Abbasso la pedagogia
 8811651859, 9788811651857

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i C o ria n d o li

Giampaolo

Dossena

ABBASSO LA PEDAGOGIA

I SBN

L.16.000 (prezzo di vendita al pubblico)

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G a rza n ti

Abbasso la pedagogia nasce da una scoperta archeologica: una cartoleria degli anni 30 intatta, sotto il lato nord del Castello di Udine, rivela un tesoro di giocattoli, strumenti didattici, can­ celleria. Ma tombole e giochi dell’oca, puzzle e cubi, bocce, biglie e birilli, soldatini e costruzioni, penne e pennini ci ricordano davvero come giocavamo? O non raccontano piuttosto come ci facevano giocare, come ci lasciava­ no giocare? Giampaolo Dossena esplora e catalo­ ga questo universo di ricordi oggettivati, riscattando il gioco dagli aridi comandamenti dei pedagoghi. Con poca nostalgia e qualche voglia di capire, di giudicare, di maledire. B ie ba la maestra me le dà. Me le dà con la bacchetta la maestra maledetta.

Giampaolo Dossena

A bbasso la pedagogia

Garbanti

Prima edizione: settembre 1993

ISBN 88-11-65185-9 © Garzanti Editore s.p.a., 1993 Printed in Italy

Abbasso la pedagogia

Mi dicevano che bisognava stare attento: perché mordeva. Mor­ dere un cavallo? È certo che i miei educatori sono stati degli scemi. Erano votati alla scemenza congenita e inguaribile. Il cavallo mor­ de (storia naturale), il termometro scoppia a scaldarlo (fisica), le guardie arrestano i ladri (politica), lavorando si diventa ricchi (eco­ nomia), e altri insegnamenti. Carlo Em ilio Gadda

1. Una scoperta archeologica

1. Ho partecipato a una scoperta archeologica e ve la voglio raccontare. Il sito degli scavi è a Udine, in una casa proprio sotto il lato nord del Castello. Il Castello è in Gadda. Udine è nei confini dell’Impero Austro-Un­ garico fino al 26 luglio 1866 (questa data ci servirà fra poco); è rioccupata dalle truppe austro-ungariche dopo Caporetto, oggi Kobarid, Slovenia, 12a battaglia dell’Isonzo, 24 ottobre 1917 (anche questa data ci servirà fra poco). La storia che segue si svolge in un’«Italia» che ha legami con i paesi di lingua tedesca (§ 2.11). 2. Partiamo da una fotografia dei primi anni del no­ stro secolo. Un signore barbuto (padre), una signora in nero (madre), cinque tra giovanotti e giovinetti (figli) e una signorina (figlia). È la famiglia Sello. La signorina è Ida Sello, nata a Udine il 22 febbraio 1890, settima di otto fratelli. Il padre, Giovanni Sello (Udine 1835-1909), compie il servizio militare sotto l’Impero Austro-Ungarico dal 1856 al 1866. È questa, 1866, la data del § 1. Durante il servizio militare impara a Vienna il mestiere di mastro stipettaio e ebanista. Tornato a Udine nell’anno 1866 vi apre una bottega di falegname. Uomo estroverso, si ricordano di lui vari aneddoti, e la sfortunata invenzio­ ne di uno sgranatoio (lo porta all’esposizione mondiale di Parigi del 1878 ma non ottiene il brevetto). La bottega di Giovanni Sello si ingrandisce e diventa un’industria, con l’aiuto dei figli. Angelo (1884-1973), la mente direttiva, è progettista e disegnatore; Antoni­ no sceglie i legni; Luigi tiene la contabilità; Enrico è 9

fabbro; Umberto pittore e tappezziere. Hanno contatti commerciali diretti con Austria, Germania, Cecoslo­ vacchia. Aggiornati sulle mode del tempo, si specializ­ zano in mobili intagliati; hanno fra i loro clienti l’architetto Raimondo D ’Aronco (1857-1932) e il mare­ sciallo Armando Diaz (1861-1928); rifiutano di avere come cliente Gabriele D ’Annunzio (1863-1938), catti­ vo pagatore. 3. L’unica figlia femmina, la signorina della foto, Ida Sello, ottiene il diploma di scuola media. Poi, se­ condo gli usi del tempo, abbandona gli studi e lavora in famiglia assieme alla madre. Morto il padre nel 1909, Ida Sello, già diciannovenne, riprende gli studi con la sua parte di eredità, e si diploma maestra. Siamo al 1915. Dopo Caporetto, 1917 (altra data-chiave del § 1), è profuga a Legnano. Qui fa la sua prima e unica espe­ rienza di maestra. Nei primi anni ’20, assieme al fratello Angelo, com­ pie un viaggio in Germania dove ha occasione di visita­ re fiere e fabbriche di giocattoli (Lipsia, Norimberga). In questa occasione rileva da un negozio in liquidazio­ ne materiali didattici e giocattoli coi quali decide di aprire nel 1924 un negozio di sussidi per asili infantili e scuole elementari, a Udine, nella vecchia casa di fami­ glia sotto il lato nord del Castello, via Portanuova 13.

mune di Udine perché vi venga aperta una scuola d’arte e mestieri dedicata al nome di Giovanni Sello. L’Istitu­ to statale d’arte «Giovanni Sello» ha tuttora sede in quel vasto edificio. Ci sono dei libri. Merita di esser visto I Sello, «falegna­ mi» in Udine, pubblicato a Udine nel 1983 a cura dell’I­ stituto Statale d’Arte e della Cassa Rurale ed Artigiana di Paderno di Udine. Già nel 1979 era stato pubblicato un volume intitolato Angelo Sello, Maestro d’arte. È segui­ to nel 1989 il catalogo della mostra 11mobilefriulano fra traditone e innovamento. 5. Già da tempo Udine si trovava all’avanguardia quanto a metodi educativi, attività pedagogiche e gio­ cattoli. Vanno ricordati Adolfo Pick, la contessa Cora di Brazzà Savorgnan, e l’Onair. 6. Adolfo Pick (nato a Moskowitz in Moravia nel 1829, morto a Venezia nel 1894), amico dei due sindaci di Udine, Gabriele e Domenico Pecile (pronuncia Pècile), riceve nel 1874 l’incarico di aprire a Udine un giar­ dino d’infanzia secondo i principi pedagogici del famo­ so Friedrich Fröbel (1782-1852). Nello stesso anno 1874 è pubblicata a Udine l’opera Sui giardini frebeliani [sic]. Nel 1891 viene affidato al Pick l’incarico di apri­ re, sempre a Udine, un secondo giardino d’infanzia. La sua collezione di testi pedagogici tedeschi e italiani è tuttora custodita nella Biblioteca Civica di Udine, a due passi da casa Sello.

4. Il negozio di Ida Sello prima sta in un magazzino con ingresso dal cortile, poi in una stanza dell’apparta­ mento di famiglia al primo piano. Non c’è vetrina, non c’è insegna, non c’è targhetta sul portone, ma è un ne­ gozio a tutti gli effetti. In altri locali di questa casa aveva avuto sede dal 1900 al 1907 la fabbrica di mobili del padre e dei fratelli. Nel 1907 la fabbrica, ingrandita, era stata spostata in Giardin Grande (oggi piazza Primo Maggio). Chiusa negli anni ’50, la fabbrica sarà donata dagli eredi al Co­

7. La contessa Cora di Brazzà Savorgnan, che aveva già aperto nel suo castello di Brazzacco (oggi frazione in comune di Moruzzo, Udine) una scuola di merletti a fu­ selli, avendo visitato nel 1904 Norimberga pensa di Irapiantare a Fagagna (13 km da Udine) un laboratorio di bambole e giocattoli. Su questi fatti ci sono libri e ar­ ticoli. Per l’aneddotica, la regina Margherita apprezzerà

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il regalo di una bambola di Fagagna in costume friula­ no. Nel 1916, in piena guerra, la signora Bona Luzzatto Weillschott organizza a Udine la prima mostra del gio­ cattolo friulano. 8. Nel 1919 sotto il patrocinio della duchessa Elena d’Aosta viene fondato l’Onair (Opera nazionale di assi­ stenza all’Italia redenta) con lo scopo di assistere le po­ polazioni delle terre annesse al Regno d’Italia dopo la prima guerra mondiale. Divertitevi, se volete, a guar­ dare su buoni vocabolari parole come «redento, irre­ dento, irredentismo». Sembrano parole fasciste, sono parole risorgimentali. (L’Onair si chiama così dal 1919 al 1960. Nel 1960 viene istituita l’Onairc, Opera nazionale di assistenza all’infanzia nelle regioni di confine, che viene soppres­ sa nel 1977.) L’assistenza si traduce prima di tutto nell’istituzione di asili infantili e scuole. Già nel ’20 l’Onair si rivolge, per l’organizzazione degli asili, a Rosa e Carolina Agaz­ zi. Nella storia della pedagogia italiana questa Rosa (1866-1951) e questa Carolina (1870-1945) sono più importanti che non la testé citata regina Margherita nella storia della letteratura italiana.

parla e scrive; per la corrispondenza in tedesco la aiuta il fratello Angelo. Ida Sello compie viaggi all’estero (in una istantanea la vediamo a Budapest con un’amica; vestiti e cappelli­ ni portano verso il 1930); molti viaggi fanno i fratelli, che tengono presenti gli interessi della sorella. Nei pri­ mi anni la ditta dei fratelli risulta intestataria per certe fatture destinate in realtà a Ida Sello - o piuttosto a «I. Sello». (Nelle carte intestate, nelle buste, nel catalogo, - § 11 - «Ida» Sello è sempre «I.» Sello; e accetta di essere chia­ mata in lettere e fatture «Monsieur I. Sello», «Herr I. Sello».) La politica economica del governo italiano tende a limitare le importazioni. Ida Sello in varie occasioni si procura campioni di merci straniere e li propone come modelli ad artigiani e industriali nazionali. Alcuni giochi giunti fino a noi in copie uniche (§§ 3.8-9) non sono rimanenze di magazzino bensì elemen­ ti di una collezione personale, aperta peraltro alle mae­ stre degli asili e delle scuole elementari che qui vengo­ no per acquisti, consigli, idee, suggerimenti, esempi e aggiornamenti. Ida Sello vende anche libri (§ 11.12) e ha una sua biblioteca.

9. Ida Sello è in contatto con le sorelle Agazzi. Ida Sello è tra i maggiori fornitori degli asili Onair. Ida Sello svolge il suo lavoro intessendo una fitta rete di rapporti con produttori e distributori di materiali di­ dattici e giocattoli italiani e stranieri, facendosi diretta importatrice da Cecoslovacchia, Germania, Austria, Francia. Lettere, fatture, cataloghi, foglietti pubblicita­ ri, in gran parte conservati, hanno permesso di redigere un repertorio di fornitori che potrà essere apprezzato da chi si interessa di queste cose e sa quanto risulti diffi­ cile rintracciare certe date, certi indirizzi. Gran parte della corrispondenza è in francese, lingua che Ida Sello

10. Dall’Indicatore dellaprovincia di Udine 1930/31 (edi­ tori Rag. Francesco e Mario Zambon) risultano aperti a Udine città 22 cartolerie, 10 negozi di giocattoli, 15 li­ brerie. Alcune ragioni sociali compaiono simultanea­ mente in più categorie (ad esempio Tarantola Luigi, «emporio libri, cancelleria, cartoline, giocattoli», figura in tutte e tre, e anche in una quarta, quella dei bazar). Ida Sello compare solo nell’elenco delle cartolerie.

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11. Nel 1931 Ida Sello prepara e distribuisce in tutta Italia un catalogo (§ 8.1) interessante anche dal punto di vista linguistico.

12. Superati, attraverso gravi difficoltà, gli anni del­ la seconda guerra mondiale, Ida Sello continua a lavo­ rare fino al 1971, quando muore, di anni 81. 13. Il negozio viene chiuso e resta intatto. Qualche anno dopo viene chiusa l’intera casa di via Portanuo­ va 13 per la morte degli ultimi fratelli sopravvissuti (Umberto e Antonino, di anni 92 e 101). Elisa Gatti, domestica in casa Sello per 53 anni, e aiutante di Ida Sello in negozio, muore ultraottantenne. Passano gli anni. Tutto tace. Molta polvere, pochi topi. 14. Negli anni ’80 la pronipote di Ida Sello, Maria Sello, comincia a esplorare e riordinare i materiali del negozio, dei magazzini, delle soffitte e delle cantine.

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2. Abbasso la pedagogia

1. Cerco di dire cosa credo di aver capito del perso­ naggio tratteggiato nel capitolo precedente. Ida Sello, da un lato, era una maestra con esperienze didattiche, con una formazione teorica, con frequenta­ zioni dirette di correnti pedagogiche avanzate. D’altro lato Ida Sello aveva esperienza di giochi, da un punto di vista produttivo, commerciale, collezionistico. Non risulta che nella sua lunga vita operosa Ida Sello abbia avvertito contrasti fra questi che ho chiamato «due lati». Ma che lati sono? Ciascuno di noi, da che parte sta? Da un lato, chi si interessa di storia e tecnica dei gio­ chi, con un atteggiamento più o meno antropologico, alla Huizinga, alla Caillots, spesso non sa nulla di peda­ gogia. Non sembra se ne curassero né Huizinga né Cail­ lots. D’altro lato, chi professa o pratica pedagogia a volte non si occupa a fondo di giochi, ne conosce pochi, non li ama tanto, pensa ai modi per strumentalizzarli (favo­ rirne alcuni, proibirne altri). Si va diffondendo l’uso della parola «ludomatetica»: brutta com’è, porta la spada fra i due opposti schieramenti. Se cerchiamo di guardare le cose lucidamente vediamo due atteggiamenti mentali, due campi d’inda­ gine che non collaborano e possono osteggiarsi. Questa è la mia esperienza, personale, forse persona­ lissima e da respingere, troppo parziale. Ma se non mi togliete la parola, tanto vale che io ne parli. 15

2. Prima di parlare della mia esperienza personale, tengo a mettere una siepe fra la «ludomatetica» e la lu­ doteca. Sembra di capire che la «ludomatetica» possa strisciare durante l’orario scolastico in aule di scuole d’ogni ordine e grado; la ludoteca può non esserci, e se c’è ha un locale separato o sta extra moenia. Un libro fra tanti: Umberto De Angelis, La ludoteca: metodologia d’intervento del ludotecario. Tipolitografia Grafica 87, Pontinia 1992. Il De Angelis è responsabile del Museo del giocattolo territoriale dei Monti Lepini, sito a Sezze (Latina); la ludoteca di Sezze ricerca e ripropone anti­ che manifestazioni culturali come il matrimonio e rogo di Peppalacchio. Nel libro citato, notevoli i capitoli su «il ludotecario e il dialetto», e «il recupero del proprio vissuto ludico» (§10.7). 3. Agli scavi archeologici nel negozio di Ida Sello, la proprietaria pronipote Maria Sello, persona squisita al­ la quale dedico questo libretto, ha invitato, oltre a me, altri esperti di giochi e giocattoli, e alcuni insegnanti e pedagogisti. Con questi ultimi non ho avuto rapporti d’amore. Prima che lo dicano altri lo dico io: il feeling è man­ cato anche per ragioni autobiografiche, tutte mie. In un libro sui giochi di parole, Garibaldifu ferito (Il Mulino, Bologna 1991), avevo messo in scena, in una Pavia del 1949, quattro studenti sui vent’anni che avevano avuto tutti ma mamma maestra (o più mamme mae­ stre: due dei quattro studenti erano rimasti orfani presto, e ogni padre vedovo, maestro, aveva risposato altra maestra). Io sono di questi. Non ho sentito solo certi discorsi, con certi toni: ho anche trovato in casa, tra i pochi li­ bri, storie della pedagogia. La topografia la vince sull’anagrafe: ho vissuto i miei primi anni a Cremona, sapen­ do per esempio chi era Ferrante Aporti (per molti, solo il nome di una strada); e le sorelle Agazzi (§ 1.8) erano di Volongo, pochi chilometri a est, fra Ostiano e Casalmorano, fra Isola Dovarese e Gambara. 16

4. Voi insistete tanto sul fatto che Heidegger fosse nazista, per me basta e avanza che fosse un insegnante in una scuola col gesso in mano, e guardando fuori dal­ la finestra vedeva un’altra scuola, in un universo concentrazionario panscolastico: Laggiù, dall’altra parte della strada, si eleva l’edificio dell’i­ stituto tecnico. Si tratta di qualcosa di essente,f...] L·’edificio è là anche se non lo osserviamo. E soloperiifatto che è digià, che lopossiamo osservare. Inoltre, l’essere di questo edificio non sembra essere completamente il medesimoper tutti. Per noi che 10guardiamo o che vipassiamo davanti è altra cosa chepergli sco­ lari che vi siedono dentro: e questo nonperché essi lo vedono soltanto dall'interno, maperché èpropriamenteper loro che questo edificio è quello che è e com'è. L ’essere di simili edifici sipuò, per così dire, fiutare e spesso, ancora dopo molti anni, se ne conserva l’odore nelle narici. Questo odore ci dà l’essere di questo essente in maniera assai più immediata e veritiera di qualunque vìsita o descrizione. Ό ’al­ tra parte, però, la consistenza dell’edificio non dipende da questo odorefluttuanteper l’aria. Che cosa ne è dell''essere?Lo sipuò vedere? Vediamo qui un es­ sente: ilgesso (Introduzione alla metafisica). Leggendo «gesso» voi vedete com’è bianco, voi udite 11rumore di quando si spezza sulla lavagna (peggio del­ l’unghia sul vetro), io ne sento l’odore. Ma come si fa a scegliere di essere Insegnanti o Secondini, Guardie Car­ cerarie, Agenti di Custodia o di Polizia Penitenziaria? lo non impazzisco nel pormi queste domande perché generosamente ci è già impazzito Nietzsche: Non si ha che daprendere contatto con la letteraturapedagogica della nostra epoca: bisogna essere completamente corrotti per non spaventarsi - quando si studi tale argomento - della supremapo­ vertà spirituale di questo girotondo davvero sgraziato. Nel nostro caso la filosofia deve prendere le mosse non già dalla meraviglia, bensì dall’orrore. Chi non è in grado di suscitare l’orrore èpregato di lasciare in pace le questionipedagogiche (Sull’avvenire delle nostre scuole). 17

5. Io lascio in pace le questioni pedagogiche perché non sono in grado di suscitare l’orrore. Intitolo questo capitolo, e questo libretto, Abbasso la pedagogia perché le tre parole suggeriscono una scritta infantile fatta col carbone su un muro, o con il gesso su una lavagna. Di­ ceva Giuseppe Gioachino Belli qualcosa come «e se c’è un muro bianco io glielo sfregio».

zionalizzazione, che sono morti approdando allo stadio.) (Sembra che attraverso millenni, meridiani e paral­ leli, tutte le culture abbiano avuto giochi, tranne un pa­ io di tribù di aborigeni australiani: i quali sono stati così bravi da tener nascosti i loro giochi a antropologo pre­ ti, giornalisti, Tv.) Nel negozio di Ida Sello c’erano giochi imposti, con cui si facevano giocare i bambini a fini pedagogici; ma c’erano giochi tollerati, concessi, octroyés. Vediamone qualcuno. Cominciamo col Gioco dell’Oca.

