione o al racket, in cui degli uomini costringono delle giovani ragazze a una relazione di sfruttamento perverso; • la prostituzione dovuta a influenza, in cui un/a amico/a che si prostituisce, incita l’altro/a a fare lo stesso; in essa il ruolo dell’entourage e delle frequentazioni è fondamentale, come anche il fascino esercitato dall’emarginazione; 12 La prévention de la prostitution: fondements, précautions, pistes. Un essai de conceptualisation, Université Paris X.

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• la prostituzione dovuta a manipolazione amorosa, in cui interviene l’ingenuità, ma anche l’ammirazione e i buoni sentimenti nei confronti del manipolatore; • la prostituzione in cambio di alloggio, in situazioni di fuga o erranza. Se ne possono distinguere due forme: incontro con un adulto che “dà una mano” o con un giovane di sua conoscenza che “la/lo ospita”; • la prostituzione-trappola, in situazioni di difficoltà, in un luogo isolato, sotto il pretesto di impieghi diversi (baby-sitting, ristorazione, fotografie, pornografia…); • la prostituzione in luoghi pericolosi, come presunti locali notturni, in cui i giovani sono “presi in trappola”; • la prostituzione all’interno della famiglia, in cui sono i genitori o i suoceri, spesso il fratello maggiore, ad avere il ruolo di sfruttatori; • la prostituzione in certi ambienti omosessuali, in cui differenti vantaggi sostituiscono la retribuzione; • la prostituzione occasionale in cambio di beni materiali, senza neanche allontanarsi dalla propria famiglia; • la prostituzione come “disinibizione”, in un periodo della vita in cui la pressione sembra troppo forte; • la prostituzione come unica soluzione possibile in una situazione sociale degradata; • la prostituzione in cambio di droga. Comportamenti pre-prostituzionali Sempre più adolescenti, più spesso femmine, sono pronti a barattare il loro corpo per abiti di marca, un paio di scarpe, un telefono cellulare, un lettore MP3, mentre altri si accontentano di monetizzare l’immagine della propria nudità per qualche euro. Si tratta di comportamenti “preprostituzionali”, fenomeno nascosto e occasionale, ancora marginale, ma che non è meno inquietante. Né davvero venali né davvero coscienti di ciò che fanno, questi comportamenti riguardano alcuni ragazzi i cui valori e i cui limiti sono completamente confusi, tanto più che alcuni di essi sono giovanissimi. È vero che i costumi evolvono. Ai nostri giorni, a 14 anni, il 40% delle ragazze ha già visto un film porno, ma non si tratta qui 261

di quella prostituzione studentesca che si osservava qualche anno fa in relazione con la precarietà ma, come sostiene Dominique Versini, Protettrice dei bambini13, ci troviamo oggi davanti alle conseguenze di un ambiente generale deleterio: un contatto con la pornografia sempre più precoce, un’immagine del corpo femminile degradata al rango di merce di scambio, una società in cui tutto è finalizzato al denaro. La situazione è terribile, aggiunge la Versini, per i giovani più fragili14. Questi comportamenti condividono molti fattori di rischio individuale con altre condotte a rischio: carenze educative e affettive, scarsa autostima, dipendenza affettiva, scarsa fiducia nelle capacità personali, difficoltà nel prendere decisioni, mancanza di abilità relazionali e difficoltà o rifiuto di utilizzare un servizio di aiuto. L’assenza di competenze personali e sociali che avrebbero dovuto essere acquisite durante l’infanzia, mostra che questi adolescenti avevano subito pratiche educative incoerenti all’interno di un ambiente sociale sfavorito. La sessualità suppone in generale l’esistenza di un legame affettivo in almeno uno dei due partner, o, in ogni caso, un ricambio affettivo. Eppure, il legame affettivo può condurre all’esplosione emotiva, da cui può derivare un’inibizione delle competenze relazionali di cui la persona, in altri ambiti della sua vita, riesce ad avvalersi. Alcuni giovani utilizzano così la sessualità, o rivendicano di utilizzarla, come oggetto di un ricatto per mantenere una relazione affettiva o una reputazione. Ora, se la sessualità è presentata o utilizzata come una moneta di scambio, vi si trova certamente qualcosa di pre-prostituzionale. Le storie delle persone che si prostituiscono mostrano frequentemente come esse siano state gradualmente preparate ad accettare l’idea che sarebbe stata cosa assai banale, per non dire “normale”, considerare un atto sessuale come una forma di pagamento. L’ambiente sociale e mediatico rafforza spesso questa visione commerciale della sessualità, che rinvia a delle relazioni uomo-donna non paritarie, se non violente. Infatti, le violenze sulle donne precedono spesso la prostituzione. Il rischio prostituzionale non deriva solo da fattori individuali. Entrano in gioco anche fattori familiari, socioeconomici e ambientali. Considerato 13 Carica dello Stato indipendente dai Ministeri, il cui compito è di difendere e promuovere i diritti dei bambini, N.d.T. 14 Fonte: http://www.leparisien.fr/home/info/vivremieux/articles.htm?articleid= 29851586.

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individualmente, nessuno di essi basta a spiegare le ragioni dell’inizio della prostituzione: è la loro interazione ad essere pericolosa, così come la situazione contestuale. In effetti, l’elemento scatenante è l’incontro con “l’ambiente”, sia perché si incappa in un gruppo deviante, sia perché si imita un/a compagno/a, sia ancora a causa di una pseudo-relazione affettiva. Esiste un legame di dipendenza da queste persone o da questi gruppi e subire il loro rifiuto è considerato come una minaccia insopportabile. Nell’avvio alla prostituzione si trova di frequente, come elemento scatenante, l’incontro con una personalità manipolatrice che sfrutta la vulnerabilità affettiva del giovane. Ci sono molteplici tappe: conquistare la fiducia della preda, poi, progressivamente, un inizio di condotte a rischio, una preparazione all’idea della prostituzione attraverso la banalizzazione dello scambio sessuale e un condizionamento che induce a non vedervi altro che un modo per esprimere la propria libertà e per non subire più ciò da cui si è fuggiti. L’attività prostituzionale non è mai nominata, ma è presentata come una soluzione con, sullo sfondo, la minaccia di interrompere il legame affettivo, se il/la giovane manifesta un’opposizione. Questa manipolazione è molto efficace su ragazze che hanno difficoltà a capire che cosa vogliano dalla vita. In esse si trova sempre una mancanza di consapevolezza di sé, dei propri valori, delle proprie forze e delle proprie debolezze, dei propri bisogni e dei propri diritti, cioè, ancora una volta, una mancanza di competenze psicosociali. E la prostituzione non farà altro che amplificare queste carenze relazionali iniziali, conducendo talvolta a delle vere e proprie fobie sociali. Una scarsa autostima, da sola, non basta più a spiegare l’avvio alla prostituzione. Anche i percorsi di vita sono spesso segnati da carenze educative e affettive pesanti e da un ambiente in cui esse non hanno trovato il sostegno morale di cui avevano bisogno. Queste carenze affettive sono da mettere in rapporto con un tipo di attaccamento favorevole alla dipendenza interpersonale e affettiva. Le prostitute hanno quasi tutte delle storie familiari difficili, fatte di abbandono, di violenze verbali e/o fisiche, di violenze sessuali, ma soprattutto di violenze psicologiche: insulti, umiliazioni, assenza di cure, di comunicazione tra genitori e figli, incoerenze educative fra i genitori, e, in seguito, il collocamento in istituti a causa dell’abbandono o delle violenze familiari.

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Verginità in vendita su Internet La vendita della verginità, per quanto possa essere simbolica… è tuttavia un atto di prostituzione. La verginità è sempre stata molto importante nella maggior parte delle società occidentali, in particolare nelle culture che associano la sessualità prematrimoniale al peccato. In quest’epoca di consumismo e di materialismo divenuto stile di vita, alcune giovani ragazze, negli Stati Uniti e in Europa, coscienti del fascino che poteva esercitare la loro verginità, hanno fatto parlare di sé mettendola all’asta su Internet. Nel maggio del 2009, una ragazza rumena di 18 anni ha così “offerto” la propria verginità su un sito tedesco specializzato in annunci legati al sesso, con il fine di pagarsi gli studi. Certificato medico alla mano, si è messa all’asta e un quarantenne italiano se l’è aggiudicata per poco più di 10.000€. Le spese dell’annuncio, ovviamente, erano a carico del sito. Questa storia non è eccezionale: anche un’americana di 22 anni ha messo all’asta la verginità per pagarsi gli studi, ma con un prezzo fissato a… un milione di dollari. L’affare è stato particolarmente pubblicizzato per aumentare la visibilità dell’offerta e la ragazza ha annunciato il progetto nello show radio trash del celebre presentatore Howard Stern, dicendosi “pronta ad affrontare le polemiche” e spiegando che la verginità rappresentava per lei un mezzo per finanziarsi gli studi nel campo della psicoterapia familiare e coniugale. Dopo aver inizialmente tentato di pubblicare l’annuncio su eBay, immediatamente rimosso dagli amministratori del sito, l’asta è stata infine ospitata sul sito di una casa per appuntamenti americana, la Moonlite Bunny Ranch. Un’italiana di 20 anni, modella di professione, che aveva partecipato al Grande Fratello, pone il problema in maniera differente, perché non ha realmente bisogno di soldi e considera questa faccenda come un gioco, perché chiede un milione di euro in cambio della sua verginità per «sapere se qualcuno è pronto a pagare tutti questi soldi per avermi. Se qualcuno pagasse quel milione di euro sarei davvero imbarazzata, ma potrei realizzare i miei sogni, come comprare una casa a Roma e pagarmi dei corsi di recitazione». La ragazza dimostra così di voler accedere alla celebrità (il discorso dell’acquirente passa qui in secondo piano), che le potrebbe essere garantita dai corsi di recitazione, se si chiuderà l’“affare”. La ragazza manifesta anche un bisogno di essere rassicurata sul proprio valore. Questo evoca il concetto di Buy it now – compralo subito – affron264

tato da un eccellente cortometraggio15, in cui Antonio Campos analizza il rapporto fra gli adolescenti e Internet, e racconta la storia di Chelsea, una ragazza di 16 anni, che mette la verginità all’asta su eBay. Senza nessun punto di riferimento familiare, l’eroina è educata dalla televisione. Fa uso di droga e “prova un po’ di tutto” per capire che cosa le piaccia, perfetta rappresentazione delle conseguenze della mancanza di comunicazione fra genitori e figli, e del prezzo da pagare per la negligenza e l’apatia dei genitori. Il suo scopo, mettendosi all’asta, è di ottenere più soldi per potersi permettere ancor più prodotti di lusso che crede indispensabili per spegnere il proprio divorante desiderio di apparire sexy e desiderabile, senza interrogarsi sui principi di questa corsa al consumismo. Un’altra studentessa, una giovane omosessuale di 18 anni, ha avuto la stessa idea di Chelsea nel gennaio 2007 e, dopo un tentativo su eBay andato a vuoto, ha creato da sola un sito per promuovere l’offerta, ricavandone appena 18.800€, ma poi riuscendo a vendere la storia al giornale “News of the World”. La ragazza ha descritto la storia come “orribile”, dicendo di aver avuto l’impressione, durante l’atto sessuale, che “quel che accadeva non la riguardasse e capitasse a qualcun’altra”. La ragazza aggiunge di aver trascorso i giorni seguenti a piangere fra le braccia della sua compagna. Al contrario, in Francia nessuna ragazza sembra aver ancora tentato simili transazioni, almeno pubblicamente, anche se alcuni messaggi in taluni forum femminili sembrano ambigui. Comunque ha destato molto scalpore il libro pubblicato da Laura D. sulla prostituzione studentesca, sottotitolato “Studentessa, 19 anni. Lavoro provvisorio: prostituta”16. In questo libro, la giovane racconta che durante i suoi studi di lingue moderne, è stata costretta a prostituirsi per pagare gli studi e che non era la sola, poiché altre 40.000 studentesse facevano lo stesso. Spiega poi che tutto si era svolto in modo bizzarro, senza essersi realmente resa conto di ciò che le capitava. Pur senza aver mai vissuto nel lusso, aggiunge che fino a quel momento non le era mai mancato niente. La sua sete di conoscenza, le sue convinzioni, dice lei, le avevano sempre fatto pensare che gli anni degli studi sarebbero stati i più belli, i più spensierati. E conclude che non avrebbe mai pensato che il primo anno all’università si sarebbe trasformato in un incubo. Queste storie riaprono il dibattito relativo alla prostituzione su Internet, perché, se solo alcune situazioni sono state 15 16

Grand Prix de la Cinéfundation al Festival di Cannes del 2005. Laura D. (2008), Mes chères études, Paris, Max Milo.

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rese pubbliche dai media, alcune attività hanno acquisito una maggiore ampiezza nell’anonimato, poiché ciascuno può dedicarsi a simili traffici attraverso le chat, i forum e i siti di incontri.

