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Italian Pages 144 [143] Year 2013
CIAK SI SCRIVE / LE STORIE a cura di Giovanni Ciofalo e Silvia Leonzi
Emilio Ranzato
WRONG TURN Il cinema horror americano da Psyco a Le colline hanno gli occhi
Realizzazione grafica Billy Corgan © 2013 SOVERA MULTIMEDIA s.r.l. Via Leon Pancaldo 26 – 00147 Roma Tel. (06) 5585265 – 5562429 www.soveraedizioni.it e-mail: [email protected] I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.
Indice
Introduzione La strada secondaria che porta all’America selvaggia
9
Capitolo primo Un antenato e alcuni illuminanti precursori
18
Capitolo secondo L’abisso in nuce: Psyco
29
Capitolo terzo Primi oscuri frutti dell’eredità hitchcockiana: A bruciapelo
41
Capitolo quarto A morte Hollywood! A morte l’America! Two Thousand Maniacs!
55
Capitolo quinto Una famiglia nuova dalle ceneri di quella vecchia: Un giorno di terrore
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Capitolo sesto La famiglia malata si consolida: Spider Baby
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Capitolo settimo Influenze e confluenze
77
Capitolo ottavo La wrong turn arriva in superficie: Un tranquillo week-end di paura
89
Capitolo nono Una generazione da mandare al macello: Non aprite quella porta
96
Capitolo decimo Ultima fermata nel viaggio verso il rimosso: Le colline hanno gli occhi
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Capitolo undicesimo La restaurazione reaganiana: derive, trasformazioni e pallidi strascichi
119
Capitolo dodicesimo Gli anni Duemila: l’innocuo boom del revival
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Filmografia principale
137
a Emma Luna
Introduzione
La strada secondaria che porta all’America selvaggia
Uno sparuto gruppo di persone – teenager sovreccitati, professionisti piccolo borghesi, una famiglia – se ne va allegramente in giro in auto per una gita. Poi accade qualcosa. Un incidente al veicolo, o una segnalazione sbagliata. E i protagonisti si ritrovano costretti ad abbandonare la strada principale. Alla ricerca di riparo e soccorso, non troveranno altro che violenza e follia, distribuite con generosità da una comunità più o meno ristretta di autoctoni arretrati e reazionari. Quante volte ci è capitato di vedere un film con un assunto simile a questo? Tante, ormai addirittura troppe. Tuttavia stiamo parlando di una categoria che finora non si è mai meritata un nome o un’ufficiale canonizzazione delle caratteristiche che la compongono. A che sottogenere appartengono film come Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi, ma anche una pellicola decisamente meno vicina all’horror vero e proprio come Un Tranquillo week-end di paura? Nessuno lo sa, nonostante le somiglianze fra i tre saltino immediatamente all’occhio. Eppure, mezzo secolo fa, molto prima di diventare una mera formula narrativa e iconografica, una delle più collaudate e abusate di tutto il cinema thriller-horror, il tòpos della strada sbagliata era un pretesto per parlare dell’America in modo profondo e terribilmente vivido. È una storia, quella della wrong turn, che parte dunque da molto lontano. Alle soglie degli anni sessanta l’America ha un’idea di sé ancora relativamente innocente, e destinata a essere impersonata da un Presidente nuovo di zecca, giovane, di bell’aspetto e di larghe vedute. I problemi nel sud-est asiatico che porteranno alla tragedia del Vietnam sono già cominciati, le ten9
sioni razziali hanno ampiamente superato i livelli di guardia, e lo stesso Presidente non sarà benvoluto da tutti, se è vero che uscirà da uno dei più equilibrati scontri elettorali di sempre. Ma il ricordo dell’impresa antinazista è ancora troppo fresco, il pericolo rosso troppo incombente, per poter smettere di credere nell’immagine dell’America ereditata dai Padri Fondatori. Quella cioè di un Paese eletto da Dio per guidare gli altri verso lidi di pace e prosperità. Strano, allora, che in uno scenario del genere arrivi sullo schermo una storia come quella pubblicata pochi mesi prima dal noto scrittore di racconti del terrore Robert Bloch. In superficie, Psycho è uno scarno romanzetto che si occupa di un personaggio disturbato, argomento cui il veterano Bloch è d’altronde avvezzo da anni. Ma nel profondo, a un livello ancora embrionale eppure già potentissimo, è un libro sull’incubo di essere americani nella seconda metà del Novecento. E su un senso di malessere che serpeggia sotterraneo e indisturbato all’interno dei confini della prima potenza del mondo occidentale. È facile immaginare perché un Hitchcock arrivato al culmine della sua ossessione per il concetto dai contorni un po’ nebulosi di “cinema puro”, venga attratto da quest’opera nel complesso piuttosto modesta: per il caso da manuale di psicanalisi di cui si occupa, certo. Ma soprattutto per il rivoluzionario e non si sa quanto voluto equivoco attorno a chi debba essere il vero protagonista della storia… Quella che sulle pagine si chiamava Mary Crane, e che sullo schermo diventa Marion, ha tutto per entrare nel novero delle eroine hitchcockiane. È giovane. È fragile ma determinata. Ha una relazione sentimentale difficile in procinto di trasformarsi in un lungo viaggio iniziatico attraverso gli ostacoli della vita. Ma soprattutto è bionda, anche se di un biondo più opaco rispetto a quello delle sue illustri colleghe del passato, così come la sua bellezza ha qualcosa di spigoloso che sa vagamente di presagio. Infine, porta il volto di Janet Leigh, un’attrice già famosa per aver partecipato a una trentina di film ed essere stata protagonista femminile incontrastata in pellicole importanti come Lo sperone nudo di Anthony Mann e L’infernale Quinlan di Orson Welles, oltre che per essere da una decina d’anni la moglie della star in ascesa Tony Curtis. Marion Crane, insomma, non può morire. Qualsiasi cosa possa accaderle durante il film, ne uscirà in un modo o nell’altro indenne. Questo è il patto 10
stipulato tacitamente con il pubblico, che infatti prenderà sempre le sue difese, persino quando constaterà che si tratta di una ladra. Quei quarantamila dollari di cui si impossessa, d’altronde, le servono per dare solidità alla sua relazione, e poi la vittima del furto è un viscido petroliere maschilista che ha confessato candidamente di dichiararsi nullatenente al fisco. Il fatto di intraprendere una fuga in solitaria contro il mondo intero, anzi, non fa che cementare il suo rapporto con chi guarda. Anche perché la cinepresa la pedina ossessivamente, e se si scosta dal suo viso è per mostrarci ciò che sta vivendo in febbrili soggettive, mentre insistite voci over ci rendono conto persino dei suoi pensieri sempre più febbrili. Pertanto, quando Marion, dopo ben tre quarti d’ora di film – ossia dopo aver superato il controllo di un poliziotto particolarmente scrupoloso, cambiata previdentemente auto, fatto fronte a un acquazzone, rintanandosi in un modesto motel di una stradina secondaria – deciderà di fare una doccia ignorando che sarà l’ultima della sua vita, a cadere sotto i colpi di un’improvvisa furia omicida non saranno soltanto le sue membra inermi, ma anche le certezze dello spettatore. Probabilmente le intenzioni di Hitchcock si fermavano qua. Dare vita a un shocker relativamente economico ma d’alta ingegneria, basato su uno sconvolgente espediente narrativo e poi costruito scena su scena come l’enorme meccano di un bambino dispettoso che ha trovato un pubblico disposto a farsi torturare. Le conseguenze delle sue scelte, invece, saranno enormi. Innanzi tutto, nel momento in cui la cinepresa si allontanerà lentamente ma inesorabilmente da Marion, dal suo occhio ormai immobile e spalancato sull’orrore, testimone attonito più per la verità che ha intuito che per la violenza in cui è stato coinvolto, si assisterà non solo alla fine di un personaggio, ma del cinema americano per come il grande pubblico lo aveva conosciuto: finisce qui, ufficialmente, l’identificazione fra spettatore ed eroe che nella Hollywood classica tutto – chiarezza narrativa, montaggio “invisibile”, finalità morali – contribuiva a supportare. È una cesura sottile, ma che segna un fondamentale passaggio di consegne: anche sugli schermi americani d’ora in poi i personaggi cominceranno a non appartenere più a chi assiste, a non rappresentare più una fedele proiezione emotiva del pubblico. In compenso, saranno sempre più spesso pedine nelle mani del regista-demiurgo, di un disegno più grande e autorevole 11
che ha a che fare con la poetica e lo stile di quest’ultimo. Casualmente, ma emblematicamente, in quello stesso 1960 anche un film-simbolo del cinema d’autore europeo si sbarazza di una protagonista a storia inoltrata: L’avventura di Antonioni. Finita la stagione del suo strapotere economico e produttivo, a causa di fattori correlati e inesorabilmente convergenti ancorché di natura diversa – leggi anti-trust, diffusione massiccia della televisione, graduale deurbanizzazione della società dell’immediato dopoguerra con conseguente perdita del rito cittadino dello spettacolo del grande schermo, affermarsi di cinematografie (le nouvelle vagues europee ma anche la scena east-side del New American Cinema) che prendono di mira i moduli espressivi pedissequamente narrativi del prodotto medio hollywoodiano –, il cinema americano tenta dunque l’aggancio a quello d’oltreoceano, e all’artmovie, come lo si chiamava in modo vagamente sprezzante fino a pochi anni prima sulla collina più famosa di Los Angeles. E Psyco – che nel titolo italiano perderà l’h in zelante ossequio al grande pubblico e alla sua presunta difficoltà di pronuncia – rappresenta un viatico decisivo a questo processo di avvicinamento, malgrado Hitchcock non se ne mostri affatto consapevole, e in un’intervista al suo fan numero uno Truffaut dichiari di non aver fatto altro che premere l’acceleratore su ciò che lo rende un grande regista commerciale: giocare con il pubblico come il gatto con il topo. Anche l’uso del bianco e nero, che finisce incidentalmente per affiancare ancora di più il suo capolavoro al cinema d’autore in senso stretto di quegli anni, è stato adottato in sede dell’amato colore solo per attenuare l’effetto del sangue che convoglierà nello scarico della vasca da bagno. Ma la rivoluzione non finisce affatto qua. Perché nel frattempo il timido, beneducato, pudico Norman Bates – perfetto alter-ego di questa nuova figura di regista-dittatore che andava delineandosi –, nato come comprimario quasi a mezz’ora dall’inizio del film, se ne è invece impossessato brutalmente nel giro di un paio di scene, ne ha cambiato la rotta, lo ha stravolto dalle fondamenta, trasformandolo da thriller tipicamente hitchcockiano a un’inedita forma di horror in cui l’elemento sovrannaturale è accantonato, e a terrorizzare sono semplicemente le azioni umane. Ancora più che un’opera provocatoria sul piano dei nuovi rapporti di forza presenti sul set, infatti, Psyco è destinato a diventare il padre dell’horror moderno, ossia di quel sottogenere che avrebbe cominciato a germoglia12
re silenziosamente di lì a qualche stagione per poi diventare talmente rigoglioso da sfociare prepotentemente su altri territori: influenzando il bikermovie contestatario, contaminando il genere gangster, assimilando ciò che rimaneva del western classico e parafrasando i temi di quello liberal-revisionista. Ma soprattutto, invadendo il terreno appunto del thriller, attraverso la dimostrazione di come anche l’horror possa fare a meno di quell’elemento sovrannaturale che in passato ne aveva inevitabilmente spuntato le armi, e rassicurato di conseguenza l’inconscio dello spettatore. Di questa sorta di monstrum cinematografico che un giorno farà la fortuna di giovani autori indipendenti e aggressivi ma col fiuto del mainstream, come Wes Craven e Tobe Hooper, il film di Hitchcock anticipa pressoché tutti gli elementi narrativi e iconografici: l’ambientazione semidesertica, la casa dall’architettura antica, gli animali impagliati, il riferimento, anche se ancora incidentale, a una famiglia priva di alcuni componenti. Ma soprattutto, l’assunto narrativo principe: la wrong turn. Ossia la strada sbagliata intrapresa per motivi imprevisti e contingenti dai protagonisti. A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, gran parte di ciò che rimane del cinema americano sfiancato dalla crisi sembra venire inesorabilmente attratto da questa strettoia che porta lontano dalla strada maestra, e conduce puntualmente a un’America orribilmente violenta e retrograda, allergica al nuovo simboleggiato dai giovani di cui è pronta a sfamarsi, contrapposta a una middle class cui è pronta a sostituirsi, e adagiata sulle effigi ormai putrescenti della storia nazionale. Da qui in avanti, non solo all’interno del sottogenere cui il tòpos darà l’abbrivio, o addirittura dell’intero cinema horror, si moltiplicheranno case dallo stile gotico o coloniale, ancor meglio se costruite su cimiteri indiani, fregi animali che rimandano all’addomesticamento brutale della wilderness e alla conquista della Frontiera, vessilli di una Guerra di Secessione mai del tutto risolta, in virtù di lacerazioni sociali ancora imbevute di razzismo e intolleranza. Alla livida luce del Vietnam, degli attentati illustri, dello scandalo Watergate, gli eventi fondanti della nazione, rigurgitati dal terreno della controcultura, smetteranno di rappresentare motivo d’orgoglio, come accadeva nel sepolto western classico, per divenire viceversa simboli di un rimosso collettivo, e di un peccato originale di violenza dal cui punto di vista ora si vuole inquadrare a ritroso tutta la storia del Paese, per arrivare a comprendere quelle forze centripete di cui è diventato preda nel presente. 13
Ecco allora che al grande inglese Sir Alfred capita di vestire i panni d’un novello Colombo: alla ricerca di utopistiche Indie di cinema puro, si ritrova invece per le mani l’immagine di una concretissima, spaventosa nuova America, circondata dai miasmi di un processo di autodistruzione che era in effetti sul punto di deflagrare. Quindici anni più tardi, film come Non aprite quella porta e Le colline hanno gli occhi saranno considerati capostipiti di un nuovo cinema horror. In realtà, rappresenteranno soltanto il compiuto punto di arrivo di influenze pregresse giunte finalmente a piena maturazione. Di un lungo e complesso processo storico, sociale, cinematografico, industriale, che sul grande schermo ha avuto come fasi intermedie pellicole spesso cadute presto nell’oblio. La nutrita progenie di eredi del capolavoro hitchcockiano. Dal fertile humus costituito dalla simbiotica crisi hollywoodiana e nazionale, infatti, trae linfa, già a partire dai primi anni Sessanta, il nuovo cinema indipendente. Un movimento inizialmente disgregato ma già insospettabilmente vitale che intravede nel moderno gusto europeo del primato del significato e dello stile sulla tecnica, la legittimazione a operare anche con scarsa disponibilità di mezzi; nella perdita di un tessuto di valori comuni – nonché nel contemporaneo declino del codice di autocensura Hays, caduto sotto i colpi di una realtà che lo ha reso oltremodo ipocrita e anacronistico –, uno spiraglio per cominciare a imbastire un discorso di revisionismo storico ben più virulento di quello che adotterà di lì a poco il western liberal. Sono gli anni di registi i cui nomi, il più delle volte, oggi vengono ricordati soltanto dai cinefili più incalliti, e che, dopo aver confezionato uno o due gioielli, si sono visti presto costretti a rinunciare a un coerente percorso autoriale in favore di una più rassicurante carriera nelle produzioni televisive o biecamente commerciali. Dell’ancora fresco capolavoro hitchcockiano, cui faranno riferimento a volte in modo esplicito, gli epigoni provenienti da questo sottobosco assimileranno quasi per intero l’apparato narrativo e iconografico. Con l’introduzione, però, di una fondamentale modifica. Dal killer solitario e reso psicopatico da una storia strettamente personale, si passerà a una famiglia se non a un’intera comunità di potenziali assassini. A indicare come la violenza sia un fenomeno fortemente radicato nella società americana, e come i carnefici siano l’inevitabile prodotto delle sue disfunzioni. E se è vero che un sottogenere horror di solito viene definito dalla natura della fonte del pericolo 14
per i protagonisti, e dello spavento per lo spettatore, allora questo, più di ogni altro elemento, caratterizzerà il wrong turn movie. Questa orda di reietti che sembra voler usare la violenza soltanto come difesa, a riparo dallo sguardo indiscreto della società benestante che ha contribuito in maniera decisiva alla sua emarginazione. Sempre da Hitchcock, però, il cinema indipendente assimilerà la lezione filosofica. Quell’allontanarsi dell’obiettivo dall’occhio della protagonista, costituirà l’avallo per un cinema più libero dal punto di vista tecnico-espressivo, oltreché economico; la fine della zavorra del cosiddetto montaggio invisibile, prettamente narrativo; il lasciapassare, più in generale, per uno sguardo maggiormente distaccato, impietoso, e di conseguenza politico. L’eterogeneo apparato espressivo che ne uscirà, con i suoi squilibri, le sue spigolosità, i suoi improvvisi e incontrollabili scarti di tono, con i suoi stilemi moderni mischiati senza soluzione di continuità a canoni ancora classici e ormai demodé, diventerà un tutt’uno con i significati che intenderà veicolare. Finendo per restituire con insospettabile e impressionante fedeltà la nuova immagine che l’America ha di sé. Quella di una nazione in piena crisi d’identità. Nel corso degli anni, nel frattempo, personaggi come Hopper, Nicholson, Corman, e tutti i giovani autori usciti dalla feconda fucina di quest’ultimo, provvederanno a stanare quel cinema dal sottobosco. Con Easy Rider l’universo del low-budget, con i suoi mille, microscopici satelliti, si sostituirà definitivamente a quello del sepolto studio-system, inaugurando ufficialmente la stagione della New Hollywood, sul crinale fra spettacolo e aspirazioni d’autore, accoglienza degli stilemi europei e rispetto per la storia della Hollywood più antica. Più tardi ancora, due figure rimaste inizialmente nella penombra della fucina cormaniana, Lucas e Spielberg, ne usciranno prepotentemente per trasformare questo cinema di talenti un po’ caotico in un nuovo, organico e sempre più allineato studio-system, in perfetta sintonia con l’avvento della restaurazione reaganiana. Il cinema, insomma, tornerà a essere un enorme giocattolo. E il territorio della wrong turn verrà usurpato dal ben più innocuo sottogenere dello slasher movie, che si servirà di una versione sbiadita della sua iconografia per riempirla con meccaniche catene di omicidi, opera di un killer di nuovo solitario e alieno rispetto al resto della società. Per risvegliare il wrong turn movie da un lungo letargo, ci vorrà la stagione del postmoderno, dietro il cui gusto per la rilettura cinefila si nascon15
de spesso una mera mancanza di nuove idee. Sta di fatto che l’ultima decade abbondante di grande schermo ha visto trionfare il revival di vecchie formule narrative e iconografiche, con una serie impressionante di remake, sequel, prequel, reboots e parafrasi più o meno spudorate dei capolavori che hanno contrassegnato la fase gloriosa del nostro sottogenere. Si tratta, tuttavia, di un cinema che ha smesso di parlare dell’America. Non a caso, il malessere genuino che si respirava nei modelli, supportato da quella libertà espressiva che i limiti economici non facevano che alimentare, ha lasciato spazio a un taglio dichiaratamente ludico e spesso patinato. Ogni tanto, però, gli spaventi tornano a essere vividi, e sembrano conservare barlumi di quella critica antinazionale che in passato li aveva innervati. Per quanto la si nasconda, per quanto si cerchi di dimenticarla o scimmiottarla con insulsi surrogati, la vera wrong turn non verrà mai chiusa definitivamente. E aspetterà con pazienza nuovi, incauti avventori.
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Ritorno all’America dei Padri Fondatori. Architettura gotica nel wrong turn movie.
Capitolo primo
Un antenato e alcuni illuminanti precursori
La wrong turn del Vecchio Mondo: Il castello maledetto Prima di esaminare con cura uno per uno gli elementi del wrong turn movie attraverso i film più importanti del sottogenere esploso negli anni Sessanta e consolidatosi nel decennio successivo, è opportuno ricordare brevemente alcune pellicole che hanno avuto il merito di anticipare buona parte di questi elementi, pur se in una versione quasi sempre scevra dai significati di cui si arricchiranno in futuro. Il primo esempio rilevante risale agli albori del cinema horror. Ossia a quell’epoca in fin dei conti più rassicurante – nell’ottica statunitense, ovviamente – in cui gli orrori spiravano ancora da oltreoceano, da quel Vecchio Mondo sconquassato dalle guerre e dalle ascese delle ideologie totalitariste, mentre il pubblico americano in pieno mood isolazionista si lasciava serenamente bistrattare da spauracchi legati alla tradizione gotica che ben poco avevano di umano. Era l’epoca, insomma, delle piccole quanto gloriose produzioni dello studio Universal, e del suo irresistibile carrozzone d’ascendenza europea. Subito dopo aver firmato, con Frankenstein (1931), un capostipite di questo fortunatissimo filone, il regista inglese James Whale confezionò tuttavia un piccolo gioiello d’atmosfera molto lontano dalle forti caratterizzazioni iconografiche garantite dalle pagine della letteratura ottocentesca, nonché precocemente libero dalla componente sovrannaturale o fantascientifica. Si tratta di Il castello maledetto (The Old Dark House, 1932), pellicola che anticipa in maniera impressionante molti elementi di un cinema che sarebbe arrivato decenni più tardi. 18
Un gruppo di turisti americani impegnato in un giro notturno per le lande desolate di una località britannica, è costretto a fermarsi a causa di un violento temporale presso una vecchia casa (e non un castello, come indica in modo fuorviante il titolo italiano, preoccupato probabilmente di creare un collegamento proprio con l’iconografia gotica di film coevi). Qui gli avventori verranno accolti da un inquietante maggiordomo e da una coppia di anziani padroni di casa che in seguito si riveleranno essere fratello e sorella. Trattenuti a lungo dalle intemperie, gli improvvisati ospiti avranno modo di esplorare la tentacolare abitazione, e di scoprire che vi si nascondono altri componenti della famiglia, il cui comportamento oscillerà pericolosamente fra il bizzarro e il violento. La prima cosa che sorprende del film è la modernità dei suoi presupposti. All’elemento sovrannaturale o fantascientifico dei Dracula e dei Frankenstein e alle loro forti caratterizzazioni (di cui rimane appena uno strascico nello scimmiesco maggiordomo interpretato non a caso da Boris Karloff), si sostituisce infatti una fonte dell’orrore ben più subdola e soffusa, offerta dalla prima famiglia malata del cinema horror americano. Per quanto bizzarri e un po’ nevrotici, i padroni di casa non sembrano inizialmente pericolosi. I loro discorsi strampalati e le loro azioni enigmatiche infatti non travalicano mai in modo eclatante il confine della follia. A inquietare, piuttosto, è il loro legame di sangue: strano vedere una coppia di fratelli anziani vivere insieme sotto lo stesso tetto come marito e moglie. E quando i due faranno riferimento al loro sistema di sostentamento elettrico perfettamente autonomo, si rafforzerà l’idea di una perdita di contatto con il mondo circostante. Man mano che nella vecchia dimora fanno il loro arrivo altri avventori, l’anticlimax dapprima contenuto sembra prendere il sopravvento: i toni da commedia e quasi da pochade, latenti fin dall’inizio, nella parte centrale sembrano impossessarsi definitivamente del film, conferendogli uno sviluppo narrativo assolutamente anarchico. Nell’epilogo, però, il senso d’inquietudine assume finalmente concretezza: dai piani alti della casa emergono un centenario patriarca – interpretato con effetto straniante da una donna – e un terzo fratello piromane. Sarà quest’ultimo a dare il via a quella spirale di violenza che il film aveva rimandato continuamente, in modo da farla apparire ancora più improvvisa e grottesca. Le somiglianze con quelli che saranno i film della wrong turn sono evidenti: la meta improvvisata per motivi di forza maggiore, la casa isolata e 19
dal carattere autonomo, ma soprattutto il nucleo familiare imperfetto su cui incombe un’ombra di incesto. Tuttavia, si tratta ancora di elementi declinati in senso esterofobo, e che quindi tendono a un’ideologia pressoché opposta a quella presente nel cinema horror moderno. Il legame di sangue, in particolare, fa qui semplicemente da pendant all’aplomb e all’eleganza del padrone di casa, alla presenza di un maggiordomo, a un galateo che scandisce ancora le abitudini della famiglia nonostante un senso di decadenza che si può ormai quasi toccare. A elementi, insomma, orientati a evocare l’immagine, tipicamente europea, di un’aristocrazia. La discendenza familiare, dunque, non ha ancora a che fare con quel determinismo in cui, come vedremo, il cinema di là da venire riconoscerà il germe primario della società americana. Nonostante l’originalità del suo sviluppo narrativo e drammaturgico, e le impressionanti analogie con il cinema futuro, Il castello maledetto si inserisce dunque in ultima battuta nel solco dell’horror dell’epoca: i brividi nascono dalla paura dell’altro, del diverso, sottolineata per contrasto dal gruppo di spensierati e sin troppo ingenui ospiti americani.
La fine del cinema, la fine dell’America: Viale del tramonto A ben vedere, la wrong turn più famosa della storia del cinema è stata firmata da Billy Wilder con Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950). Un film che naturalmente è già un capolavoro di per sé, ma che non di meno presenta interessanti aspetti genitoriali nei confronti del cinema che sarebbe nato un decennio più tardi, tanto da costituirne una sorta di capostipite mancato. Joe Gillis è uno sceneggiatore che a Hollywood non riscuote più molto credito. La sua vita subisce però una svolta – nel vero senso della parola – quando finisce per caso nella dimora di Norma Desmond, vecchia star dell’epoca del cinema muto che da anni vive isolata, ma che come lui è in cerca di un riscatto. Fra i due nasce così una collaborazione di lavoro che sfocia presto in un rapporto morboso, tanto che Joe finirà per fare praticamente il mantenuto della ricca signora. E sfuggire alla sua morsa gli sembrerà sempre più difficile. 20
A fare di Viale del tramonto il genitore dell’horror e di molto altro cinema antipatriottico anni Sessanta e Settanta, sono tanto gli elementi narrativi quanto lo spirito che li pervade. Innanzi tutto, il film è ampiamente debitore della matrice noir, genere di cui Wilder stesso d’altronde aveva già firmato uno dei paradigmi più cristallini con La fiamma del peccato (Double Indemnity, 1944). Ma il cinema nero, che in quel 1950 aveva già raggiunto e superato il suo momento d’oro, era stato molto più di un genere. Le sue ombre espressioniste, il suo senso di claustrofobia, la sua aura di inesorabile predestinazione vengono regolarmente messi in relazione ai coevi o al massimo ancora freschi orrori della guerra, dato peraltro inconfutabile e confermato dall’origine germanica e spesso ebraica dei suoi alfieri principali: Otto Preminger, Robert Siodmak, Fritz Lang, lo stesso Wilder. Il noir non esaurisce però qui i suoi significati più reconditi, che ne fanno più che altro un trait d’union fra queste paure legate ancora una volta al Vecchio Mondo – comuni come abbiamo visto anche all’horror e a tanto altro cinema anni Trenta – e quelle assolutamente intestine che costituiranno il marchio indelebile del cinema che ci interessa. Ancor più che le angosce per una guerra terribile ma in fondo anche lontana, importate da registi in asilo politico a Hollywood, il noir reca infatti con sé i segni della prima, profonda crisi di coscienza dell’homo americanus destinata a essere proiettata su grande schermo, patrocinata da sceneggiatori spesso radical e avallata da registi che, essendo appunto stranieri, possedevano il giusto distacco per affondare senza troppe remore il dito nella piaga. A venir messa in pesante e non troppo criptica discussione, in questa malcelata autoanalisi, è in particolare la matrice individualista della società statunitense. Il che fa del noir un perfetto contraltare del western classico. Se in quest’ultimo l’iniziativa privata è vista in un’ottica epica, come fenomeno dialettico ma nient’affatto in contraddizione con la dimensione sociale, e anzi come momento fondante della vita di una comunità, malgrado gli ostacoli che possano frapporsi fra l’interesse del singolo e quelli di tutti, nel cinema nero mostra al contrario il suo aspetto meschino, fatto di raggiri e tornaconti che incontrano frequente successo proprio perché messi in pratica sul terreno molle di un tessuto sociale sfiancato dai particolarismi. 21
Non a caso, nel mutuare e sviluppare, com’è noto, l’iconografia del gangster movie anni Trenta, il noir vi imprime un’atmosfera tanto più dark quanto più vi si insinua la dimensione privata. All’immagine della gang si sostituisce – almeno alle origini del genere – quella del criminale isolato, spesso addirittura improvvisato e piccolo borghese (come nel caso proprio di La fiamma del peccato). Alla figura del poliziotto, quella del detective o, ancora meglio, quella polverosa e burocratica dell’agente assicurativo, interessato alla scoperta della verità non per un alto senso di giustizia, quanto per un misero tornaconto contabile. Ma soprattutto, il vitalistico benché sconsiderato libero arbitrio del boss dell’era proibizionista trascolora in un cupo senso di fatalismo, parente stretto del determinismo che come accennato allignerà ampiamente nell’horror moderno. E Viale del tramonto si inserisce perfettamente a metà fra questi due universi tematici. Del noir possiede se non altro i presupposti: la struttura narrativa del flashback a cornice, che sottolinea proprio l’ineluttabilità degli eventi che stanno per essere raccontati; l’atmosfera cupa garantita dall’apparato luministico postespressionista, anche se proposto in una versione più razionalista e in qualche modo riassuntiva; infine un canovaccio da crime movie introdotto dall’omicidio che vediamo all’inizio, e che in seguito scopriremo avere come vittima lo stesso autore del racconto in voce over. Proprio l’idea di affidare la voce narrante a un morto, tuttavia, svela l’intento di andare oltre il genere, fino a includerne una sorta di parodia. Per il resto, d’altronde, il film si allontana non poco dal mondo noir. Fino quasi a diventare un’originale specie di horror, che come detto presenta pochi ma illuminanti elementi in comune con gli sviluppi del nostro sottogenere. Innanzi tutto, abbiamo una delle più classiche wrong turn. Per seminare degli emissari di un’agenzia finanziaria che lo stanno braccando per motivi di debiti, il protagonista Joe Gillis svicola nel giardino di una villa sul Sunset Boulevard. Sbarazzatosi degli inseguitori, l’uomo si ritrova dunque in tutt’altro scenario. Scivola in un altro mondo tematico e iconografico, segnalato da un’inquietante dimora e dalla sua eccentrica proprietaria. Come si può notare, già qui non siamo troppo lontani da Psyco, e da quello scarto narrativo dal thriller all’horror che lo renderà rivoluzionario. Anche in questo caso, fra l’altro, la svolta imboccata per necessità impreviste dal protagonista costituirà per lui l’inizio di un viaggio fra le tenebre di quella storia americana che la dimora gotica dei Bates rievocherà. Un viaggio, però, 22
inserito nel mondo di Hollywood e del suo glorioso passato di nuova Babilonia degli anni Venti. Nel visitare la decadente dimora, infatti, Gillis si imbatterà nei resti corrotti di un passato in realtà recente ma all’apparenza già vertiginosamente remoto, un’epoca in cui i divi del cinema erano sovrani indiscussi di un regno tanto effimero quanto morbosamente attraente, semidei resi immortali da un ritrovato scientifico fino a un quarto di secolo prima impensabile e in qualche modo sconcertante proprio per la sua capacità di fermare il tempo. Divi nel senso più stretto del termine, dunque, come mai più ce ne sarebbero stati, e a cui di conseguenza era concesso tutto, in un delirante crescendo di megalomania. Ecco allora che Gillis, a pochi metri dalla normalità del suo tran tran quotidiano, rimuove il velo dell’oblio da un’architettura magniloquente, da un giardino immenso lasciato marcire e corredato da un campo da tennis ormai quasi irriconoscibile, da un maggiordomo borderline con passato da regista, da un funerale organizzato per una scimmia imbalsamata. Tutti elementi, come detto, che contribuiscono a delineare la megalomania di un mondo perduto, quello degli albori dello studio-system, al cui confronto la Hollywood contemporanea al film di Wilder rappresentava già il più sobrio dei contraltari. Anche il rito funebre per l’animale imbalsamato si inserisce in questo contesto: non rappresenta che l’ennesimo, delirante capriccio della vecchia star che vive reclusa nella magione. Col senno di poi, tuttavia, questa immagine attira ulteriormente la nostra attenzione sulle qualità profetiche del film di Wilder. La fauna impagliata sarà infatti un imprescindibile elemento iconografico dell’horror moderno, anche se in quel caso si tratterà di una fauna commestibile, legata al sostentamento e, più in generale, evocatrice del faticoso addomesticamento della wilderness nel processo della conquista della Frontiera. Si tratta di analogie forse casuali, o che forse intercettano con sorprendente anticipo il primo refolo di un vento di tempesta destinato a travolgere la nazione. Di certo, a rendere il film di Wilder un precursore del cinema che parlerà in maniera profonda di questa crisi, contribuisce il fatto di inserire tali analogie all’interno del più violento attacco che La Fabbrica dei Sogni aveva fino ad allora mai subito. Nonostante Hollywood alle soglie degli anni Cinquanta goda ancora relativamente di buona salute, Wilder ce la mostra durante un tramonto rosso sangue, un attimo prima di essere inghiottita da tenebre sepolcra23
li. E anche se si rivolge soprattutto a una Hollywood già scomparsa, la sua è un’immagine che non può non sapere di presagio a poche stagioni dall’inizio dell’effettivo e velocissimo declino dello studio-system. L’uso di vere vecchie glorie hollywoodiane – Norma è interpretata dalla grande Gloria Swanson, il maggiordono da Erich von Stroheim, e i due avevano davvero lavorato insieme – anticipa per giunta il cosiddetto geriatric horror, che a partire da Che fine ha fatto Baby Jane? (What Ever Happened to Baby Jane?, Robert Aldrich, 1962) costituirà una sorta di ospizio sadomasochista per le star in pensione. Alla base del sottogenere – che avrà a sua volta più d’un punto in comune con il cinema della wrong turn, a partire dall’elemento macabro e truculento in sostituzione di quello sovrannaturale – ci sarà appunto l’idea di prelevare di peso l’icona cinematografica dal proprio usuale habitat edulcorato per inserirla in un contesto più o meno degradante, contaminandolo poi magari con autentici tratti biografici della stessa star. Ora, come già accennato, il cinema indipendente degli anni Sessanta e Settanta prenderà forma tanto dalla crisi nazionale quanto da quella strettamente cinematografica, che avrà come effetto collaterale quello di liberare una nuova generazione di registi dal peso della censura, ma in fondo anche dal successo e dal grande pubblico. Nati per essere marginali, tanti prodotti dell’epoca daranno sfogo alla creatività ma anche alla visione politica dei loro autori, restituendo un’immagine dell’America tanto inedita e spaventosa quanto credibile. Il cinema hollywoodiano, di conseguenza, verrà spesso vilipeso da questa new wave, preso di mira come il simbolo dell’ipocrisia che intendeva nascondere i mali atavici della nazione. Nell’inserire alcuni elementi che saranno tipici del wrong turn movie all’interno di un crudele attacco a Hollywood, il tutto sul substrato ideologico già fortemente antipatriottico del cinema nero, Wilder dice quindi qualcosa di illuminante su ciò che avverrà a partire dal decennio successivo.