6. Voglio almeno prendere le distanze dal catalogo (Alinari, Firenze 1984) della brutta mostra tenuta a Mi­ lano nel 1984, Come giocavamo. Non giocavamo, ci la­ sciavano giocare o ci facevano giocare. Ci facevano giocare. Alcunepersone intelligenti, osservando questo stato dì cose, lan­ ciarono un grido di allarme. L·’udirono, coloro che erano preposti all’insegnamento. Si introdusse nelle scuole la ginnastica. Nella ginnastica presero spazio gli esercizi militari. Si regolamentarono le ricreazioni, lepasseggiate e le marce; ma si trascurò, e ancorpiù si trascura, di imporre ai giovani di giocare, durante queste ri­ creazioni e questepasseggiate (Frédéric Dillaye, Les Jeux de la Jeunesse, Machette, Paris 1885, citato in Arnold Arnold, I giochi dei bambini, Mondadori, Milano 1980, più volte ri­ stampato). Ci lasciavano giocare. Il gioco, se non viene imposto, è tollerato, concesso, octroyé. Si può dire anche ottriato. Perché il gioco è trasgressivo. Il gioco è quella «pallastrada» inventata da Stefano Benni (La compagnia dei Celestini, Feltrinelli, Mi­ lano 1992): un gioco primitivo, primordiale, «nemico dell’obbedienza, del catechismo, dell’applicazione sco­ lare e del totocalcio». Selvatico e segretissimo, si svolge clandestinamente, cercando di sfuggire ai grandi nemi­ ci: preti, giornalisti, Tv. (A parte la notoria sorte del gioco del calcio per col­ pa di sponsor tifosi e professionisti, si conoscono casi precisi di giochi tradizionali come il pallone elastico o il tamburello astigiano che sono stati uccisi dalla istitu-

8. Se vi piace la musica, forse amate leggere libri o articoli di argomento musicale. Lo stesso rapportofra fruizione e riflessione, pratica e ricordo, sipuò stabilireper altre attività degli umani: se vipiace lapittura ola cucina,forse amate leggere cose di argomento artistico ogastronomico; chi èportato al sesso ama la letteratura erotica; il tifoso rivive sulla «Gaietta dello sport» la partita che ha visto ilgiornoprima allo stadio o alla Tv... Per quell’altra attività degli umani che chiamiamo «gioco» questo non avviene. Se anche voleste leggerli, dove li trovate i libri di storia e tecnica delgioco?Delgioco si occupano al massimo antropologì, sociologi, psichiatri. Chi gioca nonpensa a quel chefa perché se ci pensasse si sentirebbe addosso l’occhio di una candid camera antropologica, 'sociologica, psichiatrica. Il demone del gioco, la scimmia sulla spalla, e via e via.

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7. Un momento. Mi arriva in questo momento con il consueto ritardo delle poste un pacchetto dal Casinò Municipale di Venezia. Contiene un’agenda per l’anno nuovo che oggi non è più nuovo da un po’. Ci sono foto a colori delle bellezze di Venezia, statue, ponti. Forse Than fatta per azioni promozionali o per regalarla ai giocatori sfortunati. Il breve scritto introduttivo l’ave­ vano chiesto a me, di corsa, prima delle feste. Non me ne ricordavo. Lo leggo. Mi sembra adatto per conclu­ dere questo discorso. Khomeini e la «Komsomolskaja Pravda» sono due immagini pedagogiche efficaci. Fac­ cio una fotocopia e l’incollo qui sotto.

1/gioco, tuttìigiochi, e massime ilgioco d’azzardo, sono circon­ dati dal discredito, dalla riprovazione, dalla condanna. A volte, non solo condanna morale (giochiproibiti, censura, autocensura). Nel 1980, in Iran, Khomeini haproibito il gioco degli scacchi. N el 1981 in Urss la «Komsomolskaja Pravda» ha sferrato un duro attacco aigiocatori di carte, «divertimento di snob efannullo­ ni d’altri tempi». I giocatori, dice il giornale sovietico, «nonguar­ dano i cipressi, le vele, il mare. Sono sciocchezze. Loro non amano le sciocchezze. Amano solo il gioco delle carte. Si sprecano ore, si rinuncia alla lettura di libri, alla visione dìfilm. Non sipotrebbe invece leggere, guardare,pensare?...». Non siate sciocchi voi, non venitemi a dire che Khomeini è morto e l’Urss si è dissolta. Guardatevi attorno e mi saprete dire. Guar­ datevi nel cuore e sappiatemi dire se il gusto con cuigiocate è o non è anche ilgusto di rinunciare alla lettura di certi libri noiosi, alla vi­ sione di certifilm che som come L’incrociatore Potëmkin di Fantozzi·' una boiatapazzesca. Quante volte, davvero, i cipressi, le vele, il mare, sono sciocchezze! Si tratta di scelte religiose, politi­ che, culturali. Fa differenzi non sta nelgiocare o nongiocare, nello stare con o contro Khomeini e la «Komsomolskaja Pravda». Sta nel modo in cui sigioca. Nei luoghi in cui sigioca. Giocare a tirarsi randellate è diverso che tirare difioretto. A n ­ dare a Las Vegas è diverso che raggiungereper la breve calle del Pistor il campiello dell’Anconeta, e seguire la calle dell’Anconeta, e, oltre il ponte omonimo sul rio San Marcuola, il rio terrà della Maddalena:forse laprima strada realizzata a Venezia con l’in­ terramento di un canale: 1398. L ’altro giorno parlavo di queste cose, a Vienna, con A lex Randolph, e lui mi raccontava comefosse diversa Las Vegas verso il 1940. Venezia (dove A lex Randolph vive da tanti anni) è di­ versa oggi dal 1398, magià nel 1398 interravano un canale. Ho letto oggi su «Le Nouvel Observateur» (fascicolo speciale sulle trenta «capitali culturali» d’Europa) un articolo riguardan­ te Milano, dove l’autore si lamentaperché nella chiesa di San Sati­ ro hanno sostituito le lampadine elettriche alle candele. M ifa ride­ re. Lo diceva già qualche amo addietro Baudelaire, che stava a 20

Parigi: «laforme d’une ville changeplus vite, hélas, que le cœur d’un mortel». Per caso ho infilato nell’ultimafrase Vienna, Las Vegas, M i­ lano, Parigi. Per dire che Venezia è un’altra cosa, e chese si entra dalla corte del Volto Santo e dalla calle Vendramin nelpalazzo Vendramin-Calergi, sede invernale del Casinò Municipale, ci si avvicina algioco in un brodo culturalepiù denso di quello chepos­ sono dare tanti libri (a saperli trovare). Uriobiezione, me la sento. La storia di Venezia va in briciole e il brodo culturale va in mona difronte allefacce degli altrigiocato­ ri. L ’atmosfera è quella giusta, ilfantasma di Richard Wagner(morto in queste sale, 13febbraio 1883) aleggia; ma non si incon­ trano néJames Bond né Landolfi, e neanche un Ortes, un Beccaria. Sull’assenza diJames Bondposso essere d’accordo. Ma Landolß chefaccia credete che avesse? La stessafaccia da impiegato del signorepoco signorile che vi siede accanto. Il quale siede accanto a voi agiocare anziché andare in un cineclub a vedereper la centesi­ ma volta L’incrociatore Potëmkin. Roma, 28 novembre 1992 9. Nel negozio di Ida Sello non c’erano né roulette né mazzi di carte né scacchi. 10. In una sede come questa posso dire «scacchi» co­ me se niente fosse. Parlassimo sul serio, direi «scacchi nostri», o «scacchi occidentali», o «scacchi fid e ». Di scacchi ce n’è tanti. I più famosi sono gli scacchi cinesi, Xiang Qi, e gli scacchi giapponesi, Shogi. Chiese il discepolo: «Qual è il più bel gioco inventato dall’uomo?». Rispose il maestro: «Lo Shogi». Discepolo: «Ma, e il Go?». Maestro: «Il Go c’era già». (In termini occidentali: il Go è uscito dalla mente d’iddio.) Dice Trevanian (Il ritorno dellegru, Sonzogno, Milano 1980): «Gli scacchi stanno al Go come la computisteria sta alla metafisica». 21

Benjamin giocava a Go già nella Berlino del 1916 (Gershom Scholem, Storia di un’amicizia, Adelphi, Mila­ no 1991). 11. Nel § 7 ho infilato per caso il nome di alcune cit­ tà, e adesso è saltata fuori Berlino; ma tutta la storia del negozio di Ida Sello si svolge in un’«Italia» che ha lega­ mi con i paesi di lingua tedesca. Se volessimo immaginare una storia generale del gio­ co, la storia del gioco nei paesi di lingua tedesca avreb­ be un peso predominante. Accennerò alcuni fatti. Nei paesi di lingua tedesca si gioca più che da noi. La massima casa editrice di giochi, tedesca e mondiale, la Ravensburger, solo nei confini della Svizzera tedesca ha vendite superiori a quelle dell’intero mercato italiano. Nei paesi di lingua tedesca si gioca molto in casa, in famiglia. Quelli che in francese si chiamano Jeux de so­ ciété, in tedesco si chiamano Familienspiele. Nei paesi di lingua tedesca si gioca con maggior con­ sapevolezza che da noi. In qualsiasi libreria di città te­ desca media o grande trovate più libri sul gioco di quanti ne possiate trovare setacciando tutte le librerie di tutt’Italia. E la Ravensburger è dal 1883 anche casa editrice libraria. Da noi i giochi di carte tradizionali re­ stano un fatto folkloristico; il gioco di carte nazionale tedesco, lo Skat, viene codificato a livello intellettuale alto negli anni del Romanticismo. Nei paesi di lingua tedesca è nata la figura del giorna­ lista specializzato in giochi, che tiene rubriche su questa fetta del mondo dell’intrattenimento. In Germania è nata una associazione di critici di giochi che dal 1979 assegna un premio al miglior gioco dell’anno (ricono­ scimento ambito dai produttori perché ha influenza sulle vendite). Mentre il Salone del Giocattolo alla Fiera di Milano, e manifestazioni analoghe di Parigi e Londra, stanno languendo, la Fiera di Norimberga è sempre più ricca, 22

forte, importante (più di quanto lo sia la Fiera di Fran­ coforte per i libri). A Essen si è avuto nel 1983 il prototipo di una «festa dei giochi» che aggiunge, ad alcune caratteristiche della Fiera di Norimberga (stand di ditte produttrici, presen­ tazione di novità), una partecipazione del pubblico, che può scegliere un gioco e giocarlo in loco senza comprarlo. A Salisburgo, nel Mozarteum, Günther Bauer è riu­ scito a far aprire la prima cattedra che si occupi di gio­ chi; pubblica annualmente atti accademici in tedesco con riassunti in inglese. Schwarzstrasse 24, 5020 Salzsburg, Institut für Spielforschung (bene!) und Spielpädagogic (ahi! - ma no, è quasi solo un paravento).

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3. Il Gioco dell’Oca

1. Il Gioco dell’Oca si chiama così perché fin dagli esemplari più antichi che se ne conoscono reca l’imma­ gine ripetuta (vedremo come, dove) di un’oca: l’oca do­ mestica, allevata in diverse varietà, degli Anserini {Anser anser). Non credo ci sia riferimento alla goffaggine, all’ottu­ sità, alla superficialità (specialmente in una ragazza o in una donna; in questo senso oca è quasi sinonimo di gal­ lina); né al modo di camminare (coi piedi volti in den­ tro; a gamba tesa, nella marcia di parata). Certi Giochi dell’Oca, al centro della spirale, mo­ strano una famiglia a tavola, con una grande oca arro­ sto: forse questa è l’oca del gioco, premio succulento (ingrassare l’oca, fegato d’oca). Un Gioco dell’Oca di Ida Sello reca le scritte «W Natale, W l’oca. Come sarà grassa». Gli esemplari più antichi che se ne conoscono, dice­ vo. Si va al Seicento, in tutta Europa. Secondo autori tedeschi il Gioco dell’Oca è nato probabilmente in Germania; secondo autori francesi è nato probabil­ mente in Francia. Un documento inglese parla del «nuovo e molto piacevole Gioco dell’Oca» in data 16 giugno 1597. Un esemplare del Gioco dell’Oca fu mandato in do­ no verso il 1580, da Firenze, da Francesco i de’ Medici, a Filippo n; subito se ne fece un adattamento spagnolo (Geoffrey Parker, Un solo re, un solo impero. Il Mulino, Bo­ logna 1985). Per le parole italiane «gioco dell’oca», «giocare all’o­ ca», i dizionari etimologici hanno date fra il 1613 e il 1742. 24

(Sfiorerò più avanti con prudenza i tasti della nume­ rologia, della simbologia. Con prudenza vorrei accen­ nare che Francesco i, alchimista dilettante, sarà stato debolmente scemo, ma era zio di Rodolfo, imperatore robustamente pazzo negli anni in cui a Praga si incon­ travano per strada, di notte, l’Arcimboldo, il Bruno, il Golem. È Filippo π era un mago.) 2. Se questa è la storia del Gioco dell’Oca come la co­ nosciamo noi, la suapreistoria ci porterebbe più lontano. Cos’è lo schema fondamentale del Gioco dell’Oca? È lo schema di un gioco di percorso: ogni giocatore, ubbi­ dendo al tiro dei due dadi, sposta il suo segnaposto in senso antiorario su un tracciato a spirale, suddiviso in varie caselle, dall’esterno verso il centro. (Ho detto tante cose in poche parole. Sottolineo tre parole. Spirale·, sono rari i Giochi dell’Oca in cui lo schema della spirale ovoidale è sostituito dallo schema a zig-zag; Ida Sello ne aveva uno. Antiorario·, sono rari i Giochi dell’Oca in cui si gioca in senso orario; Ida Sello non ne aveva nessuno; ci sono sotto questioni di astro­ logia, di liturgia; per cominciare dai riti di circumambulazione ebraici, provate a guardare Riccardo Di Se­ gni, Le unghie di Adamo, Guida, Napoli 1981. Percorso: il giocatore sposta il suo segnaposto su un tracciato, su una mappa. Per le circonvoluzioni mentali dell’homo sapiens, passare dalla terra alla mappa è un bel salto, co­ me passare dai suoni delle parole alle lettere dell’alfabe­ to.) E il gioco di percorso in senso antiorario su tracciato a spirale suddiviso in caselle dall’esterno all’interno è il Gioco del Serpente Arrotolato, Antico Egitto, forse il gioco più antico del mondo. Direte: ma nel Gioco dell’Oca è essenziale che le va­ rie caselle abbiano significati precisi, che influiscono sul percorso, con aiuti o ostacoli: ebbene anche questo si trova in culture antiche: il Gioco della Promozione 25

dei Mandarini in Cina, il Gioco della Rinascita in Tibet. 3. Si potrebbe infittire il polverone dicendo che la struttura del Gioco dell’Oca sfonda tutti i muri del no­ socomio storico-cronologico, ci porta nella sala-parto dove nascono le fiabe. Potete provare a leggere MarieI .ouisc von Franz, L ’individuatone nellafiaba, Bollati Boringhieri, Torino 1987, prendendo per guida Maria Ri­ ta Alessandri, Manuale delfantastico. La Nuova Italia, Fi­ renze 1992, pp. 137-39. Ma per oggi penso che basti il piccolo capogiro di Egitto-Cina-Tibet. O per voi forse c’è un capogiro preliminare, perché non avete mai sentito nominare né il Gioco del Serpen­ te Arrotolato, né il Gioco della Promozione dei Man­ darini, né il Gioco della Rinascita? Per voi, letterati, tutto filerebbe liscio se io parlassi di libri, pur se egizi, cinesi o tibetani. Parlo di giochi: nes­ suno se ne occupa, nessuno ne sa niente, e non è una forma di ignoranza: siamo a un informe disinteresse. Posso raccontarvi un aneddoto di ignoranza fra archeo­ logi? Il «National Geographie», febbraio 1990, ha dato notizia del fatto che Gary O. Rollefson negli scavi di Ain Ghazal (Giordania) sta portando alla luce case e cose databili al 7000-5000 a.C. Tra le altre, un tavoliere di Mancala in pietra. Fino a ieri la testimonianza più antica sul Mancala si credeva rimontasse all’Egitto, 1500-1400 a.C. Siccome anche il Gioco del Serpente Arrotolato non va oltre il 2800-2600 a.C., sembrerebbe che il Mancala vada considerato il gioco più antico del mondo, se a Ain Ghazal stanno lavorando bene. «National Geographie» racconta che, quando saltò fuori quella tavola di pietra con cunette, nessuno im­ maginò cosa potesse essere. Forse stavano per buttarla via. Ma per caso la sera prima uno degli archeologi ave­ va visto lì vicino alcuni indigeni che giocavano con qualcosa di simile, molto simile... 26

4. Volete un esempio di ignoranza, pardon di infor­ me disinteresse italiano. Prendiamo il gioco più equili­ brato fra fortuna e strategia, quello che oggi chiamiamo Backgammon. Attraverso i secoli ha avuto in Italia tan­ te varianti e/con tanti nomi: Barati, Bathelas (ad Bathalassum), Buf, Buf de Baldriac, Buffa (Buffadamater), Buffa Cortesa, Camarzo, Canis Martius, Desbaraill, Jacina, Giacchetto, Imperiale, Isbaraglio, Menoretto, Minoret, Minoretto, Sanzo (a Sanzo), Sbaraglio, Sbaragliono, Sbaraia, Sbaraino, Sbaraione-Sbaraiono, Scarica l’Asino, Tavola Reale, Tavole (Tabula; ludus ad Tabulas, Tabularum, per Tabulas, de Tabulis, ad Tabulellas; Tabulettae; Tabulerii cum Tabulis), Tavoliere in senso strettissimo (Tavoliere in senso lato può essere «tavolo da gioco», Tavoliere in senso stretto è «ripiano strutturato per un gioco o più giochi»). Testa, Toccadiglia -T occadiglio -T occadilo -T occateglio -T occatil loTuccatigli, Tornagalea, Tre Dadi, Tric-trac. Illustri italianisti hanno scritto che il Tric-trac «è as­ sai simile alla dama», che il Toccadiglio è un gioco di carte, che le Tabulellae sono le tre tavolette. 5. Anche in Italia il Gioco dell’Oca ha una preisto­ ria. Recentemente è stato scoperto un frammento di gioco di percorso, databile alla seconda metà del xvi se­ colo. Si vedono sette caselle, con nomi e numeri: Paura = 5, Fatica = 6, Pigritia = 9, Industria = 38, Forno = 39, Prudentia = 42, Accidia = 43. Altre cose si potrebbero dire sulle trasformazioni che il Gioco dell’Oca ha avuto in Italia in epoca «storica», dal Seicento ad oggi. Sono trasformazioni che riguardano l’aritmetica del gioco, la sua simbologia e iconografia, la sua merceolo­ gia. 6. Per l’aritmetica del gioco, lo schema che sembra più antico e più solido è quello a 63 caselle. Credo che valga la pena di osservarlo pazientemente. 27

