Verso una società relazionale. Il fenomeno «Psy» in Francia 8807160021, 9788807160028


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Verso una società relazionale. Il fenomeno «Psy» in Francia
 8807160021, 9788807160028

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Robert Castel

Verso una società relazionale Il fenomeno“psy” in Francia

Feltrinelli

Prima edizione italiana: marzo 1982

Copyright by © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

Traduzione dal francese di Giovanna Procacci

Copertina di: Bob Noorda

Nota introduttiva

Quando nel 1969 due psicanalisti parigini pubblicarono, sotto lo pseudonimo di André Stéphane, L'Univers contestationnaire,' da più parti si gridò allo scandalo. Il li­ bro pretendeva di proporre a caldo un’analisi psicanali­ tica degli avvenimenti del Maggio francese, dietro la co­ moda copertura della “neutralità” analitica; riprendia­ mone brevemente la radiografia. Il motto introduttivo: “La responsabilità del disordine di cui soffre attualmen­ te il mondo non spetta né a una classe, né a una nazio­ ne, né a un sistema: questo disordine non è che la ripro­ duzione, su una scala più ampia, delle reazioni infanti­ li... La salvezza dell’umanità risiede in ognuno di noi... Il nemico non è all’esterno, ma all’interno”. L’intenzio­ ne: “L’oggetto di questo saggio è l’universo psico­ affettivo dell’Intellettuale-di-Sinistra, che ci sembra pre­ sentare tratti specifici, in quanto le sue opinioni non de­ rivano da un atteggiamento cosciente, ma si nutrono dei conflitti inconsci e dei suoi affetti arcaici”. L’argomen­ tazione: la contestazione è una forma estrema del cri­ stianesimo, cioè di questo plurimillenario “tentativo di risolvere il compresso d’Edipo”; e questo, perché “il contestatore è portato, come il cristiano, a negare una parte della realtà istintuale e a proiettarla”. Il giudizio di valore: “In quanto analisti, non possiamo appoggiare un movimento nel quale non scorgiamo una reale libe­ razione degli istinti, ma al contrario una manifestazione di certe difese contro gli istinti, che sono proiettati sul 1 A. Stéphane, L’Univers contestationnaire, Payot, Paris 1969.

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borghese, e sulla società di consumo. Ogni proiezione comporta dell’intolleranza verso quella parte del Sé che è stata negata, e che 1’Altro rappresenta', intolleranza che, nella logica dell’inconscio, può arrivare fino alla distruzione dell’Altro”. Da più parti, dicevo, si levarono reazioni scandalizzate: al di là d’interessi di bassa lega interni alla corporazione psicanalitica, per cui gli autori regolavano i conti en passant con lo “Junghismo” o con il “Lacanismo”, lo scandalo che questo pamphlet produsse fu quello del­ l’arroganza di una professione che si prendeva il lusso di un’estrapolazione — dal suo luogo e dal suo ruolo — per imporre il proprio sguardo su qualcosa che istitu­ zionalmente non la riguardava. Anche se gli autori ten­ tavano di darsi illustri predecessori, “perché anche Le­ nin considerava il gauchismo come una malattia”, il lo­ ro intervento restava agli occhi di molti gratuitamente fondato sulla perversione di un linguaggio legittimato ad intervenire su tutt’altri fenomeni, e solo su quelli; ed era facile denunciare come, attraverso questa perversio­ ne, la psicoanalisi finisse per incontrare le più grette istanze di conservazione dell’ordine. Non molto diversamente, quando al Convegno interna­ zionale di Psicoterapia del 1970 a Milano, Bruno BetteIheim colse tutti di sorpresa, sostenendo che, se la gene­ razione del sessantotto era aggressiva e violenta, questo dipendeva dal fatto che nella sua infanzia nessuno le aveva raccontato favole, la sala in stragrande maggio­ ranza giovane insorse. Ed ebbe buon gioco a denunciare l’uso inaccettabile che veniva fatto di uno strumento concettuale al di fuori del suo contesto proprio, per ap­ poggiare gratuitamente un tentativo ben più diffuso di squalificazione di un movimento di contestazione poli­ tica. Era l’epoca della polemica fra Sartre e Pontalis all’in­ terno dei “Temps Modernes” intorno alla pubblicazione diL’Homme au Magnétophone di J.-J. Abrahams, che 8

Sartre pubblicò sotto la sua responsabilità. Si parlava di “psicologismo”: e questo termine critico sembrava suf­ ficiente a denunciare sia quelle illecite estensioni, sia la pretesa della psicoanalisi di sottrarre ad ogni critica i suoi meccanismi di funzionamento in generale, e la loro portata sociale. Quel che il registro della denuncia impedi per contro a queste reazioni, per quanto forti e sacrosante, di coglie­ re, fu come non si trattasse tanto, in questi episodi grot­ teschi, di un uso pervertito della psicoanalisi, quanto piuttosto d’interventi pertinenti dal punto di vista della posizione che la psicoanalisi occupava o tendeva ad oc­ cupare nella società, ed a partire dalla quale intendeva esercitare la sua influenza sulle cose sociali. Non erano gesti goffi o tiri mancini, che qualche suo rappresentan­ te sprovveduto faceva alla sua Causa, ma piuttosto dei momenti in cui meglio traspariva, sotto la pressione di tensioni sociali forti, il ruolo specifico che la psicoanali­ si si assegnava, ed il progetto politico al cui interno lo collocava: contribuire allo slittamento dell’autorità ver­ so forme nuove di corresponsabilizzazione, fornendo il linguaggio di una “società della colpa” e dell’interioriz­ zazione. L’ondata di lotte antiautoritarie degli anni Sessanta ave­ va probabilmente accelerato quel processo. Esse trova­ rono una fonte d’ispirazione non irrilevante, ed un col­ legamento spesso preciso, con la critica che l’antipsi­ chiatria portava all’organizzazione psichiatrica, delle forme di potere che vi si esercitavano, del modello di se­ gregazione in cui esse si realizzavano; nello stesso tem­ po, l’antipsichiatria offriva a quelle lotte un terreno di sperimentazione di forme nuove di relazione con la fol­ lia, con la “devianza”, con l’anormalità e con l’istitu­ zione, che furono una parte importante del patrimonio di sperimentazione dei movimenti di quel periodo. Basti ricordare qui le lotte del Sozialistisches Patienten Kollektiv dell’università di Heidelberg, o l’interesse susci­ 9

tato dalle esperienze inglesi di David Cooper e Ronald Laing, o ancora il lavoro nell’ospedale di Gorizia intor­ no a Franco Basaglia. Da tutto questo lavorio, che utilizzava spesso la malat­ tia mentale come un esempio di alterità, e nella com­ prensione di quella cercava spunti all’esercizio di que­ sta, la psicoanalisi si tenne nell’insieme prudentemente lontana. E ben fece, d’altronde, visti i risultati cui arri­ vava quando rompeva il silenzio, e si metteva ad usare il suo linguaggio per decifrarne il senso! Nel XIII arron­ dissement di Parigi, organizzazione di punta della psi­ chiatria di settore francese, e organizzazione tutta d’i­ spirazione psicanalitica ortodossa, gli avvenimenti del Maggio erano rappresentati tre anni dopo in un grafico sull’evoluzione della domanda rivolta all’istituzione co­ me “una fase di diminuzione netta della domanda, per­ ché la gente trovava più facilmente l’occasione di ricor­ rere all’acting out, e dunque di sfuggire all’esigenza del­ l’introspezione”. Nella stessa istituzione, in un formula­ rio preparato a scopi statistici e riempito sistematicamente dopo ogni visita dallo psichiatra-psicanalista, le “tendenze hippies” figuravano fra i sintomi “prepsicoti­ ci”. E si potrebbe continuare a lungo. Fatto sta che fu forse quella prudenza a lasciare l’im­ pressione che la psicoanalisi potesse rappresentare un mondo migliore, in cui il pazzo, il “diverso”, come si diceva allora, invece di essere segregato era preso in considerazione con tutta la sua persona, invece di essere trattato in oggetto era fatto soggetto al tempo stesso della sua storia e della sua malattia; infine, la situazione istituzionale cui l’intervento psicanalitico si legava, quella del divano e del rapporto duale, appariva “inno­ cente”, rispetto al peso dell’intervento psichiatrico tra­ dizionale, in cui di fronte alla follia la società sembrava riscoprire tutto in una volta i suoi valori, la sua forza, la sua intransigenza, la sua autorità. E questo confron­ to

to, del malato mentale con la società intera, sconvolge­ va ormai le coscienze. Al di là dell’ispirazione di varie utopie freudo-marxiste, che attraversarono in lungo e in largo il movimento di quegli anni, questo permise indubbiamente alla psicoa­ nalisi di godere di una certa mitezza nella critica che le era diretta, rispetto alla violenza con cui sull’onda di quell’antiautoritarismo furono attaccate l’organizzazio­ ne e la tecnica psichiatriche. Essa apparve come la ma­ trice di forme più morbide d’intervento, e meno autori­ tarie. Alcune di queste forme erano peraltro riprese dal discorso critico stesso: contro l’intervento tradizionale della psichiatria pesante, ma anche positivamente per sperimentare forme nuove di esperienza. Le tecniche di gruppo rispondevano anche al malessere diffuso nei gruppi e nelle organizzazioni del movimento, il discorso edipico forniva uno strumento forte di critica della fa­ miglia, la valorizzazione della sessualità permetteva di dar voce a certe tensioni antirepressive che attraversava­ no violentemente i giovani, e trovò sbocco in tutta una sperimentazione dei rapporti interpersonali. Dietro a tutto questo, la domanda si ancorava sempre, in fondo, nell’utopia di una trasparenza possibile dei rapporti so­ ciali, che appariva come il progetto positivo di rovescia­ mento dell’alienazione. Cosi, sotto il peso di un discorso critico centrato sul­ l’autorità e sulle sue roccaforti, e sulla spinta di un mo­ vimento che tendeva ad improntare tutta la sua analisi del potere sulle forme di quel modello autoritario, passò quasi completamente inosservato il processo di diffusio­ ne di nuove pratiche sociali, che, a partire dalla psicoa­ nalisi, accanto a lei, talvolta perfino contro di lei, si erano venute sviluppando. A forza di attaccare il discorso psicanalitico nei suoi momenti “perversi”, non si era dato il dovuto peso a quel eh’essa rappresentava nella sua “normalità”, ai messaggi che conduceva, alle trasformazioni di cui par11

tecipava. Non ci si accorse che il riaccostamento fra normale e patologico che operava stava inducendo mu­ tazioni profonde nella relazione con la salute e la malat­ tia, con la vita e la morte; né che proprio le risposte eh’essa suggeriva a dei problemi e dei malesseri diffusi, spingendo a trascriverli in termini psicologici, scartava­ no altri linguaggi ed altri esiti possibili. L’esoterismo del suo linguaggio, la rigidità delle sue forme istituzionali, il suo appello all’ortodossia contro ogni modificazione tecnica dell’intervento, permisero probabilmente di pen­ sare che il suo destino sociale fosse in qualche modo cir­ coscritto e limitato. Invece, nonostante le sue scomuni­ che, l’essenziale di quei messaggi — il lavoro sulla nor­ malità e la trascrizione psicologica — era nel frattempo passato in una miriade di tecniche diverse, più varie, più duttili, che lo diffondono in situazioni e fra popola­ zioni che la psicoanalisi era incapace di raggiungere. Ed è passato a tal punto, ch’esse non hanno nemmeno più bisogno di riferirsi alla matrice psicanalitica, nel mentre la psicoanalisi non controlla ormai più il processo di psicologizzazione che ha messo in moto. Il lavoro sulla normalità, che è il terreno comune a queste tecniche, sta ormai prendendo la forma di una cultura specifica: al suo centro, una nozione della normalità come “sinto­ mo” delle costrizioni, della disciplina, delle forzature che la socialità impone alla spontaneità del soggetto, ostacolandone il pieno sviluppo; di conseguenza, un so­ spetto sulla socialità, e la proposizione di un ideale del Sé la cui realizzazione è un compito senza fine, e che richiede il sistematico impiego di tecniche psicologiche. Ma al suo centro anche, inevitabilmente intrecciata, una nuova forma di socialità che il lavoro psicologico stesso inventa, con una sopravvalutazione della relazione in­ terpersonale quale momento costitutivo di questo lavo­ ro per sviluppare il proprio potenziale; una cultura, dunque, della relazione, oltre che una cultura del Sé. E l’insieme di questi effetti culturali, in cui psicoanalisi e 12