Quando le diete diventano una filosofia di vita La nostra società spinge alla snellezza, provocando in numerose ragazze un’ossessione morbosa per il peso, che le porta a intraprendere delle diete spesso molto carenzate. Per un buon numero di ragazze, la snellezza è divenuta sinonimo di bellezza e il controllo del corpo un segno di successo sociale. Mantenersi in linea costituisce un vero culto. Bisogna dire che i media spingono in questa direzione, mostrando delle modelle filiformi che impongono un ideale di bellezza associata a un’estrema snellezza. Durante l’adolescenza, periodo in cui il corpo e la sua immagine acquisiscono un’importanza considerevole, le ragazze sono particolarmente sensibili a quell’impatto e corrono il rischio di iniziare diete carenzate proprio nel momento in cui, giustamente, la loro crescita esigerebbe un’alimentazione più corretta. Il look è così importante per loro, che le preoccupazioni corporee, in particolare il peso, sono al primo posto. Queste influenze esterne si combinano con gli effetti degli stravolgimenti interni che provocano il cambiamento del corpo. La crescita del seno, che annuncia l’incipiente pubertà, produce così, non senza ambivalenza, orgoglio e imbarazzo. Se queste trasformazioni fanno indossare vestiti aderenti e camminare a petto in fuori alcune ragazze, provocano in altre la nostalgia dell’infanzia, poiché la nuova sessualità le disorienta. Lo sviluppo dei seni è importante anche per la sua carica emotiva: una nuova parte “si aggiunge” al corpo, mentre il resto di esso cresce soltanto. Anche l’accrescimento del bacino è vissuto come un grande problema e può spingere al desiderio di “dimagrire”, con i pericoli che ciò comporta in questa fase della vita. Ora, una ragazza su tre si trova troppo grassa (solo un ragazzo su dieci confessa la stessa impressione). Affezionate alle “forme” della preadolescenza, le ragazze vogliono mantenere o raggiungere la snellezza, se non la magrezza, e l’aumento della massa grassa, normale perché conseguente alla pubertà, le inquieta profondamente. Seno e bacino possono provocare alcune bulimie e alcune condotte anoressiche, tanto più che il loro sviluppo, diverso da una ragaz266

za all’altra, implica delle relazioni sociali spesso deviate. La costituzione e/o l’assorbimento alimentare permettono di risolvere o di nascondere dei problemi adattativi interiori ed esterni. Questi disturbi provocano delle alterazioni del peso più o meno stabili e inducono a preoccupazioni dietetiche in relazione all’aspetto fisico spesso eccessive, spingendo ad abitudini e pratiche alimentari particolari. Sconvolgimenti alimentari e di peso vano di pari passo. Negli adolescenti è frequente un periodo transitorio di restrizioni alimentari, proprio prima della pubertà, in particolare per le ragazze. La restrizione è globale o selettiva, spesso in relazione a dei “consigli” sentiti alla radio, visti in tv o su Internet, oppure letti in qualche rivista per adolescenti. I fattori ambientali sono prevalenti e l’obiettivo è somigliare ad alcuni modelli del mondo della musica o del cinema. Se madre e figlia seguono insieme una dieta, essa conduce ai conflitti più vivi tra loro. Anoressia e bulimia Le condotte alimentari devianti degli adolescenti sono in relazione con gli effetti della pubertà, limitate e di intensità moderata, non conducono a casi clinici, ma possono anche radicarsi e costituire le premesse di problemi assai più gravi. L’anoressia nervosa Come ricorda Dumas (1999), l’anoressia nervosa si manifesta attraverso il rifiuto di mantenere un peso nella norma, un’intensa paura di ingrassare, l’autostima fortemente legata al peso e, di conseguenza, il rifiuto di nutrirsi. Essa si accompagna a una forte disfunzione fisiologica e ormonale che può anche rivelarsi letale. Questo disturbo si presenta raramente nella sua forma più grave, poiché interessa meno dello 0,1% delle ragazze. La prevalenza del sesso femminile è nell’ordine di dieci a uno. L’età d’inizio, in media fra i 13 e i 25 anni, si situa più spesso fra i 15 e 16 o fra i 18 e i 19 anni. Un caso clinico si produce in meno di sei mesi dopo che l’adolescente ha deciso di seguire una dieta destinata a farle perdere qualche kg – dieta generalmente gradita dalla famiglia. Se la restrizione alimentare si aggrava, la perdita di peso può diventare notevole, ma comunque resta giudicata insufficiente dal soggetto. Il rifiuto di nutrirsi 267

diventa cronico. Il dimagrimento è impressionante17 e gli si accompagna l’amenorrea. L’aspetto delle membra è fragile, le articolazioni si evidenziano e possono insorgere problemi circolatori. La paziente è soddisfatta di questo dimagrimento, che controlla frequentemente sulla bilancia. La giovane è generalmente indifferente all’amenorrea, che, invece, in caso di un aumento di peso, è vissuta in modo decisamente negativo. Disturbi relativi all’immagine del corpo sono parimenti rilevanti: il corpo è rifiutato, negato. L’anoressia si accompagna spesso ad un’iperattività intellettuale e/o fisica e ad un iperinvestimento sul lavoro scolastico, che le permette di isolarsi socialmente e di rifiutare ogni seduta terapeutica vissuta come “tempo sprecato”. Questo investimento permette anche di assicurare una facciata positiva nella relazione con i genitori. Sono possibili diverse interpretazioni. Secondo alcuni, l’anoressia sarebbe legata a una paura esacerbata dalla sessualità, il che permette di richiamare il meccanismo di difesa contro le pulsioni descritto da Anna Freud e definito come “ascetismo”. Per paura di essere sommerso dalle sue pulsioni, il soggetto blocca ogni realizzazione pulsionale, anche le più elementari e indispensabili alla sopravvivenza. Secondo altri autori, si tratterebbe piuttosto di un modo per sfuggire all’angoscia di crescere, di diventare adulte, cioè di entrare in rivalità con la madre sul piano edipico. Quale che sia l’approccio, si trovano sempre sviluppi somatici e sessuali soggiacenti. Si nota anche che la ragazza sembra impegnata nella sua lotta per l’indipendenza e per la sua autonomia. Così, sono i bambini modello, obbedienti e saggi, che, durante l’infanzia, rischierebbero maggiormente l’anoressia nervosa. L’anoressia nervosa maschile è molto rara e marcata da una minore iperattività rispetto all’anoressia femminile. Si manifesta più spesso in organizzazioni psicopatologiche come la psicosi. La bulimia La bulimia si osserva più spesso durante la pubertà, verso i 12-14 anni, o alla fine delle scuole superiori, verso i 18-19 anni. La prevalenza del sesso femminile è nell’ordine di tre/quattro a uno e tende ad aumentare con l’età. Si manifesta attraverso dei violenti attacchi di appetito e un bisogno di assorbire grandi quantità di alimenti. Si constata anche una 17 Il dimagrimento può essere del 30% del peso iniziale, spesso anche il 50% nelle forme più gravi.

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perdita di controllo cosciente della capacità di limitarsi e delle pratiche emetiche e lassative destinate ad evitare un aumento di peso conseguente a una simile alimentazione. Nella maggior parte dei soggetti, sono espressi sintomi di depressione: autosvalutazione, senso di colpa, disperazione, ecc. La svalutazione dell’immagine del corpo è particolarmente frequente e si accompagna a un desiderio di perdere peso, soprattutto fra le ragazze. Bulimia e obesità vanno raramente d’accordo: solo il 15% dei bulimici è obeso. Alcuni bulimici conoscono tuttavia delle grandi oscillazioni nel peso, che possono arrivare a 20 kg in qualche settimana. Sono frequenti le dipendenze da ansiolitici, da alcol, da anoressigeni e da anfetamine. La differenza fra soggetti maschili e femminili riguarda l’intensità ma anche l’evoluzione nel tempo. Stabili nei maschi, le bulimie femminili evolvono, raggiungendo un picco d’intensità verso i 16-17 anni. Lo stesso dicasi per le pratiche emetiche e lassative. Il contesto familiare differisce da quello delle anoressiche. La storia familiare è spesso caotica. Si possono osservare dei precedenti psichiatrici – alcolismo, suicidio, depressione materna, ecc. Si definisce crisi bulimica un episodio brutale nel corso del quale è ingerita una grande quantità di alimenti, di nascosto e spesso senza alcuna preparazione – si mangia direttamente dalle confezioni, senza scaldare nulla. L’ingestione è rapida e senza masticazione. La crisi è frequentemente preceduta da un momento di malessere in cui il soggetto lotta contro il proprio stimolo. La crisi termina quando finisce il cibo, quando si ha la penosa sensazione di essersi ingozzati, o perché qualcuno la interrompe. Segue poi una fase di abbattimento, di malessere fisico e psichico. Il tutto termina con l’assopimento del soggetto, generalmente dopo nausee o pratiche emetiche. Le Pro-Ana Il movimento Pro-Ana è una comunità virtuale che raggruppa persone che presentano i sintomi dell’anoressia nervosa e che affermano che la propria malattia non esiste, ma che rappresenta semplicemente uno stile di vita scelto e privilegiato. Le Pro-Ana esprimono le proprie idee essenzialmente su Internet, attraverso forum o blog, nei quali tengono dei diari 269

personali (“ex-time”), che tessono l’elogio di “Ana”, in modo simile ai Pro-Mia, che esaltano l’opera di “Mia” e incoraggiano le condotte bulimiche, poiché Ana e Mia sono, appunto, le personificazioni dell’anoressia e della bulimia. Inoltre, il nome “Ana” può essere associato a quello della modella brasiliana Ana Carolina Reston, morta all’età di 18 anni, nel novembre del 2006, in seguito ad anoressia, e che è divenuta, in seguito, l’icona delle anoressiche. Esse espongono le loro pratiche nei blog, elogiando un comportamento alimentare particolarmente carenzato, illustrandone i risultati attraverso fotografie personali o quelle di celebrità che sono i loro idoli, fotografie frequentemente ritoccate per esibire una magrezza spinta all’estremo. Esse si espongono così allo sguardo delle persone che visitano il loro sito, mostrando il proprio corpo attraverso una messa in scena che, come nota Micheli-Rechtman (2005), è certo in linea con la dimensione isterica dei casi di patologia mentale anoressica. Esse incoraggiano le visitatrici di questi siti a imitarle. Bardone-Cone e Cass (2007), valutando l’impatto di questi siti, hanno individuato la forza delle loro influenze negative, sia a livello della sfera cognitiva che di quella affettiva: le visitatrici del blog interiorizzano norme estranee, che scavano un triste fossato tra sé e gli altri, fra la svalutazione personale e l’elogio di modelle filiformi. Si osservano tuttavia importanti differenze interindividuali, che manifestano forme differenziate di vulnerabilità: queste vanno dai comportamenti anoressici a forme di resistenza o di malessere, passando per l’adozione di diete moderate, per perdere solo qualche kg generalmente superfluo. Il movimento, nato negli Stati Uniti dopo il 2000, e circa due anni più tardi in Francia, comprende essenzialmente delle giovani adolescenti o donne di età compresa fra i 13 e i 25 anni. È stato promosso e patrocinato da star come Nicole Richie, le sorelle Olsen e Keira Knightley, che si sono fatte notare per la loro ricerca della magrezza. Essere Pro-Ana significa dunque partecipare a una comunità in cui si diventa anoressiche per scelta, rispettando un certo numero di regole draconiane e non superando una certa soglia di apporti calorici giornalieri, che sono circa la metà di quelli che qualsiasi dietologo consiglierebbe. Si è “aiutate” dai consigli e dalle astuzie che le adepte forniscono in blog specializzati e che consistono, in particolare, nel digiunare e vomitare. Attraverso questi blog, i membri possono cercare l’aiuto e il supporto di altri adepti in caso di problemi con la loro dieta, o consigli per arrivare al “peso ideale”. Ci si confronta anche 270

con delle fotografie, generalmente ritoccate, di modelle, giovani donne divenute scheletri a furia di rispettare i consigli del movimento. Ci sono inoltre, ovviamente, alcune foto delle iscritte, di quando ancora erano “obese”, postate per sottolineare bene la differenza fra la loro perfezione attuale e il disinteresse per la bellezza di cui avevano precedentemente dato prova, all’epoca in cui preferivano annegare nel proprio grasso. C’è una vera mistificazione, poiché, come spiegano Meunier e Van Lerberghe (2002), queste ragazze in fotografia, con la loro taglia e il loro peso, non potrebbero essere sorridenti, sarebbero incapaci di vivere con altre persone, non avrebbero più capelli e presenterebbero danni alla dentatura. La realtà è falsata. Se delle persone corrispondessero a queste norme, sarebbero certo ricoverate… o morte. Ciò che rende queste immagini ancora più violente, è sapere che una persona che soffre di anoressia possa guardarle e crederle reali, percependovi la “normalità” e non la malattia. Ana Ana personifica la malattia. Essa è, secondo le adepte, l’unica che possa comprenderle, prendersi cura del loro malessere e aiutarle a vincere la lotta per il dimagrimento. Leader della loro comunità, le sostiene e le stimola affinché raggiungano la perfezione dell’estrema magrezza. La sua “lettera”, che completa un “codice”, costituisce il loro breviario.

Lettera di Ana Buonasera, permettimi di presentarmi. Il mio nome, o quello datomi dai cosiddetti “medici”, è Anoressia. “Anoressia Nervosa” è il mio nome completo, ma tu puoi chiamarmi Ana. Noi dobbiamo diventare grandi amiche. Passerò molto del mio tempo con te, e mi aspetto lo stesso da parte tua, in cambio. In passato avrai appreso che tutti i tuoi insegnanti e i tuoi genitori hanno parlato di te come di una persona molto “matura” e “intelligente”… io preferirei chiederti: “Dove hai imparato ad esser così?”. “Da nessuna parte!”. Infatti non sei perfetta e puoi fare di meglio; molto di più che restare a parlare con gli amici e a disegnare, a scrivere, a 271

pensare… tutto ciò non ti sarà più permesso in futuro. I tuoi amici non ti capiscono. La tua insicurezza cresceva mentre chiedevi loro: “Sembro grassa?”, e quando rispondevano: “Certo che no!”, sapendo che mentivano, come mentivano i tuoi genitori. Solo io ormai dico la verità. Se tutte queste persone ti mentono è perché ti amano. Ora, però, ti rivelerò un segreto: nel loro Io più profondo, sono delusi da ciò che sei divenuta: la loro figlia, con tutto quel talento, si è trasformata in una ragazza grassa e pigra… ma io sto per cambiare tutto questo! Mi aspetto che tu faccia attenzione alle tue calorie e che ti dedichi allo sport. Ti spronerò fino ai limiti. Non mi resisterai perché non puoi sfidarmi! Comincio già a introdurmi dentro di te. E sarò lì al tuo risveglio al mattino, quando correrai sulla bilancia. I numeri diverranno tuoi amici e tuoi nemici e tu pregherai notte e giorno per vederli diminuire. Quando capirai che cosa sei guardandoti allo specchio, sorriderai e pianificherai la tua alimentazione quotidiana: 400 calorie, 2 ore di esercizio fisico. Ormai i miei pensieri e i tuoi sono fusi. Ovunque andrai, ti seguirò. Anche a scuola, calcolerai le calorie della giornata. Saranno sempre troppe. Ti assedierò l’anima con alimentazione, peso, calorie, sport e simili. Ora, sono già dentro di te, nella tua testa, nella tua pelle, nel tuo animo, nella tua carne… i crampi allo stomaco che tu pretendi di non avere? Sono io. Ti dirò che cosa bisogna fare: sorridi e presentati in buono stato. Basta fare rumori con lo stomaco! Che diavolo, sei una vacca grassa! Quando arriverà l’ora dei pasti, ti spiegherò come trasformare una volgare insalata in un piatto da re! Spingi il cibo sui bordi del piatto e da’ l’impressione di aver mangiato bene. Se mangi, tutto l’autocontrollo che hai creato sarà distrutto… è questo che vuoi? Ritornare di nuovo ad essere la vacca grassa che eri una volta? Io ti spingerò a guardare le riviste di moda. Quei corpi perfetti di modelle che ti sfidano. Tanto per capirci, sarai sempre grassa e non sarai mai bella come loro. Quando ti guarderai nello specchio, io deformerò la tua immagine. Ti mostrerò la tua obesità, il tuo corpo da lottatore di sumo in cui si cela un bambino affamato. Questo però tu non lo devi sapere, perché se venissi a sapere la verità, potresti ricominciare a mangiare e il nostro rapporto sarebbe in pericolo. Ogni tanto ti ribellerai (si spera comunque non spesso!): ti avventurerai in piena notte in cucina. Aprirai la credenza o il frigorifero zitta zitta… 272