Saltano all’occhio le caselle recanti l’immagine del­ l’oca. Sono due serie, distribuite di nove in nove caselle a partire dal 5 (5, 14, 23, 32, 41, 50, 59) e dal 9 (9, 18, 27, 36, 45, 54, 63). Le preferenze numerologiche sono evidenti: 63 caselle = 7 X 9; 14 oche = 7 x 2 . Chi arriva in una di queste caselle «replica il punto», come se ripetesse il medesimo tiro di dadi. Ne conse­ guirebbe che chi al primo tiro facesse 9 arriverebbe di filato alla casella 63, cioè alla vittoria. Per evitare que­ sto, le caselle 26 e 53 recano l’immagine delle due pos­ sibili combinazioni di dadi a totale 9. La 26 mostra il punto di 3 e di 6, la 53 mostra il punto di 4 e 5. Chi al primo tiro fa 3 e 6 va al 26, chi fa 4 e 5 va al 53. Queste sono le caselle fauste, che danno vantaggi. Vediamo ora le caselle che danno ostacoli o danno van­ taggi modesti, costosi. 6 = ponte. Si salta al 12, ma si deve versare nel piatto una posta convenuta. 19 = casa o osteria con frasca, o locanda. Si deve ver­ sare nel piatto la posta convenuta e star fermi tre giri. 31= pozzo. Si deve versare nel piatto la posta conve­ nuta e sottostare a una legge crudele: non ci si muove più dalla casella fin che in essa capiti un salvatore mal­ capitato. Solo allora chi era caduto nel pozzo può uscir­ ne, ma il nuovo venuto prende il suo posto. 42 = labirinto, o giardino murato, o colle con albero in vetta. Si deve versare nel piatto la posta convenuta e tornare al 39. Fermiamoci un po’ al 42. 7. Molte storie sui labirinti raccontano Paolo Santarcangeli, II libro dei labirinti (Vallecchi, Firenze 1967; Frassinelli, Milano 1984) e Hermann Kern (Labirinti, Feltrinelli, Milano 1981). Non mi ricordo se c’è il labi­ rinto del Gioco dell’Oca e se c’è il labirinto a carta-ematita. Che invece c’è nella Donna della domenica di Frut­ terò & Lucentini (Mondadori, Milano 1972). Anche 28

qui la storia ha un seguito. Ve ne dirò solo una. Ci sono labirinti a tempo, che, oltre alla carta e alla matita, ri­ chiedono cronometro. Il cronometro, l’orologio, l’os­ sessione del tempo, ci sono entrati nel sangue. Gli anti­ chi erano diversi: Teseo doveva trovare e uccidere il Minotauro, ma nessuno gli aveva detto entro quando. (Molti videogiochi hanno uno schema a labirinto, e la questione del tempo diventa angosciosa.) Io per anni ho fatto almeno un paio di partite di Back­ gammon al giorno e ho provato tante varianti, più o meno veloci e cattive (di aggressività crudele). Ho pro­ vato a giocare con le regole di Claudio e Zenone impe­ ratori e le ho trovate intollerabili per lentezza. Ho impiegato migliaia di ore, dalla prima puerizia, a far solitari con le carte (ci ho scritto su un libro), ma da quando è entrato in casa un computer basta un tocco di mouse e il mazzo è rimescolato, un altro tocco e lo schieramento è disposto in bell’ordine (faccio sempre il Klondike), frazioni di secondo; che dico? basta accen­ dere il computer e son già compiute le operazioni preli­ minari di trovare un tavolo non troppo ingombro, illu­ minato bene, sgombrarlo, stendere un panno morbido, trovare il mazzo di carte e controllare che sia completo. Queste notizie vi lasciano indifferenti? vi irritano? Cambiano anche i valori etici: col computer non posso barare, col computer ho punteggi, singoli (datati) e cu­ mulativi. 8. Torniamo al Gioco dell’Oca. Eravamo restati al 42. Dopo il 42 viene il 53. 53 = galera, cioè nave su cui s’imbarcano i galeotti (a volte rappresentata come barca qualsiasi, o gondola e simili; a volte come prigione con inferriate). Si ripete la legge crudele del 31. 58 = morte (teschio, o scheletro, o oca trafitta da freccia). Si deve versare nel piatto la posta convenuta e tornare all’inizio (secondo alcuni, tornando col segna29

posto alla casella 1, secondo altri ripartendo da zero, se il tavoliere reca l’immagine di un vestibolo). 63 = casella finale e vincente. Secondo alcuni si deve arrivare alla casella 63 con tiro sufficiente (esatto) o so­ vrabbondante; secondo altri, i punti in più si percorro­ no aU’indietro. In questo caso, secondo alcuni si tien conto, secondo altri no, dei valori delle caselle in cui ci si viene a trovare. Più complesso sarebbe il discorso per i Giochi del­ l’Oca con numero di caselle inferiore o superiore a 63.1 Giochi dell’Oca che avevo potuto vedere sinora hanno innumerevoli (scusate il bisticcio) numeri di caselle, da 20 a 107; e ce ne saranno stati con meno di 20? con più di 107? Ogni volta che ci si imbatte in qualche collezione di Giochi dell’Oca si fanno scoperte. Nel negozio di Ida Sello troviamo esemplari con 50 caselle, 60, 70, 71, 75, 80, 90, 100, e - rarissimo! - 120. Ma il giorno in cui si facessero ricerche più ampie e profonde magari risulte­ rà che lo schema a 120 non è rarissimo. Allo stato delle conoscenze attuali mi sembra di po­ ter affermare che dopo quello classico a 63 caselle lo schema più diffuso sia quello a 90 caselle. Vorrete nota­ re che 90 sono i numeri della Tómbola e del Lotto. Prima di abbandonare il terreno della numerologia forse vorrete chiedermi che vi consigli qualche libro. Vi nominerò il più recente: Franz Carl Endres, Anne­ marie Schimmel, Dizionario dei numeri, Red Edizioni, Como 1991. 9. Prima di entrare nel terreno della simbologia e della iconografia forse vorrete chiedermi che vi consi­ gli qualche libro. Vi nominerò i più recenti: Jean Che­ valier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli, Milano 1986; Hans Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Garzanti, Milano 1991. Venendo a simbologia e iconografia direi che le 30

grandi famiglie sono due. Da una parte i Giochi dell’O­ ca come quello descritto fin qui, dall’altra i giochi di percorso a spirale che travestono la vicenda in mille modi. Per restare al negozio di Ida Sello, riconosciamo il Gioco dell’Oca sotto le vesti del campionato di calcio e del giardino zoologico, del circo equestre e dei viaggi (in diligenza, in treno, e già in automobile), delle fiabe: da Cappuccetto Rosso a Biancaneve, da Hansel e Grethel alla Bella Addormentata nel Bosco, fino a una Ali­ ce nel paese delle meraviglie in cui riconosciamo qual­ che eco delle illustrazioni di Tenniel. Nel negozio di Ida Sello non sono rimaste tracce di Giochi dell’Oca con immagini di carattere politico. Può darsi ne fosse vietata la produzione, come sappia­ mo che fu proibita la produzione di un mazzo di carte recante, per semi, non cuori-quadri-fiori-picche o cop­ pe-denari-bastoni-spade bensì elmetti-ancore-elichefasci. (Lasciatemi dire che a cuori-coppe nelle carte svizzere corrispondono rose: è il Graal.) Ma, a parte Ida Sello e gli anni ’30, i Giochi dell’Oca con immagini di carattere politico hanno lussureggia­ to. Alain Girard e Claude Quetel han fatto un libro su L ’Histoire de France racontéepar lejeu de l’oie (Balland-Massin, Paris 1982). Per l’Italia voglio ricordare un Gioco dell’Oca stampato nella primavera del 1945 su un gior­ nale del Pei destinato ai ragazzi, «Il Pioniere». Nelle ca­ selle fauste non compariva un’oca bensì un partigiano con mitra fumante. Erano gli anni (di cui non sempre misuriamo la distanza), quando si ammazzavano gli av­ versari politici e si proponevano ai ragazzi immagini di partigiani con mitra fumante con intenti pedagogici. Quando vedo la testata di quella rivista che si chiama «Strumenti critici» penso sempre che nelle culture scia­ maniche l’assassinio è uno strumento critico, purché non si macchi la terra col sangue dell’avversario criti­ cato. Ciò irriterebbe gli Dei. Generalmente si prende l’avversario da criticare (letterato, teologo ecc.) e lo si 31

percuote a tre quarti della schiena con un bastone av­ volto in panni soffici, così da spappolargli i rognoni. 10. Lasciamo perdere questi giochi di percorso a spi­ rale «travestiti». Teniamoci fermi ai Giochi dell’Oca come quelli descritti sin qui. Sul valore simbolico delle immagini-chiave c’è poco da dire: ponte, casa, pozzo, labirinto, galera, morte e oca (e luna e sole per vestibolo e conclusione) sono voci fondamentali nelle enciclopedie dei simboli. Non di­ mentichiamo che col Gioco dell’Oca siamo nel terreno dei giochi, terreno simbolicamente privilegiato. Libri si sono scritti sull’iconografia e simbologia dei Tarocchi; i paragoni sono sempre sbagliati, ma credo che volendo si potrebbe scrivere altrettanto prendendo a pretesto il Gioco dell’Oca. Accenno solo a due cose. Il 19 = casa o osteria con frasca o locanda compare anche nel gioco del Cucù con analogo valore di sosta, e in una cartella di Campana e Martello (o Cavallino Bianco). Il 53 = galera arriva fino agli usa degli anni ’30 con la prigione all’angolo fra il «Via!» e il «Parcheggio Gratui­ to» (Monopoly-Monòpoli). Sembrerebbe superfluo notare che 42 caselle restano bianche, senza immagini, con la pura indicazione nu­ merica. Alcuni Giochi dell’Oca hanno immagini esor­ native anche nelle caselle che il gioco classico lascia bianche. Si potrebbero ricordare i nomi di queste va­ rianti: il Gioco del Barone, il Gioco della Birba, il Gio­ co dei Personaggi. Ma temo che le varianti siano infini­ te, inclassificabili o quasi. 11. Un efficace schema di classificazione mi sembra invece quello che separa i Giochi dell’Oca con didasca­ lie da quelli totalmente privi di scritte, affidati a puris­ sime immagini che si presume parlino da sé. Questo non deve sembrare strano. Nei mazzi di carte non è scritto che il Fante valga 8 (o 11), che il Cavallo o la Re32

gina valgano 9 (o 12), che il Re valga 10 (o 13). Chi compra un mazzo di carte, queste cose le sa, questo lin­ guaggio lo ha imparato con la lingua materna. E chi compra un mazzo di carte non pensa di trovare nell’a­ stuccio le istruzioni per l’uso. Le regole di scopa, bri­ scola, tressette, o degli altri infiniti possibili giochi, «le sa già». Così in alcuni Giochi dell’Oca, anche antichi, le scritte ci sono (nelle caselle con l’oca «replica il punto»; nella 31 «paga e sta sin un ti cavi» ecc., per un esempio fra mille). In altri Giochi dell’Oca, anche recenti, le scritte non ci sono. E i Giochi dell’Oca con le scritte possono recar stampate per sovrammercato le regole del gioco, oppure no. 12. Con queste osservazioni ci siamo già avvicinati al terreno merceologico. Ci furono tempi e luoghi in cui il Gioco dell’Oca era talmente noto da render su­ perflue didascalie e regole (indipendentemente dal fat­ to che si presupponessero utenti alfabetizzati o no). Ci furono tempi e luoghi in cui il Gioco dell’Oca an­ dava per le fiere e per le case, nei negozi e nelle famiglie, nudo e crudo, povero e solo, sotto forma di foglio vo­ lante. Senza dadi: stavano già in qualche cassetto. Senza segnaposti: si prendevano un ditale, un fagiolo, un chiodo, un sassolino. Senza scatola: i tempi della confe­ zione e del packaging erano di là da venire, o comincia­ vano a venire per certe merci, non per altre. Per lo zuc­ chero si facevano cartocci in carta color carta-da-zucchero (bluastra; la carta del macellaio era giallastra, ecc.), lo zucchero in scatola si vide nel secondo dopo­ guerra nei film americani. Per il Gioco dell’Oca si ven­ deva il foglio volante: non era un «gioco in scatola». Il primo «gioco in scatola» sarà il Monopoly, arrivato da noi, nelle grandi città, per le feste di Natale del 1936 con il nome di Monopoli. Oddio, certo, come no? Magari si troverà un Gioco 33

dell’Oca di lusso che era già «gioco in scatola» prima del 1936... E in effetti ecco nel negozio di Ida Sello un Gio­ co dell’Oca in scatola della ditta Sala di Berlino, in una scatola di grande lusso: è del 1913. 13. Ma cosa ho detto? «Gioco in scatola». È un ter­ mine merceologico che trovo registrato e definito per la prima volta nel Grande dizionario enciclopedico Utet, voi. ix (1987), p. 511. Oggi che quasi tutti i giochi (non par­ lo di giocattoli) sono giochi in scatola, è facile fare di ogni erba un fascio, specialmente se non si amano i gio­ chi e li si disprezza, specialmente se non si amano i bambini e se ne ha fastidio. È il caso del poeta Eugenio Montale (1896-1981), dal 1967 senatore a vita della Repubblica Italiana, Premio Nobel per la letteratura 1975, il quale ebbe a scrivere e pubblicare quanto segue: I bambinigiocano nuovissimigiuochi, noiose astrusepropaggini delgiuoco dell’oca.

Buona diffusione ha avuto in Italia il Pachisi, che ci viene dall’India passando per la Londra vittoriana in data 1892 (Ludo). Noi lo chiamiamo Non T ’Arrabbia­ re, calco dal tedesco Mensch ärgere dich nicht. Con questo nome tedesco, e con due refusi, il gioco entra nella let­ teratura italiana: Vita di Euciano De Crescenzo scritta da lui medesimo, Mondadori, Milano 1989, p. 159. Ne parla Heinrich Boll nelle Opinioni di un clown e la traduzione italiana (Mondadori, Milano 1965) annota: «Specie di gioco dell’oca». Sarà stato contento Eugenio Montale. Nel 1983 c’è stata una variante neonazista, Ebreo Non T’Arrabbiare, introvabile. Nel negozio di Ida Sello ci sono tanti Giochi dell’O­ ca e c’è un Serpi e Scale; non c’è il Non T ’Arrabbiare e non c’è il Monopoly-Monòpoli. Non è corretto fare un elenco delle mancanze (tabula absentiae) in materiali che possono aver subito dispersioni, ma certamente Ida Sello non fece in tempo a restar travolta dal diluvio dei «nuovissimi giuochi», giochi in scatola, che comincia­ rono a invadere i negozi d’Italia, o almeno i negozi del­ le grandi città, nei nostri anni.

«Propaggini» sta per «derivazioni». «Astruse» vuol dire che il poeta non ne capisce un’acca. «Noiose» sta a indicare il fastidio che quei giochi gli danno, anche solo a vederli giocare da altri, da lontano. Che questi giochi siano «nuovissimi», dipende. Nel negozio di Ida Sello c’è un A u f und ab, En avant et en arrière della ditta Hausser di Ludwigsburg, 1923, che chi volesse potrebbe trovare astruso e noioso, ma non è una propaggine del Gioco dell’Oca: è un esemplare di Scale e Serpenti, o Serpi e Scale, cioè una «propaggine» del Moksha Patamu, gioco tantrico o giaìno che ci vie­ ne dall’India passando per la Londra vittoriana in data 1882-83 (Snakes and ladders). Notissimo in tutti i paesi civili d’Europa, non sembra abbia mai avuto diffusione apprezzabile in Italia. 34

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4. LaTòm bola

1. Insieme al Gioco dell’Oca la Tómbola è stata per secoli il gioco preferito nelle riunioni festive (specialmente invernali e natalizie) della famiglia. Più patriarcale del Gioco dell’Oca per la presenza di un capogioco (che estrae i numeri dal sacchetto), più corale (può riunire un numero illimitato di persone), meno competitiva (il nonno può tenere una stessa car­ tella insieme al nipotino), meno crudele (a Tómbola è questione di fortuna, al Gioco dell’Oca la fortuna va di pari passo con la sfortuna: capitare nel pozzo o nella ga­ lera o nella casella della morte è una sfortuna che a una persona fragile può dare traumi). Infine la Tómbola, a differenza del Gioco dell’Oca, può creare un’atmosfera istrionica, da modesto teatri­ no. Nella tradizione popolare i vari numeri hanno un «nome», allusivo, spesso scurrile, e il capogioco può an­ nunciare il «nome» del numero anziché il numero. (Ovviamente, infinite sono le varianti: «il morto che parla» è a volte il 47, a volte il 48.) In ciò la Tómbola si apparenta al lotto (che ha pure 90 numeri, con corri­ spondenze a oggetti, secondo le leggi della cabala o del libro dei sogni). Sono in commercio Tómbole napole­ tane recanti numero per numero un’immagine e una scritta, a volte trilingue: italiana, napoletana, america­ na; nelle deplorevoli Cronache dipoveri amanti (1947) Va­ sco Pratolini tentò una descrizione della Tómbola in cui il capogioco annuncia il «nome» del numero anzi­ ché il numero. C’è chi cerca a tentoni sulla propria cartella il nume­ ro estratto e non lo trova. Potete uscire dalla truppa di 36

questi handicappati osservando come la cartella rechi numeri disposti in file orizzontali e in righe verticali (o colonne). La Tómbola può uscire dalle pareti domestiche. Le Tómbole pubbliche, con vendita di migliaia di cartelle, sono un gioco analogo alla lotteria e devono essere au­ torizzate dalla Intendenza di Finanza; anche nelle case private la Tómbola può diventare un gioco d’azzardo, come tale proibito dalla legge; in astratto anche il Gio­ co dell’Oca si presterebbe a diventare gioco d’azzardo, ma in concreto questa non s’è mai sentita. Secondo i dizionari etimologici la parola «tómbola» è attestata in uso per la prima volta a Venezia nel 1798; nulla vieta di immaginare che il gioco, o la sua struttura tecnica di base, sia più antico. Non sappiamo se la Tómbola venga prima o venga dopo altri giochi di estrazione: Cavagnola, Gioco Romano, Nanna-pigghia-cincu, Biribissi o Lotto Reale... Il Biribissi o Lotto Reale è più complesso sia come meccanismo di estra­ zione (dal sacchetto non si estraggono palline numerate bensì piccole ghiande, giardette in genovese, all’interno delle quali sta il biglietto col numero o la figura, arroto­ lato: ghiandetta farcita come un’oliva col pezzetto di peperone) sia come meccanismo di partecipazione az­ zardosa (nella Tómbola si acquistano una o più cartelle, nel Biribissi si punta denaro sonante su un tavoliere che è esattamente l’antenato del tappeto della roulette). Non voglio perdere l’occasione per ricordare che se­ condo alcuni vocabolaristi biribissi sarebbe sinonimo di girlo. Ma siamo alle solite (§§ 3-4): Piero Gobetti di­ ceva pallamaglio invece di pallacorda. 2. Le uniche varianti sembra possano consistere nel numero e nella qualità delle combinazioni vincenti (primo estratto, ambo, terna, quaterna, cinquina, tom­ bola, seconda tombola o tombolone) e nel numero del­ le cartelle. Sembra di poter dire che le Tómbole di de37

stinazione famigliare più diffuse abbiano 24 cartelle; nel negozio di Ida Sello ce n’erano con 16, 18, 21, 24, 30, 48 cartelle. 3. Variante secondaria, l’aspetto iconografico. Ida Sello aveva Tómbole in cui ai numeri si sostituiscono figure di animali, fiori, attività sportive, bandiere, og­ getti vari. Tómbole di questo tipo sono ancora diffuse, ma non avevo mai sentito che si chiamassero «Tómbo­ le oggettive». (Per esempio la Ravensburger ha in catalogo una Tombola degli animali, di grande bellezza come qualità di immagini, di stampa e di confezione. A volte i prodotti del giorno d’oggi la vincono su quelli di mezzo secolo fa... E c’è un piccolo trucco: ogni «cartella» raggruppa animali che vivono nella stessa zona geografica. Basta­ va pensarci. Altra finezza nello stesso campo: la stessa Ravensburger ha in catalogo una Tombola dei cuccioli.) Molte «Tómbole oggettive» di Ida Sello sono Tóm­ bole povere, di amabile rozzezza. Una Tombola degli ali­ menti reca il motto «Quando il piatto è ben condito si mangia con maggior appetito». 4. Le «Tómbole oggettive» sono artifici di semplifi­ cazione. Ma ci sono artifici di complicazione, con giun­ ta di elementi didattici. Tómbole alfabetiche. Tómbole geografiche... Tra queste ultime, nel negozio di Ida Sello una Tom­ bola stoma geografica dell’Etiopia ci restituisce l’immagine dell’Africa Orientale Italiana, coi cinque Governatora­ ti di cui negli atlanti storici scarse tracce son rimaste. 5. Non so se qualcuno si sia mai interrogato sulla differenza abissale fra una carta geografica che serve per scegliere una strada, per seguirla, per sapere dove siamo, e una carta geografica che serve per «studiare la geografia». Ci insegnavano «ma con gran pena le reca 38