nuove tecniche sono ormai inseparabili, sta ormai gra­ datamente costituendo il nuovo paesaggio. A guardarlo un po’ da vicino, questo paesaggio ci appa­ re oggi mutevole, multiforme e variopinto. Mutevole: le tecniche si rinnovano continuamente, nel mentre sa­ pienti sincretismi le dosano a nostro uso e consumo, co­ me gli ingredienti di una cucina dal sapore ancora esoti­ co. Multiforme: le istituzioni proliferano, nascono, muoiono, ricompaiono in continuazione; si presentano modestamente circoscritte nella marginalità dell’esoteri­ smo, ma presto fanno la loro comparsa in luoghi “clas­ sici”, come gli ospedali, i consultori, gli studi privati di liberi professionisti; e soprattutto, i mass-media, dalle riviste specializzate giù giù sino alle riviste di moda. E variopinto, anche; tradita la tonalità monocorde dell’a­ rancione, ritingono i loro abiti di tutti i colori dell’arco­ baleno, in una fantasmagoria di promesse, dove l’equi­ librio dell’esistenza, lo sviluppo di se stessi, la riconqui­ sta del proprio corpo, fino alla liberazione degli istinti, tutto si svende, e nemmeno troppo a buon mercato. Sulle due note fondamentali e ripetute fino all’ossessio­ ne del corpo e della relazione, le infinite forme della prolifica famiglia delle tecniche “psi” intonano il canto solitario della nostra povera socialità. Un canto del ci­ gno? Difficile valutare esattamente le dimensioni del fenome­ no in Italia: nessuno studio quantitativo in questo senso è stato sinora condotto, da cui desumere un quadro d’insieme; qualche dato è però già rilevabile. Nel giro degli ultimi 5-6 anni — citiamo, tanto per dare un pun­ to di riferimento, la creazione del “Core Institut” di Zucconi a Roma, e la visita di Eva Reich che dà il via alla fondazione dei Centri Reich di Roma e di Milano (episodi “fondanti”, nei racconti degli adepti) — queste tecniche hanno incontrato anche qui da noi un successo che i loro precursori, fino ad allora derisi e bistrattati dall’ortodossia psicanalitica, non avevano forse mai 13

osato sperare. Bioenergia, analisi reichiana, tecniche di rilassamento, gestalt terapia, massaggi d’ogni genere; terapie di coppia e familiari, consigli sessuologici, ecc., diffondono ormai anche da noi una cultura della valo­ rizzazione del Sé, che usa il linguaggio del vissuto indi­ viduale e interpersonale come griglia di lettura di una quantità sempre più estesa di fenomeni. Il corpo è risco­ perto come il luogo proprio di questo linguaggio: quello che tutte queste tecniche pubblicizzano come la fine di un parallelismo alienante (psyché/soma) e la ricomposi­ zione di un’unità del soggetto, appare come un’ennesi­ ma versione di quell’utopia di trasparenza di cui si par­ lava. Ma tanto trasparente questo corpo poi non è, se è ne­ cessario continuamente intervenire, manipolare, inter­ pretare: sono stati i condizionamenti sociali ad avercelo reso opaco. E allora, ecco che riemerge il mito tipica­ mente distruttivo della nostra disposizione culturale: co­ noscere è controllare, dominare, e per questa via final­ mente liberarsi. Ebbene, il “sentire” è diventato oggi al­ meno altrettanto legato al controllo e al dominio del co­ noscere: ha ormai anche lui i suoi metodi, i suoi concet­ ti, i suoi laboratori, non ultime le sue mode. Attraverso un percorso sempre più sofisticato nonché costoso, ci si promette di condurci — se siamo ragionevoli — a quel sentire spontaneo, immediato, genuino, ripescato chissà dove; a quel sentire che “la conoscenza ha ucciso”. La circolarità viziosa del ragionamento non può sfuggire ad una lettura attenta: eppure è proprio sulla linea fra­ gile di demarcazione fra una conoscenza che distrugge ed un’altra che restaura la spontaneità che il ruolo del­ l’esperto s’impone. Per ricondurci per mano alla sensa­ zione vera, alla vera relazione: tutto questo lavorio, nel­ l’inseguimento di una “verità” in cui rinchiuderci, lon­ tano dalle cose, che grazie a Dio sanno essere sempre anche un po’ false. Certo, si tratta ancora di fenomeni minoritari. Essen­ 14

zialmente urbani, innanzitutto: destinati poi ad una po­ polazione prevalentemente di ceti medi, tradizionalmen­ te sensibili ad una valorizzazione del Sé come compen­ sazione di ruoli sociali non particolarmente gratificanti. Ma proprio questo spostamento di clientela costituisce un vantaggio di queste tecniche rispetto alla psicoanali­ si, eternamente prigioniera della contraddizione fra la sua tensione universalistica ed il suo esercizio elitario. In ogni caso, queste tecniche stanno ormai uscendo an­ che qui da noi dai ristretti circoli di ben informati sulle ultime novità del mercato, per raggiungere anche coppie culturalmente sprovvedute, o impiegati in cerca d’emo­ zioni. E soprattutto, si stanno infiltrando in una serie di servizi, istituzionalizzati o “selvaggi”, i cui utenti sem­ pre più se le ritrovano fra le mani senza troppo sapere come, né perché: in occasione di una preparazione al parto o all’intervento chirurgico, di una consultazione medica, di un colloquio per una scelta contraccettiva, di una richiesta di consigli educativi, o di una difficoltà scolastica. La stessa legge 180 sulla riforma dell’orga­ nizzazione psichiatrica, quanto spazio non aprirà alla diffusione di queste tecniche? Allora, cos’è potuto succedere, che ha fatto uscire il di­ scorso psicologico, nelle sue molteplici forme, dalla ri­ serva delle rare associazioni psicanalitiche, che ancora qualche anno fa soltanto scomunicavano queste prati­ che “degradate”, e dagli istituti di psicologia che a ma­ lapena riuscivano a convincere qualche intraprendente capo del personale o, più raramente ancora, qualche ca­ poreparto di psichiatria? E soprattutto, che effetti pro­ duce quest’esplosione di un linguaggio, simile fino alla noia nonostante la fantasia apparentemente inesauribile delle tecniche che informa? Potremmo dire, con Castel, che anche in Italia le vie principali di questa diffusione sul piano istituzionale so­ no state l’infanzia — la scolarizzazione, le pratiche edu­ cative, perfino il tempo libero dei bambini, almeno là 15

dove il loro tempo libero pone un problema all’organiz­ zazione sociale, perché non è immediatamente riassorbi­ bile dallo spazio familiare o dalla strada — ed il lavoro sociale — nei consultori, nei centri sociali. Con una dif­ ferenza notevole però, rispetto alla Francia: nel nostro paese che non ha mai conosciuto uno stato sociale, tut­ to questo si è fatto più disordinatamente, in modo me­ no programmato e meno coordinato, e proprio per que­ sto forse in presa più diretta spesso con l’iniziativa indi­ viduale o quasi dei promotori, e con le realtà locali sulle quali quest’iniziativa s’innestava, molte volte nel vuoto d’organizzazione, peraltro. Probabilmente, non è que­ sta l’ultima delle ragioni che fanno tanto spesso parlare qui da noi, e a proposito della psicologizzazione appun­ to, di bisogni e di domande, cui essa sarebbe venuta a rispondere. Il problema è che tutti questi discorsi non sono stati ri­ presi da noi che come discorsi di denuncia, di una rete sempre più raffinata del controllo sociale. Il che ha per­ messo per converso di mantenere l’illusione di un altro luogo possibile cui confrontare queste tecniche: il biso­ gno, questo potente ed insubordinato agente della do­ manda sociale. Certo, usate all’interno della rete istitu­ zionale che organizza il controllo sociale, queste tecni­ che rappresentano “pericolose” tendenze disgreganti del corpo sociale. Ma fortunatamente esiste la vigilanza pronta del bisogno spontaneo, che se ne appropria, o sogna di appropriarsene, per farne strumenti di una fantomatica liberazione. Corpo controllato, si, ma an­ che e soprattutto corpo indisciplinato e astuto, che rie­ sce ad usare “in un altro modo” le possibilità di parola derisorie che gli sono attribuite. Questa dialettica è diventata insopportabile e oscuranti­ sta. Il fatto è ch’essa c’impedisce di vedere tutti i canali d’induzione della domanda che attraversano il corpo sociale, dando senso ai suoi codici ed ai suoi messaggi. Ne abbiamo abbastanza delle storie patetiche ed edifi­ 16

canti di militanti delusi che partono per l’india con un “bisogno” di verità, e non si sa poi come tornano con una cartella piena di tecniche raffinate ed esoteriche che vanno per la maggiore negli avanzatissimi Stati Uniti. Sarebbe forse ora di cominciare ad interrogarsi su quel bisogno: aveva davvero una natura, una qualità diversa dalle risposte che si è trovato? O la facilità con cui il misticismo s’adegua alla tecnologia non già in qualche modo iscritta nello slancio iniziale? Tutto avviene come se si temesse di riconoscere l’ambiguità implicita nel bi­ sogno sociale: e come se scoprire prossimità fra i biso­ gni che ci muovono, apparentemente i più sinceri e i più disinteressati, e le forme istituzionalizzate d’esistenza che la società si dà, ci facesse perdere insopportabil­ mente in purezza, ed in trasparenza. E il discorso sul “bisogno”, va di pari passo con quello sulla “crisi”, come due facce speculari di uno stesso problema. Dalla crisi di legittimazione alla crisi dei ser­ vizi, a quella della famiglia o a quella delle vocazioni, il confronto di cui si tratta è sempre lo stesso: istituzioni da una parte, e bisogni dall’altra. Se si abbandonasse quest’ottica binaria, che mira sempre in fondo a salvare qualcosa o qualcuno, si potrebbe forse cominciare una valutazione delle forme nuove che i rapporti sociali van­ no assumendo, e di cui la psicologizzazione in atto è al tempo stesso un sintomo e un effetto. Ma questo significherebbe con tutta probabilità che il discorso critico dovrebbe rinunciare al mito della sua purezza e in qualche modo “sporcarsi le mani”: quanto del politicismo degli anni Sessanta non è sbarcato a Pouna, o su altri lidi del genere? Quante tendenze forti del movimento, come per esempio la deistituzionalizza­ zione, che si venne a trovare felicemente situata alla convergenza della critica antiautoritaria da una parte, e di certi impasses delle strategie psichiatriche dall’altra, non hanno assunto poi l’indiscutibile sapore di vie di diffusione del linguaggio psicanalitico-psicologico, fun17

gendo in tal modo da canali di privatizzazione di pro­ blemi e di pratiche cui la risposta istituzionalizzata rico­ nosceva uno statuto sociale? Il fatto è che bisognerebbe forse smettere di vedere in questo processo soltanto l’organizzazione sempre più raffinata del controllo sociale che si tratta di denuncia­ re, e cominciare a prendere in considerazione la produt­ tività propria. Più che opporli, allora, privatizzazione e statuto sociale, è forse il caso di sottolineare come que­ sta privatizzazione sia a poco a poco diventata una nuo­ va forma di statuto sociale, attivamente promossa, e non residuale di crisi varie. In questo senso, un tentati­ vo di valutazione degli effetti del movimento attuale di psicologizzazione della società s’inserisce in un compito più vasto: quello della valutazione delle forme nuove di statuto del soggetto, in società che sembrano aver scelto la privatizzazione — e dunque il passaggio più che mai per il soggetto — come una via per circoscrivere i pro­ blemi connessi all’esercizio dell’autorità e della sovrani­ tà.2 Si potrebbero seguire linee precise di questa riscoperta sociale del soggetto, che ne promuove l’armonico svi­ luppo, la piena realizzazione, come il fine ultimo dell’e­ sistenza. É su ognuna di queste linee, si potrebbe mette­ re in luce come il soggetto sia riscoperto come valore fondamentale nel momento stesso in cui attraverso un’ingiunzione di trasparenza, di mobilizzazione per­ manente, di ripiegamento su se stesso, gli sono sottratte 2 Negli Stati Uniti si è aperto recentemente un ampio dibattito su quella trasfor­ mazione della sensibilità sociale che viene designata come “cultura del narcisi­ smo” — libri come The Culture of the Narcisisme di Ch. Lasch e The Fall of the Public Man di R. Sennett tentano di valutare quell’insieme di processi sociali — in cui anche la psicologizzazione è persa — che hanno condotto a questa nuova valorizzazione del Sé; e di valutarli anche alla luce dei loro effetti di pertinenza con una società liberale avanzata. Si veda la discussione che Castel avvia fra la nozione di “narcisismo” e quella di “cultura psicologica” nel suo ultimo libro, La gestion des risques, Minuit, Paris 1981. Altri spunti interessanti di valutazio­ ne sono proposti nell’articolo di J. Douzelot, L’Appréhension du Temps, in “Critique”, 1982.

