Wes Anderson. Moonrise cinema 9788867971824, 8867971824

Wes Anderson è uno dei più importanti e celebrati cineasti degli ultimi vent’anni (I Tenenbaum, Il treno per il Darjeeli

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Italian Pages 182 [154] Year 2014

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Wes Anderson. Moonrise cinema
 9788867971824, 8867971824

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© goWare Maggio 2014, prima edizione digitale ISBN 978-88-6797-182-4 Redazione: Stefano Cipriani Copertina: Lorenzo Puliti Sviluppo ePub: Elisa Baglioni goWare è una startup fiorentina specializzata in digital publishing Fateci avere i vostri commenti a: [email protected]. Blogger e giornalisti possono richiedere una copia saggio a Maria Ranieri: [email protected]. Made in Florence on a Mac. L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti dei brani riprodotti nel presente volume.

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Web Magazine – Scuola di Cinema – Eventi – Produzioni audiovisive – Creative Service – Magazine mensile – Editoria – e-book Direttore responsabile: Federico Chiacchiari Direttore editoriale: Carlo Valeri Per contatti: Via Carlo Botta 19, 00184 Roma tel/fax (+39)-06.96049768 [email protected] www.sentieriselvaggi.it

Indice Copertina Frontespizio Colophon Presentazione L’autore PARTE PRIMA – Il mondo IL MONDO HA BISOGNO DI SOGNATORI - Un’introduzione L’ETERNA EVOCAZIONE DI UN ROMANZO FAMILIARE - I riferimenti letterari nel cinema di Wes Anderson THE LOOK OF LOVE - Moda e stile nell’universo Wes Anderson RADIO WES ANDERSON - Cosa fare delle macerie ROYAL O’REILLY TENENBAUM 1932-2001 - Morto tragicamente mentre salvava la sua famiglia dal naufragio di una nave da guerra distrutta che stava affondando

PARTE SECONDA – Le idee FULL FRONTAL TANA DELLE VOLPI LA MORTE, LA FUGA, L’AMORE - Le regole nel cinema, l’evasione dei sentimenti

PARTE TERZA – I film Un colpo da dilettanti – Bottle Rocket Rushmore I Tenenbaum Le avventure acquatiche di Steve Zissou Il treno per il Darjeeling Fantastic Mr. Fox Moonrise Kingdom The Grand Budapest Hotel

BIOGRAFIA FILMOGRAFIA BIBLIOGRAFIA Fotogallery

Edizioni Sentieri selvaggi Il manifesto di goWare goWare team goWare cinema – Sentieri Selvaggi

Presentazione

Wes Anderson è uno dei più importanti e celebrati cineasti degli ultimi vent’anni (I Tenenbaum, Il treno per il

Darjeeling, Moonrise Kingdom, The Grand Budapest Hotel). Dal 1996, anno del suo esordio nel lungometraggio con Bootle Rocket – Un colpo da dilettanti, il giovane autore texano è riuscito a erigere un “suo” mondo immaginario governato da personalissime regole: i personaggi fragili, fumettistici e infantili che assurgono a caratteri universali; la coalescenza di epoche storiche evocate nella curatissima scenografia; la sovraccarica colonna sonora infarcita da una miriade di canzoni pop; la dichiarata tensione demiurgica verso l’amata letteratura; infine la composizione dell’inquadratura che bilancia ossessivamente il rapporto tra lo spazio scenico e i suoi attori (una sorta di famiglia cinematografica: Bill Murray, i fratelli Wilson, Jason Schwartzman ecc). Insomma: un vero e proprio universo parallelo che fagocita innumerevoli riferimenti culturali novecenteschi partorendo, paradossalmente, un’originale e riconoscibile messa in scena. La sotterranea evasione da queste regole, però, fa esplodere costantemente una struggente dimensione sentimentale… Gli autori di questo libro sono partiti proprio da tali consapevolezze, aprendosi alle più varie suggestioni (il cinema, la moda, la musica, la letteratura, la filosofia ecc.) per offrire al lettore una fertile riflessione critica sugli interessantissimi aspetti del fare-cinema à la Wes Anderson.

L’autore

Pietro Masciullo si è laureato in Metodologie di analisi del film presso l’Università La Sapienza di Roma. È caporedattore della rivista online Sentieriselvaggi.it e collaboratore per diverse riviste di cinema. Dottorando in Musica e spettacolo presso l’Università La Sapienza, è coautore dei volumi Shooting From Heaven –

Trauma e soggettività nel cinema americano: dalla seconda guerra mondiale al post 11 settembre (Bulzoni, 2012) e Il Passato nel cinema contemporaneo (Bulzoni, 2013). È docente dei corsi “Storie del cinema”, “Linguaggi” e “Scritture” di Unicinema, presso la Scuola di cinema Sentieri selvaggi.

IL MONDO HA BISOGNO DI SOGNATORI Un’introduzione

di Pietro Masciullo Il mondo ha bisogno di sognatori. James Caan in Bootle Rocket (1996)

Spero che il tetto voli via e che io venga risucchiato nello spazio. Staresti meglio senza di me. Bill Murray in Moonrise Kingdom (2012) Immagine

Il cinema di Wes Anderson è veramente tutto qui. Plateale e insicuro. Un metronomo (apparentemente) perfetto che segna la fragile e bipolare oscillazione tra le sfumate regole del “sogno” e l’infantile senso di “vuoto” cosmico che improvvisamente ci risucchia. L’umanissimo vuoto che si nasconde dietro ogni regola. Ecco, nell’arco di otto film il giovane cineasta texano è riuscito a erigere un “suo” mondo immaginario governato da precise regole autoimposte, personalissime, forse inutili: i personaggi fragili, ironici e depressi che assurgono ben presto a caratteri universali con ascendenze fumettistiche tipiche della prima adolescenza (il figlio, il padre, la donna amata, lo straniero ecc.); la narrazione frammentata che procede per schegge di motivi classici mutuati dalla

morfologia della fiaba o dal viaggio dell’eroe (le soglie della crescita, gli ostacoli, il superamento contrassegnato dal dolore, i mentori ecc.); la coalescenza di epoche storiche evocate nelle scenografie, nei costumi e negli oggetti di scena curati al dettaglio (come messo in evidenza nel saggio di Fabiana Proietti); la sovraccarica colonna sonora e le canzoni pop istitutrici del tempo diegetico (analizzate qui da Margherita Palazzo); la dichiarata tensione demiurgica verso il “racconto”, l’amata letteratura (le cui ascendenze sono indagate qui da Sara Orazi); la composizione dell’inquadratura che bilancia ossessivamente il rapporto tra spazio e corpi in scena (la “frontalità” messa in evidenza da Sergio Sozzo); infine una famiglia cinematografica abituale e rassicurante con cui lavorare (il rapporto con i suoi amati attori, illustrato nel saggio di Emanuele Di Porto: Bill Murray, i fratelli Wilson, Jason Schwartzman ecc.). Insomma: un universo parallelo (quella perfetta trappola, “tana delle volpi”, analizzata da Aldo Spiniello) che fagocita innumerevoli riferimenti culturali novecenteschi partorendo, paradossalmente, una stilizzata messa in scena che ne esalta l’originalità della superficie. Tutto è rigorosamente “in campo” in quest’universo (di)segnato da movimenti di macchina geometrici – carrellate laterali, panoramiche a schiaffo, grandangoli – che culminano spesso nei due “falsi movimenti” per eccellenza: lo zoom e il rallenti. Da qui la critica principale dei suoi detrattori: Wes

Anderson blocca il movimento delle sue inquadrature e il tempo del suo cinema, imponendo una personale mitopoiesi che presuppone noi spettatori come passivi fruitori di un immaginario preconfezionato e asettico. È veramente così chiuso il suo discorso? Immagine

Partiamo da qui. Sicuri che dopo otto film si possa tentare una riflessione più consapevole e scevra dal sospetto che sino a pochi anni fa lo accompagnava: “il giovane cineasta ancora da decifrare”. E allora, piaccia o meno, c’è una cosa che nel 2014 si può dire ormai con certezza (soprattutto dopo il centrale e magnifico Moonrise Kingdom): Wes Anderson non ci fa, ci è. Non è il furbetto del quartiere che scala i grandi moloch culturali del passato solo per il gusto di esserci, di contare, di guardarsi allo specchio della Storia-del-Cinema per riconoscersi al tavolo dei Padri. Perché ripeto, piaccia o meno, il suo cinema ha qualcosa da dire molto oltre la spudorata superficialità delle composizioni, un qualcosa di intimamente connesso con il mondo che noi oggi esperiamo e con la riproducibilità bioestetica delle immagini che costantemente guardiamo. Un mondo al quale Wes oppone ancora la costruzione di famiglie allargate (da Rushmore a I Tenenbaum) o fugaci rapporti

umani (da Bootle Rocket a Le avventure acquatiche di Steve Zissou), di romantici scintillii (Fantastic Mr. Fox) o improvvise sopravvivenze (l’atto filmico estremo e necessario di The Grand Budapest Hotel). Esattamente come i piccoli Sam e Suzy in Moonrise Kingdom che si amano al primo sguardo, si ri-conoscono, senza nemmeno un’esitazione. Il quarantacinquenne Wes Anderson, poi, fa parte di quella generazione di cineasti che vive da almeno un decennio sulla propria pelle la tanto chiacchierata “minorità” del cinema: riduzione degli spettatori in sala, morte della pellicola, rivoluzioni copernicane in campo di produzione e fruizione dei testi a opera del megamedium computer ecc. Che cosa rimane, nel 2014, dell’autorialità novecentesca, del concetto di sguardo personale sul mondo, di

punto di vista attaccabile o difendibile? Wes, straordinariamente, resiste: questo è un cinema che crea ancora passioni e spaccature tangibili (nella stessa redazione di “Sentieri selvaggi” che ha partorito questo libro), perché ha ancora il coraggio di un forte punto di vista etico ed estetico sul mondo. E allora: che lo si percepisca come un grande cineasta o come un furbo ladro di immagini, che si riesca o meno ad andare oltre la sua indubbia ossessione per la composizione blindata, insomma che ci si ritrovi appassionatamente

dentro o ostinatamente fuori il suo moonrise cinema… non si potrà comunque ignorare l’importanza capitale di Wes Anderson nel panorama internazionale odierno. È solo da tale consapevolezza che gli autori di questo libro sono partiti. Un testo che nasce come ostinato tentativo di offrire al lettore del 2014 una fertile riflessione critica su vari e centrali aspetti del fare-cinema à la Wes Anderson, per arrivare solo successivamente ad approcciare i singoli film.

«The world needs dreamers», dice il vecchio ladro James Caan. E allora non ci resta veramente altro che ascoltarlo e rimanere sognatori da svegli, lucciole nel buio, perennemente in prima fila come i dreamers bertolucciani, tentando ancora di leggere il mondo con occhi sempre nuovi. Su carta o su pixel, poco cambia, non credete? Il cinema, del resto, (soprav)vive solo per questo: buona lettura. Immagine

       

PARTE PRIMA Il mondo

L’ETERNA EVOCAZIONE DI UN ROMANZO FAMILIARE I riferimenti letterari nel cinema di Wes Anderson

di Sara Orazi Il film potrebbe benissimo diventare un libro. Proprio come quelli che ha la protagonista nella sua valigia. Wes Anderson a proposito di Moonrise Kingdom

Se c’è un autore per cui una simile affermazione può suonare immediatamente autentica, senza correre il rischio di essere fraintesa per una distratta boutade provocatoria, questo è senz’altro Wes Anderson. Moonrise Kingdom – come anche l’ultimo The Grand Budapest

Hotel – sintetizza l’ennesima, nuova, messa in scena di un microcosmo stilizzato e racchiuso nella cornice di un’illustrazione, vivo e pulsante nella sua esibita finzione, vero proprio come si possano immaginare vere, da bambini, le storie dei libri per ragazzi. La ricchezza del background letterario di Anderson è pari soltanto al suo culto per l’oggettolibro, cui il regista di Houston è capace di dedicare la stessa cura maniacale riservata ai protagonisti in carne e ossa delle sue opere. Perché protagonisti a tutti gli effetti sono i sei romanzi che Suzy legge durante il film: non letture qualunque per ragazzi, ma opere inventate, dai nomi meravigliosi, decorate da copertine pensate e illustrate da sei artisti diversi. Opere a cui deve essere parso assolutamente naturale, a un certo punto, dare vita attraverso brevi sequenze di animazione, poi raccolte in un unico cortometraggio: quasi fosse uno spin off, come quelli che, appunto, si realizzano partendo da un personaggio speciale. Immagine

Il libro, per chiunque viva la lettura come una passione autentica, e non come semplice passatempo, diviene facilmente l’oggetto di un transfert affettivo, e per estensione lo divengono spesso i luoghi in cui il libro è protagonista: le stanze affollate di volumi, le librerie, le biblioteche. Come scrive Pennac, la compagnia di un libro è qualcosa che nessuna compagnia umana riesce a sostituire. Leggere a qualcuno un testo che si ama particolarmente, come fa la giovane protagonista di Moonrise Kingdom con il suo innamorato, assume il significato del dono di una parte di sé: è facile ipotizzare come Suzy non abbia mai compiuto lo stesso gesto nei confronti di nessun altro, tanto meno dei membri della sua famiglia. Un valore particolare ha il libro che Max, il brillante studente di

Rushmore, prende in prestito alla biblioteca della scuola, su cui trova un’annotazione scritta, come scoprirà, dalla giovane insegnante di cui è innamorato. Ed è una biblioteca l’isola deserta verso cui, da bambini, fuggono Margot e Richie Tenenbaum, alcova infantile e insieme surrogato di un calore domestico che latita tra le pareti di casa.

In un autore come Anderson, per il quale la letteratura ha avuto, in tutta evidenza, carattere fondante della sua personalità di uomo e di artista, la reminescenza letteraria diventa spesso il canale privilegiato della rievocazione del vissuto. È quanto avviene, esplicitamente, in Moonrise Kingdom, dove la volontà, che è alla base del film, di ricreare un’emozione specifica, quella del primo amore quale sentimento primigenio, tensione verso qualcosa di assoluto e totalizzante, passa attraverso il richiamo alle atmosfere dei romanzi d’avventura per l’infanzia, in cui il percorso di crescita è quasi sempre identificato con il viaggio verso una meta più simbolica che reale; come avviene nella saga fantasy Il

risveglio delle tenebre di Susan Cooper, cui Anderson ha fatto riferimento, dove un gruppo di ragazzi, durante una vacanza in Cornovaglia, scopre una mappa che conduce al nascondiglio segreto del Sacro Graal: non importa – ci dice Anderson – quello in cui da bambini si decide di credere; qualunque cosa sia, c’è il desiderio di credervi disperatamente, e quel desiderio può superare e travolgere tutto il resto. La storia d’amore tra Suzy e Sam assume forme pure e primitive, scuote, nell’incontro tra due diversità che si riconoscono, il piccolo universo che tenta di incasellarli, scatenando una tempesta emotiva – e non solo – che investe tutta l’isola. La loro fuga da un (altro) ordinario inferno familiare è in direzione di mete avvolte nel mito (il regno della luna nascente) che sono luoghi dell’anima, in cui la scoperta di sé e dell’altro avviene nel contorno di un’avventura fiabesca. Immagine

Wes Anderson si è dimostrato uno dei più originali innovatori del cinema americano, un creatore di mondi imperfetti popolati da personaggi affetti da un male di vivere percepito e descritto in modi non dissimili da molta narrativa americana contemporanea. Certamente attraverso lo sguardo ironico e cupo di Jonathan Franzen e le sue famiglie infelici mai scevre di un contesto culturale e un retroscena fittissimi, narrati con un’attenzione speciale a ogni aspetto ambientale e linguistico; o nei microcosmi di Dave Eggers e nel suo gusto maniacale per il dettaglio; o ancora nell’approccio di David Foster Wallace alla smania competitiva e tipicamente americana del talento e dei meccanismi autodistruttivi che innesca. Ma il nucleo profondo dell’opera di Anderson rimane, soprattutto, filiazione diretta della letteratura di J.D. Salinger e dei suoi universi. Non stupisce che all’incontro con l’opera del grande autore americano Anderson attribuisca un valore quasi salvifico, come dimostra la dichiarazione rilasciata alla rivista New Yorker subito dopo la sua morte, in cui cita un passaggio di un racconto di F. Scott Fitzgerald, The Freshest Boy, spiegando come quelle parole, meglio di qualunque altra cosa, riescano a esprimere il significato profondo di quell’incontro: He had contributed to the events by which another boy was saved from the army of the bitter,

the selfish, the neurasthenic and the unhappy. It isn’t given to us to know those rare moments when people are wide open and the lightest touch can wither or heal. A moment too late and we can never reach them any more in this world. They will not be cured by our most efficacious drugs or slain with our sharpest swords.

Immagine

C’è nella scrittura di Salinger come nel cinema di Anderson una sorta di lieve, disinvolta immediatezza, da cui però inaspettatamente traspare, in modo sottile ma pienamente percettibile, un senso indefinito di inquietudine, di dissimulato malessere, se non di vera e propria disperazione, che emerge sulla superficie quieta e indifferente delle cose. Il senso del distacco e della perdita appartiene all’immaginario di entrambi, come la precarietà delle relazioni familiari, profonde ma fragilissime, dove il conflitto generazionale vede spesso adulti infantilizzati emotivamente incapaci di sostenere il proprio ruolo (a cominciare dalle responsabilità genitoriali) confrontarsi con adolescenti che assumono comportamenti tipici degli adulti per far fronte al proprio disagio. Anthony Adams, Max Fischer e Holden Caulfield vivono tutti la medesima empasse esistenziale: se l’improvvisato rapinatore di Un colpo da dilettanti confessa con rimpianto alla sorellina Grace, dopo l’esperienza del ricovero in una clinica psichiatrica, «Non posso tornare a casa… sono un adulto», lo studente occhialuto di Rushmore e il celebre giovane di Salinger, talentuosi outsider di lusso, temporeggiano sulla soglia della maturità incapaci di trovare appagamento dalla loro condizione di giovani borghesi. In cerca di un modo per scuotere il fondo limaccioso della loro esistenza, Max e Holden finiscono espulsi da scuola, Anthony coinvolto in un’improbabile impresa criminale. Sia Holden che Anthony hanno una sorella minore, e in entrambi casi esse appaiono più mature e sagge dei rispettivi fratelli; con lo stesso disarmante intuito con cui la “vecchia Phoebe”, pur idolatrando Holden, ne coglie le spinte autodistruttive, Grace denuda gli alibi esistenziali di Anthony: «Non hai lavorato un solo giorno in tutta la tua vita, come puoi avere un esaurimento?». Il rapporto tra Holden e Phoebe passa per la continua condivisione/rievocazione di un lutto, la perdita del fratello Allie, che carica l’angoscia esistenziale del giovane di autentici presagi di morte (come quando, colto da un attacco di panico, implora disperatamente Allie di non farlo “scomparire”). Analogamente a Max, che ha invece perso la madre, Holden si affaccia all’età adulta sotto il peso di un’irrisolta emotività infantile. Ma anziché sfogare apertamente il proprio malessere, Holden e il protagonista di Rushmore si nascondono dietro una maschera di disinvolto sarcasmo, coltivando lo status posticcio del giovane intellettuale disincantato. Entrambi tentano continuamente di assumere un comportamento più maturo rispetto a quello naturale per la loro età, e se Holden porta visibilmente, nel ciuffo di capelli

grigi comparsogli da bambino, il segno simbolico di questa contraddizione, l’insaziabile sete di crescita di Max lo porta a stringere amicizia con il maturo e disilluso Blume e a inseguire l’amore di una donna più grande, per la quale si produrrà in ingenue e disarmanti imprese, come quella di costruire un gigantesco acquario all’interno della scuola. Il terzo film di Wes Anderson, I Tenenbaum, è esplicitamente ispirato alla saga della famiglia Glass, cui Salinger diede vita nel racconto Un giorno ideale per i pesci banana (Nove racconti, 1953) e sviluppò poi in Franny e Zooey (1961) e Alzate l’architrave,

carpentieri e Seymour. Introduzione (1963). Sia il film che i racconti narrano la parabola discendente di una ricca famiglia borghese caduta in disgrazia, in cui una prole eccezionalmente dotata – i sette fratelli Glass sono per un lungo periodo le star di una nota trasmissione radiofonica; Richie, Chas e Margot Tenenbaum dimostrano un talento precoce nel tennis, nella finanza e nel teatro –, soccombe al peso della propria inadeguatezza a trovare un posto nel mondo, mentre, accanto a loro, i padri hanno gettato la spugna prima del tempo e le madri si sono ritrovate presto a osservare impotenti i propri figli come un enigma incomprensibile. Immagine

Il gioco meta-letterario de I Tenenbaum è evidente ed esplicito fin dal prologo che si apre sulle pagine di un romanzo dal titolo omonimo, quasi il film ne fosse l’adattamento cinematografico. Anderson dichiara in molte interviste che il personaggio di Richie Tenenbaum è nato da un’immagine molto semplice: quella di un giovane tornato in città che aspetta alla stazione qualcuno che lo venga a prendere.

La scena che ne ha poi

sviluppato, e che vede l’apparizione di Margot, riprende quasi fedelmente il passaggio di

Franny in cui la protagonista incontra alla stazione dei treni il proprio ragazzo, Lane: Franny fu tra le prime a scendere dal treno, da un vagone all’estremità nord del marciapiede. Lane la individuò subito, e a dispetto di tutto quello che cercava di fare della propria faccia, il braccio che gli scattò in aria espresse tutta la verità […] Si ricordò che una volta, su una macchina che gli avevano imprestato, dopo aver baciato Franny per più di mezz’ora, le aveva baciato anche il risvolto della pelliccia, come se si trattasse di un’appetibilissima estensione organica della sua persona.[1]

In una sequenza in slow motion che Anderson fa scivolare sulle note di These Days di Nico, anche Margot viene percepita dallo spettatore attraverso lo sguardo di Richie; e anche Richie, come Lane, non può nascondere la gioia di vederla. Ma è il dettaglio dell’indumento percepito come una naturale estensione corporea a sembrare scritto apposta per descrivere il ruolo essenziale che gli abiti e gli accessori giocano in questa pellicola (dal cappotto di Margot, al completo da tennis di Richie, alle tute rosse di Chas e

dei gemelli) come in tutto l’universo cinematografico di Anderson, dove la reiterazione ossessiva del binomio abito/personaggio, alla maniera delle strisce fumettistiche americane (l’attaccamento di Sam Shakusky al suo cappello di pelliccia non ha nulla da invidiare a quello di Linus per la propria coperta), rende i protagonisti (in)consistenti come quelle buffe, tenere e vivaci figurine stilizzate. Franny sembra quasi un prototipo di Margot: sottile, pallida, inappetente, appassionata di teatro ed emotivamente fragile, con grandi occhi azzurri cerchiati da occhiaie come quelli inquieti e bistrati da dosi eccessive di eyeliner di Gwyneth Paltrow. Sia Margot che Franny (come del resto il fratello maggiore di Franny, Zooey) occupano il bagno per un tempo insensatamente lungo per leggere e fumare, o semplicemente fuggire dal mondo, quando non trovano altro modo per eluderne la pressione. Entrambe si rifugiano nella casa della loro infanzia spinte da un bisogno di calore familiare che è in realtà una vera e propria spinta regressiva, dove il conforto proviene dalla vicinanza con i ricordi e i cimeli di un passato ingombrante e mai elaborato. Entrambe, infine, hanno compagni da cui le separano distanze siderali e uno speciale rapporto affettivo con il proprio fratello. Il legame tra Franny e Zooey, pur senza sfiorare l’incesto, esclude il resto del mondo, compresi gli altri componenti della famiglia, e si nutre di un vissuto infantile a cui la loro emotività è rimasta irrimediabilmente impigliata. Se i due Tenenbaum affrontano la realtà del sentimento che li coinvolge al riparo della tenda che li accoglieva da bambini, Franny si abbandona in stato confusionale sul divano del soggiorno di casa Glass, mentre Zooey, nel tentare di scuoterla, le parla stando sdraiato sul pavimento, in un punto che definisce addirittura un pezzo di terra consacrata (perché era solito tenervi la gabbia con i suoi conigli), e il loro sfogo solitario rimbalza sulle vecchie pareti zeppe di ritagli di giornale, fotografie ingiallite, targhe e menzioni d’onore. In un altro luogo-simbolo, la stanza da bagno, avvengono due scene cruciali che vedono protagonisti Richie e Zooey e che riguardano, in entrambi i casi, i loro sentimenti nei confronti delle rispettive sorelle. Ne I Tenenbaum, assistiamo alla metamorfosi di Richie, sconvolto dopo aver appreso della relazione tra Margot e l’amico d’infanzia Eli. Nella luce livida del bagno, Richie si avvicina allo specchio e si toglie gli occhiali da sole. Nello sguardo dell’uomo che ha di fronte vede solo cupa e totale disperazione. Come gli altri Tenenbaum, Richie ha sviluppato nel tempo una serie di tattiche per evitare di confrontarsi davvero con la vita: il suo vagare per il mondo a bordo di una nave ha l’identico significato del sesso e del fumo per Margot, delle manie di controllo per Chas e delle bugie patologiche per Royal. Ora che il vecchio se stesso ha dimostrato la sua inadeguatezza, Richie si accinge con metodico accanimento a rimuoverne i tratti: i capelli da campione anni ’70, la barba ispida. Ma il confronto col reale, senza il sostegno di quell’abito, appare

improvvisamente un ostacolo insormontabile, tanto che la mano si arresta senza terminare la rasatura, e la lametta scivola lentamente sui polsi. Nel racconto di Salinger, Zooey, mentre è impegnato in un’estenuante discussione con la madre a proposito di Franny, si rade la barba guardandosi allo specchio nello stesso modo di Richie: egli non seguiva i movimenti del pennello, ma preferiva invece fissare i propri occhi come se fossero un territorio neutrale, una terra di nessuno in una guerra privata contro il narcisismo che lui combatteva da quando aveva sette-otto anni.[2]