La famiglia malata sul ciglio della strada: Dove la terra scotta e altre storie della Frontiera al crepuscolo Se il nuovo cinema nascerà, quindi, dalle rigeneranti ceneri di quello vecchio, la sua visione apocalittica di un’America allo sbando si ciberà in gran 24
parte dell’iconografia di ciò che nella vecchia Hollywood rappresentava una sorta di manifesto ideologico nazionale: il cinema western. Lo splendido Dove la terra scotta (Man of the West, Anthony Mann, 1958), western nato sul finire dell’epoca classica, ci presenta non a caso un altro emblematico esempio di wrong turn in anticipo sui tempi. Link Jones, un uomo dal passato oscuro, si trova su un treno quando questo viene assaltato da una banda di fuorilegge. Costretto dunque a scendere dal mezzo, si ritrova perso in una terra desolata assieme ad altri viaggiatori conosciuti poco prima: una cantante e un giocatore. I tre non sanno bene da che parte dirigersi, finché a Jones non viene in mente che da quelle parti deve trovarsi l’abitazione di suo zio, vecchio bandito che con i figli sta pianificando l’ennesima rapina. Ancora una wrong turn, dunque. Introdotta come da manuale da un problema imprevisto occorso ai protagonisti durante un viaggio. E tramite questo espediente narrativo, il film di Mann svela quanto il paradigma dell’horror moderno trarrà dal vecchio western. Nell’ambientazione desolata e semidesertica, nella simbologia della wilderness addomesticata, nei frequenti vessilli della Guerra di Secessione. Ma soprattutto, in quell’immagine di una famiglia degenere che già aveva attraversato tutto il genere della Frontiera. I Tobin di Dove la terra scotta sono infatti solo una fra le tante varianti del nucleo familiare composto da villains particolarmente brutali e selvaggi viste in western precedenti, e tratteggiate con particolare precisione in quelli di John Ford, autore che non a caso ha sempre avuto cara la tematica della selezione naturale operata dal vecchio West sulle generazioni di uomini che lo hanno attraversato. Si pensi ai Clanton di Sfida infernale (My Darling Clementine, 1946), o ai Cleggs di La carovana dei mormoni (Wagon Master, 1950). Si tratta di coloro che hanno perso la corsa all’El Dorado, e che si ritrovano già ai margini di quel sistema capitalistico allo stato embrionale rappresentato dalla conquista della terra e dalla sua spartizione. La mancanza regolare di una madre, come di altri elementi femminili, sta a denunciare proprio l’implacabile meccanismo di selezione naturale che è alla base della loro sconfitta. Pur nel suo sostanziale ottimismo nei confronti della filosofia e della storia nazionale, infatti, anche il western classico non mancava di rappresentare spesso la conquista della Frontiera nei termini di una crudele lotta darwiniana. Lotta di cui gli sconfitti esibivano puntualmente le tracce, attraverso menomazioni fisiche o mentali. Ecco allora che in queste 25
famiglie di fuorilegge a vari livelli, troviamo regolarmente da una parte un padre dispotico, che unisce alla brutalità un seppur caotico spirito d’iniziativa, e dall’altra figli altrettanto selvaggi ma inibiti dall’autorità paterna, cui si sottomettono senza troppe rimostranze; a volte sciancati, o provvisti di altri handicap fisici, più spesso semiritardati o psicopatici, comunque privi di una personalità perfettamente autonoma e sviluppata. A sottolineare come, da una generazione all’altra, la misera dinastia in questione possa soltanto peggiorare. Tutto ciò, però, non è detto ancora con acrimonia ideologica, ma soltanto descritto come dato di fatto storico, e come elemento che per contrasto enfatizza la purezza congenita dell’eroe, e di conseguenza la sua dimensione epica. La principale differenza narrativa fra il film di Mann e gli horror che avranno come fonte del pericolo un nucleo familiare folle, è che qui la famiglia è quella del protagonista. Il suo contatto con essa rappresenta dunque un ritorno alle radici che assumerà toni dapprima biblici e, infine, da tragedia greca. I legami familiari irrisolti, forieri di tragedie sempre sul punto di detonare, rappresentavano d’altronde la specialità dello sceneggiatore Dalton Trumbo, e conducono in ultima battuta il film verso esiti che poco o niente hanno a che fare con ideologie contestatarie ante litteram. Non di meno, Dove la terra scotta, con la sua famiglia malata che schiude un cuore di tenebra ritenuto ormai sepolto, dimostra come il legame fra western e horror fosse già una realtà prima di Psyco e dei suoi epigoni. Un legame che non a caso verrà ribadito subito dopo il film di Hitchcock da una pellicola con un soggetto molto simile a quello di Mann, Sfida nell’Alta Sierra (Ride the High Country, Sam Peckinpah, 1962). Steve e Gil in passato sono stati sceriffi, ma adesso sono costretti a sbarcare il lunario in un West ormai pienamente civilizzato. Il primo chiede al secondo di aiutarlo in un lavoro: trasportare del denaro per conto di una banca. Nel corso della missione, cui si aggregherà anche un giovane amico di Gil, i tre faranno la conoscenza di un contadino e di sua figlia. La ragazza si farà accompagnare dal gruppo fra le montagne della Sierra, dove il fidanzato vive e lavora con tre fratelli. Questi si riveleranno però dei balordi con cui i forestieri saranno costretti a fronteggiarsi. Il soggetto appena esposto rappresenta solo una parte di una trama più complessa, ma mette in evidenza gli elementi che ci interessano: un gruppo di stranieri; una deviazione stavolta volontaria ma determinata da un solo 26
componente del gruppo, e che comunque era meglio non fare; una famiglia composta unicamente da quattro fratelli che presentano vari gradi di brutalità, oltreché una propensione alla promiscuità (il neosposo sarà quasi costretto a dividere la sua donna con i parenti) molto vicina ai rapporti incestuosi o al massimo endogamici che compariranno in futuro nell’horror. Ma attorno alla famiglia malata, il film di Peckinpah mette in scena anche un’intera comunità di autoctoni arretrati, che anziché contenere i comportamenti scellerati dei fratelli, ne asseconderà i capricci in un crescendo parossistico, fino al culmine di un rito nuziale da incubo. È in questa idea di allargare le radici della violenza a macchia d’olio, che si riconosce il più evidente segno di emancipazione del film nei confronti dell’ideologia che contrassegnava il western classico. E di conseguenza il maggiore indizio dell’influenza che può avere esercitato sul cinema che ci interessa. Come esempio del rapporto fra western crepuscolare e il nuovo horror, infine, è giusto fare almeno un accenno a Giorno maledetto (Bad Day at Black Rock, John Sturges, 1955), sorta di western d’ambientazione contemporanea che sottolinea in maniera esemplare come alcune realtà di quello che fino a qualche decennio prima era il Far West, fossero rimaste a uno stato di civilizzazione pericolosamente arretrato. Si tratta con tutta probabilità del primo film importante in cui compaiono i rednecks, ossia i provinciali reazionari degli stati del sud. E se lo sguardo non è ancora progressista come avverrà nell’horror moderno, cioè orientato a giustificare almeno genericamente il comportamento di chi è stato tagliato fuori dalla società, lo squallore e la desolazione in cui è immersa questa comunità refrattaria ai forestieri, e gelosa custode di un segreto inconfessabile, spinge comunque già qui a considerare la violenza come un male intrinseco al territorio nel quale gli americani si sono insediati.
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Precursori 1. Joe Gillis esce di strada e si ritrova nella Hollywood-Babilonia di trent’anni prima in Viale del tramonto.
Precursori 2. Illustri antenati della famiglia malata in Sfida infernale.
Capitolo secondo
L’abisso in nuce: Psyco
“Del film non mi interessa il soggetto, e nemmeno i personaggi. Mi interessa il film puro.” A dispetto di queste parole, peraltro del tutto attendibili, rilasciate da Hitchcock a Truffaut in una nota intervista, Psyco (Psycho, 1960) contiene allo stato embrionale pressoché tutti gli elementi iconografici e narrativi che caratterizzeranno il sottogenere della wrong turn, ancorché privi di una dimensione ideologica. O forse sarebbe meglio dire provvisti di una dimensione ideologica ancora inconsapevole. Una quantità di elementi e dettagli che influenzeranno in modo decisivo il futuro cinema horror impressionante soprattutto perché alle soglie degli anni Sessanta non hanno ancora preso definitivamente forma i traumi nazionali che quegli stessi elementi vorranno in seguito rievocare. Marion Crane, impiegata in un’agenzia finanziaria, ruba quarantamila dollari a un cliente sostanzialmente per permettere al suo amante Sam di risposarsi con lei. Quindi si mette in fuga terrorizzata dall’idea di aver commesso qualche leggerezza ed essere perciò già nel mirino della polizia. Colta da un acquazzone mentre è in auto di notte, trova riparo in un motel di una strada secondaria. Ad accoglierla c’è il proprietario dell’albergo, Norman Bates, un giovane dai modi gentili che vive in un’antica dimora lì accanto, apparentemente con l’anziana madre. In realtà, si tratta di uno psicopatico che crede di ricevere ordini dalla genitrice uccisa da lui stesso anni prima e il cui corpo imbalsamato si trova ancora in casa. Marion sarà quindi vittima della stessa follia omicida. Sulle tracce della donna si metteranno prima un detective ingaggiato dall’agenzia per riavere indietro i soldi, e quindi Sam con la sorella di Marion, Lila. 29
La sovraimpressione che apre il film – “Phoenix, Arizona, venerdì 11 dicembre, ore 14:43” – assolve già una funzione ben precisa, quella di confinare tutta la vicenda e i suoi personaggi nell’angusta dimensione del “quie-ora”. È questo ciò che interessa a Hitchcock: costruire un perfetto congegno da spavento imprimendovi fin dall’inizio un ritmo sostenuto su un substrato di insolito realismo. Ma il piano consapevole dello shocker puro è destinato a correre parallelo fin dall’inizio a quello involontario del capostipite di un nuovo sottogenere. Il primo riferimento è dunque alla capitale dell’Arizona, stato adottato da Hitchcock al posto del Texas che fa da sfondo al libro di Bloch. Si tratta, in entrambi i casi, di luoghi d’elezione del western, di cui comincia già a delinearsi una prepotente assimilazione. L’uso degli spazi aperti, in luoghi semidesertici, quasi sempre illuminati per rendere ancora più sconfinati gli orizzonti e dissolvere i punti di riferimento, saranno caratteristiche irrinunciabili del nuovo horror, il quale farà proprio di questa agorafobia uno degli elementi di maggiore novità rispetto ai vecchi modelli, incentrati tradizionalmente su scenari tenebrosi e claustrofobici. E prima di incontrare il suo carnefice, Marion si inoltrerà sempre di più in questo paesaggio arido e selvaggio, anche se le scene cruciali si svolgeranno in gran parte dopo il tramonto. Dell’incipit è inoltre interessante la rapida serie di dissolvenze incrociate che simula un unico long take dal paesaggio cittadino fino alla stanza dove si trovano Marion e il suo amante Sam. Hitchcock non è certo nuovo a simili, acrobatici movimenti di macchina, chiaro segno dei margini di autorialità che è riuscito a conquistarsi anche all’interno degli schemi del cinema commerciale. Uno analogo lo si ricorda subito dopo i titoli di testa di Nodo alla gola (Rope, 1946). In entrambi i casi, non si tratta di meri virtuosismi. Se lì il passaggio, dalla strada assolata e pigra a un interno in cui si perfeziona un omicidio, serviva a determinare un contrasto facile ma efficace fra la placida quotidianità borghese di un bel quartiere e le pulsioni omicide che insospettabilmente vi si annidano, qui serve invece a sottolineare la dimensione transitoria e squallida nella quale sorprendentemente troviamo il personaggio interpretato da una star in ascesa come Janet Leigh. La stanza dove giace in compagnia del suo amante, infatti, è un anonimo locale identico a tanti altri, perso da qualche parte nel caos della città. In questo utilizzo della star in un contesto straniante si riconosce di certo il consueto sadismo del regista inglese nei confronti delle sue eroine bionde e raffinate, 30
ma anche l’inizio di quel generale atteggiamento di vilipendio nei confronti delle icone hollywoodiane che come accennato sarà tipico del cinema post studio-system, anche al di là del geriatric horror, e che costituirà un comodo viatico per attaccare l’America intera. Vaghi accenni all’iconografia western tornano in una sequenza successiva, quella che si svolge sul posto di lavoro di Marion, l’ufficio di un’agenzia finanziaria. Qui fa la sua comparsa il petroliere texano con tanto di cappello da cowboy e cravatta di cuoio che sarà vittima del furto della protagonista. Esibire un petroliere milionario, un po’ maschilista, nonché evasore fiscale candidamente dichiarato, serve al film per questioni, di nuovo, meramente pratiche. Ossia per rendere più accettabile il furto di Marion. E ciò non tanto per assecondare un codice Hays in quegli anni già ampiamente in declino e disposto ormai a chiudere un occhio anche di fronte a deroghe ben più evidenti, quanto per non infastidire un pubblico che deve affezionarsi il più possibile all’eroina. C’è pertanto bisogno di sottolineare come il furto sia in fondo un peccato veniale, e persino, a modo suo, un atto di giustizia, una sorta di punizione divina per interposta persona. Oltre a rappresentare una figura istintivamente odiosa, inoltre, il petroliere rievoca da una parte, appunto, l’universo western, e dall’altra il concetto di libera impresa, qui fra l’altro legato a quello di evasione fiscale, come se capitalismo e ingiustizia sociale fossero fenomeni indissolubili. Germi inconsapevoli di critica ideologica ai valori fondanti della nazione si fanno dunque già largo all’interno del tessuto narrativo. Più avanti troviamo Marion alle prese con un poliziotto. Insospettito dall’atteggiamento della donna durante una perquisizione, l’agente decide di seguirla. Marion opta, quindi, per una sosta in un negozio di auto usate di un piccolo centro urbano, per cambiare macchina e far perdere definitivamente le proprie tracce. Anche qui un’esigenza narrativa finisce per inserire un elemento dalla valenza simbolica destinato ad avere fortuna. L’assembramento di autovetture, di solito abbandonate o comunque fuori uso, è infatti un’altra immagine che ricorrerà spesso nel sottogenere. Nell’immediato, servirà a suggerire l’inquietante scomparsa dei proprietari, che presumibilmente avranno fatto una brutta fine. Più in generale, e in maniera ben più sottile, segnala il fallimento tanto del progresso quanto, soprattutto, dell’iniziativa individuale, della dimensione privata, che l’autovettura simboleggia. Qui l’immagine è ancora marginale e accessoria, le auto sono d’altronde funzio31
nanti. Ma il loro affastellamento, con tanto di prezzi stracciati scritti direttamente sul parabrezza, ne denuncia comunque uno svilimento, così da farle apparire come ammassi di lamiera quasi senza senso. Poco dopo, quindi, eccoci alla indispensabile wrong turn. Marion si ritrova a percorrere una strada secondaria che parte dall’autostrada per far fronte a un acquazzone che aveva improvvisamente reso pericoloso il suo viaggio. Ma soffermiamoci brevemente su questo che sarà il motivo più ricorrente del sottogenere. Il percorso alternativo, imboccato di solito per sbaglio o per esigenza imprevista, prima di tutto costituisce un valido espediente narrativo, semplicemente perché mette il protagonista in un situazione inaspettata dalla quale deve in qualche modo tirarsi fuori. Ma l’idea acquista nel sottogenere un significato ben più ampio. L’immagine della strada secondaria, quasi invisibile a un primo sguardo, serve, infatti, già a connotare la fonte del pericolo che vi si nasconde come un qualcosa che non ci tiene a venire alla luce. Che non ha, di per sé, grosse velleità di conquista. Geloso del proprio faticoso insediamento, chi abita in fondo a quella strada ha ricreato attorno a sé un habitat tanto primordiale quanto perfettamente indipendente dal resto del sistema. Si tratta di una protuberanza che la parte sana ma a volte anche aggressiva della società americana, con i suoi meccanismi concorrenziali dagli effetti spesso darwinisti, ha in qualche modo contribuito a creare e che ora fa riemergere a suo rischio e pericolo. Tornando alla nostra protagonista, in fondo alla strada appena imboccata c’è qualcosa che sembra rispondere alle sue esigenze: l’insegna di un motel. Si tratta di un edificio a un solo piano, tipico degli stati del sud, stereotipato nella sua esibita, squallida modernità. Un aspetto in qualche modo funzionale a ciò che vedremo subito dopo. Di lì a pochi secondi, infatti, scopriremo che a dominare il motel dall’alto di una collinetta c’è un’immensa casa in stile gotico che sembra venire direttamente da un remoto passato. Al suo esordio nell’horror moderno, dunque, la wrong turn assolve già alla perfezione il proprio compito. Che non è tanto quello di allontanare il protagonista dalla strada maestra, quanto di farlo sprofondare in uno scenario che dia quasi l’impressione di un salto spazio-temporale, come capitava al Joe Gillis di Viale del tramonto. Attraverso la casa gotica, significativamente assente nel romanzo di Bloch – il quale però aveva precedentemente firmato un romanzo intitolato Gotico americano, da cui Hitchcock e il suo sceneggiatore Joseph Stefano 32
hanno probabilmente preso spunto – viene introdotto il simbolo più illuminante di tutto il film. Il riferimento alla storia nazionale, sottile o meno, sarà infatti sempre più di rigore nell’horror moderno nonché in tanto cinema parallelo. Ne costituirà la base ideologica, ovvero il tentativo di dimostrare come le tenebre della violenza da cui l’America sarà ormai avvolta, abbiano radici insospettabilmente remote, e affondino direttamente nel terreno di quegli eventi che fino a quel punto erano stati celebrati – anche dal cinema attraverso il western – come gloriosi momenti fondanti del Paese. L’architettura gotica rappresenta, dunque, i legami con i primi coloni, con i Padri Fondatori. E persino il fatto che la casa svetti al di sopra di tutto non manca di dire qualcosa di involontariamente metaforico. Quello della casa sulla collina è infatti un archetipo filosofico cardine della cultura statunitense, e caro in particolare alle prime generazioni di nativi. Un’immagine che rappresenta l’America stessa, i suoi valori di lungimirante isolazionismo e di pragmatico, provvidenziale interventismo. La sua convinzione, insomma, di essere la Nazione eletta a guidare il resto del mondo. A conferma, però, di come l’uso in chiave simbolica di questa iconografia sia ancora del tutto inconsapevole, completa la scenografia il corredo di una tipica notte buia e tempestosa, che fa tanto vecchio horror Universal, e che rimanda a più rassicuranti scenari da letteratura del terrore. Il potenziale agorafobico offerto dal paesaggio semidesertico, dunque, viene ancora in gran parte dissipato. Un altro elemento nato semplicemente da esigenze narrative che finisce però per suggerire significati più profondi, è il riferimento alla recente costruzione di un’autostrada che ha reso fuori mano il motel della famiglia Bates. In un horror dalla maggior coscienza politica, il riferimento alle zone grigie del sistema capitalistico sarebbe esplicito. Le esigenze del progresso non tengono più conto di quegli interessi privati che in precedenza erano stati promossi e supportati. Di nuovo, l’iniziativa privata, la base stessa della società statunitense, viene svilita e umiliata. O meglio, viene svilita quella dei più deboli, ai quali non resta che rimanere vittime del progresso degli altri. La costruzione dell’autostrada diviene dunque la causa principale dell’atteggiamento refrattario tipico, come detto, della fonte del pericolo. Proprio quest’ultima, tuttavia, rappresenta l’elemento che maggiormente discosta il film di Hitchcock da quelli che saranno gli sviluppi del wrong turn movie, dove gli assassini e i loro complici saranno sempre rappresenta33
ti da nuclei familiari o addirittura intere comunità. Entità, insomma, volte a suggerire come la violenza e la follia non siano eventi isolati e casuali, ma possiedano radici che si diramano attorno a una fetta significativa della società statunitense. L’idea di un killer solitario come Norman Bates, viceversa, diventerà tipico appannaggio dello slasher movie anni ottanta, all’interno del quale rappresenterà la scheggia impazzita e incontrollabile che si scaglia alla stregua d’un virus contro una società tornata, come d’incanto, complessivamente sana. Potenzialità ideologiche del personaggio si rintracciano semmai nel riferirsi a sua volta alla storia americana, stavolta ben più recente, e in particolare a una figura che influenzerà molto altro cinema. Fonte d’ispirazione dichiarata di Bloch era stata infatti l’ancora fresca scoperta dei fatti relativi a Ed Gein. Nato nel Wisconsin nel 1906 e morto in un ospedale psichiatrico nel 1984, Gein era un contadino di umili origini che si rese protagonista di una serie di omicidi di giovani donne negli anni Cinquanta. Legato morbosamente a una madre ultraprotettiva e religiosissima, sfogava la frustrazione sessuale indotta dall’educazione ricevuta attraverso macabri rituali sulle proprie vittime, di cui era solito conservare parti anatomiche. E ciò che farà di Gein la fonte d’ispirazione anche per altri film del sottogenere, è proprio il caso edipico da manuale che offre, in futuro prezioso spunto drammaturgico non tanto sul fronte dell’amore morboso fra madri e figli, come nel caso di Norman Bates, quanto sul versante dell’odio fra figli e padri dispotici che sfruttano i primi senza remore. Una dinamica perversa che, nell’ottica della controcultura, la guerra del Vietnam avrà il triste merito di rivelare come un altro atavico morbo della società americana. Appena il tempo di un breve dialogo fra i due protagonisti, e il film introduce un altro elemento iconografico fondamentale: gli animali impagliati appesi alle pareti. La tassidermia è infatti il curioso passatempo di Norman. Come in Viale del tramonto, l’idea dell’animale impagliato qui non serve ad altro che a insinuare in Marion e quindi nello spettatore i primi seri dubbi sulla sanità mentale del padrone di casa. Non rappresenta che una stranezza, dunque. Eppure, come già accennato parlando del film di Wilder, anche questo elemento si caricherà in futuro di precisi significati ideologici, finendo per convogliare in quella sorta di “western capovolto” di cui si delineeranno con sempre maggior precisione i confini. Gli uccelli impagliati qui denotano tutt’al più un tipico atteggiamento del criminale psicopatico, quel34
lo di immobilizzare le proprie vittime, di renderle innocue e in qualche modo spersonalizzarle. Più avanti, invece, immagini analoghe costituiranno le pallide e sempre più putride effigi di una conquista della Frontiera che ha gettato definitivamente la sua maschera dai connotati eroici ed epici per rivelare quelli di una brutale sopraffazione della natura e, in generale, del più debole. Il sopraffatto, il vinto, l’emarginato della storia americana cominciano dunque a riemergere dal rimosso della coscienza collettiva, per dimostrare come la violenza sia l’unico, vero momento fondante della Nazione. Si è detto che la presenza di un assassino singolo costituisce la differenza fondamentale fra Psyco e i film del sottogenere cui darà l’avvio. Sempre all’interno di questo dialogo fra Norman e Marion, tuttavia, l’uomo fa riferimento alla propria famiglia, rivelando alla sua improvvisata ospite brevi ma precisi cenni riguardanti i propri congiunti. La informa che sua madre – che Marion poco prima aveva sentito urlare – è malata di nervi anche per aver cresciuto da sola il figlio in seguito alla morte del marito. Poco importa se nel corso del film la verità si rivelerà in gran parte diversa, ossia che è stato Norman a uccidere sia la madre che il patrigno in una furia edipica. Ciò che conta, è che nelle parole dell’uomo ritorna l’immagine della famiglia monca di un genitore che come abbiamo visto parlando dei prodromi del sottogenere aveva attraversato tutto il western classico, e che verrà assimilata sempre più prepotentemente dal nuovo horror e dal cinema a esso parallelo. Il legame di sangue, che in seguito diventerà sempre più centrale, non costituirà quasi mai una critica nei confronti della famiglia in sé. Ma starà a significare come in una società fondata sull’individualismo, e costituzionalmente allergica all’ammortizzazione sociale, una debolezza di qualsiasi genere – anatomica, mentale, economica – non può che trasmettersi di padre in figlio alla stregua di un morbo, in una catena di inesorabile determinismo, diventando qualcosa di paragenetico, come i mille problemi psicofisici dei futuri personaggi staranno a dimostrare. Eccoci dunque alla scena della doccia. Pur nel magistrale stile ellittico con cui viene rappresentata, la violenza subita dalla protagonista è qualcosa di assolutamente inedito per gli schermi americani. Ma a colpire è anche il trattamento ricevuto dalla protagonista ai margini dell’atto violento. Quando mai si era visto così bene un water al centro dell’inquadratura? Tanto meno si poteva immaginare di vedere l’eroina di turno azionare lo sciacquone. 35
Mentre a delitto ormai compiuto a impressionare è la goffaggine con cui Hitchcock la fa accasciare verso il pavimento. Quella che era una star, ora è solo un ammasso di carne senza vita. Con l’intera sequenza, d’altronde, oltre ad anticipare di nuovo tratti del geriatric horror, Hitchcock intende accanirsi contro il pubblico e le sue ingenue aspettative. Ma senza saperlo, si sta scagliando anche contro il vecchio cinema. Alla fine dello sfogo animalesco di Norman, infatti, l’obiettivo abbandonerà lo sguardo ormai immobile di quella che sembrava la protagonista. Come già spiegato, con questo movimento lento, insistito, finisce il cinema che si identificava con l’eroe, assecondando la simbiosi con il montaggio invisibile e narrativo qui sconfessato nella maniera più eclatante. Dopo aver messo a disposizione del cinema futuro un intero universo tematico, Psyco suggerisce, dunque, anche una chiave per esprimerlo, in felice coincidenza con le teorizzazioni europee riguardanti la politica degli autori. Da questo punto di vista, lo stile hitchcockiano rappresentava d’altronde già in partenza l’ideale. Pur inserito perfettamente nel mainstream, e quindi in una modalità di racconto ancora sostanzialmente classica, il cinema di Hitchcock aveva sempre mostrato una certa insofferenza nei confronti del montaggio meramente narrativo, e più nel dettaglio del découpage canonico, preferendo dare più importanza alle singole inquadrature che alla loro giuntura, e forzando a tal proposito le geometrie dei raccordi. Un approccio espressivo in larga parte dovuto alla pratica dello storyboard cui il regista era come noto avvezzo e, quindi, alla tendenza a “montare” idealmente il film ancora prima di trovarsi sul set, alle prese con concreti punti di riferimento spaziali. I momenti di Psyco in cui maggiormente si avverte questa attitudine, sono alcuni dialoghi in cui il regista adopera un campo-controcampo dai raccordi particolarmente forzati, a tratti quasi scorretti, o in cui addirittura rinuncia a questo accorgimento in favore della semplice successione di piani contigui, con i personaggi presi esattamente di profilo e perfettamente paralleli allo sfondo. Un’idea, un po’ facile, con cui sottolineare la distanza e il contrasto fra i protagonisti. Ma anche un escamotage con cui spezzare la monotonia di un film complessivamente piuttosto parlato, e dove a scene madri sconvolgenti e stilizzate, si contrappongono, soprattutto nella seconda parte, molti momenti non esenti da quell’estetica un po’ insipida e paratelevisiva che già da qualche anno campeggiava indisturbata sul grande schermo. 36
A proposito di questo che è il momento cruciale del film, è doveroso infine puntualizzare come l’idea di adottare una protagonista per poi scalzarla sia essenzialmente un’idea originale di Hitchcock. Nel libro di Bloch infatti non solo Norman viene introdotto per primo, ma anche in una maniera che non lascia dubbi sulla sua natura di psicopatico, e quindi di potenziale fonte di pericolo pronta a esplodere. Inoltre Marion rimane al centro della vicenda per quello che viene avvertito come un tempo decisamente minore rispetto all’ampia porzione di film che invece riesce a guadagnarsi. Ancora, sul grande schermo gioca il suo ruolo decisivo anche la presenza di un’attrice famosa, rispetto a cui Anthony Perkins non è ancora nessuno. Solo nel film, dunque, c’è la sensazione di assistere a un inaspettato, sconvolgente passaggio di consegne, con tutto ciò che di simbolico esso comporta. Quando la svolta si è ormai perfezionata, quindi, l’ideale prima parte del film si chiude su un’altra immagine molto significativa: l’auto di Marion inghiottita dalla palude di quell’angolo di wilderness che si nasconde dietro la residenza dei Bates. L’America selvaggia divora definitivamente quella del progresso. Il nuovo cinema del regista-demiurgo fa a pezzi quello confezionato a uso e consumo del pubblico e in favore della sua identificazione con l’eroe. Depositario di entrambe queste rivoluzioni, è Norman Bates, il nuovo, vero protagonista del film. Ma l’idea di creare un protagonista per poi distruggerlo viene in qualche modo reiterata subito all’inizio di quella che può essere considerata la seconda parte del film, attraverso il personaggio di Arbogast, l’investigatore privato incaricato dall’agenzia per cui Marion lavorava di ritrovare la donna e soprattutto il denaro che presumibilmente ha con sé. Hitchcock introduce il personaggio in maniera molto prepotente, con un primissimo piano e addirittura un camera-look dell’attore. Un trattamento, insomma, che non può essere riservato a un personaggio marginale. Figura stereotipata che sembra uscita da un noir degli anni Quaranta, con il suo cappello e il suo trench appoggiato con disinvoltura su un braccio, Arbogast rappresenta infatti l’ultima occasione per il film di rientrare su binari normali, e riconciliarsi con il vecchio cinema. L’idea di un thriller tipicamente hitchcockiano, con un’eroina tormentata al centro della vicenda, è stata appena archiviata, ma il film può ancora trasformarsi in una classica detective-story, ancorché insolitamente cruda, e nonostante il regista inglese com’è noto non nutra per questo genere una particolare passione. In fondo il comportamento di 37
Marion era stato immorale, e la sua punizione – per quanto sproporzionata – rientrerebbe dunque nelle dinamiche moraliste dell’universo hard-boiled. A dispetto dell’entrata in scena appariscente, e malgrado l’ottimo piglio dimostrato nel mettere subito sotto torchio Norman, tuttavia, Arbogast farà presto la stessa fine dell’oggetto delle sue ricerche: in fondo allo stagno, sotto lo sguardo attento del padrone del motel, diventato ormai uno schiacciasassi pronto a sopprimere qualsiasi tentativo del film di rientrare entro schemi rassicuranti. Soltanto il terzo tentativo di scoprire cosa è accaduto a Marion andrà a buon fine. E sarà quello messo in atto dal fidanzato Sam e dalla sorella Lila. Di questa parte decisamente meno interessante del film, almeno dal punto di vista dell’influenza sugli sviluppi del sottogenere, è giusto però sottolineare almeno un altro paio di particolari. Arrivati dalle parti del motel, i due avranno modo di consultare lo sceriffo della cittadina. Questi non solo si mostrerà disponibile a dare qualsiasi informazione utile, ma accoglie la coppia in casa propria, in tarda serata, mentre è già in vestaglia assieme alla moglie. Un atteggiamento dunque pressoché opposto a quello cui assisteremo in futuro, quando intere comunità saranno ostili nei confronti dei forestieri che ficcano il naso nella realtà locale. È un aspetto che fa il paio con l’altra deroga, ossia la presenza di un killer singolo, il cui istinto omicida è del tutto svincolato da legami socio-culturali della comunità cui appartiene. L’altro motivo d’interesse della parte finale, stavolta però in sintonia con gli sviluppi del sottogenere, è la formazione di una nuova coppia, quella formata da Sam e Lila. Qui il connubio ha soltanto finalità pratiche, e un coinvolgimento sentimentale non viene neppure suggerito. Si tratta di uno sviluppo, non di meno, che lo spettatore può immaginare, anche perché rientrerebbe nel tipico motivo hitchcockiano della coppia che si consolida attraversando le tenebre di un traumatico ma alla fine catartico percorso di formazione, come, per esempio, i protagonisti di Il club dei 39 o di Intrigo internazionale. E l’immagine di una coppia che sopravvive alla violenza al centro del film, per formare idealmente un nuovo nucleo familiare, è un elemento che tornerà nel wrong turn movie, e che servirà a ribadire, stavolta però in direzione positiva, il senso di determinismo e di selezione naturale che grava sul sottogenere. Arrivata alla proprietà dei Bates, quindi, la coppia scoprirà la vera identità della madre di Norman. Tutto il resto, verrà spiegato da uno psicologo 38
nella stazione di polizia dove l’assassino sarà recluso. La spiegazione sarà lenta e particolareggiata, persino didascalica. Dopo aver fatto la rivoluzione, Hitchcock concede al pubblico almeno un contentino finale. Un ultimo particolare appare interessante dopo che la dimensione psicanalitica del film ha preso il sopravvento, allontanandolo dalle tematiche della wrong turn. Quando si sente chiedere da uno dei presenti: “Ma i quarantamila dollari che fine hanno fatto?”, lo psicologo risponde: “Sono nello stagno”, col tono di chi stia dicendo una cosa ovvia. A Norman i soldi non interessavano. Quel microcosmo che si era creato e a cui ormai non accedeva più nessuno, per lui era sufficiente, non aspirava ad altro. Secondo, di nuovo, quell’atteggiamento refrattario che diventerà tipico. Questa è l’immagine-testamento del film, e quella che ne racchiude tutto il senso: i banali tornaconti della società capitalistica, così come gli schemi collaudati del cinema di genere spesso dettati proprio dal passaggio del denaro, vengono inghiottiti dalla natura selvaggia e più recondita della terra americana.
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Più che un buco nel muro, l’obiettivo di una cinepresa. Norman Bates come alter-ego del nuovo regista-demiurgo.
Uscire dai binari del vecchio cinema. Simbologia dello sguardo in Psyco.