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le condizioni reali di esistenza sociale: lo scarto, fra l’in­ dividuo e la società, fra il tempo storico ed il tempo in­ dividuale. Nel momento stesso in cui, cioè, il soggetto è ridotto a luogo individuale di soluzione di problemi col­ lettivi. Da ogni parte, si moltiplicano gli appelli al suo senso civico, alla sua responsabilità, alla sua autono­ mia: la psicologizzazione, il linguaggio individualizzante del vissuto, il linguaggio delle istanze interne e dell’ac­ centuazione dell’isolamento di ognuno di fronte a se stesso, è il codice che media quest’appello, che valorizza il soggetto cui è rivolto e lo ricompensa nella sua solitu­ dine. Grazie alla congiunzione di questo processo e di questo linguaggio, l’esistenza stessa, per non parlare della salute, diventa un’opera di civismo. Giovanna Procacci

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1. Verso una nuova cultura psicologica

Ogni anno in Francia 30.000 studenti s’iscrivono in psi­ cologia. Migliaia di specialisti in relazioni umane sono ormai nella maggior parte delle scuole e degli ospedali, nelle prigioni, nei servizi sociali, nelle industrie, nell’e­ sercito, nella chiesa e nelle altre istituzioni. Un po’ do­ vunque, commissioni di consiglieri, di selezionatori, di orientatori, misurano prestazioni, sviluppano motiva­ zioni, valutano attitudini, stabiliscono profili, attribui­ scono compiti, impieghi, lanciano prodotti, individuano carenze o responsabilità. Una religione del quoziente in­ tellettivo riemerge periodicamente, a giustificare in na­ tura le disuguaglianze sociali, nonostante l’inconsisten­ za scientifica tante volte denunciata. Uno strano destino è toccato alla psicoanalisi, appena vent’anni fa ancora esclusivamente coltivata in qualche circolo esoterico, e diventata dieci anni più tardi la beniamina dei salotti cittadini ed il denominatore comune di tante conversa­ zioni dell’intellighenzia. Ogni anno arrivano in libreria circa centocinquanta titoli di psicologia; una collana di psicologia o di psicoanalisi figura in ogni grande casa editrice, e perfino in quelle meno grandi; più di tre mi­ lioni di copie degli scritti di Freud si sono venduti a tutt’oggi in Francia, e 110.000 copie degli Ecrits di Lacan, che pure è un testo, ognuno ne converrà, di difficile let­ tura per il grande pubblico. Un nuovo stile di annunci matrimoniali si fa strada nel “Chasseur fran^ais”,1 in cui il fatto di essere stati psicanalizzati o di essere in1 1 Un famoso giornale francese di annunci matrimoniali e simili. [N.d.T.]

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analisi viene a sostituire le garanzie di moralità o di red­ dito che si richiedevano una volta. Un percorso ben no­ to ha condotto molti militanti politici di una certa pri­ mavera ad esorcizzare sul divano i propri vecchi entu­ siasmi, o a fare un redditizio commercio dei loro stati d’animo attuali. Intanto si son messi a proliferare re­ centissimamente dei laboratori privati, che propongono le ultime tecniche americane per sviluppare il proprio potenziale energetico e migliorare le proprie prestazioni sociali, affettive, sessuali. Dobbiamo continuare ancora l’elenco? I segni di quest’inflazione della psicologia nella società contemporanea sono innumerevoli; come interpretarli? La Francia sta diventando una sorta di strana “demo­ crazia psicologica avanzata”, in cui i membri dell’intel­ lighenzia più sofisticata usufruiscono dei servizi di uno psicanalista, mentre un numero sempre crescente di quadri, anche se disoccupati, partecipano a stages di sensibilizzazione alle relazioni umane finanziati dal pa­ dronato, e mentre l’ultima leva in servizio militare subi­ sce gratuitamente dei tests che decideranno della sua de­ stinazione nell’esercito. E stiamo ancora restando nel solo campo degli studi sulla personalità, sullo sviluppo delle attitudini, sulla valutazione delle prestazioni, studi che potrebbero per definizione rientrare nella sfera della psicologia. Ma il movimento va ben oltre: le categorie del discorso psicologico, che è un codice costruito a partire dall’analisi di soggetti individuali, servono anche ad interpretare cosa succede quando una rivoluzione fallisce, o quando si produce un mutamento nella sensi­ bilità estetica di un’epoca. Come mai il preteso possesso di una tecnica d’intervento sui comportamenti personali è considerato utile per superare la crisi delle vocazioni sacerdotali, o i problemi di scolarizzazione o i conflitti all’interno dell’industria? Si imputa in generale alla psicoanalisi la responsabilità principale di questo ingresso massiccio della psicologia 23

sulla scena sociale. C’è innanzitutto una coincidenza apparente di date: l’esplosione del registro psicologico corrisponde al periodo successivo al ’68, durante il qua­ le la psicoanalisi conquista le sue posizioni universitarie, amministrative, mondane. C’è poi il recupero di certi discorsi: il dibattito pro o contro la psicoanalisi ha mo­ nopolizzato in questi ultimi anni tutto l’interesse rivolto alle funzioni sociali della psicologia: la psicoanalisi è “rivoluzionaria”, o no?; è sotto la sua diretta responsa­ bilità, o sulla base di un suo uso distorto, “recuperato”, che si diffondono i codici di condotta di un liberalismo avanzato, dalle ricette per l’educazione dei bambini fino ai consigli sessuologici? In questo dibattito monotono, non c’è che il vento che cambia, e oggi è di moda denunciare — soprattutto nel­ la forma del lacanismo — la perversione di un potere che sembrava, ancora poco tempo fa, aprire all’uomo le vie di un nuovo destino. Ma non si tratterà qui di bru­ ciare quel che altri — che spesso sono poi gli stessi — hanno adorato. La psicoanalisi è al tempo stesso di me­ no e di più di quel che pretende farne il discorso super­ ficiale che l’esalta o la condanna. Meno, perché se la psicoanalisi è la parte più visibile del­ l’iceberg dello psicologico, la sua credibilità poggia su un apparato di tecniche, di cui prolunga gli effetti, certo, ma che non ha costituito direttamente. Bisognerà dun­ que accettare innanzitutto un approccio che sembrerà ri­ duttivo ai devoti della psicoanalisi, per risituarla in seno alla grande nebulosa, dai contorni confusi, dello psicolo­ gico. Ma la psicoanalisi è anche di più di una figura par­ ticolare di questo mondo degli “psi”, ancor più di quanto pretendono perfino i suoi cantori più esaltati. Essa è sta­ ta lo strumento principale di diffusione di una nuova cul­ tura psicologica, nella quale, oggi, comincia a perdersi. Di questa cultura psicologica, noi vorremmo qui delinea­ re i tratti, come un primo schizzo di una società post­ psicanalitica, la cui figura resta ancora incerta. 24

In seno a questa nebulosa in espansione rappresentata da “lo” psicologico, non c’è “una” psicologia la cui scientificità s’imporrebbe agli occhi di tutti; ci sono piuttosto degli orientamenti, delle tendenze, delle dot­ trine, delle scuole, delle tecniche, degli espedienti, delle ricette, delle trovate. Approcci diversi, ma tutti altret­ tanto psicologici e che pretendono di essere tutti altret­ tanto scientifici, si fondano su concezioni spesso anta­ gonistiche dell’uomo. Per prendere i due poli estremi della gamma, cos’hanno in comune, per esempio, la psicoanalisi e la modificazione comportamentale? Nien­ te e moltissimo. Ora si combattono in nome dell’incom­ patibilità dei loro principi, ora stringono alleanze tatti­ che o stabiliscono un modus vivendi provvisorio per conquistare un mercato (si ricordi, o si sappia da parte dei puristi, che già nel 1912 Watson, il padre del behaviourismo, raccomandava che ogni persona suscettibile di occupare un posto di responsabilità nella società americana fosse psicanalizzata). Se qui esiste un impe­ rialismo psicologico, non è certo quello della verità. Inutile dunque interrogare la psicologia sulla sua verità. Non serve domandarsi: “Aveva ragione Watson, o Freud, o Binet-Simon, ecc.?”; quanto piuttosto: “Per­ ché ha funzionato il behaviourismo o la psicoanalisi, o la tecnologia dei tests, ecc.?”. Cioè, “che cosa ha ap­ portato, a chi, in che contesto, rispetto a quale proble­ ma, facendo perno su quale istituzione o in quale se­ quenza storica?”. Prima risposta: il ricorso alla psicologia corrisponde ad una crisi delle istituzioni tradizionali, crisi che, a torto o a ragione, si ritiene che la nuova disciplina debba aiuta­ re a risolvere. In questo senso, possiamo dire che in teo­ ria la finalità della scuola è di istruire o di educare, quella dell’industria di produrre, quella della giustizia di applicare la legge, quella dell’esercito di costituire una forza disciplinata disponibile per la difesa della nazione, ecc. Ma queste istituzioni sono anche luoghi di conflitti; 25

sia perché, in quanto raggruppamenti d’individui, esse possono incontrare difficoltà nel gestire i vari problemi relazionali al loro interno, sia perché devono far fronte all’esigenza di adattarsi ad un mondo esterno mutevole (“resistenza al cambiamento”). La dimensione psicolo­ gica costituisce cosi un elemento importante delle di­ sfunzioni nelle istituzioni, disfunzioni che possono esse­ re “trattate” almeno parzialmente da tecnici della rela­ zione. Ne deriva un’ipotesi che spiega la generalizzazio­ ne del ricorso alla psicologia nella società contempora­ nea: più un’istituzione ha difficoltà a risolvere i suoi problemi interni e a piegarsi alle necessità del suo adat­ tamento ad un mondo in trasformazione, più la “do­ manda” di psicologia aumenta. Ora, da una parte una crisi generalizzata dell’autorità colpisce oggi press’a po­ co tutte le istituzioni, a cominciare da quelle il cui fun­ zionamento era una volta il più rigido (la famiglia, l’e­ sercito, la chiesa). Dall’altra, la rapidità dei mutamenti sociali impone alle strutture, anche a quelle più tradi­ zionali, di compiere, e spesso precipitosamente, un ag­ giornamento. Infine, e forse soprattutto, l’individuo, sempre più abbandonato a se stesso perché privato degli antichi supporti che strutturavano e giustificavano la sua esistenza (gruppi di vicinato, associazioni religiose, modelli tradizionali di condotta, ecc.), si trova destabi­ lizzato, e si rivolge ai nuovi tecnici dell’anima perché lo aiutino a guarire il suo disagio di vivere, e a ritrovare una propria identità. La psicologia è questa stampella di cui l’uomo o l’istituzione malata hanno un bisogno cre­ scente: se non sempre impedisce loro di zoppicare, per lo meno evita loro il più delle volte di cadere. La scuola e l’infanzia anormale

Prendiamo ad esempio il sistema scolastico, che è uno dei migliori per illustrare il ruolo assunto dalla psicolo26

già. Il settore dell’infanzia è oggi saturato di psicologia, ad un punto tale che si stenta a credere che quest’inve­ stimento sia relativamente recente. Non solo, come ha mostrato Philippe Ariès,2 l’interesse specifico per l’in­ fanzia in quanto tale fa la sua comparsa solo nel XVIII secolo, nell’intimità della famiglia borghese; ma Io sguardo del tecnico è ancora molto più tardo. Come è dunque “arrivata all’infanzia” la psicologia? Qual è sta­ to il primo tipo di “bambino con problemi” (enfant à problèmes), per conservare la mirabile ambiguità di un’espressione che non dice se quei “problemi” si pon­ gono all’individuo stesso, o sono quelli che lui pone agli altri, o tutti e due insieme? Paradossalmente, non è stato il bambino pazzo, o affet­ to da disturbi psichici, come si dice oggi: nella letteratu­ ra psichiatrica del XIX secolo non si segnalano praticamente bambini alienati, e solo relativamente tardi si prevedono per loro reparti speciali nei manicomi. La legge del 18383 non fa menzione esplicita dell’età, ma di fatto riguarda gli adulti: perché l’adulto alienato è giu­ ridicamente irresponsabile degli atti delittuosi che può commettere, ed è economicamente incapace di provve­ dere ai propri bisogni, soprattutto se è povero. Ci vuole dunque un’istanza speciale che lo prenda a carico, da un punto di vista medico, certo, ma anche giuridico, amministrativo ed istituzionale: questo è il dispositivo promosso dalla legge francese del 1838 sugli alienati. Il bambino, invece, non solo è virtualmente meno perico­ loso dell’adulto, ma soprattutto si trova posto fin dall’i­ 2 Ph. Ariès, L’enfant et la vie familiale sous l’Ancien Régime, Ed. du Seuil, Paris 1973. 3 La legge del 1838 è la legge che ha regolato in Francia per oltre un secolo i rapporti fra giustizia e psichiatria, stabilendo l’irresponsabilità penale per atti commessi in stato di demenza, ed introducendo dunque i criteri atti a provare questo stato d’irresponsabilità. Per una discussione degli effetti combinati di questa legge sul diritto penale e sullo sviluppo delle istituzioni psichiatriche, cfr. dello stesso R. Castel, L’ordine psichiatrico, tr. it. Feltrinelli, Milano 1980 [A.d.T.]