Sull’intera scena aleggia il fantasma di Seymour, il maggiore dei fratelli Glass, morto suicida, e lo struggente sfogo finale di Bessie Glass, che si rifiuta di accettare l’ammissione di ineluttabile diversità del figlio («Siamo due anormali, Franny e io, tutti e due»), esprime, nella sua semplicità, tutta la durezza della perdita che un’intelligenza sensibile e precoce può trovarsi a subire nel passaggio all’età adulta: Non riesco proprio a capire cosa vi sia successo, a tutti quanti […] Ai bei tempi della radio, quando eravate bambini e tutto il resto, eravate tutti così… intelligenti, allegri e… sì, adorabili. Mattino, pomeriggio e sera […] Non capisco proprio a cosa serva sapere tante cose ed essere tanto intelligenti e così via, se non riuscite a essere felici.[3]

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Nel 2009 Anderson realizza per la prima volta una vera e propria trasposizione di un’opera letteraria, The Fantastic Mr. Fox di Roald Dahl, pubblicato in Italia con il titolo Furbo, il

signor Volpe. Più che la scelta in se stessa, a risultare significativa è la complessa riscrittura del testo originale operata dal regista e dallo sceneggiatore Noah Baumbach, avvenuta in un contesto del tutto peculiare (un soggiorno nella dimora storica di Dahl, la celebre Gipsy House nel Buckinghamshire), e che ha visto la dilatazione della storia, l’aggiunta di diversi personaggi e un finale diverso ispirato ad alcuni stralci trovati nei manoscritti originali. Apparentemente, la trasformazione della volpe in lotta per la propria sopravvivenza nell’intellettuale sofisticato può sembrare dettata dalla volontà, da parte di Anderson, di attualizzare la storia e, soprattutto, di piegarne i tratti alla propria poetica per farne la messa in scena di quel mondo personalissimo che, come sempre, può esistere solo nei (suoi) film. Il confronto tra il racconto di Dahl e la trasposizione andersoniana mette in luce invece un cambiamento sostanziale nel motivo di fondo, vale a dire il rapporto dei protagonisti con la propria essenza animale. Ciò che in Dahl è l’istintiva resistenza delle volpi contro i soprusi dei tre cattivi fattori, dettata quindi da mere ragioni di sopravvivenza, diventa nel film di Anderson la reazione a un conflitto lacerante: quello tra la natura istintuale e ribelle e il faticoso adattamento alla vita familiare e borghese. L’antefatto che

apre il film (assente nella versione di Dahl) vede Mr. Fox promettere alla moglie, che gli ha rivelato di aspettare un figlio, di abbandonare le scorribande predatorie per trovarsi un lavoro normale. A una normalità originaria, legata alle semplici leggi della natura, viene quindi sostituita una normalità artificiale, in cui la comunità delle volpi si urbanizza assumendo caratteristiche antropomorfe nell’aspetto e nella personalità. Mr. Fox diventa un signore elegante che tiene una rubrica su un quotidiano, sua moglie è un’ex reginetta del liceo, i quattro volpacchiotti sono sostituiti da Ash, un figlio adolescente che comunica difficilmente con il padre e ha un complesso d’inferiorità nei confronti del più fascinoso cugino Kristofferson (un altro personaggio introdotto da Anderson), mentre il Tasso è un avvocato di grido. Un perfetto quadro borghese, in cui la rinuncia ai propri istinti più vitali preme sotto la coltre del conformismo. Il tentativo di reagire al senso d’insoddisfazione – trasferirsi in una casa più grande e più bella – sembra anch’esso perfettamente in linea con la nevrosi borghese, che tipicamente coltiva l’illusione che la propria vita si possa cambiare partendo dalle cose; ma la scelta di abitare proprio accanto ai ricchi possedimenti di Boogle, Bunce e Bean, nonostante gli avvertimenti del saggio avvocato Tasso, svela il desiderio inconscio di Mr. Fox di sfidare le leggi della società civile per riappropriarsi della sua intima natura. È questo il movente che fa scattare le ruberie notturne, liberatorie quanto illegali, a danno delle tre fattorie. La conseguente, iniziale ostilità da parte della comunità animale nei confronti di Fox – che ha violato la legge esponendoli alle conseguenze delle sue scorribande – sarà superata solo dalla collettiva presa di coscienza che la volpe saprà suscitare nei suoi compagni, contagiandoli con la propria (ritrovata) fierezza ferina. Immagine

È indubbio che questa nuova consapevolezza non conduca a un rifiuto netto della società civile. Se il Fox di Dahl abbraccia avidamente la scelta anti-sociale (il libro termina con gli animali che si adattano a vivere sottoterra, dando vita a una comunità anarchica e festosa), il Fox di Anderson non sembra spingere all’estremo la propria ribellione: la bellissima sequenza dell’apparizione del lupo, creatura lontana e irraggiungibile nella sua arcaica e irriducibile ferinità, esprime la rinuncia alla piena e radicale libertà istintuale, a favore però di un equilibrio tra le responsabilità che le relazioni familiari e sociali comportano e il recupero di una parte preziosa di sé, non più repressa o sublimata in attività compensatorie, ma vissuta appieno e consapevolmente. È in questo rinnovato equilibrio tra le pulsioni più dissonanti (e potenzialmente distruttive) celate nell’animo che la riflessione esistenziale di Anderson, come al solito emotivamente incisiva a dispetto dell’artificiosità con cui viene presentata, emerge nella sua forma più originale e riconoscibile, parlandoci di una famiglia/comunità strutturalmente inadeguata all’ordinario eppure capace di trovare

ragione di rinascita da quelle stesse fratture e ferite sempre sul punto di risultare fatali ma in realtà in grado di rimettere in circolo forze solo all’apparenza sopite.

THE LOOK OF LOVE Moda e stile nell’universo Wes Anderson

di Fabiana Proietti Immagine

Non è certo sorprendente, tra i vari tagli possibili per un’analisi estetica dell’opera di Wes Anderson, soffermarsi sul legame che il suo cinema intrattiene con la moda. È sufficiente dare un’occhiata ai tumblr, ai più svariati social network dove il pubblico si fa autore rimaneggiando le immagini consegnate al suo sguardo, per percepire come la ricezione e il ricordo che sopravvive ai film andersoniani passi soprattutto attraverso gli outfit singolari dei suoi protagonisti. Scompaiono i volti, tele bianche incorniciate da acconciature e abiti indelebili nella memoria degli spettatori, che attraverso un blazer, degli occhiali da sole, la giacca di una tuta o una fascia da tennista, riattivano immediatamente le emozioni provate. Solo la musica nel suo cinema, possiede eguale forza evocativa e non è certo casuale che entrambe siano gli elementi espressivi, attigui e complementari al mezzo cinematografico, coi quali restituire un immaginario privato, giustamente definito vintage, essenziale per la sua poetica. Perché se appare ormai (quasi) definitivamente sdoganato dal peccato di leggerezza e superficialità – di cui vengono tacciati anche gli autori più prossimi al suo cinema: Sofia e Roman Coppola o Noah Baumbach, da lui spesso prodotto – è indubbio che il cinema di Anderson viva in gran parte di questo look bric à brac, nell’accezione vittoriana del termine, composto di infinite variazioni decorative su oggetti da collezione standardizzati. Una serialità data dai temi attorno a cui questo bizzarro texano dalla sensibilità europea si muove da sempre, dei quali la moda diversifica la foggia, creando sempre nuovi scenari per ossessioni che si presentano immutate di film in film. Incatenando a volte tra loro le pellicole, grazie a dettagli puramente visivi, come il basco rosso di Max Fischer in

Rushmore, che anticipa i berretti di Steve Zissou e del suo team, vero e proprio cliffhanger visuale nel segno dell’ispiratore Jacques Cousteau, in grado di instillare nessi, corsi e ricorsi. Immagine

Figli di padri assenti, fuggiti o morti, o ancora rinnegati e sostituiti (la menzogna di Max sul genitore neurochirurgo anziché barbiere), adulti immalinconiti al punto da sembrare bambini in corpi cresciuti, cosa differenzia i tre ex enfants prodige dei Tenenbaum dai fratelli Whitman di Darjeeling Limited, o Max e Herman Blume da Ned e Steve Zissou? Sono i mondi abitati, così lontani e avulsi da una precisa collocazione spazio-temporale, da

innescare il paradosso di una storia sempre nuova ma capace di suscitare in maniera subliminale dei déjà vu emotivi. Allora diventa chiaro come il legame dell’apparato fashion con il cinema andersoniano sia tutto fuorché esteriore e decorativo, ma lo strutturi, anzi, dalle fondamenta. A ben guardare, il meccanismo attivato da Anderson non fa altro che replicare la missione stessa della moda: ripescare dal passato forme, volumi, colori e rivestirli di nuovo, orientando il gusto del pubblico, come fosse sempre una novità, qualcosa di mai visto. In questo senso il cinema di Anderson è quanto di più vicino, come manufatto, alla creazione dei grandi stilisti: il suo è un cinema che, pur veicolando un messaggio forte e compatto, tanto da ripetersi come motivo ossessivo – e lo stesso regista ha dichiarato in un’intervista: «Vorrei sempre fare qualcosa di diverso eppure ogni volta ho l’impressione di fare sempre la stessa cosa»–, viene ricordato prima di tutto per gli abiti, le acconciature, per questo look eccentrico e fuori dal tempo, lontano dal nostro mondo quotidiano, ma istintivamente prossimo a un immaginario pop consolidato. Benché meno iconico di altri suoi lavori, Fantastic Mr. Fox è il film che meglio rappresenta il paradosso dell’immaginario vintage di Anderson. Ricrea fedelmente, con puntiglio quasi maniacale, il mondo dello scrittore per l’infanzia Roald Dahl, ma al tempo stesso lo porta in vita con le tecniche più avanzate della stop motion. Lo stesso approccio di Wes all’universo dello scrittore britannico passa per una sorta di transfert stilistico, che lo porta a visitare i luoghi abitati da Dahl, a insediarsi nello studio della Gipsy House, dove si ritira a scrivere la sceneggiatura di Mr. Fox ricalcando le abitudini quotidiane del suo modello, sedendosi alla stessa scrivania, toccando le sue penne, la sua pipa, perché i sentimenti, le emozioni, sono sempre incisi, scolpiti negli oggetti. O meglio, cuciti, giacché è soprattutto negli abiti che vengono trasmessi quei vezzi, quelle “tare” ereditarie date da un’affinità elettiva più che genetica, esplicitata sul piano del gusto. La foggia tipicamente inglese dei completi dell’autore di La fabbrica di cioccolato e James e

la pesca gigante, per citare due fra le sue storie più note trasposte sul grande schermo, viene ripresa da Wes per il suo stesso vestiario, rendendo la volpe protagonista un suo perfetto alter ego animato. Dallo scrittore al cineasta al personaggio: l’abito, disegnato e realizzato, è idea e materia al tempo stesso, capace dunque di attraversare il piano della realtà e quello della fantasia, ambiti che il cinema di Anderson non fa che intersecare continuamente, raccontando i fervidi mondi interiori dei suoi personaggi, così poco pragmatici. Che siano sognatori persi dietro a un’avventura ideale – come la caccia allo squalo giaguaro di Zissou o l’esperienza educativa della Rushmore, che il giovane Max vorrebbe espandere e dilatare il più possibile – o all’esclusività di un sentimento, dalla passione mai sopita fra Richie e Margot Tenenbaum ai ragazzini in fuga di Moonrise Kingdom, con i loro

truffautiani anni in tasca, tutti i personaggi andersoniani vivono in un universo che come quello del loro creatore ha introiettato esperienza reale e frammenti di visioni, letture, ascolti. Pur ispirato in larga parte agli anni Sessanta e Settanta, il décor del cinema di Wes Anderson risulta costantemente spiazzante perché riesce a essere a un tempo il massimo della modernità e del classicismo, un universo sospeso in cui l’immagine di luoghi e personaggi – grazie anche all’ausilio di musiche particolarmente evocative – risplende dell’allure dei “bei vecchi tempi” risultando però sempre incredibilmente cool, in grado di dettare mode e imprimersi nell’immaginario contemporaneo come nuovo e originale riferimento estetico, spesso avulso e decontestualizzato dai referenti originari. Dopo gli esperimenti iniziali di Bottle Rocket, che forgia più i tipi attoriali che non il loro stile, è in Rushmore che inizia a farsi largo questa tendenza, tutta andersoniana, del protagonista “diverso” già a partire dal look. Come nota infatti Jacques Manuel, analizzando la nascita stessa del costume nel cinema hollywoodiano: Più ancora del personaggio l’abito esprime uno stato d’animo; attraverso l’abito ciascuno di noi tradisce, in tutto o in parte, la personalità, le abitudini, i gusti, il modo di pensare, il suo umore del momento, quello che si accinge a fare.[4]

Tenendo sempre a mente questo precetto fondamentale alla base del rapporto tra moda e cinema, Anderson si affilia più al cinema classico che non a quello contemporaneo, recuperando il ruolo iconico dell’abito proprio della Hollywood dello Studio System, in cui a ogni genere e tipologia di personaggio corrispondevano tratti distintivi inequivocabili, dalla

flapper della screwball comedy alla dark lady del noir. Lo scarto rispetto al cinema classico sta semmai nell’aver introiettato i differenti generi all’interno di un unico contenitore, di un universo che fa capo unicamente al suo autore, bambino-despota deciso ad aprire per qualche ora al pubblico la sua stanza dei giochi. Immagine

Del resto, l’infanzia è la dimensione privilegiata in cui si muove la fantasia dell’autore. La stessa tecnica di un look unico che contrassegni i protagonisti dall’inizio alla fine del film viene mutuata dalle letture per i più piccoli, dalle illustrazioni delle fiabe al fumetto, per facilitarne la riconoscibilità. Ma allo stesso tempo, in Anderson, è indice dell’eterna fanciullezza di personaggi bloccati nell’infanzia, irriducibili all’età adulta, di cui, di nuovo, I

Tenenbaum è il film-manifesto. Bambini vestiti da adulti – Margot in pelliccia sembra davvero una bambina nei vestiti della mamma, o, al loro opposto, adulti in divisa ritratti come bambinoni cresciuti – gli scout di Moonrise Kingdom – i costumi dei personaggi andersoniani comunicano il loro disagio, non tanto nei confronti del mondo esterno – sempre fonte di meraviglia, di scoperta, nel quale si tenta spesso di fuggire, per una

precoce avventura sentimentale o un’epica caccia melvilliana – ma piuttosto verso gli spazi chiusi, con cui intrattengono un legame conflittuale. Immagine

Se la casa è vissuta infatti come stanza dei giochi – che spuntano ovunque, anche negli stanzini (I Tenenbaum) – o come una doll’s house a dimensione umana, è al tempo stesso l’elemento asociale che imprigiona i piccoli protagonisti: come Richie e Margot, rimasti emotivamente bloccati nella tenda per tutti quegli anni, i personaggi di Anderson hanno bisogno di un guscio che li protegga e diventi una seconda pelle. Il suo cinema è una lunga carrellata – testualmente: è quello il movimento di macchina che li introduce – di spazi chiusi. Luoghi che sono chiamati a riflettere il carattere peculiare di chi li abita, dalla già citata casa Tenenbaum, presentata come vera protagonista, dalle bow-window e la cortina di mattoni, perfettamente in linea col look postmodern del film; fino alla Rushmore Academy, alla flotta Zissou o al Darjeeling Limited, preceduto dall’Hotel Chevalier del delizioso corto introduttivo che Jason Schwartzman arriva letteralmente a indossare, mettendosi l’accappatoio giallo che richiama l’arredo della stanza. Gli abiti e le scenografie come segni tangibili di emozioni bloccate, rimosse: il look di Anderson non è mai fine a se stesso, perché questo indefinibile passato-presente, dal fascino nostalgico, è la traduzione più immediata ed epidermica di quel vuoto, di quella mancanza di un centro, rappresentata a livello tematico dalla famiglia, o meglio, dall’assenza di un legame familiare, di una relazione padre-figlio o madre-figlio che è la costante di tutti i suoi film. Una continua metonimia in cui l’oggetto arriva a sostituire il personaggio, come hanno intuitivamente colto i fans dei graphic works su tumblr: i volti sfumano, scompaiono, per lasciare spazio agli oggetti che li definiscono. Finché un padre non arriva a essere rimpiazzato da un set di valigie Louis Vuitton, da una cintura di cuoio o da occhiali troppo grandi, l’unica eredità condivisa dai tre fratelli di Darjeeling. Dalle tute Adidas di Chas agli abiti Lacoste di Margot alle borse Vuitton, si fa pian piano strada nel cinema andersoniano il brand, il marchio reale che spezza la finzione e regala allo spettatore un ponte tra la sua esperienza quotidiana e quella di un universo tanto fiabesco. Non è certo un caso unico nella storia del cinema, basta pensare all’effetto

Colazione da Tiffany e alla reciproca pubblicità tra Audrey Hepburn, la sua Holly e Givenchy, maison dell’intramontabile tubino nero. Ma, ancora una volta, Anderson rivoluziona il ruolo della moda nella sua filmografia: sebbene l’uso di marchi reali segni in qualche modo l’irruzione del reale nel fantastico, è sempre il mondo personale dell’autore a prevalere. Quella che irrompe non è la vita tout court ma quella di Anderson, le sue esperienze, i suoi ricordi. Tanto che alla crescente cura del costume e del décor

corrisponde la definizione di una poetica in cui si manifesta sempre più la potenza del sentimento autobiografico: come il Jack di Darjeeling, che riesce a comporre un testo ispirato solo quando racconta, pur dissimulando, i suoi fratelli, i personaggi di Anderson iniziano ad assumere connotati riconoscibili e unici nel momento in cui l’autore inizia ad attingere alla sua stessa vita, ai suoi ricordi: è per questo che il primo Bottle Rocket non ha ancora un look riconoscibile – ed è semmai più figlio dei suoi tempi, databile alla moda dei primi anni Novanta – mentre Rushmore, per cui attinge al proprio vissuto liceale, dà inizio a quello stile eccentrico che permette di distinguere da un solo fotogramma un film “by Wes Anderson”. Il suo cinema si fa esso stesso, dunque, una maison, una griffe con il proprio

concept. L’incontro con Prada, per cui firma diverse pubblicità, diventa, se non predestinato, quantomeno comprensibile. Entrambi giocano sull’idea di una temporalità duplice che sia da una parte il massimo della modernità e, dall’altra, un richiamo subliminale a forme e gusti del passato, spesso desunti da un comune immaginario letterario e cinematografico. Negli spot diretti per la casa di moda Anderson può quindi portare avanti, come fossero una parentesi o un’appendice, il discorso poetico dei suoi lungometraggi, mentre, nello stesso tempo, Prada inizia a disegnare intere linee ispirate alle immagini andersoniane. Immagine

Candy L’Eau dà modo ad Anderson (e al coautore Roman Coppola) di ricreare, in continuità con tutte le sue incursioni pubblicitarie, da

American Express a

Stella Artois

un nuovo universo personale, i cui riferimenti retrò sono però giocati in modo più esibito in chiave cinefila. Nel primo spot si esibisce in un remake di Effetto notte di François Truffaut, subito segnalato dalle indimenticabili musiche di George Delerue. Interpretando in chiave personale il tema “sogni da realizzare con la carta di credito” come un backstage sul mestiere di regista, Anderson rivela dunque la sua fascinazione per il cinema della Nouvelle Vague, dalla quale in effetti recupera un particolare gusto pop teso a intrecciare continuamente passato e presente, narrazione americana e atmosfere europee. Dopo l’esperienza per Stella Artois, in cui si diletta invece con un immaginario sempre Sixties, ma decisamente più “bondiano” con una spruzzata delle rom-com urbane di Doris Day e Rock Hudson, i tre spot seriali per il profumo di Prada segnano un ritorno al cinema francese. Protagonista una Léa Seydoux chiamata a interpretare una parigina chic e viziata impegnata in un triangolo amoroso con due amici, tra Jules et Jim e Masculin

feminin. Il look dei tre protagonisti fonde questo immaginario del cinema francese anni Sessanta in una reinterpretazione dai toni pastello che arriva fino ai macaron e allo chiffon della Marie Antoinette coppoliana o alla sua Miss Dior Cherie.

Discorso analogo quello portato avanti da

Castello Cavalcanti, in cui il sodalizio con

Prada dà origine a un piccolo film, pensato come primo capitolo di una serie di spot. Dal formato standard di Candy L’eau (circa 1´15˝) si passa qui al formato cortometraggio, in cui la pubblicità d’autore si fonde col racconto cinematografico, in un tentativo, sempre più palese, di abolire il confine fra i due linguaggi. L’idea di fondo rimane la stessa: Castello

Cavalcanti propone un immaginario vintage che si sposta dal versante francese a quello italiano, in un’idea di cinema sempre più fusionale, capace di viaggiare nel tempo, nello spazio, nella memoria cinefila e nell’immaginario del costume, fondendo Fellini con le canotte e le coppole riportate in auge da Dolce & Gabbana, continuando a ricreare universi paralleli, lontani dalle logiche fisiche, spazi soggettivi dove le visioni diventano materia, proprio come nella moda. Immagine

Riconoscibile alla prima inquadratura, perfettamente assimilabile a uno dei suoi incredibili protagonisti, Wes Anderson fa della sua stessa figura, del suo nome, uno stile. Ma dietro questi abiti naïf si nasconde un sentimento autentico, una poetica, paradossalmente dispersiva quanto solida, che fa di questo questo look che si impone allo sguardo e genera mode, un look of love, chiave d’accesso diretta all’innata malinconia del suo cinema.

RADIO WES ANDERSON Cosa fare delle macerie

di Margherita Palazzo Il mondo è così grande, così complicato, così pieno di meraviglie e sorprese che ci vogliono anni per la maggior parte delle persone per iniziare a notare che è, anche, irrimediabilmente rotto. Noi chiamiamo questo periodo di ricerca “infanzia”. Segue un programma di indagine, spesso involontario, sulla natura e gli effetti della mortalità, dell’entropia, del crepacuore, della violenza, del fallimento, della codardia, della doppiezza, della crudeltà e del dolore; il ricercatore impara a memoria queste amare lezioni. Lungo la strada, lui o lei scopre che il mondo è stato rotto per tutto il tempo che riesce a rammentare, e si sforza di conciliare questo fatto con il dolore della nostalgia cosmica che si pone, di volta in volta, nel suo cuore: un presagio di gloria svanita, di totalità perduta, un ricordo di un mondo ininterrotto. Chiamiamo il momento in cui questo dolore nasce, “adolescenza.” La sensazione ossessiona le persone per tutta la vita. Tutti, prima o poi, ottengono una scolarizzazione in brokenness. La domanda diventa: cosa fare con i pezzi? Alcune persone tendono ad accovacciarsi in cima al mucchio di rovine, beduini che si prendono cura delle loro capre all’ombra di giganti in frantumi. Altri tentano di spezzettare ciò che resta del mondo in pezzi sempre più piccoli e più frastagliati, calciando tra le macerie, come bambini che corrono attraverso mucchi di foglie. E alcune persone, passando tra i pezzi sparsi di quel grande puzzle rovesciato, iniziano a prendere un pezzo qui, un pezzo là, con una nozione vaga eppure irresistibile del fatto che forse, qualcosa si potrebbe fare per reincollare tutto di nuovo insieme.