senza far rumore… i tuoi occhi si sgraneranno vedendo tutto il cibo che hai tenuto a distanza di sicurezza. La tua mano si alzerà da sola, come in un incubo, e andrà ad afferrare, meccanicamente, il sacchetto degli snack. Aprirai il pacchetto non per assaggiare, ma semplicemente per ribellarti a me. Prenderai un altro pacchetto, lo aprirai, poi un altro e un altro ancora… il tuo stomaco diventerà pieno e straziato, ma tu non avrai ancora finito. Pertanto, passerò il tempo a urlarti nelle orecchie: “Fermati, vacca grassa, non hai nessun controllo, t’ingrasserai di nuovo!”. Quando l’incubo finirà, tornerai da me, mi chiederai consigli perché in realtà non vuoi tornare com’eri. Mangiando, avrai infranto una regola cardinale, mi supplicherai di tornare, mi implorerai… ti trascinerò in bagno, sulle tue ginocchia, ai miei piedi, a fissare il water. Le tue dita andranno naturalmente alla bocca, si infileranno nel profondo della gola e, con molto dolore, il cibo inizierà ad uscire. Questo deve essere ripetuto, fino a quando non inizierai a sputare sangue. Ti sentirai male: ma non lo voglio! In piedi! Subito! Sei tu, razza di vacca grassa, che te la sei cercata. Avrai la responsabilità della tua colpa: forse sceglierò di farti prendere dei lassativi e tu andrai a sederti sul water, di buonora. O forse ti farò sbattere la testa contro il muro fino a farti male o magari prenderai un coltello per vedere il tuo sangue colare giù lungo il braccio e te lo affonderai tranquillamente nella carne, senza batter ciglio. Lì ti accorgerai del male che ti impongo e tu piangerai tutte le lacrime che hai… Sarai depressa, ossessionata, infelice, stanca… starai male, ma non ti ascolterà nessuno. A chi importa davvero qualcosa di te? Ad ogni modo, hai fatto tutto da sola. È dura, eh? Non vorrai che ti capiti questo? Sto per darti alcuni suggerimenti che ti aiuteranno. Ti renderò possibile l’inibizione: niente più stress, dunque. Tutti i tuoi pensieri di rabbia, di tristezza, d’amore, di disperazione e di solitudine ti usciranno dalla testa perché li sostituirò con una bella tabella per calcolare le calorie. Ti permetterò di “rientrare” in vestiti da bambina e tu diventerai amabile a tutti, senza però legarti a nessuno, perché ora io sono la tua unica amica e sono l’unica che possa soddisfare tutti i tuoi bisogni. Però ho un punto debole. Non dobbiamo informarne nessuno. Se decidi di guarire e di farti aiutare da qualcuno, racconta della tua vita con me e questo inferno finirà. Però nessuno saprà ciò che ho fatto di te: io ti ho creato questa snellezza, questa magrezza, questa perfezione, questa 273

ricerca del tuo corpo di bambina. Senza di me, tu non sei niente, dunque non cercare di evitarmi; quando gli altri ti notano, ignorali, dimenticali. Dimenticati di tutte queste persone che cercheranno di separarci. Io sono e resterò l’unica persona che possa mantenerti sulla retta via. Benvenuta in questo gioco pericoloso. Con tutto il mio affetto, la tua futura migliore amica, Ana

Un codice da rispettare Il codice si basa anzitutto su tre punti: portare un segno distintivo che permetta alle adepte di riconoscersi tra loro; il raggiungimento di un peso ideale e il rispetto di dieci regole, i dieci comandamenti della magrezza: • portare il Pro-Ana bangle; braccialetto, fatto a mano, di lana rossa, che simboleggia il legame di amicizia con Ana e permette di riconoscere le altre adepte; • il raggiungimento di un peso ideale, nettamente inferiore a quello stabilito in base alla formula di Lorenz e considerato valido dall’OMS, in base alla quale il peso in kg di una donna dovrebbe risultare dalla sua statura in cm meno 100. Se l’altezza è superiore a 1,50 m, bisogna però sottrarre al risultato ottenuto un numero di kg pari alla metà dei cm di differenza fra l’altezza della donna e 1,50 m; Altezza

Peso ideale in kg secondo Ana

Peso ideale in kg secondo l’OMS

1,50 m

32

50

1,55 m

35

52,5

1,60 m

38

55 57,5

1,65 m

41

1,70 m

44

60

1,75 m

47

62,5

1,80 m

50

65

• il rispetto di un elenco di dieci comandamenti: 1. 2. 274

se non sei magra non sei attraente, essere magra è più importante che essere sana,

3.

devi comprarti vestiti stretti, tagliarti i capelli, far uso di diuretici, digiunare… fare di tutto per essere più magra, 4. non mangerai senza sentirti in colpa, 5. non mangerai cibo calorico senza punirti, dopo averlo fatto, 6. conterai le calorie e ridurrai gli apporti calorici giornalieri, 7. la bilancia ha sempre ragione, 8. dimagrire è bene/ingrassare è male, 9. non potrai essere mai abbastanza magra, 10. essere magri e non mangiare sono i segni di una volontà vera e del successo. Ciò che ci si aspetta dalle adepte La lettura dei blog di questa comunità ci informa degli obiettivi delle adepte: essere snelle; non guardare più le foto delle modelle o delle star invidiandone la taglia, perché è la stessa taglia che hanno anche loro; essere di nuovo capaci di indossare vestiti stretti; star bene con qualsiasi vestito indossato; essere attraenti; sentire armonia e fiducia in se stesse; avere un aspetto esteriore perfetto e un aspetto interiore brillante; avere il controllo totale della propria vita; convincersi che le donne “grasse” sono pigre, disgustose, avide di cibo e stupide, ma che le “magre” sono intelligenti, vivaci e in grado di controllare la propria vita; tenere a bada il proprio stomaco, invece di esserne schiave; risparmiare soldi, invece di spenderli in cibo; scoprire nuovi momenti della giornata in cui si possono fare cose più utili che cucinare, mangiare o lavare i piatti; sentirsi meglio, meno stanche mentre si fa sport; avere un passo leggero; essere capaci di vedere con chiarezza le proprie belle ossa; non rischiare di avere una crisi cardiaca; essere capaci di mettersi in bikini e di esserne fiere; ricevere i complimenti delle persone per la quantità di peso perduto (mentre quelli che non lo fanno sono invidiosi); essere perfette, senza tutto quel grasso che ricopre ciò che si è veramente; far girare la gente per strada; sentirsi superiori perché tutti gli altri vivono schiacciati dal grasso, mentre loro sono leggere come l’aria… Su questi blog si leggono anche moltissimi consigli, alcuni condivisibili e tutt’altro che dannosi, come fare aerobica, mantenere i capelli in ordine, dedicarsi a esercizi, non fare uso di lassativi che facciano male né di diuretici che procurino disidratazione, non bere alcol perché troppo calorico, o ancora farsi belle, curarsi le unghie, depilarsi ed essere ordinate. 275

Non è dunque l’azione in sé ad essere preoccupante, ma il suo scopo. Altri consigli sono più mirati e riguardano l’alimentazione: bere un bicchiere d’acqua ogni ora per sentirsi piene; bere acqua molto fredda, meglio se ghiacciata, affinché il corpo bruci più calorie per riportare l’acqua a una temperatura compatibile con la digestione; bere tre tazze di tè verde al giorno per accelerare il metabolismo; mangiare ghiaccio quando si ha fame, per illudere il corpo di aver mangiato; mangiare un boccone di cibo ogni due sorsi d’acqua per riempirsi. Altri consigli riguardano l’igiene e anch’essi appaiono discutibili: fare lunghe docce fredde, così da costringere il corpo a bruciare calorie per mantenere una temperatura normale; pulire qualcosa di disgustoso (bagni, lettiera del gatto…) prima di mangiare; pranzare senza mangiare, sporcando il piatto con il cibo (per poi gettare i resti dove nessuno li può trovare), per far credere a tutti di aver mangiato… Proteggere dal contagio Rifiutare di mangiare e cambiare visibilmente le abitudini a tavola, per darsi a pratiche collettive di restrizione alimentare può tradurre una sfida contro la natura, oppure una specie di condotta ordalica di gruppo che sostituirebbe un rito di passaggio durante l’adolescenza. Questa deroga alle norme sociali può esser letta come una sfida lanciata alla famiglia e alla società, ricerca esistenziale che tende a un’affermazione identitaria, poiché essere di una magrezza estrema permette di individualizzarsi e di distinguersi dalla massa. L’anoressia on-line è in una posizione ambigua nei confronti della legge, rispecchiando, del resto, l’ambiguità della legge stessa o, se non della legge, della sua applicazione. In Francia, il deputato UMP18 François Vannson ha in effetti proposto, nel febbraio del 2007, di aggiungere all’articolo 15 della legge del 30 settembre del 1986 sulla libertà di comunicazione, un comma destinato a proibire la diffusione su Internet di messaggi che incitavano gli adolescenti a diventare anoressici, precisando che era necessario reagire contro la disinformazione che regnava in questi siti, ma soprattutto che a causa della loro istigazione alla malattia, la vita degli adolescenti era in pericolo. Non era in gioco, precisava il deputato, la libertà di espressione, ma la salvaguardia della salute fisica e morale di 18

276

Unione per un Movimento Popolare, N.d.T.

persone particolarmente sensibili e influenzabili. Nella stessa prospettiva, un altro deputato UMP, Valérie Boyer, ha avanzato, nell’aprile del 2008, una proposta di legge, in seguito approvata dal Parlamento, per punire con tre anni di reclusione e una multa di 45.000€ «chi spinge una persona a cercare una magrezza eccessiva, incoraggiando restrizioni alimentari prolungate, aventi per effetto la compromissione dello stato di salute di una persona o la sua esposizione al rischio di morte». Ora, due anni più tardi, questa legge non è stata neanche promulgata, con il risultato che il movimento Pro-Ana si colloca in un limbo fra lecito e illecito, come a dire fra il normale e il patologico.

Coloro che si danno la morte Nel corso della seconda metà del XX sec., all’interno delle società occidentali si è sviluppato un inquietante fenomeno: si tratta del suicidio, che può essere definito come la volontà o il desiderio cosciente e deliberato di darsi la morte (mentre il tentativo di suicidio corrisponde a un fallimento di esso, quale che ne sia la causa). Durante l’adolescenza, il suicidio non è tanto una ricerca della morte, ma un modo per porre fine alla sofferenza. Come sottolinea Le Breton, se non possono trovare una soluzione per liberarsi dall’impotenza che li attanaglia, certi di sentire che la situazione è irreversibile, numerosi adolescenti credono che la morte sia l’unica via per porre fine a un’insopportabile tensione. Questa sofferenza non è neanche lontanamente paragonabile a quella dell’adulto, che dispone di abbastanza resistenza per relativizzare le prove che affronta. In alcuni giovani c’è un’autentica volontà di morire, basata sulla tesi che l’esistenza non sia degna di esser vissuta. Lasciano spesso una lettera in cui affermano il desiderio di lasciare un mondo in cui non hanno trovato il proprio posto. Altre volte, si impegnano insieme ad altri in un patto per morire, costruito su una complicità che si è creata attraverso Internet. Benché il giovane pensi senza alcun equivoco al suicidio, spesso il suo gesto rappresenta solo un tentativo di vivere, di vivere diversamente, cioè una prova, che tende a restaurare più che a distruggere la propria identità. In tal caso, non ci si uccide per morire, ma per diventare altro. Ci si sottrae a se stessi, dice Le Breton, per ammazzare l’altro dentro di sé e le nefaste rappresentazioni attaccate a quella pelle. Il campo di coscienza è 277

invaso da un sentimento di crollo e di confusione del pensiero, che implica un percorso verso un agire brutale che metta fine a una tensione. Un fenomeno preoccupante per la sua importanza Ogni anno si suicidano molte migliaia di francesi, manifestando così la loro volontà di darsi la morte. Si nota, fra questi suicidi, una percentuale enorme di minorenni e giovani adulti. I loro tentativi si distinguono da quelli dei bambini e degli adulti per talune caratteristiche epidemiologiche. Questi tentativi pongono, per la loro impulsività, il problema fondamentale della messa in atto, illustrando la ridiscussione del rapporto che l’adolescente ha con il proprio corpo. Questi tentativi sono la caricatura dell’elaborazione del lutto che ogni giovane compie durante l’adolescenza e pongono il problema della depressione adolescente, oltre ad aprire un dibattito circa il contesto psicopatologico legato ad essa o la sua eventuale attribuzione allo sviluppo. Il suicidio è un fenomeno che non smette di aumentare e costituisce la seconda causa di mortalità nei giovani di età compresa fra i 15 e i 18 anni. La sua percentuale è sottostimata perché tiene conto solo dei suicidi ufficialmente riconosciuti, escludendo quelli che sembrano incidenti. È difficile contare con precisione i tentativi di suicidio degli adolescenti. Questo numero potrebbe essere nell’ordine dei 40.000 o 50.000 all’anno. La distinzione fra suicidio e tentativo di suicidio non è fondamentale, perché il gesto è comunque in grado di condurre alla morte e la sua spiegazione non dipende dalla riuscita, ma dalla prospettiva del soggetto che l’ha comunque tentato. Ad ogni modo, il 9% dei suicidi maschili e il 6% dei suicidi femminili noti sono tentati da giovani di età inferiore ai 25 anni. Il numero dei bambini suicidi prima dei 15 anni resta molto basso, ma la percentuale di mortalità della popolazione di età compresa fra i 15 e i 24 anni è nell’ordine di 18 su 100.000 per i maschi e di 5 su 100.000 per le femmine; è nell’ordine del 9,1 su 100.000 fra i 15 e i 19 anni e di 25 su 100.000 fra i 20 e i 24 per i maschi e, rispettivamente, del 2,6 e del 6,7 su 100.000 per le femmine, per una proporzione generale di 6,7 su 100.000. Esistono anche delle disparità regionali e i più alti tassi di suicidio per i ragazzi di età compresa fra i 15 e i 24 anni sono stati osservati in Bretagna, in Normandia, in Champagne278