Capitolo terzo
Primi oscuri frutti dell’eredità Hitchcokiana: A bruciapelo
Ci vuole qualche anno perché il grande successo di Psyco lasci spazio alla sua influenza, la cui portata da qui in poi diventerà viceversa inarrestabile. Ed è significativo che a raccogliere il lascito hitchcockiano fin da subito appaia più interessato il cinema indipendente di quello hollywoodiano. Per la maggiore vivacità che può vantare in questi anni, ma soprattutto per la ben più spiccata propensione ad accogliere l’immagine dell’America che il capostipite ha più o meno volontariamente suggerito. Si tratta di un cinema povero invogliato a questa sfida ovviamente anche da una formula narrativa che sembra offrire un ottimo potenziale di presa del pubblico senza la necessità di grandi mezzi. Il primo titolo che mette insieme una significativa quantità di elementi già visti nel modello, per giunta sviluppandone la forza espressiva ed esplicitandone i significati ideologici, è A bruciapelo (The Sadist, 1963), sorprendente quanto trascurata opera prima di un certo James Landis, nome mai affiorato in superficie dalle profondità dello sconfinato oceano cinematografico off-Hollywood. Ed, Doris e Carl, tutti e tre insegnanti, sono diretti a Los Angeles per assistere a una partita di baseball. A causa di un guasto alla macchina sono però costretti a fermarsi presso un’officina in piena campagna. L’officina sembra deserta, finché sul posto non arriva qualcun altro. Si tratta di una giovane coppia, Charlie e Judy, due giovani sbandati armati e con delle cattive intenzioni. I tre insegnanti, tagliati improvvisamente fuori dal mondo, si troveranno coinvolti prima in una guerra di nervi, e poi in una brutale lotta per la sopravvivenza. 41
Dopo un preambolo sensazionalistico e piuttosto fuori luogo, con gli occhi dell’eponimo sadico che spuntano nel buio per un ingenuo cameralook, e un’enfatica voce over che sembra voler mettere le mani avanti avvertendo lo spettatore di quanto sia cattivo il personaggio che si trova di fronte, partono i titoli di testa. Dopodiché, ci si ritrova subito al centro dell’azione: un’auto svicola dalla strada principale per imboccare un viottolo sterrato su cui campeggia un cartello con la scritta repairs, riparazioni. Eccoci già proiettati nel cuore della wrong turn in cui era incappata anche Marion Crane: un imprevisto costringe qualcuno ad allontanarsi dal percorso prestabilito. Nonostante un découpage più convenzionale ed equilibrato rispetto a quello visto nel capolavoro hitchcockiano, Landis dimostra subito di saper piazzare la cinepresa nel punto giusto al fine di creare effetti stranianti assolutamente originali, per non dire inediti, probabilmente anche grazie all’aiuto di un collaboratore d’eccezione appena giunto in America dall’Europa dell’Est: il grande direttore della fotografia ungherese Vilmos Zsigmond, che qui si produce in un bianco e nero dall’attitudine realista, perfetto per assecondare una messa in scena particolarmente spartana e credibile. Un esempio di questa perizia lo si trova già all’inizio, quando vediamo l’auto dei protagonisti fermarsi nel cortile dell’officina da dietro una fatiscente e non meglio identificata struttura di legno, con un effetto di quadro nel quadro vagamente minaccioso. L’idea di porre i protagonisti in secondo piano dietro un oggetto relegato ai margini dell’inquadratura, di per sé banale ma reso inquietante dal suo stato di abbandono, ricorrerà con molta frequenza in questa sorta di prologo, scandendo con un ritmo sottile ma sempre più insostenibile l’impressione che gli avventori si trovino in un luogo desolato, al centro fra l’altro di uno scenario semidesertico e completamente privo di ombre molto simile a quello che faceva da sfondo alla fuga fuori città della protagonista di Psyco. E per giunta che siano, forse, osservati da qualcuno. Ma la stessa idea di frapporre un ostacolo fra lo sguardo della cinepresa e i personaggi non può non essere visto, più in generale, anche come una delle prime conseguenze di quel “tradimento” del regista nei confronti delle proprie creature messo in atto da Hitchcock a partire dalla cruciale scena della doccia. A rendere particolarmente stranianti i primi minuti del film di Landis, infatti, sarà proprio il distacco con cui vengono seguiti personaggi dichiaratamente positivi, e meritevoli dunque, in teoria, di un trattamento ben più “caloroso”. 42
Poco dopo comunque i protagonisti entrano in scena: si tratta di un uomo e di una donna piuttosto giovani, Ed e Doris, e di un loro amico e collega più vicino alla mezza età, Carl. I due uomini sono vestiti in modo identico, con camicia bianca a maniche corte, pantaloni neri e cravatta dello stesso colore; la donna porta un lungo vestito già retrò rispetto all’epoca del film. Complessivamente, insomma, il piccolo gruppo restituisce l’immagine di un’America pulita ed edificante, che una bottiglietta di coca-cola, di lì a poco in mano a ciascuno, servirà a perfezionare con un effetto volutamente stereotipato. In tal senso, il nome della donna, Doris, risulta un chiaro riferimento a Doris Day, icona dell’America innocente veicolata da Hollywood fino a pochi anni prima. I tre inoltre sono insegnanti, un ruolo che da sempre nel cinema americano rappresenta la società rispettabile, e che nel western classico simboleggiava addirittura il sopraggiungere della civiltà a scapito della barbarie. Scopo dei tre, e forse il massimo dello svago che sono soliti concedersi, è d’altronde quello di andare ad assistere a una partita di baseball, passione tipica dell’americano medio. A ben vedere, infine, Ed possiede una somiglianza con il presidente Kennedy che è difficile immaginare casuale, ed evidente in particolare nella plastica piega dei capelli. La tranquillità e l’ottimismo manifestati dai tre nonostante l’intoppo capitatogli, perfettamente in linea con la caratterizzazione suggerita dal loro aspetto, finisce per creare ulteriore tensione a contrasto con la desolazione dell’ambiente circostante. Sfruttando abilmente il climax, Landis inoltra a questo punto la cinepresa all’interno di un caseggiato che si trova ai margini del cortile, continuando però a tenere d’occhio i tre avventori, con una dinamica interno-esterno che insinua ancora di più il dubbio che qualcuno stia osservando tutta la scena. Un’idea di regia che oggi apparirebbe scontata, addirittura un cliché del cinema thriller-horror, ma difficile da trovare in un film precedente. Quindi, per quanto fiduciosi di risolvere in qualche modo il loro problema, i tre cominciano a reclamare attenzione verso chiunque si trovi nei paraggi. È a questo punto che, con grande tempismo, Landis mette a segno la prima inquadratura veramente folgorante del film: mentre uno degli uomini urla: “C’è qualcuno qui?”, la cinepresa stacca su un campo lungo, uno sguardo dall’alto che permette di constatare come i protagonisti siano completamente circondati da un vero e proprio cimitero di macchine abbandonate. Una visione totale che i tre, dal loro punto di vista, non possono 43
apprezzare del tutto. Il senso di distacco fra obiettivo e personaggi si acuisce dunque notevolmente e in modo improvviso. Ma soprattutto, torna un’immagine simbolica già intravista in Psyco: l’assembramento di automobili. Se nel capostipite, però, avevamo soltanto macchine usate, qui troviamo vetture ridotte a catorci. Si tratta di un’immagine abilmente ambigua, perché l’officina può essere anche uno sfasciacarrozze, oppure si può servire delle auto abbandonate per i pezzi di ricambio. Ma il modo e il momento in cui viene usata, non possono allo stesso tempo non far pensare a un eventuale pericolo per tutti quelli che si avvicinano al luogo in questione. Anche perché Landis subito dopo chiude il folgorante climax tornando sull’inquadratura del cortile ripreso da dentro il caseggiato, mostrando con un fugace movimento di macchina come un telefono già intravisto in precedenza abbia i fili recisi. Un altro “proto-cliché”. Dopo un ulteriore momento di distensione, in cui i tre discorrono ancora tranquillamente come se il loro problema stesse lì lì per risolversi, Landis inserisce un’altra immagine emblematica. Doris si spaventa nel notare in terra la muta di un serpente. Rassicurata in un primo momento da Ed, che nel frattempo si è tolto la camicia e ha virilmente cominciato ad armeggiare attorno all’auto nel tentativo di capire qualcosa di più del guasto, si spaventa di nuovo quando crede di vedere un serpente dentro il cofano della vettura. A questo punto l’uomo le mostra divertito come non si tratti di altro che di un tubo del motore. Con un meccanismo di climax-anticlimax di nuovo nient’affatto scontato, dunque, il regista raffredda sul momento gli animi, suggerendo però al contempo uno scambio di ruoli fra civiltà e wilderness che con tutta probabilità prelude a momenti ben più inquietanti. E proprio i serpenti torneranno non a caso nel parossistico finale. Lo stesso meccanismo si ripete poco dopo, con l’entrata di Carl nel caseggiato. Alla ricerca di qualcuno che possa dare una mano, l’uomo decide di ispezionare l’interno. Qui scopre un piccolo soggiorno ammobiliato in modo molto modesto ma ordinato. Allarmato da un rumore proveniente da oltre una tenda, scosta con timore il drappeggio. Sul momento l’inquietudine si appiana: non si trattava che di un gattino alla ricerca di qualcosa da mangiare su di un tavolo apparecchiato. Dopo un primo momento di sollievo, però, l’uomo torna a osservare la tavola con più attenzione. Notando come dei quattro piatti presenti solo due sembrano essere stati usati, mentre gli altri sono ancora pieni di cibo. Perché due dei commensali non hanno 44
consumato? Questa non troppo misteriosa allusione, come quella delle auto abbandonate, conferma come Landis presupponga di parlare a un pubblico ben più smaliziato di quello che poteva assistere ai prodotti dell’epoca d’oro di Hollywood. Come a suggerire una risposta al quesito della tavola apparecchiata, ecco quindi entrare in scena gli altri protagonisti del film. Si tratta di un momento cruciale su cui è giusto soffermarsi. La prima cosa che entra nell’inquadratura è la canna di una pistola, che appare in primo piano relegando gli insegnanti in secondo, in linea con quella stilizzazione che come vedremo caratterizzerà almeno in parte questo quanto gli altri primi esempi del sottogenere, ancora a metà strada fra vecchi e nuovi mezzi espressivi e in particolare in difficoltà quando si tratta di interpretare in senso di crudo realismo momenti di grande tensione. Inoltre l’inquadratura svela incidentalmente come Landis adotti Hitchcock come proprio modello. Una molto simile la si ricorda infatti in Io ti salverò (Spellbound, 1946), in cui il regista inglese, per enfatizzare l’effetto in senso espressionista, si era servito di un modello in larga scala dell’arma. Dopo brevissimi piani che mostrano la reazione spaventata dei tre insegnanti, quindi, il controcampo svela finalmente l’identità dei nuovi arrivati. Si tratta di una giovane coppia dall’aspetto un po’ selvaggio. Lui indossa pantaloni e giacca di jeans, lei un vestito lungo anche stavolta molto anni Cinquanta ma consunto e portato con poca grazia. L’apparizione dei due, inoltre, è accompagnata da un bel carrello in avanti che può facilmente ricordare quello analogo, e celeberrimo, che introduce il Ringo di John Wayne in Ombre rosse (Stagecoach, John Ford, 1939). Il parallelismo contribuisce, assieme all’ambientazione desertica, a sottolineare come anche qui ci stiamo lentamente inoltrando in un territorio che una volta era appartenuto al western. Ma costituisce anche quel beffardo e canzonatorio riferimento al cinema classico e alla sua ingenuità che diventerà presto una costante. La prima cosa che doveva colpire lo spettatore americano dell’epoca, nella caratterizzazione dei nuovi arrivati, è la somiglianza – stavolta troppo accentuata per non essere dichiarata – con quella che è forse la più famosa coppia criminale statunitense di tutti i tempi, fatta eccezione solo per Bonnie e Clyde: Charles Starkweather e Caril Ann Fugate, due ragazzi che alla fine degli anni Cinquanta imbastirono una fuga romantica attraver45
so gli stati del Midwest, salvo lasciare dietro di sé una lunga scia di sangue. La loro vicenda verrà raccontata con buona fedeltà nel capolavoro di Terrence Malick La rabbia giovane (Badlands, 1973), e sarà al centro anche della canzone Nebraska di Bruce Springsteen, solo per fare due illustri esempi che testimonino l’importanza dei personaggi nell’immaginario collettivo americano. Torna dunque un altro elemento già visto in Psyco, ossia il riferimento a un preciso fatto di cronaca nazionale. Se però Norman Bates, soprattutto quello del film, era un Ed Gein in versione molto più astratta rispetto al personaggio reale, qui abbiamo a che fare con una citazione decisamente esplicita. Ma anche mettendo da parte i precisi riferimenti storici, rimane interessante il fatto che la fonte del pericolo sia rappresentata da due ragazzi poco più che adolescenti, ossia coetanei delle centinaia di migliaia di connazionali che di lì a poco sarebbero stati mandati al massacro in Vietnam. Le vittime della storia nazionale cominciano dunque a contrapporsi agli esponenti della società civile. Dal punto di vista più strettamente cinematografico, invece, i giovani psicopatici del film di Landis costituiscono l’ultimo anello della catena evolutiva di un qualcosa che si era visto sugli schermi negli anni immediatamente precedenti. A partire dai primi anni cinquanta, a Hollywood aveva preso piede – dopo più sporadici prodromi degli anni quaranta – il fortunato filone della cosiddetta juvenile delinquency. Film come Il selvaggio (The Wild One, Laszlo Benedek, 1953), Il seme della violenza (Blackboard Jungle, Richard Brooks, 1955), Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause, Nicholas Ray, 1955) vedevano al centro delle vicende giovani irrequieti e confusamente ribelli nei confronti dei genitori e del mondo degli adulti in genere, la cui rabbia non generava però altro che una sorta di rivoluzione implosa, e preludeva regolarmente a un sereno ancorché faticoso ricomponimento dello status quo. Parallelamente, però, il cinema indipendente non mancò l’occasione d’inserirsi prepotentemente nel solco di un sottogenere che anche in questo caso garantiva una facile presa del pubblico senza troppe pretese produttive. Pellicole dai titoli eloquenti come Teenage Devil Dolls (Bamlet Lawrence Price jr., 1955), La bestia (Teen-age Crime Wave, Fred F. Sears, 1955), Giovani gangsters (Juvenile Jungle, William Witney, 1958), Young and Wild (William Witney, 1958), The Party Crashers (Bernard Girard, 1958), Riot in Juvenile Prison (Edward L. Cahn, 1959), 46
pur essendo talvolta occasione per infilare qualche pezzo rock allora in voga fra i ragazzi, sulla falsariga dei beach movies californiani, esibivano una gioventù ben più anarchica, aggressiva e soprattutto nichilista rispetto ai loro omologhi del mainstream. In Teenage Devil Dolls, tanto per fare un esempio, si fa esplicito riferimento all’uso di droghe, e i protagonisti sono sempre sul punto di lasciarci la pelle. Anche in questi film alla fine l’ordine prevaleva, ma la sensazione di un malessere perfettamente credibile e insospettabilmente diffuso, era di gran lunga più tangibile. Non a caso, un giovanissimo protagonista di un tardo esempio del sottogenere, The Choppers (Leigh Jason, 1961), era stato proprio Arch Hall jr., ossia “il sadico” del film di Landis. Ad appena due anni di distanza, però, sembrano passati secoli. Incrociandosi con l’apparato iconografico e narrativo introdotto da Psyco, quello che era il filone giovanilistico diventa qualcosa di ben più delirante e violento, come testimoniano eloquentemente l’aspetto e il comportamento selvaggio di questa coppia criminale. Nella sua fase iniziale, dunque, l’horror realistico della wrong turn sembra intenzionato a dare un’altra possibilità a questi giovani arrabbiati, possibilità che stavolta sfrutteranno nel modo più crudo e brutale, anche perché nel frattempo, nell’America reale che sprofonda inesorabilmente nella tragedia del Vietnam, i loro problemi con il mondo dei grandi avranno assunto un carattere molto meno esistenzialista e meditabondo, prendendo viceversa la piega di una lotta per la sopravvivenza quasi animalesca. Del tutto ininfluente dal punto di vista strettamente narrativo, ecco dunque che anche il tipo di lavoro dei tre personaggi adulti del film di Landis trova un senso nel connettersi direttamente con il tema del rapporto genitori-figli e dell’educazione di questi ultimi, nonché con il cinema che finora lo aveva trattato in modo più o meno rassicurante. Ora che il pericolo si è palesato, infine, si può sancire un altro elemento di evoluzione del film rispetto al suo predecessore hitchcockiano: l’ambientazione diurna e del tutto outdoor. A bruciapelo diventa così il primo film thriller-horror americano in cui il pericolo per i protagonisti, e la conseguente tensione per lo spettatore, nascono nell’ambito di scenari completamente aperti e illuminati. Dal momento dell’arrivo dei due criminali, ha inizio una lunga ed estenuante guerra di nervi fra questi e le loro vittime. I primi terranno infatti sotto scacco i secondi senza però manifestare intenzioni ben precise e pren47
dendo la situazione come una specie di gioco utile a spezzare per un po’ la noia che sembra affliggerli. Lo stallo tuttavia verrà in più occasioni interrotto da scatti di violenza da parte di Charlie. Ed è interessante notare come a questi episodi improvvisi corrisponderà spesso una deroga allo stile equilibrato e simil-hollywoodiano che informa per il resto il film, con un uso estemporaneo dello zoom e della cinepresa a spalla, mezzi espressivi sconosciuti o quasi al cinema classico che viceversa si riveleranno sempre più importanti in quello fra anni Sessanta e Settanta, e che Landis è fra i primissimi ad adoperare. Anche all’interno di questo stile più esagitato, comunque, l’attenzione del regista per la suggestiva composizione dell’inquadratura rimane vigile. Un primo esempio lo si trova quando Charlie costringe a terra Doris. Qui un fugace movimento di cinepresa a spalla finisce per impallare il volto della donna con la carcassa di un motore di un’auto, in un’inquietante equiparazione: oltre a sottolineare una volta ancora il declino dei simboli della civiltà, l’inquadratura identifica la donna con un oggetto abbandonato, lasciando intuire allo spettatore quali siano le intenzioni del criminale. Come il personaggio reale cui si ispira, Judy assolve invece semplicemente il ruolo di spettatrice delle malefatte del suo uomo, anche se all’apatia con cui la dipingerà Malick qui si aggiunge una vaga crudeltà. In ogni caso il personaggio svolge una funzione importante. È grazie a lei, infatti, che comincia a delinearsi un nuovo tema del sottogenere, ossia la sostituzione del nucleo “civile” con quello selvaggio. Benché di solito gelosi del proprio microcosmo, e orgogliosi del proprio status di outsider rispetto a una società che disprezzano e che li disprezza, i cattivi del wrong turn movie non di meno cercano sovente di assimilare atteggiamenti delle loro controparti borghesi. E ciò non tanto per un senso di invidia, quanto per un solenne atto di giustizia sociale. Fin dai primi momenti della sua comparsa, Judy si mostra dunque particolarmente attratta dall’aspetto del suo omologo positivo Doris. Ne imita l’acconciatura e, quando il proprio compagno la farà entrare in possesso dei suoi effetti personali, sarà ansiosa di testarli su di sé. È un tipo di comportamento che ricorrerà sempre più spesso negli horror futuri, e che i villains adotteranno come sorta di risarcimento per essere stati esclusi dal sistema, per non aver mai potuto usufruire delle fortune di chi invece vi si è inserito senza problemi. Un elemento narrativo che meglio di tanti altri esprimerà il senso di colpa che l’America comincerà a nutrire in questi anni di severa autocritica nei confronti di tutti coloro che sono stati schiacciati dalla sua 48
spinta individualistica al progresso e sono rimasti esclusi da quella promessa di libertà e di prosperità su cui si basa l’esistenza stessa della Nazione. In tal senso, è importante sottolineare come i due criminali qui non abbiano particolari obiettivi pratici nei confronti dei tre ostaggi. Al di là di qualche fugace avance nei confronti dell’insegnante, Charlie non manifesta l’intenzione di approfittarsi di lei, il che lo rende fedele nei confronti della propria compagna, verso cui si comporta d’altronde con grande affetto. E anche il denaro, nonostante qualche banconota sottratta da un portafoglio per garantirsi la mera sopravvivenza, non viene cercato in maniera sistematica. Alla stregua di Norman Bates, che gettava i quarantamila dollari nello stagno. Piuttosto presto, comunque, arriva un momento di svolta con cui il film si inoltra inaspettatamente in una rappresentazione della violenza che ancora oggi fa impressione. Charlie decide di fare del tiro a segno con la pistola attorno ai tre insegnanti, colpendo fra l’altro la loro auto, che inizia così ad assomigliare in maniera inquietante alle altre vetture abbandonate. Quindi, il criminale prende di mira Carl. Dopo un faccia a faccia quasi insostenibile, durante il quale quest’ultimo implora di essere risparmiato, la pistola fa fuoco, colpendolo in pieno volto. La crudezza della scena viene in parte attenuata, ancora una volta, dal taglio stilizzato delle inquadrature, nonché sublimata dal loro carattere simbolico ottenuto di nuovo attraverso la profondità di campo e la dinamica primosecondo piano. Nei momenti che precedono lo sparo, infatti, sullo sfondo dei due uomini e dell’apatica pupa del sadico si intravede una sorta di carrozzone da circo su cui campeggia la scritta wild animals, animali selvaggi. Non di meno, quello dell’esecuzione crudele e gratuita rappresenta un momento sconvolgente e inaspettato che non ha paragonabili precedenti nel cinema americano. Col senno di poi, fra l’altro, sono impressionanti le analogie fra questa scena e quella altrettanto insostenibile della roulette russa in Il cacciatore (The Deer Hunter, Michael Cimino, 1978): l’uomo con la pistola puntata addosso e con la fascia attorno alla testa (anche se qui indossata per tamponare la ferita causata da una percossa), il tiro al bersaglio che la precede. Inoltre, chi spara qui si chiama Charlie, come verrà chiamato il nemico vietnamita dai soldati americani. Il film di Landis mostra dunque lo stesso potere di precognizione sul cinema del futuro che abbiamo riconosciuto a Psyco. Subito dopo il traumatico evento, tuttavia, il ritmo si appiana di nuovo, lasciando che fra i quattro personaggi rimasti torni a giocarsi una lenta partita a scacchi sul filo dei nervi. Una lunga fase di studio che fra l’altro acui49
sce il senso di specularità delle due coppie. E a tal proposito è da notare come quella criminale appaia ben più affiatata di quella borghese, a suggerire di nuovo l’incombenza di una sostituzione fra i due nuclei, dettata da una sorta di selezione naturale “al contrario”, orientata cioè a risarcire gli emarginati della società. Al di là dell’arrivo di due poliziotti presto eliminati da Charlie – momento che si poteva sfruttare molto meglio dal punto di vista drammatico, ma che in un certo senso colpisce anche per questo, in quanto il ruolo del mondo civile rappresentato dai due agenti ne esce ulteriormente svilito – nella parte centrale del film la tensione cala quindi in modo evidente, senza che vengano aggiunti spunti interessanti nemmeno a livello metaforico. Questa situazione di stasi insolitamente prolungata, tuttavia, non fa che confermare come il film si stia inoltrando verso territori inconsueti per il cinema americano, compreso quello indipendente. A prevalere sul senso del ritmo e sul bisogno di intrattenere il pubblico attraverso la suspense, è una rappresentazione sempre più cruda e credibile della realtà. Si tratta d’altronde d’un preludio allo scarto dell’epilogo, in cui il film si affrancherà definitivamente dagli strascichi del cinema del passato a livello tanto stilistico che di contenuti. L’escalation emotiva riprende il suo corso da un escamotage grazie al quale la coppia in ostaggio riesce a colpire Charlie agli occhi con della benzina. Il giovane comincerà di conseguenza a puntare la pistola alla cieca, e quando avrà l’impressione di avere sotto tiro Doris, lascerà partire un colpo. A cadere a terra sarà invece Judy. Ecco dunque perfezionato il simbolismo della sostituzione: nel momento stesso in cui viene colpita, la donna corona infatti il suo obiettivo, quello di subentrare definitivamente alla sua omologa. Di nuovo, dunque, Landis sovrappone magistralmente a un elemento pratico favorevole ai protagonisti, una valenza metaforica che al contrario acuisce sottilmente l’inquietudine di fondo. La drammaticità dell’evento viene sancita, quindi, dalla reazione perfettamente coerente del criminale, che abbandona la maschera di cinismo per gettarsi a terra disperato accanto alla sua donna. È la conferma del rapporto di amore sincero che legava i due. Un aspetto che anche solo per un istante attira loro l’empatia dello spettatore, e contribuisce a connotarli come vittime della società. Questo momento di umanità del carnefice prelude però ovviamente a una reazione ancora più selvaggia verso i suoi obiettivi, che nel frattempo si sono separati e nascosti. A questo punto la complessiva compostezza dello 50
stile di Landis comincia appropriatamente a sfaldarsi. Le soggettive di ogni personaggio sono infatti l’occasione per mettere la cinepresa in spalla in modo più costante. Siamo ancora in anni in cui i movimenti irregolari della cinepresa godono non soltanto di una forza espressiva loro propria, ma anche di un surplus di drammaticità dato dal fatto che fino a quel momento erano stati considerati tabù da usare solo in casi eccezionali. L’uso al contrario generoso che ne fa il regista in questo caso serve, dunque, ad alzare la tensione fino al parossismo e a rendere il momento propedeutico a un ulteriore salto di qualità sul piano della violenza e della crudezza della sua rappresentazione. In un crescendo di inquadrature che affiancano sempre più insistentemente i corpi dei due ostaggi superstiti ai relitti delle autovetture, si insinua all’improvviso il primo piano di una mano inerme adagiata su uno pneumatico, a pochi centimetri dal viso di Doris, la quale, voltandosi, scopre i cadaveri di un’altra giovane coppia, stipati in fondo a un capanno. È la definitiva conferma di ciò che l’inquadratura delle auto abbandonate lasciava presagire all’inizio: qualcuno in quel posto è già stato brutalmente ucciso. Si tratta fra l’altro del momento in cui il film, che finora poteva ancora rientrare negli schemi del semplice thriller, comincia invece a inoltrarsi nel territorio del nuovo horror realistico, in virtù dell’elemento raccapricciante. La reazione allo spavento mette Doris nelle condizioni di essere scoperta dal criminale, costringendola a una fuga in pieno deserto. Dopo aver esploso un paio di colpi di pistola, però, Charlie rinuncia per il momento a inseguirla, e si occupa invece di Ed. Ha inizio così un montaggio alternato che come vedremo confermerà l’intelligenza del regista. Per un po’ Ed riesce a nascondersi dietro le auto disseminate per il cortile, ma alla fine è costretto a giungere a un drammatico faccia a faccia con l’assassino. È l’occasione per Landis di disattendere di nuovo le aspettative del pubblico. Quando i due uomini si trovano uno di fronte all’altro a qualche metro di distanza, infatti, la pistola del criminale si inceppa. In un film di qualche anno prima, sarebbe stato ovviamente il preludio a un finale positivo. Ma quando Ed si lancia contro Charlie nel tentativo di disarmarlo, la pistola torna a esplodere. Il criminale ha ucciso di nuovo. Un esito che la fuga solitaria nel deserto della donna, a ben vedere, lasciava presagire. Anziché un tipico montaggio alternato convergente alla Griffith, infatti, Landis ha optato per un montaggio divergente volto a suggerire come per il primo dei due 51
superstiti a essere preso di mira, probabilmente non ci sarebbe stata speranza. L’uccisione di Ed, sosia di Kennedy, conferma inoltre le qualità profetiche del film a pochi mesi dall’attentato di Dallas. A questo punto al carnefice non rimane che inseguire l’ultima vittima. Per un breve tratto di strada sfrutta a tal fine l’auto degli insegnanti. A pochi metri dall’obiettivo, però, l’auto non riesce più a ripartire perché impantanata in una buca. Il progresso, dunque, ha fallito di nuovo. Poco prima, inoltre, Charlie aveva stupidamente consumato tutto il caricatore per infierire sul corpo inerme di Ed, costringendosi così a ripiegare su un coltello. Mentre subito dopo osserviamo Doris trovare momentaneo riparo all’interno di un’abitazione fatta interamente di pietre. Si tratta, insomma, di una completa regressione a un mondo di barbarie, lontano dalla civiltà e dalla tecnologia, che la regia anche stavolta non perde occasione di sottolineare svincolandosi definitivamente da qualsiasi ricorso a un canonico découpage per assecondare i movimenti scomposti di questa caccia grossa. Siamo già con più d’un piede dentro l’estetica nevrotica del cinema anni Settanta. Vedendo arrivare il criminale, Doris si rende conto di essere in trappola, e si allontana dunque dalla primitiva abitazione per nascondersi dietro un muro di mattoni di un’altra casa ancora in costruzione. Scoperta anche qui, si dà quindi a una fuga ormai disperata. Per lei non si intravede più alcuno scampo. Senonché, pochi istanti più tardi, arriva il colpo di scena: dopo essere passato di nuovo accanto all’enigmatica costruzione fatta di pietre, Charlie finisce in una buca forse volutamente nascosta, dove si ritrova improvvisamente di fronte una decina di serpenti. La cinepresa di Landis a questo punto impazzisce, vorticando all’interno del piccolissimo ambiente e simulando anche delle folli soggettive dei rettili, con tanto di camera-look terrorizzato del criminale. Dopodiché, getta uno sguardo fugace su Doris, che, ormai insperatamente salva, si avvicina all’obiettivo in un primissimo piano caotico e allucinato. Infine, fra tanta furia visiva, un’ultima inquadratura vecchio stile: un primo piano stilizzato delle mani di Charlie che tastano il bordo della botola alla disperata ricerca di un appiglio. Uno strascico delle contraddizioni di cui vive questo gioiello al confine fra vecchio e nuovo. Ma la tragica e assurda fine del criminale era veramente voluta da qualcuno? Quella dei serpenti nella botola era davvero una trappola, magari tesa dal misterioso abitante della casa di pietra? Se così fosse, ci troveremmo di 52
fronte a uno scarto di violenza e follia non lontano, di nuovo, da quello presente in Psyco. Ma qui non abbiamo nemmeno più il conforto di certe risposte, perché Hollywood è finita, e a dettare anarchiche leggi, ormai, è il cinema indipendente. Prima di vagare senza meta per il deserto, infine, l’unica superstite di questa delirante mattinata di sangue passerà accanto all’auto che fino a poche ore prima apparteneva a lei e ai suoi amici. Dalla radio accesa si sentono brani di telecronaca della partita a cui tutti e tre avrebbero dovuto assistere: un’ultima, beffarda eco di un mondo civile. Ma la donna non prova nemmeno a far ripartire il veicolo. Si allontana disillusa a piedi verso i territori ignoti di un’altra America e di un altro cinema.
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Stilizzazione e realismo, una difficile convivenza. Vecchi accorgimenti espressivi cercano di interpretare nuovi contenuti in A bruciapelo.
Capitolo quarto
A morte Hollywood! A morte l’America! Two Thousand Maniacs!
Tramonto di Hollywood, omicidio Kennedy, guerra del Vietnam incombente, tensioni razziali alle stelle. Solo in un contesto come questo poteva nascere il cinema di Herschell Gordon Lewis. Una sparuta serie di microproduzioni che sotto le apparenze artigianali e persino dilettantesche nasconde, e neanche troppo, il malessere di una Nazione allo sbando. Il suo Two Thousand Maniacs!, a dispetto di questo involucro da cinema quasi improvvisato e malgrado la presenza di un marginale elemento sovrannaturale dalla funzione peraltro esclusivamente simbolica, non solo intercetta le principali novità tematiche del sottogenere della wrong turn, ma le cristallizza con una lucidità insospettabile, applicandole su uno sfondo di brutale realismo che farà la fortuna dell’horror del decennio successivo. E questo aspetto strettamente estetico-espressivo, ottenuto anche attraverso l’uso del colore a differenza degli altri primi esempi del sottogenere, farà parte integrante del contenuto di un film che forse come nessun altro avvilupperà, fino a identificarle, la fine della Fabbrica dei Sogni con la fine dell’America innocente, o presunta tale. Nell’aperta campagna di uno Stato del profondo Sud, le auto dei forestieri vengono volutamente dirottate verso la cittadina di Pleasant Valley, dove si sta celebrando una ricorrenza. Convinti e quasi costretti a partecipare alla festa dall’allegra comunità locale, gli avventori presto scopriranno a proprie spese che questa è in realtà composta esclusivamente da sadici psicopatici intenzionati a torturare e uccidere tutti gli stranieri che vengono da Nord. Si tratta infatti di una comunità fantasma ricomparsa a cento anni da una sanguinosa battaglia della Guerra di Seecessione, durante la quale la cittadina era stata rasa al suolo dai soldati dell’Unione. 55
Come A bruciapelo, il film non perde tempo, aprendosi già in piena wrong turn. Un campagnolo che fa da vedetta su un albero individua con il cannocchiale un’auto sulla cui targa si legge: Illinois, land of Lincoln. Quindi, fa un segnale a un compagno nascosto fra l’erba che costeggia la strada, il quale si affretta a posizionare sull’asfalto un grosso cartello con la scritta: detour, deviazione. Al che l’auto in arrivo è costretta a svoltare seguendo la freccia disegnata frettolosamente sotto la scritta. La strada sbagliata, in questo caso, viene dunque imposta volutamente da qualcuno. Ciò è dovuto alla natura particolare degli assassini, che di certo non si trovano nelle condizioni di avere un circuito di sostentamento autonomo, come in altri casi, e la cui stessa esistenza si deve a un imperativo di vendetta che implica dunque un atteggiamento più aggressivo e intraprendente del solito. In questa prima, breve scena, c’è già tutto il senso di un film che peraltro non avrà un grande sviluppo narrativo. In una pellicola con un titolo del genere – significativamente in linea con Psycho e The Sadist – è facile d’altronde immaginare quali siano le implicazioni della deviazione forzata degli avventori. Ma ciò che conta, è che la violenza da subito paventata viene collegata con segni che richiamano esplicitamente la storia americana, tanto quella antica quanto quella recentissima. Il veicolo deviato ha un’esplicita somiglianza con quello sul quale viaggiava Kennedy nel giorno dell’ancora fresco attentato di Dallas. Mentre il riferimento a Lincoln chiama già in causa la Guerra di Secessione che sarà al centro dell’esigua trama. L’accostamento fra Lincoln e Kennedy – e implicitamente fra i loro attentati – su uno sfondo di brutalità annunciata, sta dunque a suggerire come la violenza e le forze autodistruttive siano una sorta di karma nazionale. Dopo essere stati deviati di nuovo, quindi, i forestieri vengono condotti fino alla main street di una cittadina in cui trovano una situazione che sembra tutt’altro che minacciosa: la comunità locale sta festeggiando una ricorrenza agitando bandierine della Confederazione. Tuttavia, fra i titoli di testa, che esibiscono in modo ironico un’estetica televisiva mutuata dai coevi telefilm western, si fa largo una breve scena in cui dei ragazzini fanno violenza a un gatto, il che è sufficiente a gettare una luce ben diversa sugli abitanti dell’amena località. Anche questa volta, inoltre, la violenza è collegata a un simbolo della storia nazionale. Il gatto che (fuori campo) viene crudelmente impiccato – pratica già di per sé legata quasi esclusivamente al secolo precedente – reca infatti appeso un piccolo cartello con scritto: dan yankee, 56
dannato yankee in slang sudista, secondo una terminologia che richiama di nuovo quella Guerra di Secessione a cui evidentemente si riferisce anche il centenario stesso e il suo corredo di bandierine. Quando alle porte di Pleasant Valley le auto appositamente deviate sono diventate due, i sei forestieri che vi sono contenuti vengono accolti sin troppo calorosamente dal sindaco della cittadina e dal resto della comunità. La regia sgangherata di Lewis qui ha la capacità di creare un’atmosfera straniante che si fonde perfettamente con il disorientamento dei nuovi arrivati a contatto con lo stato d’animo esagitato di quelli che di lì a poco si riveleranno essere dei pazzi invasati. In seguito, si noterà come i forestieri siano caratterizzati in modo diverso dagli autoctoni anche a livello estetico ed espressivo. Se i secondi sono infatti ripresi in tutta la loro genuinità, come fossero apparsi davanti all’obiettivo per caso, anche grazie a una messa a fuoco perennemente vacillante, i primi sono truccati, acconciati e vestiti per sembrare appena usciti dal contesto iperrealista del cinema classico hollywoodiano. La cosa risulta evidente soprattutto durante la sequenza dell’arrivo più o meno forzato in albergo, occasione per Lewis di dimostrare come, al di là della sua virulenza iconoclasta, sia un regista più accorto di quanto si possa credere. All’interno delle stanze, gli ospiti vengono ripresi frontalmente rispetto alla scenografia, con inquadrature da cinema degli albori che riportano l’espressività della cinepresa al grado zero. Il tutto avviene poi su uno sfondo bianco o al massimo dalle tenui tonalità pastello che ha la capacità di far risaltare ancora di più l’alone pop che circonda le figure dei protagonisti. L’effetto è poi perfezionato dall’uso di oggetti d’arredo esageratamente stereotipati, dal disegno semplificato, che offrono uno scenario quasi metafisico. Il cinema hollywoodiano rappresentato dai forestieri viene dunque prima di tutto enucleato dal proprio usuale contesto sgargiante per essere posto in una sorta di limbo della messa in scena che ne sottolinei sostanzialmente la mancanza di credibilità. La seconda fase, che si sviluppa lungo tutto il resto del film, consiste invece nel buttare questo apparato estetico appena decretato come sorpassato, in pasto a una rappresentazione della realtà al contrario completamente priva di filtri estetici o espressivi. Una realtà documentaria ottenuta semplicemente piazzando la cinepresa al centro del desolato territorio rurale americano. 57
È proprio in questo stridore fra vecchi e nuovi mezzi estetici ed espressivi che sta il significato più profondo del film di Lewis. A creare inquietudine, anche nel prosieguo, non saranno tanto la brutalità delle azioni, quanto quella delle immagini e dei loro ritmi: montaggio dai raccordi elementari o irregolari, continui scavalcamenti di campo, un uso particolarmente gratuito dello zoom, una resa documentaria che va evidentemente oltre le intenzioni, dialoghi inutilmente interminabili, tempi morti. Che fine ha fatto il cinema americano? Se l’estetica levigata offerta dagli altissimi standard tecnici di Hollywood era chiaramente anche un modo per veicolare un senso di pulizia morale dell’intera Nazione, un cinema improvvisato, stilisticamente caotico e sguaiato come quello di Lewis – che riesce comunque ad avere una distribuzione e persino una certa notorietà – vuole rappresentare un segno dei tempi che va pericolosamente in direzione opposta. Anche il ricorso allo splatter, che proprio grazie a Lewis fa il suo esordio ufficiale nel cinema, e che ancora oscilla significativamente fra una resa fittizia, di nuovo pop, e una credibile brutalità, è tutto proteso a una volontà di vilipendio, di profanazione della vecchia estetica hollywoodiana. L’idea narrativa principale del film – ma sarebbe meglio dire l’unica – non a caso ha proprio lo scopo di sbeffeggiare a sua volta il vecchio cinema. La coppia di turisti che alla fine riuscirà a sfuggire alla comunità invasata, infatti, farà una scoperta che chiude il cerchio della schematica ma efficace ideologia alla base della pellicola. Su una targa in mezzo a un bosco, i due leggono che la popolazione di Pleasant Valley è stata decimata esattamente cento anni prima dai soldati dell’Unione durante una sanguinosa battaglia. Causa della furia omicida della comunità è dunque un desiderio di vendetta indirizzato ai forestieri provenienti dagli Stati del Nord. Possibile, però, che tale desiderio si mantenga così virulento a tanto tempo di distanza? Trattandosi di un film di Lewis, dal quale non ci si aspetta di certo una logica ferrea, potrebbe anche essere. Tuttavia, l’esilissimo racconto ha ancora in serbo una sorpresa piuttosto clamorosa. Si verrà infatti a scoprire che la comunità protagonista è destinata a ricomparire per un solo giorno ogni cento anni, in coincidenza con l’anniversario che sta festeggiando. L’idea è un esplicito riferimento al musical Brigadoon (Vincente Minnelli, 1954), dove lo stesso destino spettava a un pittoresco villaggio scozzese. Si tratta di un chiaro sberleffo al vecchio cinema, inteso come ruffiano veicolo di immagini ingenue. Immagini che a pochi anni di distanza Lewis ripropone 58
come abbiamo detto fuori dal contesto, per farle apparire come un’opera pop fatta di bambole rotte disseminate lungo uno scenario squallido e desolato ma del tutto genuino. Per il resto la vicenda del film non ha molto da dire, risolvendosi semplicemente in una serie di piccole trappole ordite dagli autoctoni ai danni dei forestieri che culminano regolarmente con azioni di un’efferatezza dai contorni sempre più parossistici: i corpi vengono sventrati e fatti a pezzi secondo varie modalità sul sottofondo di dementi grida di giubilo. Rimangono però un altro paio di idee da sottolineare. La prima è proprio quella di adottare come fonte del pericolo un’intera comunità. Oltre a costituire un ideale anello di congiunzione fra le situazioni paranoiche del cinema di fantascienza del decennio precedente e le orde di zombie che Romero metterà in scena di lì a pochi anni, l’immagine della comunità minacciosa si presterà entro breve a rappresentare la stessa società statunitense nei bikermovies contestatari, dove i giovani hippie verranno rifiutati da un’America reazionaria inaspettatamente estesa e coesa. Poi anche qui, come accadeva più velatamente in Psyco, e come capiterà in seguito, a sopravvivere è la coppia nuova, ossia formata da un uomo e una donna che prima dell’esperienza traumatica non si conoscevano. Se un finale almeno parzialmente positivo deve esserci, insomma, non deve però disattendere le basi ideologiche del film e dell’intero sottogenere, orientate verso la rappresentazione del più inesorabile darwinismo. A vincere questa selezione naturale sono dunque esponenti di quella parte della Nazione che anche la storia ufficiale ha decretato come vincitori. La storia del cinema, tuttavia, sta già prendendo un’altra piega. Nel dare agli sconfitti immaginarie ma non per questo meno significative occasioni di vendetta.