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Scrive così Michael Chabon nella sua prefazione a un testo di quest’anno, The Wes

Anderson Collection di Matt Zoller Seitz[5], già autore di The Substance of Style, serie di videosaggi in cinque parti, che investiga il rapporto tra il regista e alcuni ispiratori (Schulz, Welles, Truffaut, Scorsese, Lester, Nichols, Ashby e Salinger). Non stupisce che lo scrittore di Le fantastiche avventure di Kavalier & Clay se ne intenda di

brokenness da supereroi adolescenti che devono imparare a convivere con i propri devastati poteri. Invece le creature di Wes Anderson sono munite dall’esterno di una sola arma: la musica, che sempre a tempo, spiega le sue ali protettrici sul loro paradossale essere sempre fuori luogo e sempre fuori tempo. Per noi che guardiamo, il crack della rottura, rumore di fondo delle vite sullo schermo, nel sollievo dell’illusione cinematografica viene diluito nella creazione di magic moments dove il pathos viene a rinfrancare questo picchettaggio continuo, questo tormento sottile, trasfigurando in istanti capitali lo scorrere dei giorni in preda all’assalto delle cose che si rompono tutto intorno. «Guardati intorno! Sta andando tutto in pezzi!», grida Joel Barish in Eternal Sunshine of the Spotless Mind di

Gondry, mentre un’automobile piomba dal cielo come un proiettile. Ecco, è come se nei film di Wes Anderson ciascuno fosse catturato in quel preciso momento, quando si rende conto che il crollo era già in atto tutt’intorno, ma diventa visibile, e reale, solo quando lo si nomina. Gli Stati Uniti generano figli diversificati, anche il profondo sud, dando i natali a registi così diversi dall’immagine tipica che potremmo assegnare all’immaginario texano: quanto sono diversi tra loro Jonathan Caouette e Terrence Malick, John Cameron Mitchell e Richard Linklater. Wes Anderson è forse tra i suoi connazionali il regista che ha più ossessivamente coltivato un linguaggio personale. Fare sempre lo stesso film, scrivere sempre lo stesso libro, è un capo d’accusa che non regge perché è precisamente ciò che fa per tutta la vita e forse deve fare, un artista[6]. Nel caso specifico l’accusa regge ancora meno del solito: forse questo regista rispecchia fedelmente, nella creazione graduale del proprio universo, la stessa dinamica nella quale agiamo le nostre vite; con variazioni considerevoli, certo,

storyline che si dipanano, ahimè pochissimi cliffhanger davvero decisivi, ma pur sempre all’interno della stessa serie nella quale abbiamo deciso di muoverci (poiché anche dove sembra che non ci siano scelte possibili o solo obbligate, resta possibile la scelta della serie che stiamo interpretando, almeno delle sue atmosfere). Ebbene, tutti i film di Wes, incollati l’uno all’altro, formano una serie composta di stagioni apparentemente infinite, in realtà delimitata dall’esistere temporaneo dei suoi “ricercatori”, di volta in volta impegnati in nuove, care vecchie scoperte. Una sit-com avventurosa, dove i personaggi vivono drammaticamente le loro non scelte mentre noi sorridiamo tristemente: ma non sono pedine o prigionieri quanto esploratori conniventi, all’interno di un mondo a tutta prova immenso, miniaturizzato solo perché sia più intelligibile ai nostri occhi, una stanza dei giochi dove si riproduce la realtà in forma fantastica solo per farci i conti; o una stanza del delitto, dove, come nelle ricostruzioni artigianali di crimini reali, che una volta venivano raccontate in vignette simili a fotoromanzi, le sagome sono innocenti simulacri di meno

innocenti agenti in una concatenazione di eventi che comprende autodistruzione, violenza, fallimento, psicosi, disillusione. Le stelle che ci orientano in questa gigantesca sit-com sono fatte quasi esclusivamente di musica. Non lo sono, in realtà, o possono trarci in inganno e incoraggiare un fraintendimento estetizzante, le scenografie ricercatissime fino al più microscopico dettaglio, le coperte di Linus, gli abiti fortemente connotativi – rigiocati ad esempio nel video per una canzone de I Cani chiamata proprio

Wes Anderson (dove tra l’altro si inseriscono

furbescamente nella clip altri elementi, come un libro di David Foster Wallace, relegandolo pure, a torto, a oggetto di culto per giovani generazioni, e ciò è indigeribile) mentre si sogna di vivere appunto in un film di Wes, dove «i cattivi non sono cattivi davvero, ma

anche i buoni non sono buoni davvero». Davvero? Tutto è così simpatico e innocuo? Sta crollando tutto! E non è un gioco. Anche se le macerie sono rappresentate come costruzioni sparpagliate per il mondo, Lego per adulti. Il problema è il denso, dolente manuale di istruzioni che questi si portano dentro, che si arricchisce di giorno in giorno, sempre più greve, sempre meno efficace, soprattutto sempre meno utile, di quella caratura che Oscar Wilde assegnava all’esperienza: lo stesso valore di un biglietto usato dopo l’estrazione. L’unica bussola per Wes Anderson è la musica, intesa come linguaggio superiore capace di rendere, se non comprensibile, almeno dispiegato, l’indecifrabile groviglio di emozioni brutali, paure, ossessioni e desideri degli esseri umani. Soprattutto, la loro catastrofica attitudine alla speranza. In Moonrise Kingdom Anderson decide di spiegare filosoficamente questa procedura, spargendo per tutto il film pezzi della fatata soundtrack di Alexandre Desplat e lasciando elencare i componenti della strepitosa suite finale,

The Heroic

Weather – Conditions of the Universe, Part 7: After the Storm, che arriva a sorpresa a metà dei titoli di coda (2´33˝) insieme alla voce enfatica e genuinamente distaccata del piccolo e saggio protagonista Sam. Pronunciare il nome di qualcosa è più che una preghiera o invocazione, la materializza: magia. Ora vi daremo una dimostrazione: didattica. Come nota Chabon: crescere è imparare (una lezione che non serve a niente). Didattica, come la

Young Person’s Guide to the Orchestra di Benjamin Britten che dallo scopo originario, educativo dei piccoli, viene trasformata dal film, con geniale e gentile spietatezza, in un monito per gli adulti: non un’accusa in termini di morale, ma nemmeno la tenerezza che si ipotizza Anderson provi vezzeggiando i suoi “né cattivi né buoni”. Tutt’altro che accomodante, Wes ci strilla: vi sfugge la sinfonia nel suo complesso, ed ecco allora i pezzi, spiegati in modo semplice come a un principiante della vita: ecco i pezzi rotti. Voi che dovreste essere giocatori rodati e navigati, che cosa diavolo ne state facendo? Immagine

Come nelle ricostruzioni a posteriori del crimine, ciò che manca dalla scena del delitto è proprio quanto potrebbe spiegare tutto il resto: la musica in Wes Anderson è ciò che manca. Di volta in volta essa interviene a consolare, spiegare e suggellare, proprio in un mondo dove in apparenza non manca niente. Gli oggetti dai colori parlanti, un accessorio per ogni funzione, disposti in ordini maniacali, inventati per nuovi usi, anche iconici, non sono solo marchi di fabbrica di uno stile Wes Anderson adatto a essere replicato nei

photoshoot sulle riviste di moda. Il megafono serve letteralmente ad amplificare la propria voce, che si ritiene inadatta a sussurrare; le forbici da cucito servono a difendersi, perché la sopravvivenza è una faccenda quotidiana; il binocolo è un talismano perché serve a vedere in lontananza; strumento di un’adolescente, perché con il passare degli anni, si

deve allontanare sempre di più l’oggetto che si ha vicino per poterlo vedere bene. Perdita di efficienza dell’apparato accomodativo, perdita di elasticità del cristallino; per definizione, non una malattia, ma una degenerazione naturale dovuta all’età: presbiopia. In ciascun film di Wes Anderson vediamo un paesaggio tanto preciso proprio perché è stato creato e rafforzato in lunghi anni non narrati, osserviamo solo gli effetti delle abitudini ridotte a compulsione: talvolta, guardiamo dallo spioncino, come in Hotel Chevalier (2007). Il momento della verità è muto in Hotel Chevalier: la preparazione è muta, come l’eterna attesa.

Where Do You Go To (My Lovely)? di Peter Sarstedt serve a dare una voce a

Jack ammutolito dagli eventi (precedenti) salvo l’unico istante in cui può far parlare il suo corpo. Les Champs-Élysées, perduti ed eleganti, a rischio di essere vacui, come inutile souvenir, sono chiusi dentro a un carillon, cartolina da Parigi che Wes Anderson ci spedisce solo per ricordarci che ciascun luogo è cartolina di un altro, come il ricordo è cartolina più o meno sbiadita, più o meno ferente, del presente. Ciascun film di Wes è un tassello di un’unica colossale fantasia, con le soundtrack che tra le righe, o fuori dalle righe, o sopra di esse, tracciano una discografia, ontologicamente nostalgica come lo è qualsiasi collezione di dischi di un papà, che ne condividiamo o meno i gusti. La metafora del “ricercatore” utilizzata da Chabon ci è d’aiuto anche in questo caso: il regista non si definisce un cultore onnisciente in fatto di musica, ma ogni volta che gli è possibile racconta di aver svolto delle ricerche intorno a quello che potremmo definire un sentimento sonoro, il modo di attualizzare un singhiozzo, uno spasmo, un gesto drastico, una decisione pericolosa. Se vogliamo dispiegare il tessuto, guardare dritto dentro l’animale, nel suo ambiente interiore che è il luogo di tutte le piccole percezioni e le piccole appetizioni, la musica può aiutarci, a segnalare una deviazione dal costante rumore di fondo dei crack, delle fratture indicibili ed eterne, un’epifania, un’apparizione... Non si tratta certo dello stucchevole ritornare bambini, quanto dell’accettare che la condizione adulta si è edificata quasi esclusivamente su una lunga serie di incidenti, e che finchè restiamo imbrigliati in un sistema di trazione come in un letto d’ospedale abbiamo poca autentica libertà di movimento. Wes Anderson crede che il dolore non sia affatto un incentivo. Ciò che non mette in scena, e lascia alla musica il compito di raccontare, è “il famoso stato corneo”, nell’esattezza della definizione di Cesare Pavese: «che, finito il dolore, la propria potenza si trovi accresciuta non è poi tanto gloriosamente vero, anzitutto perché un certo indolenzimento nell’area resta sempre, e una tendenza a evitare il malo passo, e poi perché, se durante la pena non si è acquistato nulla, non si vede come si possa acquistare dopo, nella normalità. Il fatto è questo, che si è acquistata esperienza: la cosa cioè più astratta e vana». La musica è musa

Famiglia non è solo il plotone di attori da sempre vicini a Wes Anderson, quali Bill Murray, Jason Schwartzman, Owen e Luke Wilson, ma anche crew, e su tutti coloro con i quali il regista texano lavora alla creazione di una colonna sonora fatta quasi sempre di nomi di culto (The Beatles, Iggy & The Stooges, The Rolling Stones) chiamati a spiazzare perché rivolti alla creazione di una narrazione altra, che è polpa del film e non struttura ossea, tanto da meritarsi una sezione apposita nell’ampio sito dedicato al cinema di Anderson, The Rushmore Academy. Il mondo musicale di Anderson è un formulario, e insieme un seme da cui germina il film tessendo una rete di legami, a volte non immediatamente evidenti. Lo specificano spesso nelle interviste alcuni collaboratori frequenti, come il compositore Mark Mothersbaugh dei Devo (Rushmore, 1998, I Tenenbaum) e Randall Poster (supervisore alle musiche di

Rushmore, I Tenenbaum, The Life Acquatic of Steve Zissou, Hotel Chevalier, The Darjeeling Limited, Moonrise Kingdom) che lavora anche per registi vicini a Wes Anderson, come Noah Baumbach (Il calamaro e la balena) eha lavorato al difficile compito di realizzare la soundtrack di I’m not there di Todd Haynes. La colonna sonora di The Darjeeling Limited, ad esempio, racconta Poster, è stata costruita all’origine sulla musica dai film di Satyajit Ray, a declinare l’esotismo avventuroso del paese sconosciuto, a volte brutalmente contraddetto (la sepoltura del bambino) ma la presenza di Beethoven non è casuale: nel flashback in cui i fratelli devono andare a ritirare la macchina del padre, in viaggio per il suo funerale, compare la Settima Sinfonia (per Ray, il brano preferito di tutta la musica occidentale). Altrove, Poster spiega come dopo numerose prove, la scelta di Hank Williams, delle sue ballate (Long Gone Lonesome Blues, Kaw-Liga, Ramblin’ Man) si sia imposta come l’unico modo di rendere onore alla solitudine di mezza età del capitano di polizia interpretato da Bruce Willis in Moonrise Kingdom, al suo cuore spezzato da tempo, ai suoi sogni naufragati per sempre nella rassegnazione di un adulterio dozzinale. Ma al di là della caratterizzazione psicologica dei personaggi definita dalla musica, che Anderson pratica sempre, il discorso è portato alle estreme conseguenze per complessità e intelligenza proprio in Moonrise Kingdom (soundtrack peraltro che ha meritatamente scalato la classifica su Billboard fino al numero uno). Qui la musica è musa, autentico punto di partenza: non commenta il film, lo ispira: il film stesso è in un certo senso l’allestimento creato per

Noye’s Fludde di Britten – a volte la musica viene prima di tutto,

parola dello stesso Anderson – e fatto più avvincente, lascia cadere la distinzione convenzionale tra musica diegetica ed extradiegetica. La musica è “contemporaneamente l’impalcatura del film e la sua vita segreta”, come puntualmente osserva il compositore Russell Platt in un articolo sul rapporto su Benjamin Britten, pubblicato sul New Yorker. Il diluvio universale messo in scena dai bambini è reale: di nuovo, il gioco è reale, i bambini se ne rendono conto, gli adulti soltanto quando sono messi di fronte al fatto compiuto.

Le

Temps de l’Amour (Françoise Hardy) non sono “eleganti e malinconici”, che sul set, ricordiamocelo, siamo sempre nella vita: essenzialmente, sono passati. Immagine

La disinvoltura con cui Anderson utilizza Debussy (sempre in The Darjeeling Limited) Mozart, Schubert (Moonrise Kingdom), Vivaldi, Satie (The Tenenbaums) – con audacia, perfino Satie, così indissolubilmente associato dal Fuoco Fatuo di Malle da suonare un po’ fasullo se utilizzato altrove –il sommo Bach (The Life Acquatic of Steve Zissou), Chet Baker e Duke Ellington (Bottle Rocket, 1994), Cat Stevens (Rushmore) non è affatto una furba operazione di contaminazione tra generi ed epoche o linguaggi differenti, ma una diversificazione di sentimenti operata attraverso la musica, lo spettro delle emozioni presentato non attraverso il brano che funziona meglio, ma mediante quello che evoca meglio il gesto fisico, l’azione (precedente, non eseguita, desiderata, prossima...) dei suoi eroi. Chissà se si ricorda di me

This Time Tomorrow dei The Kinks segna lo struggente, indefinibile addio al viaggiatore misterioso/padre sempre-perduto che manca il treno in The Darjeeling Limited, così come in tutti i film di Wes si prova nostalgia per qualcuno o qualcosa che non è per forza noto o chiamato in causa. In The Royal Tenenbaums la nostalgia irrompe in un momento inconsueto: un prologo, con la versione da elevator music consapevole di Hey Jude di The Mutato Muzika Orchestra (dietro cui c’è sempre Mark Mothersbaugh) che illustra la feroce persistenza dei ricordi di famiglia, poi imperversa con John Lennon (Look at Me), Bob Dylan (Wigwam), Lou Reed (Stephanie Says), Clash (Rock The Casbah), Van Morrison (Everyone). Se Judy Is A Punk dei Ramones è letteralmente la

biografia di Margot (il suo fascicolo da

tribunale che viene sfogliato, e appena chiuso, la musica si interrompe) e sottolinea la sua irrequietezza senza via d’uscita (così Making Time dei The Creation illustrava le mirabolanti attività extrascolastiche di Max Fischer come contrappunto alla loro insufficienza: cantare sempre la stessa canzone, cercare una via d’uscita), These Days di Jackson Browne, nella voce epica di Nico, scandisce

l’incontro alla stazione degli autobus tra Richie e Margot,

rallentato come l’emozione rarefatta che lo permea, per sfumare nell’attimo in cui si toccano. La soave Needle In The Hay di Elliott Smith, irriducibile figura che per morire sceglie di pugnalarsi letteralmente al cuore, è il canto di un uomo che «non riesce a combattere se stesso». Uno di quei

momenti perfetti del cinema di Wes Anderson che smentiscono ogni

accusa di programmatica eleganza (e lo avvicinano in maniera del tutto imprevista a un altro Anderson, Paul Thomas, lontanissimo da lui; all’uso magistrale che ad esempio fa di

Wise Up in Magnolia). Immagine

Richie si spoglia dei vestiti, dei capelli, della barba, sussurra «I’m going to kill myself tomorrow» (parole gemelle di Le Feu Follet), ha appena il tempo di rivedere il famoso film finale, poche immagini di assoluto e definitivo rimpianto. La canzone procede in accordi inesorabili e più forti, si interrompe bruscamente durante la scoperta da parte di Doodley del suo corpo insanguinato, gli accordi proseguono implacabilemnte durante la corsa in ospedale, mentre tutti convergono al padiglione di emergenza dove a Richie è negata in un sorriso dolceamaro anche il protagonismo del suicida: quando Margot chiede «Lui dov’è?». Doodley, con la t-shirt ancora sporca di sangue, chiede: «Lui chi?». Non è solo una battuta umoristica. Lui è andato, anche perché ha fatto fuori qualcuno che non riconosceva più. Immagine

Nel bel saggio Give Me a Second Grace: Music as Absolution in The Royal Tenenbaums, dove si leggono queste due sequenze insieme ai testi delle canzoni, si nota che anche le parole si riformulano e si rimodellano nelle vite degli “emotivamente danneggiati” Tenenbaum: la dipendenza dall’eroina diventa la dipendenza di Richie da Margot – la canzone di morte si spegne nel momento esatto in cui lei si fa viva sulla porta dell’ospedale – i vestiti, i capelli, la barba di cui si spoglia sono quelli di un morto che deve liberarsi di se stesso per sopravvivere. Al rapporto tra Richie e Margot viene associata anche

Fly di

Nick Drake, altro cantautore di infinita grazia la cui vita è terminata col suicidio, che protegge la tenda-bunker di Margot e in una frase chiave esprime forse l’unica pretesa che i personaggi di Wes Anderson si tramandano di film in film: «Please give me a second grace». Immagine

Ma è probabilmente The Acquatic Life of Steve Zissou a offrirci l’esempio perfetto di come la musica sia in Wes Anderson, anche quando ciò avviene contro ogni apparenza, la voce della verità proprio attraverso la trasfigurazione e il cambio di registro. Oltre alla straordinaria manovra controvento di far cantare in portoghese e in versione acustica alcune delle più indimenticabili canzoni di David Bowie (da Life on Mars a Space Oddity, da

Ziggy Stardust a Rebel Rebel) a Seu Jorge, figura di comprimario che è coro greco dell’azione, la sontuosa dolcezza di Staralfur dei Sigur Rós segue i fianchi dello “squalo giaguaro” nel finale, la sua apparizione miracolosa, mentre il volto di Zissou, assorto nel

suo sogno quasi melvilliano di cattura, commenta: chissà se si ricorda di me. Come per il marinaio che per tutta la vita fugge dal Colombre, solo per affrontarlo, ormai vecchio, e scoprire troppo tardi che il mostro marino non lo seguiva per divorarlo, ma per donargli la pace e la felicità, tutto il team Zissou inscatolato nel sottomarino soccombe alla bellezza violenta dello squalo di fronte all’improvvisa presa di coscienza che la missione, a volte, è l’unica forza che spinge avanti, e al tempo stesso una forza perversa e cieca che impedisce di lasciarsi andare alla beatitudine: l’assoluta perdita di sè, la rinuncia al controllo. Perché il tempo è poco, e nei film di Wes Anderson il tempo è ancora meno. Non generoso, accumula mestizia e polvere sulle spalle dei suoi eroi. Ma qualche volta, i pezzi si ricompongono da soli in misteriosa connessione, istante da fine del mondo, miracolo di alcuni minuti: il tempo di una canzone.

Abbiamo compiuto l’impresa, ma abbiamo perso un altro membro dell’equipaggio.

ROYAL O’REILLY TENENBAUM 1932-2001 Morto tragicamente mentre salvava la sua famiglia dal naufragio di una nave da guerra distrutta che stava affondando

di Emanuele Di Porto La St. John School di Houston è un istituto esclusivo del Texas: è stata fondata nel 1946 con l’intento di accogliere e di educare un numero limitato di studenti dotati. Wes Anderson l’ha frequentata quando era ragazzo e le sue aule e il suo campus sono state il set di

Rushmore. Il giovane protagonista ha il suo stesso vezzo di allestire delle pieces teatrali che si ispirano a dei soggetti molto popolari. Questo hobby precoce ritorna anche nell’attività drammaturgica di Gwyneth Paltrow nel successivo The Royal Tenenbaum. I dettagli non sono solo aneddotici ma rimandano allo spirito apertamente autobiografico dei suoi film: molti particolari delle inquadrature sono selezionati per stimolare la sua memoria intima. Le madeleines di Wes Anderson sono quasi sempre delle rievocazioni che risalgono alla sua infanzia: le canzoni di un’altra generazione e gli oggetti di modernariato hanno sempre una posizione di primo piano. La loro presenza è così rilevante che non è possibile decifrare il suo cinema senza includere la sfera del ricordo. Le scenografie sono firmate quasi sempre dal fratello Eric Chase Anderson: forse l’unico designer che sa benissimo quale carta da parati e quale poltrona utilizzare in una sua scena. Il regista è rimasto congelato al momento del divorzio dei genitori: le sue dichiarazioni[7] lo indicano come un evento decisivo della sua vita nonostante avesse solo otto anni. Un cineasta così personale ha inevitabilmente bisogno di persone fidate a cui affidare la rielaborazione del proprio passato: le collaborazioni inaugurate nel corso degli anni sono così strette e durature che non è sufficiente parlare solo di una factory. Immagine

Partiamo dal Sundance Film Festival del 1994. La trionfale rivelazione di Bottle Rocket ha condizionato la scena indie, ha ispirato delle partecipazioni e ha fatto nascere un nutrito esercito di epigoni senza che nessuno si prendesse la responsabilità di scrivere un manifesto programmatico. Un cineasta come Jason Reitman ha dichiarato che l’influenza decisiva di quel film sarebbe diventata «la voce che avrebbe seguito per sempre»[8]. Ma c’è un livello più profondo che unisce il regista a un’altra categoria di ospiti fissi che lo accompagneranno nella sua produzione. Il cinema gli ha permesso di andare oltre e di ricostruire una family: i membri che la compongono sono cresciuti in corso d’opera, e spesso sono a loro volta legati da un vincolo parentale. Una pratica di messa in scena, insomma, che non si è allontanata molto dall’attività di apprendista drammaturgo negli

home-movies che realizzava sporadicamente con i suoi tre fratelli. Un numero, questo, che ritorna in The Royal Tenenbaum e in The Darjeeling Limited: il cinema di Wes Anderson resta sempre una questione domestica. L’assegnazione di determinati ruoli è persino rituale: Anjelica Huston è quasi sempre la madre come Bill Murray è altrettanto spesso il padre. Ma ci sono strategiche eccezioni, perché c’è una forte presa di coscienza che i legami non duraturi, gli abbandoni e i ritorni siano le uniche costanti. L’idea dell’intercambiabilità viene configurata esplicitamente in The Life Aquatic with Steve

Zissou: l’oceanografo in disarmo presenta il presunto figliol prodigo al team e respinge le accuse sulla sua scarsa esperienza in mare con una giustificazione esemplificativa: qui nessuno ha il background necessario. Il regista ritiene chiaramente che l’intima fedeltà alle sue sensazioni sia molto più importante del talento: La maggior parte degli attori con cui ho lavorato più volte erano persone di cui all’inizio ero un estimatore. Alcuni come Jason Schwartzman li ho cercati a lungo prima di trovare un ragazzo che fosse perfetto per Rushmore. L’ho amato come attore dal primo momento che l’ho visto, quando era ancora un batterista e non era un attore. Queste persone sono le mie preferite e tutte le volte che ho la possibilità di lavorarci insieme cerco in ogni modo di farlo. Ma io lavoro molto con lo stesso tipo di persone anche in altri settori. Questi film diventano come delle divertenti reunion.[9]

Una fase di pre-produzione che assomiglia molto al modo in cui la volpe George Clooney assolda i suoi vicini di casa in Fantastic Mr. Fox: tutti i suoi amici trovano un posto sempre

nuovo quando la situazione richiede una sistemazione diversa. Esempio più evidente: Kumar Pallana, il caratterista indiano purtroppo recentemente scomparso, era il proprietario di un caffè di Dallas che il regista frequentava con Owen Wilson ai tempi dell’università... Jason Schwartzman e Bill Murray Immagine

Rushmore non è solo uno dei film più direttamente personali di Wes Anderson ma è anche quello in cui fanno la loro prima apparizione due personalità fondamentali per la sua carriera. Jason Schwartzman e Bill Murray incarnano il conflitto centrale del suo cinema: la

corrispondenza di debolezze emotive in tutti i periodi della vita. Il figlio di Talia Shire è anche il nipote di Francis Ford Coppola e aveva diciannove anni quando venne scelto come protagonista del suo secondo film. La recitazione non era uno dei suoi interessi principali perché i vantaggi del nepotismo erano già stati utilizzati per diventare il batterista della band californiana Phantom Planet. La reticenza iniziale verso il mestiere di famiglia non ha impedito di far nascere un legame forte che ha annullato i confini della semplice

collaborazione professionale: Wes Anderson ha deciso di affidargli la confessione più intima dei suoi tormenti adolescenziali e l’attore esordiente l’ha arricchita con la propria esperienza individuale. «La lavorazione di Rushmore è stata una delle cinque esperienze più importanti e divertenti della mia vita ed è significativo che Wes Anderson sia al centro di almeno tre di questi momenti»[10]. Questo scambio sulla fiducia ha contribuito a stabilire un’empatia che non è stata intaccata dalle circostanze: l’attore fa in qualche modo parte dei suoi film anche quando non recita in prima persona. La sua parte in The Royal

Tenenbaum (il ragazzo del palazzo di fronte che scappava di casa) è stata tagliata, ma poi concentrata e sintetizzata nel falco ammaestrato di Luke Wilson. Questo solido legame ha permesso una proliferazione di contatti: Jason Schwartzman ha letteralmente introdotto Wes Anderson a casa sua. Il cugino Roman Coppola è diventato il produttore di alcuni suoi film, è stato poi promosso a co-sceneggiatore in Moonrise Kingdom e il suo recente film da regista (A Glimpse Inside The Mind Of Charles Swan III) è una derivazione esplicita della loro unione di intenti. Una contaminazione che è forse una conseguenza naturale di un passato analogo: l’episodio di Francis Ford Coppola in New York Stories del 1989 ne è dimostrazione esaustiva. Immagine

Jason Schwartzman era ancora un ragazzino della Napa Valley e Wes Anderson studiava filosofia all’Università di Houston ma gli indizi a posteriori possono illuminare molti particolari. Sofia Coppola scrisse Life Without Zoe quando aveva meno di vent’anni e il breve segmento contiene una notevole assonanza di suggestioni. La storia narra di una

teenager che vive nel lusso a New York e frequenta una scuola per ricchi in cui i ragazzini si comportano come adulti. I loro genitori sono assenti e aspettano che i figli prendano decisioni per loro: Giancarlo Giannini è il padre che suona il flauto nelle orchestre più importanti del mondo e Talia Shire è la madre che è continuamente in viaggio per seguire le proprie attività filantropiche. La protagonista cerca di riparare al loro distacco e al loro narcisismo e nel frattempo partecipa a un party fiabesco a casa di un suo compagno di classe che è il figlio di un misterioso sceicco. Non è difficile rintracciare dei denominatori comuni: lo stesso timore verso il cinismo e la disillusione della maturità, la deformazione del ricordo attraverso una distorsione onirica e infantile, ma c’è soprattutto una confusione tra persone mature e individui ancora in formazione. Sofia e Wes sono quasi coetanei e hanno vissuto i benefici ma anche l’isolamento di una vita agiata: questo percorso similare ha fatto nascere la medesima necessità di un cinema declinato in prima persona. Il recupero reciproco tra il padre attore e la figlia della star, del resto, è anche il tema di