Ardenne e in Alvernia. Le percentuali dei suicidi maschili nelle prime tre regioni arrivano quasi al doppio rispetto alla media nazionale; le percentuali femminili più forti si hanno in Bretagna, Bassa-Normandia e Franca Contea. La percentuale dei recidivi è molto alta. Secondo alcuni autori, dal 30 al 50% degli adolescenti suicidi ritenterebbero il gesto nei 12-18 mesi successivi. Si stima, del resto, che i tentativi siano almeno dieci volte più numerosi dei suicidi riusciti. Bisogna sapere che almeno il 30% dei tentativi non è seguito da ricovero. Gli studi epidemiologici condotti da Choquet e Ledoux su studenti delle scuole superiori permettono infine di constatare che la percentuale dei tentativi noti è molto alta: il 5% dei maschi e l’8% delle femmine tentano il suicidio almeno una volta, il 25% di coloro che lo tentano proveranno ancora e la maggior parte (80%) di essi non è ricoverata immediatamente dopo. Bisogna notare il ruolo apparentemente complesso del fattore sesso: i tentativi interessano le femmine due volte più dei maschi, mentre la mortalità interessa i maschi tre volte più delle femmine. Il rapporto decesso/tentativo è nell’ordine di uno su cinque per i maschi e di uno su 85 per le femmine, in media un decesso ogni 60 tentativi nei giovani. È interessante paragonare queste statistiche a quelle relative alle idee suicide, svelate in occasione di un’indagine nazionale (ormai datata) svolta da Choquet e Ledoux nel 1994, in cui il 23% degli studenti delle superiori e il 35% delle studentesse riconoscevano di aver già pensato al suicidio, e di questi rispettivamente l’8 e il 13% ammettevano di averci pensato “seriamente”. Bisogna anche notare che, tenendo conto delle percentuali relative ai tentativi individuate da questi autori, il rapporto idee/tentativi sarebbe nell’ordine, per i maschi, del 2,7% prima dei 13 anni, del 6,4% fra i 14 e 15 anni, del 5,5% fra i 16 e i 17 anni e del 5% a 18 o più anni; rispettivamente, presso le femmine, ci sarebbero percentuali del 4%, del 3,6%, del 3,7% e del 3%. Fattori concomitanti e condotte Le concomitanze che riguardano l’atto suicida sono diverse ma quasi tutte implicate: • l’ereditarietà e l’ambiente familiare: precedenti patologici in famiglia – malattie mentali, alcolismo, tentativi di suicidio, alta fre279

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quenza di conflitti familiari (genitori separati, assenza, se non del padre, almeno della sua autorità, incesti, ecc.); i fattori sociali: alta percentuale di suicidi fra i giovani figli di immigrati e fra quelli che conoscono frequenti cambi di istituto scolastico, numerosi trasferimenti ovvero emigrazioni; fallimento scolastico: livello scolastico nettamente inferiore a quello dei coetanei, fobie scolastiche, comportamenti di auto-sabotaggio, ingresso precoce nel mondo del lavoro, basso livello di studi, bocciature, abbandono scolastico e disadattamenti sociali; le rotture: rotture sentimentali, che a quest’età lasciano tracce profonde e che possono condurre il giovane a provare un dolore insopportabile; le perdite: morte di una persona cara, per esempio, ma la perdita può anche riguardare l’identità o la stima di sé; se la carica emotiva di queste perdite è intensa, il giovane non può controllare né la rabbia che lo invade né l’impulsività che ne deriva; la solitudine: l’impressione di essere rifiutati da tutti o, almeno, la sensazione che nessuno possa fornir loro l’aiuto di cui avrebbero bisogno; il fatto di sentirsi “diversi” dagli altri, per esempio nei casi di difficoltà di identificazione sessuale, in caso di attrazione verso un giovane dello stesso sesso; l’uso di droga: i tassi di suicidio dei tossicomani sono 50 volte superiori a quello della popolazione generale adolescente; il consumo eccessivo di alcol; i comportamenti devianti; prostituzione, delinquenza, ecc.; precedenti tentativi di suicidio; malattia mentale e, più in particolare, la depressione; la somma di diversi avvenimenti: trasferimenti, partenza di un membro familiare, morte di un amico, cambio di scuola, rotture sentimentali o distacco da un gruppo di pari, cambiamenti interni alla vita familiare (pensionamento, disoccupazione, malattia, ecc.).

Si nota anche una relativa varietà dei mezzi impiegati dai giovani di età fra i 15 e i 24 anni per togliersi la vita: 280

• impiccagione (33,2% nei maschi e 28,8% nelle femmine); • armi da fuoco (44,1% nei maschi e 16,1% nelle femmine); • assunzione di farmaci per via orale (ottenuti spesso grazie a una vecchia ricetta medica), ovvero, più raramente, di prodotti tossici di uso domestico (8,3% nei maschi e 31,9% nelle femmine); anche l’assunzione di forti quantità di droga può procurare la morte, ma la questione è allora di sapere se il sovradosaggio sia accidentale o volontario; • caduta da un luogo elevato (4,7% nei maschi e 13,8% nelle femmine); • annegamento (1,4% nei maschi e 2,8% nelle femmine); • armi da taglio (0,5% nei maschi e 0,4% nelle femmine); • altri modi (7,5% nei maschi e 11,9% nelle femmine). Così, al determinismo multifattoriale corrisponde sia una pluralità delle funzioni dei gesti suicidi sia una variabilità della loro natura. Non sembra tuttavia esistere una relazione diretta fra i mezzi impiegati per darsi la morte e la gravità di eventuali patologie. Bisogna infine tener conto del livello di premeditazione e di preparazione dell’atto suicida rispetto al comportamento impulsivo, poiché i giovani che hanno premeditato il suicidio sembrano avere più atteggiamenti depressivi, più sentimenti di disperazione e una più forte rabbia interiore. Un malessere difficile da arrestare È difficile dare una spiegazione diretta di questo fenomeno, che indica la presenza di un malessere importante e si verifica non tanto per via di un fattore scatenante, ma a causa del vissuto problematico del giovane e dell’esistenza di conflitti precedenti, di problemi che sono iniziati molto presto e si sono accumulati negli anni, raggiungendo un picco durante l’adolescenza, quando la crisi suicida sopraggiunge in occasione dell’ennesimo problema. In un’inchiesta pubblicata nel febbraio 2004 e realizzata dalla psicologa infantile Virginie Granboulan su 582 giovani suicidi, Marie Choquet ha mostrato che, dietro a un panorama sociale, amicale e sentimentale ordinario, questi giovani nascondono diverse sofferenze, fra le quali è impossibile capire quale possa essere determinante. Tutto si 281

svolge come se il passaggio all’atto fosse legato ad una “goccia d’acqua” che fa “traboccare un vaso” già pieno di problemi. Marie Choquet nota così che il 61% dei suicidi giudica “tesa” la propria vita familiare, che il 50% di essi pensa che ai propri genitori non importi di loro e che il 30% è fuggito da casa l’anno prima del gesto suicida. Il suicidio arriva dopo che il giovane ha tentato, senza ottenere risultati, altre vie. Esso è allora percepito come l’unico modo per guarire, per cambiare e farla finita una volta per tutte. È una rivincita contro il senso di impotenza che il giovane ha provato quando ha tentato di cambiare una situazione problematica, in quanto l’obiettivo del suicida è proprio il cambiamento della propria vita, non la morte. Egli ha una scarsa autostima, spesso si percepisce negativamente e trova con difficoltà il proprio posto all’interno della società. Poiché abitualmente non ha uno scopo nella vita, si impegna poco nelle attività e ottiene scarsi risultati scolastici. Incapace di controllare il proprio ambiente, è impulsivo, stringe difficilmente dei legami con i pari: da qui nasce il senso di alienazione e il debole interesse verso la società che lo allontana dalla vita. Il tentato suicidio, che spesso riesce, è il modo in cui il giovane fa vedere chi è, uno sfogo dell’aggressività contro se stesso e contro gli altri, una barriera contro l’angoscia, che gli permette di rimanere padrone di se stesso e di non lasciarsi incantare dalle circostanze. È, dice Le Breton, un modo magico di rompere l’insopportabile incantesimo delle cose e di “ricominciare da zero”. Il suicida non vede la morte come autodistruzione, ma come un modo di riprendere il controllo di se stesso, senza essere consapevole del contraccolpo che gli stroncherà l’esistenza. I giovani non hanno la visione irreversibile e fatale della morte che hanno gli adulti, non la percepiscono in quanto fine dell’esistenza. Tempo di sospensione e di purificazione, la morte è come un sonno da cui un giorno ci si risveglierà, purificati da ogni problema, secondo una sorta di fantasma de La bella addormentata nel bosco. Questo desiderio di dormire è anche una forma di regressione che permette di tornare all’infanzia e di liberarsi della carica di tensione legata alla crescita, legata all’assunzione di nuove responsabilità. Quando fallisce, il tentativo provoca una consolazione provvisoria, spesso durevole o definitiva, in quanto riesce ad espellere la tensione provata dal soggetto al momento del suo crollo. L’esito della vicenda dipende, è vero, dalle risorse personali del giovane e dalla qualità del sostegno fornito dalle persone che lo 282

circondano. Egli prova, in un primo momento, la sensazione diffusa della propria legittimità ad esistere in quanto sopravvissuto all’ordalia, ma il comportamento delle persone che gli sono vicine è decisivo, perché, se non riconoscono il suo gesto e lo banalizzano, essi gli confermano la sua insignificanza. Il processo identitario è stato chiaramente analizzato da una psicologa quebecchese, Ghislaine Bouchard19: è, sottolinea lei, questo breve periodo che separa l’arrivo della crisi dal passaggio all’atto. In un primo momento, il giovane cerca eventuali soluzioni alla situazione che vive, valutando la loro efficacia per ridurre il proprio dolore. L’idea del suicidio non è in quel momento considerata seriamente. Eppure, nessuna soluzione gli sembra risolvere i suoi problemi. Allora sorge l’ipotesi suicida: davanti all’inefficacia delle soluzioni tentate, gli appare un’immagine furtiva e veloce della morte. La possibilità del suicidio è presa seriamente in considerazione e l’adolescente inizia ad elaborarne gli scenari. Se il desiderio di sfuggire alla situazione si intensifica, questa idea lo assilla, generando un’angoscia che alimenta la sua sofferenza. A questa fase di ruminazione, succede quella della cristallizzazione, in cui l’adolescente, sommerso dalla disperazione, vede nella morte l’unico mezzo per metter fine al proprio dolore. Elabora un piano, fissa la data, il mezzo e il luogo. Spesso questo basta perché ci sia una metabolizzazione della crisi, in quanto egli crede di aver trovato il modo per uscirne. Se però il senso di isolamento è sempre più forte, il sia pur minimo avvenimento negativo può condurlo al gesto fatale. Spesso questo è preceduto da indizi che lo annunciano, una specie di appello rivolto ai conoscenti. L’80% dei suicidi lascia dei messaggi sulle proprie intenzioni, anche apparentemente insignificanti. Possono essere messaggi che alludono alla morte – “Non mi vedrete ancora a lungo… Sarebbe meglio se fossi morto…” –, minacce di suicidio – “Sto per ammazzarmi…” –, o comportamenti pericolosi. Possono anche essere messaggi che alludono indirettamente al suicidio – “Presto avrò pace…” – preparativi in vista di una “partenza”, lettere d’addio, il regalo di oggetti a cui il ragazzo tiene in particolar modo, ovvero l’interesse improvviso per prodotti velenosi o per armi. Infine, possono mostrarsi anche segni di depressione, come disturbi del sonno o dell’appetito, spossatezza, tri19

Le suicide à l’adolescence, «Psychomedia», http://www.psychomedia.qc.ca/dart7.

htm.

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stezza, disinteresse, instabilità o forte ansia; segnali d’isolamento, come emarginazione, rotture, mutismo e chiusura. Anche il comportamento può manifestare il disturbo: difficoltà scolastiche impreviste, assenteismo, iperattività morbosa e astenia, interesse improvviso per temi morbosi, trascuratezza, consumo inusuale di alcol e/o droghe. I patti suicidi Alcuni suicidi sono oggetto di un “patto”. Si parla di patto suicida quando c’è un accordo fra due o più persone che decidono di morire insieme, più frequentemente nello stesso luogo. Questi patti, apparsi alla fine degli anni ’90, sono stati osservati in tutto il mondo, ma più in particolare in Giappone. Essi coinvolgono spesso adolescenti o giovani adulti che, convinti che non vale più la pena di vivere, convincono altri giovani a seguirli nella loro decisione fatale. Le Bihan e Bénézech (2006) hanno passato in rassegna in modo molto completo la letteratura dedicata all’argomento. In Giappone, l’incidenza è abbastanza alta e i media hanno recentemente riferito di patti che hanno unito nella morte giovani adulti che non si conoscevano di persona, ma solo virtualmente, tramite Internet. È così che nell’ottobre del 2004 furono scoperti i corpi di sette persone che s’erano legate e chiuse in un’autovettura per intossicarsi con il monossido di carbonio emesso da un barbecue portatile. Tali avvenimenti sono relativamente rari nei Paesi occidentali e la loro spiegazione si rivela molto difficile a causa del decesso di tutte le persone coinvolte. I dati considerati dall’Ufficio del Coroner quebecchese, negli anni ’90, rivelano una frequenza di 3-8 patti suicidi portati a termine ogni anno da persone la cui età è compresa fra i 15 e i 35 anni. Che cosa, invece, si sa dei patti che non hanno avuto esito? I patti provocherebbero solo l’1% dei suicidi a Londra, meno del 4% in Germania e l’1% in media nell’Europa occidentale. In tre casi su quattro si tratterebbe di coppie sposate, il che sembra coerente con l’immagine comunemente ammessa del duplice suicidio di giovani innamorati. Tuttavia, è qualcosa che coinvolge anche le coppie mature, interessate da problemi fisici invalidanti o dolorosi, socialmente isolate e che hanno perso ogni speranza. Questi suicidi a due interessano più raramente le coppie genitore/figlio, amici o coppie omosessuali. 284

Se si tratta di adolescenti, questi gesti disperati sono generalmente annunciati su Internet, nei blog. Molti blog20 tuttavia, gestiti da ragazzi, esprimono un vivo disagio senza riferirsi al suicidio. I genitori sono inquieti davanti al proliferare di tali “diari ex-time” e delle sfide morbose che essi veicolano, anche perché si tratta di mezzi di comunicazione cari agli adolescenti, ma che gli adulti non riescono a controllare. È forse preferibile, come sostiene Michaël Stora, psicologo e psicoanalista, che questi adolescenti possano esprimere le proprie angosce rispetto ai due grandi temi tabù, che sono il sesso e la morte, poiché evocare il suicidio in un blog non conduce necessariamente al passaggio all’atto, ma costituisce un messaggio, una richiesta d’aiuto che non bisogna trascurare. Lo sviluppo dei diari personali su Internet manifesta il paradosso di una società che offre ai giovani sia dei mezzi di comunicazione molto sviluppati sia, contemporaneamente, il riferimento alla loro estrema solitudine. Si possono distinguere molti tipi di patti: • il suicidio diadico, in cui due partner decidono liberamente di morire insieme nello stesso luogo, nello stesso processo suicida di cui uno solo può essere il promotore, ma in cui entrambi pianificano e realizzano la propria morte; • quello in cui uno dei partner, istigatore del patto, esercita una pressione sull’altro, dominato o passivo, affinché la coppia si suicidi nello stesso momento; si nota allora generalmente un’intensità fusionale del loro rapporto, un isolamento sociale e relazionale marcato e, forse, un evento scatenante; • l’omicidio-suicidio, in cui uno dei partner dà la morte all’altro – dopo averne ricevuto il consenso – prima di suicidarsi, con il partner dominante che organizza lo svolgimento del patto mettendolo in pratica; • l’omicidio reciproco e simultaneo fra due partner, in cui ciascuno uccide l’altro; • il suicidio per generale consenso di un piccolo gruppo di persone, generalmente adolescenti o giovani adulti, fra le quali si nota un attaccamento intenso e la presenza di un soggetto dominante; 20 Skyblog, prima piattaforma di blog in Francia, ne ospita più di 9.000.000. Questa piattaforma conosce un grande successo fra gli adolescenti, che vi aprono fra i 15.000 e i 20.000 blog al giorno.