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Bambole rotte. La vecchia Hollywood enucleata per essere distrutta in Two Thousand Maniacs!.
Capitolo quinto
Una famiglia nuova dalle ceneri di quella vecchia: Un giorno di terrore
Se con Two Thousand Maniacs!, complici gli scarsissimi mezzi a disposizione, il neonato sottogenere della wrong turn era precocemente arrivato anche oltre il b-movie, esibendo un realismo brutale e in qualche modo già di per sé sconcertante, con Un giorno di terrore (Lady in a Cage, 1964) si torna almeno in parte sui binari del mainstream (il film è distribuito dalla Paramount) e quindi di un cinema dall’apparato estetico-espressivo convenzionale ed equilibrato, a metà fra cinema classico e i nuovi canoni televisivi, già da anni infiltratisi nell’estetica tardo-hollywoodiana. Non a caso il regista Walter Grauman, qui al suo esordio, proseguirà la sua carriera proprio nell’anonimato del piccolo schermo. Ciò non impedisce al suo film di riprendere e sviluppare tanti degli elementi che si stavano imponendo nel thriller-horror di quegli anni, ancorché in un contesto domestico e borghese, dunque ben lontano dall’ambientazione en plein air e selvaggia che parallelamente si andava delineando sempre più chiaramente. Anzi, è proprio questo scenario a dare al film un significato affine a quelli propri del solco in cui si inserisce, dato che il nucleo principale dell’ideologia che lo sottende è lo sfaldamento della famiglia borghese in favore di una famiglia alternativa, composta in modo improvvisato dagli emarginati della società. Cornelia Hilyard è una signora benestante che vive in un quartiere rispettabile con il figlio ormai maturo, il quale è stanco dell’atteggiamento iperprotettivo della madre e si allontana da casa dopo aver lasciato un biglietto in cui minaccia addirittura il suicidio. Rimasta sola, la donna è vittima di un incidente domestico: l’ascensore che la aiuta a ovviare ai suoi problemi 61
motori, portandola da un piano all’altro della grande dimora, si ferma a metà strada a causa di un guasto, lasciandola così prigioniera ad alcuni metri di altezza. Alla signora non rimane dunque che far scattare un allarme posto all’esterno dell’abitazione. In tal modo, riesce ad attirare l’attenzione di un barbone, che però, anziché prestare soccorso, intravede la possibilità di mettere a segno un furto e a tal fine corre a chiamare una sua amica prostituta. Ma i due non saranno gli unici outsider a dare l’assalto all’elegante abitazione. Randall, Elaine ed Essie, tre giovani sbandati che girovagano per il quartiere, decidono infatti di seguire la coppia di anziani. Apparentemente, il film si discosta dunque dal sottogenere della wrong turn per l’ambientazione domestica e per la mancanza di una svolta sbagliata da parte del protagonista di turno. In realtà, i termini sono semplicemente invertiti. Anziché avere esponenti del mondo civile che si inoltrano in un territorio selvaggio, qui abbiamo degli outsider che, percorrendo la wrong turn in senso idealmente inverso, finiscono per caso in un mondo borghese che altrimenti mai li avrebbe accolti. Ciò che conta, insomma, ancora una volta, è il cortocircuito che si crea fra questi due poli. Già i titoli di testa, d’altronde, rappresentano una dichiarazione d’appartenenza al nuovo sottogenere: in stile simil-Soul Bass, richiamano esplicitamente quelli di Psyco – si è tornati fra l’altro al bianco e nero che dominerà gran parte del decennio – con le linee che attraversano sghembe lo schermo. A questa scelta grafica a mo’ di significativo omaggio, Grauman aggiunge l’idea di inserire i titoli all’interno di una sequenza che avrà poco a che fare con lo sviluppo narrativo del film, ma molto con lo spirito che lo pervade. Si tratta di brevissime scene di vita quotidiana sulla strada che costeggia la casa dove sarà ambientato quasi tutto il resto della storia. Non però di scene prese a caso, ma di microepisodi che sottolineano il senso di psicosi che attraversa l’atmosfera cittadina: un automobilista inchioda per un motivo che scopriremo solo alla fine del film; una ragazzina di colore molesta un barbone passandogli ripetutamente un pattino su una gamba fino a farla sanguinare; una coppia amoreggia in macchina mentre alla radio una voce femminile fa un discorso vagamente apocalittico e dal tenore predicatorio sul male che serpeggia nel mondo; una scena più enigmatica: dei piccoli ordigni esplodendo fanno saltare in aria un cassonetto mentre un pulmino con la scritta: 4th July Picnic parte spedito, forse fuggendo; altre macchine inchiodano perché un cane è stato investito, dopodiché gli 62
automobilisti e i loro passeggeri si limitano a osservarne la carcassa mentre vi transitano accanto lentamente. È giusto soffermarsi su questa sequenza perché al di là del senso di violenza e nevrosi urbana che trasmette, a ben vedere contiene a livello embrionale, e, tuttavia, esposti con una lucidità impressionante, tutti i temi non solo del film, ma dell’intero sottogenere. La ragazzina di colore che tormenta il barbone bianco è un riferimento alle tensioni razziali nonché agli inevitabili attriti fra le minoranze della società. Con la scritta sul pulmino che si riferisce all’Independence Day si tirano in ballo la storia americana e i momenti fondanti della nazione. Il cane abbandonato senza vita sul ciglio della strada può essere considerato la versione cittadina degli animali impagliati e dei trofei di caccia già visti e che vedremo sempre più spesso in altri film. La predica alla radio è invece un elemento nuovo, ma che tornerà in futuro sempre più di frequente; anche questo è un riferimento agli albori della Nazione e ai Padri Fondatori, trasferitisi spesso dall’Inghilterra per motivi religiosi, ossia per trovare una nuova libertà di culto, lontana dalla corruzione e dalla mancanza di rigore che intravedevano nel clero protestante della madrepatria. La crasi che la sequenza chiaramente suggerisce, dunque, è che la violenza, la sopraffazione, le tensioni fra gruppi eterogenei, sono parte integrante della storia americana, rappresentano un bagaglio primigenio che il Paese si porterà sempre dietro. Con una dissolvenza incrociata, quindi, la cinepresa ci introduce in una delle case che costeggiano la strada. Qui un uomo sta scrivendo un biglietto sul quale riusciamo a leggere soltanto: I can’t go on, non ce la faccio ad andare avanti. Questa instabilità emotiva non è certo casuale. È evidente, infatti, come l’attore che interpreta questo possibile suicida sia stato scelto come sorta di sosia di Anthony Perkins. Uscito dalla stanza, inoltre, l’uomo chiama darling, tesoro – quella stessa darling a cui ha intestato il biglietto – non sua moglie, o la sua fidanzata, come inizialmente si è portati a pensare, bensì sua madre, lasciando subito intendere come fra i due ci sia un rapporto a dir poco morboso, edipico come quello che legava Norman Bates alla propria genitrice. Il modello hitchcockiano dunque si rafforza. A differenza di Psyco, tuttavia, qui la madre esiste davvero, ed è interpretata dalla grande Olivia de Havilland. Fino a pochi anni prima sarebbe stato impensabile vederla in una piccola produzione come questa. Nel ’62, però, c’era già stato Che fine ha fatto Baby Jane? e la stessa De Havilland avrebbe preso parte poco dopo a quella sorta di sua parafrasi che sarà Piano… piano… dolce Carlotta 63
(Hush… Hush, Sweet Charlotte, 1964), a firma dello stesso Aldrich. La partecipazione a film che fino a pochi anni prima non avrebbero nemmeno considerato, rientra nei comportamenti masochistici cui sono avvezze in questi anni le vecchie star orfane di Hollywood, complice anche la difficoltà di trovare contratti in tarda età. L’uso di una Havilland un po’ agée, in un contesto che diventerà presto disturbante, non fa dunque che confermare il tempismo e la lucidità del piccolo film di Grauman. A dispetto della cordialità e dell’affetto con cui intrattiene l’anziana madre, l’uomo sembra essere davvero sull’orlo di un baratro esistenziale, come ci conferma uno zoom sul biglietto già visto in precedenza, e su cui stavolta riusciamo a leggere: …or I kill myself, o mi ucciderò. E non è difficile immaginare come proprio le premure della madre possano essere alla base del suo disagio. Quando le rivela la sua intenzione di partire per un weekend con degli amici, infatti, la donna lo tempesta di domande sui dettagli della vacanza e addirittura gli raccomanda di bere un bicchiere di succo d’arancia prima di andarsene, direttiva cui peraltro il giovane aderisce senza troppe rimostranze. Senonché, Grauman dimostra di voler seguire il modello hitchcockiano anche nel disorientare lo spettatore, e nel far prendere al film una direzione inaspettata. Uscendo di casa, infatti, quello che sembrava il protagonista del film esce anche dalla storia, senza avere nemmeno in seguito la possibilità di aggiungere nulla di particolare alla trama principale. Fra l’altro, ciò che appariva solo come una scusa per andarsene – il viaggio con gli amici – e magari avere la possibilità di compiere il gesto sconsiderato che il biglietto adombrava è invece probabilmente la verità, perché prima di uscire l’uomo tira fuori da un contenitore un paio di pinne senza che la madre se ne accorga. Il rapporto morboso fra i due, così come la disperazione che porta il figlio a prendere in considerazione il suicidio, si riveleranno dunque un macguffin hitchcockiano, un pretesto narrativo con cui dare l’abbrivio alla storia e al contempo confondere un po’ lo spettatore. Ma soprattutto – proprio come accadeva in Psyco – un espediente per dare più potenza e forza allucinatoria all’autonoma esplosione di violenza che sopraggiungerà a breve. Tuttavia, la presenza dell’uomo, e soprattutto la sua uscita di scena, non mancheranno di supportare l’aspetto più strettamente ideologico del film, rappresentato, come detto, dallo sfaldamento della famiglia borghese. Sarà proprio il figlio, non a caso, a dare involontariamente una svolta al racconto anche dal punto di vista pratico prima di sparire. Con la sua auto 64
andrà infatti a urtare una scala che alcuni operai avevano inavvertitamente appoggiato contro i cavi elettrici che riforniscono l’abitazione. Ne consegue un black-out che in pieno giorno non procurerebbe grossi problemi, se solo Cornelia proprio in quel momento non si trovasse all’interno dell’ascensore che le permette di passare da un piano all’altro della casa. La donna è dunque prigioniera all’interno di questa insolita gabbia. Di nuovo la tecnologia, e quindi il progresso, falliscono in favore di un’immagine che rievoca un mondo primitivo. A questo punto anche la regia di Grauman, caratterizzata da una fotografia in bianco e nero completamente priva di ombre e contrasti come in un telefilm, sembra svegliarsi da un iniziale letargo. Prima con delle inquadrature nervose della vita che continua a svolgersi, improvvisamente remota, fuori dall’abitazione, quindi con delle soggettive della donna che ne sottolineano i sentimenti di paura e disorientamento. Infine, con una serie di piani, leggermente mossi, dedicati semplicemente ad alcuni ambienti della casa, che scompongono la struttura della casa fino a farla apparire uno spazio tanto vulnerabile quanto senza senso. Le stanze vuote fanno infatti risaltare la presenza degli oggetti meramente decorativi di cui sono letteralmente ricoperte, a sottolineare la decadenza dello status borghese. In tal modo, il film comincia sottilmente ad assumere quello che sarà il punto di vista degli invasori, in linea con il mood progressista che innerverà sempre di più il sottogenere. Preso atto della sua situazione, a Cornelia non rimane che suonare un allarme che collega l’ascensore a una centralina posta fuori di casa. Questo espediente permette fra l’altro a Grauman di insistere con le riprese esterne, e di sottolineare un’atmosfera fra l’indifferente e il minaccioso rimandata dalle strade affollate o deserte e da finestre con le tende tirate. Nonché di presentare il primo personaggio destinato a fare irruzione in casa: un anziano malmesso, evidentemente un barbone, attirato proprio dal trillo dell’allarme. Introdottosi in casa senza essersi fatto grossi scrupoli, l’uomo rimane subito incuriosito dalle bottiglie di alcolici che fanno bella mostra di sé in un angolo cantina, il che lascia già intuire come sua intenzione non sia affatto quella di prestare soccorso – non degnerà nemmeno di una parola la padrona di casa in difficoltà – ma di approfittare dell’insperata situazione per arraffare il più possibile da un ambiente per lui altrimenti inavvicinabile. Subito dopo, inoltre, un primo piano ci svela un dettaglio inquietante: una mano del vecchio è ricoperta dalla scritta repent, pèntiti, stampata ripe65
tutamente con un timbro. Il termine si ricollega alla simbologia della predicazione, che comincia dunque ad assumere un significato. Si comincia cioè a delineare come ciò che sta accadendo e soprattutto sta per accadere all’anziana e ricca signora, sia una sorta di punizione divina per essere entrata a far parte di quella parte della società presumibilmente complice dell’emarginazione dei più deboli, categoria ovviamente rappresentata dal dropout. E se questa simbologia, come detto, rimanda alle origini della Nazione, allora l’emarginato di turno finisce anche qui per rappresentare una sorta di rimosso atavico, una colpa primigenia dell’America. Quella consistente nell’aver trascurato un vero tessuto sociale che potesse accogliere i più deboli in favore di una spinta individualistica e capitalistica senza freni. Dopo essersi palesato alla padrona di casa, facendo capolino in maniera grottesca da dietro un separé, l’uomo si allontana per trangugiare un po’ di alcol dalle bottiglie che aveva adocchiato entrando in casa. Tornato quindi alla postazione precedente, allunga una mano da dietro il separé per afferrare delle statuine di ceramica che sono su un tavolo lì vicino. In un primo momento si immagina che la sua volontà sia quella di rubare gli oggetti. Pochi istanti dopo, invece, vediamo una delle statuine venire scaraventata contro un muro al grido di: “Pentiti, pentiti!” E poco dopo l’altro ninnolo fa la stessa fine. L’uomo allora fa per uscire, ma sulla soglia pensa invece di tornare indietro e di afferrare un tostapane che giaceva su un mobile lì accanto. Una volta ghermito l’oggetto, infine, se ne va. Oltre a costituire la prima esplosione di violenza del film, questa scena ne racchiude gran parte del significato. Il dropout, infatti, non si interessa per prima cosa al proprio meschino tornaconto, bensì si premura di mettere in atto un’azione esplicitamente ideologica e sovversiva. Al grido biblico di “pentiti!”, ripetuto in modo ossessivo, l’uomo distrugge gli emblemi del benessere borghese. Rifiuta il futile, comprese le bottiglie di vino, prediligendo il più elementare degli elettrodomestici, simbolo di una forma basilare di sostentamento. Si tratta di un atteggiamento analogo a quello già visto in Norman Bates e negli sbandati di A bruciapelo. Agli emarginati non interessa tanto sottrarre denaro ai civili, quanto distruggere il loro mondo e magari sostituirsi a loro. Il barbone in ogni caso non tiene il tostapane per sé, ma lo porta in un negozio di robivecchi per venderlo. Ed è qui che avviene l’incontro fra l’uomo e i tre bulli che assieme a lui e a una sua amica andranno a formare la famiglia 66
alternativa. È giusto soffermarsi per un attimo sull’aspetto dei nuovi arrivati. Si tratta di un uomo e una donna attorno ai venticinque anni, e di un ragazzetto più giovane, attorno ai venti, di origini portoricane. Oggi il riferimento è più difficile da cogliere, ma nel ’64 un gruppo così composto doveva far pensare piuttosto istintivamente ai protagonisti di Gioventù bruciata. Ecco dunque che torna a essere presa di mira la Hollywood classica. Ma più in particolare, si torna al discorso già fatto per A bruciapelo, ossia il riferimento a quei film che verso il tramonto dello studio-system avevano cercato di affrontare – in modi inevitabilmente edulcorati – il senso di frustrazione e latente ribellione delle giovani generazioni. Come già detto per il film di Landis, missione del nuovo cinema thriller-horror sarà quello di dare una nuova chance a questi giovani arrabbiati, rendendoli ben più agguerriti e spietati che in passato. Quella formata da James Dean, Nathalie Wood e dal più giovane e italoamericano Sal Mineo nel film di Ray era poi già una romantica famiglia alternativa, nata per ovviare alle mancanze affettive di quella naturale. Nel film di Grauman, quindi, lo schema è destinato a ripetersi, arricchito dalla presenza di due “nonni” – il dropout e la sua amica prostituta – nonché da una dose ben più massiccia di violenza. Anche perché, a differenza del modello, questa famiglia nasce già con delle tensioni interne fortissime, che porteranno i teppisti a prendere di mira non tanto la padrona di casa, quanto proprio i due anziani “colleghi”. Insospettiti dal tipo di merce presentata dal vecchio ai gestori del negozio, i tre teppisti decidono di seguirlo. Prima di tornare all’abitazione da svaligiare, il barbone va però a chiamare una prostituta di sua conoscenza. Nonostante un atteggiamento ben più pacato e razionale rispetto a quello dell’amico, la donna non solo si fa convincere facilmente a violare la proprietà, ma una volta arrivata qui si mostra anche molto interessata all’argenteria, e soprattutto completamente indifferente alle disperate richieste d’aiuto della padrona di casa, la quale sperava forse in un po’ di solidarietà femminile. L’atmosfera, a contrasto con la regia sempre molto controllata e anche un po’ piatta di Grauman, si fa dunque irreale. I due vecchi sbandati in ogni caso non fanno nemmeno in tempo ad ambientarsi, che la follia e la violenza esplodono definitivamente nell’abitazione: quando il barbone sta per raggiungere la sua amica al piano di sopra per aiutarla a cercare qualcosa di più sostanzioso, fanno irruzione in casa anche i tre giovani teppisti, con delle calze in testa che li rendono quasi irriconoscibili. Per una manciata di secondi la regia, che finora aveva limitato i movimen67
ti nervosi alle soggettive di Cornelia durante i suoi tentativi di liberarsi dalla prigionia, fa saltare tutti gli schemi nei quali si era confinata, con una serie di movimenti caotici della cinepresa a spalla che conferiscono un’atmosfera allucinata all’entrata in scena dei tre delinquenti. All’improvviso, sembra di essere in un altro film. Anche i tre inizialmente ignorano la signora nell’ascensore, e se la prendono da subito con gli altri due ospiti: prima li scaraventano contro un mobile, ferendo la donna a una gamba in modo serio, quindi tramortiscono l’uomo spaccandogli una lampada sulla testa dopo averla fatta roteare platealmente in aria in una sorta di rituale. Di nuovo, rubare sembra essere un obiettivo secondario rispetto alla violenza, alla distruzione e al sovvertimento dell’ordine. Non a caso, mentre i compagni arraffano oggetti alla rinfusa e senza neanche molta convinzione, Elaine, la ragazza, per prima cosa si abbandona sul letto matrimoniale testandone la comodità; poco dopo, quindi, si rilasserà nella vasca da bagno, e più tardi ancora si proverà un vestito elegante della padrona di casa. Esattamente come la Judy di A bruciapelo, dunque, la giovane si mette nelle condizioni di sostituirsi al personaggio borghese. Nel frattempo Cornelia riesce finalmente ad attirare l’attenzione di Randall, il capobranco, dimostrandogli tutto il proprio disprezzo per quello che definisce un rifiuto della società, e liquidando il passato difficile in riformatorio che il giovane le ha confessato come un aberrante risultato dello stato sociale e del modo in cui il governo spreca il denaro sottrattole con le tasse. È il momento più esplicitamente politico del film. Quello che conferma tutti gli indizi orientati in senso progressista che avevamo riconosciuto in precedenza. Da potenziale vittima, la protagonista ci viene mostrata come una meschina reazionaria. Anche all’inizio del film, d’altronde, le avevamo sentito dire, dopo aver ascoltato le notizie alla radio: “Con tutti questi discorsi di guerra forse dovremmo investire in azioni di industrie belliche”. Randall, di contro, comincia a sembrarci una vittima della società benpensante che la donna rappresenta. Ciò che conta davvero, in ogni caso, è l’abisso che il sistema ha creato fra queste due persone. Abisso destinato in questo frangente a contrarsi improvvisamente: la donna dà dell’animale al giovane, ma è lei a sbraitare da dentro una gabbia, mentre lui se la prende comoda come un nuovo padrone di casa, osservandola incuriosito da dietro la sua calza deformante. La simbologia della sostituzione, dunque, comincia a consolidarsi. 68
Ciò che impedisce ancora alle minoranze del Paese di sovvertire definitivamente l’ordine delle cose imposto dispoticamente dalla maggioranza, sono proprio le divisioni interne di cui abbiamo già avuto un assaggio in questa sorta di battaglia sociale in scala ridotta. I tre teppisti continueranno infatti a prendersela con i loro improvvisati compagni di scorribande, ma soprattutto, nell’epilogo, verranno a loro volta vessati e derubati dai proprietari del robivecchi. La società americana ci viene dunque mostrata definitivamente come una struttura piramidale alla cui base si svolge una terribile lotta per la sopravvivenza. E prima vittima di questa lotta sarà il vecchio barbone in una scena di insolita violenza. Aizzato da Randall, che aveva minacciato più volte di voler eliminare i due anziani colleghi, Essie, il più giovane dei tre teppisti, prima lancia un coltello verso l’uomo, mancando il bersaglio, poi gli si scaglia addosso e lo accoltella brutalmente. L’azione si svolge dietro una poltrona dove siede la prostituta terrorizzata, ma fra le grida di dolore del vecchio e i grugniti di follia da parte del giovane portoricano, non si lascia comunque molto spazio all’immaginazione. Si tratta di una scena terribile prima di tutto perché la violenza, come accadeva in A bruciapelo, appare del tutto gratuita; minacciato da Randall, infatti, il vecchio aveva più volte ripetuto di voler rinunciare alla propria parte di refurtiva. Inoltre perché l’atto del tutto sproporzionato si svolge ancora una volta nella calma irreale sottolineata dallo stile piano di Grauman, la cui idea principale consiste proprio nel rappresentare violenza e follia senza strepiti né sensazionalismi, senza creare alcun climax né suspense, nello scenario placidamente luminoso offerto dell’ambiente domestico. Uno stile senza troppi guizzi che finisce dunque per dire qualcosa di importante su tutto il cinema della wrong turn. In cui la violenza viene rappresentata quasi sempre in spazi aperti e in piena luce non soltanto per sottrarre, sul piano pratico, punti di riferimento e riparo alle vittime, ma anche per trasmettere, più in generale, il senso di qualcosa di ineluttabile e in qualche modo ovvio. Di dimostrare cioè come la violenza faccia parte della normale fisiologia della società americana e del territorio in cui si è insediata. Proprio l’omicidio del barbone, tuttavia, disorienta psicologicamente Randall, che evidentemente, malgrado l’atteggiamento da sbruffone, non se la sentiva di portare alle estreme conseguenze le proprie minacce. Il gruppo perde dunque compattezza: si lascia sfuggire la vecchia prostituta e, distrat69
to dal beffardo contro-furto degli uomini del robivecchi, perde anche di vista la padrona di casa, che nel frattempo trova il modo di liberarsi dalla gabbia e gettarsi sul pavimento. Non solo: quando i tre torneranno a occuparsi di lei, la donna riuscirà a ferire il capobranco agli occhi rendendolo cieco, con delle armi improvvisate che fra l’altro la avvicinano ulteriormente a quel mondo di barbarie in cui è stata sprofondata. A questo punto Essie ed Elaine decidono di andarsene per conto proprio, del tutto incuranti delle sorti di quello che fino a un attimo prima era la loro guida, mentre Cornelia si trascina fuori di casa per cercare aiuto. Randall allora la insegue camminando a tentoni, e la scena in cui esce a sua volta fuori di casa, mostrando gli occhi cerchiati da un sangue già pesto, sembra essere addirittura un consapevole riferimento alla figura di Edipo, azzardato ma non del tutto gratuito, visto che da un complesso edipico prende le mosse tanto il film quanto il suo modello hitchcockiano. In ogni caso, proprio a causa di questa menomazione l’uomo è destinato a fare una brutta fine: arrivato sul ciglio del marciapiede, inciampa e va a finire con la testa sotto lo pneumatico di un’auto, in un incidente che coinvolge anche quello stesso veicolo che avevamo visto inchiodare per un motivo ancora ignoto all’inizio del film. Anche se per pochi istanti, la cinepresa indugia su questo dettaglio splatter ante litteram, che ricorda i recentissimi omologhi lewisiani. Una nuova estetica si sta facendo dunque largo anche fra le maglie di un cinema contiguo al mainstream. Si tratta inoltre di un dettaglio che ribadisce come il film voglia forzare i limiti del thriller per spingersi verso quelli del nuovo horror realistico, viatico che d’altronde si era già garantito attraverso la rappresentazione di una violenza diffusa e del tutto gratuita. Dal punto di vista strettamente ideologico, invece, le cose torneranno faticosamente al loro posto. I due teppisti rimasti vengono individuati e fermati dalla polizia, e la signora benestante, ancorché sfinita e ferita, è salva. Si torna apparentemente allo status quo, come accadeva nei film della juvenile delinquency, da cui provengono, sotto forma di degeneri strascichi, anche i giovani appena visti qui. Eppure, se la famiglia alternativa ha fallito, anche perché non ancora consolidata dal fondamentale legame di sangue, quella borghese va ormai verso lo sfaldamento. E con essa, tutta la società civile.
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La famiglia malata prende forma. Teppisti vari fanno irruzione nella casa borghese in Un giorno di terrore.
Farsi beffe della ingenua Hollywood. Rilettura in chiave degenere del gruppo di protagonisti di Gioventù bruciata in Un giorno di terrore.
Capitolo sesto
La famiglia malata si consolida: Spider Baby
Alla cruciale stagione del ’64 va ascritto anche un film girato in quell’anno ma uscito solo nel ’68 a causa di problemi produttivi. Scritto e diretto da Jack Hill, pochi anni più tardi un nome noto all’interno del sottogenere della blaxploitation grazie a titoli come Coffy (1973) e Foxy Brown (1974), Spider Baby rappresenta un altro decisivo passo in avanti verso il perfezionamento della formula della wrong turn, nonostante la presenza, peraltro meramente strumentale, di un elemento fantascientifico: un morbo rarissimo che nasce da rapporti sessuali endogamici, e che procura una regressione mentale e addirittura evolutiva, tale da costringere chi ne è affetto alla demenza e al cannibalismo. E se l’elemento rimane marginale, ciò che conta sono le sue implicazioni. Anche il cannibalismo infatti sarà ricorrente nel sottogenere, trattandosi di una pratica che permette il facile auto sostentamento degli emarginati. Ma significativo è anche il concetto di qualcosa che accomuna un intero nucleo familiare – la malattia, ma anche i rapporti sessuali fra parenti che la causano, del resto già ventilati dai legami edipici dei film precedenti – qualcosa che mentre isola ulteriormente la famiglia dal resto della società, ne consolida i legami al suo interno. È con Spider Baby, insomma, che si cristallizza finalmente l’immagine della famiglia malata – qui nel vero senso della parola – precedentemente soltanto abbozzata, e si focalizza l’attenzione sull’elemento del rapporto di sangue destinato a trasmettere un handicap fisico o mentale di generazione in generazione, simbolo, come abbiamo detto, del darwinismo che sottende il sistema economico americano. Tutto ciò, malgrado un tono ironico e quasi scanzonato che sul piano consapevole stempera i possibili intenti 72
ideologici, e fa propendere piuttosto il film verso un gusto ludico e quasi camp, tanto da far apparire il nucleo protagonista come una sorta di variazione della Famiglia Addams dei fumetti e un anticipatore dell’universo horror-feticistico di The Rocky Horror Picture Show (Jim Sharman, 1975). Dal punto di vista narrativo e soprattutto iconografico, non di meno, questo piccolissimo film rappresenta il perfetto anello di congiunzione fra i due estremi evolutivi del sottogenere: Psyco e Non aprite quella porta. Le adolescenti Virginia ed Elizabeth e il loro fratello maggiore Ralph sono gli unici rimasti della dinastia dei Merrye, dopo che un morbo talmente raro da portare lo stesso nome della famiglia ne ha decimato il resto. Dei tre, già affetti da questa malattia che porta a una veloce regressione mentale, ora si prende cura l’anziano Bruno, quello che un tempo era l’autista del patriarca. Un giorno il gruppo riceve la visita di zio Peter e zia Emily, fratello e sorella, non affetti dal morbo e interessati a diventare i tutori dei ragazzi ovviamente al solo scopo di impossessarsi della ricca proprietà dove questi vivono. Dopo un breve prologo che si rivelerà essere la prima parte di un flashback a cornice, in cui zio Peter spiega in che consiste il morbo di Merrye, vediamo un postino inoltrarsi con la moto in un paesaggio di campagna. La wrong turn in questo caso viene imboccata intenzionalmente, perché la casa dei Merrye è proprio la destinazione che l’uomo sta cercando. Ma il sentiero buio, seminascosto e poco battuto che è costretto a imboccare nonostante le evidenti resistenze, ha comunque tutto l’aspetto di un percorso che era meglio evitare. Superato un cancello, l’uomo si fa timorosamente strada all’interno di una proprietà che un tempo doveva essere sfarzosa, ma che ora è in piena decadenza. Alla fine del viale d’ingresso, si trova un’abitazione in stile gotico che ricorda quella di Psyco, anche perché un’inquadratura dal basso ce la mostra allo stesso modo, ossia imponente in cima a una collinetta. Poco dopo arriva il primo grande momento del film, quando il postino, non ricevendo risposta ai suoi ripetuti: “C’è qualcuno in casa?”, decide incautamente di infilare la testa in una finestra socchiusa. L’interno della dimora ci viene dunque mostrato da una soggettiva vagamente allucinata, grazie a un leggero gioco di fuori fuoco giustificato appena dalla presenza di una tendina alla finestra. Si tratta di una stanza dall’arredamento elegante ma fatiscente, in cui destano attenzione una gabbia per uccelli rotta e 73
vuota, e qualcosa che si intravede appeso alle pareti, e che più tardi constateremo essere proprio dei volatili impagliati. La finestra poco dopo si abbassa improvvisamente sul collo del postino, lasciandogli incastrata la testa all’interno della stanza. Un attimo più tardi, sentiamo uno scricchiolio sinistro. Quindi, vediamo arrivare di corsa una ragazzina semi acquattata, con in mano due lunghi coltelli branditi a mo’ di chele e una rete che le penzola fra le braccia. “Ti ho preso!” sussurra eccitata la ragazzina al postino. “Ho preso un grosso insetto nella mia ragnatela.” Quindi avvolge la testa dell’uomo nella rete, e comincia a fendere colpi di coltello contro di essa, finché un primo piano con tanto di zoom ottenuto in postproduzione non inquadra un orecchio insanguinato appena caduto sul pavimento. Per Hill vale lo stesso discorso fatto per Landis e Grauman, ossia di una regia ancora in una fase di transizione fra stilemi retrò, anche vagamente televisivi, e nuovi mezzi espressivi più aggressivi ed eccentrici, che si fanno largo fra le maglie di un montaggio per il resto pacatamente narrativo con effetti stranianti, nel tentativo di interpretare un nuovo tipo di violenza. Ancora molto lontano dal crudo realismo che invaderà il sottogenere, e di cui solo Lewis aveva saputo darci un brutale assaggio, Hill nei momenti clou opta al contrario per una stilizzazione estrema facilitata anche in questo caso dal bianco e nero, portando al limite dell’astrattezza la grammatica classica. La prima scena di violenza, così come quelle che seguiranno, è dunque ancora ben lontana dall’estetica splatter, e viene risolta con una serie di piani rozzamente ma volutamente giustapposti come in una striscia di fumetti. Virginia, la ragazza, viene subito dopo rimproverata da sua sorella Elizabeth, che ha assistito alla scena, e che la ammonisce dicendole che “Bruno si arrabbierà”. Un tempo autista della famiglia, Bruno è l’unica persona che si prende cura delle ragazzine e del loro fratello maggiore Ralph. Come ogni nucleo familiare della wrong turn che si rispetti, infatti, si tratta di un nucleo monco, in questo caso non di un solo genitore, bensì di entrambi, nonostante quella di Bruno sia chiaramente una figura sostitutiva. L’uomo arriva proprio in quel momento a bordo di un’auto degli anni Trenta che conferma come per la famiglia Merrye il tempo si sia fermato a una remota epoca d’oro. Ma a catturare l’attenzione, è soprattutto chi interpreta il personaggio in questione: Lon Chaney jr., una vera autorità in fatto di morbi, visto che è stato l’Uomo lupo dei vecchi horror Universal. E più 74
avanti gli verrà anche concessa l’opportunità di citare una battuta del suo personaggio più famoso, a conferma degli intenti ludici e cinefili del film. Ecco dunque un’altra star del glorioso passato hollywoodiano inserita in una microscopica produzione, anche se qui l’elemento da geriatric horror è smussato dal fatto che il registro del macabro non rappresenta per Chaney una cornice inconsueta. Bruno porta con sé Ralph, che essendo più grande delle due sorelle è anche più avanti nella regressione, e vicino ormai alla completa demenza. Ma all’interno della labirintica abitazione dei Marrye si sentirà parlare in modo misterioso anche di due zii, zio Ned e zia Martha, che però per il momento non si palesano. Di lì a poco sopraggiungono invece gli avidi zii alla lontana, Peter ed Emily, mentre il loro puntiglioso avvocato, con tanto di segretaria al seguito, viene accompagnato più tardi in auto sempre da Bruno. Durante il tragitto che porta alla proprietà, questi ultimi tre vengono fatti fermare per qualche minuto da alcuni operai impegnati in un cantiere stradale. Subito dopo si sentono delle esplosioni. Bruno allora spiega ai due ospiti che i lavori sono dovuti alla costruzione di un’autostrada. Un’idea, quella dell’autostrada che stravolge il paesaggio mettendo inevitabilmente in disparte le piccole realtà locali, che viene ovviamente dritta dritta da Psyco, e che serve anche qui a segnare la definitiva emarginazione dei protagonisti dal resto della società e dal corso del progresso. Una volta che il gruppo è al gran completo, i padroni di casa non sanno bene come intrattenere gli ospiti, tuttavia si lanciano nell’offerta di una cena. A tal fine Virginia e Ralph si improvvisano cacciatori, procurandosi in giardino un gatto e un insetto non meglio identificato, in seguito serviti a tavola assieme a sterpaglia spacciata per insalata. La lunga scena della cena macabra rende definitivamente scoperto come il film di Hill sia stato un modello per Tobe Hooper, che in Non aprite quella porta replicherà l’episodio, ancorché in modo ovviamente più crudo. Qui invece prevalgono ancora intenti umoristici, e ci si ricollega piuttosto ad alcune scene analoghe della tradizione della commedia americana, come quella, molto simile, presente in L’eterna illusione di Frank Capra, dove una famiglia svitata durante un banchetto deve far finta di essere normale peggiorando inevitabilmente le cose. Superata in qualche modo la cena, zia Emily manifesta l’intenzione di trattenersi anche per la notte, mentre zio Peter e Ann, la segretaria dell’avvocato, fra i quali è evidentemente già nata un’intesa, fanno un giro in mac75
china per trovare un posto in un motel per la ragazza. Anziché coricarsi, l’avvocato invece pensa bene di curiosare in giro per la casa. E così facendo scopre un passaggio segreto tramite il quale si accede a uno scantinato che ha tutto l’aspetto di una cripta. Quando si avvicina a una botola sul pavimento, da questa escono delle braccia che cercano di ghermirgli una gamba. A questo punto, però, l’uomo viene scoperto da Virginia ed Elizabeth, che decidono di punirlo per il suo atteggiamento indiscreto. Poco dopo, ne vedremo il cadavere su un montacarichi che dallo scantinato porta ai piani superiori. Come in Un giorno di terrore, la rappresentazione della violenza, anche esplicita, si inserisce dunque in un contesto straniante. Qui l’effetto è ben più ironico, da humor nero. Tuttavia, l’atteggiamento di protezione dei segreti di famiglia da parte delle due sorelle esprime come mai era stato fatto finora il senso di gelosia che i carnefici del sottogenere provano nei confronti del proprio insediamento. Anche zia Emily rinuncia a mettersi a letto quando si accorge che Ralph la sta spiando avidamente da una finestra, in linea con l’attrazione sessuale che i membri della famiglia provano nei confronti dei propri parenti. Uscendo dalla stanza, la donna sorprende le due sorelle ad armeggiare con il cadavere dell’avvocato, e così è costretta a scappare per evitare di fare la stessa fine. Arrivata in giardino, riesce a far perdere le proprie tracce. Nel frattempo, zio Peter e Ann, non avendo trovato sistemazioni in città, sono costretti a rientrare, e vengono presto fatti oggetto delle attenzioni dei tre fratelli. L’uomo viene legato a una sedia da Virginia, a sua volta attratta dal parente, mentre la ragazza viene portata nello scantinato per essere sezionata con una sega. I fratelli vengono però interrotti dal ritorno di zia Emily, che, esasperata da tanti impedimenti alle proprie mire, abbandona definitivamente la maschera di rispettabilità che la distingueva dal ramo malato della famiglia e si scaglia contro Ralph per ucciderlo. Senonché, la donna viene catturata dalle mani di qualcuno che come in precedenza vediamo protendersi dall’interno della botola. Anche in questo caso, evidentemente impreparato a gestire il parossismo di violenza con un appropriato realismo, Hill va in direzione opposta, stilizzando in modo grottesco la scena, soprattutto nel momento in cui zia Emily viene fatta precipitare nella botola. Ancora una volta, tuttavia, un’estetica vecchia convive con contenuti nuovi e sconcertanti. Nella botola infatti la donna viene assalita per essere divorata da tre esseri antropomorfi che sembrano avere ormai molto poco di 76
umano. Quando i tre – che si riveleranno essere i già citati zio Ned e zia Martha, più un terzo individuo non meglio identificato – avranno finito il lavoro ai danni di Emily, usciranno dalla botola svelando finalmente il loro aspetto mostruoso, a metà fra uomini primitivi e bestie. Quello che dovrebbe essere zio Ned, inoltre, indossa una maschera fatta con della pelliccia. Ci troviamo di fronte, insomma, al prototipo di Leatherface, il personaggio più rappresentativo di quella che sarà la famiglia malata di Hooper e dell’intero sottogenere. Nel frattempo, Bruno era uscito di casa e vi era tornato con dell’esplosivo, intenzionato a mettere in pratica un gesto estremo che la dice lunga sul suo attaccamento alla famiglia Merrye. Pur di non lasciare la casa agli invasori, ha deciso di farla esplodere, mettendo così fine alla dinastia e al morbo che si portava dietro da generazioni. La famiglia, dunque, non potrebbe essere più solida e affiatata. Meglio sparire, che mischiarsi con gli altri. Gli unici che riescono a scampare all’apocalittica esplosione sono zio Peter e Ann, sua conquista della serata. E i due li vedremo insieme, con tanto di figlioletta, nell’epilogo che chiude il flashback a cornice. Sembrerebbe dunque che ancora una volta un nucleo sano sia nato dalle ceneri di quello malato, come avveniva in Psyco e Two Thousand Maniacs!. Il film, però, riserva un’ultima sorpresa: uno dei primi sottofinali della storia del cinema horror. Quando la figlia della giovane coppia si allontana in giardino, qui si ferma a fissare un enorme ragno, con aria avidamente interessata. Che sia affetta da demenza precoce? In tal caso, come ha fatto la malattia a saltare la generazione precedente? Poco importa. Ciò che conta è che i legami di sangue continuano a procurare problemi senza fine. Una famiglia isolata di cannibali che elimina qualsiasi avventore, una demenza che si trasmette di padre in figlio, un’iconografia che ancora una volta ci riporta alle origini della Nazione, e addirittura un avo di Leatherface. Che cosa manca a Spider Baby per essere Non aprite quella porta con quasi dieci anni di anticipo? Un altro decennio di tragedie nazionali, probabilmente. E la conseguente intenzione di usare quel potentissimo armamentario narrativo e iconografico nato solo con lo scopo d’essere bizzarro, per farne un monumentale simbolo del declino dell’America.