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nizio sotto una tutela familiare che già designa i respon­ sabili “naturali” dei suoi atti e della sua sussistenza. In tal modo, la presa a carico da parte della famiglia per­ mette di economizzare il ricorso ad una struttura specia­ le, che ha esigenze di selezione, di classificazione, d’os­ servazione e d’intervento, da cui scaturirà lo sguardo dello psicopedagogo. Eppure è proprio dal mondo asilare che doveva emerge­ re questa percezione, attraverso le pratiche dirette verso una categoria limitata di “bambini con problemi”, che pongono grossi problemi: i grandi ritardati o idioti, co­ me si diceva nel vocabolario dell’epoca, quei soggetti cioè privi di capacità relazionale e sociale ad un punto tale che non possono essere mantenuti nell’ambiente fa­ miliare. D’altronde, questi bambini non sono dissociati dagli adulti: l’età non ha nessun significato, perché, bambini o adulti, gli idioti sono definitivamente fissati ad uno stadio subumano. Verso il 1840, gli idioti rappresentano circa il terzo (bambini e adulti insieme) degli internati a Bicétre e alla Salpétrière. È inutile dire che il carattere immobile di questo handicap rende vana ogni velleità d’intervento. Finché domina questa concezione dell’idiozia, che pre­ suppone l’arresto definitivo dello sviluppo psichico, un’educazione specializzata è impossibile. Farà la sua comparsa soltanto con la promozione della categoria di ritardato, che implica non un arresto, ma solo un ritar­ do, per quanto importante, di quello sviluppo. Il ritardato non è né l’idiota immobilizzato in un desti­ no quasi animale, né l’alienato, la cui mente è passata in un tutt’altro mondo, quello della follia. Il ritardato è potenzialmente educabile, a condizione di usare metodi appropriati. I principi di un’educazione specializzata sono dunque stati inizialmente concepiti e sperimentati nel quadro manicomiale, e più esattamente, per quanto concerne la Francia, nella scuola aperta nel reparto degli idioti di 28

Bicétre. Se questi metodi pedagogici restano estremamente limitati, non sono invece affatto rozzi. Verso il 1840, Seguin, che — il fatto merita di essere sottolinea­ to — non è medico e può per questo prendersi certe li­ bertà con la rigidità delle nosografie psichiatriche, mette a punto una teoria degli stadi di sviluppo del bambino, una teoria piagetiana ante litteram. Per caratterizzare empiricamente la posizione precisa di ogni bambino ri­ tardato rispetto a questo processo evolutivo, elabora un questionario che anticipa nelle grandi linee tutti i futuri protocolli d’interrogatorio medico-psicologico. Defini­ sce un approccio pedagogico speciale, che non è né il trattamento medico (poiché il ritardo non è una forma di follia), né l’azione educativa normale, troppo stereo­ tipata per poter combattere l’handicap specifico del bambino ritardato. Alla metà del XIX secolo, dunque, tutti gli elementi della struttura medico-pedagogica at­ tuale esistono già, in particolare il difficile adattamento della dimensione psichiatrica o medica e della dimensio­ ne scolastica o pedagogica, la cui concorrenza anima ancora oggi, e fino a noi, tutta la storia delle “istituzio­ ni speciali”. Ma, un dispositivo simile non riguarda che una categoria estremamente limitata di bambini, che la gravità dei loro disturbi ha sottratto alla vita sociale: ed è questa una caratteristica fondamentale dell’educazio­ ne specializzata nel periodo della sua preistoria. Un mutamento radicale di scala interviene con la scola­ rità obbligatoria. È un effetto dell’obbligo scolastico che, se prima i ritardi nello sviluppo erano individuati sulla base delle carenze massicce che presentavano i grandi ritardati, dopo l’introduzione della scuola obbli­ gatoria tutti i bambini diventano oggetto di una valuta­ zione delle loro capacità in termini di più o meno. La scuola apre cosi una sorta di grande tribunale democra­ tico di fronte al quale ad ognuno s’ingiunge di provare la propria capacità di acquisire un determinato sapere in un determinato tempo. La scuola diventa il luogo privi 29

legiato per reperire un’anormalità che per questo stesso fatto cambia di natura. Quel che differenzia il debole mentale dagli altri bambini, non lo si può percepire al di fuori delle esigenze della scolarità. Ma porre questa dif­ ferenza su una scala continua di prestazioni, significa che non c’è più ormai una soluzione di continuità netta fra una minoranza di ritardati ed una maggioranza di normali. Al suo posto, esiste invece un continuum su cui possono figurare tutti, dall’idiota al genio: la posi­ zione di ciascuno è misurata semplicemente in termini di uno scarto per difetto o per eccesso rispetto ad una me­ dia. La psicometria crea in tal modo le condizioni di una vera e propria rivoluzione: colloca l’individuo sin­ golo in un quadro statistico e al tempo stesso normati­ vo, che misura tutti gli scarti possibili rispetto ad una popolazione qualsiasi (donde la sua applicazione imme­ diata a qualunque collettività, attraverso la valutazione delle prestazioni scolastiche, l’orientamento professio­ nale, la selezione militare, ecc.). L’anomalia è ormai de­ finibile senza alcun riferimento ad una causa patolo­ gica. La debolezza della tecnica psicometrica dipende tuttavia proprio dal fatto ch’essa si limita ad individuare degli scarti. La psico-pedagogia cercherà di porvi rimedio. Si apre cosi un nuovo e fondamentale solco d’intervento sull’uomo: gli psichiatri smettono di essere i soli specia­ listi qualificati nel trattamento delle anomalie del com­ portamento. Mentre quelli che si distaccano troppo e un po’ in tutte le direzioni dalla norma continuano a di­ pendere dalla medicina, la psico-pedagogia tenterà di occuparsi di coloro che se ne distaccano leggermente, e sotto l’angolo specifico della prestazione scolastica, Di qui un intervento sulle difficoltà scolastiche, che non deve nulla al modello medico del trattamento quanto ai principi su cui si costituisce: da medico-psicologico, di­ venta un intervento propriamente psico-pedagogico. Il dispositivo istituzionale per l’esercizio di questa nuo­ 30

va attività è organizzato dalla legge del 1909, che stabi­ lisce la creazione di classi di perfezionamento, e di una scuola nazionale di perfezionamento per ogni diparti­ mento. Queste istituzioni speciali sono destinate ad ac­ cogliere i bambini che per il loro quoziente intellettivo si pongono al livello della debolezza mentale leggera, e la cui scolarizzazione non può effettuarsi nel quadro del­ l’istituzione scolastica normale. Si tratta di una genera­ lizzazione, e contemporaneamente di una trasformazio­ ne decisiva della formula scuola-manicomio sperimenta­ ta a Bicétre: le scuole speciali vengono poste sotto l’au­ torità della Pubblica istruzione, e non più sotto quella della psichiatria. L’istituzione scolastica potrà ormai formare il suo proprio corpo di specialisti in psico­ pedagogia, ed organizzare un proprio sistema di riedu­ cazione. Questo dispositivo resterà tuttavia latente fino alla fine della seconda guerra mondiale. Nel 1940 non c’erano che 45 classi di perfezionamento; fra il 1945 e il 1950, se ne creano un migliaio. Se consideriamo anche gli effet­ tivi delle 80 scuole nazionali di perfezionamento delle sezioni di educazione specializzata (per gli alunni della scuola secondaria), sono circa 250.000 i bambini che frequentano attualmente questo settore dell’educazione specializzata. Parallelamente si sono creati a partire dal 1970 i gruppi di aiuto psico-pedagogico (GAPP), com­ posti da uno psicologo, un rieducatore in psico­ pedagogia e un rieducatore in psicomotricità. Un GAPP è destinato ad occuparsi di un migliaio d’alunni, al fine di trattare nell’ambiente scolastico stesso il maggior nu­ mero possibile delle difficoltà di adattamento. Rappre­ senta una strategia diversa e complementare a quella che è all’origine delle classi speciali: si tratta di aumen­ tare la soglia di sensibilità ai problemi educativi e rela­ zionali nel quadro scolastico, per diminuire al minimo il numero dei soggetti che devono essere esclusi dal siste­ ma e trattati a parte. La scuola tenta cosi di recuperare 31

sul posto i suoi disadattati. I GAPP sono attualmente circa 1.300, e conoscono un aumento folgorante: 28 nuove creazioni nel 1968, 98 nel 1973, 277 nel 1977. Co­ me nel caso delle classi di perfezionamento, il loro per­ sonale è formato dalla Pubblica istruzione, e dipende unicamente da quest’amministrazione. È dunque almeno in parte un’illusione quella di attri­ buire la penetrazione della psicologia nel settore dell’in­ fanzia allo sviluppo di una linea medico-psicologica do­ minata attualmente dalla psicoanalisi. La psico-tecnica e la psico-pedagogia, che s’ispirano più alla psicologia sperimentale e a Piaget che alla psichiatria classica e a Freud, che vengono esercitate da un personale formato dalla Pubblica istruzione (ci sono circa 20.000 maestri specializzati, 2.000 consiglieri pedagogici e 4.000 perso­ ne nei GAPP) rappresentano una parte delle pratiche psicologiche specializzate nei confronti dell’infanzia al­ meno altrettanto importante di quella che dipende dalle istituzioni psichiatriche, para-psichiatriche e psicoanali­ tiche, poste sotto il controllo di un personale prevalen­ temente medico. D’altronde, lo stesso reclutamento della linea medico­ psicologica dipende strettamente dalla scuola. Certo, i Centri medico-psico-pedagogici (CMPP), che erano 257 nel 1977, sono considerati attualmente i luoghi princi­ pali della diffusione dell’ideologia psicanalitica verso l’infanzia, ed il personale che li anima assume spesso at­ teggiamenti antipedagogici, nel senso di rimproverare alle esigenze scolastiche la loro contraddittorietà con quelle di un vero e proprio trattamento. Ma sul piano delle pratiche, i tests, gli esami, le tecniche ortofoniche, ecc., che rimandano in ultima istanza a delle esigenze pedagogiche, hanno ampio spazio anche in questo tipo di istituzioni. E soprattutto, una parte importante della patologia che quei tecnici prendono a carico è una pato­ logia scolastica, o per lo meno è rivelata dalla scuola. Sin dal primo CMPP, creato nel 1945 al liceo Claude 32

Bernard di Parigi, la maggioranza dei bambini trattati in queste istituzioni sono segnalati a partire dai proble­ mi che incontrano a scuola. Anche strutture più pesanti, quali gli Istituti medico-educativi, gli Istituti medico­ professionali, e quelli che accolgono bambini affetti da disturbi del comportamento (qualcosa come 150.000 bambini in tutto) hanno spesso a che fare con delle dif­ ficoltà di scolarizzazione, e massicce in questo caso: mentre i CMPP trattano i loro assistiti senza rompere con il quadro scolastico e familiare, spesso il bambino che è messo in un istituto medico-educativo speciale è un soggetto non scolarizzabile. Infine, per quel che ri­ guarda le istituzioni del “settore” infantile,4 possiamo stimare a circa la metà la parte della loro clientela che è inviata dalla scuola. Anche quando la “domanda di cu­ ra” è d’origine familiare, è molto spesso indotta o drammatizzata dagli incidenti della scolarizzazione: la patologia scolastica e la patologia familiare sono per lo più indissociabili e si sostengono reciprocamente. Si tratterebbe di una banalizzazione della psicoanalisi, in seno ad un insieme di tecniche psicologiche che l’han­ no preceduta, e che la superano? In realtà, il rapporto fra queste cose è più complesso. La differenza essenzia­ le fra gli attori del settore medico-psicologico e quelli del settore medico-pedagogico sta nella loro maniera d’interpretare e di trattare i problemi dei bambini in difficoltà. Per i primi, impregnati di ideologia psicoana­ 4 “Settore” è il termine tecnico con cui viene indicata una configurazione preci­ sa dell’intervento psichiatrico in Francia, e che è ormai stata riconosciuta per legge. Il territorio è diviso in settori geografici, e su ognuno di questi settori si organizza una istituzione complessa e multiforme che ha lo scopo di rispondere a tutte le domande di assistenza e di intervento connesse con la salute mentale che quel settore muove: si tratta dunque di un’istituzione articolata, dalle forme più “pesanti” d’intervento, tipo ospedale psichiatrico via via sino a quelle più leggere e mobili: ospedali di giorno, antenne di consultazione nei vari angoli del quartiere, distaccamenti in scuole e centri, clubs di ricreazione e di animazione, antenne mobili per interventi a domicilio. Per una storia del settore in Francia cfr. il n. 17 di “Recherches”, Histoire de la psychiatrie de secteur, 1975. [N.d. T.]