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• i patti stretti su Internet fra persone giovani di ambo i sessi che, pur non conoscendosi, si contattano in diversi modi, parlando della solitudine, del malessere esistenziale e delle difficoltà affettive, familiari e/o professionali che provano, e si riuniscono unicamente per morire insieme; • i patti suicidi collettivi di membri di sette apocalittiche, con teatralizzazioni spettacolari per esporre un’etica dell’impersonalità e della trascendenza. I protagonisti di questi patti preferiscono utilizzare metodi non violenti e procurano una morte simultanea senza dolore, suggerendo la premeditazione, il consenso di tutti e il ricorso allo stesso mezzo nella maggior parte dei casi (intossicazione con il gas di scarico dell’automobile e/o farmaci), mentre nei patti omicidi-suicidi, sono più spesso utilizzate le armi da fuoco. Si notano anche casi di morte per annegamento, con soggetti che si lasciano contemporaneamente precipitare in una distesa d’acqua, di persone che si sono spesso legate con delle corde per paura che l’agonia le separasse. Altre situazioni riguardano le coppie di persone che si lanciano in automobile contro un ostacolo o in una distesa d’acqua, che si sdraiano sui binari ferroviari, si gettano sotto i treni o si buttano giù da un luogo elevato, mentre sono abbracciate o legate. Spesso premeditati, questi patti necessitano di un periodo che va da alcuni giorni a qualche mese fra l’evocazione del gesto e la sua realizzazione. La decisione del suicidio è segreta e riguarda solo il gruppo, benché sia talvolta menzionata davanti ad estranei. La preparazione è meticolosa e fallisce raramente. I genitori e i conoscenti sono ugualmente sorpresi dopo aver appreso la realtà dei fatti. Sono poi scoperte una o più lettere esplicative all’indirizzo delle famiglie o dell’autorità, molto più frequentemente che per le persone che si suicidano da sole, testimoniando la premeditazione e la preparazione del gesto. Esse possono essere scritte separatamente o firmate da entrambi i partner. Spesso si danno anche istruzioni perché si ottenga una sepoltura comune. Lo stato mentale delle vittime è difficile da capire poiché gli attori di questi drammi generalmente muoiono. La ricerca dei fattori psicopatologici deve dunque muoversi come un’indagine retrospettiva, che permetta di raccogliere informazioni pertinenti: dati dell’ambiente che frequenta286

vano, precedenti clinici, documenti medico-legali o della polizia, contesto affettivo, messaggi d’addio e documenti testamentari, circostanze e modus operandi. Generalmente, la maggior parte delle vittime soffre di disturbi mentali, in particolare (più di due volte su tre) di stati depressivi dovuti a problemi finanziari, di ansia dovuta a un handicap o a una malattia, di un lutto o di una possibile separazione. Spesso si suggerisce come causa l’esistenza di una relazione stranamente privilegiata ed esclusiva fra due persone che vivono isolate dal resto della società, costituendo una specie di “entità incapsulata”. Può anche esistere una dimensione di rivolta in un contesto di conflitto con la società, vissuta come pericolosa e persecutrice. Alcuni inoltre valutano la prospettiva di un’estasi sensuale, una specie di fusione perfetta nel preciso istante della morte. Il consenso dell’altro a un duplice suicidio può anche essere reclamato come prova d’amore. Altri si domandano infine se non si tratti della ricerca di un “doppio narcisistico”, con il quale si può condividere tutto, anche la morte, a fronte di un’esistenza giudicata priva di valore. Alcuni fattori eziologici dei patti suicidi riguardano più in particolare gli adolescenti: gli ostacoli alla passione amorosa, i conflitti con i genitori, un matrimonio imposto, la rivolta contro la società, la ricerca di un’unione eterna, la richiesta di una prova d’amore, la paura di essere abbandonati o di morire da soli e l’atteggiamento negativo verso la vita. Altri sono comuni a tutte le vittime, a prescindere dalla loro età: idee suicide, depressione, disturbi mentali, un attaccamento fusionale ed esclusivo, l’impossibilità di sopportare la separazione, l’assenza di una soluzione alternativa, la perdita della speranza, il sopraggiungere di circostanze esterne critiche, difficoltà economiche. Per le coppie di adolescenti, alcuni lavori realizzati in Canada hanno infine sottolineato l’abbondante tempo trascorso insieme ogni giorno, l’isolamento in rapporto agli altri adolescenti, la gelosia reciproca, il desiderio di controllare e monopolizzare il partner, la paura di essere abbandonati, la mancanza del coraggio necessario per suicidarsi da soli, la comparsa di sentimenti depressivi e di un atteggiamento negativo verso la vita. Le fughe sono frequenti. Come per i suicidi individuali, le femmine tendono a suggellare patti che poi non hanno il coraggio di seguire fino in fondo, al contrario dei maschi. I patti suicidi sono più frequenti di quanto si pensi? Questa è la domanda che si pongono Séguin, Godin, Payette e Gagnon (2001), poiché pochi 287

studi hanno tentato di valutare la frequenza dei patti portati a termine e le caratteristiche delle persone coinvolte. Confrontando i risultati di uno studio realizzato nella regione quebecchese dell’Outaouais, questi autori notano che tali patti riguarderebbero soprattutto giovani donne, di età compresa fra i 14 e i 25 anni, con problemi di salute mentale e per le quali avrebbero potuto essere identificati dei segni preannunciatori dell’elaborazione di patti suicidi: un’esagerata fusione, il sovrainvestimento e l’esclusività assoluta nelle loro relazioni, così come l’allontanamento dal gruppo dei pari, il notevole investimento di tempo che i partner della diade si dedicavano – fra le dieci e le 12 ore al giorno –, la gelosia, il bisogno di controllare l’altro e la presenza di idee suicide in uno dei due partner.

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Conclusioni

Adolescenza e sintomatologia

La pubertà diventa sempre più precoce, mentre l’adolescenza termina sempre più tardi, spesso anche dopo il ventesimo anno di età, con il prolungarsi degli studi e le difficoltà di inserimento lavorativo. In effetti i giovani sono spinti a studiare. Devono seguire dei percorsi formativi sempre più lunghi, ma la società non accorda loro nessuno status e gli ultimi riti, come il servizio di leva, spariscono. I punti di riferimento si sfumano, le generazioni si sovrappongono, poiché i genitori non vogliono invecchiare e hanno l’illusione che, finché devono mantenere i propri “bambini”, essi sono ancora “giovani”. Poi, paradossalmente, pur volendo proteggere i figli, rimproverano loro di non essere “responsabili”. Fra infanzia ed età adulta, c’è sempre stata una transizione, come se il giovane fosse seduto fra due sedie: oggi, queste sedie hanno le gambe storte. Tuttavia, come ama ricordare Huerre, i nostri adolescenti si pongono le stesse domande che all’epoca si ponevano i loro genitori e, se il loro look è cambiato, sono certamente ancora attenti, proprio come lo erano i loro genitori, sia alle trasformazioni del corpo, sia agli incipienti desideri sessuali, sia alla costruzione della propria identità. Essi, così come è sempre stato, temono di vedersi sommergere da ciò che si agita dentro di sé e provano il bisogno di distinguere i punti di riferimento e di incontrare dei limiti. Devono dunque poter trovare degli adulti che manifestino una differenza fra le generazioni, nonostante li accusino di avere gusti un po’ retrò.

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Bisogna aver paura degli adolescenti? Non c’è tema più antico di quello di una gioventù che spaventa, nota il Dott. François Baudier1, poiché ogni generazione di adulti sembra vedere in essa un oggetto di inquietudine. Le reazioni degli adulti traducono la dolorosa sensazione di non capire niente dei giovani e dei loro indomabili comportamenti. Alla dolcezza di un’adolescenza sfiorita, farebbe seguito una spirale senza fine di violenza e di aggressioni di vario genere, di “giretti”, di inciviltà, di consumo di droghe lecite e illecite. Queste idee, condivise dalla popolazione, si basano sul vissuto di ciascuno, emergono dai discorsi dei politici e sono veicolate e amplificate dai media. Queste rappresentazioni, ricorda Baudier, sono spesso rinforzate dai rapporti degli esperti ufficiali sui rischi per la salute che questi giovani corrono – e fanno correre a noi –, che si tratti del loro tabagismo, dei rapporti sessuali non protetti, del loro modo di guidare per strada, di comportarsi a scuola, di incendiare le nostre periferie. Basta leggere le pubblicazioni degli psicologi e di alcuni sociologi per constatare che tutto va male… eppure, numerose inchieste realizzate sui giovani ci mostrano un quadro diverso: per l’85-90% della gioventù la situazione non è così tragica! Sembrerebbe dunque esserci una tendenza a interpretare come riflesso di una realtà universale ciò che è significativo solo nella pratica dei medici o nell’osservazione delle condotte devianti, che riguardano solo una piccola percentuale della popolazione. Giovani in pericolo Se la stragrande maggioranza dei giovani non ha bisogno di mettersi in pericolo per continuare a vivere, nota Testard-Vaillant (2009), diverse indagini antropologiche dimostrano che il 15-20% di essi, nato spesso in famiglie ricomposte o monoparentali, in cui la figura del padre è assente o inconsistente, conosce la disperazione e la confusione identitaria, i maschi due volte più delle femmine e senza alcuna distinzione di classe sociale. Per la maggior parte, i giovani non hanno problemi, nota anche Philippe Jeammet, poiché la società offre loro molte possibilità di espres1

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Baudier F. (2003), Ces jeunes qui nous font peur, «Santé Publique», 2, 15, pp. 181-

sione, occasioni di successo e mezzi per accumulare conoscenze; il 15% di essi conosce però grandi difficoltà, che vengono espresse in modo spettacolare, che si tratti di tossicomania, di delinquenza, di disturbi alimentari o modificazioni corporali. Questi disturbi, dice Jeammet, sono oggi più visibili e meglio noti che in passato. Sono anche più amplificati dai media. Essi mascherano l’angoscia della performance, poiché numerosi giovani subiscono una forte pressione da parte dei genitori, i quali a loro volta vivono una contraddizione, perché pensano che figli potranno avere successo attraverso l’acquisizione del sapere e dei beni materiali, ma temono anche che l’impegno potrebbe non servire a niente, poiché tanto li attende la disoccupazione. Così, alcuni genitori giungono a tollerare la totale assenza di motivazioni e di lavoro dei propri figli, mentre alcuni giovani giungono a vivere l’intensità dei propri desideri come una minaccia per i genitori e, rivolgendo questa intensità contro di sé, finiscono per sabotare la propria vita. L’adolescenza è il momento in cui si lancia una sfida al futuro, mentre si elabora con difficoltà il lutto dell’infanzia; l’adolescenza è il momento in cui bisogna emanciparsi, in cui si teme il confronto con il mondo degli adulti, ma in cui si ricerca la propria autonomia. E, ricorda Jeammet, più i giovani hanno paura, più sono tentati di far paura, per nascondere la propria ansia e un’inquietudine amplificata dalle domande che si pongono sul proprio corpo e sulla propria identità, con, sullo sfondo, angosce di abbandono, di intrusione e di fusione. Essi temono di essere scavalcati dai propri desideri, di non essere all’altezza di ciò che ci si aspetta da loro e rischiano di differenziarsi attraverso il disagio piuttosto che il benessere, facendo uso della strategia del rifiuto come fosse una droga. Credono sia proprio questo rifiuto a dar loro la forza di vivere. Alcuni cercano allora di controllare la propria paura esponendosi al pericolo – che si tratti di droga o di alcol, di velocità o di altri giochi pericolosi –, perché vogliono mettersi alla prova e dimostrarci di essere più forti del destino. Vivono l’illusione di avere il pieno controllo di se stessi, mentre, sottolinea Jeammet, come il toro nell’arena, sono solo prigionieri delle emozioni suscitate in loro dall’ambiente. Fino alla generazione precedente, cioè quella dei genitori, l’ingresso nella vita professionale e il matrimonio marcavano congiuntamente il passaggio allo status adulto. Si passava così dal principio del piacere a quello della realtà, si “metteva la testa a posto”, rinunciando a sognare la propria vita. Oggi, i giovani non riproducono più lo stile di vita dei geni291

tori. Poiché i valori si sono relativizzati, gli individui si liberano di norme e costrizioni, ma, come nota Jeammet, sembrano sempre più vulnerabili, sempre più in preda a disturbi “narcisistici”, poiché devono confrontarsi con la “tirannia della scelta” fra assillanti contraddizioni. Ci si aspetterebbe che la realizzazione del desiderio contribuisca necessariamente alla fioritura della persona, ma questi desideri sono contraddittori e il problema dell’adolescenza – e del resto di ogni essere umano – è di dover scegliere fra desideri opposti. Quando esistevano numerosi divieti, i giovani potevano credere che fossero quelli a impedire il loro sviluppo, ma ora che si aprono più possibilità, non sanno più che cosa scegliere, desiderando tutto e il suo contrario: non lavorare e avere successo, avere una relazione sentimentale stabile e amare a modo loro, lasciarsi guidare solo dalla loro volontà ma essere sicuri che non rimarranno soli, ecc. Una tale distesa di possibilità ha un effetto deprimente, che spinge un buon numero di ragazzi al disinteresse, alla fuga o all’evasione attraverso la droga, poiché per loro non vale più la pena di far nulla e nulla li accontenta. Se il bambino non ha imparato a controllarsi e a rimandare il momento della soddisfazione, l’adolescente vive una profonda confusione. Se alcuni genitori non negano più nulla per paura di un conflitto, per timore che l’opposizione conduca alla rottura, traducendo in questo modo la propria mancanza di sicurezza in se stessi e nell’adolescente, rischiano di adottare un atteggiamento che rafforza la dipendenza del figlio. Bisogna tuttavia continuare a sperare, perché, precisa Huerre, i giovani di oggi hanno guadagnato la capacità di esprimersi senza tabu e sembrano meno nevrotici dei giovani delle generazioni precedenti. Eppure, dagli anni ’60 e dalla loro apoteosi del ’68, dopo l’affermazione del modello educativo peace and love e la caduta di un’autorità che si è confusa con l’autoritarismo, siamo arrivati a un punto di squilibrio, con i punti di riferimento che sono deboli e i limiti incerti. Un rischio necessario Come ricordano Patrice Huerre e Grégory Michel in un documento redatto per la Direzione generale dell’insegnamento scolastico in vista della prevenzione della pratica dei giochi pericolosi a scuola, il gusto per il rischio esiste fin dall’infanzia, anche se sembra manifestarsi soprattutto 292