Somewhere e la storia ha una forte analogia con quella di Rushmore. La rinascita professionale di Bill Murray è stata sempre associata a Lost In Translation, film

di Sofia Coppola del 2003. La sua interpretazione di un’apatica e imbolsita star hollywoodiana lo ha portato a un passo dall’Oscar, e la celebrità ritrovata lo ha investito mentre si trovava in Italia per girare The Life Aquatic with Steve Zissou. Questa

contemporaneità è l’ennesimo accostamento tra Sofia e Wes: è stato proprio il regista a convincerlo ad accettare la parte che gli era stata offerta. L’idea di una sua nuova collocazione all’interno del cinema indie era nata ai tempi di Bottle Rocket. L’aspirante cineasta e Owen Wilson avevano in mente Bill Murray sin dall’inizio, e la parte a cui avevano pensato era quella poi andata a James Caan. Questa opzione frustrata indica immediatamente il modo in cui i due si erano rapportati all’attore: un padre putativo che il protagonista fa di tutto per impressionare. La loro insistenza è stata premiata solo con la sceneggiatura di Rushmore e la precisione con cui avevano definito il suo personaggio ha sconfitto l’abituale reticenza di Murray ad abbandonare la tranquillità della vita quotidiana: «Quando ho letto Rushmore ho trovato che la scrittura era così specifica che chi l’aveva scritta sapeva esattamente quello che voleva girare»[11]. La testarda ostinazione della coppia di giovani amici/sceneggiatori non è dissimile da quella con cui Dignan tentava di sabotare i progressi di crescita dei suoi compagni in Bottle Rocket. Immagine

Bill Murray ha incarnato molto spesso lo stereotipo del genitore distante che non considera i bisogni affettivi della propria famiglia perché troppo egoisticamente immerso nelle personali necessità. Una battuta di Rushmore ne è confessione emblematica: «Nemmeno nei miei incubi peggiori avrei potuto immaginare dei figli come questi». Il suo rapporto con Wes Anderson accoglie diverse sfumature, colorandosi anche di un’adorazione non corrisposta che ha condizionato la formazione emotiva e artistica del regista: Lo volevamo in un altro film che abbiamo fatto e che lui non ha mai visto: a quel tempo stava guidando una roulotte per tutta la nazione e allora abbiamo rinunciato. Siamo sempre stati degli estimatori dei suoi film. Una volta a Halloween mi sono vestito da Peter Venkman.[12]

The Life Aquatic with Steve Zissou è una testimonianza efficace di questa predilezione. Bill Murray interpreta due modelli di riferimento che Owen Wilson ha inseguito sin da bambino: il possibile padre che non ha mai conosciuto e l’oceanografo che ha vissuto magnifiche avventure in mare. Wes Anderson è stato interrogato spesso sull’importanza dell’attore all’interno del suo cinema, e le sue affermazioni non hanno mai nascosto il suo profondo sentimento. Il cinema gli ha offerto la possibilità di essere amico di uno dei suoi idoli: Ho il privilegio di sentirlo spesso e posso mandargli i copioni direttamente. Non posso parlare per lui ma credo che abbia scelto di aiutarmi. Io lo sento come uno di famiglia e quindi lo tratto in questo modo. Lui ha solo deciso di esserne parte. Non puoi decidere i tuoi legami: queste cose accadono e basta.[13]

Le proverbiali ed elusive assenze di slancio di Bill Murray si evincono anche da dichiarazioni che non hanno mai la stessa intensità e la stessa partecipazione. In qualche occasione le sue interviste hanno mostrato una punta di fastidio verso l’eccessiva invadenza sulla sua pratica di lavorazione: Nel lavoro la mia prima forma di relazione con la gente è professionale. Ci sono persone che vogliono che tu sia subito loro amico. Io gli dico «Non diventeremo mai amici prima che abbiamo finito. Se non finiamo non saremo mai amici perché l’unica cosa che abbiamo fatto insieme potrebbe essere un fallimento. La gente confonde l’amicizia con la calma e la cortesia. È importante restare calmi e non hai nessuna possibilità se non sei rilassato. Provo sempre a distendere tutti i tipi di tensione ma l’amicizia è differente […]. Wes è ancora giovane ma era addirittura un ragazzino quando l’ho incontrato per Rushmore. È cresciuto come persona, come uomo e come regista. Le sue cose migliorano continuamente. Tratta la lavorazione di un film come un’esperienza di vita. Per Moonrise Kingdom ha affittato una villa a Newport e ci siamo sistemati lì. La sala di montaggio era dentro la casa. La cucina era ottima. Ti sentivi a tuo agio ma questo significava anche che dovevi affrontare delle infinite ed estenuanti ore di cinefilia perché quando avevi finito c’era sempre qualcuno che ti aveva già preparato la cena.[14]

Bill Murray rappresenta l’oggetto del desiderio che non viene mai riscattato pienamente: è per questo che i suoi personaggi sono sempre circondati da un’aura di disincanto. L’inedia è una trappola da cui scappano, ma è anche un rifugio in cui si riparano quando la situazione lo richiede. La loro sofferta atarassia è motivo di paralisi ma anche una consolazione. Il loro rapporto verso gli altri non ha mezze misure: o hanno troppo tempo oppure non ne hanno affatto. Il loro cinismo è un’arma che li mette in una posizione di superiorità rispetto ai suoi rivali più giovani ma è anche un impaccio nel momento in cui invidiano la loro capacità di illudersi e di credere ciecamente in tutte le cose che fanno. È esattamente quello che succede nella bizzarra relazione di solidarietà e di concorrenza di

Rushmore: è un argomento centrale del cinema di Wes Anderson e anche uno specchio del rapporto con il suo attore feticcio. È come se uno avesse il bicchiere mezzo pieno e l’altro avesse il bicchiere mezzo vuoto: sono allo stesso punto nella vita se non fosse che uno sta crescendo e l’altro sta discendendo. E se quello che sta discendendo potesse agganciarsi a quello che sta crescendo forse potrebbe fermare l’erosione.[15]

I Wilson Immagine

Owen Wilson ha tentato il suicidio il 26 agosto del 2007 a Los Angeles e i motivi che lo hanno spinto fino a questo gesto non sono mai stati chiariti. Wes Anderson lo aspettava a Venezia per l’anteprima di The Darjeeling Limited e c’è una strana corrispondenza tra lo

stato d’animo dell’attore e l’atmosfera del film che stavano per presentare. La storia parla di tre fratelli che cercano di ricucire la distanza tra di loro con un viaggio in India che fa seguito al lutto per la scomparsa del padre. Il tema della morte è al centro delle loro esperienze: non possono evitare il tragico incidente che uccide un bambino e non riescono a sottrarsi al suo funerale indù. Owen Wilson doppia la parte che aveva nel suo esordio in

Bottle Rocket: è il personaggio che cerca di tenere uniti i suoi familiari nonostante le diversità e l’ostilità reciproche abbiano tracciato un solco nei loro legami. Jason Schwartzman cerca sempre di scrivere un racconto sulla cerimonia e Adrien Brody è concentrato sui suoi problemi con la moglie: i due non seguono il suo entusiasmo e ne osteggiano il desiderio di riconciliazione. Il loro itinerario si conclude con la ricerca della consolazione materna ma scoprono che la madre è completamente immersa nella meditazione e nelle sue missioni filantropiche trattandoli ancora come bambini. Il cinema di Wes Anderson ruota sempre intorno al tema della morte, senza mai avere il coraggio di scendere in profondità: è significativo pensare che questo sarebbe potuto essere l’ultimo film di Owen Wilson. La coppia si era conosciuta all’Università di Austin mentre entrambi seguivano un corso di sceneggiatura e da quel momento in poi è diventata uno dei sodalizi creativi più influenti di tutto il cinema americano: Stavamo facendo un corso di scrittura insieme: eravamo in nove e tutti quanti sedevano intorno a un tavolo e discutevano di copioni. Io sedevo sempre in un angolo e non ero proprio sul tavolo mentre Owen stava sempre nell’altro angolo: così non ci siamo parlati per tutto il semestre. Poi ci siamo incontrati per caso in corridoio e da allora è nata la nostra amicizia e la nostra collaborazione.[16]

Finirono per diventare compagni di stanza, l’empatia è stata immediata e non limitata alle loro passioni comuni: i due hanno avuto simili esperienze. Entrambi figli di famiglie benestanti ed entrambi hanno due fratelli: Wes Anderson e Owen Wilson sono diventati parenti acquisiti delle rispettive famiglie. Le loro discussioni sul cinema fecero nascere presto l’ambizione di provare a fare un film: il cortometraggio Bottle Rocket è la loro prima esperienza e venne completamente auto-prodotto con i soldi dei rispettivi padri. Il breve esercizio arrivò fino al Sundance Film Festival e dopo qualche disavventura attirò l’attenzione di James L. Brooks e di Polly Platt. L’idea iniziale di Owen Wilson era quella di limitarsi alla scrittura ma alla fine si decise a fare la parte del protagonista: una scelta che avrebbe dato una svolta decisiva a tutta la sua carriera. È difficile stabilire chi abbia una parte preponderante nel lavoro di scrittura: la sopraggiunta notorietà come attore, il suo ingresso nel Frat Pack e i numerosi flirt che gli sono stati attribuiti potrebbero essere fuorvianti. Francamente non li ho mai visti lavorare insieme: erano una di quelle coppie che ti fanno

domandare “stanno veramente insieme?”. Facevano tutto tra di loro e ho l’impressione che entrambi tirassero fuori nomi, idee e ipotesi. Ma non posso dire come facevano e se non posso io probabilmente nessun altro può farlo.[17]

Il contributo di Owen Wilson all’umore dei film di Wes Anderson è decisivo e offre un numero imprecisato di riferimenti autobiografici: il regista non è mai stato cacciato dal college, ma l’attore era uno studente irrequieto ed era stato espulso dalla sua scuola proprio come capita a Jason Schwartzman in Rushmore. Il personaggio di Gene Hackman in The Royal Tenenbaum è modellato su suo padre, sulla sua personale considerazione dei figli e sul suo modo di metterli in competizione tra di loro. Mio padre aveva un amico che faceva la sua imitazione quando veniva a casa per Natale. Mio padre diceva: «Avete visto Andrew che segnava un touchdown? e Luke è straordinario!». Il suo amico domandava: «Dove sta Owen?». Mio padre rispondeva: «Non lo so, è qui da qualche parte...».[18]

I suoi personaggi nei film di Wes Anderson sono scritti su misura e riflettono il senso d’inadeguatezza che gli è stato inculcato. The Royal Tenenbaum è il film in cui i due hanno unito le loro relative esperienze domestiche e le hanno distillate nella storia di una famiglia scombinata che resiste alla forza centrifuga dei traumi. Owen Wilson è il ragazzo del quartiere che ha sempre voluto stare all’interno della casa senza mai sentirsi all’altezza: è diventato uno storico dell’epopea western ma la sua fama non è sufficiente a conquistare Gwyneth Paltrow e la frustrazione lo spinge sulla strada della droga e delle pulsioni autodistruttive. La scrittura è il mezzo con cui ha messo in gioco le sue angosce personali. Immagine

Wes Anderson è stato l’unico regista con cui condividere quest’onestà e la loro sintonia ha creato uno stile unico: Il nostro umorismo viene dalle insicurezze o dalla serietà. Con “serietà” voglio dire che non mi interessano gli scherzi o le persone che fanno le battute. Non sono mai andato a uno spettacolo comico. Credo che le cose divertenti stiano nella vita reale. Un sacco di cose che descrivo come divertenti in realtà sono molto tristi.[19]

Owen Wilson ha messo a segno degli incassi milionari e i suoi impegni come divo lo hanno allontanato dal gusto della sceneggiatura e dal suo vecchio compagno di giochi. Lo

stardom non ha sconfitto la sua scarsa fiducia in se stesso e non ha cancellato la sensazione di essere fuori contesto. Wes Anderson ha quindi dovuto ripiegare su dei nuovi partner come Noah Baumbach e Roman Coppola e l’attore ha sempre avuto il rimpianto di

non aver proseguito la sua attività iniziale: «Non penso mai ai film che vorrei interpretare ma a quelli che vorrei scrivere»[20]. I contatti tra i due sono rimasti frequenti e i copioni di Anderson continuano a prevedere la sua presenza, in fondo è un sistema di attrazione che Owen Wilson ha contribuito a stabilire. Le famiglie non si separano mai completamente e tutti prima o poi ritornano: l’attore ha infatti partecipato anche all’ultimo The Grand

Budapest Hotel.

       

PARTE SECONDA Le idee

FULL FRONTAL

di Sergio Sozzo Queste mele sembrano finte ma almeno hanno le stelline. Mr Fox

Wrong media, unquestionably. Lou Reed, Metal Machine Music

Dove guardano i personaggi di Wes Anderson quando guardano in macchina? Chi scrutano? È la sala cinematografica che scorgono, gli spettatori in poltrona che restituiscono loro il cenno d’intesa, o forse si rendono conto di essere chiusi nella scatola filmica come in Persona o I mille occhi del dottor Mabuse, e dunque davanti a loro non vi è che il riflesso stesso delle pareti dello schermo? A un secolo e passa dall’invenzione del cinematografo, il cinema di Wes Anderson è quello ancora maggiormente vicino a

The

great train robbery (Edwin Porter, 1903) a cui oggi possiamo pensare. La sua assoluta frontalità (il celebre sparo in camera del bandito in chiusura del film di Porter) funziona insieme sia come affermazione (“eccoci!”) che come ambiguità, perché pone la domanda delle domande: il cinema ci vede, ci ha scoperti? Immagine

La regola base di molte delle produzioni di Wes Anderson e soci, sin dagli albori, è sempre stata cherchez Roman Coppola, e quando finalmente lo abbiamo trovato, nel finale del suo bellissimo A glimpse inside the mind of Charles Swan III non poteva che essere in uno sguardo in macchina. Roman, che di mestiere gira soprattutto videoclip, è l’entità grigia (o meglio, qualche colore pastello) dietro agli ultimi film di Francis Ford, a tutti quelli della sorella Sofia, e a quelli di Wes da Darjeeling in poi. La vertigine in questo suo secondo exploit da regista è stata allora quella di vederlo riflesso, finalmente in scena ma restituitoci in uno specchio, nell’istante di maggiore sincerità con tutta probabilità mai lambito da tutto questo cinema. Punto d’arrivo di un complesso dolly in cui ogni attore si toglie la maschera del personaggio e dichiara il proprio nome al di fuori del gioco della finzione, questa inquadratura con cui Coppola si lascia intravedere dietro la macchina da presa è come se significasse finalmente un metterci la faccia, farsi davanti dopo aver passato dietro le quinte dei film degli altri, degli amici, quasi l’intera carriera. Dunque quando il cinema di Roman Coppola si guarda allo specchio, è Roman Coppola stesso che vede: il riflesso nascosto in tutti questi colorati coriandoli di stilizzazione pop, così conformativi di quest’intero immaginario condiviso, è uno sguardo di Roman catturato da uno specchio. È una dichiarazione importante.

Immagine

Soprattutto se rapportata a quella sublime, struggente definizione di cinema che Noah Baumbach, sceneggiatore con Anderson di Steve Zissou e Mr Fox, regista di culto (Il

calamaro e la balena, Il matrimonio di mia sorella, Greenberg), ma anche tra gli autori del blockbuster di animazione Madagascar 3, fa pronunciare a Greta Gerwig in uno dei momenti più intimi di tutto il suo ultimo Frances Ha: Quando ami qualcuno, e lui lo sa, e sei amato, e lo sai, ma sei a un party, e entrambi parlate con altre persone, e ridete, e rilucete, e a un certo punto cercando attraverso la stanza vi guardate negli occhi a distanza... Ma non è una cosa sessuale, possessiva, ma perché quella è la tua persona, in questa vita. Ed è bello e triste allo stesso tempo, perché questa vita finirà. Ma è quel mondo segreto che esiste proprio lì, in pubblico, di cui nessun altro si accorge o conosce nulla: quelle altre dimensioni che dicono si trovino tutto intorno a noi ma non riusciamo a percepire.

Frances Ha rappresenta d’altra parte il vero e definitivo punto di non ritorno di tutto questo carteggio per immagini, svelando una buona volta e per sempre i due debiti principali della generazione tutta, in maniera ancora più esplicita in confronto al gran corale di Effetto Notte riutilizzato da Wes Anderson in Fantastic Mr Fox: e parliamo chiaramente di Woody Allen, di cui il film di Baumbach è una sorta di Manhattan 2.0, e del cinema francese Nouvelle Vague e post (la citazione, in questo caso letterale, è pure discretamente raffinata, perché vede la protagonista correre per strada sino a sfiancarsi sul ritmo di

Modern Love di David Bowie, alla stregua di Denis Lavant in Mauvais Sang di Leos Carax...). A riprova di ciò, tutta la parabola di Frances è indirizzata alla consapevolezza di come ci si possa realizzare artisticamente alla sola condizione di mettere la totalità della propria esperienza in quello che si crea (nel suo caso, un irresistibile balletto di modern

dance che porta con sé riferimenti a tutte le disavventure affettive/esistenziali che le vediamo percorrere lungo il film), di raccontare il punto di partenza e quello di arrivo seppur camuffati, lasciati unicamente intendere nel proprio fragilissimo autobiografismo. Quando i personaggi di Baumbach guardano in macchina, vedono dall’altra parte la persona che appartiene loro, in questa vita, e il mondo segreto che le si cela dietro (quello che mischia insieme Allen e Carax...). Bene. Assumiamo allora adesso questo: che quando invece è il cinema di Wes Anderson a gettare uno sguardo al di là, l’unico orizzonte che gli si para davanti siano Roman Coppola e Noah Baumbach. E cioè: non esiste realtà al di fuori del cinema di Wes Anderson, o, meglio ancora, non esiste alcuna idea di realtà su cui il cinema di Wes Anderson si fondi, ma unicamente un universo chiuso di cui percepire i confini, gli angoli, le pareti, le cui fondamenta sono Baumbach e Coppola (un tempo Owen Wilson, ma su Owen ci torniamo

poi). Da qui, la confessione più sfacciata dell’intera filmografia andersoniana: Fantastic Mr

Fox. Non a caso, si tratta di tre film-ritratto, incentrati su figure altamente rappresentative dei tre autori che stiamo chiamando in causa: lo scrittore lisergico e fallito Charles Swan, con il volto strapazzato da Hollywood e dalla vita di Charlie Sheen; Greta Gerwig, alter ego femminile (intellettuale, umanamente fragilissima, stilisticamente alternativa...) e compagna nella vita di Noah Baumbach; e appunto Fox, la volpe furba e sempre generosa di bislacche trovate risolutive disegnata da Wes Anderson (un discorso più ampio al riguardo dovrebbe includere quantomeno anche la Maria Antoinette-Tempo delle mele reinventata da Sofia Coppola, e la disperata sceneggiatrice TV in felpa rosa con cappuccio messa in scena da Jason Reitman e Diablo Cody nel loro Young Adult). Ecco, Fantastic Mr Fox è probabilmente il testo più aperto, diretto e eloquente per comprendere in un unico film la poetica non soltanto di Wes Anderson e di Noah Baumbach, con cui è sceneggiato, ma dei suoi fedeli collaboratori, che in una veste o nell’altra sono tutti presenti nella squadra del film, anche se soltanto come doppiatori “di passaggio” dei pupazzi animati (l’opera, lo ricordiamo, è “di animazione”, e forse per questo i nostri vengono allo scoperto nascondendosi dietro alle marionette di peluche...): oltre agli attori ritornanti come Bill Murray o Jason Schwartzman, Mr Fox vede le apparizioni anche degli sceneggiatori seriali Owen Wilson e Roman Coppola, in piccoli ruoli. Il finale del film è la più esplicita dichiarazione programmatica dell’intera produzione andersoniana, e affini: costretti a reinventarsi una vita nascosti sottoterra per sfuggire alle grinfie dei perfidi padroni di fabbrica che vogliono sbarazzarsi per sempre dell’astuta volpe cleptomane, il gruppo familiare allargato del Signor Fox trova la salvezza sbucando da un tombino che porta agli androni di un enorme supermercato da svaligiare delle provviste durante la chiusura notturna. Anche se sotto il tetto industriale al neon di un enorme capannone asettico, tempio del consumismo liofilizzato, la banda di animali selvatici riuscirà a non morire. E allora Fox/Clooney brinda: “alla nostra sopravvivenza.” Che cosa rappresenti quel supermercato, è facile da comprendere, e allo stesso modo è decisamente lampante il senso della frase con cui Anderson e Baumbach chiudono

Fantastic Mr Fox. Immagine

Alla fine dei conti, questo cinema è disperatamente alla ricerca di uno sguardo per sopravvivere, e poco altro: il cinema sopravvive, come Frances, come Roman allo specchio, come le volpi nel supermercato, ma per farlo ha banalmente bisogno di uno sguardo che lo incroci, di una corrispondenza. L’uomo. Tornano alla mente le sublimi liner

notes con cui Lou Reed “spiegava” il folle esperimento di

Metal Machine Music, nel 1975:

Passione – REALISMO – realismo era la chiave. Gli album (i film?) erano lettere. Lettere reali da me a certe altre persone. Che non avevano e non hanno ancora in fondo, alcuna musica (nessun cinema?) da ascoltare.

Un ulteriore tassello: il behind the scenes di Fantastic Mr Fox mostra l’inusuale metodo adottato da Anderson per registrare le voci dei suoi personaggi animati. Il regista ha fatto interpretare fisicamente le scene dagli attori, lontani dalla classica saletta di montaggio, ma immersi nei set effettivi e impegnati nei gesti e nelle azioni reali dei rispettivi ruoli – registrandone le battute pronunciate in queste situazioni, Anderson è così riuscito a restituire alle voci dei pupazzi il realismo (l’affanno, il suono dei luoghi, i rumori del corpo) e la profondità percettiva che solitamente mancano ai freddi doppiaggi da studio. Un po’ come lo studio in cui Reed piazzò degli amplificatori per chitarra uno di fronte all’altro, mandandoli in feedback circolare e infinito, e così, nell’aria elettrificata di quella stanza, nacque la musica di Metal Machine Music. Immagine

Si tratta di una intuizione la cui benedetta ingenuità trasforma forse quel making of nel vero miglior film di Wes Anderson in carriera: è come se l’autore rivelasse così quanto per lui il cinema sia una stanza, una camera chiusa, un modellino dentro il quale infilare i propri attori-feticci, l’intera banda di collaboratori, insomma il fattore umano: e di quelle pareti si deve percepire l’eco, sentire la presenza, intuirne gli spazi e i movimenti d’aria. Ecco l’argomento che da solo smonta chi approccia il cinema di Anderson in maniera fortemente critica nei confronti di una poetica spicciola e basata su iconografie cicliche e ritornanti: la

forma è talmente dichiarata e innervata nella pratica da non poter risultare mai svilita nella formula (Simmetria, precisione matematica, accuratezza maniacale e dettagliata e il grande vantaggio che si ha dai più moderni compositori elettronici). Semplicemente, questo cinema si esplicita proprio nel non essere altro che un quadro, un’inquadratura frontale montata davanti allo spettatore, o davanti ad altre immagini che si specchiano tra di loro caleidoscopicamente, Anderson che vede Baumbach che vede Coppola come un

feedback dell’immaginario (il senso ultimo di Metal Machine Music era nel doppio album in sé, molto più che nei fischi amplificati spaccatimpani che conteneva). Ritorna così il parallelo con The Great Train Robbery, che gli storici indicano essere il primo esperimento nella storia del cinema di film concepito attraverso procedimenti di montaggio che cuciono insieme appunto “quadri” differenti della stessa storia, introducendo così anche la concezione di “inquadratura”, “campo” e “piano” (e molte delle sequenze girate da Porter somigliano davvero parecchio a frammenti di produzioni andersoniane...): ecco, si

può tranquillamente affermare che l’intera filmografia di Wes Anderson possa senza troppa difficoltà essere vista come un remake perenne e infinito di The Great Train Robbery, del 1903. Il celebre frammento con sparo frontale, per convenzione posto in chiusura del film, quello del cowboy che tira una pistolettata allo spettatore, com’è noto veniva fornito ai proiezionisti in un rullo a parte, in modo da lasciare ai tecnici delle sale la scelta di dove e in che modo utilizzarlo, in quale sezione del film, per alzare il pathos o spezzare la tensione: una libertà oggi inconcepibile per l’oggetto filmico così come viene inteso da un punto di vista produttivo/distributivo. E chi è quel bandito che spara, nel cinema di Wes Anderson? Qual è il corrispettivo di quello sguardo in macchina, nella pinacoteca frontale del cineasta? Non è nemmeno troppo difficile arrivare a considerare Owen Wilson come perfetto, al riguardo. La star del cinema comico/brillante Wilson (spesso in coppia con altri campioni come Ben Stiller o Vince Vaughn), sceneggiatore delle prime quattro sortite andersoniane

Bottle Rocket e a seguire Un colpo da dilettanti, Rushmore e I Tenenbaum) e fondamentale come corpo attoriale anche nei successivi Steve Zissou e Un treno per il Darjeeling (quest’ultimo scritto anche da Jason Schwartzman), di fatto assolve nel cinema (il corto

di Wes la funzione non solo di silhouette libera da poter piazzare con successo e funzionalità in qualunque istante, set o situazione (anche il trailer di Grand Budapest Hotel sembra confermare questa direzione), ma soprattutto è da sempre il motore affettivo più potente tra tutte le icone messe in scena dal teatrino del cineasta, nonché il veicolo prediletto da Anderson per creare un canale con il pubblico. In sostanza, Owen Wilson è l’uomo che percepiamo dentro, se non dietro, al quadro, come Keir Dullea nella stanza del tempo nel finale di Odissea nello spazio (in altra sede andrebbe effettivamente indagato il rapporto, a parere di chi scrive strettissimo, tra Wes Anderson e un certo Kubrick, per restare in vena di collegamenti bislacchi). Quando Owen Wilson guarda in macchina, è Wes Anderson che ci guarda: allo stesso tempo, tutto il cinema dell’autore può trovarsi racchiuso pienamente in uno sguardo di Owen Wilson, in uno qualunque dei suoi film. La mano di Lou Reed che sentiamo grattare sulle corde nei leggendari

Guitar Amp Tapes,

bootleg registrato direttamente dalla cassa della chitarra durante un’esibizione dei Velvet Underground del 1969 che in sostanza riporta solo il frastuono bestiale e sgrammaticato del jamming reediano, in pratica un Metal Machine Music involontario, white noise meccanico ancora però con tracce del passaggio dell’uomo. Poco altro da dire: di Roman Coppola, Noah Baumbach, Owen Wilson, Wes Anderson, restano soprattutto quei punti di fuga dalla camera-cinema che ogni tanto ci accorgiamo essere scorti dagli occhi dei loro personaggi – per un attimo, sembrano aver intuito cosa c’è dall’altra parte: la vita, l’amore, il tempo innanzitutto. Corrispondenze: per un certo tempo e

luogo della mente. È il solo lavoro registrato che conosca, intenzionato seriamente a

essere un dono, se così si può chiamare, da una parte di una certa testa a pochi altri. Alla maggior parte di voi non piacerà e non vi biasimo affatto. Non è pensato per voi (L. Reed).