giù» per memorizzare la successione dei nomi delle Al­ pi Marittime, Cozie, Graie eccetera. Né come alpinisti né come automobilisti c’è mai servito sapere dove so­ no, cosa sono le Alpi Graie. Un bel monumento alla memoria della geografia co­ me feticcio pedagogico è il Grembiulino Geografico di cui ci parla nel negozio di Ida Sello il catalogo Paravia 1924: Distintivo nuovo e veramente adatto per la scuola, pienamente rispondente alla Tabella allegata all’ordinanza ministeriale (11 nov. 1923) Il Grembiulino Geografico; nell’abito e nel cuo­ re /’Italia; - nel cuore instillino l’amore al nostro belpaese / che Appenninparte/ e il mar circonda e l’A lp e /i maestri e le mae­ stre delle nostre Scuole che diranno ai bimbi d’Italia le sofferenze e le glorie di una terra chefu battezzata «giardino d’Europa»; nell’abitoportino i bimbi d’Italia Γimmagine geografica di questa terra, che ricorda i nomi dei luoghi che videro le sofferenze e leglo­ rie. Il Grembiulino Geografico (che ebbe l’approvazione del Ministero della Pubblica Istruzione) sia la divisageniale e istrut­ tiva della nuova fanciullezza italiana. Il Grembiulino Geo­ grafico si raccomanda come una geniale e simpatica applicazione della Carta d’Italia; con scopi riconosciuti altamente didattici e patriottici da tutte le Autorità Scolastiche del Regno. Quasi me ne dimenticavo. Bisogna registrare il fatto che una volta gli scolari avevano il grembiulino, nero i maschi, bianco le femminucce. Era uno dei mille dati della vita in divisa (§ 8.1). Camminando per le strade, cercando di pensare cosa hanno di più strano rispetto a quelle di mezzo secolo fa, la prima cosa che viene in mente è che una volta non c’erano tante macchine; ma una volta non c’era nean­ che tanta libertà nella scelta dell’abbigliamento. Resto costantemente d’avviso che spesso la parola «libertà» sia tronfio sinonimo di «bizzarria». 6. Nel negozio di Ida Sello, una Tombolapitagorica-geometrica-iconografica è divisa in varie parti: con immagini 39

di soldati per la prima classe, di farfalle per la prima e seconda classe, una di uccelli e una di pesci per la secon­ da classe, una di «grani» (cereali) per la seconda e terza classe, una di fiori e un’altra di ortaggi per la terza e quarta classe, una di frutta e un’altra di animali per la quarta e quinta classe. Particolarmente mi attira, com’è ovvio, la tómbola dei soldati. Le divise sono scelte con arbitrarietà ripro­ vevole: c’è l’aviazione, manca la marina, ci sono bersa­ glieri e alpini, e, se vedo bene, cavalleggeri, mancano fanti, artiglieri, carabinieri - e chissà cos’altro manca alla mia memoria. Poi c’è la mvsn . La quale, per chi non l’ha studiata a scuola, è la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, con camicie nere (le giubbe a collo alto delle altre armi non lasciano veder camicie di sorta). Questa tómbola del negozio di Ida Sello è rara per­ ché dopo il 1945 si commetteva reato di apologia del fascismo se si vendeva roba del genere; anzi, anche solo se la si conservava. I cartolai erano tenuti a distruggere tutte le vestigia degli Anni Infausti. 7. Ma, se guardiamo bene, questa tómbola ha un’al­ tra mostruosità. Ogni cartella è fustellata così che ne saltano fuori piccole figure geometriche. Al primo sforzo di trovare il buco giusto per ricostruire l’imma­ gine come in un puzzle, il bambino ne doveva fare un secondo per definire correttamente la figura (triangolo, pentagono, rombo...). Terzo sforzo, alcune figure sono contraddistinte da scritte del tipo «5 + 8», e verosimil­ mente chi non sapeva dire, gridare, urlare prontamente «13!» si prendeva un colpo di righello sulle dita. Affiorano ricordi precisi. Una citazione a memoria: Bi e ba la maestra me le dà me le dà con la bacchetta la maestra maledetta. 40

Dico che un’eventuale Tombola delle Forze dell'Ordine Pedagoghi e Pedagogisti dovrebbero stare nella stessa cartella con Secondini, Guardie Carcerarie, Agenti di Custodia o di Polizia Penitenziaria (§ 2.4). Esprimo dubbi sulla «bontà» dei metodi pedagogici. Tengo a precisare che certe crudeltà erano diffuse. Nel negozio di Ida Sello c’è un Totocalcolo Piva per «esercizi di aritme­ tica con la tombola», di primo grado e di secondo grado - ve lo lascio immaginare. Per tornare alla Tombola pitagorìca-geometrica-iconografi­ ca, l’aspetto più curioso è quello per cui, come accenna­ vo, non si sovrappone un contrassegno alla sezione ap­ propriata, bensì la sezione appropriata si incastra come in un puzzle. Questa tecnica mista, di Tómbola-puzzle, compare anche in altri giochi di Tómbola, nel negozio di Ida Sello. Quanto a «sussidi per i conticini», nel negozio di Ida Sello si trovano tracce di macchine per calcolare ag­ ghiaccianti, inventate nelle lunghe notti d’inverno da pedagogisti più rozzi che crudeli. Com’erano pulite e indolori, in confronto, le tabelline! Com’era bella la ta­ vola pitagorica! Son sicuro che quando cominciò a dif­ fondersi (quando?) venne osteggiata come lo fu a suo tempo il calcolatore tascabile, il povero vecchio pocket calculator che adesso sta in omaggio nei fustini di de­ tersivo. Ho tra i miei gioielli una tavola pitagorica cine­ se in legno; non ho un abaco cinese ma sogno di posse­ derlo e di imparare ad adoperarlo. Il regalo più stupido che mi fecero fu un pallottoliere a palline rosse e gialle, che non mi insegnarono ad usare. Mi ci inebetii per ore e giorni, con più sensi di colpa che noia, finché un com­ pagno intelligente, teppista, mi consigliò di distrugger­ lo per ricavarne tante palline. 8. Ultima nota, merceologica o di packaging. Il Gio­ co dell’Oca poteva essere un foglio volante o un gioco in scatola. Le Tómbole che aveva in negozio Ida Sello erano tutte in scatola. 41

Ovviamente nella scatola c’erano il tabellone, le car­ telle, le palline o pedine coi 90 numeri. Non c’erano i contrassegni per i numeri estratti che ciascun giocatore colloca sulla propria cartella o sulle proprie cartelle. Si usavano fagioli secchi. Oggi le Tómbole in scatola han­ no anche i contrassegni; ci sono Tómbole con cartelle dove il numero estratto può essere evidenziato col toc­ co del polpastrello.

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/ . Pu%%le e cubi

1. Oggi tutti i vocabolari registrano «puzzle»: gioco di pazienza consistente nel ricostruire un’immagine ri­ mettendo insieme i vari pezzi in cui è stata precedentemente scomposta. Così ad esempio lo Zingarelli. E nei migliori negozi di giocattoli trovate vasti assortimenti di puzzle, e i negozianti li chiamano puzzle, e se chiede­ te un puzzle ve lo danno senza possibilità di equivoci (irrisoria l’incertezza di pronuncia tra pùz-le e pàsol). Ancora agli inizi degli anni ’60, invece, se volevo rega­ lare dei bei puzzle al nonno di mia moglie, che ne era ghiotto, li compravo all’estero. Nei negozi di Milano era difficile trovarne. Nei negozi di Piacenza era impos­ sibile trovarne. Resta quindi notevole il fatto che già negli anni ’20 e ’30 Ida Sello avesse alcuni puzzle. Per restare alla storia della cosa, del gioco da giocare, Ida Sello aveva sia puzzle a tasselli squadrati, sia puzzle a tasselli di forma ameboide. I primi sono i più antichi (se ne hanno le prime testimonianze in Inghilterra ver­ so il 1763: Linda Hannas, The Jigsaw Book, Hutchinson, London 1988), e si ottenevano segando l’immagine in­ collata su legno. I secondi sono più moderni e si otten­ gono fustellando l’immagine stampata su cartoncino. (Da una decina d’anni la fustellatrice - metallica - è passata nei ferrivecchi. Si usa il laser. Per certi puzzle microscopici mi dicono si usi un laser ad acqua; sembra che riescano a comprimere l’acqua. Quanto a forme, la MB produce dei puzzle con tasselli ad angoli retti che sono una via di mezzo fra quelli squadrati e quelli ame­ boidi.) 43

2. Direi che qui la storia della cosa, del gioco da gio­ care, è finita. Resterebbe da raccontare la storia della parola, che è puzzle in italiano come in francese e in al­ tre lingue, mentre nella terra d’origine, nella lingua in­ glese, la parola non è «puzzle» bensì «jig-saw puzzle». Primo, perché «puzzle» è rompicapo in generale, secon­ do perchéjig-saw è la sega da traforo: quella che si usava per i primi puzzle a tasselli squadrati di cui sopra. 3. La storia della cosa però, la storia del gioco da gio­ care, va vista in prospettiva lunga. I puzzle di Ida Sello sono semplici, sono giochi per bambini. I puzzle che si trovano in commercio al giorno d’oggi sono di due tipi: ci sono quelli semplici, per bambini, e ci sono quelli complicati, per adulti. Se credessimo alla «fasce d’età» e se si potessero di­ stinguere giochi scesi dal mondo degli adulti al mondo dei bambini, e giochi saliti dal mondo dei bambini al mondo degli adulti, il puzzle potrebbe essere un gioco risalito dal mondo dei bambini al mondo degli adulti. È un gioco solitario, meditativo, romantico (come i coevi caleidoscopio, solitari con le carte, tarocchi divinatorii, diabolo, ombre cinesi, tangram - e questo è il paragone più appropriato, per chi sa cosa sia il tangram). Il puzzle come gioco da adulti compare in un roman­ zo giallo di Fiorella Cagnoni {Questione di tempo. La Tar­ taruga, Milano 1985). Il puzzle come gioco da adulti è il protagonista del romanzo Ea vie mode d’emploi di Geor­ ges Perec (1978; ne esiste una traduzione italiana, Ea vi­ ta istruzioni per l’uso, Rizzoli, Milano 1984, sventurata per vari errori relativi a giochi, e Perec parla di molti giochi).

scendono a un minimo di 20 tasselli, 15, 10, per gli adulti è facile trovare in commercio piccole bare, kg 11,5, contenenti puzzle di 6000 pezzi, che si possono fare solo a patto di possedere un tavolo di cm 157,5 X 107 (anzi due tavoli, come sa chi s’intende di puzzle). Nel 1985 la Ravensburger ha messo in commercio un puzzle di 12.000 pezzi. Nel film di Orson Welles Citizen Kane (1941) la seconda moglie, nel castello, fa un puzzle di 5 metri quadrati e forse più. Per qualità di immagini noi oggi abbiamo puzzle ba­ sati su incisioni di Escher, su stampe non-figurative, su disegni che di per sé generano illusioni ottiche. I puzzle di Ida Sello sono a colori vivacissimi, nettamente con­ trapposti; noi oggi abbiamo puzzle monocromi, per rendere sempre più difficile la ricostruzione. 5. Un’ultima complicazione può venire dalla man­ canza della immagine globale da ricostruire (che gene­ ralmente si ritrova, in grandezza naturale o in formato ridotto, sulla scatola contenente i tasselli del puzzle). Un puzzle di questo tipo compare, chiamato all’inglese blindpuzzle, in italiano puzzle cieco, nel romanzo di Frut­ terò & Lucentini Enigma in luogo di mare (Mondadori, Milano 1991). Per anni non se ne son trovati in com­ mercio in Italia. I negozianti di buona memoria testi­ moniano che, quando c’erano, si ch iamavano puzzle ?nutì. (Dal 1992 Clementoni distribuisce giochi complessi. Gialli Clementoni, con vari ingredienti, uno dei quali è il puzzle muto resuscitato.)

4. Passando dal mondo dei bambini al mondo degli adulti il puzzle si complica per numero di tasselli e per qualità di immagini. Per numero di tasselli, mentre quelli per bambini

6. Siamo tornati a vischiose storie di parole. Per i di­ zionari etimologici la prima testimonianza italiana a stampa di «puzzle» nel senso che ci interessa risalirebbe al 1942: era un «forestierismo da eliminare» e si propo­ neva di sostituirlo con «incastro». Si sono rinvenuti puzzle degli anni ’40 con dicitura «Niki-niki, il gioco di pazienza che avvince» (sul perché di questa scelta sono

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state fatte ipotesi che personalmente accetto ma non tengo a divulgare; se non avete sotto mano il Dizionario storico dei gerghi italiani di Ernesto Ferrerò, Mondadori, Milano 1991, peggio per voi). Nel negozio di Ida Sello ci sono scatole di puzzle con diciture varie: «rompicapo, gioco di pazienza, incastro, gioco di composizione». 7. Nel negozio di Ida Sello compaiono anche quelle forme semplificatissime di puzzle che consistono in cu­ bi di legno sulle cui facce stanno incollati frammenti quadrati di immagini. Da una scatola di questi cubi si ricavano 6 immagini. Noi possiamo dire cubi-puzzle o puzzle-cubi. Nel negozio di Ida Sello la denominazione è varia: «cubi figurati, cubi in legno ricoperti», cubi in legno ricopert/, cubi in legno con scene di bambini da comporre». Una scatola Vallardi del 1921 dice: Cubi in legno. Il comune ma sempre ricercatogiuoco dei cubi, è reso interessante dalle rappresentazioni che sipossono comporre con queste scatole ove sono contenutigraziosi soggetti. A memoria d’uomo questi cubi figurati servivano poco come puzzle, data la facilità di soluzione. Passava­ no presto nella cesta dei giochi di costruzioni (§ 10.8) se qualche zia non li eliminava come corpi contundenti pericolosi. Il cubo figurato sta nella mano del bambino come il sampietrino di porfido sta nella mano dell’a­ dulto. Non sembri osservazione impertinente. In fondo al­ l’armadio dell’aula (chiavi al maestro e al bidello) c’era la cassa dei solidi in legno, ma non venivano usati per due ragioni. Primo, perché sembravano giocattoli e in classe non ci si doveva divertire. Secondo, perché era­ no pericolosi. Così pesanti! con quelle punte! (I solidi in legno potrebbero sembrare «doni fröbeliani» ma sono un’altra cosa. Lo so dai libri. I «doni fröbeliani» non li ho mai visti.) 46

8. Alla fine del § 6 ho registrato un uso riduttivo del­ la parola «rompicapo». E possibile un uso estensivo della parola «rompicapo». Ai tempi di Ida Sello c’erano rompicapo che erano come piccole bombe a mano, di quelle a cui si strappava la sicura coi denti; bombe Sipe, dal nome della Società Italiana Prodotti Esplodenti. Ho in casa trattati sui rompicapi, in più volumi, che so­ no bombe atomiche. Fra i solidi in legno c’era la sfera (spariva per prima, era una boccia). Applicando a una sfera di legno il principio del «rompicapo» nel senso più duro della parola, esplosivo, esplodente, si ha il Cubosoma. Sarebbe piaciuto a Fröbel.

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6. Bocce e b in ili

1. Bocce e birilli sono (per adulti e bambini) i giocat­ toli, gli strumenti di gioco più semplici da procurarsi, da costruire, da rimediare. Basta un tornio - cosa dico? - la boccia può essere sostituita da un ciottolo, il birillo può essere sostituito da un tronchetto. Se questo discorso empirico lo imbellettiamo da di­ scorso storico possiamo dire che bocce e birilli sono tra i giochi più antichi... Gli storici seri però per bocce e birilli non fanno di­ scorsi che vadano più in là del Medioevo. Anche gli aneddoti sono pochi. Si dice che le bocce su prato furo­ no il gioco preferito di Enrico vili d’Inghilterra. Sotto di lui la popolarità del gioco tanto crebbe che si comin­ ciò a praticarlo su appositi campi coperti, presto tra­ sformati in luoghi di malavita. Il figlio di Enrico vm, Edoardo vi, ne ordinò la chiusura in tutto il regno. 2. Nel bene e nel male siamo al livello di giochi per adulti. Anche da noi le stampe di Giuseppe Maria Mitelli (1634-1718) mostrano plebei e gentiluomini, non ragazzi, intenti al gioco delle bocce e dei birilli («zuni»). Sfogliate Costume esocietà neigiochi a stampa di Giuseppe Ma­ ria Mitelli, Electa, Milano 1988, catalogo della mostra tenuta a Foligno nello stesso anno. Tutti sappiamo che oggi le bocce sono ancora un . gioco per adulti - direi, sempre più per adulti, da quan­ do anche nei paesi sono scomparsi i campi da bocce delle osterie, sostituiti da campi coperti come ai tempi di Enrico vm: i «bocciodromi» dove si entra solo con scarpe da ginnastica, e, spesso, solo come soci paganti, 48

e, sempre più spesso, entrano solo giocatori semipro­ fessionisti, che danno spettacolo. 3. La situazione pedagogica ci porta a pensare sem­ pre ai bambini, ma una categoria di vittime parallela ai bambini è quella dei vecchi. Vecchi e bambini giocava­ no a bocce, vecchi e bambini sono esclusi dai bocciodromi. Per i bambini si fanno qua e là squallidi parchi-gio­ chi, piccoli lager. Contro i giardini zoologici si è detto tutto il possibile e si è cominciato a fare qualcosa. I par­ chi-giochi siamo ancora qui a guardarli con la tristezza che esprimeva, come si esprime un imbelle sentimento, Erich Eckel, a Berlino, nel 1914: il suo quadro intitola­ to Varco-giochi è una pozza di sabbia gialla da cui non si può evadere, uno steccato senza cielo. Per i vecchi non si fa niente, o si fanno esperimenti di Cattiveria Fantascientifica. Mi dicono che in un ge­ rontocomio un primario benintenzionato ha provato a introdurre dei videogiochi. Errore, errore crudele. I vi­ deogiochi sono tanti, ma in linea di massima hanno tre connotazioni che sembrano studiate per ridurre i vec­ chi alla disperazione nera. Primo, come hardware sono tecnicamente troppo nuovi: il vecchio non ci ha mai giocato, non li ha mai visti, e dunque per lui sono un’ennesima incarnazione del Bravo Nuovo Mondo che tende a emarginarlo. Secondo, come software sono intrinsecamente troppo nuovi, come situazioni, come paesaggi, come tipi di personaggi. Terzo: in linea di massima richiedono prontezza di riflessi. Ho visto ven­ tenni perdere con dodicenni; ho smesso di giocare ai vi­ deogiochi dopo i quarant’anni. Per le persone di una certa età va bene il croquet (pronuncia krùki), non il cricket. Per le persone di una certa età andavano bene le bocce. 4. Un’allegria popolare, medievale, conserva la va49

riante francese delle bocce, la pétanque, che si gioca su terreni non strutturati: una strada «bianca» (sterrata), un prato, come prima di Enrico vili. C’è un libro tedesco, di Felix Hübner e Ulrich Koch, intitolato Boule pétanque boccia (Hugendubel, München 1988). Non tratta bene le bocce. Per le regole attuali delle bocce è facile trovare opuscoli di federazioni na­ zionali; le differenze regionali mi sembrano poco stu­ diate e bisognerebbe farlo, se si volesse, prima che sia troppo tardi. 5. I birilli sembra siano in Italia ormai un gioco per soli ragazzi, e un gioco in via di più netta, definitiva estinzione. Sopravvivono nella mostruosa variante americana del bowling e nei birilli da spiaggia (di pla­ stica, riempiti d’acqua per dargli stabilità). Con birilli piccolissimi e una trottolina si gioca alla roulette tirolese.

sport, e cultura dei popoli». Redattore Pierino Daudry, Sarmasse, 11024 Chàtillon, Val d’Aosta. L’articolo sui birilli, di Tavo Burat, è apparso nel n. 4, 1987. Mi fa piacere dire che questa insostituibile rivista ha conti­ nuato a uscire, regolarmente, una volta all’anno; anche in questo 1993 in cui scrivo. A parte le mille diverse sagome che possono avere i birilli, c’è un altro elemento di interesse vistoso. Ci so­ no birilli colorati, birilli figurati, birilli colorati e figu­ rati. Di Ida Sello restano indimenticabili quelli di For­ tunello (1925) e quelli della avil (1930), che compor­ tano non solo il classico lancio di bocce, ma anche il lancio di cerchietti.