durante l’adolescenza. Si tratta di un’agitazione non regolata, che porta il bambino a mettersi in pericolo. Attraverso l’esperienza, egli prende coscienza delle proprie capacità e delle conseguenze di taluni atti, ma ignora spesso i rischi che corre, tanto più che prima dell’età di otto anni non ha chiaramente consapevolezza della nozione della morte né del suo carattere irreversibile. Durante l’adolescenza, al contrario, l’esposizione al rischio riveste un carattere naturale, e diviene un modo di esplorare sia le sue nuove capacità sia l’ambiente. Mettendo alla prova le precedenti certezze, il giovane si appropria dei limiti delle sue nuove possibilità, di ciò che è ormai accettato dalla famiglia, dalla scuola e dalla società. Durante l’adolescenza è normale rischiare, ma più il giovane avrà basi stabili e un’immagine di sé accettabile, meno si metterà in pericolo. È vero che questi rischi possono mettere in pericolo la sua esistenza, in ragione di una volontà individuale o di fattori di condizionamento. Queste condotte, ricorda Le Breton, riguardano numerosi comportamenti che hanno in comune “l’esposizione deliberata al rischio di morire, di alterare il proprio futuro, di mettere in pericolo la propria salute”, ma possono raggrupparsi secondo quattro grandi categorie: ordalia, sacrificio, candore, confronto. L’ordalia consiste nell’affrontare, come nei tentativi di suicidio, una prova personale che permette di testare la propria “legittimità” a vivere. Pensando che la società abbia espresso un giudizio negativo su di lui, il giovane, in preda a enormi sofferenze, si confronta volontariamente con la morte per riappropriarsi simbolicamente di un’esistenza che, a suo avviso, non gli assicura alcun riconoscimento: uscirne vivo gli consente di trovare provvisoriamente il gusto di vivere. Il sacrificio corrisponde a dipendenze come tossicomania e anoressia, in cui il giovane “sacrifica una parte di sé per salvare l’essenziale, paga cioè un prezzo per proseguire la propria esistenza”. Il candore è la categoria dei giochi di svenimento, delle erranze e delle fughe, ma anche dell’alcolismo e della ricerca di “sballo”, o ancora dell’affiliazione nelle sette, e segna «la volontà di disfarsi di tutti gli obblighi identitari, di uscire o di sparire da sé per non essere più raggiunti dalla sofferenza legata al mondo esteriore». In questo caso, dice Le Breton, c’è la ricerca non tanto di emozioni, ma di una “perdita di controllo, di coma”. Il confronto, gara brutale e spettacolare con gli altri, si osserva nell’eccesso di velocità, ma anche nella delinquenza e nelle violenze. Questo 293

comportamento, più frequente nei maschi, manifesta la loro rivalità e la loro volontà di non passare per “buffoni”, mentre le ragazze tendono piuttosto a somatizzare il proprio malessere. Il rischio non è fine a se stesso e l’adolescente non vuole morire, è “una necessità interiore” attraverso cui egli intende “far vedere chi è, confrontandosi con un’avversità creata dal nulla” e che, aggiunge Jeammet, gli permette di esistere agli occhi dei pari. Poiché il rischio si lega al rito di passaggio dall’infanzia all’adolescenza, e poiché manifesta una ricerca di autonomia, esso è agli occhi del giovane un modo per distinguersi dagli altri. Esso segna il suo “bisogno di crescere” e di distanziarsi dai genitori e dal mondo adulto. In questo senso bisogna diffidare di adolescenti troppo silenziosi o troppo solitari, che sembrano evitare ogni confronto. Il rischio che gli adolescenti vogliono correre non deve farci paura, poiché è anzitutto il loro modo di “sentirsi esistere”. Tuttavia, non bisogna dimenticare che delle devianze sono possibili e che possono mettere in pericolo la loro vita e il loro futuro, cioè il destino stesso della nostra società. La scuola che fa paura Gli studi epidemiologici hanno mostrato che la maggior parte dei giovani apprezza la scuola, benché un’agitata minoranza tenda a turbare gli istituti e a conciar male un certo numero di insegnanti. In quest’opera si sono a lungo evocate le difficoltà e i possibili rimedi. Avvenimenti molto recenti hanno dimostrato che le scuole non erano i santuari che alcuni credevano, visto che gli insegnanti facevano appello al diritto di rinuncia all’incarico2 e sospendevano la propria attività nell’istituto in cui erano state commesse violenze fisiche particolarmente gravi, facendo richiesta, peraltro, di posti di sorveglianza. La situazione è in effetti inaccettabile. La questione è tuttavia capire se posti di sorveglianza supplementari possano rimediare alla situazione e se questo personale scolastico speciale abbia l’incarico – e la vocazione – di intervenire nel caso in cui una 2 Secondo il decreto n. 82-453 del maggio 1982, ogni insegnante ha il diritto di rinunciare all’incarico lavorativo se ha modo di credere che comporti danno grave o imminente per la sua vita o la sua salute, o se nota un malfunzionamento nella sicurezza. Avvisato immediatamente il dirigente scolastico, questi dovrà prendere provvedimenti per normalizzare la situazione.

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banda armata di giovani esterni alla scuola vi si introduca con il fine di attaccare uno o più studenti. È vero che un numero adeguato di addetti alla sicurezza dovrebbe stabilmente essere nella scuola per assicurare il controllo degli allievi. Comunque si pone un problema. Se nell’insegnamento elementare e preelementare, i maestri seguono i bambini per almeno sei ore al giorno, per quattro giorni alla settimana per tutto l’anno e sono presenti a tempo pieno nella scuola, non è così nelle scuole medie e superiori. Le scuole materne ed elementari sono dei luoghi di condivisione e di scambi, mentre le scuole superiori sono luoghi troppo spesso associati alla sola trasmissione delle conoscenze, ragion per cui l’insegnante va in classe per poi uscirne appena finita la lezione, ad eccezione delle ore a disposizione. La scuola, che era in qualche modo un luogo di vita fino all’ingresso alle medie, diventa in seguito un luogo di passaggio. Non sarebbe preferibile, per stabilire un dialogo, che le scuole medie e superiori ridivenissero dei luoghi in cui fisicamente, psicologicamente e pedagogicamente, come predica Baudier, giovani e adulti possano lavorare, incontrarsi… e, molto semplicemente, vivere insieme? Per fare questo, tuttavia, bisognerebbe far sì che gli insegnanti possano essere presenti a scuola non solo per i corsi, ma a tempo pieno, con tanto di uffici, sale riunioni e infrastrutture adatte al lavoro e agli scambi individuali e collettivi. Non tutti gli istituti hanno gli stessi problemi e, ad esempio, gli istituti professionali (LP) hanno più difficoltà degli istituti di insegnamento generale (LEGT), così come gli istituti di periferia hanno più disagi di quelli nei centri urbani. Secondo Claire Gavray3, docente di Psicologia e Criminologia all’Università di Liegi, queste differenze non dipendono dagli insegnamenti ma dalla concentrazione di diversi tipi di studenti, i più problematici ed emarginati dei quali frequentano proprio gli istituti professionali. Il capitale sociale influisce molto sul rischio di passaggio all’atto, in particolare per i maschi, che non hanno gli stessi piaceri strutturati, che non frequentano le stesse istituzioni culturali e che si ritrovano prima per strada – quando non sono a scuola – prima degli studenti dei LEGT. Non è il riflesso di una classe sociale, ma piuttosto di una condizione sociale e degli stili di vita che le sono connessi, soprattutto quando si percepisce l’oscurità delle opportunità future. I giovani che frequentano gli LP si 3

http://levif.rnews.be/actualite/belgique/72-56-33684/faut-il-avoir-peur-des-jeunes-.

html.

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dichiarano meno fiduciosi nel futuro e nei docenti di quelli dei LEGT. Conoscono prima e in maniera più acuta le difficoltà scolastiche, familiari e relazionali, e hanno anzitutto bisogno di sicurezza affettiva. Bisognerebbe trovar loro degli adulti di riferimento, perché la miglior prevenzione della delinquenza giovanile consiste nell’investire, caso per caso, sulle relazioni interpersonali, e nell’“addolcire” le difficoltà culturali e sociali, dando loro accesso a luoghi e a strumenti di sviluppo personale. Bisogna rendersi conto, come nota Testard-Vaillant4, che la cultura dei giovani ha rotto i legami con la cultura ufficiale che corrispondeva alle norme scolastiche. Gli insegnanti giocano un ruolo molto importante a tal proposito perché, come afferma Galland, sono loro ad essere incaricati della trasmissione di questo patrimonio culturale che attrae sempre meno gli allievi: “Meno l’eredità culturale derivata dal passato è condivisa dalle generazioni, meno la società può esercitare il suo potere di integrazione”. Ora, l’integrazione sociale si basa sulla sensazione di condividere dei valori e questa non-condivisione fa soffrire la società nel suo insieme, ma soprattutto i docenti. Questa mancanza di integrazione non si manifesta solo sul piano culturale ma anche su quello politico e sindacale, in cui i giovani non sono molto rappresentati, che si tratti di sindacati, di associazioni o di partiti. Sono, constata Galland, «degli attori quasi invisibili, tranne quando scendono per strada per protestare contro questa o quella misura che li riguarda», ed è solamente allora che «la sfera politica e amministrativa si interroga… sulle radici del malessere, ma ha un’enorme difficoltà a trovare fra i giovani degli interlocutori credibili e legittimi, perché sono molto disorganizzati».

Una generazione diversa Come sottolinea Cloutier, i giovani d’oggi hanno le loro mode, i loro “look”, i loro idoli, i loro oggetti feticisti, il loro linguaggio, la loro musica e i loro codici, ma non era così anche ai nostri tempi? L’adolescenza presenta sempre alcune caratteristiche di base, anche se colorate in maniera diversa. La loro ricerca identitaria rimane fondamentale, lo stesso dicasi 4

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«Journal du CNRS», http://www2.cnrs.fr/presse/journal/4461.htm.

per il loro bisogno di punti di riferimento. Sono sempre alla ricerca di se stessi e degli altri, si interrogano sulla propria esistenza, sulle proprie origini e sul proprio futuro. Però la loro traiettoria rispetto alla vita è diversa da quella che conoscevamo, perché il mondo è cambiato, la società che offriamo loro è evoluta e i contesti di socializzazione non sono più quelli di una volta. Abbiamo studiato a lungo, d’altronde, questa transizione che è l’adolescenza5, le trasgressioni che implica e i passaggi che le sono necessari. Sappiamo che ci sono enormi trasformazioni fra l’inizio della pubertà e il momento in cui il giovane diventa adulto, sappiamo che conosce diversi stravolgimenti, sia sul piano fisico, cognitivo e sociale, che emotivo e sessuale, e che la sua evoluzione differisce in base al sesso… Questi cambiamenti, questi stravolgimenti si osservano oggi come ieri, ma in nuovi contesti di socializzazione, che producono nuovi bisogni e nuove aspettative, che esigono nuove risposte da parte nostra, risposte che non siamo sempre in grado di fornire. Un nuovo contesto sociale L’ecologia umana è evoluta. Dobbiamo affrontare la globalizzazione e tutti gli scompigli che essa produce; le delocalizzazioni, una nuova concorrenza, gli spostamenti delle popolazioni e i disordini che generano, in particolare a livello della mobilità, che sia sociale, professionale o familiare. All’epoca non così remota del Miracolo economico6, un’economia fiorente permetteva a tutti di raggiungere la condizione economica che desideravano e chi si trovava in difficoltà sperava in quel mondo migliore che la sua religione gli prometteva, sperava nell’emancipazione di tutti dalle costrizioni sociali, nella condivisione delle ricchezze, delle conoscenze e dei poteri, di cui la politica lo investiva. Le vite lavorative erano stabili, le famiglie lo erano allo stesso modo, i ruoli maschili e femminili erano assai ben differenziati: l’uomo che garantiva le sicurezze economiche della famiglia e l’autorità al suo interno, la donna che si dedicava 5 Coslin P.G. (2006), Psychologie de l’adolescent, Paris, Armand Colin; Coslin P.G. (2007), La socialisation de l’adolescent, Paris, Armand Colin. 6 Periodo di forte crescita economica che si è conosciuta tra il 1945 e il 1974 nella maggior parte dei Paesi sviluppati, in particolare i membri dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE).

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invece all’educazione dei bambini e alle faccende di casa. Gli anni ’60, come nota Fize, sono stati ricchi di avvenimenti fondamentali: riforma del diritto della famiglia, nascita di una cultura giovanile, contestazioni studentesche, ecc. Vi si possono inoltre trovare due grandi tipi di cambiamenti: da una parte, nell’ambito delle idee, con i progressi della democrazia politica, l’affermazione di movimenti femministi e lo sviluppo dell’ideologia psicanalitica; dall’altra, nella demografia, con l’espansione della classe media e l’affermazione di una classe “giovane”. La vecchia società si fondava sulla tradizione, la nuova sull’efficacia e l’innovazione. Se nella vita bisogna mostrarsi efficaci, molti giovani si e ci chiedono perché sia necessario interessarsi a queste lingue definite “morte”, come il greco e il latino, perché si debbano apprendere lingue considerate difficili come il tedesco, se il loro uso non è fondamentale. Perché studiare i classici della letteratura, se i fumetti sono più interessanti? Perché leggere il giornale, quando si ha la televisione? Perché poi, in fin dei conti, andare ad annoiarsi a scuola, quando, con un colpo di telefono o chattando su un forum, si ottengono risposte a tutte le domande? I loro padri, gli adolescenti di 30 anni fa, oggi adulti, non erano affatto preparati ai cambiamenti della società. Hanno visto tradizioni e valori crollare e hanno spesso perduto fiducia in se stessi. Ora, se i genitori non hanno questa fiducia, come faranno i figli a trovare in loro un supporto su cui proiettare il proprio narcisismo? Allo stesso modo, se gli adolescenti hanno sempre messo in discussione l’autorità, operano oggi questa critica in un clima di rifiuto, in cui non si acquisisce alcun valore e in cui prevale l’instabilità. Poiché spesso manca una figura paterna con cui possano identificarsi, i giovani si oppongono e non possono né affermarsi né divenire più forti. C’è, diceva Gérard Mendel, l’assenza di un padre forte sia a causa della democratizzazione e di una liberalizzazione delle condizioni familiari, sia per i cambiamenti dei ruoli maschili e femminili, modificati dalle necessità economiche e dall’evoluzione dei costumi. Entrambi i genitori lavorano e, stanchi, rischiano di scivolare nel lassismo, non opponendo nessuna resistenza alle fantasie dei propri figli. Ora, gli adolescenti presentano una forte vulnerabilità e, poco sicuri di sé, hanno bisogno di solide figure genitoriali per cercare la propria identità. Abbandonati a se stessi da genitori sovraccarichi di lavoro, oppure da genitori acquisiti, velleitari o dimissionari, i giovani possono essere indotti a non amarsi e a non trovare la propria strada in un mondo giudi298