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litica, la difficoltà scolastica non è che un sintomo di una patologia relazionale più profonda; si tratta dunque di ritradurre la domanda che si esprime al livello del sistema educativo, per ritrovare la dinamica interna del soggetto, i cui disturbi chiamano in causa il più delle volte la natu­ ra delle relazioni familiari, ed eventualmente abbando­ nare, per far questo, il progetto d’integrazione nella scuola. Per gli psicanalisti in particolare, le esigenze dello sviluppo della personalità del bambino dovrebbero aver sempre la precedenza sulle necessità della vita scolastica. Questa divergenza è reale: il mercato della psicologia in­ fantile è diviso oggi fra il clan degli psico-pedagoghi e il clan degli psicologi d’ispirazione psicanalitica, il cui an­ tagonismo è tanto più vivace in quanto appartengono a strutture istituzionali diverse: Pubblica istruzione da una parte, apparato medico dall’altra. Ma il successo delle spiegazioni psicanalitiche non deve far dimenticare due dati fondamentali della problematica dell’infanzia nei confronti della psicologia. Da una parte, la linea dei tests, delle pratiche di dépista­ ge e di selezione, di controllo delle attitudini e dell’ap­ prendimento e di orientamento pedagogico resta la par­ te quantitativamente più importante. Lo psicologo è sempre più presente accanto al bambino, come terapeu­ ta o come specialista della relazione; ma lo è ancora di più colui che fa i tests, orienta, consiglia pedagogica­ mente, come membro d’infinite commissioni di selezio­ ne. Abbiamo un’idea, per esempio, dell’importanza del­ la Commissione di circoscrizione prescolastica e elemen­ tare (CCPE), creata nel quadro della legge del 1975 sul­ l’assistenza agli handicappati?3 Il parere dello psicologo 3 La legge del 30 giugno 1975 regola l’assistenza alle persone handicappate da un punto di vista sia fisico che psico-mentale, costituendo due Commissioni di­ partimentali responsabili sia del riconoscimento dell’handicap, che dell’iter assi­ stenziale e curativo che gli viene assegnato, sia ancora dell’inserimento dell'indi­ viduo handicappato nella vita sociale e produttiva. Per un’analisi di questa leg­ ge, cfr. il dossier pubblicato dai Sindacato della Magistratura nel n. 32 di “Psy­ chiatric aujourd’hui”. [N.d. T.]

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scolastico è preponderante per decidere se i bambini in­ torno ai 6 anni segnalati dai maestri resteranno nel cir­ cuito scolastico o saranno rinviati davanti ad una com­ missione dipartimentale che li inserirà in un’istituzione specializzata. Dall’altra parte, che sia causa o sintomo, il sistema sco­ lastico è in ogni caso il grande rivelatore a partire dal quale la maggioranza dei bambini disadattati ricade nel­ l’anormalità. Certo, il discorso relazionale tende a di­ ventare predominante nella scuola stessa; e a un punto stltuto medico-educativo (Istituti medico-pedagogico e medico professionale] Centro medlco-psicopedagoglco Gruppi di aiuto pslcopedagoglco

Servizio di educazione specializzata a domicilio

Classi d perfezionamento

Ospedali di giorno Centro d osservazione

^•/Sezione d insegnamento O/ specializzato

Centro d azione medica precoce

Scuola nazionale di perfezionamento

Uffic o di assistenza psicologica universitaria

Centro d Informazione e di orientamento

Sezione del ritardati degli ospedali psichiatrici

GIUSTIZIA Internato specializzato dell'Educatlon Survelllée

Servizio specializzato di collocamento In famiglie Circolo di

Settore di psichiatria Infantile e dell' adolescenza Centro d’ Assistenza orientamento educativa e d'azione In ambiente educativa prevenzione______ aperto

Quadro non completo delle istituzioni il cui personale fa ricorso a psicologi o riceve direttamente una formazione psicologica minima.

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tale, che quando un maestro parla delle difficoltà di un alunno, tende ad imputarle al contesto familiare: anche lui ha potuto ascoltare Fran?oise Dolto,6 o leggere Maud Mannoni, o anche solo “Elle”. Ma se si tratta delle pratiche reali del suo mestiere, le cose vanno altri­ menti, e per una ragione molto semplice: quasi sempre la difficoltà pedagogica è stata il problema di partenza, e anche se la ritrascrive poi nell’ideologia alla moda, è ancora quella difficoltà che deve cercare di superare nel suo lavoro. Cosi la contrapposizione fra le due linee principali di sviluppo della psicologia infantile, quella psico-pedagogica e quella psico-psicanalitica, per quan­ to possa essere importante per capire le controversie in­ terne all’ambiente, va comunque relativizzata. Se la psi­ cologia d’ispirazione psicanalitica coltiva la propria dif­ ferenza rispetto alla psicologia integrata negli obiettivi del sistema scolastico, e che qualifica come “normativizzante”, si trova anche a dover trattare lei stessa una patologia che è prodotta in larga misura dal sistema scolastico. L’antagonismo fra i due settori, insomma, non impedisce che i loro effetti si sommino. Il risultato è che il funzionamento della scuola non è concepibile oggi se non è fiancheggiato da un doppio esercito di psicologi, l’uno dispiegato all’interno del si­ stema scolastico e che tenta dal di dentro di tapparne i punti deboli, l’altro disposto all’esterno in innumerevoli istituzioni collegate direttamente o indirettamente con la scuola per raccoglierne i falliti. Gli uni confessano di es­ sere al servizio dell’istituzione; gli altri moltiplicano gli sforzi, spesso nient’altro che verbali, per distanziarsene. Ma tutti sono costretti a determinarsi rispetto ad essa 6 Franfoise Dolto, psicanalista di origine lacaniana, è la celebre animatrice di una trasmissione radiofonica dal titolo Lorsque l’enfant paraìt (Quando compa­ re il bambino), cui da anni schiere di madri in cerca di un parere psicologico si rivolgono. I testi di questa trasmissione sono pubblicati dalle edizioni Le Seuil, sotto lo stesso titolo; l’edizione italiana è in corso di pubblicazione presso le Emme Edizioni col titolo Parlandone è più facile. [N.d.T.]

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perché è di li che viene l’essenziale della materia prima sulla quale dispiegano la loro attività.

Una nuova cultura psicologica

Un bilancio simile, vale già a suo modo come una de­ nuncia. Attraverso queste pratiche, l’interesse per il bambino, anche quando esiste, resta per lo più subordi­ nato alle esigenze del sistema educativo. È quest’ultimo che, fissando la soglia dei successi necessari e scandendo il ritmo di uno sviluppo psichico normale secondo le tappe dell’iter scolastico, definisce gli incapaci, i devianti e gli anormali. Spezzate la rigidità di questo siste­ ma, diranno i riformatori (o gli utopisti), e vedrete fon­ dersi queste coorti di “bambini con problemi” sui quali gli psicologi vivono da parassiti, anche se talvolta sono proprio loro a rammaricarsene. La psicologia non è al­ tro che una protesi applicata su un corpo istituzionale malato: nel migliore dei casi, recupera dei cascami del sistema educativo e riesce a riciclarli sul posto; nel peg­ giore, li elimina, organizzando per loro un’esistenza di second’ordine in quegli spazi di segregazione che sono le “istituzioni speciali”. Sarà necessario allora che la maggioranza diventi deviante, perché si acconsenta a riesaminare i criteri che definiscono l’anormalità? Cen­ tinaia di migliaia di bambini assistiti sono già la prova vivente che la maggior parte di questi interventi che si richiamano alla psicologia infantile non obbedisce ad una necessità “puramente” psicologica. Ora, questo ruolo svolto dalla psicologia per venire in aiuto ad un sistema scolastico che non funziona, non è che un’illustrazione fra altre di un processo più genera­ le. Quando gli ingranaggi della macchina giudiziaria s’inceppano, quando il lavoro sociale si trova preso nel­ la contraddizione di dover aiutare i poveri senza poter cambiare la loro situazione, quando l’esercizio tradizio37

naie dell’autorità vacilla dappertutto, lo specialista in relazioni umane drizza immediatamente le orecchie. In tal modo, la constatazione di quest’“inflazione dello psicologico” va sempre più di pari passo con la denun­ cia dei rischi sociali e politici eh’essa porta con sé. Invi­ tare un disoccupato ad interrogarsi sulle ragioni “perso­ nali” per cui ha perso il suo posto, è chiaro che non è un’operazione neutra: sarebbe piuttosto qualcosa come il perfezionamento di una politica che economizza la politica. “È un suo problema”, è ormai la nuova versio­ ne sofisticata (soprattutto quando rimanda alle profon­ dità dell’inconscio) della formula cartesiana: “È meglio cambiare i propri desideri che l’ordine del mondo”. Ma si comincia ormai a capire a chi e a cosa servono questi supplementi d’anima, soprattutto quando sono le classi agiate che li organizzano per quelle meno agiate, nel­ l’intento di aiutarle a sopportare la loro condizione. Accorderemo a queste critiche l’essenziale. La psicolo­ gia è una disciplina (o piuttosto un insieme di procedu­ re) a cui si può fare legittimamente ricorso per interpre­ tare delle condotte individuali o anche modificare l’eco­ nomia interna del soggetto, a condizione che si defini­ scano in modo rigoroso le “buone indicazioni” che im­ pongono un simile ricorso (fortunatamente, non è que­ sto il luogo per caratterizzarle). La psicologizzazione, invece, trasforma un problema che andrebbe definito socialmente, storicamente, politicamente (e psicologica­ mente), in una situazione il cui senso si esaurisce nell’elucidare la dimensione psicologica o interpsicologica, e che non può essere trasformata se non trasformando questa dimensione. È quello che qualche anno fa si osa­ va ancora chiamare una mistificazione; ci assumeremo il rischio d’arcaismo che comporta il riprendere a nostro conto questa valutazione. Eppure, proprio nella misura in cui questo tipo di criti­ ca ha cominciato ad imporsi, per lo meno fra coloro che sono disposti ad ascoltarla, è forse venuto il momento 38