TANA DELLE VOLPI

di Aldo Spiniello Immagine C’era una volta una volpe così poco astuta che non solo finiva di continuo nelle trappole, ma non era nemmeno in grado di distinguere una trappola da una non trappola. Questa volpe aveva anche un altro difetto. Qualcosa non andava nella sua pelliccia, così che le mancavano completamente le difese naturali contro le durezze di una vita da volpe. Dopo aver trascorso l’intera giovinezza vagabondando intorno alle trappole degli uomini, e quando ormai non le era, per così dire, rimasto un pelo di pelliccia intatto, questa volpe decise di ritirarsi completamente dal mondo delle volpi e di cominciare a costruirsi una tana. Nella sua spaventosa ignoranza di ciò che distingue una trappola da ciò che una trappola non è, nonostante la sua lunghissima esperienza con le trappole, giunse a un’idea assolutamente nuova, inaudita per le volpi: scelse di fare di una trappola la sua tana. Ci si infilò dentro, la spacciò per una tana normale – non per astuzia, ma perché aveva sempre scambiato le trappole degli altri con le loro tane – e decise quindi di farsi furba alla sua maniera: decise di trasformare la sua trappola – che andava bene solo per lei – in trappola per altre volpi. Dimostrando, anche in questo caso, una grande ignoranza in materia di trappole: nessuno poteva finire nella sua trappola, perché ci era seduta lei dentro. Tutto ciò la infastidì. D’altra parte, tutti sanno che, a dispetto della loro furbizia, tutte le volpi, di tanto in tanto, finiscono in una trappola. Perché mai una trappola per volpi – e specialmente quella costruita dalla volpe più esperta in trappole – non dovrebbe essere all’altezza delle trappole degli umani e dei cacciatori? Ma è ovvio: perché questa trappola non dava a vedere in maniera sufficientemente chiara che razza di trappola essa fosse! E così la nostra volpe finì per decorare elegantemente la sua trappola e vi appese ovunque dei grandi cartelli che dicevano apertamente: «Venite tutti; questa è una trappola, la trappola più bella del mondo». Da questo momento era chiaro che nessuna volpe sarebbe finita in questa trappola per sbaglio. E nondimeno molti ci finirono dentro, perché questa trappola era la tana della nostra volpe, e se qualcuno voleva farle visita, doveva cadere nella sua trappola. Tutti, tranne la nostra volpe, potevano, ovviamente, uscirne. Era fatta, letteralmente, a sua misura. Ma la volpe che viveva nella trappola disse fieramente: «Vengono così tanti a visitarmi nella mia trappola che sono diventata la migliore di tutte le volpi». E vi era indubbiamente del vero in ciò: nessuno conosce la natura delle trappole meglio di chi vi trascorre tutta la vita.[21]

Chissà se il giovane studente di filosofia Wes Anderson ha mai letto questo noto apologo di Hannah Arendt dedicato a Martin Heidegger... Di sicuro – da quanto sappiamo – lo ha letto il fantastico Mr. Fox, che, infatti, perde il pelo ma non il vizio e finisce per ritrovarsi assediato con parenti e amici nel bel mezzo della terra, per raggiungere solo alla fine una precaria libertà “comunitaria” nella gabbia dei consumi di un supermercato. Comunque, letto o non letto, poco importa. Fatto sta che, consciamente o inconsciamente, il buon Wes sembra proprio il classico tipo che, per sfuggire alle esche della trappola, finisce per costruirsi un’altra enorme trappola, al cui interno c’è tutto un congegno ben

orchestrato di trappole più piccole, che formano un circuito chiuso di blocchi e punti di fuga, piani d’evasione e impasse. Trappole formali e narrative, prospettive obbligate e racconti da manuale (di sceneggiatura), trappole che impongono ai personaggi un abito, una misura e un carattere. L’abito su misura. Cioè la divisa. E il Grand Budapest Hotel è perfetto. Una matrioska: una ragazzina che legge un libro di un signore che narra di quando, da giovane, un vecchio miliardario gli narrò una storia che gli era incorsa tanti anni prima. La storia c’è stata. È al passato, giustamente. Noi ricordiamo, raccontiamo, ascoltiamo o studiamo la storia. Ma tutti questi tempi presenti (ricordare, raccontare, ascoltare, studiare) non mettono mai in campo un rischio, un incontro, un’avventura. La “vita vissuta”. Appunto. Ora non si vive, si sta in trappola. Rintanati. Immagine

Il cinema è un sistema in cui tutti pezzi occupano il loro posto. Il cinema è sistemato. E per di più apparecchiato in una forma colorata e scintillante, che richiama gli sprovveduti come il canto delle sirene. Se ti avvicini sei fottuto. Una volta entrato nel fantastico mondo di Wes, sei risucchiato, anche tu in trappola in quel gioco di rimandi, rinvii, in quella specie di spazio ridotto, che pare sempre essere preso in sezione, come l’interno a vista di un modellino componibile pronto a chiudersi e a esser messo a posto. Certo, tu puoi uscirne, cambiare film, cambiare regista, sala, cinema, interesse, vita, paese. Ma il povero Wes no. È condannato a starsene con i suoi soldatini e i suoi concierge, a trastullarsi con le navi giocattolo, le casette, i teatrini. Solo nella stanza dei giochi, con la sua casa di bambola (e chissà che il mio riferimento a Ibsen non abbia un senso inconscio, si tratta pur sempre di drammi familiari, d’interni immobili sorpresi dal movimento del tempo; ma sto sovrastrutturando). Wes è solo. Fa entrare i suoi amici ogni tanto, per inventarsi qualche bel gioco di ruolo. Ma poi torna solo. È come un bambino che viene parcheggiato dai genitori al sicuro di un box pieno di pupazzi e mostri. E il bambino si rifiuta di uscire perché ha paura, ha il terrore di cambiare. È arrabbiato. Probabilmente se avessero dato al piccolo Wes un bel tamburo di latta, avrebbe persino smesso di crescere. Gli hanno dato una macchina da presa, invece. E, allora, ha obbligato i suoi film a non crescere, a starsene tranquilli nei confini sicuri di una struttura, di un’iconografia, di un immaginario. Ha scoperto, dietro l’obiettivo, un punto di vista privilegiato da cui poter guardare gli altri vivere e cambiare, ma sempre nei limiti prestabiliti dalla sua immaginazione e dalla fabula. Osservarli, tra l’altro, da un punto fisso, rimanendo fermo, fedele a una prospettiva che mette tutto in quadro, ben al centro e di fronte a sé. Non sarà certo un caso che la geografia dei film di Anderson è costellata di hotel: l’albergo in cui vive Royal Tenenbaum, l’Hotel Chevalier, il Grand Budapest Hotel. Sono i luoghi dove tutti passano, si fermano per un po’ e poi vanno via. E visto dalla

prospettiva del concierge o del lobby boy, di quelli che nell’albergo hanno in un modo o nell’altro scelto di viverci, tutto questo passaggio deve davvero apparire come un’incredibile giostra, più o meno ronde. E, certo, più si vede gente passare, scomparire nel volgere delle stagioni, più si prova l’orgoglio della propria fedeltà al luogo e alla divisa. Ma anche la disperazione. E così ogni immagine diventa la proiezione ortogonale della paura e della solitudine. Detesto il provvisorio, conosco bene la vita, so che tutti sempre tradiscono tutti, ma tra di noi sarà diverso. Noi saremo un esempio, non ci lasceremo mai neppure per un’ora. Io non lavoro, non ho impegni nella vita, lei sarà la mia unica preoccupazione. Io capisco che tutto questo è troppo improvviso perché dica subito di sì e che prima voglia rompere dei vincoli provvisori che la legano a delle persone provvisorie. Ma io sono definitivo. Sono molto felice.

Baci rubati. Non siamo certo noi a scoprire il legame profondo che unisce Wes Anderson a François Truffaut, un altro abituato a starsene da solo nella stanza dei giochi. Quell’ossessione per la precarietà delle cose e degli affetti, la morte, la volontà di un cinema che abbia il valore di un esorcismo. È lo stesso Anderson a mostrarsi con gli anni in tasca e ad ammettere il suo debito. E per di più, pare ci sia un recente, piccolo, bislacco film inglese che ricostruisce con precisione filologica questo legame: Submarine di Richard Ayoade. Adolescenti andersoniani che fanno i quattrocento colpi. Ma l’inquietudine di Doinel e dei personaggi di Truffaut è ben diversa dalla malinconia di quelli di Anderson. Così come l’incertezza che si dipinge sul volto dei primi assomiglia poco alla determinazione quasi incosciente che anima i secondi. Il fatto è che in Truffaut è ben vivo il lato opposto della paura, il desiderio. E questo agita i cuori, accende passioni, scopre una carnalità e una sensualità sconosciute e finisce per aprire anche il cinema alla concretezza e alla casualità della vita. In Anderson il desiderio sembra essere completamente assorbito dalla seria applicazione delle regole del gioco, è come sublimato nella dimensione artificiale di quei mondi chiusi, nel tempo e nel luogo sospeso della favola. E perciò se in Truffaut il giocattolo si rompe e l’esorcismo quasi mai funziona, in Anderson tutto è bene quel che finisce bene. Almeno sembra. – Ash, so cosa significhi sentirsi diversi. – Ma io non sono diverso, non è vero? – Lo siamo tutti, soprattutto lui, ma in questo c’è qualcosa di fantastico, non ti pare?

Se c’è qualcosa che salva i film di Wes Anderson dalla disperazione del fallimento, è la convinzione della possibilità di un’altra famiglia, ridefinita secondo regole e legami diversi da quelli su cui si è prodotta la maledetta ferita originaria. Proprio quella ferita che Truffaut non è mai riuscito a superare del tutto: per lui, comunque, “les enfants s’ennuient le

dimanche”. Anche per Wes, les enfants si annoiano. Ma stanno al gioco. Lo tirano avanti, anche se lo contestano. Fuga e accettazione. Immagine

Non è un caso che i padri, reali o putativi, dei film di Anderson non siano mai “belle persone”, modelli di virtù, che stanno a garanzia e difesa della comunità. Royal Tenenbaum, Steve Zissou, il fantastico Mr. Fox, lo stesso M. Gustave del Grand Budapest Hotel, tutore morale del lobby boy. Sono, in fondo, dei figli di puttana, capaci di barare nel modo più spudorato. Sono dei cialtroni incontenibili, degli egocentrici sentimentali che si danno un bel po’ da fare per alimentare le nevrosi e le insicurezze degli altri. Cinici nei confronti dei più deboli e ciecamente autoindulgenti, quando si tratta di fare i conti con le proprie debolezze. Nessun senso di colpa. Nel migliore dei casi sono dei depressi catatonici, come Walt Bishop. Ma, comunque sia, questi padri non “tengono”, non reggono le fila del gruppo. Anzi, lo mandano in malora. Epperò, al tempo stesso, sono dotati di una vitalità imprevista, di un’ostinazione da fuorilegge, capace di trascinare gli altri fuori dagli schemi della normalità, dalla fissità dei loro ruoli, di gettarli nella splendida illusione dell’avventura. Rimettono in movimento tutto. Anche, semplicemente, morendo. E se tutti orchestrano piani d’evasione, quelli architettati dai padri sono i più fantastici e rocamboleschi. «Adesso dobbiamo scavare in una direzione ben precisa». Vista dal punto di vista dei figli, questa famiglia “patriarcale” è la trappola da cui scappare. Ma è proprio quella stessa trappola a offrir loro le vie d’uscita, a caricare a molla dei precisi e segreti percorsi di fuga. Evasioni che si risolvono, sempre e comunque, all’interno della famiglia. In un gioco infinito di separazioni, fratture, ricomposizioni e riunioni. I mondi chiusi di Wes Anderson contengono, allora, già in sé i meccanismi di movimento. Funzionano come degli automi, delle giostre, che, seppur non sembrano modificare il proprio aspetto esteriore, si riassestano sugli equilibri ogni volta diversi dei singoli componenti. È la realizzazione di un’utopia: ammettere la possibilità del tempo e del cambiamento, della crisi, ma sempre all’interno di una forma precisa, immobile, certa. Per questo la morte, sempre presente, non è mai l’evento fondamentale, lo spartiacque decisivo tra il prima e il dopo. È un momento normale, e perciò profondamente amorale, del movimento dell’organismo. Il tempo si risolve in variazioni sottili dello spazio, nello spazio. Bisognerebbe davvero chiedere a Steve Zissou cosa ha provato, quando è scoppiato a piangere all’apparire dello squalo giaguaro. Ha pensato allo sfortunato Ned Plimpton, il figlio appena ritrovato e scomparso per uno stupido incidente? O, magari, ha ricordato il fedele compagno Esteban, vittima proprio di quel maledetto e irraggiungibile squalo? Probabilmente,

sono

vere

entrambe

le

cose.

O,

molto

più

semplicemente,

immediatamente, ha pianto perché ha infine raggiunto quel mostro a cui ha dato la caccia per anni e ha visto, in un attimo, compiersi un intero percorso, il tempo di una vita. E, come è giusto che sia, non può far altro che lasciare andare lo squalo o il tempo, lasciarsi andare agli affetti, ai ricordi, ai grumi di dolore e agli appigli di speranza. Ned ed Esteban sono una parte di quel percorso. Così come la moglie Eleanor, l’affascinante Jane, il devoto Klaus. Nel fondo degli abissi, tutto torna a galla. E il quadro si completa, come se la cornice fosse già lì bell’e pronta e non mancasse altro che la tela. La famiglia, se davvero ce n’è una, si ricompone nell’unicità di ogni istante. È quel luogo strano, patologico eccezionale, che, proprio per questo, riesce ad accogliere tutte le eccezioni, tutte le diversità possibili e immaginabili. Esattamente come dice Mrs. Fox al piccolo Ash, la “pecora nera”. È il luogo in cui ognuno mantiene ancora la propria divisa, quella di cui parlavamo all’inizio, quella da cui non ci si può staccare, ma che qui, finalmente, può, più o meno comodamente, convivere con quella degli altri. La famiglia con-divisa. È un sistema, una formazione, una squadra, il compimento del percorso. E non è una questione di sangue, è una questione di vissuti, di incontri, di legami che s’intrecciano nell’invisibilità delle storie personali, ben aldilà del tempo speso insieme. Dello stesso tempo che Anderson spende per raccontare i personaggi. Se ne I Tenenbaum c’è ancora il bisogno di parlare di ognuno di loro, di costruire una storia, un passato e una prospettiva per ciascuno, a poco a poco questa necessità verrà meno. Perché Anderson si rende infine conto del dono di cui è dotato. Di riuscire a delineare un personaggio semplicemente attraverso la forza suggestiva di una caratterizzazione, l’esteriorità dell’aspetto, dell’abbigliamento, degli atteggiamenti. Dietro il carattere, la storia s’intuisce. Cosicché il tipo prende corpo e si trasforma in persona. Se di Ned conosciamo la natura dei suoi legami con Steve Zissou, per quel po’ che ci raccontano loro due, padre e figlio, di Esteban non sappiamo davvero nulla, a parte la morte. Eppure basta vedere la pelata di Seymour Cassel, per comprendere che razza di avventure possa aver vissuto. E quali siano i motivi che lo legano alla personalità straordinaria, fuori dall’ordinario, di Zissou. In

The Grand Budapest Hotel arriviamo all’estremo: un turbine di personaggi che appaiono e scompaiono nell’arco di una scena e che pure lasciano una traccia, memoria di sé, di quello che sono, di quello che sono stati, di quello che avrebbero potuto essere. Immagine

Ma allora è chiaro: perché avvenga questa rivelazione oltre il racconto, oltre il detto, è necessario che i personaggi si manifestino in un altro modo. Attraversano l’incarnazione in un corpo, in un volto, che porti con sé tutta la sua storia. Reale o immaginaria. Di vita o di cinema. E qui si arriva alla più grande abilità di Wes Anderson. A quella sua capacità di coinvolgere nel proprio gioco, film dopo film, senza fatica, tutta una serie di attori e attrici

che ben sanno che lì dentro possono trovare, naturalmente, il proprio ruolo, mantenere la propria divisa. E perciò possono parlare di sé semplicemente con la loro presenza. Del concierge M. Ivan non sappiamo nulla. Ma basta vedere Bill Murray, perché si sappia tutto di lui, perché riappaia e prenda senso ogni altra presenza, ogni apparizione da I

Tenenbaum a oggi. Ma anche quando compare Mathieu Amalric non c’è bisogno d’altro. Perché la giostra dei rimandi si allarga all’infinito, a tutta la storia del cinema possibile e immaginabile. È questo il gioco più grande, quello che permette ad Anderson di essere a un tempo l’ultimo erede di sogni cassavetesiani, suggestioni hustoniane, saghe (roman)coppoliane, libertà Nouvelle Vague, affiliazioni Frat Pack. La famiglia del cinema si materializza come la trappola più bella del mondo. Quella che contiene in sé tutte le altre e in cui tutto si muove. Quella che attira con gli arcani incantamenti delle memorie, delle passioni, delle visioni, delle notti insonni. «Vengono così tanti a visitarmi nella mia trappola che sono diventata la migliore di tutte le volpi.» Ma non è detto che sia un male. Non è detto che una trappola non sia la nostra migliore aspirazione. La nostra tana.

LA MORTE, LA FUGA, L’AMORE Le regole nel cinema, l’evasione dei sentimenti

di Pietro Masciullo Io creo regole in maniera ossessiva. Ho regole strane, inutili. Pretendo che i film siano quasi come la matematica. Ma solo per quanto riguarda gli aspetti che hanno a che vedere con la mdp, i tagli, il modo in cui viene usata la musica e cose del genere, non quando si tratta dell’interpretazione. Wes Anderson Immagine Premessa: la gabbia

Forse ha già detto tutto Wes Anderson in questa sua breve riflessione. Sintesi rara e illuminante che centra in pieno il cuore del suo cinema, gli interrogativi o i dibattiti critici che alimenta, i fraintendimenti o le vie di fuga che presuppone. Ragioniamo. La palese tensione alla musealizzazione degli spazi e alla sovrabbondanza enciclopedica delle informazioni viene costantemente (e ironicamente) palesata come incipit di ogni suo film: gli schemi per il colpo perfetto di Dignan in Bootle Rocket; la descrizione delle tante attività di Max Fisher in Rushmore; il narratore onnisciente che anticipa l’inquadratura e ci introduce nel passato de I Tenenbaum; la perlustrazione della nave Belafonte “mondo” acquatico di Steve

Zissou; la presentazione dei tre nemici umani di Fantastic Mr. Fox; infine le variazioni orchestrali di Benjamin Britten che ascoltano i fratellini di Suzy in Moonrise Kingdom. Anderson investe lo spettatore con i ragionati movimenti ortogonali della sua mdp, le didascalie dal gusto letterario e la fanciullesca predisposizione a invetariare vite e sentimenti delle persone che crea. Istituisce, insomma, un mondo chiuso da cui partire: una solida “Rushmore Academy” dalla quale si fa fatica a evadere per paura di crescere, creare autonomo movimento, rompere le prospettive blindate di un occhio obiettivo. Succede, però, che i piani perfetti e dettagliati dei suoi personaggi (spesso quelli interpretati da Owen Wilson) continuino a fallire, ad arenarsi al primo detour, a deviare verso nuovi orizzonti imprevisti figli della pura contingenza: nessun percorso rispetta i presupposti, persino il treno per il Darjeeling si perde nel deserto, «ma come è possibile che un treno si perda? Viaggia su rotaie!» dice incredulo Jack Withman/Jason Schwartzman. Si smarriscono le coordinate, pertanto, inseguendo i sentimenti sperimentati

hic et nunc da attori/personaggi che popolano quest’universo parallelo: le regole e la matematica, dice appunto Wes, “non devono interferire mai con l’interpretazione”. E parlando di quello che considera il suo film preferito, Gli anni in tasca di François Truffaut,

si sofferma su un aspetto che lo accomuna intimamente al metodo del grande cineasta francese: C’è un aspetto di questo film verso il quale sento un’affinità totale, si tratta della libertà degli attori. Tranne in quei casi strani in cui faccio piegare gli attori per farli restare nell’inquadratura, quando gli attori recitano una scena, cerco di girarla in modo che siano quanto più possibile liberi. È questo il punto di incrocio con Gli anni in tasca. Magari i miei attori devono stare attenti alle posizioni, ma davanti a loro non trovano troppi ostacoli che gli impediscono di fare quello che vogliono.[22]

Immagine

Il che vuol dire, letteralmente: costruire una gabbia blindata, ma incoraggiare costantemente gli interpreti a evadere da essa. Come fa lo struggente Walt Bishop di Bill Murray in Moonrise Kingdom, che fende costantemente in diagonale la perfetta composizione andersoniana sporcandola e instillando il movimento sentimentale nel quadro superficiale. Murray (che porta qui al limite estremo il carattere del coniuge depresso inaugurato con Henry Blume in Rushmore, portato avanti con il Raleigh de I

Tenenbaum e con Steve Zissou) evade nel fuoricampo come fosse il pinguino solitario di Werner Herzog in Encounters at the End of the World, perdendosi all’orizzonte, alla ricerca di una figlia (s)fuggita precedentemente da quella stessa inquadratura. Anderson radicalizza innanzitutto la tensione pittorico/figurativa delle sue composizioni, ma nello stesso tempo si dimostra perfettamente consapevole delle potenzialità del Cinema di presupporre un fuoricampo che sfidi e inabissi quella stessa tensione, attraverso la «la non coincidenza di due visibilità, o di due rapporti fra il visibile e il movimento, con gli aggiustamenti d’inquadratura e i movimenti aberranti imposti da un personaggio che, pur conformandosi a una sceneggiatura fondata sul perseguimento di fini, la fa nel contempo deragliare»[23]. Ed è per questo che il regista concede assoluta libertà scenica ed emotiva ai suoi attori(co)autori fornendogli ogni appiglio “narrativo” per evadere. Pertanto: proviamo a indagare nel merito queste fughe e questi appigli, sfruttando varie suggestioni, un po’ come le spericolate

variazioni sul tema di Purcell operate da

Benjamin Britten. La morte, la fuga…

Bootle Rocket (1996) inizia con la fine di un percorso: il post depressione di Anthony (Luke Wilson), la sua sofferta asocialità e la fatale diversità sentimentale. «Sono stato male, sono diventato pazzo». La prima sequenza del primo lungometraggio di Wes Anderson è già una messa in scena che nasconde un sentimento: Anthony fa finta di evadere dalla sua

stanza d’ospedale per dar soddisfazione e coraggio all’amico Dignan (Owen Wilson), altrettanto introverso e in difficoltà, che ha organizzano il fanciullesco piano d’evasione. Anthony saluta il suo medico e giustifica la bizzarra fuga ospedaliera con la frase: «Non potevo dirglielo, guardi anche lei, guardi com’è contento». Tutto il cinema successivo di Anderson può essere confinato in questa originaria presa di coscienza: una prima

evasione che segna i confini di un mondo dove la malattia e la morte incombente (anche del cinema?) si possono imbrigliare solo con piccoli e folli atti di condivisione affettiva. Stessa diversità che sente sulla propria pelle il quindicenne Max Fisher, che ha creato un universo chiuso e impermeabile nel perimetro della scuola Rushmore lottando perché nessun agente esterno interferisca: «bisogna trovare qualcosa che si ama e farlo per tutta la vita: per me è andare alla Rushmore». Il movimento bloccato e ossessivo di Max viene specularmente configurato dalle inquadrature del film che saturano il suo mondo e il nostro occhio di spettatore. Non c’è Mondo oltre la Scuola, almeno sino alla piccola rivoluzione sentimentale (l’amicizia per Herman Blume e l’amore per l’insegnate Rosemary Cross) che investe Max e rompe la composizione perfettamente bilanciata. Wes Anderson inaugura qui una fertilissima tensione che rimarrà latente per ogni sua opera a venire: la presenza incombente della “morte” posta nel passato, interfacciata all’incontro amoroso che impone un presente. Nel passato di Max Fisher, Hermen Blume e Rosemary Cross c’è l’esperienza diretta della morte: la madre di Max, i compagni di Herman in Vietnam, il marito di Rosemary. Ed è proprio questo fuoricampo che preme facendo collidere i destini dei tre personaggi: prima Max e poi Herman si innamorano di Rosemary, entrano in competizione, creano “movimento” emotivo e oltrepassano i confini della Rushmore (Max verrà addirittura espulso) ri-figurando ogni coordinata del loro mondo. La pièce teatrale scritta da Max che chiude il film è solo apparentemente un divertente pastiche metacinematografico – viene preparata con l’acquisto della dinamite citando Heat di Michael Mann; il plot è mutuato da

Apocalypse Now e Full Metal Jacket; i costumi da Platoon – ma in realtà ridiscute ogni dinamica interna a Rushmore segnando un’intima crescita: è dedicata alla memoria della madre di Max ma anche al defunto marito di Rosemary; è ambientata nel Vietnam dove probabilmente si è originata la forte depressione di Herman; avrà un Happy End, in controtendenza ai film di Coppola e Kubrick, che segnerà il nuovo amore di Max per la compagna “vietnamita” Margaret Yang. Il successo della pièce, insomma, non deriva più da un immaginario serigrafato e bloccato, ma da un’intima esperienza sublimata in immaginario comune. Nel presente. Immagine