cato ostile; allora lo negano e, nei casi estremi, tentano di distruggerlo o di distruggersi, il che fa lo stesso. Dimissionario, l’adulto accresce l’ansia normale dell’adolescente e gli trasmette le proprie angosce. Una cultura diversa I giovani oggi beneficiano di una cultura che è stata importata dagli Stati Uniti dai loro genitori e dai loro nonni a partire dagli anni ’50. Si è diffusa in tutti gli ambienti, in città e in campagna, grazie agli adulti che ne hanno assicurato una promozione tutt’altro che disinteressata. Gli adolescenti si riconoscono così attraverso i media che possiedono: radio, telefoni cellulari, CD, MP3 e soprattutto Internet, con le sue chat e i suoi blog… la loro caratteristica specifica consiste nel voler chattare, ascoltare musica, o semplicemente stare con gli altri. Quali che siano, le loro attività devono essere informali, spontanee, e questo va di pari passo con la loro disaffezione verso le strutture tradizionali. Il posto di questi nuovi agenti di socializzazione, che hanno invaso le case, è notevole, con il risultato di accrescere gli stimoli di cui i giovani beneficiano (o che subiscono?). Il ruolo della scuola è così ridimensionato a causa delle nozioni di cui gli adolescenti si appropriano attraverso queste nuove fonti di informazione. Eppure, mentre i giovani si attribuiscono in modo quasi esclusivo alcune di queste tecnologie, esse fanno emergere anche delle differenze sociali: la capacità di utilizzarle appieno, infatti, – più che il loro stesso possesso – può essere un fattore di discriminazione. Negli anni ’60, nota Cécile Van de Velde, la maggior parte dei giovani si opponeva alla cultura degli adulti in generale e a quella dei genitori in particolare: però, al momento e all’età giusta, essi la rinnovavano, proprio perché, sebbene parzialmente, l’avevano acquisita. Questo schema, stando alla sociologa Dominique Pasquier, è oggi andato in frantumi: “i giovani, che siano di ceto popolare, medio o superiore, hanno una cultura tutta loro, gli adulti ne hanno un’altra”, spiega lei. La vera novità dell’epoca contemporanea è la fine della trasmissione verticale dei valori culturali. I genitori, tranne che in rari casi – cioè nel caso in cui essi siano degli insegnanti –, non cercano più di costruire la cultura dei propri figli, accettando l’idea che in casa possano convivere molti tipi di preferenze 299

culturali. I giovani possiedono il loro specifico universo culturale, che consiste essenzialmente in musica – techno, rap, hip hop, rock, ecc. – e in scambi di informazioni su Internet, mentre la lettura, la musica classica e il teatro sono spesso associati a una cultura del passato. La musica, ricorda Testard-Vaillant, è trasmessa dai media e discussa sul web ed è considerabile lo zoccolo duro di questa “cultura giovane”, consumista, che non contesta il modello della società, come faceva la controcultura degli anni ’60, e che si è molto allontanata dalle norme scolastiche. È una siffatta cultura a determinare il modo di vestirsi, parlare, camminare, pettinarsi o modificarsi il corpo. È sempre lei, sostiene Pasquier, a permettere “di inserirsi in un gruppo d’appartenenza in funzione delle preferenze per questo o quel movimento culturale”. Eppure, questa adesione dipende in parte da una costrizione, perché se i giovani rifiutano di collocarsi in un gruppo o se manifestano gusti individuali differenti da quelli degli altri, rischiano di essere emarginati, il che, alla loro età, è particolarmente angosciante. C’è, in quel caso, una “tirannia del conformismo” carica di conseguenze. In un futuro molto vicino, immagina Pasquier, se i ragazzi molleranno gli studi della “cultura coltivata” – di cui la scuola è depositaria –, la scolarità diverrà ancora più dolorosa e rischierà anche di condurre alla “produzione di élite sconnesse dal resto della popolazione”: esse infatti, precisa Testard-Vaillant, “saranno le sole ad aver scommesso sulla cultura classica, umanistica e letteraria”, andando decisamente controcorrente. Si ritrova, in questo caso, il pericolo, già evocato, di una scolarizzazione a due velocità – come quella coloniale, che distingueva ciò che doveva essere insegnato ai figli dei coloni e ciò che doveva essere insegnato ai figli degli “indigeni”. Una generazione sacrificata? Stando a Olivier Galland7, “la gioventù francese è discriminata a livello economico, è culturalmente de-socializzata, politicamente sottorappresentata”. È vero, nota Testard-Vaillant, che da alcuni decenni, la precarietà dell’impiego è un problema soprattutto giovanile. Dagli anni ’80, la percentuale degli elettori di età inferiore ai 25 anni che avevano un 7 Galland O. (2009), Les jeunes Français, ont-ils raison d’avoir peur?, Paris, Armand Colin.

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impiego instabile o che tendevano alla disoccupazione, è passata da poco più del 40% a circa il 60% e i giovani sono diventati – specie se non hanno il diploma – “la principale variabile d’aggiustamento dell’economia, insieme ai lavoratori anziani”, precisa Galland. L’80% dei giovani ottiene un contratto a tempo indeterminato solo fra i 25 e i 30 anni. Anche se non c’è una “generazione sacrificata”, si apre tuttavia un enorme divario fra i giovani diplomati e quelli che non lo sono. Molto legati ai simboli di uguaglianza formale, così importanti nell’ideologia della meritocrazia scolastica alla francese, i giovani rifiutano quel che sembra mettere in discussione questo principio. Ora, poiché il sistema scolastico francese funziona più o meno come il “mercato nero”, è dominato da strategie individualiste e ciascuno vuole scegliere quelli che pensa siano i buoni indirizzi ed evitare gli “istituti marci”… In un sistema simile, i giovani temono le riforme e, quando queste si avviano, tutti pensano di aver qualcosa da perdere. Non è dunque sorprendente constatare la nascita di una viva contestazione studentesca. E, aggiunge Galland, poiché i politici hanno paura dei giovani, provano a far passare le loro riforme di soppiatto, il che rinforza la diffidenza di questi ultimi. I giovani francesi sono particolarmente pessimisti, come mostra l’indagine quantitativa realizzata dalla Fondazione Wyeth/Ipsos Salute su un campione rappresentativo di 800 adolescenti di età compresa fra i 15 e i 18 anni, fra il 14 e il 28 marzo 2006: solo il 25% di essi credeva nel progresso, l’85% era preoccupato per lo sviluppo della società francese e il 90% per lo sviluppo della società umana nel suo insieme. Solo uno su tre crede nell’uguaglianza delle opportunità e nella giustizia. Per otto giovani su dieci i soldi sono il motore della società, ma ciò che desiderano è una migliore qualità della vita, la salute e lo sviluppo personale attraverso il lavoro e l’amore. Anche un’indagine realizzata nel 2008 per conto della FONDAPOL8, ha mostrato, nota Testard-Vaillant, che solo il 25% dei giovani francesi era pienamente convinto che il futuro sarebbe stato promettente e che avrebbe trovato un buon lavoro, contro il 60% dei giovani danesi, per esempio. Il 6% dei ragazzi francesi confidava nelle conoscenze, il 3% nel Governo e il 2% nei media; altri studi indicavano che la percentuale dei giovani preoccupati era salita dal 13% del 1982 al 8 Fondazione per l’innovazione politica, o FONDAPOL, è un think tank politico francese di centrodestra e di orientamento liberale, fondato nell’aprile 2004 dall’UMP.

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28% nel 2007, risultato che piazzava la gioventù francese al più basso gradino sul podio dell’ottimismo europeo. Certo, ricorda Galland, le condizioni di arrivo alla vita adulta sono cambiate per tutti i giovani, perché ormai esiste una fase di transizione, più o meno precaria, alla fine degli studi, fase che termina generalmente bene per i diplomati, che riescono a trovare un impiego stabile, ma che spesso non ha un esito felice per chi non ha il diploma. Fra questi due tipi di giovani aumenta il divario. Possono prodursi delle esplosioni, ovviamente fra i giovani non diplomati che vivono in periferie problematiche e/o piene di immigrati, che conoscono forme di esclusione molto gravi. Questi giovani hanno la sensazione di essere messi al bando dalla società e provano una frustrazione nata dall’impossibilità di accedere ai prodotti di consumo di cui gli altri dispongono. Se la contestazione studentesca si lega alla collera delle periferie, può degenerare in fretta, il che, dice Galland, spaventa i governi. Che fare allora? Secondo Martin Hirsch9, le politiche giovanili non devono né ostacolare né dare contentini ai ragazzi: questo è solo un modo per tenerli a distanza. Una politica corretta deve lasciare ai giovani il posto che avrebbero dovuto avere da tempo. È una follia, afferma Hirsch, constatare che la Francia ha il record della natalità in Europa e che si accorda una grande simpatia a questi bebè, mentre, 18-19 anni più tardi, ad alcuni di loro si rifiuterà ogni futuro. Ciò che occorre, aggiunge, non è tanto di “donare loro il futuro”, ma di “costruire il loro futuro insieme”, poiché non hanno bisogno di essere disorientati e lasciati fuori dal sistema scolastico, ma di avere una formazione, un lavoro e uno stipendio. Attualmente, e questo è inaccettabile, conclude, la Francia è, con la Grecia, fra gli ultimi Paesi dell’OCSE per tasso d’impiego giovanile. Un Paese sviluppato deve rimediare urgentemente a una simile situazione. Secondo Galland, il disagio è legato al sistema educativo francese che si basa sul «modello elitista della scuola repubblicana [che è] non adatto alla massificazione dell’accesso alle scuole medie e superiori, che continua a venerare il dio Diploma – che sembra in grado di determinare il destino di ciascuno per tutta la vita, in modo irreversibile – e ad alimentare l’ossessione per le classifiche». E, aggiunge, questa scuola mostra 9 Vecchio Presidente di Emmaüs France, Martin Hirsch è stato dal maggio 2007 al marzo 2010 alto commissario alle solidarietà attive contro la povertà e dal gennaio 2009 al marzo 2010 alto commissario alla gioventù.

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“un ideale egualitario di facciata, perché la scuola francese è interamente concepita per scremare progressivamente i migliori o supposti tali”. Essa seleziona così coloro che formeranno l’élite della nazione, e non permette di promuovere il successo della maggioranza: ogni anno, il 20% dei giovani abbandona la scuola senza un diploma o una qualifica, il 23% degli iscritti negli indirizzi professionali desiste al penultimo anno, il 26% all’ultimo, e altrettanti studenti di altri indirizzi hanno abbandonato, o quasi, gli studi superiori. Una simile percentuale di fallimenti non può, conclude Testard-Vaillant, che generare frustrazione e fatalismo. «Non bisognerebbe interessarsi anzitutto e soprattutto ai giovani che falliscono, migliorando, in particolare, il sistema di orientamento?», si chiede Galland. I politici non dovrebbero prendere ispirazione da ciò che si fa nei Paesi nordici, in cui i “metodi scolastici non sono fondati né sulla competizione né sulla selezione” e in cui i giovani «possono fare esperienza, dopo la fine degli studi, per trovare la loro strada, vivendo questo periodo della loro esistenza come una fonte di arricchimento e non come l’inizio di un’instabilità distruttiva»? Una nuova delinquenza? Abbiamo a lungo evocato i comportamenti di alcuni giovani che mettono a soqquadro stadi e scuole, che sconvolgono le periferie, provocano incendi, violentano le ragazze o si divertono a farsi del male, quando non fanno del male a qualcun altro. Bisogna temere la delinquenza dei giovani? Oppure, essa deve spaventarci oggi più di ieri per la sua ampiezza e la sua frequenza? Certamente ha cambiato forma, è sempre più sotto i riflettori mediatici ed entra sempre più nei dibattiti politici e televisivi. Se invece crediamo alle affermazioni di sociologi come Mucchielli o Roché, i giovani hanno oggi una pessima reputazione, in particolare quelli delle zone di periferia, ma le statistiche e le indagini sulla popolazione generale mostrano, al contrario, una certa stabilità. È in realtà, nota Laurent Mucchielli, “la struttura stessa della delinquenza giovanile [ad essere] profondamente cambiata”: all’inizio degli anni ’70, i furti rappresentavano il 75% delle condotte delinquenti minorili, contro l’attuale 40%; al contrario, i delitti contro l’ordine pubblico, come il consumo e lo spaccio di droga, l’oltraggio a pubblico ufficiale, la distruzione e il degrado di 303

beni pubblici, così come le aggressioni verbali, fisiche e sessuali, sono considerevolmente aumentati nelle statistiche amministrative. Bisogna però sapere, aggiunge il sociologo, che simili statistiche misurano “l’attività della polizia più che quella dei delinquenti” e che essa è legata alle politiche del momento, a loro volta associate alla tolleranza più o meno alta del corpo sociale. E così, dagli anni ’90, i poteri pubblici sono molto più vigili per quanto riguarda violenze e inciviltà e chiedono «a poliziotti, magistrati e presidi di segnalare ogni forma di violenza, anche le più benigne», il che porta a far sbrigare alla giustizia un gran numero di fatti che riguardano preadolescenti, ovvero bambini, accaduti in famiglia, nel vicinato e a scuola, tutte situazioni che in precedenza erano certamente trattate in modo informale, da cui questa impressione di “ringiovanimento” della delinquenza. La maggior parte delle legislazioni europee ha, dagli anni ’80, ridotto il ruolo e l’impatto della privazione di libertà per i minori, come risposta alla delinquenza. In Francia, da qualche anno, una strategia contraria ha condotto a delle modificazioni dell’ordinanza penale del 2 febbraio 194510, nel senso di una riconsiderazione dello status di minore. Esse tendono, secondo François Bailleau, a banalizzare l’intervento penale nei confronti dei giovani e a considerare il bambino come un “adulto in miniatura”, in modo da giudicare sempre più spesso i minori come fossero maggiorenni. Ovviamente è esclusa l’attenuante della minore età per i ragazzi di età compresa fra i 16 e i 18 anni. Bailleau è molto critico circa questa evoluzione poiché, secondo lui, «la storia ci insegna che le politiche di ordine pubblico e la repressione penale non sono mai riuscite ad arginare la delinquenza minorile, se non per breve periodo, senza intervenire realmente sulle sue origini». Sembra, nei fatti, che “la pedagogia della sanzione, che non cessa di rinforzarsi, funzioni molto male”, nota Philip Milburn, sulla base di studi condotti da una decina d’anni, che mostrano la confusione dei professionisti della giustizia: «magistrati costretti ad interessarsi solo delle condanne e non dei mezzi di esecuzione delle stesse…, poliziotti che diventano sempre più dei guardiani…». È spiacevole che la valutazione del contesto sociale del giovane e la volontà di privilegiarne la riabilitazione, che durante gli anni ’80 erano prevalenti, non siano più delle priorità. Il pragmatismo, ricorda Mil10 L’ordinanza del 2 febbraio 1945 ha creato giudici e tribunali minorili, definendo in essi chiaramente il primato dell’aspetto educativo su quello repressivo.