in cui, piuttosto che continuare a ripeterla, varrebbe la pena di chiedersi che cosa questa stessa critica comporti a sua volta di unilaterale. A forza di non vedere, nel ri­ corso generalizzato alla psicologia, nient’altro che un palliativo che dissimula le reali poste in gioco sociali, non si rischia di lasciarsi sfuggire che cosa essa inaugura di specifico, quando come oggi diventa essa stessa lo strumento di una modificazione decisiva di queste poste? Parallelamente alla necessaria iscrizione dei pro­ cessi di psicologizzazione nella problematica del con­ trollo sociale, c’è forse lo spazio oggi per una riflessione più azzardata, ma potenzialmente più feconda, sui nuo­ vi poteri della psicologia: si tratta d’interpretare la psi­ cologizzazione non più soltanto come uno strumento di riduzione, di distorsione o d’invalidazione della realtà sociale, ma come quello che ne opera a sua volta un’in­ tensificazione e, cosi facendo, crea al limite una nuova socialità. Per esempio, diventa oggi sempre più chiaro che nell’a­ nalisi del posto occupato dalla psicologia nel sistema scolastico non si è dato conto di tutto quello che avvie­ ne attualmente attraverso la psicologizzazione del bam­ bino. Quel che vediamo a proposito della scuola, è solo un lato di un processo generale di promozione simulta­ nea della scuola e della psicologia. Al tempo stesso eroe e vittima, oggetto di tutte le cure ma anche preoccupa­ zione costante, fonte d’infinita inquietudine attraverso la quale l’identità dei genitori non cessa di rimettersi in questione, ma anche bersaglio spiato con un’attenzione persecutrice, il bambino si trova al centro d’implosione di un movimento di privatizzazione che attraversa at­ tualmente tutta la società. Attraverso Freud, come del resto attraverso Piaget e tutte le conoscenze accumulate dalla psico-pedagogia, la psicologia è arrivata a convin­ cerci che il bambino che è in noi tiene le chiavi essenziali del nostro destino. Questa sorta di grande tautologia che fa dell’infanzia contemporaneamente la terra natale 39

della problematica del soggetto e il principio esplicativo della sua storia, contiene già in germe un’organizzazio­ ne dell’esistenza completamente dominata dalla psicolo­ gia: la cultura della relazione come fine in sé. Si pensi a questa strana invenzione — bisogna pur stu­ pirsi di tanto in tanto — di una “scuola dei genitori”: dato che le difficoltà scolastiche dei bambini sono alme­ no altrettanto d’ordine relazionale che strettamente pe­ dagogiche, i genitori sono messi a scuola, ma alla scuola della psicologia che ormai è diventata l’operatrice di un modello educativo generalizzato. Essere genitore è or­ mai un “mestiere”. Compito infinito, poiché si tratte­ rebbe di realizzare con il figlio quell’armonia relaziona­ le completa che Freud per primo diceva impossibile. E perché essere marito o moglie, vicino, amico o partner sessuale, o assumere un qualsiasi ruolo sociale, non po­ trebbero diventare anche questi dei “mestieri”, cose da apprendere, programmare, lavorare? Non basterà un’intera vita per tentare di avvicinarsi a questi paradig­ mi impossibili attraverso sforzi costanti e con l’aiuto di specialisti competenti, psicologi certo. Lanciarsi nell’av­ ventura del relazionale, è affrontare un paese dalle frontiere incerte, i cui sentieri non sono segnati, in cui i punti di riferimento cambiano e si spostano con il viag­ giatore, e all’ingresso del quale sussiste una sola certez­ za: quella di dover instancabilmente ricomporre, a forza di tecniche, di ricette o di trovate, il puzzle spezzato di una socialità perfetta i cui pezzi sono sparsi nello spazio unidimensionale dello psicologico. Facendo l’ipotesi dell’avvento di una nuova cultura psi­ cologica, cercheremo nella società contemporanea le tracce di questo modo d’organizzazione dell’esistenza sociale in cui, probabilmente per la prima volta nella storia, l’uomo pone se stesso in quanto soggetto come il suo proprio fine, giustifica integralmente il senso della sua vita come il risultato di un lavoro su di sé ottenuto con il ricorso a tecniche psicologiche, e fa del suo conte­ 40'

sto sociale una pura rete di rapporti intersoggettivi tec­ nicamente concertati. Questa vorrebbe essere la posta delle analisi che seguiranno: riconoscere alla psicologia una positività sua peculiare, senza lasciarsi ingannare dalla verità che ostenta. Una positività, significa un po­ tere, al di là della sua capacità di lavorare lo psicologico e di manipolare il sociale, di promuovere forme inedite di vita sociale; una socialità asociale, se s’intende con questo un nuovo modo d’esistenza completamente satu­ ro di psicologia e da cui tutte le altre pesantezze pro­ gressivamente si ritirano.

41

2. La società di relazione

Uno schema semplice, troppo semplice probabilmente, ci si propone in genere per disegnare la carta della dif­ fusione della psicologia nella società. La psicologia scientifica si è costituita nel XIX secolo, assumendo la forma di un’accumulazione di conoscenze oggettive e quantificabili nello spazio astratto del laboratorio, in cui regna il culto della misurazione e dell’esperimento, ed in cui l’animale disputa all’uomo l’onore di promuo­ vere il progresso scientifico. Più tardi, sotto l’influenza della fenomenologia, della psicoanalisi e degli orienta­ menti che ne sono derivati (in particolare, le tecniche di gruppo), essa ha preteso di essere un modo di cogliere l’uomo nella sua totalità, a partire dalla sua dinamica interna e dalle sue interrelazioni con gli altri. La com­ prensione della persona prende il posto dell’oggettività quantificabile come paradigma del sapere, l’interpreta­ zione si sostituisce alla misura come regola di metodo, e le relazioni umane in un contesto concreto o in un grup­ po prendono il posto del laboratorio come spazio di ri­ cerca. Prendono il posto? No, certo; si tratta piuttosto di un arricchimento dei metodi e dei punti di vista, che permette una diversificazione dei bersagli e un potenzia­ mento degli effetti della psicologia. Nuove tecniche fan­ no la loro comparsa ogni anno sul mercato, mentre ra­ ramente si vedono vecchi metodi abbandonare definiti­ vamente la scena, a costo di ribattezzarsi con nuovi no­ mi per intraprendere una nuova carriera. Crescita ineso­ rabile, dunque, questa della psicologia, che avanza co­ me per onde concentriche alla conquista di nuovi terri­ 43

tori. L’immagine della colonizzazione progressiva va cosi insieme con quella della diffusione continua. I vec­ chi spazi, una volta preservati da ogni intervento psico­ logico concertato, come la fabbrica, l’esercito, la giusti­ zia, sono adesso investiti dai nuovi tecnici dell’anima. E non c’è nessuna ragione perché questo movimento s’ar­ resti. Non è tuttavia cosi sicuro che questo processo presenti un carattere talmente continuo ed ineluttabile. Supporlo simile ad una marea che cresce sommergendo progressi­ vamente tutto un paesaggio, vuol dire condannarsi a non vedere nel nuovo nient’altro che del vecchio elevato ad una potenza x: una psicologia sempre più estesa co­ lonizza sempre più terre, prima ancora vergini; vuol di­ re lasciarsi sfuggire brusche trasformazioni, che ricom­ pongono tutt’a un tratto l’insieme della carta. La nostra ipotesi è che si stia producendo attualmente una trasfor­ mazione di questo tipo. Non c’è soltanto, nella società contemporanea, un “sempre più” di psicologia in “sem­ pre più” luoghi inediti; ma è un altro statuto dell’ele­ mento psicologico che si comincia a delineare, ancora molto confusamente per la verità. Secondo questa pro­ spettiva, la psicologia non è più soltanto una batteria di tecniche per riparare lo psichismo (psicologia clinica); né soltanto un insieme di strumenti al servizio delle isti­ tuzioni per migliorarne il funzionamento o soccorrerne la crisi (psico-pedagogia, psicologia industriale, psicolo­ gia militare, ecc.). Non è nemmeno la ricerca “disinte­ ressata” delle leggi di funzionamento della psiche uma­ na (psicologia “generale” universitaria), e neppure l’e­ splorazione in profondità di un’altra scena psichica (psicoanalisi). O meglio, la psicologia è tutto questo contemporaneamente, ma sta diventando anche un’altra cosa: una cultura psicologica di massa, caratterizzata da una preponderanza dei codici individualizzanti in quanhto.grigHe d’interpretazione della realtà, delle tecniche di lustohe psicologica come strumenti della sua trasformaìMiiliiJ*

zione, e dei modelli di sviluppo personale come ideali sulla riuscita dei quali l’uomo mette in gioco il senso globale della sua esistenza. Come far vedere che è proprio questo che la psicologia sta diventando? Usando lo schema evoluzionistico fino a farlo scoppiare; prendendo qualche settore d’espan­ sione della psicologia — psicologia clinica, lavoro socia­ le, psicologia industriale — e seguendone le trasforma­ zioni, per cogliere il momento in cui si produce una mu­ tazione che per la prima volta colloca la psicologia vera­ mente al posto di comando. La psicologia clinica

La psicologia clinica è stata a lungo difficilmente sepa­ rabile dalla medicina mentale, di cui ha rappresentato praticamente sin dall’inizio uno degli orientamenti pre­ dominanti. “Strumenti fisici” e “strumenti morali”, cioè psicologici, sono stati in genere associati, dal XIX seco­ lo in poi, nelle forme più diffuse di trattamento psichia­ trico che Falret qualificava, già nel 1864, di “eclettismo terapeutico”. Il conflitto fra gli “organicisti” e gli “psi­ cologisti” attraversa tutta la storia della medicina men­ tale fino ai nostri giorni. I malati mentali sono stati trattati piuttosto con “strumenti morali” o con “stru­ menti fisici”? Dare una risposta decisa è tanto più diffi­ cile, in quanto il più delle volte non erano trattati affat­ to, e le giustificazioni terapeutiche servivano soprattutto da razionalizzazione per delle pratiche di sorveglianza. Ma questo dibattito, che fino ad una data recente non riguardava che un numero relativamente limitato di pa­ zienti, si è trasformato per effetto della comparsa di una nuova classe di disturbi psichici che è diventata quantitativamente la più importante. L’epidemiologia delle malattie mentali rivela l’importanza crescente dei casi di patologia leggera, che sono poi i casi per i quali 45

l’orientamento psicoterapico rappresenta un’indicazione privilegiata. Per esempio, un quarto dei permessi per malattia rilevati dalla Sécurité Sociale1 della zona di Pa­ rigi sono catalogati nella rubrica dei disturbi psichici. Più diffusa, o meglio individuata, la patologia mentale è anche meglio accettata, e talvolta addirittura rivendi­ cata come una ragione o un alibi per aggirare certe dif­ ficoltà della vita sociale. Sarebbe possibile spiegarsi al­ trimenti l’aumento folgorante delle riforme accordate al servizio militare per motivi psichiatrici (meno del 20% nel 1972, circa il 50% nel 1976)? Questo semplice dato indica già di per sé come la rappresentazione del distur­ bo psichico sia almeno parzialmente distaccata dall’or­ bita della psichiatria manicomiale che aveva costituito la follia come un oggetto di orrore e di rifiuto. Una trasformazione di questo genere implica due serie di conseguenze. Da una parte, è chiaro che le modalità di trattamento di questa patologia più leggera devono essere più duttili; ma duttilità, significa qui anche allar­ gamento del pubblico e moltiplicazione dei soggetti trat­ tati. Da un secolo, e qualsiasi sia il modo in cui sono stati trattati, maltrattati o non trattati affatto, c’è sem­ pre più di un centinaio di migliaia di pazienti negli ospe­ dali psichiatrici; ed è ancora press’a poco la cifra attua­ le. Ma a fianco di questa massa più o meno costante, sono venute ad aggiungersi nuove popolazioni: i malati del “settore”, anch’essi cioè presi a carico dal sistema psichiatrico pubblico, ma in istituzioni più duttili quali i consultori, gli ospedali di giorno, le visite a domicilio; e la clientela privata dei neuropsichiatri, degli psicanalisti, degli psicologi e persino dei medici generici. Trent’anni fa, i 400 medici dell’insieme degli ospedali psichiatrici assumevano ancora nell’istituzione il grosso delle cure psichiatriche. 1 La Sécurité sociale è l’organizzazione centrale che raggruppa tutta l’assistenza Sanitaria in Francia. [N.d. T.]