6. Nel negozio di Ida Sello si trovavano solo piccole bocce di legno colorate, destinate a giochi con birilli. Le bocce di legno per giocare alle bocce le ho viste morire negli anni ’30, quando i giocatori più seri e ab­ bienti cominciarono a sostituirle con le «bocce sinteti­ che». Di bocce di legno era ancora pieno un mastello, ma erano res nullius, le lasciavano adoperare a noi ragazzi. Legno, plastica, metallo. A metà degli anni ’60 ho as­ sistito, sul crinale fra Emilia e Liguria, a litigi con un villeggiante che si era portato dalla Liguria le sue bocce metalliche. Gli fecero passare la voglia di giocare. L’e­ state successiva non lo vedemmo più: era morto. Naturalmente le bocce, di legno o di plastica o di me­ tallo, presentano all’occhio interesse scarso. Molto di più attirano l’attenzione i birilli, che possono essere sa­ gomati in mille modi diversi. Uno schema con una doz­ zina di varietà si trova nella rivista «Lo joà e les omo», che vuol dire, in valdostano, «il gioco e gli uomini». Sottotitolo: «Rivista di studi e testimonianze su giochi. 50

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7. Biglie

1. Le biglie (o bilie, o palline) di terracotta che aveva in negozio Ida Sello sembrano giocattoli poverissimi ma erano già una raffinatezza: per certi giochi, in man­ canza di biglie, ci si arrangiava a giocare con sassolini, nòccioli, bottoni, tappi a corona (calciotappo, ciclotappo). Meglio delle biglie di terracotta (grezze o colorate) c’erano solo i rulli d’acciaio dei cuscinetti a sfere, mas­ simo di virilità, o le biglie di vetro con spirale variopin­ ta incorporata, massimo di eleganza (effeminata, se vo­ lete, ma non femminile: a biglie giocavano solo i ragaz­ zi, come a certi giochi di palla, in quanto diversa dai va­ ri tipi di palloni, giocavano solo le bambine). Su queste biglie di vetro con spirale variopinta in­ corporata scrisse un anonimo poeta inglese dei tempi della Regina Vittoria: sfere di vetro che racchiudono contortifili di colore, musica sotti­ le trasposta inprigione cristallina, lo scarlatto insieme all’azzurro, il rosso-fuoco insieme algiallo-canarino, lo smeraldo e il rosa. L,a sfera dell’occhio, sorella della biglia, s’affisa al duro cristallo ma scruta invano attraversogli iridati colorì alla ricerca d’un cuore. 2. All’Inghilterra vittoriana si fa risalire il periodo di massima fortuna del gioco delle biglie, come gioco per bambini e per adulti. Mentre da noi il gioco delle biglie è così assolutamente puerile da costituire, per gli adulti, un tabù, nel mondo anglosassone gli adulti han conti­ nuato a giocare a biglie come da noi han continuato a giocare a bocce. Quando sarà successo? Alla fine del Seicento, ai pri­ mi del Settecento, anche da noi giocavano a biglie gli adulti come mostrano le stampe del Mitelli (§ 6.2). 52

Questo fatto della sopravvivenza del gioco delle bi­ glie come gioco per adulti nei paesi anglosassoni è irri­ so. Suscita sorrisi la notizia che in usa nei nostri anni ’50 furono elaborate le 31 regole per i vari giochi di bi­ glie, in un linguaggio altamente specializzato. Potrei fornire bibliografia, ma penso che per i giochi la fre­ quentazione di musei, negozi di giocattoli (e ludoteche, se ne trovate) sia da anteporre alla frequentazione delle librerie e delle biblioteche. Pertanto dirò che anche ne­ gozi italiani hanno confezioni di biglie, importate dalla Gran Bretagna, con opuscoli di regole: Marbles andgames to play with them, oppure Marble games compendium, fun for all thefamily. Con un gusto per l’erudizione che da noi ha pochi seguaci, vi si leggono brevi storie delle biglie, e vi si impara che la data cruciale è il 1846, quando si in­ venta in Germania una macchina per la produzione in­ dustriale di biglie di vetro (che prima venivano soffiate una per una). Non mi sembra inutile sottolineare che le biglie in inglese si chiamano marbles. Non tutti lo sanno: tutti in­ fatti sanno l’inglese ma pochi si intendono di giochi. Un bravo traduttore, notoriamente bravo, ha fatto di­ ventare certe biglie «tasselli di marmo». Così il claret di­ venta «chiaretto». 3. Nel negozio di Ida Sello, assieme alle biglie di ter­ racotta, troviamo già anche quelle grosse biglie di pla­ stica, metà colorate, metà trasparenti, con ritratti di ci­ clisti famosi. Le avrete viste nei distributori automatici di cicche. Studiando la storia del ciclismo e le vite dei ciclisti e i colori delle maglie con cui correvano (cioè delle case per cui correvano) si potrà fissare qualche da­ ta, qualche terminuspost quem. Sembra che queste grosse biglie di plastica compaia­ no negli anni ’50. I tipi che possono essere aperti per­ mettono di sostituire l’immagine di un ciclista con quella di un altro. 53

Chi sostiene che oggi, dei giochi di biglie un tempo numerosi, sopravvive quasi solo quello del circuito, può a buon diritto ritenere che tale fenomeno sia corre­ lato all’immagine contenuta nella biglia: la biglia non è più vista come una piccola boccia, un proiettile e simili, bensì come un corridore ciclista. Può capitare però di vedere ragazzi che giocano con un misto di biglie e soldatini (dove i soldatini valgono analogamente ai birilli, come in skittles and marbles). Le immagini e i valori si incrociano. Un grido: «Gimondi ha ammazzato il colonnello!». 4. Mi scuso di aver saputo distinguere solo biglie di terracotta, di metallo, di vetro, di plastica. Natural­ mente ce ne sono o ce ne sono state anche di altri mate­ riali; io stesso ho vago ricordo di qualche biglia di pie­ tra o di marmo, e chiaro ricordo di biglie in vetro sme­ rigliato, biancastro, verdastro, ottenute spaccando bot­ tiglie di gasosa (gassosa, gazzosa). Quello che mi man­ ca, e credo manchi alla tradizione della lingua italiana, è una articolata terminologia, che invece troviamo in tedesco (Renée Hol 1erMurmeln, Hugendubel, Mün­ chen 1986) e, ancora una volta, in inglese (Fred Fer­ retti, ThegreatAmerican marble book, Workman Publishing Company, New York 1973). Una prodigiosa terminologia, e una iconografia per la quale mi mancano gli aggettivi, si trova nel libro di Lois Sherr Dubin, Ta storia delleperline (Garzanti, Mila­ no 1988). Se le biglie ci piacciono tanto, se ci chiedia­ mo donde venga il fascino che esercitano su di noi, io rispondo che le biglie sono perline senza buco. Da un lato, dunque, attraverso le perline sono paren­ ti delle biglie i segnaposti di certi giochi, certe pedine di altri giochi. Ci sono perline ossee e ci sono perline che sono piccoli ossi; piccoli ossi sono gli astragali (grandi astragali sono le tabas di Chatwin), e dunque attraverso le perline sono parenti delle biglie i dadi. 54

Da un altro lato con le perline si fanno i rosari, i gra­ ni da preghiera di varie religioni; attraverso le perline sono parenti delle biglie i netzuke, e sono grosse biglie le Sfere di Baoding (Paoting); piccole Sfere di Baoding manipolava Humphrey Bogart nell "Ammutinamento del Caine (1954): biglie a tutti gli effetti. Se la bottega di Ida Sello è un tempio, il cassetto con le biglie è per me il tabernacolo. 5. Se dico che sono parenti delle biglie i dadi, forse non capite ma dovete credermi. Si trovano in commer­ cio dadi sferici, che possono essere usati come biglie, ad esempio per far cadere un birillo-soldatino, ma all’abi­ lità del tiro si aggiunge una componente di fortuna se si tiene conto dei punti che mostra il dado-biglia quando si ferma, esaurita la sua funzione primaria di biglia-dado. Voi dite «dado» credendo di andar sul sicuro. Poteva andare sul sicuro Ida Sello. Oggi anche questo terreno è costellato da buche coperte di foglie. Non tutti i dadi hanno 6 facce come una volta. Per i giochi di ruolo (rpg ) si usano, e sono facili da trovare in commercio, dadi con meno o più di 6 facce. Anche nei giochi in sca­ tola ci sono dadi nuovi, tanto belli che a volte ho la ten­ tazione di buttar via le scatole con tutti gli altri conte­ nuti per tenermi i dadi (un po’ perché i giochi di quelle scatole non sono gran che, un po’ perché le scatole ten­ gono posto). Il più bello forse è quello che sta nella sca­ tola di Saltinmente: ha 20 facce. Icosaedro! Bravi, ma è un icosaedro alfabetico. Cubi­ ci o no, i dadi possono essere numerici o no. Possono recare (con puntini o con cifre) indicazioni numeriche oppure simboli vari. Lettere dell’alfabeto, sillabe, paro­ le; segni astrologici, segni di carte da gioco o di taroc­ chi, segni di altre fantasie... Non tutte queste sono novità; forse dadi alfabetici avevano già gli etruschi. E se i dadi, cubici o no, si lan­ ciano, si tirano, altri si fanno girare come trottoline 55

(frullini, girli), e qui si va indietro nei secoli. Dreidel, sevivon, pantalena, barralliccu... E poi, singolare «dado», plurale «dadi». Quanti dadi si usano? Due nel Gioco dell’Oca, tre nella zara. Ma ci vuole un’altra distinzione: giochi di dadi con tavoliere, come il Gioco dell’Oca, giochi di dadi senza tavoliere, come la zara. E le misure? Solo i bruti usano per il backgammon dadi che abbiano un lato superiore ai 5 mm. 6. Per le infinite distinzioni, quali sono i confini tra biglie e palle? tra biglie e bocce? Questioni di diametro? Sono biglie le palline giroscopiche (jet balls), che han dentro un meccanismo diverso da quello del dado-bi­ glia: sembra di vederle pattinare anziché rotolare. Anch’esse a doppio uso, vi sta incorporata una bussola. Questa fine di capitolo mi sembra la sede opportuna per tirar fuori dalla tasca l’antipalla (palla che va dove vuole lei, avendo un eccentrico metallico incorporato) e la antitrottola (che ha, per intenderci, una punta in basso, un manico in alto: e dopo pochi giri «normali» si capovolge, continuando a girare sul manico anziché sulla punta).

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8. Giocattoli guerreschi

1. Nel negozio di Ida Sello c’erano sia il «materiale didattico per asili infantili, scuole materne, giardini d’infanzia, case dei bambini» (quel materiale che figura ad esempio nel catalogo del 1931, §1.11) sia altra mer­ ce: fucilini, piccole spade e altri, come dire, giocattoli «bellici» - forse, meglio, giocattoli «guerreschi», che fa rima e opposizione con «donneschi». Sulle mie pagelle tra le materie d’insegnamento figuravano i «lavori don­ neschi e manuali». Vorrei evitare le discussioni, come se ne fanno anco­ ra (e come se ne sono fatte soprattutto attorno al 1968 da parte di femministe, genitori democratici et similia), sul Problema Del Valore di tali giocattoli. Vorrei piuttosto far mente locale. Il Bambino Di Una Volta viveva in mezzo alle armi più di quanto ci vivano i Bambini D ’Oggi. I soldati spesso marciavano per le vie delle città. Le città erano piene di caserme. I soldati erano in divisa anche durante la Libera Uscita. Nelle ore della Libera Uscita batteva le vie (non solo quelle off limits fiorite di bettole e bordelli: anche le passeggiate eleganti) la ronda: due soldati con l’elmetto ai lati di un ufficiale con fascia azzurra. (Nessun bambino che io conoscessi aveva elmetti o berretti militari fra i giocattoli, tranne Pino B. il quale in compenso ne aveva tanti da poterli distribuire a tutti gli ospiti quando i suoi genitori «organizzavano festic­ ciole»; solo i ricchissimi facevano cose del genere.) Chissà cosa avranno visto i miei coetanei in altre cit­ tà; nella mia città io al mezzogiorno della domenica ve57

devo gli ufficiali dei bersaglieri che prendevano l’aperi­ tivo e ridevano e scherzavano. Essi avevano mantellina azzurra e sciabola. Per chi vedeva sciabole in giro una sciabola aveva si­ gnificato diverso da quello che ha la sciabola per chi non ne ha mai visto una, e magari la confonde con la spada o con la baionetta - la quale non è il pugnale, e via e via. La Feldgendarmerie aveva baionette lunghe quasi come spade. Voglio dire che questi giocattoli di Ida Sello van visti con occhio da intenditore. Non bisognerebbe confon­ dere una pistola con una rivoltella, un fucile con un moschetto... 2. Questi giocattoli guerreschi non si contrappone­ vano al materiale didattico bensì lo integravano. Al sa­ bato pomeriggio pochi ragazzi evitavano, potevano evitare, erano spinti ad evitare di frequentare i Gruppi Rionali, dove facevano esercizi col moschetto anche i Figli della Lupa e i Balilla, che chiameremo Balilla Semplici per distinguerli dai Balilla Moschettieri (i quali si riconoscevano, anche se non avevano il mo­ schetto, per il tipo di guanti, «alla moschettiera», che giungevano a coprire mezzo avambraccio).

ta Sante Marangoni: «Fucile da caccia a due canne Italia. Spara senza cartucce e senza capsule producendo forte detonazione». 5. Vedo e riconosco spade e sciabole in legno e in metallo. Mi viene in mente una pagina di Bobi Bazlen (in Note senza testo, Adelphi, Milano 1970). Siamo nel 1909: Unapoetessa triestina, sul vaporetto di Grignano, dice a suof i ­ glio che ha buttato per terra la sua spada di legno: Dario, rac­ catta il brando. E una signora, grossa così e alta così (non esage­ ro) coi baffi, non me la dimenticherò mai, e che Diopossa nonper­ donarle. Io non dimenticherò mai una baionetta di latta, di gran lunga il giocattolo più importante della mia vita. Non lo ritrovo qui, ma qui me lo sono ricordato. La ri­ cerca del tempo perduto è già stata scritta, a noi tocca di trovare la ricetta della madeleine, e magari aprire una pa­ sticceria. Riconosco alcune pistole funzionanti a cartucce, al­ tre a palline di carta. Mancano le cartucce. Resto delu­ so, imbronciato. Speravo di andare al buio per sparare e vedere la fiammetta, riudire il piccolo ciack, risentire l’odore. Non lo risentirò mai più?

4. Il Moschetto Automatico Balilla della ditta Sante Marangoni aveva questa pubblicità: Premiato alla V Mostra del Giocattolo Italiano, Settembre 1929. La felicità dei bambini. Spara con la stessa rapidità e deto­ nazione diun veromoschettomilitare, senza cartucce esenza capsule. So che qualcuno proverà orrore. A me, animalista antiumanista, provoca orrore l’altro prodotto della dit-

6. Credo che tutti saranno d’accordo se registro fra i giocattoli guerreschi trombe e tamburi. Metterei qui anche certi terribili fischietti. Ai bambini l’uso dei fischietti era vietato. Se oggi il fischietto resta in dotazione agli arbitri sportivi, ai no­ stromi, ai vigili urbani, ai manifestanti-scioperanti, nei tempi felici il fischietto era in mano e in bocca a chi ci faceva fare ginnastica o ci comandava nei Gruppi Rio­ nali al sabato pomeriggio. Che ai bambini l’uso del fi­ schietto fosse vietato lo ricordo bene perché aveva un potente fischietto l’abito alla marinara confezionato per la mia cresima o la prima comunione: in cima a un

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3. Ho detto evitavano, potevano evitare, erano spin­ ti a evitare. Sono sfumature nostrane di quello che per la Germania Norbert Frei chiama «totalitarismo im­ perfetto» (Lo Stato nazista, Laterza, Bari 1992).

elegante cordoncino, nel taschino. Dopo la cerimonia venne tolto. Non si è mai saputo dove fosse finito. 7. In quel mondo senza inquinamento acustico la trasgressività del gioco puerile per via di rumore aveva forme autorizzate semel in anno come l’uso delle raga­ nelle nella Settimana Santa, a campane legate, ma aveva anche manifestazioni minuscole, tenui, come la tra­ sformazione della bicicletta in motocicletta mediante l’applicazione di un cartoncino (che picchiasse nei rag­ gi) alla forcella della bicicletta mediante una molletta di quelle per stendere il bucato. (Forse nella Settimana Santa si usava propriamente la bàttola; la raganella era un «giocattolo molesto» che poteva sostituire la bàttola. Non so. Giocattolo mole­ stissimo per adulti i clic-ciac o clackers: estate 1971.)

9. Soldatini

1. I bambini hanno (o avevano) due modi per imita­ re gli adulti giocando alla guerra: far finta di essere dei soldati o (con una finzione di secondo grado) adoperare dei soldatini. Per far finta di essere dei soldati si usavano i giocat­ toli guerreschi. Dei soldatini dobbiamo sbrigarci qui, adesso, ma questo nella storia dei giochi e dei giocattoli forse è il capitolo più complicato, più sterminato. Soldatini in legno dipinto già nell’Egitto dei Farao­ ni, soldatini di bronzo in una tomba della Carinzia, una decina di secoli avanti Cristo... Ma sono soldatini fatti per giocare o sono statuine fatte per altri scopi? (Analo­ gamente, certe piccole figure femminili sono bambole o oggetti di culto o strumenti di maleficio?) 2. I soldatini di antichità più ragionevole e destinati certamente al gioco erano «di piombo», ritagliati o fustellati in una lamina di piombo: soldatini piatti, bidi­ mensionali. Soldatini di questo tipo si trovano ancora dagli antiquari e ci giocano ancor oggi, per dirne una, i bambini del Perù. Io una volta avevo pensato di impor­ tare questi soldatini, dal Perù. Regalo l’idea a chi la vuole. Quanto a materiali, bisognerebbe intendersene e fare analisi chimiche. I soldatini di piombo, sono veramen­ te di piombo? (intendo l’elemento chimico che ha simbo­ lo Pb, numero atomico 82, peso atomico 207; ne sono noti in natura quattro isotopi). Piombo o stagno? Lo stagno, «l’argento dei poveri», più malleabile del piombo, raramente è usato allo stato puro. Se crediamo allo stagno il primo soldatino è un le-

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gionario romano trovato a Mayence e conservato al British Museum; poi si salta ai due cavalieri, prima me­ tà del XIV secolo, nella collezione Meyers a Bruxelles e al Museo di Cluny. Se crediamo al piombo, dobbiamo credere che il pa­ dre del soldatino di piombo su scala industriale, piatto, bidimensionale, sia stato a Norimberga, nella seconda metà del xvm secolo, Johann Gottfried Hilpert, men­ tre il padre del soldatino di piombo su scala industriale a tutto tondo sarebbe stato, a Dresda, prima del 1870, un Georg Heyde, fondatore della ditta Heyde che con­ tinuò la produzione fino alla seconda guerra mondiale. 3. Forse qualcuno queste storie le sa bene. Io dei libri che ho in casa non mi fido. Penso a «soldatini di piom­ bo» che certamente non erano di piombo. Maria de’ Medici regalò al figlio, Luigi xm re di Francia dall’età di nove anni, 300 soldatini d’argento. Più avanti negli anni Luigi xm i soldatini se li faceva da sé (ancora al giorno d’oggi c’è chi pratica questo tipo di bricolage). Il figlio di lui, Luigi xiv, arricchì la collezio­ ne di famiglia ricorrendo anche alle arti di un famoso ingegnere militare, il quale inventò dei meccanismi che permettevano ai soldatini di muoversi da sé. Soldatiniautomi erano già la delizia di Carlo v imperatore vec­ chione: opere quasi magiche di Giovanni (Janello, Juanelo) Torriano, Cremona 1500 ca. - Toledo 1575 (Ma­ rio G. Losano, Storie di automi, Einaudi, Torino 1990). Lo zar Pietro in aveva tanti soldatini che riempivano un grande salone; tutti i giorni li passava in rassegna, in divisa; dovevano mettersi in divisa anche gli ospiti che lo accompagnavano. Se siete sensibili al profumo del­ l’oppio dei popoli avvertite che qui si sta celebrando un rito. Per estirpare questi culti il trattato di Versailles proibirà alla Germania di fabbricare soldatini. Da varie fonti ho notizie contraddittorie sui soldati­ ni dorati con cui giocava l’Aiglon, sventurato figlio di 62