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Un morbo chiamato darwinismo. Demenza progressiva e disfunzioni del capitalismo nella metafora inconsapevole di Spider Baby.
Capitolo settimo
Influenze e confluenze
Un’umanità a parte: il cinema di Russ Meyer Come già accennato, nel corso degli anni Sessanta anche tanto cinema lontano dal thriller-horror verrà attratto dall’apparato tematico e iconografico consacrato dal wrong turn movie, confluendo dunque verso quegli scenari rurali e desertici che stavano diventando sempre di più il simbolo dell’aridità spirituale della Nazione e della sua mancanza di punti di riferimento. Il cinema di Russ Meyer non ha alcuna intenzione di inserirsi in schemi precostituiti o quanto meno, come in questo caso, consolidatisi attraverso una prassi sostanzialmente spontanea. Non di meno, lo sguardo impietoso che offre su un’America allo sbando e pervasa da un costante senso di violenza e follia, finisce inevitabilmente per far vibrare le stesse corde del nostro sottogenere. Malgrado i suoi film alla loro uscita si facciano notare soprattutto per un uso per l’epoca scandaloso del nudo femminile, verso la metà degli anni Sessanta Meyer comincia ad andare molto più in profondità di quanto ancora oggi non si creda nel mostrare un’America come mai si era vista sul grande schermo: povera, desolata, squallida, eppure verissima. Un Paese che, come ha detto Franco La Polla, sembra finto solo se paragonato ai canoni hollywoodiani. E ciò, a dispetto di un linguaggio molto lontano dal realismo. L’uso ibrido di vecchi e nuovi canoni, come abbiamo visto tipico di questo cinema di transizione, si fa con Meyer più consapevole e sistematico, diventa un vero e proprio stile. In particolare, il regista tende a conciliare un lessico classico con una sintassi moderna, ossia a inserire inquadrature spesso molto costruite e 79
quasi sempre prive di movimenti di macchina, in linea con un’espressività classica anni Quaranta, all’interno di un montaggio che ha perso quasi del tutto le geometrie del découpage, in modo non dissimile dallo stile che da qualche anno stava adoperando Samuel Fuller. I raccordi sono forzati e gli angoli di ripresa quasi sempre più esasperati del necessario. Ne risulta una retorica hollywoodiana volutamente mal digerita, un linguaggio i cui stilemi vengono enucleati dal contesto per creare un effetto manierista e iperrealista. Come in un quadro di Warhol su Marilyn o Liz Taylor, ma anche alla stregua di ciò che contemporaneamente si vedeva in Herschell Gordon Lewis, l’estetica hollywoodiana è ridotta a un’opera di pop-art dai contorni saturi e consunti. La brutalità della messa in scena, più alcune sporadiche riprese con la macchina a spalla, tuttavia, conferiscono a tratti una resa quasi documentaria a un’ambientazione già di per sé spaventosamente credibile. All’inizio di Lorna (1964), in una sorta di prologo che vale anche come manifesto di questo cinema fatto di reietti, un predicatore che sembra uscito direttamente da un secolo remoto tuona contro i peccati degli uomini avidi, declamando con tono delirante parole che al contrario racchiudono in modo insospettabilmente lucido gran parte del senso di questo come degli altri film che ci interessano: “Siete orgogliosi per la prosperità della vostra fattoria o della vostra attività, ma il vostro cuore è pieno di carcasse e ossa di esseri umani”. La simbologia della predicazione dunque ritorna. E svolge al solito una doppia funzione: quella di rievocare gli albori della Nazione, e quella di insinuare il tema della punizione, che sta per abbattersi su quella parte della società che ha pensato solo a prosperare senza curarsi di chi rimaneva indietro. Ambientata in una cittadina acquattata lungo un fiume e fatta essenzialmente di baracche, questa storia di una moglie sessualmente insoddisfatta che troverà finalmente la felicità grazie a un criminale evaso di prigione, colpisce tuttavia proprio per la sua sostanziale mancanza di dicotomie, esclusa per l’appunto quella fra uomo e donna. Tutti i personaggi sullo schermo appartengono a questa America di perdenti, a questa umanità votata alla mera sopravvivenza, e impensierita dal solo bisogno di sfogare istinti tanto estemporanei quanto primordiali. Un’umanità a parte che rappresenta una protuberanza nata dall’avidità della società capitalistica: i particolarismi e gli egoismi della filosofia individualista, sembra dirci Meyer, generano mostri che vegetano sul lato oscuro del Sogno Americano. 80
Una classe sul crinale fra proletariato e sottoproletariato a ben vedere non molto lontana da quella che negli stessi anni metteva in scena in Italia Pasolini, ma mostrata senza alcun intento caritatevole, e comunque assolutamente inedita per il cinema americano. Non di meno, sempre esistita, come proprio il riferimento alle origini del Paese vuole suggerire. Anche solo Lorna e suo marito Jim dicono molto del mondo che li circonda e delle regole inesorabilmente deterministiche da cui esso è regolato. Lorna è spinta verso il male rappresentato dall’evaso dalla sua stessa fisicità prorompente, votata inevitabilmente, quasi condannata, al sesso. Viceversa, Jim, freddo e sessualmente disinteressato, è più evoluto dei suoi simili, e desideroso di fare carriera partendo dall’istruzione, meritandosi così le vessazioni dei primitivi colleghi e condannandosi ovviamente a una vita di frustrazioni. I protagonisti sono dunque simboli di una società che non vede margini a disposizione per chi voglia affrancarsi dalla propria natura. Come nel wrong turn movie più canonico, sono il corpo, la biologia, le dinamiche fisiologiche, a determinare una persona. E le regole economiche vigenti in America non fanno che assecondare questa piega paragenetica. Dopo Lorna, Meyer firma uno dei suoi film più famosi, Motorpsycho! (1965), esilissima storia di tre malvagi bikers che seminano panico e violenza per il deserto. Il film, a modo suo, rappresenta dunque un ulteriore esempio del filone dei giovani violenti che era arrivato fino ad A bruciapelo. Si tratta, probabilmente, anche dell’ultimo. Da I selvaggi in poi, infatti, come vedremo, i giovani da carnefici diventeranno vittime, in linea con l’ondata contestataria. E non a caso già in Motorpsycho! uno dei cattivi è un reduce dal Vietnam, forse il primo in assoluto ad apparire sul grande schermo. Uno schema narrativo simile, anche se più ricco, tornerà poco dopo in Faster, Pussycat! Kill! Kill! (1965). Un trio di spogliarelliste assassine semina il panico scorrazzando con dei bolidi lungo il deserto del Mojave. Incontrano una giovane coppia. Uccidono l’uomo e prendono in ostaggio la donna. Quindi si interessano alla famiglia di un vecchio che abita nei paraggi e che, a quanto si dice, nasconde dentro casa un discreto bottino. L’incontro fra i due gruppi sfocerà ovviamente nella tragedia, anche perché la famiglia, sorprendentemente, è composta da soggetti non meno folli e violenti delle spogliarelliste. Quello che è unanimemente considerato il capolavoro di Meyer è uno scrigno di suggestioni visive e folli invenzioni narrative che influenzerà in 81
mille modi l’estetica pop, la sensibilità camp, e tutto il manierismo postmoderno fino a Tarantino. Ma ciò che a noi interessa sono, ancora una volta, le analogie, stavolta evidentissime, con il neonato cinema della wrong turn. Prima di tutto, c’è l’uso del deserto in pieno giorno. Poi, analogamente a Psyco, c’è una storia che, una volta sfrondata dei suoi episodi più transitori, deraglia dalla vicenda di tre donne criminali a un abisso di violenza parossistica del tutto inaspettato. Ma soprattutto, in fondo a questo abisso, c’è un’altra famiglia malata, fra l’altro non ancora influenzata da quella di Spider Baby, a quei tempi già realizzato ma non ancora distribuito, e per giunta dalla formazione ancor più aurea: il padre, vecchio, invalido, dispotico, reazionario, blatera invettive contro le donne e i democratici e ha sempre con sé un fucile pronto a sparare. Il figlio più giovane è forte, alto e muscoloso, ma è demente, e usato dal padre come sorta di longa manus con cui procacciarsi ragazze da molestare. Mentre il primogenito, che appare più ribelle e razionale – anche lui, come il Jim di Lorna, vorrebbe evolversi leggendo libri, pratica che il padre puntualmente dileggia – è in realtà morbosamente attaccato al genitore e alla casa dove i tre uomini vivono da soli. Come da manuale non ci sono infatti elementi femminili, e la madre è morta significativamente di parto per dare alla luce il figlio ritardato. Ma una suggestione di determinismo si riconosce anche nel fatto che il padre, invalido, ha generato un figlio affetto da tare mentali. Fra le due circostanze non c’è ovviamente alcun collegamento, ma a livello simbolico il significato non ne risulta affatto sminuito. Ancora una volta, insomma, il sistema non concede possibilità a chi si porta dietro un handicap. Facendo della sua sfortunata progenie il simbolo di un peccato originale di sconfitta.
Da aguzzini a vittime: il biker movie contestatario In significativa concomitanza con la scoperta di questa America selvaggia, arriva anche il gran ritorno dei biker movies indipendenti abitati da giovani irrequieti che imperversavano già fra la metà degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, all’interno del più ampio insieme della cosiddetta juvanile delinquency. Più che Meyer e la troppo personale visione offerta da Motorpsycho!, a rinfocolare il filone sarà Roger Corman, che oltre a un geniale produttore si conferma così una personalità capace di intercettare 82
come poche altre anche i più piccoli refoli di cambiamento di una società statunitense in piena fibrillazione. Con I selvaggi (The Wild Angels, 1966) – un titolo italiano per una volta sensato nel suo ricollegarsi al film di Laszlo Benedek con Brando che aveva, ancorché ingenuamente, dato l’avvio a tutto – il regista-produttore mette in scena una gioventù ancora più sconcertante di quella vista in passato. Si tratta di una sorta di orda proto-romeriana che con i suoi simboli nazisti – quella che diventerà una folle constante della gioventù presente nel sottogenere ma anche nella realtà – sbandierati senza remore, non vuole più porsi ai margini della società, ma decisamente contro di essa. L’adesione all’ideologia nazionalsocialista, in tal senso, non va presa alla lettera, ma in un’ottica precontestataria, ossia come modo per svilire le guerre dei padri, da questo punto di vista frutto, anche nei casi apparentemente più nobili, di bieche considerazioni economiche e strategiche. Più in generale, però, questa simbologia sta a indicare semplicemente una sostanziale, profonda confusione da parte di una generazione che ha ricevuto da quella precedente segni contraddittori quando non addirittura ipocriti. Non a caso, nei locali dove questi ragazzi si riuniscono, si intravedono anche manifesti di Stalin e, qua e là, una quasi subliminale simbologia satanista. Ciò che conta, insomma, per questa generazione senza più punti di riferimento, è andare contro l’establishment, qualunque tipo di fenomenologia possa tale atteggiamento assumere. E anche il ritmo e lo sviluppo narrativo di questo come degli altri film del sottogenere assimila lo spirito anarcoide dei protagonisti, disseminando pochi eventi significativi all’interno di una struttura a dir poco sfibrata, e costituita essenzialmente dagli spostamenti in moto. Quest’ultimo non è comunque un aspetto da sottovalutare. Da qui in avanti, infatti, scopo del biker movie o del road movie in generale sarà quello di far rivivere al pubblico un territorio statunitense ormai sottratto definitivamente al western e, dunque, finalmente scevro da ideologie che gravino sulla sua rappresentazione. Un territorio che vedremo di conseguenza spesso desolato, povero, pieno di contraddizioni dovute all’insediamento del capitalismo, il quale ha disseminato totem di progresso in un paesaggio evidentemente violentato, e per giunta non sembra aver mantenuto le sue promesse di un benessere alla portata di tutti. E in questo tipo di contraddizioni, si riflette simbolicamente anche la dicotomia costantemente presente nel sottogenere, che è quella che vede 83
contrapposti giovani caoticamente desiderosi di libertà, a una società che, un po’ per sua natura, un po’ per reazione a questo inaspettato risollevarsi delle coscienze di chi finora era stato abituato a obbedire, si chiude a riccio su se stessa, mostrando insospettabili aculei di violenza e intolleranza dall’aspetto però atavico, primigenio, come ridestatisi da un sonno pericolosamente leggero. Ed espressi o tramite le istituzioni, o tramite privati cittadini in tal senso particolarmente intraprendenti. Col suo stile come di consueto solido ma un po’ piatto e sostanzialmente distaccato, Corman applica a questo scontro una sospensione di giudizio di per sé sconcertante, limitandosi a mostrare tanto i disordini – fra cui quello morale – cui sono avvezzi i giovani, quanto l’incapacità di gestire la società, se non con la più brutale violenza, da parte degli adulti. Forse anche al di là delle intenzioni del regista, ne esce un ritratto cristallino delle forze contrapposte nella società statunitense all’epoca del Vietnam. A questo nuovo capostipite seguirà, in una manciata di stagioni, un numero impressionante di cloni – la cui distribuzione però raramente supererà l’oceano – dai titoli quasi tutti uguali e in cui lo snello ma pregnante assetto drammaturgico e ideologico sarà sempre pressoché lo stesso: Facce senza dio (Devil’s Angels, Daniel Haller, 1967), Hells Angels on Wheels (Richard Rush, 1967), Angels From Hell (Bruce Kessler, 1968), Anime nere (The Glory Stompers, 1968), The Hellcats (Robert S. Slatzer, 1968), The Savage Seven (Richard Rush, 1968), Hell’s Angels ’69 (Lee Madden, 1969), Hell’s Belles (Maury Dexter, 1969), The Hard Ride (Burt Topper, 1971). E proprio da alcuni di questi prodotti, votati all’exploitation più spudorato ma significativamente sempre più spesso abitati da reduci del Vietnam in contrasto con una società civile da cui sentono di essere stati abbandonati, arriveranno i protagonisti di Easy Rider (1969). A dispetto della sua nomea di opera rivoluzionaria, dunque, il film di Dennis Hopper arriverà piuttosto in ritardo in questo solco, finendo per rappresentarne una sorta di riepilogo e quasi di ultima celebrazione, dove tutto, però, viene detto meglio che nei predecessori, e con un sopraggiunto senso elegiaco che si porta dietro anche i sogni delle ingenue speranze sessantottine, nel frattempo già implose sotto il proprio stesso peso. Particolarmente significativa è la somiglianza di una comune hippie al centro della prima parte del film con un tipico villaggio indiano. È un’iconografia che anticipa lo spirito dell’imminente western liberal, dove non 84
soltanto la storia americana verrà riletta dal punto di vista dei nativi, ma dove gli stessi cittadini americani finiranno per identificarsi spesso con il popolo dei pellerossa. D’altronde anche qui c’è l’iconografia western da ribaltare. I due protagonisti portano nomi che richiamano esplicitamente il mito della Frontiera: Billy come Billy the Kid, Wyatt come il leggendario sceriffo di Tombstone Wyatt Earp. Nomi usati ovviamente in senso sarcastico e antifrastico, dato che proprio dalla terra selvaggia spogliata di ogni alone mitico arriverà la condanna della coppia protagonista. Dal canto suo, la comunità sudista che alla fine arriverà addirittura a uccidere gli esponenti di questa gioventù ribelle, fa fare un decisivo passo in avanti a quella simile, ma meno caratterizzata e soprattutto molto meno socialmente credibile, vista in Two Thousand Maniacs!. Nella rappresentazione dei campagnoli, però, a tratti fa capolino anche qui il tipico tratto horror della deformità fisica. L’idea invece che le vittime non siano stavolta professionisti piccolo borghesi, ma quei giovani che all’epoca rappresentavano davvero le vittime della storia americana, darà l’abbrivio al massacro vietnamita di Non aprite quella porta. Ma è giusto citare almeno un altro paio di film contigui, se non affini, al sottogenere della wrong turn che mostreranno di aver assimilato almeno in parte il contesto drammaturgico proposto dai biker movies. In La morte corre incontro a Jessica (Let’s Scare Jessica to Death, John D. Hancock, 1971) la protagonista eponima e suo marito sono ex hippie che trovano casa in un luogo apparentemente ameno del New England. Il viaggio a ritroso verso le radici della violenza arriva dunque qui alle origini dell’insediamento inglese, portandosi dietro – in questo caso appropriatamente – un ritorno a orrori sovrannaturali tradizionalmente legati al Vecchio Mondo. Qualche anno più tardi, invece, sulla stessa linea narrativa, ma mescolando un po’ gli ingredienti drammaturgici, vedremo il Peter Fonda di I selvaggi e Easy Rider vestire di nuovo i panni del biker in In corsa con il diavolo (Race with the Devil, Jack Starrett, 1975), assieme a un’altra figura fondamentale del cinema di transizione fra vecchia e nuova Hollywood quale Warren Oats. Stavolta però si tratta di due professionisti piccolo borghesi che si limitano a fare un po’ di motocross durante una gita in camper organizzata appositamente assieme alle rispettive mogli. Durante una sosta notturna, al gruppo capita di assistere casualmente a un rito satanico che si svolge nelle campagne. Cercheranno di denunciare il fatto alle autorità locali. 85
Ma così facendo scopriranno che il culto è più diffuso di quanto potessero immaginare, e si ritroveranno dunque a doversi guardare non da una, ma da più comunità di invasati disposte lungo il territorio. A metà degli anni Settanta il declino della controcultura è dunque ben evidente anche sugli schermi. Quelli che erano i paladini di una generazione di ribelli sono passati dalla parte di una borghesia gretta e compiaciuta, vittima e immune da qualsiasi ombra di critica, mentre i giovani postsessantottini vengono rappresentati – sull’onda lunga dei fatti relativi alla Manson Family, non a caso un’altra “famiglia” – come edonisti dediti a culti neopagani. Dal punto di vista strettamente cinematografico, il film costituisce una sorta di variante satanista della wrong turn, che attinge in parte da Two Thousand Maniacs! e in parte da Rosemary’s Baby (Roman Polanski, 1968) il senso di paranoia del “normale” in minoranza all’interno di una comunità di invasati pericolosi, qui interamente composta da adepti del diavolo disseminati però lungo gli ampi spazi dell’America rurale. L’iconografia del nostro sottogenere – villici brutali, stazione di servizio come avamposto dell’inferno, trofei animali – è in gran parte rispettata, ma anche del tutto distillata da suggestioni che richiamino la storia nazionale. È l’inizio dell’uso del cliché per fare della wrong turn una facile formula che garantisca suspense e altre facili emozioni senza il bisogno di sollevare troppi significati.
La famiglia alternativa diventa reazionaria: il gangster movie rurale La forza iconoclasta del cinema indipendente, che provvederà a demolire la mitopoietica del western, non poteva lasciare incolume quella che era stata l’altra epopea espressa dal cinema hollywoodiano. Nell’America della Grande Depressione, com’è noto, i gangster che gravitavano attorno alla scena di Chicago avevano rappresentato davvero degli eroi popolari, e le loro parabole ascendenti e discendenti un beffardo, glorioso e liberatorio surrogato di quel Sogno Americano a cui ormai non credeva più nessuno. Una sorta di vero e proprio delirio collettivo, insomma, che la Hollywood pre-code, ossia antecedente al codice Hays, non esitò un attimo ad assecondare e a sfruttare. E anche quando il codice arriverà a invertire la tendenza e a spostare l’attenzione sull’eroismo delle forze dell’ordine, non sarà faci86
le estirpare del tutto la gramigna, come testimoniano film nati persino alla fine degli anni Trenta e a Depressione finita, tipo I ruggenti anni Venti (The Roaring Twenties, Raoul Walsh, 1939), saga criminale e amorale dal tono elegiaco di cui Scorsese farà un sol boccone. Se a distruggere gli eroi della Frontiera penserà il western postsessantottino alla Soldato blu (Soldier Blue, Ralph Nelson, 1970), ma anche il cinico spaghetti-western, nonché, in maniera più ambigua, il cinema di Peckinpah, oltre naturalmente al thriller-horror con la sua iconografia simbolicamente capovolta, a cancellare l’alone di santità dalle figure dell’era proibizionista provvederanno una manciata di film che come idea comune avranno quella di trasferire la figura del gangster dalle luci e le superfici riflettenti della metropoli, alle campagne intrise di violenza e disperazione che ormai conosciamo. Anche il gangster movie, dunque, decide di battere la strada aperta dalla wrong turn, e film come Il clan dei Barker (Bloody Mama, Roger Corman, 1970) e Grissom Gang – Niente orchidee per miss Blandish (Grissom Gang, Robert Aldrich, 1971) lo testimoniano ampiamente, con le loro famiglie malate fatte di figli non molto svegli e completamente tiranneggiati da un genitore, che stavolta non è però il padre, ma una figura materna dispotica e castratrice – e nel caso del film di Corman anche incestuosa – destinata a fare le veci del proprio uomo ancora vivo ma inetto e vigliacco. Una scelta che se attenua il lato darwinista della società americana, ne accentua quello edipico, d’altronde latente già in molti gangster movies canonici. Ma ciò che colpisce davvero di questi nuclei malsani, e che verrà espresso ancora meglio di quanto non avesse fatto finora l’horror, è la loro voglia di integrarsi con la società, e il loro desiderio, patetico e persino commovente, di sostituirsi proprio a quella parte di essa che ha contribuito alla loro emarginazione. La famiglia malata, insomma, diventa reazionaria. E se in Il clan dei Barker abbiamo una capofamiglia che difende il Ku Klux Klan – nella sequenza di un rapimento i membri della gang a conduzione familiare indosseranno addirittura i cappucci bianchi del movimento razzista – e si dimostra religiosa bacchettona e integralista, in Grissom Gang uno dei figli si innamorerà di una fanciulla rapita, figlia di un facoltoso industriale, con la quale metterà anche su casa in una grottesca imitazione del sogno borghese, creando così un illusorio legame fra il mondo dei reietti e quello dei ricchi in superficie. 87
Strade parallele. Altre famiglie malate e altre deviazioni pericolose nei generi coevi.
Capitolo ottavo
La wrong turn arriva in superficie: Un tranquillo week-end di paura
A più di dieci anni di distanza da Psyco, anche il cinema mainstream si accorge della wrong turn. Si rende cioè conto che è giunto definitivamente il momento di calare il velo dell’ipocrisia, e di affrontare un catartico viaggio attraverso quelle tenebre della Nazione che ormai è impossibile ignorare. Per farlo, si affida al romanzo Deliverance (1970), in italiano Dove porta il fiume, di James Dickey, trasposto con un alto grado di fedeltà da Un tranquillo week-end di paura (Deliverance, John Boorman, 1972). Dal punto di vista tematico e iconografico, il film ha molti punti di contatto con il cinema degli anni precedenti. L’afflato ideologico in direzione di un’aspra critica antipatriottica, pure chiaramente ravvisabile, è però alla lunga vampirizzato da un discorso più generale e filosofico, teso a sconfessare, com’è noto, le posizioni rousseauiane del buon selvaggio. Nonché da una sostanziale intenzione di fare un prodotto solidamente spettacolare, all’interno degli schemi di un genere che potremmo definire “avventura per adulti”. Quattro amici, Drew, Ed, Bobby e Lewis, partono per una perlustrazione di una zona selvaggia dei monti Appalachi, prima che una diga di imminente costruzione ne rivoluzioni il paesaggio. Sensibile alla purezza della natura che sta per essere violentata, solo Lewis è un tipo avventuroso, gli altri tre sono piccoli professionisti di città ingenui e poco avvezzi a confrontarsi con la realtà extra urbana. Intenzionati a guadare il fiume prima che questo venga spazzato via, i quattro chiedono a degli autoctoni di aiutarli negli spostamenti. Gli abitanti della zona si rivelano però terribilmente arretrati e 89
aggressivi, al punto che Lewis è costretto a ucciderne uno per legittima difesa. Da qui comincerà una fuga dei quattro tanto dalla comunità selvaggia, quanto dalla polizia. Che l’opera di Boorman abbia molto in comune con il cinema che l’ha preceduto, lo si apprende già dalle primissime immagini. Quando cioè la voce over di Lewis ci informa che sulla zona fluviale teatro dell’avventura stanno costruendo una diga. Si tratta ovviamente dell’esatto corrispettivo dell’autostrada in costruzione di cui abbiamo sentito parlare in Psyco e Spider Baby. Anche qui il progresso che incombe taglierà fuori dal resto della società un’ampia zona di terra, e con essa la comunità che la abita, o quanto meno la sua basilare e già precaria economia. Il prologo peraltro non si limita a informare lo spettatore, ma mostra le ruspe al lavoro, con una rapida serie di dissolvenze incrociate che ne sottolineano l’aggressività, e che ricordano una scena analoga presente in Furore (The Grapes of Wrath, John Ford, 1940), quando “le tigri”, come le chiamano gli addetti ai lavori, abbattono le case dei poveracci. Questa scena vale dunque già come una dichiarazione politica. Il film si inserisce cioè nel solco progressista del sottogenere, di cui anzi esplicita le posizioni ideologiche, dimostrandosi sensibile al fatto che l’umanità selvaggia e brutale che verrà rappresentata è tanto carnefice quanto vittima di una società americana incurante dei più deboli e delle loro piccole realtà. E l’esplosione nella cava che sentiamo subito dopo le parole di Lewis, evoca tanto il concetto della violenza del progresso, quanto le immagini di guerra che in quegli anni si stavano diffondendo sempre di più, suggerendo un’emblematica equiparazione. Lewis poi conclude: “Alla fine vi riporterò alle vostre case borghesi in tempo per vedere la partita di football della domenica pomeriggio”. È chiaro, dunque, che il gruppo appartiene proprio a quella parte della società che Lewis sta deplorando in quanto indifferente alla natura e alle sue leggi. E che di conseguenza i quattro arriveranno in una terra che non conoscono non tanto da forestieri, quanto da nemici. Il riferimento alla partita di football come miraggio di un successivo ritorno alla civiltà, infine, non può non ricordare la partita di baseball a cui avrebbero dovuto assistere i protagonisti di A bruciapelo. Se queste importanti analogie nascono da coincidenze o da un’ipotetica cultura cinematografica del romanziere Dickey, poco importa. Ma che Boorman abbia in ogni caso la consapevolezza di arrivare tardi su una stra90
da già ampiamente battuta da altri, lo si capisce proprio dal tenore didascalico di informazioni precoci e affrettate, che sfrondano ampiamente l’antefatto più complesso del libro e vengono confezionate a mo’ di istruzioni per l’uso del sottogenere per lo spettatore del cinema di “serie a”. Dopo il prologo, i quattro amici arrivano con l’auto fino a un villaggio fatto di catapecchie di legno, dove sembra esserci tutto ciò che può servire a un automobilista: un benzinaio, un’officina, uno sfasciacarrozze. Con la conseguenza che l’intero villaggio appare ricoperto da carcasse di auto disseminate ovunque. Un’immagine che segna un’altra importante somiglianza con il film di Landis, fra l’altro altrettanto ambigua: anche qui è difficile stabilire se le auto sono state abbandonate volutamente o forzatamente. Tutti gli abitanti del villaggio, poi, presentano evidenti tare fisiche. In particolare, sembrano avere problemi alla dentatura. Questo è un dettaglio nuovo, ma che verrà mutuato in seguito dai film che vorranno fare dei selvaggi anche dei cannibali, sulla strada aperta da Spider Baby. A giudicare dall’aspetto del fatiscente villaggio, infine, i difetti genetici sono ancora una volta strettamente correlati alle condizioni economiche, secondo le leggi darwiniste del sottogenere. Dal punto di vista iconografico, ciò che marca una distanza fra il film di Boorman e i suoi ipotetici predecessori è un’ambientazione nordica che stempera del tutto o quasi i significati legati ai traumi storici nazionali. Dal punto di vista narrativo, invece, lo stesso effetto anestetizzante lo produce una lunga e un po’ prolissa parte centrale da tipico film d’avventura – l’incidente in canoa, la montagna da scalare – durante la quale per giunta prende il sopravvento la spettacolarità un po’ patinata garantita dallo stile misurato di Boorman. Che si serve sovente dello zoom ma in modo molto studiato e secondo i canoni ormai standardizzati del cinema della New Hollywood – dunque molto diverso da quello che vedremo di lì a breve nello stile nevrotico di Hooper – nonché della fotografia di gran classe di un’ormai famoso Vilmos Zsigmond – altro emblematico strascico di A bruciapelo – che se è perfetta per esaltare la bellezza naturale del paesaggio, e per sottolineare di conseguenza per antifrasi la confutazione delle istanze rousseauiane, al contempo smussa inevitabilmente le asperità della violenza rappresentata. Violenza che pure non manca affatto, come testimonia la cruda scena della sodomizzazione di Bobby da parte di uno degli autoctoni, e la conseguente uccisione del selvaggio da parte di Lewis. 91
Proprio quest’ultimo episodio d’altronde dimostra come l’affinità con i significati relativi al sottogenere in ogni caso non si interrompa. Se è emblematico del determinismo che domina il wrong turn movie il fatto che, fra i quattro amici, sia il più vicino al mondo selvaggio a rendersi autore del gesto estremo, lo è altrettanto che a rimanere vittima dell’incidente in canoa poco dopo sia Drew, ossia l’unico del gruppo che intendeva costituirsi alla polizia. Il mondo civile soccombe dunque definitivamente alla selezione naturale operata dal microcosmo barbaro stipato nel cuore del territorio americano. Inoltre la modalità dell’omicidio, con arco e frecce, oltre a suggerire a sua volta un ritorno alla barbarie, nonché l’equiparazione fra esseri umani e selvaggina, anticipa quella simbologia indiana che trionferà in futuro con Le colline hanno gli occhi. E nel finale, quando i superstiti sembrano aver avuto la meglio sui selvaggi, i simboli si sprecano, adombrando un pericolo che evidentemente è soltanto sopito, e che va ben oltre il rischio di essere incriminati. Il ricovero dove i tre trovano riparo ha un’architettura coloniale, simbolo, come il gotico, della violenza atavica dell’America, e di quel suo istinto di sopraffazione del più debole di cui prima o poi è chiamata a pagare il conto. A causa della costruzione della diga, poi, la chiesa che aveva accolto e rassicurato i tre al loro arrivo sull’altra sponda del fiume si rivela un prefabbricato che ora viene portato via, mentre le bare di un cimitero vengono disseppellite. Immagini da giudizio universale che allargano a macchia d’olio l’angoscia dei protagonisti, fino a inglobare il tema ormai tipico della punizione divina. Probabilmente i superstiti sono riusciti a farla franca, e a ingannare la polizia locale nonostante la palese aria di chi sta nascondendo più d’un dettaglio. Da ora in poi, però, dovranno guardarsi da qualcosa di ben più spaventoso della cella di un carcere. Quell’America selvaggia e intenzionata a ergersi ad angelo della morte di cui fino a oggi ignoravano completamente l’esistenza. Nonostante manomissioni e condizionamenti, dunque, nel ’72 la wrong turn arriva ufficialmente in superficie. Ma già nelle stagioni immediatamente precedenti c’erano state avvisaglie di una sua prepotente escalation. L’anno prima del film di Boorman, un’altra importante produzione aveva presentato significative analogie con il nostro sottogenere, pur tenendosene apparentemente a distanza. Prodotto dalla Malpaso di Clint Eastwood e distribuito dalla Universal, La notte brava del soldato Jonathan (The Beguiled, 92
Don Siegel, 1971) è una sorta di wrong turn movie camuffato, e allo stesso tempo un anomalo western revisionista – sottogenere che in quegli anni trionferà con i successi di Soldato blu e Un uomo chiamato cavallo (A Man Called Horse, Elliot Silverstein, 1970) – che, pur senza mostrare gli indiani e gli orrori perpetrati ai loro danni, intende dirci come fra le pieghe della storia americana ufficiale si nascondano risacche di irrazionalità e violenza gratuita. Jonathan McBurney, soldato nordista ferito durante gli scontri della guerra civile in uno stato del sud, trova riparo in un collegio femminile gestito da una donna dal passato oscuro. Unico uomo di una comunità isolata, darà inevitabilmente adito a una serie di tensioni e gelosie che lo porteranno prima a essere mutilato e quindi ucciso. Nel film è dunque presente una wrong turn da manuale, con un protagonista costretto improvvisamente a cercare un riparo che al contrario si rivelerà una trappola mortale. Poi c’è una comunità molto ristretta, perfettamente assimilabile a una famiglia. Per di più, a una famiglia monca, ossia retta da un unico genitore, la direttrice, tanto affettuosa quanto dispotica con le proprie allieve. Inoltre, si tratta di una comunità annidata nel bosco e perfettamente autonoma, in virtù dell’orto che possiede all’interno del proprio recinto e della vicinanza col bosco stesso, il che la porta a non essere scoperta se non per caso. Anche qui, poi, c’è il tema dei rapporti incestuosi, cui era avvezza da giovane la direttrice con suo fratello. C’è il tema della repressione sessuale, che già aveva fatto capolino in Psyco, Spider Baby e nei film di Meyer, trampolino come di consueto per lo scatenarsi della violenza nonché indizio di una sua connotazione parafisiologica. C’è, soprattutto, l’evento fondante del Paese da smitizzare, quella Guerra di Secessione che torna continuamente sotto forma di putridi vessilli, e già di per sé simbolo delle lacerazioni della Nazione. E il film la rilegge in senso antieroico anche nei confronti degli abolizionisti, non soltanto facendo deragliare il protagonista dal corso principale degli eventi per sprofondarlo nell’irrazionalità di una storia con la s minuscola, ma anche creando una discrepanza fra i suoi racconti eroici e alcuni flashback che ci mostrano una realtà ben più feroce e meschina, in cui la rappresentazione della violenza risente dell’influenza dello spaghetti-western ma anche di quella, insospettabilmente cruda, dei primi western revisionisti. Già nel ’70, d’altronde, un altro film aveva dimostrato come la wrong turn stesse facendo carriera, arrivando addirittura oltreoceano. Con il britan93
nico Il mostro della strada di campagna (And Soon the Darkness, Robert Fuest, 1970), il sottogenere va in trasferta e viene promosso, dunque, ufficialmente a formula narrativa e iconografica che può fare anche a meno dei suoi collegamenti con la realtà americana. Due ragazze inglesi stanno facendo un viaggio in bicicletta per le campagne francesi. Dopo un battibecco si dividono. Una verrà aggredita da un misterioso maniaco, l’altra la cercherà invano, senza trovare nella comunità locale alcun aiuto. Anzi, il sospetto è che i villici sappiano qualcosa, ma vogliano coprire il mostro che miete vittime straniere nella zona già da anni. Il film di Fuest è contaminato dalla dimensione mistery: fino alla fine non si saprà chi sia l’assassino di giovani donne. Per il resto, però, ricalca in modo evidente molti elementi del wrong turn movie, a partire dalla sua componente agorafobica, rappresentata da una campagna francese perennemente assolata e priva di punti di riferimento, in mezzo alla quale si muovono figure spettrali legate a una civiltà contadina ormai marginale e dimenticata. Uno dei pochi approdi, in questo paesaggio monotono, è poi rappresentato da un caffè dal nome a dir poco emblematico: “À la mala tournée”. Inoltre, proprio il fatto che l’assassino non si palesi fino alla fine, fa passare in secondo piano la deroga costituita dal killer unico, lasciando molto più spazio alla comunità che lo spalleggia. Una vera deroga, semmai, è rappresentata dal fatto che le ragazze si perdono in un paese straniero rispetto a quello di provenienza. Il che anticipa il wrong turn movie più recente e quella che come vedremo sarà la sua variante esterofoba.