46

Oggi, il numero di questi psichiatri pubblici si è quadru­ plicato, ma i loro effettivi sono ormai inferiori a quelli dei neuropsichiatri, degli psicanalisti e degli psicologi clinici che esercitano privatamente. La psichiatria, asso­ ciata alla neuropsichiatria e alla neurologia, è dopo la chirurgia, la seconda specialità medica quanto al nume­ ro dei praticanti in servizio, e raggruppa il 4,4®7o dell’in­ sieme del corpo medico. Ma la clientela dei medici gene­ rici è composta, per tre quarti, di malati affetti da di­ sturbi psichici; in totale, si valuta a circa venticinque milioni il numero annuo degli atti medici che hanno a che fare con la malattia mentale. E questa cifra non tie­ ne conto dei numerosissimi interventi praticati da un personale che sfugge a queste contabilizzazioni, gli psi­ canalisti selvaggi, gli psicologi marginali, o quelli che lavorano “al nero”, non foss’altro che per frodare il fi­ sco. Dall’altra parte, un tale abbassamento della soglia di tolleranza nei confronti della patologia mentale, ha fat­ to la fortuna di tutte le forme di terapia. Sarebbe un er­ rore contrapporre la somministrazione delle medicine e le psicoterapie, per esempio con il pretesto che queste ultime presuppongono la presa in considerazione della personalità mentre le prime mettono in moto delle rea­ zioni cieche di tipo chimico. Non solo nella pratica que­ ste forme d’intervento sono molto spesso associate, ma sono anche richieste in modo relativamente interscam­ biabile, in nome di un’ideologia generalizzata della cu­ ra, che banalizza la malattia mentale e fa si che il di­ sturbo psichico diventi oggetto di un trattamento quasi come un’altra malattia. L’aumento prodigioso del con­ sumo farmaceutico, il ritorno cui si assiste oggi delle ri­ cerche e delle spiegazioni di tipo biologico a proposito dei disturbi psichici, la solida tenuta di posizioni medi­ che in psichiatria, in particolare nei reparti degli ospe­ dali generali, vanno dunque di pari passo con l’amplia­ mento del mercato dei beni psicologici. Sarebbe perciò 47

Professioni

Effettivi in preparazione all’1-10-1978

Numero dei diplomi rila­ sciati nel 1978

Effettivi in attività all’ 1-10-1978

Infermiera psichiatrica

7.050 (I e II anno)

4.300

47.101

Puericultrice

968

868

6.500

Ergoterapeuta

608

198

1.500

2.485

460

2.000

Psico-rieducatore

Al 31-12-1978

109.755 praticanti 44.634 medici qualificati

1% 2% 3% 4% 5% % rapporto al numero ______ I______ I l______I______I complessivo dei praticanti 5

Chirurgia Neurologia, psichiatria, neuropsichiatria

4,4

Ginecologia, ostetricia

3,9

Radiologia

3,9

Oftalmologia Pediatria

Cardiologia

3,6

3,1 2,8

Dati tratti da “Le Monde”, La sanlé des Francis, 1979, p. 40.

al tempo stesso impossibile e vano cercare di mettere in cifre la proporzione degli interventi che appartengono a tecniche psicologiche in senso stretto, rispetto a quelli più classicamente medici. Più che mai, il medico­ psicologico è oggi una nebulosa che associa una gamma diversificata di modalità d’intervento in un larghissimo ventaglio istituzionale. Ma in questo ventaglio, l’approccio psicoterapico si è assicurato una posizione centrale, e il pubblico attuale della psicoanalisi basterebbe a provarlo. Questa relativa preponderanza delle varie forme di psicoterapia si spie­ ga in parte con l’elasticità delle loro condizioni di appli­ cazione. Esse possono infatti praticarsi nell’istituzione o fuori dell’istituzione, da sole o associate ad altre tecni­ che, di terapia chimica per esempio; essere iniziate — o interrotte — nella maggior parte dei casi mentre il sog­ getto continua ad assumere il grosso dei suoi compiti. Ma soprattutto, la categoria del patologico si è attenua­ ta essenzialmente grazie alla popolarizzazione di una concezione psicologizzante dell’eziologia dei disturbi psichici. Finché essi evocavano una tara, una lesione or­ ganica, una degenerescenza, portavano il segno di una stigmate strana ed estranea, e suggellavano definitiva­ mente un destino tragico. In questo senso, il pazzo è sempre l’altro. Questa rappresentazione resta vera, ma per una minoranza dei casi. Invece, la depressione ner­ vosa, il passaggio a vuoto, tutta una patologia relazio­ nale e familiare, possono iscriversi come degli incidenti di percorso in un’esistenza che conserva nell’insieme i suoi contorni familiari. Cosi una rappresentazione del disturbo psichico a domi­ nante psicologica è stata il vettore principale d’espan­ sione del settore medico-psicologico, diventato, man mano che aveva presa su frange di patologia più legge­ ra, sempre più psicologico che medico. Questo resta ve­ ro, anche se la totalità delle pratiche che ricopre que­ st’etichetta non sono psicologiche, ed anche se la mag­ 49

gioranza di coloro che sposano quest’orientamento (psi­ chiatri di tendenza psicanalitica, assistenti sociali, ortofonisti, rieducatori della psicomotricità, nuovi infermie­ ri psichiatrici che lavorano fuori dell’ospedale, e perfino i medici generici) non sono etichettati come psicologi. La situazione che prevaleva ancora una trentina di anni fa — da un lato un numero limitato di soggetti grave­ mente colpiti che bisogna trattare, dall’altro un’immen­ sa maggioranza di “normali” che non hanno bisogno di nessun aiuto specializzato per condurre la propria esi­ stenza — è dunque ormai superata. Un’immensa do­ manda si è precipitata nella breccia aperta da quest’am­ morbidimento della categoria del patologico. Quando i sintomi proteiformi del disagio di vivere sono percepiti come delle “indicazioni” che legittimano l’appello allo specialista dell’aiuto psichico, allora non ci sono più li­ miti che si possano porre all’intervento delle tecniche psicologiche. Ma a questo punto, se tutti e nessuno possono diventare un cliente di questi nuovi tecnici, la prospettiva si rove­ scia: diventa chiaro che il fatto di farvi ricorso non si può spiegare unicamente con un bisogno crescente di es­ sere “curato”. Il senso di queste tecniche non si esauri­ sce nemmeno nel rimediare ai traumi causati dalla vita moderna, secondo una concezione molto diffusa dell’e­ sistenza di un rapporto stretto fra lo squilibrio della personalità e le condizioni cosiddette invivibili nelle quali saremmo immersi. In realtà, i lavori che hanno cercato di stabilire una relazione fra l’aumento della pa­ tologia individuale e certe caratteristiche della civiltà moderna sono lungi dall’essere convincenti. È il concet­ to stesso di salute che è ormai scoppiato: la salute non è più qualche cosa da riparare con delle tecniche psichia­ triche classiche; non è neanche più qualche cosa da pre­ servare con delle tecniche di prevenzione; è diventata qualcosa da coltivare. Per designare questa mutazione, gli americani hanno inventato l’espressione “terapia per 50

i normali”. Se la formula ha un senso, essa indica un lavoro da compiere sulla normalità stessa, per rinfor­ zarla e farle produrre una sorta di plusvalore di salute. In questo caso, sarebbe probabilmente preferibile ab­ bandonare ogni riferimento, anche solo verbale, alla te­ rapia, poiché siamo ben al di là della differenza fra nor­ male e patologico. Ma sarebbe per affermare con più forza ancora che le tecniche psicologiche inaugurano un nuovo stile d’esistenza, in funzione del quale lo svilup­ po della propria personalità diventa, per l’individuo, un fine in sé ed un compito infinito. La psicologia è diven­ tata un insieme di procedure che lavorano il potenziale personale di ognuno per massimizzarne il rendimento. Per la prima volta, la psicologia si concede l’audacia di pretendere di creare direttamente dello psicologico. Il lavoro sociale

Il lavoro sociale deriva direttamente dalla tradizione della filantropia, delle opere pie, delle patronesse, dei buoni sentimenti. Ma è anche un altro terreno in cui la psicologia è emersa progressivamente, dal ruolo di co­ pertura e di punto d’appoggio, per arrivare fino a pre­ siedere tutto un settore di politiche assistenziali. Una psicologia spontanea si ricollega direttamente a queste figure del paternalismo caritatevole, che, in forme pri­ ma religiose e poi morali, hanno sempre ispirato gli in­ terventi dei ricchi verso i poveri. Eppure il problema è proprio sociale, poiché si tratta di calmare le zone più turbolente della società, là dove si agitano tutti i disere­ dati, che non hanno niente da perdere perché niente è stato loro dato. Che gli si dia dunque quel tanto che ci vuole perché si riconoscano in un rapporto di dipenden­ za con i propri benefattori. La carità religiosa o laica trasforma la massa dei poveri in una clientela; di qui, un doppio vantaggio: non solo infatti essa riesce a cal­ 51

mare le manifestazioni più brutali del bisogno, ma in più lega a sé queste orde selvagge — classi sventurate, classi pericolose — attraverso il sottile legame della gra­ titudine, la cui sottigliezza è fatta apposta per le anime semplici. Ma questa, si dirà, non è che la preistoria del problema, prima che l’assistenza raggiunga la serietà e l’oggettività di un vero e proprio lavoro. Appunto, ma come si è prodotto questo passaggio? Attraverso gli effetti inter­ connessi della professionalizzazione e della psicologiz­ zazione. Il lavoro sociale si è costituito come una professione ne­ gli Stati Uniti durante i primi due decenni del XX seco­ lo. All’inizio del secolo, la tradizione dell’assistenza ca­ ritatevole, molto forte perché legata all’organizzazione della comunità protestante, sembra sprovvista di mezzi, soprattutto nelle grandi città, di fronte ai problemi nuo­ vi posti dalla rivoluzione industriale e dall’emigrazione massiccia. Lo schema interpretativo proposto dalla “nuova psicologia” — come si diceva a quell’epoca —, cioè la psicoanalisi, permette di uscire dalla crisi dando al lavoro sociale una cauzione scientifica. Essa ricodifi­ cherà tutte le vecchie pratiche secondo le esigenze della nuova razionalità, e permetterà nello stesso tempo che esse siano riorganizzate da professionisti che hanno ri­ cevuto una formazione omogenea, dispensata nelle scuole specializzate e sanzionata da un diploma. Come dice nel 1923 un responsabile del movimento: “Il social case work era affamato di psicologia operativa, e non aveva a sua disposizione, per nutrirsi, che le briciole della psicologia accademica. Le dottrine dell’igiene mentale e della nuova psicologia hanno risposto ad un bisogno avvertito ormai da tempo.” Questo social case work diventa allora la forma quasi esclusiva d’intervento del lavoro sociale, e ne porta cosi anche tutta l’ambiguità. Metodo di manutenzione retto da pochi principi semplici (rispetto della persona, capa­ 52

cità d’ascolto, benevola comprensione), è detto sociale perché il suo bersaglio è sempre quel che convenzional­ mente si indica come “problemi sociali” o “casi sociali”, cioè quella negatività sociale rappresentata dalla mise­ ria, dalla disoccupazione, dallo sradicamento, dalla vec­ chiaia o dall’infanzia abbandonata, dalla malattia non assistita. Ma interpreta questa sventura sociale in termi­ ni di “domanda” trattata caso per caso, attraverso in­ terventi individualizzati. Una condizione generale viene ritrascritta in termini di storia individuale, un destino collettivo in quelli di una particolarità di comportamen­ to, una causalità oggettiva in quelli di una responsabili­ tà personale. Il “modello individualizzato di trattamen­ to” prolunga la tradizione del moralismo caritatevole, perché prende in considerazione più i poveri che la po­ vertà; si occupa dei soggetti individuali, in quanto por­ tano in sé la ragione della loro sventura: tutti questi di­ sadattati psichici, instabili emotivi, ed altre specie di ego deboli che una competenza a base psicologica assisterà ormai scientificamente. Cosi facendo, estende l’ideolo­ gia del colloquio individuale e dell’incontro personale a tutta una nuova clientela tradizionalmente esclusa da questo tipo di servizi che evocano le libere professioni. In tal modo, il lavoro sociale si affranca al tempo stesso dalla necessità di fornire essenzialmente dei soccorsi in denaro e dalla tentazione di interpretare in termini eco­ nomici o sociali i problemi cui deve far fronte. Questa “rivoluzione” del lavoro sociale è praticamente compiuta, quando scoppia negli Stati Uniti la grande crisi del 1929. Il modo in cui la professione vi reagirà, lo si può dedurre già da queste premesse psicologiche; vale forse comunque la pena di rifletterci un momento. Nel 1930, la presidentessa dell’Associazione nazionale dei lavoratori sociali dichiara: “La vera fonte dell’azio­ ne è nella intima natura dell’uomo, donde l’inutilità di tutti i programmi ufficiali, in particolare di quelli che dipendono dallo Stato.” Dichiarazione che suona come 53