Napoleone, e sui soldatini di casa Leopardi, Recanati, con cui avrebbe potuto giocare quel bambino, più sventurato dell’Aiglon, se non avesse promesso al pa­ dre di non perder tempo a giocare come i ragazzacci, ma di studiare e null’altro, «entro dipinta gabbia». Stu­ dium potius quam ludus. 4. I grandi nemici di Napoleone, gli ufficiali usciti dalle accademie militari tedesche, avevano studiato strategia usando soldatini, giocando al Kriegspiel. Il testo più antico che si conosca sul Kriegspiel, con questa paro­ la nel titolo, è datato Praga 1770; il primo libro italiano sembra sia del 1844. Il momento sublime nella storia dei soldatini è il 1913 (vigilia della Grande Guerra), quando il roman­ ziere inglese Wells scrive Kittle Wars·, un manuale, anzi un trattato, sull’arte di giocare coi soldatini. Tradotto in italiano da Sergio Valzania, con alterazioni del cor­ redo iconografico (Sellerio, Palermo 1990). Su questa strada si arriva ai giochi di simulazione strategica (quelli complicatissimi, con caselle esagona­ li: wargames). Siamo a una data che gli storici di queste cose discutono se si debba collocare fra il 1953 e il 1962, o lì intorno. In questi giochi i soldatini non ci so­ no più, ma c’è chi usa soldatini anche nei giochi di si­ mulazione strategica. Queste terre sono in ebollizione. Sembrava che dovesse venir degradato chi usava anco­ ra soldatini; ora si distingue in modo asettico il settore dei giochi «tridimensionali» (Risiko, Axis and Allies e simili). Identico fenomeno sembra sia in corso nei gio­ chi di ruolo (rpg ) dove Hero Quest ha fatto rientrare dalla finestra i soldatini; in questo ambito i soldatini si chiamano «miniature», «figurine», «figurini». 5. Naturalmente queste miniature sono di plastica. Tutti i soldatini oggi sono di plastica. Solo nei negozi specializzati dei centri storici delle grandi città si vedo63

no ancora soldatini di piombo (e le attrezzature per fonderseli da sé). Nel negozio di Ida Sello c’erano già soldatini di ma­ teriali sintetici («in pasta») della tedesca Lineol, 1930. (Una descrizione di questa «pasta» si ha nel catalogo della mostra tenuta a Treviso nel 1992-93, Un esercitoper giocare. Due secoli di storia dei soldatini, autori Roberto Nannetti, Mike Naldi, Lucilla De Magistris, editore De Lu­ ca, Roma 1992. Se tra i materiali impastati - segatura di legno, caolino, farina, colla - prevaleva la segatura, i soldatini «in pasta» si potevano tarlare.) Un volantino di vent’anni dopo, 1951, dice: E liminate i vecchi e antiquati soldatini di stagno [sic!] e acqui­ state i bellissimi soldatini in polistirolo della Casa Editrice Car­ roccio. Magnifici nei colori e nellafinezza di incisione. Si vendono in scatola e sciolti. Articolo di sicura vendita. Rifornitevi! Aggiungo due notizie per dare un’idea della smisura­ tezza di questi territori. A Milano, Gianni Maiotti ha una collezione di soldatini italiani di cartapesta, e ne sta preparando un catalogo. A Modena c’è la sezione italia­ na (fondata nel 1968) della International Plastic Mo­ dellers Society (fondata nel 1964): soldatini, carriarma­ ti, camion ecc. di plastica. 6. E il momento per fare l’elogio dei soldatini di pla­ stica riassumendo una storia che racconta Scott Bradfield {Dream ofthe m lfi Knopf, New York 1990). C’era una volta un bambino con una mamma ricca bella e intelligente la quale faceva l’antiquario. Il bam­ bino vedeva i coetanei divertirsi con soldatini di plasti­ ca, che si vendevano in sacchetti a rete, quattro soldi mezzo chilo di soldatini, da giocarci per terra, nel fan­ go, nella ghiaia. Il bambino dice alla mamma: «Mam­ ma, vorrei anch’io quei soldatini lì». La mamma sorride. Per il compleanno del suo bambino la mamma gli re­ gala un cofanetto-vetrinetta contenente un soldatino di prodigiosa bellezza, antico ma in ottimo stato. Forse, 64

spiega la mamma, questo è uno dei primi lavori di Wil­ liam Britain. (Se conoscete la storia dei soldatini a sen­ tire «William Britain» vi viene un brivido erotico.) Anno per anno la mamma regala al bambino altri soldatini sempre più preziosi. Il bambino passa i pome­ riggi a guardarli, senza neanche tirarli fuori da cofanetti e vetrinette. Il finale della storia è tragico. Scott Bradfield lo racconta in un modo, voi potete immaginarlo in un altro. 7. Non so se siate disposti a capire la morale della fa­ vola. In un famoso quadro di Picasso un bambino gioca con un’automobilina: sta carponi, la guida con la ma­ no, a braccio teso. La mano è una morsa, il braccio è un manico di piccone, lo sguardo è truce. Il bambino vuo­ le spaccare la automobilina. «La cosa migliore che il bambino possa fare del suo giocattolo è romperlo» (Hegel). 8. Più vecchi dei soldatini di plastica, altri soldatini non-di-piombo erano nel negozio di Ida Sello. Primi fra tutti i soldatini di carta in fogli sciolti. Essi rientra­ no nel regno dei fogli di teatrini, pupazzi e presepi di cui non mi intendo. Ma una pagina del catalogo Cartoccino del 1929 rende evidente che questi soldatini venivano incollati su cartoncino, ritagliati e montati su piccole basi di cartone. Nella didascalia le operazioni prima (incollaggio su cartoncino) e terza (montaggio su piccola base) sono sottintese: Aviatori e corrazzieri [sic\ forti militi della sicurezza nazionale\intendi: 1. aviatori, 2. corazzieri, 3. MVSN]: suona l’attenti!! Un paio diforbici ha ritagliato ufficiali e sottoufficiali di ogni arma, ed armi ed armati si irrigidiscono nel proprio assetto di guerra o diparata, ciascuno nella brillante uniforme digala o nella rude divisa da campo. Ea scena si èpopolata sotto ripetuti colpi diforbici: il bambino assume il comando delleforze riunite del Cielo, del Mare e della Terra, lancia il suoproclama, epoi muove lefila... 65

Per evitare le tre operazioni di incollaggio ritaglio e montaggio erano in commercio soldatini su cartoncino (ditta Abbiati, 1920) o «in legno stampato con suppor­ to» (ditta Zöllner, 1924). Legno compensato, s’intende: «da traforo». 9. Il traforo, la sega da traforo, jig-saw, ci riporta al jig-sawpuzzle (§ 5.2). E qualcuno potrebbe chiedersi do­ ve trovavano i bambini d’un tempo tanta pazienza. Certamente mezzo secolo fa il tempo degli orologi inte­ riori e i tempi di tutti gli orologi erano più lenti, più lunghi. Sui frontoni triangolari delle stazioni (§ 10.11), sui campanili, ovunque. Ma chi ha visto bambini (o adulti) d’oggi dipingere i soldatini di plastica non si stu­ pisce. Recentemente a Milano la Ludoteca Ore Felici, di Luigi Jorno, ha organizzato corsi per «pittura minia­ ture». Alcuni dipingono soldatini di plastica quasi per mestiere: nei negozi specializzati si vedono soldatini di plastica (specialmente destinati a r p g ) dipinti a mano, a prezzi salati. 10. Nelle interviste l’intervistato dice cose che non aveva mai detto e quasi nemmeno pensato: qui sta la bravura dell’intervistatore. In un’intervista che mi ha fatto Paola Zanuttini vedo di aver dichiarato quanto se­ gue: Si dice che le bambine e i bambini sipreparino, giocando, all’età adulta. Erikson (Infanzia e società, Armando, Koma 1968) dice che l’uomogiocando vuole uscire dal mondo, il bambino ci vuole entrare - o vuolfarcelo entrare l’adulto, se è vero che il bambino nongioca bensì vienfatto giocare o lasciato giocare. Però lefemmi­ ne, dopo aver avuto bambole epentolini, diventano donne, figliano e cucinano. I maschi invece, dopo avergiocato alla guerraper tutta l’infanzia, oggi la guerra non la possonofare. Si sonfatte guerre dalla creazione delmondo al 1945, poi basta. I problemi sono due: trobriandizzazione del Pianeta, divisione dei ruoli. 66

Per trobriandizzazione del Pianeta si intende che dal 1945 ad oggi il Pianeta è diventato come le isole Trobriand sotto l’amministrazione britannica, la quale vie­ tò le guerre tribali e impose, come surrogato, il cricket (Tentori, Antropologia culturale, Studium, Roma 1960; nel 1954 Robert Sheckley aveva scritto Ea decima vitti­ mò). Io non c’entro, non so cosa farci. Non ho mai am­ mazzato nessuno ma ormai sono vecchio, pace dei sen­ si, zone erogene spente. Io c’entro, e so cosa dire a pro­ posito della divisione dei ruoli (separazione di ruoli maschili e femminili). Mi interesso a giocattoli guerre­ schi e soldatini nel negozio di Ida Sello, e non mi occu­ po delle bambole. Da piccolo facevo il bambino. Da grande ho assistito ad aste di bambole, dopocena, Mila­ no centro, ho visto le facce di chi si era aggiudicato questa o quella e voleva pagare subito per portarsela su­ bito a casa. E quando ho accennato a sfiorare questo ta­ sto ho sentito i lamenti delle collezioniste innocenti, che non vogliono si sospetti possibilità di infangamento per «quel mondo dipinto». Non mi occupo di bambole, e così il discorso non si apre nemmeno. 11.1 piccoli calciatori del Subbuteo sono soldatini con base convessa che si spostano a colpi di dito medio; base convessa appesantita come nel misirizzi che alcuni vocabolaristi confondono col bilbocchetto: mascalzoni!

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10. Giochi d i costruzioni

mette di raggiungere, con la paletta, con le mani, una sabbia così umida, così liquida (come la polenta ai pri­ mi pugni di farina nell’acqua del paiolo), che cola dalle dita e permette la costruzione di pinnacoli grumosi, gu­ glie bernoccolose. In vetta, una goccia per volta. Ter­ mine tecnico: castelli di sabbia.

1. La storia dei giochi di costruzioni si divide in quattro età: della pietra, del legno, del ferro e della pla­ stica. (La storia delle costruzioni in carta e cartoncino è tutt’altro discorso, che confina con arti diversissime: origami, kirigami, merletti di carta, forbicicchi, sil­ houettes.)

3. Stefano Benni (§ 2.5) ha trovato il nome scientifi­ co per questa specie estinta: puer pìrolinus, il bambino che «faceva i castelli con i pirolini di sabbia umida» fin­ ché «il bagnasciuga si ridusse a puro corridoio da pas­ seggio e la sabbia, mescolandosi col petrolio, divenne meno pirolinabile». «Pirolino» si trova su alcuni vocabolari. Diminutivo di «piròlo» (a casa mia si dice «pìrolo» e dicendolo si fa il gesto di una cosa che prilla o pirla tra i polpastrelli del pollice e dell’indice: come per avviare il girlo, che non è la trottola né il palèo).

2. Età dellapietra. È l’età della sabbia e dei sassi. L’in­ gegneria di ponti e strade mantiene un’importanza pri­ maria: costruzione di piste (per biglie) e di trincee (per soldatini). Quando il bambino di montagna o di pianura argil­ losa viene portato per la prima volta al mare (mare di spiaggia: nessuna persona di buon senso porta per la prima volta i bambini a un mare di scogli) non c’è sca­ paccione che possa fargli guardare le onde, le vele, l’o­ rizzonte e altri elementi di paesaggio letterario: il bam­ bino guarda per terra, scopre la sabbia. La scoperta della sabbia può avvenire in un cantiere. Anche il più modesto dei cantieri può dare gioie im­ mense ai bambini: basta il mucchio di sabbia sul piane­ rottolo per il rifacimento del pavimento in bagno. Associazioni mentali: molti, maturi o vecchi, a sentir «mare» pensano «secchiello e setaccio, paletta, rastrello e formine». Ida Sello aveva un assortimento di questi giocattoli da spiaggia in latta. La paletta poteva essere di due tipi: con manico in legno di 30 centimetri, o con impugnatura direttamente connessa al cucchiaio. Al mare, la buca scavata nella battigia o battima per68

4. Mentre guardo i giocattoli di Ida Sello risento sui polpastrelli la differenza tra la sabbia del Po e quella del Lido di Venezia. La differenza tra sale grosso e sale fi­ no. Anche i maschietti giocavano con le formine. Ai li­ velli alti della cucina stanno i cuochi, non le cuoche. Così dicasi per i pasticcieri. Giocare con la sabbia e con la terra si dice «pasticciare». In una intervista concessa a Antonio Debenedetti, pubblicata sul «Corriere della Sera» il 3 dicembre 1989, Natalia Ginzburg, parlando dei suoi giochi da bambina, ha detto cose strazianti: A Torino, davanti alla casa dei mìeigenitori in via Pastrengo, c’era un giardino. Cipassavo il tempogiocando con dei sassi e dei mucchietti di terra. In quei sassi e in quei mucchietti di terra vede­ vo delle storie e dellepersone. Ma pasticciare con terra e sabbia non è solo da cuo­ chi e pasticcieri, c’è la vocazione dell’ingegnere. L’a­ dulto si cava voglie restate insoddisfatte nell’infanzia quando costruisce muretti a secco modificando, nel suo piccolo, la superficie del pianeta. 69

5. Età dellegno. Rappresenta un notevole balzo tecno­ logico. Per costruzioni in legno il bambino usa legno o legna previamente lavorato o lavorata dall’adulto. Si va dalla costruzione di cataste di legna da ardere (col non­ no sull’aia, col babbo in cantina) alla costruzione di ca­ sette coi «cubetti per costruzioni» che si chiamano così anche quando non sono cubetti. Ida Sello ne aveva un bell’assortimento. Ma non sempre si giocava proprio con questi. Rocchetti (in legno) da filo, scatolette (in le­ gno) di svedesi. Qualsiasi tipo di scatoletta andava bene per le costruzioni, per arricchire l’assortimento della confezione di «cubetti per costruzioni». Anche certe scatole (in cartoncino o in latta) di medicine. 6. Avevo visto tante scatole di latta con la scritta Bioplastina Serono. Mezzo secolo dopo ne ho trovato a un mercatino (fate conto, Porta Portese o Senigaglia) una cesta piena. Ne ho comprata una, per pura nostal­ gia, e per leggere le indicazioni: «emulsione asettica di lecitina e luteine, estratte dal tuorlo d’uovo, in siero fi­ siologico; uso ipodermico; ogni scatola contiene 10 fia­ le». Ricordo su ricordo, l’infermiera massaggiava a lun­ go, a lungo, il gluteo, per evitare complicazioni, suppu­ razioni, frequenti, frequentissime. Una bambina che stava in via dei Tribunali n. 8 tene­ va in una scatola di Bioplastina Serono una collezione di carte da caramelle. E perché non l’ho mai fatta, io, una collezione di carte da caramelle? Era, la bambina, nipote di un vecchio con tre conno­ tazioni favolose. Barba a due punte, bianco-giallastra. Scarpa ortopedica montata su un soppalco di legno, co­ lonnine a tortiglioni, lucide. Cappello a larga tesa, an­ che in piena estate, tanto più singolare in quanto, vi­ vendo sul portone di una casa di via dei Tribunali sul lato sud, numeri pari, era sempre all’ombra. Dopo quella casa cominciava una breve discesa, sensibile an­ dando in bicicletta. 70

7. La bambina di via dei Tribunali 8 che colleziona­ va carte di caramelle in una scatola di Bioplastina Sero­ no può sembrare la divagazione più demenziale del pre­ sente libretto, ma mi sono accorto che l’avevo già inse­ rita in un altro libro vent’anni fa, dove stava ancor più a sproposito. Vi invito a riflettere se per caso non avete anche voi qualche scheletro analogo o omologo nell’armadio o nel subconscio. «Il recupero del proprio vissuto ludico» che si raccomanda ai ludotecari (§ 2.2) può avere sfu­ mature da autoanalisi. In Citizen Kane c’è uno slittino, c’è un carillon in quel western sui bambini dei visipalli­ di rubati in fasce dagli indiani e allevati come indiani. (Questo libretto, lo leggete per intero? Mi seguite in questo giro d’un museo di ricordi d’infanzia materializ­ zati, reificati? Se sì, perché vi appassiona? Avete vibra­ zioni di nostalgia? Vi sembra di essere infantili?) Libri sono stati scritti sul collezionismo, dicendone bene e dicendone male o malissimo. La bambina di via dei Tribunali 8 in una scatola di Bioplastina Serono te­ neva una collezione di carte di caramelle. Io non ripenso né alla bambina né alla scatola né alle carte e men che mai alle caramelle: io mi cruccio di non essere mai stato un collezionista. Forse il collezionismo sta alla base dell’archeologia e della storia; certamente chi studia giochi e giocattoli è un collezionista o un collezionista potenziale (manca­ to). C’è il torvo collezionista di bambole (§ 9.10), ci so­ no turpi panoplie di pennini (§ 11.6). Per fortuna ci sono libri solari, che fan bene alla salu­ te, come Giocattoli italiani in metallo 1908-1955 a cura di Guido Cecere e Dario Cimorelli, Electa, Milano 1992; Sogni di latta. Scatole litografate: 1890-1945 a cura di Dario Cimorelli e Guido Cecere, Electa, Milano 1990; La gio­ stra delle libellule di Giovanni Solaro, Libreria II Punto, Omegna 1992. 71

8. C’erano in giro pochissime scatole e scatolette. Le sigarette stavano in pacchettini di carta floscia. O si compravano sciolte. Solo da grande ho visto scatole da sigari in legno. Eccellenti «cubetti per costruzioni», sono i tasselli del domino. Per questo tanti domino sono scompleti. Con gli analoghi tasselli del Mah-jong, anche chi gioca seriamente davvero «costruisce la Grande Muraglia». Meno buoni per costruzioni i puzzle-cubi o cubi-puzzle (§5.7). 9. Se sto parlando di età del legno, vi aspetterete che io parli qui del traforo e delle confezioni di giocattoli dedicate al Piccolo Falegname e simili. Ida Sello aveva un assortimento anche di queste cose (con esclusione dei seghetti da traforo), ma io non voglio parlare qui di lavorazione del legno, come non voglio parlare di lavo­ razione della carta (§ 10.1). I giochi di costruzioni si fanno utilizzando materiali fabbricati altrove: il cantie­ re non è la fornace. 10. Chiudete gli occhi. Pensate al Quadrato del Quindici di Sam Loyd e al Cubo di Rubile. Riaprite gli occhi. Riposatevi. Richiudete gli occhi. Pensate al Fi­ letto e a Forza Quattro. Dovreste capire che certi gio­ chi passano da due a tre dimensioni. Adesso pensate ai polimìni o poliòmini di Salomon Golomb. Di solito ci si gioca con cartoncini. È un gio­ co (noioso) a due dimensioni. Un gioco affascinante è Cathedral, perché porta i polimìni a tre dimensioni, piazze e ponti al livello stradale, taverne e stalle a un piano, locande a due, e su su fino alle torri del castello e alla guglia della cattedrale. È un gioco romanzesco, con forte suggestione narrativa della città che si viene co­ struendo e affollando. Chi ha inventato Cathedral è un genio. Ma un bel colpo d’ingegno hanno avuto anche gli inventori di 72