Questa “fuga sentimentale” muoverà anche ogni personaggio della famiglia Tenenbaum. L’adolescenza gloriosa e perfetta dei giovani prodigi si rompe con la separazione del

nucleo familiare, originando la depressione che attanaglia tutti e tre i figli e li porta a comportamenti ossessivi (Chas), disturbi emotivi (Margot), allontanamento dal mondo (Richie). Il passato è di nuovo costellato dalla morte (la moglie di Chas) che torna a essere incombente (la messa in scena di Royal prima, la sua dipartita reale poi). Il celeberrimo incipit del film è la configurazione più cristallina del metodo Anderson: il mondo si costruisce sotto i nostri occhi guidati da un regista demiurgo che forza spazi e tempi scenici e impone il suo sguardo. Ogni personaggio è schiavo della propria maschera – il cortocircuito attore/trucco è messo in evidenza volutamente già nei titoli di testa – e il film sarà un lento percorso di spoliazione da quelle maschere (attra)verso l’esperienza del sentimento. Tutti i personaggi vengono preventivamente identificati come produttori di immagini, bloccate però in un freeze frame: i drammi teatrali di Margot, le riviste sportive che ritraggono Richie, il libro sulla vita dei tre prodigi scritto dalla madre Etheline, le pubblicazioni psicanalitiche di Raleigh, i libri western di Eli Cash e persino il saggio del commercialista Henry Sherman. Questo “stallo” dei personaggi viene improvvisamente messo in abisso dall’unica immagine non prodotta in serie: il malinconico e amorevole sguardo di Margot ritratto nei disegni di Richie, che dipinge dall’infanzia un unico soggetto ripetuto, ossessivo, totalizzante. L’amore. Il volto triste e dolce della sua amata sorella adottiva, l’unica immagine che riconquista un referente certo e presuppone uno sguardo soggettivo. Il tentato suicidio di Richie ridiscute ogni equilibrio della famiglia facendo venire a galla ogni trauma represso: Richie evade dall’ospedale (ancora Luke Wilson, ancora un’evasione ospedaliera come Anthony, continue rime interne nel vasto mosaico andersoniano) e torna a casa sotto le note di

Fly di Nick Drake: Please give me a second

grace... Richie sale le scale, entra nella sua stanza di bambino, si avvicina alla vecchia tenda scout e ascolta la voce di Margot dall’interno che chiede: «chi è?». Il ragazzo però non si dirige subito verso la donna amata, i suoi occhi sono rapiti da qualcos’altro, dal suo ultimo dipinto, ennesimo ritratto di lei, ancora posto sul cavalletto. Anderson stacca sull’intera parete del salone ripresa con una carrellata che svela i tantissimi quadri (immagini tutte uguali ma tutte diverse: pezzi unici che presuppongono uno sguardo) e il movimento della macchina da presa s’interrompe in corrispondenza di un improvviso cambiamento di focale che mette a fuoco solo l’ultimo ritratto di Margot. Richie entra in campo da sinistra (una sgrammaticatura evidente, che “rompe” la composizione perfetta), prende la tela tra le mani e la pone di fronte ai suoi occhi. Non si dirige subito da Margot pertanto, ma verso l’immagine dipinta dall’amore, verso l’Io Ideale: immagine imperfetta, fanciulla e nuova a cui approdare dopo il dolore, ... please give me a second face. Ne I Tenenbaum, insomma, la regia forza dapprima tempi e spazi scenici per poi far deragliare ogni presupposto inseguendo i sentimenti dei personaggi/attori: al movimento centripeto dell’inquadratura si contrapporre un forte e incontrollato movimento centrifugo

che investe lo spettatore e ridiscute gli statuti del (suo) cinema. Immagine

Da questo punto di vista Le avventure acquatiche di Steve Zissou è l’opera dello svelamento. Il film inizia in un teatro italiano, nel paese immaginario di Loquasto, dove si proietta la prima parte del documentario firmato da un bizzarro oceanografo ispirato alla figura di Jaques Costeau: Adventure No. 12: “The Jaguar Shark” (part 1). Sia gli spettatori diegetici sia noi spettatori del film assistiamo a un evento di morte, il decesso del decano marinaio Esteban Du Plantier mangiato vivo dal feroce squalo giaguaro che ora Steve Zissou promette di uccidere solo per vendetta. Ancora una volta, pertanto, nel passato dei personaggi preme la morte. Il protagonista è ovviamente interpretato da Bill Murray, che nell’universo andersoniano occupa da sempre il controcampo filosofico di Owen Wilson: se quest’ultimo organizza piani perfetti e cerca di prevedere ogni movimento, il primo è invece il costante detonatore del caos originando i sovrabbondanti falsi raccordi. Wes Anderson sporca il suo quadro d’insieme con primi piani insistiti di Murray, esaltando lo straniamento derivante dalla sua forte carica iconica (che oscilla dai ruoli comici stile

S.N.L. anni ’80,

contrapposti alla malinconia del post Lost in Translation) e ponendo in tal modo in abisso ogni apparente saturazione dell’immagine. In perfetto stile Anderson la configurazione rigorosamente ortogonale del profilmico (l’iniziale presentazione della nave Belafonte) viene sabotata dall’interno da personaggi che imponendo progressivamente la loro umanità imperfetta rompono le geometrie: «affrontiamo l’imprevisto e lo filmiamo, questa è tutta l’idea» dice Steve alla moglie Eleanor. Lo stesso Zissou è un regista che fonde perennemente la sua vita privata con lo spettacolo che produce: impone il figlio Ned che ha appena scoperto di avere come membro dell’equipaggio; accoglie nel nuovo docu-film che sta girando l’evento della sua sofferta paternità; infine monta momento per momento la pellicola filmando la morte di Esteban e Ned, l’amore per la giornalista Jane e il perdono finale per lo squalo giaguaro. Ed è in quest’ultima sequenza che Steve ribalta di netto il suo statuto di “regista” diventando spettatore della sua ossessione e del suo desiderio: l’intero equipaggio è confinato in un luogo chiuso, con postazioni studiate per salvaguardare la visione puntata su un vetro/schermo che proietta lo spettacolo, ossia lo squalo giaguaro che sta per arrivare. La metafora della Sala e del Cinema è sin troppo manifesta. Steve/spettatore scoppia a piangere perché è finalmente nudo emotivamente e solo ora accantona del tutto il piano di morte che doveva chiudere la sua sceneggiatura: lo squalo giaguaro è perdonato, gli si concede la vita, l’estasi dell’incontro sentimentale fa deragliare ogni presupposto. Si assiste così allo svelamento palese del meccanismo: l’ipertrofia visiva e ossessiva del regista demiurgo (Steve/Wes), aprendosi costantemente al contatto umano ridiscute le dinamiche interne dello sguardo e delega all’universo emotivo dei suoi

spettatori ogni movimento. Immagine

Se Zissou svela il meccanismo, The Darjeeling Limited lo radicalizza sino al suo totale ribaltamento. Il film è innanzitutto consapevole del passato di uno dei tre fratelli Whitman, il cortometraggio

Hotel Chevalier, che viene espunto dal testo principale e proposto come

propedeutico per la visione. Il passato è ancora segnato dalla morte: è morto il padre dei fratelli e Francis (Owen Wilson) ha tentato il suicidio, ne porta ancora i chiari segni sul volto. Tutto questo strutturato materiale narrativo (il tramonto dell’amore di Jack in Hotel

Chevalier, la morte del padre, il tentato suicidio di Francis, l’imminente paternità di Peter ecc.) è un tipico film à la Wes Anderson (molto simile negli assunti a I Tenenbaum) che non verrà mai compreso nella diegesi ma confinato nel cortometraggio e nel racconto che Jack Withman sta scrivendo. «I miei personaggi sono immaginari» continua a dire Jack del proprio

racconto

palesemente

autobiografico.

In

Darjeeling,

pertanto,

si

va

istantaneamente “oltre la casa”, oltre lo stallo, per intraprendere un movimento totalmente fine a se stesso: una traversata nel deserto tesa a «un viaggio spirituale attraverso l’ignoto» come dice Francis. L’itinerario plastificato che Owen Wilson propone viene istantaneamente disatteso e sabotato, si scenderà dal treno per incontrare di nuovo la morte, quella di un ragazzino indiano, evento che schiuderà il ricordo/trauma del funerale paterno con un flashback che (ir)rompe in un falso raccordo. Darjeeling è anche il film dove l’apparato iconografico di Wes Anderson (rallenti, fotografia satura ecc.) entra in netta collisione con una narrazione che procede ormai per accumulo e sfrangia definitivamente ogni traccia di arco di trasformazione classico. Il film gira letteralmente a vuoto e si regge solo sulle piccole prese di coscienza sentimentali dei tre fratelli che sfuggono dal loro passato – ossia dal vero film à la Wes Anderson che è Hotel Chevalier – per ricostruire nuove coordinate. Tensione evidenziata dall’esplosione dei segni che rimandano agli altri film: il misterioso Bill Murray che perde il treno nella prima sequenza (il padre? Ancora Steve Zissou?); Owen Wilson che dice bugie e propone piani infallibili come in Bootle

Rocket; l’amore impossibile di Jack che viene trasformato in racconto come per Max in Rushmore; il padre morto come Royal Tenembaum; il tentato suicidio come Richie ecc. Il presente, allora, non può che essere la ricerca di una madre, per la prima volta nel cinema di Anderson in perenne ricerca dei padri. Una Madre edipica e arcaica nel contempo (la natura, il Tibet, la tigre che mangia uomini nel convento, simbolismi elementari abbastanza evidenti) che una volta trovata – ed è ancora Angelica Huston… – dice semplicemente ai suoi figli: «Sì, il passato è esistito. Ma il passato è passato». «Non per noi» replica Francis. Insomma se Il treno per il Darjeeling configura il dopo storia di Wes Anderson: non resta che tuffarsi nella stop motion di Fantastic Mr. Fox per ritrovare

una Famiglia, dei personaggi, un happy end. ... L’amore Immagine

Dopo la morte, dopo la fuga, dopo il cinema, rimane solo l’amore. Quello di Anthony per la bella cameriera peruviana Inez, che scioglie barriere culturali e personali; quello di Max per l’insegnate Rosemary che ha la forza di superare le ossessioni e trasformarsi in Spettacolo; quello struggente di Richie per Margot che sfida ogni “convenzione” familiare, sociale o filmica per essere riconosciuto oltrepassando la morte; quello di Jack Whitman per Natalie Portman che lo fa emigrare in Francia e poi ai confini dell’immaginario cinematografico occidentale, l’India, solo per dimenticare. Pertanto: dopo il mondo liminale della stop motion di Mr. Fox, non si poteva che ripartire da un Moonrise Kingdom, l’amore

primo, l’evento, l’incontro tra due fanciulli che si riconoscono nell’alterità e si accettano nelle differenze. «Io ti amo, ma tu non sai di che stai parlando», dice Sam a Suzy quando manifesta il desiderio di essere orfana. Si accettano incondizionatamente i due dodicenni, senza esitazione, perché «nel carattere saturo e pieno delle situazioni, nelle pratiche e nei discorsi che le regolano, nei valori, negli obiettivi, nei progetti che le segnano, può accadere qualcosa di contingente, aleatorio, infondato, che le eccede e le oltrepassa: un incontro che apre una necessità che chiede fedeltà e implica coraggio: cioè un evento»[24]. Il cinema di Anderson evoca immediatamente se stesso (le variazioni su tema di Purcell associate alla geometria del visibile) per evadere subito nella soggettiva di Suzy che oltrepassa la (sua) casa. Questo è il film del continuo guardare oltre, anche con un binocolo «che faccia vedere le cose più vicine», superando i propri limiti, sì, perché qualcosa è avvenuto, come spiega il piccolo orfano Sam al comprensivo poliziotto Bruce Willis: «Sapevamo che vi sareste preoccupati, ma siamo fuggiti lo stesso. Perché quando ci siamo incontrati ci è successo qualcosa». La

naissance de l’amour: L’incontro inatteso dell’amore, la sua venuta o avvento, è essenziale proprio perché spezza lo stato di abbandono. Amare, all’improvviso, non è tanto provare un certo sentimento o un’emozione, un affetto, quanto incontrare un altro, conoscere l’alterità e la differenza, e a partire da lì ripensare tutto, iniziare a esistere (l’eroe indifferenziato non è niente). Almomento della nascita dell’amore l’uomo è colui il cui esistere, senza cambiare, tuttavia è cambiato, e solo un incontro non meritato, non intenzionale, ha potuto permetterlo.[25]

Sam-e-Suzy. Si incontrano, fuggono e impongono agli adulti il loro movimento. Una radicale contingenza del sentimento che «si sottrae a una logica delle cause e apre a una

dinamica degli effetti»[26] liberando il nostro sguardo di spettatori che vola alle partie de

campagne di Jean Renoir e ai Doinel di François Truffaut, alle rabbie giovani di Terrence Malick e ai desideri della Monica di Ingmar Bergman. Scappano Suzy e Sam, scappano dalla Famiglia e dagli eserciti scout, superano i “confini” dell’isola e le variazione su tema andersoniane, e bramano questo movimento perché si sono in-contrati ma non hanno ancora formato una coppia. Non sono ancora stati istituzionalizzati nell’amore temporale (quello tragico e pietrificato di Walt e Laura Bishop), ma sono semplicemente nel presente del loro tempo. In quelle poche inquadrature, nel primo piano insistito di due anime che scoprono l’amore, il cinema di Anderson tocca la libertà più assoluta e raggiunge il sogno di Anthony e Dignan, di Max Fisher, Herman Blume e Rosemary Cross, di Richi, Margot, Chas Tenenbaum e Eli Cash, di Steve e Ned Zissou, dei tre fratelli Whitman e di Mr. Fox… raggiungere l’alba dei sentimenti negli anni in tasca, la libertà da ogni ossessione o eredità familiare per rinascere possibile nuova immagine del mondo. Sam, proprio come Richie, dipingerà quel momento su una tela, quando il mondo adulto avrà assorbito il tempo dei due fanciulli ma sarà stato a sua volta sovvertito dalla bufera meteorologico/sentimentale. La spiaggia che Sam immagina guardando Suzy – il “regno della luna nascente” ormai cancellato (evaso?) dalle fredde coordinate della mappa dell’isola – diverrà un luogo dell’anima fuori dallo spazio e dentro l’universo del Cinema. L’ultima inquadratura del nostro film è l’immagine sbocciata nella contingenza dell’evento: la danza sulla sabbia, il primo bacio, la Frontiera di un NewWorldToTheWonder da raggiungere malickianamente attraverso l’amore. «Questa è la nostra Terra!» urla Sam: un sincero e (s)regolato

moonrise cinema.

       

PARTE TERZA I film

Un colpo da dilettanti – Bottle Rocket Regia: Wes Anderson Soggetto e Sceneggiatura: Owen Wilson, Wes Anderson Fotografia: Robert Yeoman Montaggio: David Moritz Scenografia: David Wasco Musiche: Mark Mothersbaugh Interpreti: Owen Wilson (Dignan), Luke Wilson (Luke), Robert Musgrave (Bob), James Caan (Abe) Durata: 92' Origine: USA, 1996

Appena uscito dall’istituto dove si era ricoverato per esaurimento, il giovane Anthony ritorna con l’amico Dignan nella sua cittadina texana. Dignan ha piani solidi: diventare bravi rapinatori e arricchirsi. Con l’aiuto del più facoltoso Bob, rapinano una libreria per poi darsi alla macchia in un desolato motel. Qui il gruppo si sfalda mentre Anthony trova l’amore nella cameriera Inez. Mesi dopo Dignan si fa di nuovo sotto con Anthony: ha trovato la guida di un criminale esperto che li aiuterà a mettere insieme un gran colpo in una fabbrica.

Trailer del film

Il primo Bottle Rocket è un corto di nemmeno un quarto d’ora girato con pochi amici e che precede di due anni l’esordio vero e proprio del regista texano, lo schizzo da cui prenderà forma il lungometraggio. Il piccolo film descrive la preparazione dei tre protagonisti alla prima rapina, con scene e battute che verranno trapiantate fedelmente nel lungo. In un bianco e nero contrastato da cinema indipendente e ritmato da un montaggio e una colonna sonora jazz molto Nouvelle Vague, è un esercizio tanto libero quanto acerbo, senz’altro necessario a testare la chimica con gli attori. Un test talmente riuscito che i fratelli Wilson e Robert Musgrave saranno i protagonisti della nuova versione, il cui cast vede l’aggiunta del fondamentale ruolo femminile e la presenza carismatica di James Caan. Nume tutelare il produttore e regista James L. Brooks, disposto a portare a termine il progetto Bottle Rocket dopo essere rimasto colpito dal corto visto al Sundance Festival. L’esordio di Wes Anderson a prima vista condivide molti ingredienti del cinema indie anni ’90: la malinconia di una provincia un po’ stralunata e deprimente, l’estetica (e l’etica) dei perdenti, un umorismo spiazzante e dimesso. Il decennio di riferimento del film però sembrano essere i ’70 di registi come Rafelson e Ashby, di cui riprende gli slanci libertari in una chiave surreale e depoliticizzata. Anche l’esibita libertà narrativa e stilistica accomuna

Bottle Rocket agli esempi della New Hollywood e delle nouvelle vagues di tutte le latitudini: il racconto si perde in digressioni anche macroscopiche come la lunga sezione del motel, dando la sensazione di un andamento ondivago, aperto. Un senso di libertà, sì, ma dietro l’accumulo in apparenza casuale di scene e situazioni si cela un’organizzazione precisa, un’istanza di controllo che non viene mai meno. La struttura è in fondo piuttosto simmetrica, in tre atti, con la parte centrale incorniciata dalle due rapine. Anche nello stile

momenti di apparente trascuratezza, come le riprese a mano o le panoramiche che tipicamente

Anderson

preferisce

ai

controcampi,

si

alternano

a

inquadrature

geometricamente concepite o a piani sequenza ben scanditi, seguendo una partitura molto meno improvvisata di quanto possa sembrare. Un desiderio di libertà, l’impossibilità di improvvisare. Il problema del controllo assilla i drop-out andersoniani come Dignan, un giovane senz’arte né parte che annaspando si attacca a figure paterne improbabili come il truffatore Mr. Henry e che però tenta di convincere Anthony con la forza della sua organizzazione: la sua proposta va oltre il piano criminale, è un programma di vita che copre i 75 anni a venire… Allo stesso tempo quando Anthony cerca di convincere Inez, di cui è già innamorato, a venire via con lui, si sente dire: «Ma non può andarsene via così, lei è una persona organizzata». La sua è una proposta istintiva, improvvisata, che spaventa per la totale assenza di piani o prospettive. L’irresistibile sequenza della rapina fallita è il picco del genio comico di Anderson e la conferma di quanto la capacità organizzativa dei protagonisti sia del tutto avulsa dalla realtà. Bottle Rocket si colloca ben al di là del cliché dei criminali da strapazzo di tante commedie, mettendoci di fronte a un’inadeguatezza di carattere esistenziale. Ogni partecipante al colpo ha assegnato un suo ruolo, ma alla fine si scopre del tutto fuori posto, fuori fase, proprio come nella vita. Un’inadeguatezza al crimine che rivela con tenerezza lo smarrimento al fondo dei personaggi, ma anche la loro paradossale generosità, la loro capacità di avere slanci: fallimentari quelli di Dignan, indirizzati verso un fortunato romance quelli di Anthony. Immagine

A emergere, come accadrà in tutti i futuri film del regista, è il lato infantile dei suoi protagonisti. Bottle Rocket è soprattutto un film di giovani adulti che imitano la vita, come in un gioco di bambini. All’inizio Anthony finge di fuggire dall’istituto psichiatrico perché non aveva confessato all’amico che il suo era un internamento volontario. Anche il loro primo colpo ha un carattere ludico: una rapina di prova nella casa dei genitori di uno dei due. Incapaci di mantenere la parola così come di avere una reazione composta di fronte a una pistola, i personaggi imitano tanto la vita quanto il crimine, e fra fallimenti e tentativi di dare ordine alle proprie giornate, danno vita a un piccolo romanzo di formazione, malinconico ed esilarante.

di Francesco Giulioli

Rushmore Regia: Wes Anderson Soggetto e Sceneggiatura: Owen Wilson, Wes Anderson Fotografia: Robert Yeoman Montaggio: David Moritz Musiche: Mark Mothersbaugh Interpreti: Jason Schwatrzman (Max Fisher), Bill Murray (Herman Blume), Seymour Cassel (Bert Fisher), Olivia Williams (Rosemary Cross), Brian Cox (Dr. Nelson Guggenheim) Durata: 93' Origine: USA, 1998

Max Fischer è uno dei peggiori studenti della scuola Rushmore di cui è però re incontrastato delle attività extracurriculari, che vanno dall’apicoltura alla drammaturgia. Solitario genio incompreso, si ritrova coinvolto in uno strano triangolo affettivo con l’imprenditore Herman, che lo preferisce ai suoi figli naturali, e con la giovane insegnante Rosemary, di cui si innamora.

Trailer del film

Fra gli adulti di Bottle Rocket, che imitano il crimine come in un gioco di bambini, e gli adulti che fanno ritorno nella casa di infanzia dei Tenenbaum, si situa il quindicenne di

Rushmore, la fortunata opera seconda di Wes Anderson. Max Fischer sembra aver risolto il problema della non crescita, o anticipato l’istanza regressiva attraverso il morboso attaccamento alla sua istituzione scolastica: «Bisogna trovare qualcosa che si ama e farlo per tutta la vita: per me è andare alla Rushmore». In realtà l’adolescente Max condensa in sé attitudini e capacità intellettuali adulte (Herman lo fa addirittura socio nella sua impresa) che convivono con comportamenti infantili nei rapporti, segnati dall’egoismo e dal ricatto affettivo. In bilico fra strafottenza e fragilità, la maschera rappresentata dal giovanissimo Jason Schwartzman è protagonista ideale di questa teen comedy implosa, dove l’umorismo sottotono di Wes Anderson raggiunge vertici di efficacia e sottigliezza nel lavorare sui comportamenti sempre fuori posto dei suoi paradossali protagonisti. Ecco che durante una delazione circa un’infedeltà coniugale, Max offre un pranzo al sacco; o che prima di una recita scolastica chiede al pubblico di mettersi degli occhiali protettivi, perché lo spettacolo prevede varie esplosioni… Per non dire dell’altra straordinaria maschera comica, quella di un Bill Murray che qui forgia (in una versione più cattiva) quel tipo malinconico di uomo di mezza età in crisi che farà la fortuna di Lost in Translation e Broken Flowers. Anche Herman è ormai un outsider e un campione di gesti fuori luogo, come il plateale tuffo “a bomba” durante un party in piscina, nella cui acque poi si inabissa per sottrarsi agli altri. Con le sue inquadrature fisse e stilizzate e la classica recitazione sottotono, lo stile di Wes Anderson ha senz’altro la capacità di contenere (sia nel senso di ospitare che di

trattenerne il potenziale esplosivo) tutto questo universo di cose fuori posto: che sia una battuta, un oggetto, la mera presenza fisica di una persona. Più che di una comicità fredda e cerebrale, si può parlare di uno sguardo che dona una specie di grazia, di tenera naturalezza ai gesti più assurdi e alle battute più inappropriate. «Che coincidenza, abbiamo entrambi delle persone morte nella nostra famiglia», dice Max – orfano di madre – a Rosemary, rimasta prematuramente vedova dell’amatissimo marito, memoria ancora bruciante e ingombrante. L’infelice uscita dell’idiot savant Max è esemplare del perenne cortocircuito fra profondo desiderio di appartenenza e sistematica inappropriatezza, che è il centro poetico e stilistico di Rushmore. Il film è un moto continuo di avvicinamenti, scontri e riconciliazioni fra i vari protagonisti, a partire dall’elementare triangolo Max-Herman-Rosemary che sostiene la semplice struttura narrativa. Ogni scena in fondo non fa che misurare la distanza emotiva fra i personaggi coinvolti, registrandone le incomprensioni, le ripicche, le richieste affettive declinate in modi allo stesso tempo maldestri e brutali. E la conflittualità fra Max e Herman raggiunge il suo apice in una sequenza di montaggio a base di dispetti e sabotaggi reciproci, genialmente scandita dalle note di

A Quick One degli Who, e che si conclude con l’incarcerazione del ragazzo. Ma

alla fine a prevalere è il principio dell’inclusione, e il gioco delle riconciliazioni ci consegna un roseo finale (rigorosamente al rallentatore) in cui la comunità ricompone la circolazione affettiva spezzata dai lutti e dalle incomprensioni.

di Francesco Giulioli Immagine

I Tenenbaum Regia: Wes Anderson Soggetto e Sceneggiatura: Owen Wilson, Wes Anderson Fotografia: Robert Yeoman Montaggio: Daniel Padgett, Dylan Tichenor Scenografia: David Wasco Interpreti: Gene Hackman (Royal Tenenbaum), Ben Stiller (Chase), Gwyneth Paltrow (Margot), Owen Wilson (Eli), Luke Wilson (Ritchie), Anjelica Huston (Etheline), Danny Glover (Henry Sherman), Bill Murray (Raleight St. Clair) Durata: 109' Origine: USA, 2001

Nella New York degli anni settanta la famiglia Tenenbaum è composta da tre bambini estremamente dotati: Chas è un genio della finanza, Ritchie un campione di tennis e Margot, figlia adottiva, una promettente drammaturga. La loro è un’infanzia ricca di successi nonostante la separazione del padre Royal dalla madre. Molti anni dopo le cose sono cambiate. Il loro genio sembra essersi appannato dal tempo, da liti famigliari e da alcuni fallimenti personali. Quando viene a sapere del futuro matrimonio tra la ex moglie Etheline ed Henry Sherman, Royal decide di tornare a casa e di riprendere il rapporto con i figli.