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burn, suggeriva di ispirarsi a dispositivi trasversali adottati in Inghilterra e nell’Europa del Nord, attraverso cui «i professionisti di ogni ambito (polizia, giustizia, sanità, educazione sociale…) lavorano fianco a fianco per diagnosticare precocemente i problemi specifici di un giovane delinquente, seguendolo collettivamente sul lungo periodo».

Per concludere Come ricorda Aldo Naouri11 nella sua ultima opera, bisogna essere consapevoli che l’educazione di un bambino non comincia durante l’adolescenza, ma che è fondamentale, in pratica, fin dai suoi primi tre anni di vita. Perché diventi un membro della comunità umana, un bambino deve integrare le regole della vita della società: anzitutto il riconoscimento dell’esistenza dell’altro e il suo rispetto, poi il riconoscimento di sé come un altro, il che implica l’esperienza precoce della frustrazione, l’ammissione di limiti, oltre al lutto dell’onnipotenza infantile e di un mondo di cui egli crede di essere il centro. Confrontatosi con i “no” dei genitori, il bambino impara che non può fare tutto e che non può avere tutto subito. Impara così a gestire la frustrazione. Bisogna evitare che si senta onnipotente, perché se l’onnipotenza è inebriante, è anche fonte di angoscia, che lo spinge a credere che i suoi pensieri o i suoi sentimenti di odio possano avere un effetto distruttivo sugli oggetti, il che comporterebbe dei sensi di colpa. Educare i propri figli è diventato oggi urgente, perché la posizione centrale del bambino nelle famiglie mina gravemente la missione educativa e rischia di sprecare il futuro del bambino all’interno della società, compromettendo l’apprendimento di limiti che possono acquisirsi solo attraverso l’esperienza della frustrazione. L’epidemia di bambini che non hanno rinunciato all’onnipotenza infantile si diffonde sempre più. Essi diventano dei veri e propri tiranni domestici. In preda alla violenza delle pulsioni che vivono dentro di sé, questi bambini avrebbero dovuto apprendere dai loro genitori l’esistenza di limiti. Bisognerebbe, come afferma Naouri, far comprendere loro che “nella vita non si può avere tutto”, al contrario di quanto fanno credere certi slogan contemporanei, secondo i quali “non deve mancarti niente!”. 11

Naouri A. (2008), Éduquer ses enfants. L’urgence aujourd’hui, Paris, Odile Jacob.

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Fissare dei limiti, proporre dei punti di riferimento Crescendo, i giovani scoprono che i loro genitori sono fallibili, che anch’essi hanno dei punti deboli e che non possono tutto. Allora hanno piacere ad opporvisi perché ciò permette loro di distanziarsene e sentirsi autonomi. Cercano di allontanarsene, hanno bisogno di intimità, per trovarsi da soli con se stessi, e si danno alla ricerca di nuove fonti di identificazione che li aiutino a distinguersi. Non rifiutano tanto i genitori quanto il ruolo che essi incarnano: quello di adulti che impongono divieti, che sono causa delle loro frustrazioni. La questione dei limiti ha in effetti un nuovo sviluppo. Gli adolescenti mettono in discussione quello che è stato loro precedentemente imposto, perché si sentono maggiormente in grado di capire e perché il loro pensiero diventa autonomo. Vogliono che le regole evolvano, hanno bisogno di giungere a nuovi accordi. I limiti sono dei punti di riferimento di cui gli adolescenti hanno bisogno per costruire se stessi. Che li cerchino o che li respingano e sebbene siano modificati, i limiti sono sempre al centro delle loro preoccupazioni, perché l’accettazione dei limiti va di pari passo con una certa frustrazione. I limiti servono a collocarli nell’ambiente e ricordano loro che non sono onnipotenti, che non possono permettersi tutto. In questo periodo di vulnerabilità, il ruolo dei genitori consiste nel fare da contrappeso, nel proporre un universo stabile e rassicurante, una base di certezze. È necessario che i giovani si sentano protetti da persone affidabili, che impediscano loro di oltrepassare alcuni limiti, non per ingabbiarli, ma per evitare che si perdano e che si mettano in pericolo: e questo avviene solo perché tengono a loro, perché li amano. La funzione parentale si fonda in effetti sulle due dimensioni primordiali che sono l’attaccamento e il controllo. Il primo riguarda la qualità delle relazioni fra genitore e figlio e si manifesta attraverso legami di affetto caloroso, la capacità di cogliere le sue domande e i suoi bisogni, di rispondervi e di sostenerlo emotivamente. La seconda riguarda la feconda regolazione delle sue condotte. Il controllo non è pertanto autoritarismo, non è fine a se stesso, ma è un sistema rassicurante che non può essere disgiunto da tenerezza e disponibilità. È indispensabile che i genitori sappiano ascoltare, ben attenti a questo giovane, che altrimenti rischierebbe di prendere delle scorciatoie e di assumere, attraverso di esse, delle condotte a rischio. 306

Il lassismo e la demagogia sono dunque i peggiori atteggiamenti che i genitori possano adottare. Il loro controllo deve, però, essere aperto alla negoziazione e le regole adottate devono tendere a sviluppare le capacità adattative dell’adolescente, a inquadrare la vita familiare e scolastica, proponendo orientamenti e dando punti di riferimento. Gli adolescenti, “sintomi” della società Noi ci siamo domandati, nell’Introduzione di questo libro, se la crisi adolescente fosse in relazione con tutte le disfunzioni presenti nella nostra società. Le difficoltà con cui alcuni giovani si misurano, possono essere ricondotte ai cambiamenti dei legami parentali e all’evoluzione delle famiglie? Forse non sono legate a queste trasformazioni ma a ciò che le provoca, come, fra le altre cose, quest’individualismo galoppante che sembra essersi impadronito di intere popolazioni. L’ideologia che ci guida dall’inizio degli anni ’70 non si caratterizza forse, come scrive Schmetz, attraverso una negazione, progressiva ma costante, dell’interesse collettivo e della solidarietà, a vantaggio dell’edonismo e dell’esaltazione della forza? Gli adolescenti sono lo specchio della società che si è costruita per loro, specchio dei comportamenti che gli adulti hanno proposto. L’adolescente apprende osservando gli altri, apprende osservando noi adulti. Il miglior esempio lo forniscono le marche, che rappresentano oggi il simbolo del successo. Un pubblicitario non ha forse detto: “Chi non ha un Rolex a 50 anni non si è realizzato”? Che dire allora di chi a 20 o 30 anni può già permettersene uno? Che gli resta da fare nella vita? La sua esistenza può terminare? Se non è così, quali inedite sensazioni può ancora aspettarsi? Basta con gli scherzi! Nell’era consumista, grandi sacerdoti predicano il consumo a oltranza. Allora perché sorprendersi che gli adolescenti siano così ghiotti di prodotti di marca, se gli adulti li hanno spinti a desiderarli? C’è dunque un’industria dell’abbigliamento che segue le mode adottate dagli adolescenti, che le precede, che le provoca! Si sa che il peso economico dei giovani è di un’importanza considerevole, che sono loro a scegliere il 90% degli acquisti che li riguardano direttamente, il 65% dei prodotti o dei servizi utilizzati in famiglia, il 71% degli acquisti per i fratelli minori, il 48% degli acquisti effettuati dai e per i genitori, 307

e che il 50% dei prodotti nuovi sono introdotti nelle famiglie12 proprio dai figli. Non tutti i giovani dispongono, però, di abbastanza denaro. Provano, tuttavia, il desiderio consumistico, così si procurano, in alcuni casi illegalmente, le risorse per poter seguire a modo loro i modelli proposti dalla società dei consumi. Perché allora comprare ciò che si potrebbe procurare gratuitamente? Perché, per esempio, comprare un CD, se lo si può scaricare, anche se illegalmente, da Internet? Perché pagare per avere i DVD originali, se li si può avere in versioni pirata? La piccola malavita del business, nota Jamoulle, è percepita dai giovani come uno spazio ludico che permette di emanciparsi e di accedere facilmente ai consumi; le reti degli scambi economici clandestini diventano, prima della famiglia, il principale luogo di strutturazione per gli adolescenti e procurano loro uno spazio sicuro in cui possono provare quanto valgono. L’accesso facile al denaro e ai beni di consumo legittima le pratiche illegali. Più che gli adolescenti, quello che dovrebbe sconvolgerci è l’assenza di punti di riferimento nella nostra società, oltre alla presenza di cattivi esempi, in particolare per quanto riguarda le droghe legali prodotte in Francia. Consideriamo per esempio il tabacco. Da alcuni anni, la legislazione diventa sempre più severa, con il divieto di fumare nei luoghi pubblici come i bar e i ristoranti. Eppure, questi divieti sono abilmente aggirati, non solo perché si continua sistematicamente a vendere tabacco ai minorenni, ma anche perché, contrariamente alla legge, si permette di fumare all’ingresso dei luoghi pubblici, che organizzano delle aree apposite per i fumatori, tollerandone, talvolta, la presenza anche all’interno; nei locali, a volte si creano delle terrazze attrezzate con il medesimo fine. Inoltre, quando si è notato che la tassazione del tabacco comportava il calo degli acquisti, si è pensato di attenuarla, permettendo così ai produttori di alzare i prezzi a proprio vantaggio. È con grande difficoltà che continua la campagna di dissuasione tramite tv, annunci radiofonici, o avvisi sulle confezioni. Si insiste sulla situazione economica di qualcosa come 28.000 tabaccai che i cali delle vendite potrebbero ridurre sul lastrico, tacendo il pericolo corso da decine di migliaia di fumatori e dalle 12 I pubblicitari hanno capito bene la situazione, visto che evitano di considerare come loro target gli adulti di oltre 50 anni, per timore di invecchiare le proprie marche, e che cercano, al contrario, di attrarre i minori di 25 anni per darsi un’immagine “giovane”.

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persone che vivono accanto a loro e non menzionando il costo sanitario e sociale delle malattie provocate dal tabagismo. Non bisogna dimenticare che gli adulti approfittano del tabagismo, non gli adolescenti. Il discorso si potrebbe anche estendere all’alcol, di cui la legge Bachelot proibisce sia la vendita che la pubblicizzazione. Eppure, anche in questo caso si vedono i limiti e le difficoltà dell’applicazione della legge. Riusciamo, poi, a immaginare la scena di una cassiera che, in un momento in cui l’ipermercato è pieno di clienti, si mette a effettuare il controllo dei documenti di cinque o sei giovani di età dubbia, che si presentano tutti insieme alla cassa con bottiglie di alcolici che essi vorrebbero pagare in contanti? Le pubblicità sono regolamentate in modo molto severo… ma non su Internet, che è uno dei media più utilizzati dai giovani. Infine, se si accetta la severità verso gli alcolici d’importazione, la questione cambia molto a proposito degli alcolici di cui si è produttori, come vino o birra, che alimentano in gran parte l’economia francese. Come stupirsi allora del narcisismo degli adolescenti francesi? Secondo lo psicoanalista Bérnard Nominé13, questo è il concetto che funziona meglio per comprendere ciò che è all’origine dell’adolescenza e dei suoi problemi: la difficoltà di sganciare la propria identificazione dall’immagine narcisistica per fare ingresso nella vita adulta, poiché l’aspetto più doloroso di questo passaggio è che «la perdita di quell’immagine svela la verità di ciò che è, non tanto il bambino, ma il soggetto, nella sua forma primaria ed essenziale». Abbandonare la condizione di bambino per entrare in quella, soggettiva, dell’adulto, è difficile, tanto più che, per ragioni economiche e sociali, questa transizione si prolunga. Benché iniziati sempre più presto alla sessualità degli adulti, i giovani, lo si è visto, sono mantenuti sempre più a lungo in posizione di dipendenza e di passività in rapporto ai genitori, il che, nota Nominé, prolunga questo periodo altalenante in cui essi sono bloccati fra due mondi. È un momento in cui il senso di colpa e la chiusura provoca il disinvestimento degli oggetti parentali, con la libido che si ritira sull’Io, dopo l’esacerbazione del narcisismo. Poiché non è più valorizzato da quello dei genitori, l’adolescente “si veste dei colori del proprio narcisismo, che si oppone violentemente agli ideali parentali”. Allora egli si attacca a quest’immagine, “si strappa i jeans, si fa il piercing al naso, alle orecchie, all’ombelico… ”, e questo 13 Nominé B. (2003), L’adolescence ou la chute de l’ange, «La lettre de l’enfance et de l’adolescence», 3, 53, pp. 31-38.

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può anche dar luogo a reclutamenti di ogni tipo. Alcuni adolescenti sono arroganti e altezzosi, poiché pensano che tutto sia loro dovuto, che tutti i loro desideri debbano essere soddisfatti. Sfruttano gli altri nelle relazioni interpersonali per arrivare ai propri fini e, a causa di una totale mancanza di empatia verso di loro, non sono disposti né a riconoscere né a condividere i sentimenti e bisogni, spesso invidiando gli altri e/o credendo di esserne invidiati. Pensano che ciò che sentono sia particolare, unico, che meriterebbero di essere distinti dagli altri e che nessuno – i loro genitori e i loro insegnanti men che meno – possa comprenderli. Gli adolescenti da brivido sarebbero questi. Come ricordava lo storico Philippe Ariès, l’adolescenza non è sempre esistita, come fascia di età significativa. Chi le ha conferito uno status è stata la scuola, che ha separato i bambini dagli adulti, fenomeno che ha inizialmente interessato la borghesia, prima di estendersi alla popolazione nel suo insieme. I bambini nati all’inizio del XIX secolo hanno preso coscienza di ciò che erano e questa coscienza li ha condotti al male del secolo: il Romanticismo, che ha provocato epidemie di suicidi, ma anche la Rivoluzione del 1848 e i suoi riflessi nell’arte e nella letteratura. Si è così individuata, osserva Nominé, una parte della vita sempre più grande fra l’infanzia e l’età adulta, spazio che oggi si è ulteriormente esteso, perché i giovani sono scolarizzati fino a un’età che sorpassa di gran lunga quella della pubertà e rimangono dipendenti dai propri genitori – almeno – fino all’età di 25 anni. Ci si può dunque chiedere se questa società non contribuisca all’isolamento dell’adolescenza, ritardandone l’integrazione: gli adulti, invecchiando, idealizzano sempre di più la giovinezza – periodo effimero che si vorrebbe eterno –, come dimostrano quei genitori che vorrebbero che le leggi naturali – invecchiamento, malattia, morte – non valessero per i loro figli, nei quali essi ritrovano, per interposta persona, la propria tanto rimpianta età. Come sottolinea Nominé, «questo deve farci capire che ogni società ha l’adolescenza che si merita e la nostra società non è messa poi così male».

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