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Homo sapiens o homo americanus? Fra spettacolo e filosofia, l’ambiguità della wrong turn “di serie a” di Un tranquillo week-end di paura.
Orrore da esportazione. La wrong turn diventa una formula attraversando l’Oceano con il britannico Il mostro della strada di campagna.
Capitolo nono
Una generazione da mandare al macello: Non aprite quella porta
Il successo di Un tranquillo week-end di paura avrebbe potuto avere un effetto anestetizzante. Nel mostrare l’America selvaggia all’interno di un prodotto spettacolare destinato al grande pubblico, in cui i significati sono per di più diluiti all’interno degli schemi tradizionali del film d’avventura, il film di Boorman aveva inevitabilmente smussato gli spigoli ideologici che quell’immagine avrebbe dovuto adombrare, sfociando in parte nell’apologo generico sul male insito nell’uomo, e in ogni caso aprendo la strada a un processo catartico troppo precoce. Si tratta, d’altronde, di scopi per i quali i redivivi studios sfruttano gli autori della New Hollywood. Piaghe nazionali come la collusione fra potere e mafia – Il padrino – o la guerra del Vietnam – Il cacciatore, Apocalypse Now – verranno rappresentate senza ambiguità, mezzi termini o superficialità, ma comunque all’interno di film spettacolari e dal respiro epico, al punto da far presto passare in secondo piano la realtà che ne è alla base per far concentrare l’attenzione su quelle qualità cinematografiche che in ultima analisi permetteranno di sublimarne gli intenti critici. E finendo, addirittura, per creare una nuova mitologia ambigua, come già era capitato con il gangster movie degli anni trenta e almeno in parte con il western. Il cinema indipendente dimostra però di non stare al gioco. E non passa molto dal film di Boorman, che torna a impossessarsi della wrong turn, nonché, più in generale, a rivendicare il diritto di parlare dell’America come il cinema mainstream non sarà mai capace di fare. Non a caso, nei primi mesi del ’74 riaffiora sullo schermo la figura da cui tutto ha avuto inizio. Quell’Ed Gein che ha influenzato Psyco, e che ha cominciato ad ancorare il cinema post studio-system alla storia nazionale. 96
La figura del criminale prediletto dal cinema horror viene riproposta da Deranged (Jeff Gillen e Alan Ormsby). Non un wrong turn movie, ma un piccolo film che cambiando appena nomi e luoghi alle vicende reali si propone intenti dichiaratamente cronachistici, quasi documentari, con tanto di un narratore che per i suoi interventi entra addirittura in scena assieme al protagonista pur senza interagirvi. L’idea è quella di fare una sorta di eccentrico reportage, mostrando come si è presumibilmente comportato Gein – qui Ezra Cobb – in alcuni momenti fondamentali o quanto meno rappresentativi della propria infelice esistenza: la lunga assistenza alla madre malata, la riesumazione clandestina del suo cadavere, gli omicidi, le efferatezze, i deliri. Ma anche scampoli di quotidianità, e il rapporto con una famiglia normale, borghese, a cui Ezra in questo caso non vuole sostituirsi, ma in cui vuole comunque inserirsi attraverso la significativa amicizia con il figlio più piccolo, in piena ottemperanza al mood edipico che la figura di Gein non smetterà mai di alimentare. In mancanza di una grande sapienza registica, gli autori si affidano a uno stile sin troppo prudente, che ancora una volta però crea un effetto straniante e quindi efficace con le nefandezze mostrate. La confezione, in ogni caso, è stranamente curata: bella fotografia dai colori limacciosi che rendono alla perfezione l’idea di un’America del tutto marginale, dimenticata e, dunque, ineluttabilmente complice; movimenti di macchina usati con parsimonia; un linguaggio quasi classico in cui si insinuano in modo mesto, più che minaccioso, inquadrature dalla frontalità primitiva, un po’ come quelle viste nel cinema di Lewis. L’iconografia ormai tipica del sottogenere viene riproposta integralmente, con l’aggiunta di importanti elementi come le maschere fatte con la pelle delle vittime, e soprattutto senza alcun interesse sensazionalistico, in maniera quasi dimessa. E così lo spettatore ha tutto il tempo di osservare elementi che già conosce e altri che imparerà a conoscere, inseriti però in un contesto perfettamente credibile, che ha poco di cinematografico. Si tratta dunque di una vera e propria anatomia del fenomeno Gein, sconcertante nella sua obiettività e nella sua sospensione di giudizio e nella tranquillità con cui si sente di entrare nel dettaglio di un mondo disturbato. Un altro importante tassello, dunque, di cui farà tesoro pochi mesi più tardi quella sorta di mosaico che sarà Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, 1974), capolavoro della wrong turn che però dal punto 97
di vista strettamente iconografico e narrativo non costituisce altro che uno smaccato, se non dichiarato, riepilogo di tutto il cinema horror del decennio precedente. Praticamente tutto ciò che si vedrà sullo schermo, si è già visto in altri film. A rendere in ogni caso rivoluzionaria l’opera seconda di Tobe Hooper, è il modo in cui questo prezioso bagaglio verrà rappresentato. A Hooper va infatti il merito di aver dato finalmente al sottogenere il suo stile più consono, in perfetto equilibrio fra realismo documentario e una sorta di espressionismo ipertrofico e nevrotico. Con la sua vera e propria furia visionaria il regista spazzerà via lo stile piatto, paratelevisivo o, nel migliore dei casi, classico e retrò che si era visto nei predecessori del suo film. Con la parziale eccezione di Two Thousand Maniacs!, da cui mutua la messa in scena brutalmente spartana e l’idea di una fotografia dai colori sporchi e spesso saturi. Al realismo sin troppo documentario di Lewis, però, Hooper aggiunge una dose massiccia di espressività, servendosi insospettabilmente anche di canoni del cinema classico rielaborati in senso straniante e inseriti all’interno di un découpage per il resto spericolato se non del tutto impazzito. Il risultato è uno stile folgorante che riesce a rendere conto tanto del senso di orrore parossistico suscitato dalla violenza rappresentata, con una finalità morale, dunque ben lontana dallo splatter ludico di Lewis, quanto della solennità che si confà alla descrizione di un abisso atavico, che viene da lontano, e che appartiene alla storia stessa della Nazione. Il tutto rende Non aprite quella porta un’opera disturbante e allo stesso tempo un esempio perfetto di ciò che può essere considerato un classico moderno. Non solo un capolavoro dell’horror, dunque, ma uno dei migliori film della storia del cinema americano tout court. Forse persino superiore al modello hitchcockiano a cui pure deve la sua stessa esistenza. Franklin e sua sorella Sally portano tre amici – Jerry, Pam e Kirk – in gita in una località del Texas con un furgoncino, per mostrargli la casa dove vivevano i loro nonni e dove loro stessi hanno passato buona parte dell’infanzia. Dopo aver caricato per un breve tratto di strada un giovane autostoppista, che li ha turbati col suo comportamento delirante, i ragazzi arrivano a destinazione. Mentre gli altri continuano a visitare divertiti l’abitazione ormai diroccata, Pam e Kirk si allontanano per cercare un fiume che dovrebbe trovarsi nei paraggi. Attirati dalla vista di una cisterna, dato che il gruppo ha bisogno di fare rifornimento per il ritorno, i due finiranno in un’altra 98
casa, dove verranno brutalmente uccisi da un energumeno. E la stessa fine la farà Jerry nel tentativo di trovarli. Dopo il calar del sole, quindi, Franklin e Sally incontrano lo stesso uomo in un campo. Il ragazzo viene ucciso, mentre la sorella riesce a fuggire. Troverà riparo nel caseggiato di un benzinaio, salvo scoprire che il proprietario è un parente tanto dell’assassino quanto dell’autostoppista incontrato in precedenza. Finirà perciò a sua volta nella casa degli orrori, di fronte alla famiglia di psicopatici schierata al gran completo. Gli intenti rigorosamente realisti del film vengono dichiarati immediatamente attraverso il testo che lo apre, e che ci parla di fatti di sangue effettivamente accaduti nell’estate del ’73. Pertanto, se Hooper si ispira come altri, e in modo in realtà più vago, ai fatti relativi a Ed Gein, il suo scopo è piuttosto quello di imbastire una sorta di finta cronaca criminale a cui fare riferimento, un po’ alla stregua di recenti mockumentary horror. Le primissime immagini hanno infatti l’aspetto del reportage, con l’obiettivo della cinepresa che coincide con quello di un’ipotetica macchina fotografica e con la penombra che viene squarciata dai flash mostrando dettagli anatomici di un cadavere in modo da simulare i rilevamenti di una squadra della polizia scientifica. In adesione a quel substrato di realismo già visto in Deranged, e che vuole fare del film una vera e propria testimonianza di una violenza delirante ma non per questo meno credibile. Dopo i titoli di testa, quindi, il film inizia con una scena inattesa. Dal furgoncino sul quale viaggiano i giovani protagonisti, vediamo scendere un ragazzo sulla sedia a rotelle. Si attribuisce dunque a un personaggio positivo uno di quegli handicap fisici che finora sono stati costante appannaggio dei cattivi del sottogenere. A riguardo, però, bisogna prima di tutto dire che il film di Hooper accoglie, nella caratterizzazione dei personaggi, alcune novità introdotte dal biker movie contestatario qualche anno prima. Pur essendo ovviamente esponenti del mondo civile, i protagonisti non sono dei professionisti piccolo borghesi, ma giovani chiaramente molto vicini all’ambiente dei figli dei fiori, se non addirittura degli hippie veri e propri. Come nei biker movies, dunque, costituiscono delle vittime designate, chiaro riferimento alla gioventù mandata a morire in Vietnam. Di qui la loro debolezza anche intrinseca, denunciata dall’handicap di uno di loro, che fra l’altro richiama esplicitamente l’immagine a quell’epoca molto comune dei tanti reduci rimasti mutilati. Prima di giungere a destinazione, non a caso, il grup99
po entra in contatto con una parte della comunità del luogo che sembra composta unicamente da villici spostati; persino lo sceriffo è un ubriacone che bivacca a terra. Una realtà inospitale quindi molto simile a quella trovata dai bikers di I selvaggi o Easy Rider. È da notare, fra parentesi, come quella che sarà una costante tanto dello slasher movie anni Ottanta quanto del rinato wrong turn movie degli ultimi anni, ossia il gruppo di ragazzi come protagonista e vittima, costituisce un’eccezione nel sottogenere primigenio, come abbiamo visto legato finora a una dicotomia che opponeva al mondo selvaggio quello marcatamente borghese, rappresentato da personaggi maturi e professionalmente realizzati. Più avanti, in ogni caso, un altro dettaglio molto significativo concorrerà a spiegare la deroga dell’handicap fisico. Franklin, il ragazzo in questione, ha infatti organizzato il viaggio assieme a sua sorella Sally per tornare a visitare la casa dei nonni. Le sue origini, dunque, sono da ricercare in quella terra selvaggia. Come dice lui stesso riferendosi al mattatoio che vedono passando col furgoncino, è lì che suo nonno vendeva il bestiame, ed è lì che un suo zio ancora lavora. E proprio mentre descrive ai suoi amici il lavoro nel mattatoio, per un attimo il ragazzo si esalta sadicamente, dimostrando come il gusto per la brutalità si sia almeno in parte insinuato anche in lui. Inoltre, ha spesso in mano un coltello con cui ogni tanto si diverte a puntellare l’interno del furgoncino. La sua menomazione rappresenta dunque l’ennesimo marchio darwinistico, lo strascico di radici malate. Una deroga viene pertanto adoperata da Hooper per rafforzare l’effetto della regola del sottogenere che sul momento disattende. Un meccanismo che verrà riproposto anche più avanti e che non fa che confermare come il regista conosca alla perfezione i canoni della formula narrativa e drammaturgica nella quale ha intenzione di inserirsi. Nel frattempo, il film ha introdotto una simbologia fondamentale. Il nonno del ragazzo, come detto, era un mandriano, un cowboy insomma. Una figura la cui dimensione epica è stata veicolata per decenni dal western classico, e qui ribaltata in un istante eppure in un modo molto più crudo di quanto negli anni passati non abbiano fatto spaghetti-western e western liberal-revisionisti. Dietro il lavoro del cowboy non si nasconde altro che la violenza, forse inevitabile ma in ogni caso brutale e terribile, nei confronti degli animali. La mandria di buoi vista tante volte nel western come immagine a sua volta epica, qui invece viene mostrata nel suo squallore 100
allucinato, con un primo piano su un manzo vecchio e malandato e poi un uso straniante del teleobiettivo sul resto del gruppo, in modo da farlo apparire semplicemente come un enorme ammasso di carne da macellare. L’accostamento fra gli animali e i ragazzi protagonisti è già nell’aria. Così come l’ergersi di questi ultimi a rappresentanti di un’intera generazione. Dietro l’immagine di un’America forte e interventista, capace di salvaguardare le sorti del mondo costituendo un solido argine al dilagare del pericolo rosso, non c’è altro che la violenza ai danni di una gioventù mandata al macello in una guerra dai cinici obiettivi strategici ed economici. E tutta l’iconografia del film, soprattutto nei suoi pochi ma fondamentali aspetti innovativi, ruoterà attorno a questo concetto. Poco dopo il gruppo farà salire sul furgoncino un autostoppista che in seguito scopriremo essere un rappresentante della famiglia di assassini del luogo. Il tipo appare piuttosto malandato ma inizialmente non pericoloso, e finisce presto a parlare con Franklin dell’unica cosa che hanno in comune, il lavoro al mattatoio, rafforzando così l’idea delle origini malsane del ragazzo. L’autostoppista spiega che con il nuovo metodo di uccisione degli animali, più veloce e meno cruento, molta gente ha perso però il lavoro. Comincia a farsi largo, dunque, anche qui la visione progressista dei cattivi come vittime della società. Nel film, infatti, un po’ alla stregua di quello che capitava nel cinema di Meyer, non ci sono vere dicotomie, ma solo minoranze sconfitte e costrette a scontrarsi fra loro. Inoltre, in questo passaggio si sottolinea il cruciale rapporto fra il ricorso alla brutalità e le esigenze economiche. Altro chiaro riferimento alla guerra che sta dilaniando il Paese. Di lì a poco l’autostoppista darà improvvisamente e senza motivo in escandescenze e userà il coltello di Franklin per automutilarsi, rivelandosi definitivamente uno squilibrato. Prima di scendere, quindi, provvede a scattare una foto a Franklin e a bruciarla in una specie di piccolo rituale di magia nera e subito dopo a ferire il ragazzo. Una volta sceso, infine, disegna con il sangue uno strano simbolo sulla fiancata del furgoncino prima che questo riparta. L’idea di un comportamento apparentemente ritualistico avvicina il film a quella che – come abbiamo visto parlando di In corsa con il diavolo – potrà essere considerata la variante satanica del sottogenere. In realtà l’intenzione di Hooper è quella di creare un sottile equivoco al riguardo. Più avanti, arrivati alla casa dei nonni, Franklin noterà come qualcuno abbia lasciato delle composizioni fatte con ossa, piume e altri resti di animali. 101
Inizialmente lo spettatore sarà portato, dunque, a sposare il suo sospetto a proposito del segno lasciato sul furgoncino, ossia di trovarsi di fronte a gesti e oggetti ritualistici adoperati per riti di magia nera o cose del genere. Nel prosieguo, invece, la realtà si rivelerà più beffarda, ma in fondo anche più malsana. Le composizioni di resti animali o umani, infatti, non avranno altro scopo che quello decorativo. Lo strano comportamento dell’autostoppista sul furgoncino, dunque, non è che un sintomo della sua pazzia, e l’equivoco creato da Hooper non farà che sottolineare l’aspetto grottesco della violenza gratuita che le deliranti decorazioni rappresentano. Poco dopo i ragazzi arrivano all’immancabile stazione di servizio, come sempre luogo di confine e d’incontro-scontro fra civiltà e barbarie. Il proprietario della stazione avverte i ragazzi che la benzina è finita e che a breve non arriveranno rifornimenti. In questo caso, dunque, non è necessaria nemmeno la costruzione di un’autostrada per rendere dimenticata da Dio la cittadina di turno. Quando si sente chiedere dov’è la casa del vecchio Franklin, ossia il nonno del ragazzo, l’uomo mette in guardia i giovani dall’andare troppo in giro a ficcare il naso. È il tipico comportamento refrattario dei cattivi della wrong turn, rimanersene acquattati nel proprio luogo d’elezione e preservare la tana dalla curiosità altrui, senza prendere in considerazione la violenza come iniziativa. Nonostante le sospette raccomandazioni dello sconosciuto, i ragazzi continuano a girovagare e alla fine trovano il luogo in questione. La proprietà frequentata in passato da Franklin e Sally è ormai costituita da una catapecchia fatiscente e un terreno ricoperto di sterpaglia. Mentre gli amici continuano la visita, Pam e Kirk si allontanano alla ricerca di un fiume di cui aveva parlato Franklin per fare un bagno. Arrivati sul luogo, però, i due constatano che il corso d’acqua è ormai ridotto a un letto arido. Qui in compenso adocchiano da lontano una cisterna e decidono così di avvicinarcisi per chiedere eventualmente a qualcuno se c’è della benzina a disposizione. La wrong turn vera e propria, dunque, comincia da qui. A questo punto, non a caso, la cinepresa inquadra, attraverso il solito uso dello zoom, un dettaglio inquietante di cui la coppia non si accorge: nei paraggi c’è una tenda da campeggio lacerata, e sui rami degli alberi che la circondano sono appesi i tipici utensili adatti a un soggiorno frugale. Con tutta probabilità, insomma, altri ragazzi sono passati di lì e hanno fatto una brutta fine. Al di là della violenza che suggerisce, dell’immagine colpisce l’uso che è stato fatto del102
l’equipaggiamento delle vittime. La grottesca decorazione sugli alberi fa il paio con quella dei resti animali trovati da Franklin all’interno della sua vecchia casa. Come accennato, l’idea più forte e originale presente nell’aspetto iconografico del film – anche se forse suggerita da alcune scene di Il mostro della strada di campagna, e comunque mutuata dalle cronache legate a Ed Gein – è proprio questo uso decorativo dei resti delle vittime. Si tratta di un qualcosa che denuncia il carattere assolutamente gratuito della violenza messa in atto. Qualcosa che, di nuovo, non può dunque non far pensare al Vietnam. In quest’ottica, allora, la metafora si perfezionerà più avanti, quando le macabre decorazioni riguarderanno gli oggetti d’arredo presenti nella casa degli assassini. Dal punto di vista stilistico, è da notare come nei momenti in cui si acuisce la suspense il linguaggio di Hooper si faccia più accorto e quasi ieratico. Ecco allora che nello stile esagitato, dominato da un uso smodato ma anche magistrale dello zoom e del teleobiettivo, funzionale soprattutto a schiacciare i protagonisti contro una natura selvaggia e desolata, si fanno largo stilemi da cinema classico. In particolare, ampie carrellate laterali che sottolineano il senso di pericolo che circonda i ragazzi, ma soprattutto carrellate in avanti in cui lo sguardo della cinepresa li segue da dietro, inquadrandoli però insolitamente dal basso, come se qualcosa di incombente li stesse per sovrastare. Sono passaggi che dimostrano come Hooper, al di là dell’urgenza dettata dall’ispirazione, conosca molto bene il linguaggio classico che intende in gran parte derogare. Non a caso, alcuni anni dopo lo ritroveremo perfettamente a proprio agio all’interno del rinato studiosystem. Proseguendo l’esplorazione, quindi, Pam e Kirk incappano nell’immagine ormai retorica delle auto abbandonate. In questo caso l’indicazione di pericolo è ancora più precisa del solito, perché fra i veicoli che si intravedono sotto un capanno, introdotti come al solito dall’uso in senso parossistico dello zoom, quelli in primo piano sono due maggiolini Volkswagen, a quell’epoca la tipica macchina dei giovani hippie. Il pericolo dunque è ormai alle porte. E poco dopo infatti la coppia si ritrova di fronte alla casa da cui non uscirà più. Introdotta da un’altra ampia carrellata laterale, si staglia quindi imponente un’abitazione a due piani in stile gotico-coloniale, insolitamente elegante rispetto a tutto il resto del paesaggio. Dopo aver chiesto se c’è qualcuno in 103
casa, Kirk decide di entrarvi. In un primo momento la dimora, ridotta piuttosto male, appare abbandonata. Poi, però, l’attenzione del ragazzo viene attirata da quello che sembra il grugnito di un maiale proveniente da un’altra stanza. Guardando in quella direzione, il ragazzo nota una parete completamente ricoperta di trofei animali. Si tratta di teste di cervo impagliate e di teschi di bovini. Immagini di per sé innocue, anche perché viste già in decine e decine di film western. Scopo di Hooper, però, come abbiamo visto, è proprio quello di slatentizzare l’orrore di immagini già ampiamente veicolate dal cinema hollywoodiano con toni epici e positivi. E della parete in questione, introdotta prepotentemente da un doppio stacco sull’asse, inquieta, più che il numero considerevole dei trofei, la loro disposizione meticolosamente geometrica, che indica come qualcuno vi ci sia dedicato con sin troppa cura, e che torna a suggerire, dunque, il fine meramente decorativo della violenza. Quando Kirk è ormai a un passo dalla parete in questione, compare da un passaggio laterale un energumeno gigantesco con il volto coperto da una maschera; indossa un grembiule da cucina e, particolare grottesco, una cravatta dal disegno sgargiante. Tuttavia, non facciamo nemmeno in tempo a osservarlo bene, perché nel giro di pochi istanti ha già sferrato con terribile violenza un colpo di martello contro la testa di Kirk, che ovviamente cade a terra tramortito. Mentre il corpo del ragazzo è attraversato dalle convulsioni, l’energumeno lo raccoglie e lo trascina all’interno dell’altra stanza, dopodiché chiude brutalmente una porta a soffietto fatta di lamiera con cui esclude la visuale allo spettatore. Un gesto che torna a sottolineare il carattere refrattario degli assassini e il loro desiderio di tenere gelosamente segreto il proprio microcosmo. Come se l’esplosione di violenza appena messa in atto sia stata solo un’incidentale e fastidiosa incombenza. È la volta di Pam. La ragazza si avvicina alla casa accompagnata da una delle suggestive carrellate in avanti che abbiamo descritto, in modo che l’architettura che si staglia imponente appaia di per sé come qualcosa di spaventoso. Una volta dentro, la ragazza si inoltra apparentemente indisturbata per un corridoio alla ricerca dell’amico. Inciampando, si ritrova quindi sul pavimento di una nuova stanza e qui rimane orripilata da ciò che la circonda: il pavimento è interamente ricoperto di piume, ma tutta la stanza è colma di ossa umane o animali, alcune delle quali sono servite a decorare un divano e altri oggetti d’arredo. Come si preannunciava, il significato dell’iconogra104
fia del film giunge qui a compimento. L’America si ciba di giovani vite nemmeno per assicurarsi l’indispensabile, la sopravvivenza, ma per garantirsi il futile, il superfluo. In un certo senso, il lusso, che questi oggetti tentano grottescamente di imitare secondo quell’anelito di sostituzione tipico dei reietti nei confronti della società benestante. Cadaveri e resti animali, inoltre, sono orribilmente equiparati. Per di più, nel caso di questi ultimi, si tratta – ancora meglio degli uccelli impagliati visti negli altri film – di quei trofei che da sempre, nell’immaginario collettivo americano e hollywoodiano, simboleggiano la vittoria dell’homo americanus sulla wilderness, come testimonia per esempio il teschio d’un serpente. Il film di Hooper, al contrario, attraverso queste putride effigi ci presenta la conquista della Frontiera non solo come un brutale processo di sopraffazione su una natura incontaminata, ma anche come un imprinting di violenza e ingiustizia che ha inevitabilmente portato agli orrori delle guerre del presente. I cadaveri di oggi e i trofei che rappresentano un passato spacciato fino a ora come glorioso, sono dunque facce della stessa medaglia: l’America si servirà sempre di vite innocenti perché è la sua stessa storia a richiederglielo. Poco dopo, quindi, anche Pam sarà preda dell’uomo con la maschera e il martello, e si ritroverà appesa a un gancio da macellaio mentre l’energumeno fa a pezzi il suo amico con una motosega. L’immagine della ragazza appesa al gancio, che tanta importanza avrà nell’iconografia del film, tanto da comparire nella versione più diffusa della sua locandina, è presa in prestito da un film minore del sottogenere, il quale merita anche solo per questo un breve excursus. Si tratta di Three on a Meathook (William Girdler, 1973), produzione quasi dilettantesca che, come suggerisce l’eloquente titolo, ha però dalla sua una rappresentazione della violenza insolitamente cruda e, con la sola eccezione forse di L’ultima casa a sinistra (The Last House on the Left, 1972) di Wes Craven, pressoché inedita. Il film si apre su una panoramica cittadina che cita esplicitamente Psyco, e che si conclude appropriatamente con uno zoom su un moderno albergo inquadrato però fra le guglie di una chiesa gotica. E tutto il film sarà un’ingannevole citazione del capolavoro hitchcockiano, con un giovane apparentemente mansueto che adesca ragazze in giro per la campagna per conto di un padre dispotico, il quale sembra però essere immaginario come la madre di Norman Bates. La realtà si rivelerà invece diversa: non soltanto il padre esiste veramente, ma anche la madre che il 105
ragazzo credeva morta spunterà fuori da uno sgabuzzino (!) in un colpo di scena finale. L’unica cosa che colpisce davvero di un film sinceramente malsano ma alla lunga anche inevitabilmente noioso, è una scena dell’epilogo divenuta piuttosto famosa, in cui ci vengono finalmente mostrate le tre ragazze appese a un gancio che il titolo aveva promesso. Nonostante l’efferatezza della situazione messa in scena, comunque, Hooper non indulge affatto nel dettaglio splatter. Significativo in questo senso è il lento zoom con cui l’obiettivo si avvicina alla ragazza scavalcando la figura dell’energumeno intento a sezionare il corpo dell’amico. Con questa scelta intelligente, Hooper da una parte evita il sensazionalismo del dettaglio anatomico, ma dall’altra rende non meno inquietante la rappresentazione della violenza, perché la mancanza di particolare attenzione da parte dello sguardo della cinepresa ce la fa apparire come qualcosa di assurdamente normale, un evento che rientra nell’ordinaria amministrazione di un menage domestico. Alla descrizione diretta delle azioni più efferate Hooper preferisce dunque le reazioni terrorizzate dei protagonisti. Oltreché, di nuovo, la valenza simbolica delle immagini. Anche qui, infatti, quando la violenza ha raggiunto il culmine, la regia stacca da uno zoom sulla faccia urlante della ragazza appesa, alla ventola del mulino della cisterna che aveva attirato l’attenzione della coppia. Si tratta di un altro chiaro accostamento fra violenza ed esigenze economiche, ottenuto di nuovo attraverso una delle immagini tipiche della retorica western, quella della ventola del tipico mulino americano, che negli stati del sud è utilizzato spesso per l’estrazione del petrolio. Da notare, non a caso, come ci sia davvero solo un passo fra questa giuntura di montaggio e l’immagine che chiudeva Sfida nell’alta sierra, il film di Peckinpah di cui abbiamo già parlato proprio perché presenta significative analogie con il nostro sottogenere: l’eroe che muore e si accascia a terra lasciando in quadro la torre della cisterna, ovvero il romanticismo che lascia spazio alle esigenze del capitale. In Hooper, è implicito uno step in più: dietro la morte di un innocente, c’è il capitale, anche sotto forma delle aberrazioni e disfunzioni che esso crea. E la mitologia dell’eroe del West, come abbiamo visto, non è più romanticamente al di qua della barricata, ma al di là, assieme all’America reazionaria, capitalista e guerrafondaia che genera mostri. Poco più avanti anche Jerry, introdottosi in casa, verrà tramortito dal gigante assassino. Il quale a questo punto comincia a essere evidentemente 106
angosciato dal numero degli avventori, e a chiedersi quanti ancora ne arriveranno. È in questo momento di “riflessione”, fra l’altro, che vediamo per la prima volta bene il suo volto. Il che ci permette di notare come la maschera che indossa è fatta presumibilmente con della pelle umana cucita ad hoc. Un dettaglio che garantirà al personaggio il nome presto famoso di Leatherface, e che viene direttamente dalle cronache di Ed Gein, passando però per il fondamentale Deranged, in cui Ezra Cobb come già accennato collezionava maschere identiche a questa. Nel frattempo si è fatto buio. Un’altra deroga alle regole del sottogenere, come vedremo, transitoria e strumentale. Franklin e Sally sono rimasti soli e non sanno che fare, anche perché gli amici hanno tenuto con sé le chiavi del furgone. Suonando il clacson e agitando una torcia denunciano però la propria presenza nel campo. Un grosso errore, dato che Leatherface ha deciso stavolta di prendere in mano la situazione pur di evitare che qualcun altro faccia irruzione in casa. Franklin verrà dunque ucciso con la motosega, mentre Sally inizierà una lunga fuga inseguita ovviamente dall’assassino. L’inseguimento è anche un espediente per mostrare bene tutti i componenti della famiglia e soprattutto collegarli fra loro. Sally entra a sua volta nella casa pensando di trovare soccorso e qui, al piano superiore, si imbatte in quelli che presumibilmente sono i nonni della famiglia: un uomo decrepito e un cadavere di donna putrefatto e imbalsamato identico a quello della madre di Norman in Psyco, seduti su due poltrone in un solaio e circondati da animali a loro volta impagliati. Agghiacciata, Sally fugge quindi dalla casa, fino a trovare nuovamente un falso riparo nel caseggiato della stazione di servizio vista all’inizio. Qui il proprietario prima si mostra disposto ad aiutare la ragazza, poi però prende della corda e un sacco per legarla e caricarla sul suo furgone. La destinazione è, ovviamente, di nuovo la casa, di fronte alla quale stavolta troviamo anche l’autostoppista. I pezzi del puzzle sono dunque tutti a posto, la famiglia è al completo e risponde interamente ai canoni già consolidati all’interno del sottogenere: elementi femminili assenti, un padre dispotico, due figli dementi, e in più un nonno folle da cui prendere esempio. Inoltre, nella scena precedente è emerso un altro elemento significativo. Quando Sally aspettava da sola nel caseggiato il ritorno di quello che si sarebbe rivelato il suo rapitore, la sua attenzione era stata catturata da un forno dentro al quale cuocevano pezzi di carne, mentre un notiziario radiofonico riportava la notizia di una profana107
zione di tombe al cimitero locale. E proprio nei pressi del cimitero era stato prelevato l’autostoppista all’inizio del film. Abbiamo dunque tutti gli elementi per capire il menage familiare degli assassini. L’autostoppista procaccia cadaveri dal cimitero, Leatherface li fa a pezzi e il padre li cucina. Si tratta dunque di un circuito di sostentamento perfettamente autonomo, che permette ai suoi fruitori di ovviare alle difficoltà economiche. E gli avventori di turno che finiscono in questo meccanismo ben oliato, rischiano di farlo saltare, a meno che non si riesca ad abbatterli come si faceva una volta con gli animali al mattatoio. Sally viene quindi portata in casa, e poco dopo si ritroverà legata a una sedia per il rito ormai classico della cena in famiglia, sulla falsariga di quelle viste in Spider Baby ma anche in Deranged. Per l’occasione Leatherface si è vestito di tutto punto, con vestito e cravatta. E lo stesso abbigliamento lo notiamo adesso nel nonno decrepito. È il solito patetico tentativo dei selvaggi di sostituirsi alla società civile dalla quale sono stati esclusi. Dopo alcune ore, tuttavia, Sally riuscirà in qualche modo a liberarsi e a tentare di nuovo la fuga scaraventandosi contro il vetro di una finestra. Una volta fuori, rimane però stupita e terrorizzata dal notare come sia già diventato giorno, e come dunque scappare sarà per lei molto più difficile di quanto aveva sperato. Risulta allora chiaro come Hooper si sia servito del buio anche per sottolineare, per contrasto, i pericoli legati all’ambientazione diurna ed en plein air tipica del sottogenere. Un’altra deroga sfruttata per rafforzare una regola. In ogni caso la ragazza riesce ad arrivare fino alla strada e a liberarsi fortuitamente dalla pressione dell’autostoppista quando questi viene travolto da un camion. Quindi il camionista di colore scende dal mezzo e, accortosi dell’arrivo di Leatherface con la sega a motore in pugno, gli scaraventa in faccia una chiave inglese, permettendo così a Sally di prendere al volo un passaggio su un pick up e di sfuggire definitivamente a ogni pericolo. Ancora una volta, la lotta per la sopravvivenza è un regolamento di conti fra minoranze, e fra proletari e sottoproletari. Mentre l’alba di un altro inutile giorno incombe sul suo mondo dimenticato, a Leatherface non rimane a questo punto che volteggiare invano l’arma nell’aria. Ultima immagine simbolica di quella parte della società i cui sforzi vanno a vuoto. E di oggetti che si ritrovano a essere strumenti di morte perché hanno perso la loro funzione di arnesi di lavoro. 108
Mandati a morire in una guerra inutile. Violenza decorativa come metafora del Vietnam in Non aprite quella porta. Quasi Hooper. Anticipazioni di Non aprite quella porta in Deranged.