Trailer originale del film

Partiamo da un fatto. I Tenenbaum è il film più importante di Wes Anderson. Il più imprescindibile. Quello che segna un punto di svolta non soltanto artistico, ma soprattutto mediatico, commerciale e per certi versi politico nel percorso filmico del regista texano. È il “classico” di Wes Anderson ed è il film che ufficializza il suo ruolo autoriale dentro Hollywood. Con I Tenenbaum si aprono infatti le porte degli Academy Awards (nomination alla sceneggiatura originale) e di un cast d’eccezione: non più soltanto i fedeli Bill Murray e Owen Wilson, ma Gwyneth Paltrow, Ben Stiller, Danny Glover, Gene Hackman (che qui vince il Golden Globe), Anjelica Huston. Giunto al suo terzo film Anderson ha ormai la personalità, quindi, per confezionare il suo primo grande romanzo cinematografico. Da subito emergono quegli elementi che marcano in modo decisivo il suo stile drammaturgico, visivo e i temi che lo caratterizzano: in primis l’influenza per la letteratura americana e in particolar modo di J.D. Salinger, della cui opera il film è un esplicito omaggio a partire dalla suddivisione in capitoli fino alla raffinatissima e intensa voce narrante (interpretata da Alec Baldwin nella versione originale). Ne I Tenenbaum il “mondo secondo Anderson” definisce parametri estetici che non verranno più abbandonati, ancora lontani da quel sospetto manierista che alcuni detrattori avrebbero avanzato nelle opere successive. Le inquadrature frontali e “piene” indicano una composizione dell’inquadratura vicina all’illustrazione fumettistica, più astratta che teatrale. I cromatismi giallo-marrone permeano le immagini di Robert Yeoman che immerge il film nella malinconia del crepuscolo e nel gusto viscerale per il ricordo degli anni settanta. Le influenze cinefile emergono poi nella fedeltà a un rigore nel piano sequenzapiù di matrice europea che hollywoodiana, quasi mai debitore di virtuosismi alla De Palma, ma spesso statico, ravvivato da quelle panoramiche a schiaffo che sarebbero poi diventate marchio di fabbrica.

Il tema della famiglia, del cordone ombelicale fatto di rimpianti e inevitabili rese dei conti è la traccia su cui si sorregge l’intera opera, che è una stramba e allo stesso tempo coltissima riflessione sul rapporto tra padri e figli, lo stesso che un paio di anni prima un altro talentuosissimo Anderson del cinema americano aveva mirabilmente affrontato in

Magnolia. L’universo della famiglia Tenenbaum è una capsula vintage dentro cui si annidano rancori mai rimarginati (il rapporto tra Royal e Chas), amori morbosi (quello segreto tra Margot e Ritchie), menzogne e frustrazioni (Eli Cash da un parte e Royal Tenenbaum dall’altra, personaggi sorprendentemente speculari in quanto entrambi accomunati da un destino di emarginazione, tutti e due respinti dalla famiglia). In questo spazio mentale e nostalgico un ruolo determinante viene ricoperto ancora una volta dalle musiche, tutte appartenenti a un malinconico background pop/rock anni sessanta e settanta, ideale colonna sonora di un’adolescenza congelata nel tempo: Beatles, Nico, Velvet Underground, Rolling Stones, Clash. Immagine

Il genere andersoniano prosegue il suo coraggioso cammino dentro una terra di nessuno in cui commedia e dramma non si scambiano di ruolo ma vivono in un limbo quasi indiscernibile e dove la gag è intrinsecamente parte di un dolore esistenziale più ampio e viceversa. Le classificazioni cedono così il passo a una visione del cinema estremamente originale. Divertente, ma anche molto dolorosa. Non a caso è la morte a porre fine al racconto. A pensarci bene I Tenenbaum è soprattutto un film sulla morte, spesso raccontata, costantemente in fuori campo, ma ricorrente.

Ritchie tenta il suicidio. Muore

la moglie di Chas in un incidente aereo e quella di Henry Sherman, così come il beagle di Ari e Uzi, ucciso da uno strafatto Eli. E nel finale, inevitabilmente, muore anche il motore della storia, Royal Tenenbaum, che dopo aver simulato una malattia incurabile per riconquistare la moglie e i figli, si spegne davanti allo sguardo di un riconciliato Chas. I protagonisti si ritroveranno così per un ultimo saluto al capofamiglia, dove sfileranno davanti alla macchina da presa in rallenti sulle note di Van Morrison. Il cerchio si chiude. Il cinema di Wes Anderson è già nato.

di Carlo Valeri

Le avventure acquatiche di Steve Zissou Regia: Wes Anderson Soggetto e Sceneggiatura: Noah Baumbach, Wes Anderson Fotografia: Robert Yeoman Montaggio: David Moritz, Daniel Padgett Scenografia: Mark Friedberg Musiche: Mark Mothersbaugh, Sigur Ròs, David Bowie Interpreti: Bill Murray (Steve Zissou), Owen Wilson (Ned Plimpton), Cate Blanchett (Jane), Anjelica Huston (Eleanor Zissou), Willem Dafoe (Klaus Daimler), Jeff Goldblum (Alistair Hennessey) Durata: 118' Origine: USA, 2004

Il famoso oceanografo e documentarista Steve Zissou ha perduto il compagno di mare Esteban du Plantier, ucciso da uno squalo giaguaro. Steve vuole vendicarsi edare la caccia all’animale, ma non trova appoggi economici per portare avanti la spedizione e il relativo documentario. Le cose cambiano quando incontra il giovane Ned Plimpton, suo figlio illegittimo. Il ragazzo decide infatti di finanziare il padre e sale a bordo della nave Belafonte. Inizia così una serie di stravaganti avventure in fondo all’oceano.

Trailer del film

Quando un uomo, per qualunque ragione, ha l’opportunità di condurre una vita straordinaria non ha alcun diritto di tenerla per sé. Jaques Y. Costeau

È questa la citazione, scritta a mano su un vecchio libro della scuola Rushmore, che origina il fatale incontro tra Max Fisher e l’insegnate Rosemary Cross. Ogni piccolo tassello dell’universo filmico di Wes Anderson è costantemente puntellato da rimandi e rime interne, tutte ascrivibili in varia misura alle reali passioni dell’infanzia del cineasta. E lo stesso mito Jaques Costeau, che schiudeva le porte dell’amore per Max, viene ora affettuosamente

“ricalcato”

nel

corpo

stralunato

e

goffo

di

Steve

Zissou:

l’oceanografo/documentarista perennemente in cuffietta rossa protagonista del quarto film del regista texano. Venuto due anni dopo I Tenenbaum, probabilmente il film di Wes più celebrato da pubblico e critica, Life Aquatic with Steve Zissou è un progetto dichiaratamente autoriflessivo che nasce sin dal principio come sperimentazione liminale sui propri stilemi registici ormai collaudati. Una sperimentazione resa possibile proprio dalla credibilità produttiva acquisita con le tre precedenti opere. Il film inizia con la presentazione del nuovo documentario di Zissou The Jaguar Shark (part 1) in un Festival cinematografico italiano: la scoperta del misterioso squalo giaguaro, la morte del marinaio decano Esteban, la promessa di Steve di uccidere il raro animale nella part 2 che si appresta a girare. Il cinema viene immediatamente tirato in ballo come unico orizzonte possibile per ogni esperienza (le avventure in mare hanno senso solo se filmate e condivise), ma viene anche concepito come un museo di memorie (Steve tocca lo schermo dove Esteban vive ancora in immagine e si commuove alla visione dei vecchi documentari). Sì perché l’inizio del nostro

film si svolge già oltre questo tempo: la passione del cinquantenne Zissou è ormai

tramontata, i fondi per i suoi documentari sono sempre meno, sua moglie Eleanor lo ha lasciato, il suo equipaggio è composto quasi solo da stagisti universitari e persino una famosissima multinazionale di scarpe sportive non produce più il suo modello griffato. Ed è in questa intima “crisi” personale che esplode anche la sperimentazione sul linguaggio cinematografico. Anderson conferma e radicalizza il gusto per l’accumulo di suggestioni nella strutturazione del profilmico, con personaggi sempre più ipercaratterizzati che oscillano volutamente tra il comico puro e il tragico (Bill Murray sfodera un’impressionante facilità nel cambiare registro emotivo nella stessa inquadratura, un’interpretazione mastodontica); ma stavolta aggiunge un tassello sostanzialmente altro rispetto alle sue solite coordinate: le profondità marine e i suoi abitanti, partorite dalla fantasia sfrenata di Henry Selick con sublimi prospettive in stop motion. Questi sono i presupposti in cui s’innesta l’accadimento che dà origine al “viaggio”: Steve incontra Ned, il figlio ormai trentenne che non ha mai voluto riconoscere o contattare. Pertanto: da un lato l’ossessione fanciulla per lo squalo giaguaro da uccidere, dall’altro l’opportunità di una tardiva maturità concessagli proprio dal destabilizzante sentimento della paternità. Steve dapprima non regge l’emozione, sfugge dal nostro sguardo e dalla presenza di Ned, si rifugia a prua della sua nave Belafonte, in rallenti, sotto le note di Life

on Mars di David Bowie (forse il vero protagonista in-visibile di questo film con le sue onnipresenti canzoni, declinate anche in portoghese, che dettano sempre il tempo delle inquadrature), operando la prima di una lunga serie di fratture compositivo/sentimentali. Alla limpida perfezione formale di Rushmore e I Tenenbaum, pertanto, Life Aquatic oppone una

costante

incertezza

nella

configurazione

e

nella

narrazione

seguendo

pedissequamente i contingenti e bipolari slanci emotivi di Steve e Ned. Ed è proprio quest’ultimo a incarnare il fantasma del cinema passato di Anderson: la consapevolissima interpretazione di Owen Wilson fonde l’infantile insicurezza di Dignan in Bootle Rocket alla commovente voglia di famiglia di Eli Cash ne I Tenebaum. La sua improvvisa e fulminea dipartita (il segno tangibile di chiusura della prima fase della carriera di Anderson? La morte di Dignan/Eli/Ned…) contrappuntata da schegge di cinema che rimandano quasi all’underground newyorkese anni ‘60, schiude definitivamente l’universo sentimentale del padre che è ormai pronto ad affrontare le sua ossessione per lo squalo giaguaro. Immagine

Fine del documentario di Steve, fine del film di Wes. The Jaguar Shark (part 2) è ora completo, ma a costo di un pericoloso e bizzarro attacco di pirati asiatici, dell’incendio della Belafonte, della perdita di ogni finanziamento, della morte di un figlio appena conosciuto e amato. Ecco: tra la proiezione iniziale della part 1 (l’ossessione fanciulla) e la malinconica

premier finale della part 2 (la maturità sentimentale) è “passato” il film di Wes Anderson. Viaggio nel tempo di un sofferto cambiamento operato in fondo a un mare di cartapesta tra granchi caramella, meduse elettriche, cavallucci multicolore e spropositati squali fosforescenti da contemplare piangendo. Magnifica e struggente metafora di crescita e abbandono dei “giocattoli”. «È bellissimo Steve!». «Si, è proprio niente male non trovi?».

di Pietro Masciullo

Il treno per il Darjeeling Regia: Wes Anderson Soggetto: Wes Anderson Sceneggiatura: Wes Anderson, Roman Coppola, Jason Schwartzman Fotografia: Robert Yeoman Montaggio: Robert Weisblum Costumi: Milena Canonero Scenografia: Mark Friedberg Interpreti: Owen Wilson (Francis Whitman), Adrien Brody (Peter Whitman), Jason Schwartzman (Jack Whitman), Amara Karan (Rita), Angelica Huston (Patricia Whitman), Bill Murray (uomo d’affari) Durata: 91' Origine: USA, 2007 Distribuzione: Fox Searchlight Pictures

Dopo un anno dalla morte del padre i fratelli Whitman si ritrovano in India sul Darjeeling Limited. L’intero treno è stato noleggiato da uno di loro, Francis, il cui scopo è quello di riavvicinare la famiglia dopo il lutto, dal momento che i tre non si parlano dal funerale. In India raggiungeranno la madre Patricia, anch’essa partita dall’America alla ricerca di un equilibrio spirituale.

Trailer originale

Due vite s’incrociano per un attimo. Un uomo d’affari non meglio identificato corre nel disperato tentativo di salire su un treno. Un altro uomo, più giovane, lo affianca e lo supera. Un gioco di sguardi che è un bivio. Chi narra determina destini, semina frammenti di storie potenziali per seguirne altre. E qui il narratore compie la sua scelta, lasciando a terra il primo uomo, Bill Murray, per far salire a bordo il secondo, Adrien Brody. Ma in una sola immagine ci fa sentire tutto il peso di questa decisione: chi sta sul treno si toglie gli occhiali e con un sorriso amaro guarda quell’uomo e quella storia abbandonati sulla banchina. È già tutto qui, in questa prima scena, il senso di Il treno per il Darjeeling, il penultimo film di Wes Anderson. Lo stile e l’ironia per raccontare l’esperienza triste e umanissima della perdita. E se si pensa che l’uomo lasciato a terra è Bill Murray, lo Steve Zissou del film precedente, non si può che pensare al padre. L’elaborazione del lutto. Tre fratelli, Francis (Owen Wilson), Peter (Adrien Brody) e Jack (Jason Schwartzman), si ritrovano in India, a distanza di un anno dal funerale del padre, sul treno Darjeeling Limited. L’invito è partito dal maggiore, Francis, ufficialmente per affrontare un viaggio con i fratelli e appianare i vecchi screzi. Il vero obiettivo, però, è quello di andare alla ricerca della madre (Anjelica Huston), ritiratasi da anni in un convento sulle montagne. Una compagnia sgangherata in un viaggio spirituale. Guarda Hotel Chevalier Anderson, autore della sceneggiatura insieme a Roman Coppola e allo stesso Schwartzman, torna al suo mondo surreale e folle. Apre con una trovata tanto stravagante quanto geniale, il corto Hotel Chevalier, un piccolo gioiello che presenta il personaggio di Jack alle prese con la sua donna misteriosa e ninfomane (Natalie Portman), tredici minuti che sono un concentrato di risate e rimpianti. Poi trova una magica consonanza con un’India colorata e caotica. Sembra di essere nella copertina di Sgt. Pepper’s, in un universo di canzoni, di freaks e figli dei fiori, di drop-out e tossicodipendenti, lisergico e

alternativo, simbolico e fantastico. Un’ironia sempre a un passo dal non sense, ma che a poco a poco devia tacitamente nel dramma, nell’esperienza intima della morte e del dolore. Come ne I Tenenbaum, come in Steve Zissou, le famiglie, nel loro grumo di amori e incomprensioni, non sono mai un fatto scontato, un dato biologico certo e immutabile, sono una conquista da perseguire, un atto di generosità da concedere e rinnovare sempre. Il dolore può portare a riconoscersi solo a patto che non ci sia la chiusura nel pianto solitario. Non sappiamo quante siano state le occasioni mancate dai nostri personaggi, ma sicuramente sono state troppe. Così la morte del bambino nel fiume è la misteriosa mano del destino/regista che permette un definitivo superamento del lutto. La fratellanza non vuole funerali privati, ma la condivisione di spazi e riti. Il treno per il Darjeeling è una lenta e sgangherata costruzione che permette di lasciarsi alle spalle il peso delle cose che non servono più. Ciò che conta del passato e del presente continua il viaggio con noi. Verso il sole.

di Aldo Spiniello Immagine

Fantastic Mr. Fox Regia: Wes Anderson Sceneggiatura: Wes Anderson e Noah Baumbach, dal romanzo di Roald Dahl Fotografia: Tristan Oliver Montaggio: Andrew Weisblum Scenografia: Nelson Lowry Musiche: Alexander Desplat Interpreti: George Clooney (Mr. Fox), Meryl Streep (Felicity Fox), Jason Schwartzman (Ash Fox), Bill Murray (Badger), Eric Chase Anderson (Kristofferson), Willem Dafoe (Rat), Owen Wilson (Coach Skip) Durata: 87' Origine: USA, 2009 Distribuzione: 20th Cenuty Fox

Il signor Fox, assieme alla moglie, al figlio Ash e al nipote Kristofferson vivono tranquillamente nella loro casa e conducono la loro solita vita in campagna. L’istinto di rubare galline agli umani, porta però presto questi ultimi, contadini disposti a tutto pur di non sacrificare i propri pollai, a ribellarsi e a costringere gli animali a vivere sottoterra senza cibo, come dei reclusi. Spetterà al signor Fox capitanare la rivolta della comunità animale.

Trailer del film

Ormai, caro Wes, siamo al punto di non ritorno. O le pietre o la gloria. Fantastic Mr. Fox non può fare a meno di radicalizzare il conflitto e ricompattare gli eserciti. Chi è contro e chi è a favore. Senza più possibilità di mezze misure o ripensamenti. Anderson azzarda un film di “pupazzi” che camminano a scatti, tra l’altro per raccontare una storia da bambini. E che piaccia o no, la scelta dell’animazione (in stop motion) è perfettamente in linea con un cinema che, ogni volta, sogna mondi perfetti, meravigliosamente fantastici e dannatamente reali. Mondi narrativi, visivi, immaginari chiusi, in cui si è dentro o si è fuori. Spazi troppo (poco) familiari, apparentemente sigillati, ma sempre permeabili, riaperti e attraversati da quella strana cosa che è il cuore. Dopo gli sconclusionati, adorabili, addolorati fratelli de Il

treno per il Darjeeling, Wes torna all’ispirazione più apertamente fantastica. Parte da un racconto del grande scrittore per l’infanzia Roald Dahl, noto in Italia come Furbo, il signor volpe, e con Noah Baumbach mette in piedi una sceneggiatura che possa reggere le durate del lungometraggio. Dopo il matrimonio, Mr Fox ha smesso di rubar polli. L’ha promesso alla moglie. Ma l’istinto è troppo forte per animali selvaggi, abituati a seguire i richiami del cuore, dello stomaco, della pelle, del corpo. Del resto, la vita è grama e i problemi si fanno sentire. Perciò, dopo dodici anni di astinenza, il signor Fox progetta un colpo definitivo, un piano spettacolare suddiviso in tre fasi. Vittime predestinate, i tre più grandi produttori della zona: Boggis, Bunce e Bean, «One short, one fat, one lean», come canta la filastrocca popolare. Ma il furbo Mr Fox non ha previsto la terribile reazione dei derubati e si ritrova a fronteggiare la battaglia senza quartiere del cupo e spettrale Bean.

Immagine

Cambiano le formule, cambia la tecnica e l’aspetto, ma Fantastic Mr. Fox s’iscrive perfettamente nel cinema di Wes Anderson. È l’ennesima esplorazione di universi familiari e sentimentali sgangherati e umanissimi, ironici e malinconici. Le ossessioni di sempre. Padri e figli, mariti e mogli: incomprensioni, complessi, slanci di tenerezza, divisioni e riconciliazioni. E poi la paura di perdere e perdersi. Le ferite sul corpo e i graffi al cuore. Guardando sotto la pelle di Mr e Mrs Fox, di Ash e Kristofferson, ritroviamo quei personaggi eccentrici ed esemplari che attraversano l’universo di Anderson, da un film all’altro, dal cinema a noi, in un’osmosi irrefrenabile e continua. D’un tratto, tutti i mondi chiusi sembrano aprirsi per confluire in una sola visione, in una sola famiglia, nel gioco inesausto dei ricordi e delle invenzioni. E pur nell’inganno dell’animazione, Anderson non riesce a staccarsi dai compagni di sempre. Legato a vita. Rinuncia ai volti, ma non alle voci. Guarda, senti. C’è Bill Murray, c’è Jason Schwartzman, Willem Dafoe, Roman Coppola, Adrien Brody. C’è Owen Wilson. E poi i nuovi amici: George Clooney (incredibile

voce protagonista), Meryl Streep. Quasi stessimo guardando un album, riconosciamo tutti e riconosciamo noi stessi (come nello splendido Spike Jonze di Nel paese delle creature selvagge). Come eravamo e, forse, come saremo. Qualcuno protesterà. Ma al di là di una presunta furbizia, in Anderson c’è un calore e una gioia di raccontare che ha pochi eguali. I suoi film sono case. Il cinema è una casa. Si può anche scappare, ma non si potrà fare a meno di ritornare. Ne abbiamo bisogno.

di Aldo Spiniello

Moonrise Kingdom Regia: Wes Anderson Sceneggiatura: Wes Anderson, Roman Coppola Fotografia: Robert Yeoman Montaggio: Andrew Weisblum Scenografia: Adam Stockhausen Musiche: Alexandre Desplat Intepreti: Kara Hayward (Suzy Bishop), Jared Gilman (Sam Shakusky), Bruce Willis (capitano Sharp), Bill Murray (Walt Bishop), Frances McDormand (Laura Bishop), Edward Norton (Randy), Jason Schwartzman (Ben), Harvey Keitel (comandante Pierce) Durata: 94' Origine: USA, 2012

Estate 1965. A New Penzance, un’isoletta al largo delle coste del New England, la dodicenne Suzy si innamora e fugge insieme allo scout Sam. Il fatto getta ovviamente nel panico i genitori di lei, Walt e Laura Bishop, ma è l’intera comunità a essere coinvolta e a lanciarsi all’inseguimento, guidata dallo sceriffo locale e dal capo scout Randy.

Trailer del film

Ma Wes Anderson da che parte sta? Parla per i padri o per i figli? Dalla parte delle mogli, stanche ma ancora combattive, o dei mariti, frustrati eppur ancora capaci di follie impreviste? Il suo cinema, in fondo, crede ancora nella famiglia, una qualsiasi, o è il racconto di una precarietà che scivola pian piano verso la disfatta? E soprattutto è un cinema giovane, ammiccante, furbo, fatto a tavolino per piacere (o dispiacere), come verrebbero i critici solo all’apparenza austeri? O si ostina a rimanere fuori moda, a esser fuori tempo, prima ancora che passatista e nostalgico? Fatto sta che Moonrise Kingdom (film d’apertura del 65° Festival di Cannes) sembra la prosecuzione naturale di Fantastic

Mr. Fox, un live action pensato come un film d’animazione in stop motion, un canto d’amore adolescenziale rinchiuso in un set fantastico di plastilina, una bolla trasparente, ma fatta di vetro permeabile, densa degli umori, le fissazioni, le nevrosi di un regista eccezionale (nel senso letterale) e proprio per questo comune, uguale a chi fa del proprio ossessivo, perfetto mondo artificiale lo specchio di questo strano, assurdo mondo reale. E bisognerebbe, forse, tracciare un percorso che va da Tim Burton a Wes Anderson, passando per Gondry. Strati di ripensamento di un cinema che si muove nel cortocircuito dei ricordi, nella camera chiusa delle proprie fantasie e paure. Che ha bisogno di ricreare l’illusione di una famiglia. Ancora Truffaut. Perché sì, Moonrise Kingdom è puro Wes Anderson, un film che si muove tra Rushmore (la vita degli scout come quella del college) e l’infantile artificio di Steve Zissou.

Immagine

La solita compagnia di giro, con Roman Coppola, cosceneggiatore, anche lui sempre proiettato alla ricerca, al riconoscimento di un padre (Il treno per il Darjeeling), con Jason Schwartzman e Bill Murray, complici irrinunciabili. Ma è pur vero che dietro gli occhiali del piccolo Sam Shakusky, dodicenne orfano, giovane scout dalla testa calda e detestato dai compagni, riconosciamo la stessa estraneità di Antoine Doinel, quell’inadeguatezza all’ordinario, quella continua tensione alla verità dei rapporti e dei sentimenti, nonostante l’apparenza di un’indipendenza irrinunciabile. E nell’istante in cui deflagra, come un fulmine, il suo amore per Suzy, piccolo corvo dagli occhi tristi, assistiamo a una liberazione, una piccola, enorme apocalisse dei sentimenti che investe tutta l’isola e in cui ogni solitudine e frustrazione sembra riscoprire la possibilità di un’altra vita. I due coniugi Bishop, schiacciati dalla quotidianità (splendido e disarmante il dialogo a letti separati di Bill Murray e Frances McDormand), il capo scout Ward, il capitano Sharp, triste poliziotto last man standing. Tutti si rimettono in moto alla ricerca dei due ragazzi fuggiti nel “regno della luna nascente”. E ritrovano nella loro tenera ostinazione i motivi della propria stanchezza e il segreto dimenticato della propria speranza. L’ennesimo piccolo cosmo di Wes Anderson, all’apparenza perfetto nelle sue regole interne, è un set aperto che si offre alla vita. Sembra non procedere, girare a vuoto in un’impasse, eppur si muove, mostrando, ancora una volta, come questo cinema rifiuti di farsi intrappolare nella claustrofobia manierista di una fantasia solitaria. Tutti hanno il loro spazio, il loro respiro, oltre il Frat Pack: l’immenso Bruce Willis, Frances McDorman, Edward Norton, Harvey Keitel, Bob Balaban, i due straordinari protagonisti esordienti, Jared Gilman e Kara Hayward. Questo cinema, ci ostiniamo a dire, è una casa vera, ancora una famiglia, che può funzionare solo nell’unione. Per questo anche chi vi entra per la prima volta, sembra farne parte da sempre.

di Aldo Spiniello

The Grand Budapest Hotel Regia: Wes Anderson Sceneggiatura: Wes Anderson Fotografia: Robert Yeoman Montaggio: Barney Pilling Scenografia: Adam Stockhausen Musiche: Alexander Desplat Interpreti: Ralph Fiennes (M. Gustave), Saorsie Ronan (Agatha), Edward Norton (Henckels), Tilda Swinton (Madame D.), Jude Law (giovane scrittore), Bill Murray (M. Ivan), Adrien Brody (Dmitri), Jason Schwartzman (M. Jean), Willem Dafoe (Jopling), Jeff Goldblum (Kovacs), Owen Wilson (Mr- Chuck), Tom Wilkinson (Autore), Mathieu Amalric (Serge X.), F. Murray Abraham (Mr. Moustafa), Harvey Keitel (Ludwig). Durata: 100' Origine: USA, 2014 Distribuzione: 20th Century Fox

Il film è un viaggio nella memoria del vecchio Zero Moustafa, un fattorino che da giovanissimo (a inizio Novecento) divenne il più fidato discepolo di Gustave H., leggendario concierge di un lussuoso albergo dell’est Europa. Si parte da un’eredità contesa, un furto di un celebre dipinto rinascimentale, la guerra che scoppia in Europa e sullo sfondo una dolce storia d’amore.