Poliedra (Mureu & C. di Avenza ms), che han costruito polimìni a tre dimensioni (il monomìno è un cubo, e così via). Sono «cubetti per costruzioni». La qualità del palissandro e la lavorazione da liuteria ne fa strumenti di piacere. Poi c’è dentro la regola dei polimìni (mentre nei «cubetti per costruzioni» sbatacchia una sganghera­ ta «libertà»), 11. Le scatole di «cubetti per costruzioni» hanno ele­ menti triangolari che implicano frontoni da tempio greco o villa palladiana cioè da stazione ferroviaria con orologio (§ 9.8). Per stazione ferroviaria si intende l’e­ dificio archetipico delle Piazze d’Italia di Giorgio De Chirico. Se sfogliate attentamente Lesjouets de la poste di Hervé Coulaud e Sophie Nagiscarde (Maeght, Paris 1990) capite che la stazione ferroviaria e l’ufficio posta­ le sono l’esatto corrispettivo maschile della casa di bambola. Un altro libro, meno bello ma non meno importan­ te, è Hauklötze Staunen (Hirmer, München 1986; sotto il titolo sta un gioco di parole che sarebbe lungo da spie­ gare). Se anche non leggete il tedesco potete gustarlo perché è tutto di illustrazioni, si vedono bene i nomi degli inventori e dei produttori, e le date. Le date cru­ ciali son quelle che segnano il passaggio dall’età del le­ gno all’età del ferro. Son le date del vero Meccano con la M maiuscola e dei vari meccano con la m minuscola. 12. Fermiamoci un momento, un po’ di pedanteria è indispensabile. Avete mai guardato bene il vocabolario che consultate spesso? Contiene delle avvertenze. Per esempio lo Zingarelli dice: Questo vocabolario accoglie ancheparole che sono o si pretende siano marchi registrati senza che ciò implichi alcuna valutazione del loro reale statogiurìdico. Nei casi obiettivamente noti all’edito­ re, comunque, la voce reca la menzione «nome commerciale». 73

13. Età delferro. Il padre fondatore dell’età del ferro è l’inglese Frank Hornby (Liverpool 1863-1935) che nel 1901 brevetta un gioco di costruzioni con elementi me­ tallici, sotto il nome Mechanics Made Easy. La pro­ duzione comincia nel 1903. Nel 1906 o 1908 Frank Hornby ribattezza il gioco: Meccano. Questo Meccano lo scriviamo con la M iniziale maiuscola. Ben presto producono giochi analoghi al Meccano altre ditte: giochi che sempre tutti hanno chiamato meccano, nome comune con m iniziale minuscola. De­ finizione: giochi di costruzioni con elementi metallici. La maggior produttrice di meccano con la m minu­ scola è stata la ditta tedesca Märklin, fondata nel 1859 a Göppingen, dove ha sede tuttora. Meno fortunata è sta­ ta la ditta di Frank Hornby: il Meccano si è prodotto a Liverpool fino al 1979, poi lo stabilimento ha chiuso, 943 dipendenti licenziati. Da allora il Meccano si pro­ duce in Francia, a Calais, in poche migliaia di esemplari all’anno, destinati ad adulti, nostalgici collezionisti. (Ma vedremo più avanti che il Meccano avrà nuova vi­ ta col 1992, forse.) Ida Sello non aveva nessun Meccano ma aveva vari meccano (Märklin, Bral). Dal primo anteguerra agli anni fra le due guerre il vero Meccano (M) e i vari meccano (m) furono i giochi educativi per eccellenza della civiltà industriale. La ca­ sa madre di Liverpool pubblicava un organo ufficiale, «The Meccano Magazine», ma anche gli imitatori ave­ vano la loro buona stampa. Diceva una pubblicità Märklin: Sono innumerevoli i casi nei quali questi giochi di costruzione hanno svegliato dei talenti che sono stati seguiti da studi tecnici profondi, e coronati da successi brillanti; e se anche l’esito non è sempre stato di una conseguenza immediata, questigiochi sono stati l’origine di abilità e cognizioni che hanno avuto un’utilità pratica per tutta la vita. Un elogio del Meccano scrisse Primo Levi. In un’in74

tervista pubblicata sul «Corriere della Sera», nel citato numero del 3 dicembre 1989, Alberto Moravia, parlan­ do dei suoi giochi da bambino, cominciò il discorso co­ sì: «Ricordo il Meccano...». Senza Meccano casca gran parte del lavoro di Enrico Baj; egli ha fatto anche ma­ rionette di Meccano per una messa in scena dell’Ubu roi di Jarry. Siamo alla demitizzazione, se non alla polemi­ ca. Nettamente polemico è il messaggio dei Peanuts di Charles M. Schulz: Charlie Brown o Linus ο uno di quelli adopera il Meccano con tale fervore costruttivo che ci si chiude dentro, come Zi’ Dima nella Giara di Pirandello. Sia il vero Meccano di Liverpool, sia i vari meccano di origine diversa erano di prezzo elevato, erano desti­ nati ai figli degli ingegneri e ai futuri ingegneri (quando c’era un abisso fra ingegneri e geometri, e non si acce­ deva all’università se non con diplomi di maturità, classica o scientifica). I meccano Märklin, i più diffusi, erano divisi in serie graduate (come i libri della «Scala d’Oro» Utet). Si co­ minciava con la scatola numero zero, che insegnava l’uso di viti e dadi filettati (d’ottone! non ottonati! dadi esagonali piatti da un lato, leggermente convessi dal­ l’altro) per congiungere elementi metallici (di lamiera d’acciaio) bucherellati, verniciati a fuoco come le indi­ struttibili carrozzerie delle automobili di quegli anni fe­ lici. («Felici?» - sì, direi proprio felici, anche se io ero po­ co felice per varie ragioni, soprattutto perché avevo so­ lo tre o quattro volumi della «Scala d’Oro», e solo la scatola numero zero del meccano. Poi, cosa ho fatto per sfiorare una tardiva felicità? Ben poco. Ho comprato tutte le serie della «Scala d’Oro» e non le ho lette, e non le hanno lette i miei figli. Non ho comprato nessun meccano, del mio m’è rimasta solo la piccola chiave in­ glese, con la scritta Märklin, fievole feticcio; i miei figli non hanno desiderato il meccano, nessuno dei loro 75

compagni lo ha avuto: erano arrivati, come dirò, gli an­ ni del Lego.) (Vivo ormai in mezzo a una maggioranza di persone sempre più giovani di me, nate e cresciute in anni di be­ nessere, o come lo si voglia chiamare. Evocare fantasmi di minor benessere è pericoloso, ti espone al pericolo di esser definito lagnoso. Quanto a cartolerie, io negli an­ ni della seconda guerra mondiale, non avendo di me­ glio tra le mani, lessi i romanzi di Körmendi. In uno, il protagonista, residente a Budapest, città qui nominata, § 1.9, in anni di crisi successiva alla prima guerra mon­ diale, riceve lettere dal padre, restato a far il cartolaio in una lontana provincia che potrebbe essere la Transilvania, terra nota per i vampiri. Scrive il padre cartolaio transilvano al figlio, pressappoco: «Caro figlio, le cose vanno sempre peggio. L’anno scorso non abbiamo venduto un libro. Quest’anno non vendiamo neanche i quaderni».) Partendo dalla scatola numero zero, via via si arriva­ va fino alla scatola numero sei, crescendo la varietà e l’abbondanza delle «strisce» (sbarrette, piatte, a T, a V, a U, angolari) e delle «piastre» (rettangolari e trapezoi­ dali). Le une e le altre avevano fori equidistanti che permettevano di imbullonarle facilmente con le viti e i dadi di cui sopra. E poi c’erano putrelle, squadrette, al­ beri, manovelle, ruote, pulegge, carrucole, pignoni, ruote dentate, viti senza fine, nottolini, catene, canto­ nali doppi, ganci montacarichi, anelli d’arresto a vite, staffe di congiunzione, manicotti d’accoppiamento, ri­ vetti, ranelle... Se non li avevi nella tua scatola, il libret­ to te li faceva vedere e desiderando, sognando, ti entra­ va nel sangue la differenza fra squadrette e staffe. Non si trattava di imparare parole: si imparava che c’erano certe cose, che servivano ad usi precisi (e si chiamavano così, e non cosà). Il libretto della Märklin era meglio della vetrina del ferramenta. Veniva letto e riletto, tra i libri di casa, pochi e non sempre riletti. 76

Dallo zero al sei le scatole erano sempre più ricche (questa è la parola). Arrivavano a comprendere moto­ rini a molla, o elettrici a bassa tensione, e piccole mac­ chine a vapore. Forse, piccoli motori a scoppio. Io que­ sti non li ho mai visti perché non potevano permetter­ seli nemmeno i genitori più ricchi della mia piccola, ricca città. (Che il meccano della Märklin arrivasse fino al 6 è certo; forse il vero Meccano di Liverpool andava più in su. Credo di aver visto un numero dieci, in scatola di le­ gno, con tanti cassettini, un piccolo comò. Se non l’ho visto me lo sarò sognato. Guarda che roba va a sognare la gente.) 14. Età della plastica. Per le generazioni del secondo dopoguerra il Meccano è stato sostituito dal Lego, gio­ co di costruzioni con elementi in plastica, che non fun­ ziona con viti e bulloni bensì a incastro. Siamo alla quarta età, siamo alla fine della nostra storia. Il Lego fu inventato e perfezionato dal danese Ole Kirk Kristiansen negli anni ’50, in quella città di Billund oggi famosa come sede di un parco-giochi chia­ mato Legoland... Nel negozio di Ida Sello non sono rimaste confezioni di Lego, bensì imitazioni del Lego, diffusissime al gior­ no d’oggi. Noi abbiamo una novità, per la cronaca. Dal 1992 il marchio Meccano è entrato a far parte del gruppo Ha­ sbro (con MB, Parker ecc.). E preannunciato un grande rilancio del Meccano. Mentre scrivo sono in commer­ cio scatole col vecchio logotipo e scatole col logotipo nuovo (che tra l’altro sostituisce alla E tre lineette oriz­ zontali). La linea Junior ha pezzi in plastica, flessibili, compatibili con quelli classici, in metallo. Chi vivrà vedrà se il Meccano, dopo quarant’anni, si prenderà la rivincità sul Lego. Metallo contro plastica. Irrecuperabile il legno. (Bello ma di scarso successo 77

il Baufix della ditta Morenz di Geretsried: un meccano tutto in legno, viti comprese.) E la pietra? Pietra niente, laterizi semmai. Due ditte spagnole, la Construmin e la Domus, fanno una specie di Lego con mattoncini in terracotta. Si uniscono o con una colla o con un vero cemento in sacchettini con cazzuolina. Una volta fatta, la costruzione non si può smontare. Irrecuperabile il legno? e la pietra niente? Niente: dal presente § 14 non si può tornare al § 2, Età dellapietra, né al § 5, Età dellegno. Indietro non si tor­ na. Non si può disinventare questo ed altro. 15. Non c’è solo la Meccano che rifa in plastica i suoi modelli, originariamente in metallo. C’è anche la Lego che, oltre ai mattoncini classici, Lego a incastro, fa anche modelli nuovi, rielaborando in plastica mo­ delli di ascendenza Meccano o meccano. Guardate il catalogo 1992 della Lego Dacia, materia­ le didattico per scienze, tecnica e informatica. Sembra veramente roba da anni ’90, mentre tutto ciò che è Meccano o meccano conserva una puzzina ottocentesca (o un profumo). 16. Una volta, con i soldatini, ilfuciletto e altrigiocattoli bel­ lici, erano diffusi il meccano, il traforo, ilpiccolo aggiustatore, ov­ vio complemento deiprimi secondo la pedagogia delle classi domi­ nanti ancora non disgiunta dalprofitto. Non so se sono d’accordo con questa frase di Pier­ giorgio Bellocchio (Eventualmente, Rizzoli, Milano 1993). Credo di capire che pensi: una volta la pedagogia non era disgiunta dal profitto, mentre oggi la pedagogia è disgiunta dal profitto, il mercato va da una parte men­ tre la pedagogia va dall’altra, c’è contraddizione nelle cartolerie, le ditte producono giochi che i pedagogisti giudicano diseducativi. Giudicano? dovrebbero giudicare? La poca esperien78

za che ho di scuole e di insegnanti mi porta a credere che non sappiano più cosa vogliono, la contraddizione non è nelle cartolerie: è nella scuola, tra «Bene (?)» e «Male (?)». Vi scodello un minestrone di esempi, prendendola alla larga, da quella sorella della pedagogia che è la die­ tetica. Leggete di corsa, controllando se prendete posizione istintiva per il sì o per il no almeno una volta. Può an­ che darsi che vi vada bene tutto e il contrario di tutto. Pronti? Via! Non bisogna mangiare pane, il pane fa benissi­ mo, ci vuole la carne almeno una volta al giorno, la car­ ne è letale, chi ama il cioccolato è un suicida, il ciocco­ lato combatte il colesterolo, il gioco va riservato all’ora di ricreazione, il gioco deve permeare tutti gli insegnamenti, il gioco è regola da rispettare al limite del milita­ resco, il gioco è libertà, creatività, attività destrutturata, il gioco è aggressività da sfogare, il gioco è noncompeti­ tivo, bisogna distinguere i ruoli, i giochi devono essere unisex, il bambino se gioca con le bambole diventa gay, se gioca con Bigjim diventa fascista, via il Mostro Ver­ de, viva lo Slime, la Tv uccide, il computer è manna, videogiochi = vitamina del cervello, Nintendo = epi­ lessia, Mazinga è il nemico, Goldrake è il complemento dialettico di Heidi, la casa di bambola è gemütlich, gli accessori di Barbie avviano alla carriera di cali-girl.

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11. Pennini & C.

1. Si potrebbe dire che certi materiali per le scuole stavano nel negozio di Ida Sello ma non hanno a che fa­ re col gioco, non sono giocattoli. Una risposta estremistica, aggressiva, potrebbe con­ sistere nel dire che il gioco è una sfera d’attività amplis­ sima, che abbraccia più cose di quante non immagini la Vostra Filosofia. (Chi si occupa di questi «problemi» a volte distingue toys e play-things. Già nella Enciclopédie de la Pléiade, volume Jeux et sports a cura di Caillots, anno 1967, Roger Pinon sottolineava la relatività del concet­ to di giocattolo. Nel 1992 finalmente Rainer Buland ha detto bene che non bisogna star a definire neanche il concetto di «gioco»; per capire qualcosa di giochi bisogna raggrupparli per «famiglie» - direbbe Wittgenstein - e analizzare le rassomiglianze. Vedi il secondo volu­ me degli atti dell’Istituto salisburghese, § 2.11.) Per l’addestramento dei cuccioli ai ruoli dell’adulto spade e fucilini toccavano al maschietto, bambole e pentolini toccavano alla femminuccia, e ad entrambi toccavano istruzione obbligatoria, quaderni, pennini, matite, astucci, cartelle... In ogni caso giocattoli e «cancelleria» stavano insie­ me, nel negozio. Non solo nel negozio di Ida Sello: in tutti i negozi che trattavano questi «articoli»: le cartole­ rie. Non so cosa succeda oggi. Ma voglio testimoniare che, se riusciva a entrare in una cartoleria, il Bambino D ’Una Volta sognava e desiderava, si struggeva non so­ lo per i «veri giocattoli», ma anche per quaderni, penni­ ni, matite, astucci, cartelle... 80

2. L’astuccio conteneva il bottino più raro. Sto fa­ cendo un discorso da vecchio, e uso «bottino» non nel senso di «preda» ma nel senso di «bagaglio o equipag­ giamento». Posso mettermi a cantare: «sotto il mio bot­ tino...» (l’aria di Lili Marlen la sapete tutti). Un’aria che forse non avete sentito: «le giberne e il tascapan / la borraccia e il cinturin / la rassegna del bottin...». Usi impropri: «e le giberne / che noi portiamo / son portacicche / di noi soldà» (questa terza aria forse l’avete sentita: «e tu biondina / capricciosa garibaldina / trullallà/ tu sei la stella/ di noi soldà»). Quando la conversazione langue, tra vecchi io chie­ do: avevi l’astuccio di legno (a coperchio scorrevole) o di similpelle? Si apre il rubinetto dei ricordi, uno sciac­ quone. L’astuccio di legno fu proibito perché serviva a far casino picchiandolo tutti sul banco. Si poteva dare in testa al compagno davanti. Contenuto essenziale dell’astuccio: cannuccia, pen­ nini nel portapennini, matita, gomma. 3. La gomma poteva essere doppia: gomma della matita, giallastra, per cancellare disegni o scritte a mati­ ta, gomma della penna, grigiastra, per cancellare quel che s’era scritto con la penna. Rischioso: si poteva fare un buco nella carta del quaderno. Buco garantito se si bagnava la gomma con la saliva. Ai bambini del Patro­ nato, faccette patibolari predestinate al Riformatorio, niente gomma della penna. (Sarà stato una quindicina di anni fa che arrivò an­ che in Italia la mania di far collezione di gomme per cancellare, erasers. Naturalmente le fabbricavano appo­ sta, forme colori profumi bislacchi. Non servivano per cancellare. Bel fatto, perché la prima applicazione di largo interesse industriale della gomma fu proprio que­ sta povera gomma per cancellare: Joseph Priestley, 1770.) 81

4. Non sempre stava nell’astuccio il nettapenne o sugapenne, generalmente fatto in casa: dischi di panno sovrapposti, bottone al centro. Serviva per asciugare il pennino, finito di scrivere, o per pulire il pennino, quando usciva dal calamaio portando con sé una mosca o altro. Altri accessori opzionali (ma «opzionale» è parola datata al 1963): salvapunte, allungamatite; dalla classe quarta in poi compasso (ma spesso il compasso stava nella scatola del compasso: secondo astuccio); non an­ cora il goniometro; righelli e squadre in fondo alla car­ tella. Riga da 50 cm infilata sotto il manico della cartel­ la (cfr. spada di legno, § 8.3). Pastelli: scatolina da 6, lunghi 8 centimetri, abisso della miseria. Dramma all’acme per fare la punta alla matita, e peg­ gio che mai ai pastelli. Qualche vocabolario registra «appuntalapis», sinonimo di «temperamatite», e descri­ ve quello con foro conico. Costava meno, si usava di più, quello «a ghigliottina» con lametta inserita in un supporto a U. 5. Nei pochi momenti solenni dei regali, per il bam­ bino c’erano Regali Veri e ahimè Regali Utili. Scarpe e vestiti erano Regali Utili. Graditi, ma senza musica, muti. Al Valentino del Pascoli regalano il vestito ma non le scarpe. Delle scarpe Valentino non si cura. In una canzone del peggior Jannacci (che non è poi peggio del Pascoli) il padre dice al figlio, in milanese: «a te ti compro le scarpe». Di vestito non si parla. Quel bambi­ no milanese del vestito non si cura. Il Bambino D ’Una Volta non si curava né delle scarpe né dei vestiti, né di alcun Regalo Utile. Regali Veri erano spade e fucilini, bambole e pento­ lini. Quaderni, pennini, matite, astucci, cartelle, erano Regali Utili o Regali Veri? Per qualche bambino lombrosianamente cattivo for82

se quaderni pennini matite astucci erano Regali Utili, forse. Ma per i bambini buoni, detti anche Bravi Bambini, quaderni pennini matite astucci cartelle erano Regali Veri. Il Primo Giorno Di Scuola, e soprattutto il Primissi­ mo Giorno Di Scuola, nella prima classe delle elemen­ tari, era più bello che non il Natale (o la Befana, o San Nicola, o Santa Lucia, a seconda dei luoghi). Io ricordo ancora l’odore della mia prima cartella (che non era di pelle). 6. Fermiamoci a parlare del pennino. Se la cartella e l’astuccio sono da vedere come uno zoo di animali eso­ tici e rari (soppiantati da zainetti variopinti e borsettine porta-cosmetici), il pennino è la bestia in via di estin­ zione, se non la specie estinta. Spiegare un pennino sarebbe come spiegare un’a­ migdala. Far scrivere un bambino d’oggi col pennino inastato sulla cannuccia sarebbe una fra le prove più stranianti. La piccola cavia dovrebbe sedere in un ban­ co che abbia al posto giusto un buco, e nel buco ci do­ vrebbe stare un calamaio di ferro, e dovrebbe arrivare il bidello coll’ampolla dell’inchiostro a riempire o rab­ boccare il calamaio. Che poi dal calamaio si peschino palline di carta assorbente, potrà sembrare ovvio. Me­ no ovvio forse sembrerebbe il fatto che in tutti i cala­ mai di tutti i banchi ci fosse qualche mosca morta. Ma il mondo dei Bambini D’Una Volta era pieno di mosche. Bisognerebbe saper dire quando è morto il pennino. Ci saranno state circolari dei Direttori Didattici che proibivano l’uso di pennino e cannuccia, quando già molte maestre avranno tollerato che i bambini usassero la biro. Date diverse per zone diverse. Secondo i dizionari etimologici la parola «biro» è del 1948. Le cose vengono prima delle parole, una biro credo di averla vista prima del ’48, nel ’49 certamente 83

una biro l’avevo anch’io, me ne ricordo perché ogni tanto le biro perdevano inchiostro, facevano macchie, tra le mani di un grande, più terribili di quelle che face­ va il pennino tra le mani di un bambino. Più tardi ven­ ne il permesso di compilare con la biro gli assegni ban­ cari, di far firma in biro su documenti ufficiali. Il pen­ narello vien più tardi ancora; secondo i dizionari eti­ mologici la parola «pennarello» è del 1970. Incerta la data, certa la morte, il pennino non s’usa più, sui pennini si scrivono libri (J.P. Lacroux, L. Van Cleem, II pennino, Ulisse edizioni, Torino 1988), coi pennini si fanno panoplie sotto vetro, i collezionisti di pennini sono visti con diffidenza, però, appunto, ci sono. (È stato scritto che il pennino è un’arma bianca. I fratelli del pennino che servono per fare quelle silogra­ fie su linoleum che si chiamano linoleografie sono at­ trezzi da chirurgo o da callista. I cugini dei pennini che si chiamano sgarzini sono strumenti di tortura. Di Céli­ ne, non leggete Rigodon.)

sta.) Nell’autunno del 1992 è uscito il primo numero di una rivista eccellente, «Calligrafia» (Stampa Alternati­ va, Roma). 8. Chi (senza temere di essere visto con diffidenza) può passare il tempo che ci vuole a rovistare nei cassetti dei pennini di Ida Sello non solo trova tanti pennini di tanti tipi, ma trova anche campionari e pubblicità che aiutano a classificare i tipi di pennini, ad applicare i no­ mi tecnici corretti, a riconoscere le marche più o meno famose. Ma se è morto verso il 1960, il pennino, quando era nato? Ancora Alessandro Manzoni (1785-18 73) scriveva con penna d’oca (anzi, di «pollo della Cocincina»). Secondo i dizionari etimologici la parola «pennino» è registrata per la prima volta nel 1871: «piccola lamina metallica, opportunamente sagomata per scrivere, in­ nestata al cannello della penna» (Tommaseo-Bellini).