Capitolo decimo
Ultima fermata nel viaggio verso il rimosso: Le colline hanno gli occhi
Culmine dell’intero sottogenere, Non aprite quella porta aveva rappresentato anche un punto di non ritorno a cui era difficile aggiungere qualcosa di significativo. Eppure, in questo ideale viaggio a ritroso verso le radici malate della storia nazionale, mancava un’ultima tappa. Un’ultima fermata che ricollegasse la wrong turn all’insediamento stesso dei pionieri americani, e al loro traumatico rapporto con le popolazioni native. Bisognava insomma fare i conti con ciò che un diverso cinema aveva già cominciato ad affrontare da tempo: la questione indiana. A raccogliere la sfida, arriva un altro giovane regista che sembra avere il curriculum adatto, essendosi fatto notare ben cinque anni prima con un film a bassissimo costo ma di una crudezza avanti coi tempi: L’ultima casa a sinistra. Stiamo parlando di Wes Craven, il nome che rappresenterà forse più di tutti il traghetto dall’horror realistico anni Settanta a quello “reazionario” degli anni Ottanta. La famiglia Carter, al gran completo – il padre Bob, la madre Ethel, i tre figli Bobby, Brenda e Lynne, il marito di quest’ultima Doug e la loro figlia neonata Katy – è in viaggio in roulotte per raggiungere la California, ma decide di fare una deviazione nel deserto per visitare delle miniere d’argento da quelle parti. A causa di un incidente che ha messo fuori gioco l’auto, i turisti sono però costretti a fermarsi e a passare la notte in quel luogo inospitale. Saranno vittime delle indesiderate attenzioni di una famiglia di barbari semidementi che vive fra le montagne. Per sopravvivere, dovranno fare appello alla loro astuzia, ma anche ai loro istinti più bassi. 110
I titoli di testa si aprono su un’immagine suggestiva del contorno irregolare delle colline in controluce dopo il tramonto, in modo da evocare il tema che sottenderà l’intero film, ovvero l’impossibilità di addomesticare del tutto il territorio selvaggio dove gli americani si sono ritrovati a vivere. Un mood fatalista che come vedremo acquisterà maggior significato nel corso del racconto. Anche se la scena è ottenuta con tutta probabilità con luce naturale, colpiscono le tonalità pure del blu del cielo e del giallo dei titoli, messe in risalto dal nero delle colline e che faranno il paio con la virata in rosso sempre puro dell’inquadratura finale, con un effetto pop tipico delle sequenze dei titoli degli spaghetti-western. D’altronde il nuovo horror realistico, proprio come il western all’italiana, si è cibato finora del tramonto del western classico e qui lo farà nel modo più eclatante e definitivo. Dopo i titoli, il film ha inizio su uno scenario ancora più desolato e squallido di quello visto in Hooper, supportato peraltro da una fotografia molto simile, ma dai colori ancora più sporchi e sbiaditi. Si tratta di una sorta di baraccopoli dove, fra le catapecchie di legno, si intravedono i segni di quella che una volta doveva essere stata la civiltà: una cisterna, pali telefonici e naturalmente l’immancabile stazione di servizio. Ma anche cumuli di mobili ed elettrodomestici, fra cui spicca il residuo di un’abitazione: un camino in pietra con tanto di canna fumaria si erge come un totem al centro di questo scenario. Si tratta, dunque, di un ritorno alla barbarie dovuto forse a una crisi economica. In ogni caso il simbolo totemico lascia già presagire la presenza di qualche gruppo umano non in sintonia con le effigi della civiltà occidentale, qui mostrate nella loro ormai squallida futilità. L’incombere di una qualche forma di violenza nella zona viene confermata dalla frase d’esordio del primo personaggio che entra in scena: Fred, il proprietario della stazione di servizio, il quale impreca contro certi “bracconieri bastardi”, ma se la prende anche con l’aeronautica, che possiede il terreno e ha intenzione di effettuare presto test nucleari nella zona. L’uomo, vestito con un cappello da cowboy e una camicia a scacchi, potrebbe essere Walter Brennan in Un dollaro d’onore, ossia il tipico personaggio anziano e dalla voce querula che nei vecchi western dispensava perle di saggezza popolare. Mentre mormora fra sé che è arrivato il momento di andarsene da quel posto, dove abita presumibilmente da tempo, e finisce di mettere via le proprie cose su un furgoncino, l’uomo viene raggiunto da una certa Ruby, una ragazza abbigliata in modo a dir poco singolare, a metà fra una barbona, una 111
donna delle caverne e una pellerossa dei tempi della Frontiera. La donna prima propone a Fred alcuni oggetti che ha rubato in giro in cambio di qualcosa da mangiare, poi gli annuncia che non vuole più stare con la propria famiglia, e che vuole venir via con lui. Come vedremo, e come già ci dice la sua forma di sottoproletariato votato al baratto, la ragazza costituirà infatti una sorta di trait d’union fra la barbarie e la civiltà, rappresentate dai due nuclei familiari protagonisti. A questo punto arriva alla stazione di servizio la famiglia borghese. Bob, il padre, non è però un libero professionista, ma un ex poliziotto che nonostante si dia un’aria da uomo tutto d’un pezzo e faccia il prepotente con Fred, sembra avere qualche problema a imporre la propria autorità ai familiari. Del resto della famiglia, invece, colpisce subito l’abbigliamento della neonata, acconciata con una cuffietta da pioniera. Particolare che aiuta a introdurre la natura metaforica della roulotte sulla quale si sta spostando la famiglia. Questo cingolato trainato da un altro veicolo attraverso il deserto, e destinato a divenire presto oggetto di violenti assalti, non è altro che una carovana riveduta e aggiornata. Il che conferisce già un significato al cripto-totem d’apertura, nonché all’abbigliamento di Ruby. Per i Carter, d’altronde, la wrong turn è a un passo, perché nel loro viaggio verso la California hanno intenzione di fare una deviazione per andare a visitare delle miniere d’argento. Fred cerca di dissuaderli dal trattenersi nel deserto, facendosi così portavoce del tipico comportamento refrattario dei violenti. La famiglia però non si terrà sulla strada principale, come le è stato consigliato, e per giunta avrà presto un incidente che le impedirà di proseguire. L’auto guidata da Bob finisce fuori strada procurando un danno grave alle ruote. È da notare, in questo frangente, come il capofamiglia prima venga distratto da aerei militari che volano basso e da una cartina stradale che gli è andata a finire sugli occhi, sottolineando il suo comportamento sostanzialmente impacciato, e quindi perda definitivamente il controllo della vettura per evitare di investire un animale. Anche se si mostra burbero, dunque, il suo istinto è quello di un uomo buono e non intenzionato ad attaccare di propria iniziativa la natura. E proprio questa indole si rivelerà il suo fatale difetto nell’ambito della selezione naturale rigurgitata dai recessi della storia nazionale. Come Fred, poi, è simbolicamente sovrastato da un’autorità superiore, lo Stato rappresentato dall’aeronautica, che fa i suoi comodi nella zona schiacciando gli interessi dei singoli, e i cui imminenti test nucleari, che obbligano in pratica la gente del 112
luogo ad andarsene, fanno chiaramente le veci dell’autostrada o della diga in costruzione di cui abbiamo avuto notizie nei film precedenti. I due uomini sono dunque il prototipo di tanto cinema conservatore, dal western classico al poliziesco metropolitano anni Settanta, ossia l’individualista che deve cercare di tirare avanti guardandosi tanto dai delinquenti quanto dalle prepotenze delle autorità superiori. Subito dopo l’incidente, comunque, il gruppo non si scompone più di tanto, e su invito di Ethel recita fiduciosamente una preghiera. Da quando la loro auto si è fermata, però, le azioni dei protagonisti sono state intervallate dalle inquietanti soggettive di qualcuno che osserva la scena da lontano con il cannocchiale e che in un’occasione, disegnando una sorta di geroglifico in terra, ha fatto un commento sull’avvenenza della più giovane delle ragazze. Queste irruzioni nel racconto – le soggettive misteriose, ma anche il volo degli aerei che spezzano violentemente il cielo – costituiscono finora gli unici guizzi di una regia che al di là della fotografia suggestivamente sporca porta avanti la narrazione in modo piuttosto convenzionale. E in cui le asperità del montaggio sembrano dipendere più dalla mancanza di una perizia tecnica sopraffina che da una particolare scelta espressiva. Bella e Bestia, i due cani lupo che la famiglia ha con sé, si mostrano particolarmente nervosi. Avendo perso il contatto con la natura e le sue regole, i civili sottovalutano però la cosa, almeno finché uno dei due animali non si inoltrerà per le colline per poi essere ritrovato maciullato da Bobby. A questo punto Craven si concede un’inquadratura più stilizzata: la madre e le due figlie guardano verso le colline, preoccupate per la momentanea sparizione del ragazzo. Questa inquadratura leggermente dal basso verso l’alto, con le donne in atteggiamento di attesa e protese ansiosamente verso il controcampo, è un esplicito riferimento al cinema di Ford. Il che fa ovviamente il paio con l’immagine metaforica della roulotte-carovana. Craven comincia dunque a svelare la propria fonte d’ispirazione. Bob e Doug intanto si sono separati dal gruppo per cercare aiuto. Quando ormai si è fatto buio, il più anziano raggiunge di nuovo la stazione di servizio di Fred. Qui viene quasi ucciso da quest’ultimo, che lo scambia per uno dei bracconieri che lo tormentano da tempo, e che gli hanno anche impedito di abbandonare il luogo dando fuoco al suo furgoncino con un comando a distanza. Fred, dunque, è costretto a dare delle spiegazioni. 113
L’uomo racconta di essersi trasferito in quel luogo con la moglie e il primo figlio nel lontano ’29. Una vittima della Grande Depressione, dunque. Anche lì, però, a un certo punto le cose cominciarono ad andar male. Il secondo figlio era una creatura mostruosa e abnorme che quasi uccise la madre durante il parto e che, una volta cresciuta, cominciò a diventare pericolosamente violenta: uccideva gli animali e arrivò a dare fuoco alla casa dove la famiglia abitava, provocando così la morte del primogenito. Fred a quel punto cercò di uccidere a sua volta la creatura, abbandonandola poi in fin di vita nel deserto. Ma tempo dopo gli incidenti ricominciarono. L’orda assassina con cui Fred ha a che fare, e con cui la famiglia Carter presto si fronteggerà, è perciò la progenie di questa creatura mostruosa a cui il colono a sua volta ha dato vita. Se l’immagine della casa bruciata in cui muore il fratello del piromane è l’ennesimo riferimento alle cronache di Ed Gein, l’idea di una creatura enorme che mette in pericolo la stessa madre durante il parto viene direttamente da Faster, Pussycat! Kill! Kill!, ma qui è significativamente messa in relazione con la Grande Depressione: tormentata dalla crisi economica, questa povera coppia di coloni non poteva che dare vita a un essere deforme, simbolo, di nuovo, del determinismo che domina il sottogenere, e che non dà scampo ai più deboli in cerca di riscatto. La famiglia generata dall’energumeno, inoltre, come vedremo rivelerà chiare analogie con i pellerossa. Al termine del viaggio verso il rimosso nazionale, dunque, il sottogenere giunge con Craven a una simbologia profonda e sconcertante che va ben oltre le revisioni del western anni Settanta: gli indiani, il nemico atavico, sono un parto degli stessi coloni. Come dire che ogni tragedia è il nefasto frutto dei bianchi, e che la violenza appartiene all’homo americanus in un modo assimilabile a quello genetico. Proprio per questo, tuttavia, gli americani non hanno vere e proprie colpe. Sono le condizioni storiche ad averne determinato inesorabilmente il percorso, esattamente alla stregua di un processo fisiologico. E per le regole di quello stesso processo, come vedremo di nuovo, sono comunque destinati a prevalere. Sempre secondo quella selezione naturale che innerva d’altronde anche il modello fordiano. Riguardo questo fondamentale passaggio del film, è importante aggiungere che il doppiaggio italiano modifica il monologo esplicativo di Fred, mettendogli in bocca parole leggermente diverse che però alterano profondamente il racconto della genesi della famiglia selvaggia e quindi l’intero senso del film. 114
La spiegazione di Fred è comunque il preludio allo scoppio della violenza. Un uomo enorme, presumibilmente lo stesso di cui parlava il vecchio, improvvisamente sfonda una finestra e preleva dal caseggiato il padre che lo ha rinnegato, per poi ucciderlo a colpi di spranga. Quindi è la volta di Bob, che dopo aver provato invano a colpire l’uomo mostruoso con la propria pistola viene aggredito e tramortito. Più tardi, lo ritroveremo addirittura crocifisso contro un cactus – come ideale risposta alla preghiera recitata dai Carter poco prima – a cui poi viene dato fuoco con un ordine telecomandato, come era avvenuto per il furgoncino di Fred. Le violenze intanto continuano. Altri due selvaggi, che scopriremo essere i figli del primo energumeno, fanno irruzione nella roulotte. Se Craven si gioca piuttosto male l’apparizione di questi ultimi, così come aveva fatto con quella, quasi grottesca, del padre, con la sequenza all’interno della roulotte mette invece a segno la parte migliore del film. La coppia si ritrova inizialmente con Brenda e la neonata. Il più intraprendente dei due prima tenta di violentare la ragazza, poi ghermisce la bambina per portarla via. A questo punto però sopraggiungono Lynne ed Ethel, già reduci dal ritrovamento del cadavere carbonizzato di Bob, e la violenza trascende in un eccesso parossistico ben espresso da Craven imitando lo stile di Hooper, con movimenti di macchina a spalla fusi con l’uso dello zoom. Lynne viene uccisa dopo aver a sua volta ferito uno degli invasori, e anche la madre rimane gravemente ferita. La bambina invece viene rapita. Anche la coda di questa scena è molto efficace. Prima di morire, Ethel comincia a delirare, dimostrando di aver rimosso tutto ciò che è accaduto. Chiede notizie dei familiari morti, assecondata finché non spira a sua volta. È il primo film del sottogenere a mettere così in risalto le conseguenze della violenza, ossia lo strazio della perdita. Un’idea peraltro già sperimentata dal regista nel suo film precedente e che ben sottolinea la graduale virata ideologica già in atto all’interno del genere horror, ossia il passaggio da un mood progressista a uno fatalmente interventista, in sintonia con l’ormai prossima restaurazione reaganiana. Se anche sono gli stessi americani a essere colpevoli della violenza all’interno del proprio territorio, ora, se si vuole sopravvivere, non rimane che estirparla con altra violenza. La famiglia che si annida fra le montagne, e di cui abbiamo scoperto far parte anche la più riluttante Ruby, nel frattempo si riunisce con la neonata appena rapita di fronte al proprio frugale insediamento, a metà fra una 115
caverna e una tenda indiana. La madre in particolare è acconciata come una perfetta pellerossa, con monili fatti di ossa e oggetti di fortuna – rimembranza della violenza decorativa di Hooper – ma tutti sono ricoperti di pelli e piume. Si parla poi in modo trionfale della neonata come di qualcosa di buono da mangiare. Si tratta dunque anche qui di cannibali, come già ci suggerivano i denti rovinati di Ruby, ormai una costante nella caratterizzazione dei selvaggi. A dispetto del loro atteggiamento brutale, tuttavia, questi manifestano una singolare dimestichezza con la tecnologia: come accennato, riescono a far esplodere degli ordigni con l’uso di un telecomando, inoltre hanno sempre con sé delle ricetrasmittenti, con cui più tardi riusciranno anche a intercettare le onde radio provenienti dalla roulotte. Questo atteggiamento può essere considerato un corrispettivo dell’uso dei fucili da parte dei pellerossa nei film western, ossia l’assimilazione della tecnologia dei bianchi. Ma, più sottilmente, il cortocircuito fra tecnologia e barbarie suggerisce anche l’immagine di una civiltà postapocalittica, monito delle possibili conseguenze dei test nucleari in atto. E dei mostri che l’America, dal canto suo, sarà sempre destinata a generare. Passata la notte, ai superstiti non rimane che cercare di difendersi dagli ulteriori assalti, e contemporaneamente inoltrarsi per le colline per cercare di recuperare la bambina rapita. Se per il suo primo film Craven si era ispirato nientemeno che al soggetto di La fontana della vergine di Ingmar Bergman, qui dunque ricalca, ancorché in una versione ovviamente molto contratta, quello di Sentieri selvaggi (The Searchers, John Ford, 1956), con il tentativo di recupero di una bambina rapita dai pellerossa, suggellando così definitivamente l’ascendente fordiano. Il “buon” esempio di come condurre questa lotta alla sopravvivenza, verrà suggerito emblematicamente da Bestia, il cane superstite, che vendica il suo consimile più gentile uccidendo due dei selvaggi. Nel frattempo Bobby e Brenda hanno escogitato un piano per uccidere il capofamiglia, ossia servendosi della propria madre ormai morta come esca. Una volta attirato l’uomo all’interno della roulotte, faranno esplodere il veicolo a distanza, imitando significativamente l’atteggiamento dinamitardo dei loro nemici. Doug, invece, si inoltra fra le montagne e, con il fondamentale aiuto di Ruby, riuscirà finalmente a salvare sua figlia, non prima però di aver ucciso l’ultimo nemico con una brutalità di cui non l’avremmo mai creduto capace all’inizio del film, stavolta messa ben in risalto dalla regia con un parossi116
stico zoom sull’espressione trasfigurata del civile. O meglio, di quello che una volta era stato tale. La famiglia Carter, il cui nome è un esplicito quanto sarcastico riferimento al Presidente democratico in carica all’epoca, l’ultimo prima di un lungo dominio repubblicano, apre dunque la strada all’immagine di un’America pronta a ricompattare il proprio fronte ideologico, e a reagire in modo muscolare alle contraddizioni e alle divisioni che l’avevano portata sul baratro dell’autodistruzione.
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Una piccola pioniera scende dalla roulotte/carovana. Simbologia western in Le colline hanno gli occhi.
Citare le fonti. Tensione fordiana verso il controcampo in Le colline hanno gli occhi.
Capitolo undicesimo
La restaurazione reaganiana: derive, trasformazioni e pallidi strascichi
La wrong turn viene deviata: Horror Puppet Che il sottogenere cominci a declinare a pochi anni dal suo culmine, raggiunto con Non aprite quella porta e Le colline hanno gli occhi, non deve affatto stupire. Dal punto di vista cinematografico, si tratta di una conferma di come questi due film avessero rappresentato una sorta di riepilogo complessivo, di bilancio finale dopo il quale non poteva non affacciarsi una saturazione. Dal punto di vista storico, invece, di come quel cinema fosse legato alla realtà che l’America stava vivendo. Di come fosse basato non su una mera formula narrativa o drammaturgica, che pure ormai ne costituiva la struttura, fra l’altro sempre più solida e riconoscibile, ma sulla capacità di parlare della Nazione nel suo periodo di massima crisi, per giunta con un tempismo quasi da instant cinema. E il fatto che nei due decenni successivi, orientati a un deciso ripiegamento ideologico in senso patriottico, spariranno praticamente del tutto film dal soggetto analogo, ne costituisce un eloquente corollario. Quando poi, molti anni più tardi, il wrong turn movie rinascerà dalle proprie ceneri, il fenomeno sarà invece da attribuire quasi del tutto alla sensibilità postmoderna, pronta a fagocitare e rielaborare tutto ciò che fa parte del cinema, soprattutto di genere, del passato. Alla fine degli anni Settanta, dunque, la fase di autoanalisi aspramente critica aveva ormai perso la spinta iniziale e si stava viceversa diffondendo sempre di più il desiderio di una reazione muscolare capace di ricompattare la nazione attorno ai suoi valori primigeni, fra cui si agitavano, malcelati, 119
proprio quelli che la controcultura e il cinema dei due decenni precedenti avevano messo sotto accusa. Se c’è un film capace di esemplificare da solo il declino dell’epoca d’oro della wrong turn, questo è Horror Puppet (Tourist Trap, David Schmoeller, 1979). A pochi mesi dall’arrivo della restaurazione reaganiana, questa piccolissima produzione dal discreto successo ripropone fedelmente tutto l’armamentario narrativo e iconografico che il sottogenere aveva accumulato nell’arco di vent’anni, dirottandolo però verso lidi più consoni all’imminente cambio di un’epoca, ossia facendone una formula strettamente cinematografica utile prima di tutto a creare tensione e spavento, alla stregua dei cloni che sarebbero arrivati decenni più tardi. E servendosi a tal fine di una poco risolta miscela di horror realistico e horror sovrannaturale, il quale avrebbe presto provveduto a spartirsi il lascito del nostro sottogenere assieme allo slasher movie. Emblematicamente, il divario che intercorre fra il titolo originale e quello italiano conferma come la pellicola si trovi in bilico su un crinale, facendo propendere la bussola nelle due opposte direzioni: Tourist Trap pone ancora l’accento sulla tradizione realistica della wrong turn, mentre Horror Puppet rende soprattutto conto dell’affinità con quello che sarà l’interminabile sottogenere delle bambole assassine, di cui non a caso proprio Schmoeller diventerà un esponente con Puppet Master – Il burattinaio (Puppet Master, 1989). Cinque ragazzi stanno facendo una gita quando una delle due macchine sulle quali viaggiano ha un problema a una gomma. Uno di loro va a chiedere aiuto in una stazione di servizio, e qui rimane vittima di perfidi manichini che improvvisamente prendono vita. Gli altri si mettono sulle sue tracce e arrivano così all’amena proprietà di un gentile campagnolo, il quale cura da molti anni un museo in cui i personaggi della storia americana sono rappresentati da manichini meccanici. In realtà, si tratta di uno schizofrenico dai poteri telecinetici che uccide gli avventori per mano degli automi, per poi farne a loro volta dei manichini umani. Già la musica che accompagna i titoli di testa lascia presagire una miscela di registri fra serio e faceto che sembra farci tornare ai tempi di Spider Baby. Subito dopo, però, il film parte diligentemente, persino troppo, in odore cioè di facili cliché: il solito guasto alla macchina, la solita stazione di servizio dove cercare aiuto e ricevere una scostante accoglienza. La fotografia ha perso l’aria malsana che aveva in Hooper e Craven in 120
favore di un alone molto più leccato, a metà fra l’estetica televisiva e l’iperrealismo che pervaderà tanta parte degli anni Ottanta. Il ragazzo che va incontro al pericolo, poi, non ha particolari caratterizzazioni, né figlio dei fiori, né borghese, né reazionario, il che lascia già supporre come ciò che interessa a Schmoeller è fare cinema di genere in senso stretto, depurandolo da possibili significati reconditi. Il giovane ha semmai l’aspetto sano e forte che sarebbe congeniale a fare da contraltare a eventuali mostruosità genetiche. E invece la fonte del pericolo, come sempre nascosta e non spontaneamente aggressiva, stavolta ci sorprende: si tratta di manichini in disuso stipati sul retro del bar della stazione di servizio, che si animano all’improvviso terrorizzando il ragazzo. Non sono però gli unici oggetti a muoversi da soli. Da un armadio decine di utensili da ferramenta si scagliano spontaneamente contro il corpo del giovane, che alla fine verrà trafitto da una spranga di ferro. La wrong turn, dunque, è stata deviata verso un horror più tradizionale, che riesuma l’elemento smaccatamente sovrannaturale e scevro da qualsiasi implicazione ideologica. In un film del sottogenere di qualche anno prima, forse, la scelta del manichino avrebbe potuto ancora rappresentare qualcosa di simbolico: l’immagine di una generazione i cui destini sono mossi da interessi più grandi. Malgrado queste implicazioni non siano da scartare recisamente, la scelta iconografica suggerisce almeno un’altra e più convincente interpretazione, stavolta tutta cinematografica. Curiosamente, ma non troppo, quella del manichino è infatti un’iconografia che affiora spesso nei film che si situano al tramonto di un genere o sottogenere. Esempi possono essere Il bacio dell’assassino per il noir, Spettacolo di varietà per il musical, Lo straniero senza nome per il western. Si tratta di un’immagine che richiama l’inevitabile saturazione dei significati espressi per anni dallo stesso assetto narrativo, drammaturgico e iconografico. Una saturazione che ha l’effetto di riportare un genere al suo grado zero fatto di dinamiche primordiali, alla sua metafisica. E di farne quindi una mera formula, ormai immediatamente riconoscibile dal pubblico e di conseguenza di per sé efficace. Difatti la superficiale fedeltà al sottogenere continua. Sulle tracce dell’amico, gli altri ragazzi prendono la stessa deviazione, la quale porta alla proprietà di un certo Slausen. Questi è apparentemente un villico dai modi gentili, che racconta di aver gestito, fino a qualche anno prima, un “museo del West” poi 121
caduto in disuso soprattutto a causa della solita costruzione di un’autostrada. Si tratta soltanto del primo di tanti riferimenti a Psyco. Come scopriremo, infatti, Slausen è un simil-Norman Bates convinto di vivere con un fratello pazzo e assassino, in realtà ucciso da lui stesso anni prima perché amante dell’adorata moglie, a sua volta eliminata. L’uomo, quindi, ha finito per assumere a tratti la personalità del familiare e, sotto i suoi panni, è diventato un assassino seriale dai poteri telecinetici che si serve dei manichini per i propri scopi. Il ritorno al film che aveva dato origine all’intero sottogenere proprio in concomitanza con gli elementi sovrannaturali che ne rappresentano la più clamorosa violazione delle regole è sintomatico, dunque, della chiusura di un cerchio. Il sottogenere ha detto tutto, e ora torna da dove era partito, cambiando però direzione. Il museo – una scelta di per sé eloquente del taglio già archeologico dell’operazione – ci mostra ancora la solita iconografia: animali impagliati, vessilli sudisti, riferimenti vari alla storia nazionale, ma senza più alcuna enfasi, elementi ormai ridotti – ma in un certo senso anche promossi – a sfondo, a cliché consolidato dal gusto tutto cinematografico. La dice lunga su quanto il clima fosse cambiato, d’altronde, il fatto che nello stesso periodo in cui Horror Puppet veniva distribuito, sulle televisioni americane cominciava la sua programmazione il famoso serial Dukes of Hazzard, da noi semplicemente Hazzard. Il nucleo familiare del telefilm, composto da due cugini orfani, uno zio – vestito esattamente come Slausen! – e un’altra cugina dall’avvenenza ruspante, orgoglioso di radici sudiste sbandierate ai quattro venti ogni volta che ne capita l’occasione, sembra la versione riveduta e corretta, ma soprattutto innocua e pacioccona, di quelli visti negli horror degli anni precedenti. A un passo dagli anni Ottanta, insomma, avere la bandiera della Confederazione dipinta sul tetto dell’auto, e un clacson che intona l’inno sudista – e in passato anche schiavista – “Dixie”, non è più segno di inquietante intolleranza, ma di simpatica eccentricità. Di tanti epigoni disposti lungo la catena involutiva, tuttavia, quello di Schmoeller è in fin dei conti uno dei più fedeli alle origini. Da qui in avanti, infatti, ciò che rimane della wrong turn è destinato a inoltrarsi verso sentieri sempre meno realistici o d’esclusivo appannaggio dell’innocuo slasher movie. Per dimostrarlo basterà fare qualche esempio. In Motel Hell (Kevin Connor, 1980) abbiamo, come suggerisce il titolo, un motel alla Psyco, retto da un fratello e una sorella di mezza età che con122
vivono in un menage coniugale, un po’ come accadeva nel remoto Il castello maledetto, e che non a caso sono rappresentati in locandina come i protagonisti del famoso quadro di Grant Wood “Gotico americano”. L’ascendenza del sottogenere che ha rivoluzionato l’horror dei decenni passati è dunque dichiarata e confermata in maniera eclatante ancorché semiparodica da un duello finale in cui un poliziotto si batte a colpi di motosega contro il proprietario del motel – rivelatosi nel frattempo cannibale come da tradizione – che per l’occasione indossa non una maschera in pelle come Leatherface ma una testa di maiale. Anche qui sono incidenti in auto o in moto a condurre i poveri avventori al sinistro albergo, eventi però indotti dallo stesso proprietario, il quale anziché uccidere subito le proprie vittime per poi cibarsene, le pianterà in un orto per farle ingrassare bene. Il registro farsesco si intreccia dunque a quello serio senza soluzione di continuità, nell’ambito per giunta dell’estetica sin troppo curata e quasi patinata che caratterizzerà quasi tutto l’horror del nuovo decennio: confezione tecnica professionale nonostante il basso budget, montaggio narrativo e paratelevisivo e in più una recitazione da cinema classico garantita anche da una vecchia gloria hollywoodiana come Rory Calhoun, protagonista di tanti western “di serie b” dell’epoca d’oro e qui in condizioni vicine al geriatric horror. Da notare, infine, come uno dei gruppi di persone che finiranno nella rete del proprietario del motel è un complesso musicale chiamato “Ivan e i terribili”, in viaggio su un furgoncino ricoperto da immagini della propaganda bolscevica. Anche se ideologicamente l’horror prende sempre le parti delle vittime, l’idea di rispolverare un’iconografia da pericolo rosso la dice lunga sul cambio d’atmosfera già pienamente in atto. Nello stesso anno, con Without Warning (Greydon Clark) l’ennesima gita in campagna condurrà come di consueto a una stazione di servizio dall’aspetto minaccioso, e a una comunità di villici scorbutici e brutali, la quale però stavolta non difende la propria riservatezza, ma quella di un’entità aliena da cui è soggiogata. Il film, che non presenta una vera wrong turn ed è attraversato da nervose soggettive di quello che si rivelerà essere un killer solitario avvezzo a muoversi verso le vittime anziché viceversa, costituisce anche un ponte per lo slasher movie, che nello stesso anno riceverà il suo varo ufficiale grazie al successo di Venerdì 13 (Friday the 13th, Sean S. Cunningham), dopo essere stato in gran parte anticipato dall’altrettanto fortunato Halloween – La notte delle streghe (Halloween, John Carpenter, 1978). 123
Questo nuovo sottogenere prenderà dunque saldamente le redini del thrillerhorror realistico grazie a una formula più semplice, ripetitiva, stereotipata – e perciò anche più immediatamente riconoscibile – rispetto a quella del cinema che l’aveva preceduto. Ma a renderlo più al passo coi tempi, ormai definitivamente cambiati, sarà soprattutto la sua impostazione ideologicamente innocua, che non a caso trova gran parte delle sue radici iconografiche in quel profeta del cinema puro che era stato Mario Bava e nel suo Reazione a catena (1971). La campagna selvaggia e disseminata dei simboli della storia nazionale virerà verso una più neutra ambientazione lacustre e boschiva; i professionisti piccolo borghesi indirettamente colpevoli diventeranno adolescenti del tutto innocenti, che non apparterranno nemmeno più alla generazione del Vietnam e dei figli dei fiori, ma saranno semplici simulacri dei teenager cui si rivolge il prodotto, per facilitare dunque l’immedesimazione e trasformare questi contenitori di omicidi in serie in una specie di attrazione da lunapark; la fonte del pericolo, infine, tornerà a essere rappresentata dal soggetto singolo e disturbato, la scheggia impazzita che qualsiasi società inconsapevolmente può accogliere, e che per giunta perderà il suo carattere refrattario in favore della più tradizionale aggressività omicida.
La comunità assassina diventa straniera: I guerrieri della palude silenziosa Fra i film americani degli anni Ottanta, quello che probabilmente si avvicina di più a un wrong turn movie non va oltre l’inizio del decennio, e presenta già importanti differenze ideologiche con i suoi ipotetici predecessori, situandosi a metà strada fra una ritrovata paura dello straniero e residui peraltro ancora sinceri di autocritica nazionale. Si tratta di I guerrieri della palude silenziosa (Southern Comfort, Walter Hill, 1981). Louisiana, 1973. Durante un’esercitazione nelle paludi, un plotone della Guardia Nazionale entra in contatto con esponenti della comunità cajun. A causa di una banale quanto stupida provocazione degli americani, gli immigrati francesi uccidono il capo del plotone. Per gli altri, comincerà una fuga fra le paludi, alle prese con l’ostilità di chi vi abita, ma anche con tensioni interne che finiranno per mietere altre vittime. 124
L’idea di retrodatare la vicenda non è certo casuale, ma vuole essere un chiaro riferimento alla guerra del Vietnam e alle pulsioni suicide che l’hanno scaturita. Non soltanto infatti la tragedia nasce qui da un banale incidente provocato dagli americani, ma nel prosieguo vedremo i soldati scannarsi addirittura fra loro per questioni altrettanto marginali e assolutamente evitabili. Per il resto, però, in questa sorta di variante militaresca di Un tranquillo week-end di paura, la fonte del pericolo stipata nel cuore del territorio americano è rappresentata dalla comunità francofona, che se all’inizio viene provocata con una mitragliata a salve e con la sottrazione di alcune imbarcazioni da parte dei soldati americani, poi però si rivela sproporzionatamente spietata e del tutto priva di scrupoli pur di difendere il proprio misero microcosmo. Le caratteristiche sono d’altronde quelle tipiche del nostro sottogenere: menomazioni fisiche, anche se sporadiche; inclinazione alla violenza sugli animali, che non costituiscono solo mezzo di sopravvivenza ma anche trofeo da esporre; una condizione generale di estrema povertà economica che però acuisce l’orgoglio e la gelosia per il proprio insediamento. A sua volta ideale capostipite di una serie di film che avranno in comune la caratteristica di ricreare in nuce la guerra del Vietnam per sublimarne i traumi – e in cui si specializzarà in particolare il regista Ted Kotcheff, con Rambo (First Blood, 1982) e Fratelli nella notte (Uncommon Valor, 1983) – il film di Hill si inserisce dunque anche nel percorso “fordiano” di Craven di una violenza tanto tragica quanto inevitabile e, dunque, sostanzialmente giustificata, costituendo una sorta di possibile anello di congiunzione fra Le colline hanno gli occhi e, come vedremo, Nightmare – Dal profondo della notte.