Trailer del film

Sì, certo, c’è sempre l’ossessione romancoppoliana per un’idea della famiglia e del cinema come grande comunità disfunzionale, che, proprio per le sue anormalità, è in grado di accogliere e integrare, seppur a fatica, gli elementi più “eccezionali” (e perciò la rottura, tragica o rivoluzionaria, non sembrerebbe ammessa). E poi quella costruzione a scatola chiusa di mondi perfetti/case di bambole con tutte le connessioni logiche e regole appropriate, le strutture sociali precise, rigide, metaforiche, eppure sovvertibili, permeabili. Ma proprio l’espressione “c’è sempre” indica il rischio di una morte per asfissia del cinema di Anderson. Colpa di quella maniera sempre più dichiarata dall’antinaturalismo del suo stile e del suo mondo, che si traduce puntualmente nella frontalità del punto di vista e dei corpi nell’inquadratura, nella traiettoria pulita delle carrellate, nella resa ironica della meccanica delle azioni (fino al culmine della sparatoria, eppure «con le pistole non si scherza», direbbe Simone Emiliani). In realtà è come se fosse sempre più evidente, in Anderson, la dissociazione schizofrenica tra la fantasia spinta dell’immaginazione e la razionalità centripeta, straniante, quasi brechtiana dello stile. Aldilà dell’impressione accattivante, film dopo film viene a definirsi una specie di “mostruoso” cinema architettonico, in cui le mirabili volute del progetto devono necessariamente tradursi nella precisione del calcolo strutturale. Precisione confermata, in fondo, dalla presenza puntuale dei soliti volti noti, gli amici di sempre (a cui si aggiungono Amalric, Brody, la Seydoux, Fiennes ovviamente…), i cui cameo contribuiscono alla fondazione dell’edificio, come fossero plinti in carne, ossa e immagine. E al termine di questa rigorosa costruzione, di queste lunghe rette formali e narrative, perfettamente esemplificate dalla linea impossibile

della funicolare che collega al Grand Budapest Hotel, ci ritroviamo in un mondo in scala, in un modellino in plastilina, potenzialmente finto e morto… Ma c’è sempre un appiglio. Sebbene il lato più sentimentale di Anderson sembri esser scomparso nella velocità del plot, qui, a differenza delle altre volte, la Storia, pur se “trasmutata” attraverso la vena fantastica e il filtro letterario di Stefan Zweig, apertamente omaggiato, entra prepotentemente in campo. E non certo come semplice sfondo. La mirabolante avventura di Mr Gustave, il mitico concierge del Grand Budapest Hotel, e del suo protetto Zero, il lobby boy, è un attraversamento continuo, tra i confini, gli anni, le due guerre, i cambi di casacca. E tutto passa attraverso i racconti di Zero, registrati da un Autore, che, a sua volta, ricorda la genesi della sua storia. Autore che ormai non è che un busto di bronzo, omaggiato da una ragazzina che ha in mano quel libro in cui sono racchiusi anni di storie, di memorie e di lavoro. Immagine

Il tempo, finora sommerso nella superficie nostalgica dell’immaginario, si rivela come la questione centrale. E come una scelta “politica” decisiva (del resto Gustave preferisce le vecchie), di predilezione per un cinema d’epoca (i citati Lubitsch, Mamoulian, Goulding) e per una pratica datata, “analogica”, nonostante le riprese digitali. in fondo il cinema di Anderson è sempre un carosello di modellini e pupazzi che si muovono a passo uno… Il passato diventa l’orizzonte mitico dello sguardo. Ma non come un malinconico rimpianto di un tempo andato, ma come un’altra strada, una biforcazione del presente, un progetto d’evasione. E qui sta l’altro punto. Perché The Grand Budapest Hotel esplicita definitivamente un’altra grande ossessione di Anderson, poco citata, eppur evidente, almeno a partire da Fantastic

Mr. Fox. Quella per il piano eversivo. Lo schema di furto e fuga, che già costituiva l’occupazione principale della volpe, il sogno degli amanti bambini di Moonrise Kingdom e che qui trova il suo momento culminante nell’escape plan orchestrato da un incredibile Harvey Keitel rasato e tatuato, per poi proseguire in una seconda fase, ancor più folle, messa in piedi dalla lobby dei concierge guidata da Bill Murray. Ecco, Anderson non che fa mettere in piedi un intrico personalissimo di strategie di fuga rispetto alle dittature del senso, dell’immagine presente e futuristica, delle mode e delle tecniche, delle pastoie dell’industria e del cinema d’autore. Razionalizza per evadere. Potrà piacere o no il mondo in cui di nasconde. Ma quel pugno alzato del Lupo verso Mr. Fox rimane un monito di libertà impagabile.

di Aldo Spiniello

BIOGRAFIA

Wesley Wales Anderson (meglio conosciuto come Wes) nasce a Houston, Texas, il 1° maggio 1969. Secondo di tre fratelli – il minore, Eric Chase Anderson, sarà un importante collaboratore per le scenografie dei suoi film – studia da ragazzo alla St. John’s School scrivendo molte opere teatrali studentesche, proprio come Max Fisher in Rushmore e Margot Tenenbaum ne I Tenenbaum. Continua gli studi in filosofia alla University of Texas dove incontra due dei suoi migliori amici: i fratelli Owen e Luke Wilson. Dalle frequenti discussioni sul cinema avute con Owen nasce il primo esperimento filmato: il cortometraggio Bootle Rocket, del 1994, che evidenzia chiare referenze e affiliazioni con l’amato cinema europeo (la Nouvelle Vague in particolare). Il corto arriva sino al Sundance Film Festival, desta l’attenzione del regista e produttore James L. Brooks e nell’arco di due anni diventa un lungometraggio con l’identico titolo. È nato un nuovo autore. Già dal secondo film, Rushmore del 1998, l’estetica e le costanti narrative di Wes sono per lo più codificate e diventano marche autoriali inconfondibili per un numero sempre maggiore di estimatori in giro per il mondo. Da Rushmore inizia anche la collaborazione con Bill Murray che in varie forme si confermerà in ogni film a venire. La vera notorietà internazionale arriva però nel 2001 con I Tenenbaum, film dal ricchissimo cast (Gene Hackman, Anjelica Huston, Gwyneth Paltrow, Ben Stiller, Luke Wilson, Owen Wilson, Danny Glover, Bill Murray, Seymour Cassel e in voice over Alec Baldwin) che ottiene una candidatura al Premio Oscar come miglior sceneggiatura originale. A riprova della natura fortemente “personale” del proprio cinema, Anderson ama sempre scrivere le sue sceneggiature con amici fidati: Bootle Rocket, Rushmore e I Tenenbaum con Owen Wilson; Le avventure aquatiche di Steve Zissou e Fantastic Mr. Fox con Noah Baumbach (regista per il quale produrrà anche Il calamaro e la balena); Il treno per il

Darjeeling con Roman Coppola e Jason Schwartzman; Moonrise Kingdom con il solo Roman Coppola; per poi arrivare all’ottavo film, The Grand Budapest Hotel, a sceneggiare totalmente da solo. Con quest’ultimo film il regista ha vinto il suo primo premio importante in un Festival europeo: il Gran Premio della Giuria alla Berlinale 2014.

FILMOGRAFIA

Bottle Rocket (cortometraggio, 1994) Un colpo da dilettanti (Bottle Rocket, 1996) Rushmore (id., 1998) I Tenenbaum (The Royal Tenenbaums, 2001) Le avventure acquatiche di Steve Zissou (The Life Aquatic with Steve Zissou, 2004) Hotel Chevalier (cortometraggio, 2007) Il treno per il Darjeeling (The Darjeeling Limited, 2007) Fantastic Mr. Fox (id., 2009) Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore (Moonrise Kingdom, 2012) Castello Cavalcanti (cortometraggio, 2013) The Grand Budapest Hotel (id., 2014)

BIBLIOGRAFIA Jaques Aumont, À quoi pensent les films (1996); trad. it. A cosa pensano i film, ETS, 2007. Road Dahl, Fantastic Mr. Fox (1970); trad. it Furbo il signor volpe, Nord-Sud, 2009. Roberto De Gaetano, Tra-Due. L’immaginazione cinematografica dell’evento d’amore, Pellegrini Editore, 2008. Rick Lyman, Waching Movies (2002); trad. it. Il mio film preferito, Ellu Multimedia, 2004. J. Manuel, L’art du costume dans le film, “Revue du cinéma”, 1949. Jaques Rancière, La Favola Cinematografica, Edizioni Cineforum – Edizioni Ets, 2004. J.D. Salinger, The Catcher in the Rye (1951); trad. it. Il giovane Holden, Einaudi, 1961. J.D. Salinger, Franny and Zooey (1955); trad. it. Franny e Zooey, Einaudi, 1963. Matt Zoeller Seitz, The Wes Anderson Collection, Abrams, 2013.

Fotogallery

J.D. Salinger

Nick Drake

Seu Jorge

A Glimpse Inside... di Roman Coppola

Wes e Owen

Frances Ha

Bill Murray e Wes dietro le quinte di Fantastic Mr. Fox

Truffaut sul set de Gli anni in tasca

Note

[1] J.D. Salinger, Franny and Zooey (1955); trad. it. Franny e Zooey, Einaudi 1963, p. 8. [2] Ivi, p. 70. [3] Ivi, p. 91. [4] J. Manuel, L’art du costume dans le film, “Revue du cinéma”, 1949, citato in N. Bailleux e B. Remaury (a cura di), 1996. [5] Matt Zoeller Seitz, The Wes Anderson Collection, Abrams 2013. [6] Chi scrive ha sempre sentito una leggera diffidenza verso il cinema di Wes Anderson – almeno, fino a Moonrise Kingdom – eppure, se si possono fare degli appunti sul suo cinema, non possono essere di questa natura. [7] Dichiarazione di Wes Anderson riportata su www.biography.com. [8] Dichiarazione di Jason Reitman riportata su voices.yahoo.com. [9] Intervista di Wes Anderson rilasciata a www.deadline.com. [10] Intervista di Jason Schwartzman rilasciata a www.avclub.com. [11] Intervista di Wes Anderson e Bill Murray rilasciata a cooldirectors.imess.net. [12] Intervista di Wes Anderson e Bill Murray rilasciata a cooldirectors.imess.net. [13] Ibidem. [14] Intervista di Bill Murray rilasciata a www.esquire.com. [15] Intervista di Wes Anderson e Bill Murray rilasciata a cooldirectors.imess.net. [16] Dichiarazione di Wes Anderson riportata su www.biography.com. [17] Dichiarazione di Luke Wilson riportata su www.slate.com. [18] Intervista di Owen Wilson rilasciata a www.theguardian.com. [19] Intervista di Owen Wilson pubblicata su “Premiere Magazine”, dicembre 2004. [20] Intervista di Owen Wilson pubblicata su “Premiere Magazine”, dicembre 2004. [21] Cfr. S. Forti (a cura di), Archivio Arendt, 2. 1950-1954, Feltrinelli 2003, pp. 132-133. [22] Wes Anderson intervistato da Rick Lyman, Waching Movies (2002); trad. it. Il mio film preferito, Ellu Multimedia, Roma 2004, p. 277. [23] Jaques Rancière, La Favola Cinematografica, Edizioni Cineforum – Edizioni Ets, Bergamo/Pisa 2004, pp. 27-28. [24] Roberto De Gaetano, Tra-Due. L’immaginazione cinematografica dell’evento d’amore, Pellegrini Editore, Cosenza 2008, p. 17. [25] Jaques Aumont, À quoi pensent les films (1996); trad. it. A cosa pensano i film, ETS, Pisa 2007, p. 136.

[26] Roberto De Gaetano, Tra-Due. L’immaginazione cinematografica dell’evento d’amore, cit., p. 21.

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Istantanee | Oltre l’attualità Il seduttore. Matteo Renzi, da Palazzo Vecchio a Palazzo Chigi di Simona Poli e Massimo Vanni Storybook. I primi dieci anni di Facebook di Lorenzo Mannella Mao e me. Cento italiani in Cina (appresso a un ministro) di Ennio Greco Le opposizioni russe. Pussy Riot, Khodorkovsky, Navalny, Guriev, Roizman. Tutti contro Putin di goWare team L’inverno di Monti di Giulio Sapelli Nella crisi del capitalismo, dall’Italia al mondo di Giulio Sapelli Declino. Dalla decadenza all’economia morale di Giulio Sapelli Amen! Un grido inascoltato sulla crisi italiana di Giulio Sapelli Chi comanda in Italia di Giulio Sapelli Germania copia & incolla di Stefano Casertano Narcomessico di Veronica Ronchi Tragedia. Viaggio nella Grecia del default di Germano Maifreda Piratenpartei. La crisi dei partiti tradizionali e la sfida della democrazia diretta di Ubaldo Villani-Lubelli Mittelstand. L’arma segreta dei tedeschi di Danilo Zatta Commons e comunità di Giulio Sapelli, Lorenzo Coccoli, Elinor Ostrom e altri Gaza 2012: la battaglia d’Israele di Stefano Casertano Election rain di Luigi Vergallo, Alessandra Vitali L’elogio dei cretini. Brevi note sulla sconfitta dell’intelligenza di Kaiser Soldi per niente? Tutte le forme di finanziamento dei partiti politici di Gaetano Farina Brasile: la grande transizione. Dal boom economico ai grandi eventi sportivi di Eliano Rossi SLibrai si salvi chi può di Andrea Lattanzi Germania copia & incolla 2. Lavorare alla tedesca: riforme del lavoro e successo mondiale di Stefano Casertano, Laura Lucchini Scacchiera africana. Cina e USA: strategie a confronto di Silvio Favari Altro che primavere. Arabia, un mondo senza ordine di Giulio Sapelli Benvenuti a Grillolandia. Come sarebbe l’Italia se Grillo e il Movimento 5 stelle avessero il 100% di Stefano Rizzato e Eliano Rossi Matrimoni omosessuali. La marcia verso l’uguaglianza di Andrea Mollica e Caterina Varenna L’arte di vincere. Il piccolo libro delle grandi strategie di Giovanni Scarpa Cucina mania. Dire, fare, mangiare: dal vecchio testamento a oggi di Francesca Gissi Enigma #merkel. In europa il potere è donna: Angela Merkel di Ubaldo Villani-Lubelli Tutta un’altra notizia. Spunti e strumenti per il giornalismo del domani di Valerio Bassan La questione catalana. Independència? di Angelo Attanasio e Claudia Cucchiarato La tesina di maturità. Istruzioni last minute scritte da chi sta dall’altra parte di Donatella Purger

Economia e Finanza | Tempi moderni Antiriciclaggio: la necessità di legalità nel sistema finanziario di Gerardo Coppola Banche & Vanghe di Davide M. De Crescenzi, Daniele Corsini

Vanghe & Banche di Davide M. De Crescenzi, Daniele Corsini Il debito pubblico come non ve l’hanno mai raccontato di Bruno Amoroso La magia della finanza tra demoni e angeli di Filippo Cavazzuti Banche d’azzardo a cura di Alberto Zoratti Europa: c’eravamo tanto amati. Il film della crisi europea nella crisi globale di Giovanni Ferri Sviluppo e necessità di Sergio Carrà In gara con le macchine. La tecnologia aiuta il lavoro? di Erik Bryonjolffson e Andrew McAfee Les misérables. L’imprenditoria in Europa di Dario Andriolo, Riccardo Osti, Stefano Cipriani, Luke Johnson

Dialoghi sull’apocalisse | E altri cataclismi Italia. Se la Merkel è Carlo V. Dalla resa di Milano al sacco di Roma. 1494-1527 e 1992-2013. Moro e Cuccia, Serenissima e Berlusconi, Clemente VII e Napolitano e altri parallelismi di Giulio Sapelli e Lodovico Festa L’Italia che si uccide di Giulio Sapelli e Lodovico Festa I cento giorni di Hollande di Giulio Sapelli e Lodovico Festa Obama, l’America e il partito moderno di Giulio Sapelli e Lodovico Festa

Un bosone per tutti | Il racconto della scienza Bon Voyager. Andata senza ritorno: le missioni spaziali oltre l’universo conosciuto di Silvia Pedicelli Atti della riunione preparatoria europea del terzo congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica – “Dal corpo dei malati al cuore della politica” di Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricesca scientifica Lo zen del bosone di Higgs di Guido Cossu un bosone da ginevra di Silvia Pedicelli, Pietro Cornelio

Pop corn | Corti di cinema Il quadro che visse due volte di Rossella Farinotti Jacopo Caneva’s Tim Burton di Jacopo Caneva Cinema & videogame. I bit che non ti ho detto di Fabio Secchi Frau, Andrea Spiga Il decimo clandestino: Lina Wertmüller’s tribute to Giovannino Guareschi di Alan R. Perry Jacopo Caneva’s Miyazaki. Hayao Miyazaki e lo studio Ghibli: un vento che scuote l’anime di Jacopo Caneva

Sulle orme della storia | Il presente a ritroso L’attualità di Marx di Giulio Sapelli I luoghi del delitto. Una mappa del giallo italiano contemporaneo di Barbara Pezzotti Pasolini. Visioni e profezie tra presente e futuro a cura di Antonella Pierangeli Tempi di scuola e tempi di vita di Dario Ragazzini Scuola di confine di Elisa Gori Deindustrializzazione. Una nuova era? di Luigi Vergallo Costa concordia. Un caso di crisis communication di Maria Elena Gaglianese Lo sguardo urbano di alì dagli occhi azzurri di Manuela Raganati Bestseller italiani. Mezzo secolo di libri di successo (1900-1945) di Michele Giocondi

Digitalissimo | Nuovi media e tecnologie Bitcoin. L’altra faccia della moneta di Giulia Arangüena, Simone Caroli, Luca Nicoli, Massimiliano Rizzati e Francesco Chiari Media digitali? Ci siamo! di goWare team E-publishing & ebook di goWare team Epub a layout fisso di Elizabeth Castro Da InDesign 6 all’epub e Kindle di Elizabeth Castro con goWare team Read aloud epub per iBooks di Elizabeth Castro Troglodata. Il futuro di internet visto dalle nostre caverne di Lorenzo Mannella Audio e video nell’epub di Elizabeth Castro

Fair play | Sport & co. Il caso Ayrton Senna. Tutta la verità sul processo di Nicola Santoro I nuovi padroni del calcio. Come gas e petrolio, oligarchi e sceicchi controllano l’economia e la finanza del gioco più bello di Alessandro Oliva Ciclismo & doping. Armstrong: così fan tutti di Aldo Bernacchi Tutti pazzi per Mario. Il fenomeno balotelli di Federico Bertone, Roberto Beccantini e Guido Bolaffi Palloni bucati. Il flop del calcio italiano di Stefano Righi Juve30 di Stefano Barbetta Juventus. Il processo farsa di Mario Pasta e Mario Sironi Una passione da 10. Dieci anni di Fiorentina con della valle, dalla C2 alla Champions di Enzo Susini Juve 31. La Juventus di Agnelli-Conte vince il campionato di serie a e conquista il 31mo scudetto di campione d’Italia di Isidoro Trovato Fiorentina come nel ’56. Il primo scudetto non si scorda mai di Raffaello Paloscia Sulle strade del Mondiale di Ciclismo. Storia, curiosità e percorsi del Campionato del Mondo di Ciclismo dagli anni venti a Toscana 2013 di Enrico Pace, Angela T. Massucco, Emiliano Bacci

Mind the Step! | Viaggiare con intelligenza Giappone di Paul Norbury Turchia di Charlotte McPherson Cina di Kathy Flower Brasile di Anna Maria Scarparo Marocco di Jillian York Messico di Guy Mavor Sudafrica di David Holt-Biddle Argentina di Moira Pulino Australia di Barry Penney Italy di Charles Abbott

Pesci rossi | goWare narrativa Inter-Napoli. Delitto a Milano di Chiara del Vaglio Voglio scrivere per Vanity Fair di Enna Travet Il male relativo di Stefano Caso Fantabestie di Emiliano Corrieri Come uccidere la propria mamma, vecchia di Lucio Scarpone L’armonia dell’acero di Vincenzo Cariello Eroi esauriti di Davide Lisino Vitamore Vitamorte di Danilo Angioletti Il Pallonaro di L.R. Carrino Intrigo in Vaticano di Rosa Alberoni Ladri di stelle di Marco Innocenti Stoneman. L’uomo di pietra. Lo strano caso di Epis Epstein di Gordon Bloom

Tavola rotonda | Fiction tra amici La pranoterapia: realtà vincente. Nelle mie mani la vita... di Sergio Freggia La spada di Toledo di Roberto Stefanelli L’ovale di Cassini di Maria Laura Platania @mare – il profumo del gelsomino notturno di Francesca Cani Ciuschidda di Maria Laura Platania Libero di amare di Sergio Freggia Esercizio: «pulsare alle tempie» di Maurizio Silvi Zero negativo di Sirio Pucci L’ultimo desiderio di Giulio di Elena Quintilia Tori Rubiano

Un uomo di nessuno di Sergio Freggia Schegge nel vento di Luisella Grondona e Nicoletta Torre

Poesia | M’illumino di bit La lingua bastarda. 67 poesie di Lorenzomonfreg Poems & profs di Flora Gelli

Cassate | Divertimenti estremi Cinquanta rasature di micia di E.L. Pussicat, Charles Trawn e Al Limite

AppebooK | Oltre l’ebook Lessico medico di Pietro Benigno e Pietro Li Voti I RIMEDI DELLA NONNA di goWare team Il Vangelo dello Spirito Santo in Giovanni Paolo II. Mille pensieri per il cuore dell’uomo di Salvatore Martinez

Meme | Collana di filosofia Razionalità digitale. La fine dell’agire comunicativo. di Byung-Chul Han e Alessandro Grassi Machiavellismo e ragion di Stato. La fortuna di Niccolò Machiavelli e de Il principe di Michel Senellart, a cura di Lorenzo Coccoli Dignità animale. Profili e problemi di tutela giuridica nel diritto e nella giurisprudenza di Tatiana Guarnier Commons/beni comuni. Il dibattito internazionale a cura di Lorenzo Coccoli Zampe come gambe. La questione dei diritti degli animali di Leonardo Caffo

Cool Pop | In parole povere Meglio un uovo oggi... I proverbi di Sardegna e Sicilia a cura di goWare team Meglio un uovo oggi... I proverbi di Umbria, Marche, Molise, Abruzzo e Lazio a cura di goWare team Meglio un uovo oggi... I proverbi della Campania a cura di goWare team Meglio un uovo oggi... I proverbi di Piemonte, Valle d'Aosta, Lombardia e Liguria a cura di goWare team Meglio un uovo oggi... I proverbi dell’Emilia Romagna a cura di goWare team Meglio un uovo oggi... I proverbi di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige a cura di goWare team Meglio un uovo oggi... I proverbi di Puglia, Calabria e Basilicata a cura di goWare team

Pamphlet | Per farla breve La Repubblica di Machiavelli – Da Monti a Renzi. L’ultimo scorcio della Seconda Repubblica di Andrea Apollonio Marine Le Pen & Co. Populismi e neopopulismi in Europa di Guido Bolaffi e Giuseppe Terranova Confessioni di un venditore di povertà. Solidarietà e aiuti umanitari ai tempi della crisi di Francesco Petrone Per sempre il nostro numero 10 di Laura Montanari Vomitando il Novecento di Edoardo Pisani Agosto 2013. Niente sarà più come prima di Giulio Sapelli Gutenberg il geek di Jeff Jarvis

Aria Nova | Blowin’ in the wind Uno contro tutti. La sfida del Movimento 5 stelle (m5s) di Carlo Baccetti

Pills | Piccoli libri per stare meglio Obesità. Conoscere, prevenire e combattere il sovrappeso e le sue malattie di Enrico Roccato, Roberta Carli, Maria Giannotti e Stefano Lucarelli Curare con i numeri. La statistica in medicina, saper prescrivere sulla base dei dati di David Coletta Si fa presto a dire insetto. La nuova era del cibo. Sulle nostre tavole qualcosa di nuovo seppur antico di Marco Ceriani

Tweet106 | Cum grano salis

106 tweet sull’ottimismo. Vivere meglio e migliorarsi a cura di Davide Da Dalt 106 tweet sull’ottimismo. L’umorismo come dieta dello spirito a cura di Davide Da Dalt 106 tweet sull’ottimismo. Il tempo che passa a cura di Davide Da Dalt 106 tweet sull’ottimismo. Superare le preoccupazioni a cura di Davide Da Dalt 106 tweet sull’ottimismo. La saggezza di vivere a cura di Davide Da Dalt L’ha detto un italiano di Guido Di Santo 106 tweet sul cioccolato di goWare team 106 tweet da Mad Men ... La parola ai persuasori occulti di goWare team 106 tweet sui cani ... Dalle celebrità di goWare team 106 tweet sui gatti ... Dalle celebrità di goWare team 106 tweet sul caffè ... Dalle celebrità di goWare team

Noi animali | Un pianeta di uguali Io & Asia. Storia di un cane che non voleva vivere di Luigi Polverini Un’arte per l’altro. L’animale nella filosofia e nell’arte di Leonardo Caffo e Valentina Sonzogni Compagni di viaggio. Dai diritti dell’uomo ai diritti dell’animale di Stefano Cagno

Guide d’autore | In viaggio con Cicerone World zapping. Racconti di viaggio di Roberta Melchiorre e Fabio Bertino Pisa raccontata da Diego Casali. Con uno scritto di Marco Malvaldi di Diego Casali Stravaganze romane. Guida alla Roma da visitare senza orario né biglietto di Rinaldo Gennari

goWare ti regala Discorsi sull’Europa. Dal manifesto di Ventotene al Trattato di Lisbona e alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo di Ubaldo Villani-Lubelli 106 master tweet dai grandi pensatori sulla cultura, l’esistenza, la politica, il pensiero e la società... debitamente commentati di Francisco Barros Amori gratta e vinci di Eliselle Meglio un uovo oggi... I proverbi della Toscana a cura di goWare team I 10 brani da ascoltare almeno una volta nella vita di Jacopo Caneva W l’Italia - le Costituzioni italiane di goWare team Mezzogiorno di fuoco. Duello all’ultimo spot di Oscar Bartoli