7. I pennini li usa ancora chi vuol fare della calligrafia. Il gusto di scrivere secondo certi principi di calligra­ fia che nelle scuole non s’usano più (bestialità senza fondo) è una scheggia di costume che compare nel 1976 in un romanzo di John Irving, The world according to Garp, tradotto da Bompiani nel 1979: L·a calligrafia sul questionano era settecentesca, di quelle che si possono ottenere solo con unapenna speciale. (Penna o pennino? Pennino.) Le prime buste con indirizzo calligrafico (e, va da sé, con inchiostri di colori inconsueti) ricordo perfetta­ mente di averle viste nel 1977, venivano dagli usa. In Italia ancor oggi sono rare. Ricevo almeno sei lettere al giorno, dai miei lettori, che hanno un tasso di snobi­ smo superiore alla media, ma le lettere con indirizzo calligrafico saranno tre all’anno, a dir tanto. (Due al­ l’anno quelle sigillate con ceralacca, o con chiudibu-

9. Forse nessuno più legge e mai più nessuno leggerà le opere di Riccardo Bacchelli (1891-1986). Quando non sapevamo occuparci d’altro, coltivavamo la leg­ genda di come scriveva Bacchelli. Sedendo al tavolo di lavoro indossa una vestaglia rosso-scuro. Y urna come un turco. Ha cominciato a tredici anni: non di nasco­ sto: chiedendopermesso alpadre. Yuma tabacco nero arrotolandosi le sigarette con le cartine. Nelfar ciò è abilissimo. Usa cannucce d’argento sottili, scegliendole da un portapenne a forma di cane bassotto. Sulle cannucce infilza pennini inglesi, marca Perry, nu­ mero 27. Nel secondo dopoguerra, sottogli assalti delle biro, Bac­ chelli comincerà a trovarsi in strettezze. Comprerà tutte le scatole dipennini rimaste al cartolaio Pineider di Firenze. Sparsasi la no­ tizia, da ogni parte d’Italia arriveranno scatole e pacchettini di Perry 27, omaggio di lettori e ammiratrici. Versoti 1960, facen­ do i conti a spanne, Bacchelli calcolerà dì averpennini abbastanza per tre decenni ancora. Il Perry 27 è un pennino tipo Cavallotti, «a cucchiaio conpallina», corrispondente al Presbìtero 017 opiut­ tosto al Presbìtero 717 EF.

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Ancor oggi usa pennini Luigi Meneghello, e preferi­ sce gli Attorney ('Libera nos a Malo, Mondadori, Milano 1986, pp. 246,310). Nelle scuole che frequentavo io si usava dalla prima alla terza elementare la «lancetta bronzata», dalla quarta alla quinta la «Lombardia bianco lucido» (il «Cavallot­ ti» era bianco opaco); con la scuola media si passava alla stilografica. (Vedo adulti che usano stilografiche costo­ sissime, d’antiquariato, restaurate in gioielleria. Son contento che le perdano.) Erano vietati i pennini di fantasia come la «torre» (Eiffel), prodotta anche dalla Presbìtero, o la «manina» e il «Pinocchio», d’altre marche. 10. E la matita? il lapis? (Lapis). È nata prima del pennino, e C’è ancora. I dizionari etimologici racconta­ no storie complesse, ma la parola «lapis» è già in Leo­ nardo da Vinci, prima del 1519. La parola «matita» è già in Ludovico Ariosto, prima del 1553. Drammi del­ l’infanzia povera, matite con la mina troppo dura. Ma non parliamo sempre di miserie, solleviamo il morale (nazionale) con una pubblicità della Presbìtero, «La Domenica del Corriere», 5-12 febbraio 1922: Industriali commercianti direttori d’aziende ingegneri disegna­ tori amministrazionipubbliche e private insegnanti studenti im­ piegatipreferite tutti la matita nazionale Presbìtero la movagran marca italiana perfetta conveniente sostituisce vittoriosamente le migliori marche importate dall’estero. In questo febbraio 1922 non c’è ancora l’immagine dell’uomo con tante matite infilzate nella testa, che di­ verrà famosa; io l’ho sentito dire, «uoèi, presbìtero» a uno spettinato coi capelli dritti. Mancano otto mesi alla Marcia su Roma. Passano due mesi. Fiera Campionaria di Milano. 13 aprile 1922. S[ua] M ae­ stà] il Re [Vittorio Emmanuele III], visitando il nostro Stand, pronunziava queste parole: «lo adopero già da tempo la matita Presbìtero e la trovo ottima e scorrevole». Passano dieci anni. 86

19 aprile 1932. S.M. il Re, nuovamente cifa l’alto onore di una Sua visita al nostro Stand epronunzia questeparole: «Conosco la matita Presbìtero. È finita molto bene, verniciata molto bene. E una ottima matita». 11. Una creatura in più chiaro equilibrio fra la scuo­ la e il gioco: l’alfabetiere. Ha scritto Walter Benjamin: Nulla di ciò che mifu intorno nell’infanzia mi suscitapiù co­ cente nostalgìa dell’alfabetiere. Era uno stipetto che conteneva, im­ presse supiccoli tasselli, le lettere dell’alfabeto, che eranopiù deli­ cate ed anzi più civettuole di quelle stampate. Esse si coricavano agilmente sull’obliquo giaciglio, ciascuna in sé conchìusa, e tutte sottomesse, nella loro ordinata sequenza, algenio della loro specie: laparola, cui venivano ad appartenere come tessere di un mosaico. Io mi meravigliavo come tanta umiltà potesse sposarsi a tanta grandezza. Era uno stato digrazia. E la mia mano, che reverente cercava di inserirvisi, non lo raggiungeva. Doveva starsenefuori co­ me il guardiano che deve lasciarpassaregli eletti. Così il suo rap­ porto con le letterefu pieno difrustrazione. La nostalgia che Γal­ fabetiere mi risveglia mostra quanto esso sia stato turi’uno con la mia infanzia. È questa che vi cerco in realtà: tutta la mia infan­ zia, condensata nelgesto col quale la mano inseriva le lettere nella scanalatura in cui esse si allineavano. La manopuò ancora sognar­ lo, ma mai ritrovarlo, mai ripeterlo con uguale verità. Allo stesso modo unopuò sognare come ha imparato a camminare. Ma invano. Adesso sa camminare, imparare a camminare non può farlo più (Infanzia berlinese). Guardando gli alfabetieri di Ida Sello noi sognamo come abbiamo imparato a camminare. 12. E i libri? Il mondo era nettamente diviso in due. I libri di studio. I libri di amena lettura; di questi non mi occupo. Quanto ai libri di studio, Ida Sello non teneva libri di testo, i «libri di Stato» della Libreria dello Stato (stam­ pati in opulento monopolio da Arnoldo Mondadori); mi dicono fossero in vendita solo nelle vere librerie, 87

non so; però Ida Sello aveva un largo assortimento di opuscoli parascolastici. Desidero ricordare la «Collana di manualetti pratici ad uso degli aspiranti a modeste carriere» pubblicata da una «Casa Editrice Nuova Italia - Milano» che presumo non avesse a che fare con La Nuova Italia di Firenze. Fra gli opuscoli parascolastici saranno da studiare vari abbecedari e sillabari. Non è facile fissare le date in cui entrano in vigore e muoiono (a seconda dei pro­ grammi ministeriali e delle tradizioni locali) i diversi metodi didattici sottesi all’uso dell’abbecedario e del sillabario, che per noi sono sinonimi come frate e mo­ naco, tasse e imposte, trottola e palèo. Certi libretti in­ titolati L ’A B C sono abbecedari, ma potevano essere usati anche in parallelo ai sillabari. Alcuni abbecedari e sillabari sono da colorare o da ritagliare. S’intende che un abbecedario da colorare è sempre un abbecedario figurato. Che la B fosse Balilla è nel ricordo di tutti, ma ciascu­ no ha ricordi personali. Per me ad esempio la E è l’ini­ ziale di Elena, è una E corsiva maiuscola elegantissima su fondo blu, blu Savoia, e reca in capo una corona d’o­ ro. Forse voi non avete ancora indovinato che Elena sia questa. È Elena di Savoia regina d’Italia, nata a Cettigne nel 1871. Voi forse non sapete neanche che Cettigne è in Montenegro, patria di Nero Wolfe. Io sapevo, e mi spiace averlo dimenticato, il mese e il giorno in cui era nata la regina della E, perché a scuola in quell’occa­ sione si faceva qualche dettato o qualche pensierino per il suo compleanno, ma il compleanno dei grandi perso­ naggi si chiamava genetliaco. Un abbecedario da ritagliare, una volta ritagliato, co­ stituisce un alfabetiere. Su scatole diverse nel negozio di Ida Sello troviamo diciture leggermente diverse: «alfa­ betiere a lettere mobili, alfabetiere mobile, alfabeto mobile, alfabeto scomponibile». Ci sono alfabetieri in cartoncino che s’apparentano a tangram e puzzle, ci so­ no alfabetieri su cubetti di legno. 88

13. Ovviamente alfabetieri, abbecedari e sillabari so­ no basati all’italiana sull’alfabeto di 21 lettere. Ancora al giorno d’oggi la maggioranza degli italòfoni alfabe­ tizzati non sanno dove caschino, nell’ordine alfabetico, J, K, W, X, Y. È tutto bello YAlfabeto mobilefigurato di Rina Paltrinieri Breda (Antonio Vallardi, Milano 1933). (Qui «mobile» indica una caratteristica da libro animato: con linguette, parti di pagina scorrono all’in­ terno di pagine doppie, comparendo e scomparendo da finestrelle. Il libro animato è un libro-giocattolo, che non è il libro-gioco o libro-game o game-book.) Le lettere J, K, W, X, Y sono rappresentate come personaggi loschi affacciati dal mento in su dietro una paratia di assi robuste, senza fessure. Dice la didasca­ lia: Stannofuor dalla steccata quei signori alquanto strani ritrovarli noipotremo negli studi di domani. Non vi sfugga una finezza: sia nella didascalia, sia nella finestrella queste cinque lettere, che seguono la Z, sono presentate nella successione K, W, X, Y, J. Qui il discorso da fare sarebbe doppio. Primo. Alcuni insegnanti, autori di libri di testo, so­ no o erano ignoranti. Rina Paltrinieri Breda non sape­ va l’ordine alfabetico, come Francesco Saverio De Dominicis (1846-1930: è sulle enciclopedie, con la qualifi­ ca di «pedagogista») non sapeva le possibili combina­ zioni tra suoni e lettere. Secondo. Alcuni insegnanti, autori di libri di testo, sono malvagi. Cito da un’intervista che mi ha fatto Cor­ rado Stajano, apparsa sul «Corriere della Sera» il 6 mar­ zo 1988: Ogni tanto c’è qualchefesso che ironisez#, sui libri scolastici del tempo delfascismo, pieni difrasi propagandistiche insensate: che 89

corrispondono però alle frasi dei tempi di Maria Teresa e di re Umberto. Il libro delle scuole elementari convoglia sempre al mini­ mo livello i principi della società che costringe il bambino allo stu­ dio. Non c’è requieperi cuccioli degli antropoidi, istupiditi da se­ coli in modi sostanzialmente immutati. Posso recitarefrasi di cui conoscolafonte, alcune sono dei mìei libri delle elementari, altre so­ no di tante generazioniprima. «Mio aiofumava». «Ilguerriero brandisce l’acciaro». «Cesare amò lagloria, i contadini amano lagleba». «Ilmaiale non rumina». «Ignazio beve la magnesia». «Il ciecogiace sul letto négiovano a lui legiuggiole che il dottore ingiunge». 14. Ultimissime sull’alfabetiere. Le sue incarnazioni (avatar) possono essere molteplici. Quella classica, alla Benjamin, ha due elementi: cartoncini, piccolo leggio (obliquo giaciglio scanalato). Dei giochi che sono in commercio, o lo sono stati negli ultimi lustri, hanno cartoncini Lexicon, Can-U-Go ecc.; hanno leggìi Scrabble-Scarabeo ecc. La presenza simultanea dei due elementi è rara: per esempio nella prima veste del Probe. Per l’alfabetiere Benjamin tende a una sinestesia visivo-tattile, mentre il sonetto Voyelles di Rimbaud sembra tendere a una sinestesia acustico-cromatica. Da qualche parte ho letto che è stato ritrovato un sillabario di quei tempi, in cui le vocali avevano esattamente quei colori, una per una. Allora la sinestesia non c’entra.

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12. Ieri e oggi

Tutti i discorsi e i mugugni di questo libretto nasco­ no sotto il segno dell’archeologia; qualche volta arriva­ no a un simulacro di storia; la quale a volte sfiora l’at­ tualità. Non sono una persona seria e non mi occupo seria­ mente di giochi. Me ne occupo spesso, da una trentina d’anni, con rubriche che ho tenuto sul vecchio «Linus», tra i Wutki di Sergio Morando, e poi, con un ritmo set­ timanale sino ad oggi ininterrotto, su «l’Espresso», «L’Europeo», «La Stampa»; dal 16 ottobre dell’87 su «Il Venerdì di Repubblica». In queste rubriche mi tocca parlare di giochi nuovi e di progetti di giochi. Per i giochi nuovi, ne ho visti venire alla luce tanti, la produzione di giochi non è meno inflazionata di quella dei libri. Ho visto nascere e morire il Master Mind e il Cubo di Rubile; ho visto nascere d &d e rpg , per ora tengono duro; ho visto morire giochi a mio av­ viso eccellenti come Can’t Stop e Blitz; anche i becchini si stancano, sognano il rogo (sono iscritto alla Socrem, Società per la Cremazione dei Cadaveri, mentre invece un bravo archeologo, buon storico, tende ai sepolcri di tipo foscoliano). Sui progetti di giochi ho idee oscillanti. A volte pen­ so e scrivo: avete un gioco nel cassetto? vergognatevi, tanto vale avere un manoscritto nel cassetto. A volte penso e scrivo: chi ama i giochi, tanto gioca che inventa giochi nuovi (le storie dei giochi che conosciamo sono prevalentemente storie di varianti), e li gioca in compa­ gnia, e si diverte, e ha l’impressione che si divertano an91

che gli amici-cavia, e vorrebbe pubblicare quel gioco. Che fare? Inventare un gioco è una gran bella cosa. Aver voglia di farlo giocare agli altri è un pensiero allegro, genero­ so. Far divertire gli altri, quando ci siamo divertiti noi, è meglio che amare il Prossimo, la Patria, il Progresso. Volerlo vedere Pubblicato, Pubblicizzato, Pagato e Premiato è un altro paio di maniche. Sono stato presi­ dente della giuria per il Premio Gioco Dell’Anno, pre­ sidente della giuria per il Premio Giochi Nel Cassetto, tra i presidenti della laag (Libera Accademia degli Au­ tori di Giochi). Certe cose le so. La Ravensburger rice­ ve ogni anno molte centinaia di Progetti, Proposte, Prototipi, ma, primo, la Ravensburger produce solo 10-15 giochi nuovi all’anno; secondo, i giochi Ravensburger, pur essendo, a giudizio non solo mio, tra i mi­ gliori del mondo, durano poco. Il 50% delle novità di un anno vanno fuori catalogo l’anno dopo. Di quel che resta, il 10% dura in catalogo qualche altro anno. Poi basta. Poi niente. Le cose vanno così, queste sono le leggi del mercato. Io ogni tanto, nelle mie rubriche settimanali, parlo di giochi antichi, mummificati. Le mummie sanno di Egitto, regione a clima secco. Io vivo in Vaipadana, re­ gione umidissima, ad alto tasso di marcimonia. Ogni tanto parlo di giochi vecchiotti, vecchi, più o meno morti e sepolti (ma un gioco morto è spesso un gioco bruciato, le ludoteche funzionano meno delle bibliote­ che). Io continuo a giocare giochi che nessuno gioca più. Con Eugenio Randi ho provato a giocare la Rhythmomachia (che si data Würzburg, anno 1030). Ma io non sono una persona normale. Io faccio quel che mi pare. Come spero facciate voi senza seguire le mode (moda di giocare il gioco x oggi, moda di non giocare più il gioco x domani). Domanda: «Dottore, non gioco mai: è grave?». Risposta: «Credo di sì». 92

Indice

1. Una scoperta archeologica 2. Abbasso la pedagogia 3. Il Gioco dell’Oca 4. La Tómbola 5. Puzzle e cubi 6. Bocce e birilli 7. Biglie 8. Giocattoli guerreschi 9. Soldatini 10. Giochi di costruzioni 11. Pennini & C. 12. Ieri e oggi

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Finito di stampare il 22 settembre 1993 dalla Garzanti Editore s.p Milano

Giampaolo Dossena (Cremona 1930), giornalista («l’Espresso», «L’Europeo», «La Stampa»; dal 1987 «il Venerdì di Repubblica»), si occupa di giochi (cin­ que manuali in edizione Mondadori), di letteratura (Storia confidenziale della letteratura italiana, Fai da te, Rizzoli), di giochi letterari (La zia era assatanata, Theoria; Garibaldi f u ferito, Il Mulino).

Ogni esemplare di quest’opera che non rechi il contrassegno della Società Italiana degli Autori ed Editori deve ritenersi contraffatto