L’horror torna a essere un luna-park: Il tunnel dell’orrore E dei paladini del wrong turn movie tradizionale che ne sarà? Al di là della svogliata partecipazione ad alcuni sequel dei propri capolavori – ce ne sarà uno per Le colline hanno gli occhi, addirittura tre per Non aprite quella porta, solo il primo dei quali però firmato da Hooper – che sfrutteranno i titoli d’origine alla stregua di meri franchising, si renderanno ancora protagonisti di qualche pellicola vagamente memore del loro passato. 125
Il tunnel dell’orrore (The Funhouse, Tobe Hooper, 1981) si apre con pupazzi semoventi che compaiono accanto ai titoli di testa e musica da fiaba dark. Persino il regista che aveva firmato il capolavoro assoluto del sottogenere sembra voler confluire sulla strada idealmente aperta da Schmoeller con Horror Puppet, ambientando il suo primo horror del nuovo decennio fra i ninnoli macabri ma apparentemente innocui di un luna-park. Dopo il più che discreto Quel motel vicino alla palude (Eaten Alive, 1977), che riproponeva l’atmosfera malsana assaporata in Non aprite quella porta, anche se in versione più astratta e teatrale, Hooper era d’altronde già sceso a compromessi, firmando per la Warner televisiva Le notti di Salem (Salem’s Lot, 1979), una storia di vampiri tratta da Stephen King. Stavolta, se non altro, non cade nella tentazione delle sirene sovrannaturali ormai tornate di moda e adopera l’ambientazione del parco giochi più che altro come ennesima icona per attaccare la cultura americana e il cinema in particolare. Come abbiamo accennato parlando di slasher movie, infatti, l’immagine del luna-park ben si attaglia all’horror conservatore che ormai incombe, fucina di brividi a buon mercato. Si tratterà anche dell’ultimo attacco sferrato dal regista, perché proprio il luna-park hollywoodiano si rivelerà più forte della sua peraltro già appannata carica eversiva. Due giovani coppie si recano a un luna-park arrivato nella loro cittadina dopo aver fatto parlare di sé per alcuni incidenti accaduti nelle settimane precedenti fra le sue attrazioni. Una volta lì, i ragazzi decidono di passare la notte nel tunnel dell’orrore. Dopo essere stati testimoni di un omicidio, diventeranno prigionieri del proprietario del carrozzone e del suo figlio deforme e assassino. Il film si apre all’insegna del citazionismo più sfrenato. La soggettiva del ragazzino che indossa una maschera chiama in causa, a soli tre anni di distanza, Halloween; la scena della doccia replica fedelmente quella di Psyco, ma ha un alone volutamente posticcio che potrebbe benissimo appartenere a De Palma; da qualsiasi parte la cinepresa si giri, poi, ci sono manifesti e altri riferimenti ai gloriosi horror Universal anni Trenta e Quaranta. Il fatto che Hooper si sia fatto distribuire il film proprio dalla major, si rivela dunque un peccato veniale, perché sta a indicare come sua intenzione sia smontare il giocattolo-cinema dal di dentro, dimostrando come lui, a differenza dei colleghi sopracitati, sia ancora in grado di fare un horror malsano, nonostante la volontà generale di ridurre il genere a ludico feticcio. 126
Anche la caratterizzazione dei personaggi indica la voglia di penetrare in un mondo altrui per farlo a pezzi. I genitori sono mostrati come borghesi conservatori, i figli ansiosi di divertirsi ma sostanzialmente obbedienti e restii a trasgredire, oltreché insolitamente patriottici, come rivela una bandierina sull’auto che li condurrà al parco giochi. Quanto di più lontano, insomma, dai bikers ribelli e nichilisti del cinema di pochi anni prima. Anche se quest’ultimo particolare può essere anche interpretato come l’ennesimo riferimento all’auto presidenziale nel giorno dell’attentato di Kennedy. In questo contesto reaganiano color confetto – la fotografia è niente meno che di Andrew Laszlo, un altro elemento “di serie a” da usare in senso antifrastico – Hooper si diverte dunque a inserire elementi disturbanti che lo minano dall’interno, fino a farlo apparire l’ipocrita guscio che ricopre a malapena un Paese ancora malato. Elementi che ormai conosciamo bene: una vecchietta incontrata dalle ragazze negli squallidi bagni del parco lancia ammonimenti da predica apocalittica; il fratellino della protagonista che sta seguendo di nascosto il gruppo viene minacciato con un fucile da un camionista ubriaco, il quale mostra poi la dentatura marcia che ricorda quella dei cannibali dei film precedenti; in un tendone l’attrazione è costituita da mucche deformi, residuo della simbologia della Frontiera in versione malsana; l’attrice Sylvia Miles compare nella piccola parte di una chiromante-prostituta, sorta di putrescente caricatura del ruolo che la rese famosa in L’uomo da marciapiede tratteggiata seguendo i dettami del geriatric horror; riferimenti a incidenti avvenuti nel luna-park a Dallas e a Memphis richiamano esplicitamente la storia nazionale, ovvero gli attentati a Kennedy e King. E infine, naturalmente, c’è la famiglia malata e assassina, costituita dai padroni del tunnel, e composta da un figlio deforme e un padre al contempo dispotico e affettuoso come da tradizione, mentre un altro figlio morto e altrettanto deforme è mostrato sotto formalina in veste di macabra attrazione. Si tratta, in ogni caso, di evidenti residui di un cinema del passato, usati in un contesto insolito che, se ne accentua l’effetto straniante, come voluto dal regista, al tempo stesso ne sminuisce inevitabilmente la portata ideologica e il valore metaforico. E il luna-park finisce così involontariamente per rappresentare una fiera delle vecchie glorie cinematografiche. Alla lunga, infatti, sarà proprio il carrozzone a monopolizzare il film, con le sue botole che si aprono all’improvviso e le sue trappole tese al momento giusto. Si tratta, insomma, di un deciso ritorno all’ambientazione buia e 127
claustrofobica della più antica tradizione orrorifica, dove il territorio – e quindi la storia – statunitense non ha più alcun ruolo. Anche dal punto di vista figurativo, poi, Hooper sembra cedere al gusto iperrealista e stilizzato imposto dall’apparato tecnico, perdendo di vista lo squallore che all’inizio intendeva sottolineare e finendo, dunque, con più d’un piede in quella che sarà l’estetica anni Ottanta. Persino l’aspetto mostruoso del figlio del proprietario va in questa direzione. Si tratta, infatti, di una deformità talmente esasperata da prestarsi a essere accomunata proprio alle maschere dei vari Frankenstein e Uomini lupo che Hooper aveva voglia di dileggiare. Si è tornati allo spavento ingenuo offerto dallo spauracchio, oltre che a quello meccanico garantito da sussulti improvvisi. Soltanto gli ultimi minuti del film ci fanno riassaporare per un attimo il gusto del cinema hooperiano che è stato, quando l’unica superstite vaga ormai all’alba per un parco giochi che mostra definitivamente la sua natura di luogo squallido e desolato, sorta di ghetto per proletari allo sbando che finiscono di smontare la loro bottega significativamente transitoria. Anche Hooper, d’altronde, è vicino alla resa. Di lì a pochi mesi verrà contattato da Spielberg per firmare la regia di Poltergeist: demoniache presenze (Poltergeist, 1982), una storia di fantasmi domestici che viene da un soggetto di quest’ultimo. Il regista di Non aprite quella porta risponderà alla chiamata confezionando un prodotto professionale e di grande successo. Nonché, senza saperlo, l’inizio del suo inarrestabile declino creativo.
Il ritorno dell’Uomo Nero: Nightmare Se l’incontro con l’horror sovrannaturale segnerà l’inizio della fine per Hooper, la stessa cosa di certo non si può dire per Craven, che con il suo Uomo Nero appena un po’ aggiornato Freddy Krueger troverà la gallina dalle uova d’oro, inaugurando con Nightmare – Dal profondo della notte (Nightmare on Elm Street, 1984) l’inizio di una saga interminabile. Alcuni adolescenti cominciano a fare incubi ricorrenti in cui si ritrovano minacciati da un uomo mostruoso che ha una mano armata di lame. Niente di male, se non fosse che essere uccisi nel sogno significa esserlo anche nella realtà. In seguito si scoprirà che il personaggio in questione era real128
mente esistito: si trattava di un assassino di bambini giustiziato molti anni prima dai genitori dei ragazzi. A metà decennio, dunque, il regista di L’ultima casa a sinistra e Le colline hanno gli occhi si ritrova già in un contesto che più antinaturalistico non si potrebbe immaginare, lontano anni luce, anche dal punto di vista strettamente narrativo, dal cinema della wrong turn. Inoltre, l’intenzione di fondo, per quanto velata, sembra essere quella di riportare la fonte della paura nel Vecchio Mondo, dopo decenni di orrori autoctoni: lo confermano l’idea stessa del sogno, che tanta parte ha avuto nella cultura europea a differenza di quella statunitense, fin dall’inizio inesorabilmente pragmatica, nonché un cattivo dal nome d’origini germaniche – le guerre dei padri tornano dunque a essere un valore – che fa una delle sue prime apparizioni sui versi del “Giulio Cesare” di Shakespeare. Eppure, anche in questo contesto di profonda restaurazione, rimangono qua e là strascichi del vecchio horror anni Sessanta e Settanta, e della critica antipatriottica che lo innervava. Come Hooper, anche Craven sembra divertirsi a gettare fango sull’immagine edulcorata della famiglia borghese reaganiana, mostrandoci genitori assenti e avvezzi alla bottiglia. Ma soprattutto, esattamente come in Le colline hanno gli occhi, le colpe di tanto orrore sono da attribuire in ultima battuta al mondo civile. In vita Krueger era un assassino di bambini, dunque l’individuo peggiore che si possa immaginare. I genitori dei giovani protagonisti, tuttavia, commisero il grande errore di farsi giustizia da soli con un brutale linciaggio alla notizia che l’uomo era stato scarcerato a causa di un banale cavillo. Non a caso, la Elm Street che dà il titolo originale al film è quella sulla quale viaggiava Kennedy quando fu ucciso. Anche qui, insomma, è l’America stessa ad alimentare la violenza da cui è colpita. E anche qui le vittime della violenza dei padri sono le nuove generazioni innocenti. Trova allora conforto un’interpretazione inizialmente abbastanza ricorrente e poi smarritasi nel corso della saga, secondo cui il volto ustionato di Krueger rappresenterebbe l’ultimo barlume di una coscienza nazionale che ora si vuole appannare: il simbolo dei corpi dilaniati dal napalm in Vietnam.
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Il colpo di spugna degli anni Ottanta. Fra rivalutazioni della famiglia sudista e il massiccio ritorno al sovrannaturale.
Capitolo dodicesimo
Gli anni Duemila: l’innocuo boom del revival
Sei ragazzi si ritrovano persi nel bosco dopo che le due auto sulle quali viaggiavano si sono scontrate. Finiranno per essere possibili vittime di un’umanità geneticamente degenerata che si nasconde in quei luoghi inesplorati. Succede in Wrong Turn (Rob Schmidt, 2003). Due giovani coppie se ne vanno in gita in Texas alla ricerca di vecchi luoghi di divertimento. Finiranno prigionieri di una famiglia di sadici folli. Viene raccontato in La casa dei 1000 corpi (House of 1000 Corpses, Rob Zombie, 2003). Una coppia in crisi è in viaggio in auto. La macchina ha un problema al motore e i due sono costretti a cercare una sistemazione. La troveranno in un motel il cui proprietario si rivelerà un sadico assassino protetto da un giro di energumeni locali. Accade in Vacancy (Nimrod Antal, 2007). Sono tutti film che hanno avuto un discreto successo, tanto da meritarsi sequel vari. Ma molti altri titoli dal soggetto analogo si nascondono in quell’immenso sottobosco che ha fatto dell’horror il genere più prolifico degli ultimi anni. In Hell’s Highway (Detour, S. Lee Taylor, 2003) alcuni ragazzi reduci da un rave decidono di fare una deviazione prima di tornare a casa. Un incidente non proprio casuale li renderà preda di una comunità di mostri. In Rest Stop (John Shiban, 2006) una giovane coppia si ferma in un’area di servizio, come al solito avamposto per un inferno in cui una famiglia di assassini regna incontrastata. In The Tripper (David Arquette, 2006) i protagonisti neohippie verranno aggrediti da autoctoni reazionari – con tanto di maschera di Ronald Reagan – durante un revival anni Settanta che si svolge come ogni anno nei boschi della California. In Gioco letale (Blackwoods, Marty Weiss, 2008) un gruppo di colleghi di lavoro va a giocare alla guerra nella 131
stessa zona dove altre persone erano sparite dopo aver infastidito la solita comunità di villici arretrati. In Madison County (Eric England, 2011) un gruppo di studenti si inoltra per le montagne con lo scopo di scoprire la verità su fatti di sangue avvenuti molti anni prima. Ma la cittadinanza locale si mostra stranamente reticente. Dopo un letargo praticamente assoluto di due decenni, insomma, il wrong turn movie torna con prepotenza all’alba del nuovo millennio. Tuttavia, se il suo esordio negli anni Sessanta e la sua scomparsa negli Ottanta erano stati dettati, come abbiamo visto, da precise indicazioni ideologiche, questo revival si deve senz’altro, almeno in larghissima parte, a motivazioni di natura strettamente cinematografica. Innanzi tutto, c’è la stagione del postmoderno, che nei primi anni Duemila raggiunge forse il culmine, fondendosi in un tutt’uno con l’altro motivo che spinge i giovani autori a rivolgersi al passato, ovvero la mancanza di idee. Rifare i vecchi classici del genere diventa dunque anche per il cinema horror una comoda valvola di sfogo per uscire dal pantano creativo delle ultime stagioni. Omen – Il presagio, Halloween, Venerdì 13, L’ultima casa a sinistra, L’alba dei morti viventi, La città verrà distrutta all’alba, Amityville Horror, tutto viene rifatto o reinventato. In questo revival non potevano quindi mancare Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, Marcus Nispel, 2003) e Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes, Alexandre Aja, 2006), con l’aggiunta di un prequel per il primo e un sequel per il secondo. E persino Two Thousand Maniacs! si è meritato una sorta di sequel-remake: 2001 Maniacs (Tim Sullivan, 2005). C’è però almeno un’altra motivazione che in questi ultimi anni spinge a rivolgersi alla formula della wrong turn. La diffusione della tecnologia digitale e, quindi, di agili videocamere ad alta definizione, ha dato a chiunque la possibilità di confezionare un prodotto sufficientemente credibile senza la necessità di troppi sforzi produttivi dal punto di vista economico. Perciò, proprio come era avvenuto per il cinema indipendente degli anni Sessanta e Settanta, una formula narrativa priva di elementi sovrannaturali e quindi libera dall’esigenza di effetti speciali, si presenta congeniale per i nuovi pionieri del cinema horror low-budget. Inoltre, nell’epoca dei reality-show e in generale del realismo a tutti i costi, si è diffusa l’idea, in gran parte fallace, che l’alta fedeltà quasi sensoriale garantita dalla tecnologia digitale non possa che enfatizzare le emozioni che l’horror, per lo meno quello realistico, intende trasmettere. 132
In ogni caso, l’impressione è sempre, o quasi, quella di trovarsi di fronte a una formula ancora potenzialmente efficace dal punto di vista della tensione che può suscitare, ma ormai svuotata di ogni significato ideologico o valenza metaforica. In tal senso, sul piano narrativo si registrano alcune emblematiche modifiche rispetto al passato. Innanzi tutto il nuovo wrong turn movie accoglie a piene mani l’idea, imposta in pianta stabile dallo slasher, dei giovani senza particolari caratterizzazioni come protagonisti e, dunque, vittime designate. Idea come detto nata semplicemente per spingere il pubblico giovane dell’horror all’immedesimazione e che ha come prima conseguenza quella di eclissare le istanze progressiste del passato, basate come sappiamo sull’incontro fra carnefici vittime del sistema e forestieri esponenti di un’America benestante e prepotente. Ma soprattutto, il territorio americano sembra essere sempre meno importante, tanto da essere relegato a mero paesaggio. L’agorafobia degli spazi desertici o desolatamente rurali in pieno giorno, ha lasciato spesso spazio a un ritorno all’ambientazione notturna e – quando si rimane outdoor – quasi sempre boschiva, per recuperare così un senso di impedimento e di claustrofobia. La necessità di spaventare prevale dunque su quella di raccontare qualcosa del mondo rappresentato. La wrong turn, insomma, non è più un viatico per parlare dell’America, ma una coordinata puramente cinematografica, il che la riconcilia con le sue origini hitchcockiane. E il suo armamentario iconografico, spesso peraltro rispettato fedelmente, è ridotto a sfondo suggestivo. Una conferma indiretta di quest’ultimo aspetto arriva dal fatto che la formula, al contrario di quanto accaduto in passato, negli ultimi anni è stata ampiamente esportata. Film come il neozelandese The Locals (Greg Page, 2003), l’australiano Lost Things (Martin Murphy, 2003), i britannici Wilderness (Michael J. Bassett, 2006), e Shrooms – Trip senza ritorno (Shrooms, Paddy Breathnach, 2007), pur con qualche deroga narrativa qua e là, dimostrano come il modello, una volta depurato da significati reconditi, sia perfettamente riconoscibile anche all’interno di un’ambientazione non americana. Oppure, sempre in ossequio alla sensibilità postmoderna e alle sue alchimie, possa essere ibridato con elementi sovrannaturali o fantascientifici, analogamente peraltro a quanto avvenuto al tramonto dell’epoca d’oro, come in Disappearance (Walter Klenhard, 2002), Dead End (Jean-Baptiste Andrea e Fabrice Canepa, 2003) o Identità (Identity, James Mangold, 2003). 133
Eppure, in anni in cui in America si è comprensibilmente diffusa – ma è stata anche largamente fomentata – la paura del diverso, e l’idea di una fantomatica guerra fra civiltà, un qualche significato capace di travalicare il dato strettamente cinematografico si può rintracciare in quello che si può definire il versante esterofobo del sottogenere, che nasce quando un gruppo di americani si perde in un paese straniero. In Turistas (John Stockwell, 2006), a causa di un incidente all’autobus sul quale stavano viaggiando, ragazzi appena arrivati in Brasile sono costretti a fermarsi su una spiaggia dove verranno derubati e drogati. Poco dopo si ritroveranno rapiti da trafficanti d’organi umani. Nel folle Wrestlemaniac (El Mascarado Massacre, Jesse Baget, 2006) un altro gruppo di giovani si ritrova suo malgrado in una città fantasma messicana, dove molti anni prima era stato tenuto prigioniero un wrestler pazzo pronto a risorgere grazie alle gesta di un emulo. E sempre in Messico si svolge Borderland – Linea di confine (Borderland, Zev Berman, 2007), in cui si racconta la lotta per la sopravvivenza di tre ragazzi che erano andati ingenuamente in cerca di avventure. Non a caso, poi, con And Soon the Darkness (Marcos Efron, 2010) ha trovato posto anche il remake di Il mostro della strada di campagna, ossia il film che, come abbiamo visto, aveva non solo esportato per primo la wrong turn, ma vi aveva anche introdotto la variante esterofoba, senza essere peraltro imitato nell’immediato. Stavolta, però, significativamente, la produzione e i protagonisti sono americani, e a fare le spese di questa rappresentazione impietosa di arretratezza non è più la Francia, ma l’Argentina, più vicina soltanto dal punto di vista strettamente geografico. Anche qui, tuttavia, è capitato che un sottogenere che poteva nascondere significati più profondi è stato eclissato dal successo di un altro per molti versi contiguo ma dalle dinamiche più semplici, meccaniche e grossolane. Stavolta la diramazione è rappresentata da quello che non a caso può essere considerato l’erede dello slasher movie, in virtù dell’attenzione posta sadicamente sugli eventi omicidiari e sulla loro reiterazione ossessiva, ossia il torture movie consacrato ufficialmente da Hostel (Eli Roth, 2005) dopo dimenticabili prodromi. Anche qui abbiamo spesso americani che si smarriscono in un paese straniero, ma l’ambientazione perde presto importanza a favore di una rappresentazione parapornografica dell’atto violento. A dispetto delle apparenze, insomma, per la wrong turn i tempi duri proseguono. Non si intravede d’altronde all’orizzonte un giovane regista inten134
zionato sul serio a vestire i panni dell’iconoclasta e a fare breccia in un contesto cinematografico che appare alquanto conformista per imbastire un nuovo discorso di autocritica nazionale. È anche vero, però, che ogni film, come ogni opera, può travalicare le intenzioni del suo stesso autore e si porta dietro almeno un barlume dei film che l’hanno preceduto. Chi dunque sa da dove è partita e ha imparato la sua storia, sarà sempre in grado di riconoscere, dietro un fregio gotico, o un vessillo sbiadito, la strada secondaria che ha sollevato il sipario sull’America selvaggia.
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Filmografia principale
A BRUCIAPELO (The Sadist, 1963). Regia: James Landis. Sceneggiatura: James Landis. Fotografia (b/n): Vilmos Zsigmond. Montaggio: Anthony M. Lanza. Scenografia: Mark Von Berblinger. Interpreti: Arch Hall jr. (Charlie), Marilyn Manning (Judy), Helen Hovey (Doris), Richard Alden (Ed), Don Russell (Carl). Produzione: Fairway International. DERANGED (1974). Regia: Jeff Gillen, Alan Ormsby. Sceneggiatura: Alan Ormsby. Fotografia (col): Jack McGowan. Montaggio: Jeff Gillen, Alan Ormsby. Scenografia: Albert Fisher. Interpreti: Roberts Blossom (Ezra Cobb), Cosette Lee (mamma Cobb). Produzione: Karr International Pictures/AIP. DOVE LA TERRA SCOTTA (Man of the West, 1958). Regia: Anthony Mann. Sceneggiatura: Reginald Rose. Fotografia (col): Ernest Haller. Montaggio: Richard V. Heermance. Scenografia: Hilyard M. Brown, Edward G. Boyle. Interpreti: Gary Cooper (Link Jones), Lee J. Cobb (lo zio), Julie London (la cantante), Arthur O’Connell (il giocatore), Jack Lord, Royal Dano, John Dehner, Robert J. Wilke (i cugini). Produzione: Ashton Productions/United Artists. EASY RIDER (1969). Regia: Dennis Hopper. Sceneggiatura: Dennis Hopper, Peter Fonda, Terry Southern. Fotografia (col): Laszlo Kovacs. Montaggio: Donn Cambern. Scenografia: Robert O’Neil. Interpreti: Peter Fonda (Wyatt), Dennis Hopper (Billy). Produzione: Peter Fonda/Pando Company/Raybert Productions. FASTER, PUSSYCAT! KILL!KILL! (1965). Regia: Russ Meyer. Sceneggiatura: Russ Meyer, Jack Moran. Fotografia (b/n): Russ Meyer. Montaggio: Russ Meyer. Interpreti: Tura Satana, Haji, Lori Williams (le spogliarelliste), Susan Bernard, Ray Barlow (le vittime), Stuart Lancaster (il vecchio), Paul Trinka (il primogenito), Dennis Busch (il secondogenito). Produzione: Russ Meyer/Eve Productions Inc. 137
GIORNO MALEDETTO (Bad Day at Black Rock, 1955). Regia: John Sturges. Sceneggiatura: Don McGuire, Millard Kaufman. Fotografia (col): William C. Mellor. Montaggio: Newell P. Kinlin. Scenografia: Millard Kaufman. Interpreti: Spencer Tracy (lo straniero), Robert Ryan, Ernest Borgnine, Lee Marvin, Walter Brennan (gli autoctoni). Produzione: Metro Goldwyn Meyer. GRISSOM GANG – NIENTE ORCHIDEE PER MISS BLANDISH (The Grissom Gang, 1971). Regia: Robert Aldrich. Sceneggiatura: Leon Griffiths. Fotografia (col): Joseph F. Biroc. Montaggio: Michael Luciano, Frank J. Urioste. Scenografia: James Dowell Vance. Interpreti: Kim Darby (la ragazza rapita), Wesley Addy (l’industriale), Irene Dailey (mamma Grissom), Don Keefer (papà Grissom), Scott Wilson (il figlio). Produzione: Robert Aldrich/ABC Pictures. HORROR PUPPET (Tourist Trap, 1979). Regia: David Schmoeller. Sceneggiatura: David Schmoeller, J. Larry Carroll. Fotografia (col): Nicholas von Sternberg. Montaggio: Ted Nicolaou. Scenografia: Robert A. Burns. Interpreti: Jocelyn Jones, Jon Van Ness, Robin Sherwood, Tanya Roberts, Dawn Jeffory, Keith McDermott, Shailar Coby (gli amici), Chuck Connors (Slausen). Produzione: Irwin Yablans/Compass International-Manson International Release/Charles Band Productions/J. Larry Carroll. IL CASTELLO MALEDETTO (The Old Dark House, 1932). Regia: James Whale. Sceneggiatura: Benn W. Levy. Fotografia (b/n): Arthur Edeson. Montaggio: Andrew Cohen. Scenografia: Charles D. Hall. Interpreti: Ernest Thesiger (il padrone di casa), Eva Moore (la padrona di casa), Boris Karloff (il maggiordomo), Elspeth Dudgeon (il patriarca), Brember Wills (il nipote), Melvyn Douglas, Charles Laughton, Gloria Stuart, Raymond Massey, Lillian Bond (gli avventori). Produzione: Universal. IL CLAN DEI BARKER (Bloody Mama, 1970). Regia: Roger Corman. Sceneggiatura: Robert Thorn. Fotografia (col): John A. Alonzo. Montaggio: Eve Newman. Scenografia: Michael Ross. Interpreti: Shelley Winters (mamma Barker), Don Stroud, Robert De Niro, Bruce Dern, Robert Walden (i figli). Produzione: Roger Corman/AIP. I GUERRIRERI DELLA PALUDE SILENZIOSA (Southern Comfort, 1981). Regia: Walter Hill. Sceneggiatura: Michael Kane, Walter Hill, David Giler. Fotografia (col): Andrew Laszlo. Montaggio: Freeman A. Davies. Scenografia: Robert Gould. Interpreti: Peter Coyote (il sergente), Keith Carradine, Powers Boothe, Fred Ward, Franklyn Seales, T.K. Carter, Lewis Smith, Les Lannom, Alan Autry (il plotone), Greg Guirard, Brion James, Sonny Landham, Allan Graf, Ned Dowd, Rob Ryder (I cajun). Produzione: David Giler/Phoenix Film. 138
IL MOSTRO DELLA STRADA DI CAMPAGNA (And Soon the Darkness, Gb, 1970). Regia: Robert Fuest. Sceneggiatura: Brian Clemens, Terry Nation. Fotografia (col): Ian Wilson. Montaggio: Ann Chegwidden. Scenografia: Philip Harrison. Interpreti: Pamela Franklin, Michele Dotrice (le turiste). Produzione: Brian-Clemens/Associated British Productions. IL TUNNEL DELL’ORRORE (The Funhouse, 1981). Regia: Tobe Hooper. Sceneggiatura: Lawrence Block. Fotografia (col): Andrew Laszlo. Montaggio: Jack Hofstra. Scenografia: Mort Rabinowitz, Jose Duarte, Tom Coll. Interpreti: Jeanne Austin, Jack McDermott (i genitori), Elizabeth Berridge, Cooper Huckabee, Largo Woodruff, Miles Chapin (gli amici), Shawn Carson (il fratellino), Kevin Conway (il proprietario del tunnel), Wayne Doba (il mostro), Sylvia Miles (la cartomante). Produzione: Mace NeufeldDerek Power/Universal. I SELVAGGI (The Wild Angels, 1966). Regia: Roger Corman. Sceneggiatura: Peter Bogdanovich, Charles B. Griffith. Fotografia (col): Richard Moore, Peter Bogdanovich. Montaggio: Monte Hellman, Peter Bogdanovich. Scenografia: Richard Beck-Meyer, Leon Ericksen. Interpreti: Peter Fonda, Nancy Sinatra, Bruce Dern, Diane Ladd (i motociclisti). Produzione: Roger Corman/AIP. IN CORSA CON IL DIAVOLO (Race with the Devil, 1975). Regia: Jack Starrett. Sceneggiatura: Lee Frost, Wes Bishop. Fotografia (col): Robert C. Jessup. Montaggio: John F. Link. Interpreti: Peter Fonda, Warren Oates (i mariti), Lara Parker, Loretta Swit (le mogli), R.G. Armstrong (lo sceriffo). Produzione: SaberMaslansky Productions/Twentieth Century Fox. LA MORTE CORRE INCONTRO A JESSICA (Let’s Scare Jessica to Death, 1971). Regia: John D. Hancock. Sceneggiatura: John D. Hancock. Fotografia (col): Robert M. Baldwin. Montaggio: Murray Solomon. Scenografia: Norman Kenneson. Interpreti: Zohra Lampert (Jessica), Barton Heyman (il marito), Mariclare Costello (l’amica vampiro). Produzione: Charles B. Moss jr. LA NOTTE BRAVA DEL SOLDATO JONATHAN (The Beguiled, 1971). Regia: Don Siegel. Sceneggiatura: John B. Sherry, Grimes Grice. Fotografia (col): Bruce Surtees. Montaggio: Carl Pingitore. Scenografia: Ted Haworth. Interpreti: Clint Eastwood (Jonathan McBurney), Geraldine Page (la direttrice dell’albergo), Elizabeth Hartman, Jo Ann Harris, Darleen Carr, Pamelyn Ferdin, Melody Thomas (le allieve). Produzione: Malpaso/Universal.
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LE COLLINE HANNO GLI OCCHI (The Hills Have Eyes, 1977) Regia: Wes Craven. Sceneggiatura: Wes Craven. Fotografia (col): Eric Saarinen. Montaggio: Wes Craven. Scenografia: Robert A. Burns. Interpreti: Russ Grieve (Bob), Virginia Vincent (Ethel), Susan Lanier (Brenda), Dee Wallace (Lynn), Martin Speer (Doug), Robert Houston (Bobby), Peter Locke (il padre selvaggio), Cordy Clark (la madre selvaggia), Michael Berryman, James Whitworth (i figli selvaggi), Janus Blythe (Ruby), John Steadman (Fred). Produzione: Peter Locke/Vanguard Release. LORNA (1964). Regia: Russ Meyer. Sceneggiatura: Russ Meyer, James Griffith. Fotografia (b/n): Russ Meyer. Montaggio: Russ Meyer. Interpreti: Lorna Maitland (Lorna), James Rucker (Jim), Mark Bradley (l’evaso), Hal Hopper, Doc Scortt (i colleghi di Jim). Produzione: Russ Meyer/Eve Productions Inc. MOTEL HELL (1980). Regia: Kevin Connor. Sceneggiatura: Robert Jaffe, StevenCharles Jaffe. Fotografia (col): Thomas Del Ruth. Montaggio: Bernard Gribble. Scenografia: Joseph M. Altadonna, W. Joe Kroesser. Interpreti: Rory Calhoun, Nancy Parsons (i proprietari del motel), Paul Linke (il poliziotto), Nina Axelrod, Monique St. Pierre, Rosanne Katon, Michael Melvin (le vittime). Produzione: Camp Hill Productions/United Artists. MOTORPSYCHO! (1965). Regia: Russ Meyer. Sceneggiatura: Russ Meyer, James Griffith, Hal Hopper. Fotografia (b/n): Russ Meyer. Montaggio: Russ Meyer, Charles G. Schelling. Interpreti: Stephen Oliver, Thomas Scott, Joseph Cellini (i motociclisti), Steve Masters, Arshalouis Aivazian, Haji (le vittime). Produzione: Russ Meyer/Eve Productions Inc. NIGHTMARE – DAL PROFONDO DELLA NOTTE (Nightmare on Elm Street, 1984). Regia: Wes Craven. Sceneggiatura: Wes Craven. Fotografia (col): Jacques Haitkin. Montaggio: Rick Shaine. Scenografia: Greg Fonseca. Interpreti: Robert Englund (Freddy Krueger), Heather Langenkamp, Amanda Wyss, Johnny Depp, Nick Corri (gli adolescenti), John Saxon, Ronee Blakley (i genitori). Produzione: New Line. NON APRITE QUELLA PORTA (The Texas Chainsaw Massacre, 1974). Regia: Tobe Hooper. Sceneggiatura: Kim Henkel, Tobe Hooper. Fotografia (col): Daniel Pearl. Montaggio: Larry Carroll, Sallye Richardson. Scenografia: Robert A. Burns. Interpreti: Marilyn Burns (Sally), Paul A. Partain (Franklin), Allen Danziger (Jerry), William Vail (Kirk), Teri McMinn (Pam), Jim Siedow (il benzinaio), Edwin Neal (l’autostoppista), Gunnar Hansen (Leatherface), John Dugan (il nonno). Produzione: Vortex-Henkel-Hooper Productions. 140
PSYCO (Psycho, 1960). Regia: Alfred Hitchcock. Sceneggiatura: Joseph Stefano. Fotografia (b/n): John L. Russell. Montaggio: George Tomasini. Scenografia: Robert Clatworthy, Joseph Hurley, George Milo. Interpreti: Janet Leigh (Marion Crane), Anthony Perkins (Norman Bates), Vera Miles (Lila), John Gavin (Sam), Martin Balsam (Milton Arbogast). Produzione: Paramount. SFIDA NELL’ALTRA SERRA (Riding the High Sierra, 1962). Regia: Sam Peckinpah. Sceneggiatura: N.B. Stone jr. Fotografia (col): Lucien Ballard. Montaggio: Frank Santillo. Scenografia: Leroy Coleman, George W. Davis, Henry Grace, Otto Siegel. Interpreti: Joel McCrea (Steve Judd), Randolph Scott (Gil Westrum), Ron Starr (amico di Gil), R.G. Armstrong (il contadino), Mariette Hartley (la figlia del contadino), James Drury (lo sposo), Warren Oates, L.Q. Jones, John Anderson, John Davis Chandler (i fratelli dello sposo). Produzione: Metro Goldwyn Meyer. SPIDER BABY (1964-1968). Regia: Jack Hill. Sceneggiatura: Jack Hill. Fotografia (b/n): Albert Taylor. Montaggio: Jack Hill. Scenografia: Ray Storey. Interpreti: Beverly Washburn (Elizabeth), Jill Banner (Virginia), Lon Chaney jr. (Bruno), Sid Haig (Ralph), Carol Ohmart (zia Emily), Quinn K. Redeker (zio Peter), Mary Mitchell (Ann), Karl Schanzer (l’avvocato), Mantan Moreland (il postino). Produzione: Lasky/Monka. THREE ON A MEATHOOK (1973) Regia: William Girdler. Sceneggiatura: William Girdler. Fotografia (col): William L. Asman. Montaggio: Henry Asman. Scenografia: Barbara Peter. Interpreti: James Carroll Pickett (il figlio), Charles Kissinger (il padre), Sherry Steiner, Madelyn Buzzard, Linda Thompson (le vittime). Produzione: AsmanJones/United Film Corporation TWO THOUSAND MANIACS! (1964). Regia: Herschell Gordon Lewis. Sceneggiatura: Herschell Gordon Lewis. Fotografia (col): Herschell Gordon Lewis. Montaggio: Robert L. Sinise. Scenografia: Lorin D. Hall. Interpreti: Connie Mason, William Kerwin, Shelby Livingston (gli avventori), Ben Moore, Gary Bakeman, Mark Douglas, Linda Cochran, Yvonne Gilbert (gli autoctoni), Jeffrey Allen (sindaco). Produzione: Friedman-Lewis Productions/Jacqueline Kay Inc. UN GIORNO DI TERRORE (Lady in a Cage, 1964). Regia: Walter Grauman. Sceneggiatura: Luther Davis. Fotografia (b/n): Lee Garmes. Montaggio: Leon Barsha. Scenografia: Rudolph Sternad, Hal Pereira. Interpreti: Olivia de Havilland (Cornelia Hylard), William Swan (il figlio), James Caan (Randall), Jennifer Billingsley (Elaine), Rafael Campos (Essie), Jeff Corey (il barbone), Ann Sothern 141
(la prostituta), Scatman Crothers, Ron Nyman, Charles Seel (robivecchi). Produzione: Luther DAvies Productions/Paramount. UN TRANQUILLO WEEKEND DI PAURA (Deliverance, 1972). Regia: John Boorman. Sceneggiatura: James Dickey. Fotografia (col): Vilmos Zsigmond. Montaggio: Tom Priestley. Scenografia: Fred Harpman. Interpreti: Burt Reynolds (Lewis), Jon Voight (Ed), Ned Beatty (Bobby), Ronny Cox (Drew), Ed Ramey, Seamon Glass, Randall Deal, Bill McKinney (gli autoctoni), James Dickey (lo sceriffo). Produzione: Warner Bros. VIALE DEL TRAMONTO (Sunset Boulevard, 1950). Regia: Billy Wilder. Sceneggiatura: Billy Wilder, Charles Brackett. Fotografia (b/n): John F. Seltz. Montaggio: Arthur P. Schmidt. Scenografia: Hans Dreier, John Meehan, Sam Comer, Ray Moyer. Interpreti: William Holden (Joe Gillis), Gloria Swanson (Norma Desmond), Erich von Stroheim (il maggiordomo), Nancy Olson. Produzione: Paramount. WITHOUT WARNING (1980). Regia: Greydon Clark. Sceneggiatura: Lyn Freeman, Daniel Grodnik, Ben Nett, Steve Mathis. Fotografia (col): Dean Cundey. Montaggio: Curtis Burch. Scenografia: Jack De Wolf. Interpreti: Jak Palance, Martin Landau, Bert Davis (gli autoctoni), Tarah Nutter, Cristopher S. Nelson, Neville Brand, Sue Ane Langdon, Lynn Theel, David Caruso (gli avventori), Kevin Peter Hall (l’alieno). Produzione: Greydon Clark/Heritage.
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