un’eco di quella pronunciata nello stesso anno dal presi­ dente della National Association of Manufacturers, per il quale l’intervento sui problemi della disoccupazione e della povertà “non è una funzione che spetti legittimamente al governo”, perché la povertà “proviene dalla disoccupazione volontaria, dall’imprevidenza, da vari peccati, o malattie, o altre sventure”. Se c’è una diffe­ renza fra gli specialisti del lavoro sociale e i rappresen­ tanti degli interessi del grande capitale, sta nel passaggio dal moralismo allo psicologismo, ma al servizio di una stessa politica. In Francia, la costituzione del lavoro sociale come pro­ fessione è stata molto più tardiva, ma ha obbedito alla stessa logica. A partire dall’inizio degli anni Cinquanta, il case-work (e la conservazione della parola sottolinea d’altronde l’origine americana) si impone su larga scala, dando alla pratica assistenziale sia un metodo generale d’intervento che uno statuto di oggettività. A partire dalla stessa data assistiamo anche ad una diversificazio­ ne progressiva della professione. A fianco degli inter­ venti più tradizionali, diretti alle popolazioni più povere — distribuzione di soccorsi, collocazione dei bambini, protezione in termine di aiuti alle famiglie, controllo del comportamento delle famiglie meno integrate, ecc. — si sviluppano attività varie di prevenzione, di azione edu­ cativa o di animazione culturale. Se il pubblico cui ci si dirige non sono solo le frange più handicappate della popolazione, ma i giovani come i vecchi, i marginali co­ me i poveri, gli abitanti delle cités moderne come quelli dei ghetti d’immigrati, è qui indubbiamente in atto un principio di estensione infinita di un tipo di attività i cui primi bilanci sono già impressionanti. (Vedere la tabella alla pagina a fronte). Non ci attarderemo a denunciare estesamente la funzio­ ne politica di queste pratiche, se non altro per la sempli­ ce ragione che è stato fatto altrove. Ma senza rinunciare a queste critiche, viene oggi meglio fuori che la pura 54

Quadro dei professionisti impegnati nei vari settori di lavoro sociale. Vengono qui prese in considerazione soltanto quelle professioni più direttamente legate al­ la definizione tradizionale del lavoro sociale, escludendo cioè specializzazioni del tipo dell’animazione culturale, che mobilita schiere di persone impiegate da varie amministrazioni e che è in qualche modo impossibile contare, tant’è vero che le valutazioni oscillano fra i dieci ed i sessantamila.

Diploma rila­ sciato da

Scuola ricono­ sciuta da

3 anni

Min. della sanità

Sanità Istruz. Giustizia

Licenza liceale o equiv.

3 anni

Min. della pubbl. istruzione

Sanità Istruz. Giustizia

16.500

B.E.P.C. o equiv.

1-2 anni

Min. della pubbl. istruzione

Sanità Istruz. Giustizia

Educatori di adolescenti

7.500

Licenza liceale

2 anni

Min. della sanità

Sanità Istruz.

Consiglieri di economia familiare e sociale

3.700

Licenza liceale

3 anni

Min. della sanità e pubbl. istruzione

Sanità Istruz.

Lavoratrici domestiche

6.300

nessuno

7 mesi 1/2 + 1 anno di prova

Min. della sanità

Sanità

Educatori dell’Education surveillée

2.000

Licenza liceale + concorso

2 anni

Min. della giustizia

Giustizia

Educatori tecnici spe­ cializzati

1.700

Licenza liceale o brevetto tecnico + 5 anni di pratica

3 anni

Min. della pubbl. istruzione

Sanità Istruz. Lavoro

B.E.P.C. o equiv.

2 anni

Min. della sanità

Sanità

Effettivi

Livello richiesto

Durata studi

Assistenti sociali

25.000

Licenza liceale

Educatori specializzati

22.000

Aiuto assi­ stenti

Aiuti medico­ psicologici

600 in formaz.

I dati sono tratti dal Rapporto della Commissione Vita Sociale, 1976, del Com­ missariato ministeriale della Pianificazione. Statistica annuale delle professioni che concorrono all’azione sanitaria e sociale. Sante Sécu Statistiques et Commentaires, 1975.

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condanna non rende conto di tutte le dimensioni del la­ voro sociale. Prendiamo per esempio la pratica preventi­ va di un’équipe di educatori in una cité de transit1-, se non sono del tutto ingenui socialmente e politicamente, questi educatori per lo più sanno perfettamente che i problemi quotidiani che si trovano ad affrontare pro­ vengono nella maggior parte dei casi dalla miseria, dallo sradicamento sociale, dalle condizioni abitative, dal raz­ zismo, ecc. Ma sanno anche che praticamente non han­ no presa alcuna su queste “realtà”. Tutt’al più, possono tentare con difficoltà di stringere dei rapporti con i gio­ vani, e di fargliene stringere fra loro, di investire e di far investire delle relazioni attraverso l’organizzazione di at­ tività diverse e di compiti comuni. In che misura queste pratiche modificano le condizioni “oggettive”, quali il lavoro, il reddito, l’alloggio, i rapporti fra i gruppi etni­ ci? Anche se questo è l’obiettivo del personale più impe­ gnato politicamente, credere che questo esaurisca il sen­ so della loro attività sarebbe un’ingenuità opposta alla precedente. Sarebbe già un successo, se si arrivasse ad organizzare una trama di socialità abbastanza intensa perché i giovani trovino in questa sorta di creazione il modo di stabilizzare la loro esistenza e di realizzare alcu­ ni dei loro bisogni o desideri essenziali. Questo cuscinet­ to relazionale non rischia di costituire uno schermo che dissimula la “realtà oggettiva” della condizione dei gio­ vani e contribuisce cosi a mantenere lo statu quo? Molto probabilmente. Ma non è una ragione sufficiente per fame un’invenzione machiavellica destinata a deviare o invalidare le “vere” poste in gioco. C’è anche una “veri­ tà”, o piuttosto una positività di questo lavoro, ed è pro­ prio perché ha una sua consistenza che può avere una 2 “Cités de transit” è la denominazione corrente dei nuovi centri urbani che sor­ gono improvvisamente intorno alle grandi città, in genere destinati soprattutto ad ospitare provvisoriamente le popolazioni d’immigrati; è in questi centri, nella loro desolata solitudine, che la cosiddetta nuova delinquenza, per lo più giova­ nile, e dunque l’inserzione di unità educative e socializzanti, si diffondono parti­ colarmente. [TV. d. T. ]

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funzione sociale e politica. Questa positività sta nel fat­ to che tutta una parte del lavoro sociale appartiene alla psicologia. La psicologia non vi detiene soltanto un ruolo di copertura o di schermo rispetto ad altre poste: essa è la materia prima istituita dalla pratica sociale, cioè la creazione di un nuovo tessuto di relazioni. Certo, non tutte le pratiche assistenziali rientrano in questa categoria. Sussiste tutto un vecchio fondo di mi­ sure “sociali” dirette a quel che si designa talvolta come il quarto mondo, cioè tutti i reietti della civiltà moder­ na. Ma le forme più dinamiche del lavoro sociale perse­ guono piuttosto la prevenzione che la riparazione, l’ani­ mazione che la repressione, l’educazione che l’esercizio diretto della costrizione. La differenza fra queste due fi­ gure non è tanto un maggior o minor ricorso alla psico­ logia, perché un lavoro psicologico teso al raddrizza­ mento morale degli assistiti ha sempre accompagnato anche i più vecchi interventi. È piuttosto lo statuto dello psicologico che è cambiato. Nelle forme tradizionali di lavoro sociale, esso accompagna i provvedimenti di or­ dine materiale, per controllare l’uso che ne fanno i be­ neficiati e rinforzare la funzione d’integrazione che vie­ ne loro attribuita. Nelle sue forme più nuove, invece, lo psicologico costituisce la materia stessa dell’intervento, attraverso lo sforzo di costituire interamente una nuova socialità. Il limite ultimo di sviluppo del lavoro sociale è forse meno la generalizzazione di una società di assistiti, come spesso si tende a pensare, che non l’organizzazio­ ne di una società del simulacro, le cui regole sarebbero già date, e la loro applicazione scientificamente condot­ ta dall’esperto di relazioni umane.

La psicologia del lavoro

Anche in un settore cosi fortemente strutturato dalle necessità economiche come il mondo del lavoro, af­ 57

fiora questa specie di creatività sociale della psicologia. Taylor, che molto probabilmente portò per primo siste­ maticamente uno sguardo di tecnico sull’organizzazione del lavoro, non si appesantiva con sottigliezze psicologi­ che: il rendimento era la sua sola ossessione, e per au­ mentarlo gli sembrava sufficiente razionalizzare la divi­ sione dei compiti. Ma negli anni Venti un’esperienza fa­ mosa, messa in piedi in una fabbrica di materiale elet­ trico (la Western Electric), rivelava che una migliore or­ ganizzazione dei rapporti in seno ad un’équipe poteva avere un’incidenza su questo benedetto rendimento: la produzione di un’équipe di operaie era aumentata del 30% per la semplice ragione che ci si era occupati di lo­ ro, e che si era lasciata loro una certa iniziativa per la definizione dei loro compiti. Questo significò aprire le porte ad una marea di esperienze tese a scoprire l’opti­ mum di soddisfazioni relazionali compatibili con le esi­ genze della produttività. Tuttavia il bersaglio di queste ricerche si è molto rapidamente spostato dal personale esecutivo al personale di controllo, ed il fine perseguito non è stato più tanto l’aumento diretto del rendimento, quanto l’attenuazione dei conflitti in seno all’équipe o all’azienda (beninteso anche perché queste tensioni pos­ sono avere un effetto sul rendimento, sia frenando la produzione, sia suscitando dei conflitti suscettibili di condurre a disordini, a scioperi, ecc.). Nell’immediato dopoguerra, i lavori di Lewin sulla “ri­ cerca-azione” sono all’origine della fondazione del Na­ tional Laboratory Training, che mette a punto delle tec­ niche psico-sociologiche d’intervento a partire dalla co­ noscenza dei meccanismi d’interazione di gruppo (train­ ing group). Quando il NLT lancia un “President’s Lab Program”, un programma cioè per spingere i managers a trasformare il loro stile di comando tenendo conto di queste famose “relazioni umane”, decuplica immediata­ mente il suo volume di affari, a riprova fra l’altro che questa nuova clientela non è composta soltanto di “pre­ 58

sideriti”, ma di tutti i capi, sotto-capi, apprendisti capi e piccoli capi che vi intravvedono un modo per sposare l’ideologia new look della direzione. Nei fatti, sin dalla fine degli anni Cinquanta tutti i quadri di molte grandi compagnie, come la Texaco, hanno partecipato a que­ st’impresa di “sensibilizzazione alle relazioni umane”; i padroni autoritari della vecchia scuola sono diventati quadri affabili, cui non ripugna più la discussione da uomo a uomo. Ma bisognerebbe essere stranamente idealisti per pensare che questa conversione all’umanesi­ mo finanziata dai benefici delle multinazionali abbia trasformato le divisioni di classe. Nel 1955 l’Agenzia Europea di Produttività invia una missione negli Stati Uniti per studiare questi metodi; l’anno successivo, il professor Arbousse-Bastide è inca­ ricato dal Commissariato Generale della Produttività di analizzare la pratica delle Business Schools americane in materia di formazione alle relazioni umane. È l’inizio dell’importazione in Francia di un sogno di democrazia americana, di cui la psicologia sarà l’intermediaria. Ma il capitalismo francese non è ricco come il suo modello americano, e le tradizioni paternalistiche del padronato lo rendono poco sensibile a queste innovazioni, che ap­ paiono a molti, nella migliore delle ipotesi delle gentili fantasie, e nella peggiore dei vivai di pericolosi germi di anarchia. Per di più, l’ideologia non direttiva, e perfino un po’ anarchicheggiante di certi promotori francesi di questi metodi, come Max Pagès, fa si ch’esse restino a lungo confinate ad un livello quasi sperimentale di ri­ cerche sui “gruppi di formazione”, o che siano applicate soltanto in qualche azienda di punta. Le cose sono però molto cambiate da qualche anno. La legge del 16 luglio 1971 sulla formazione permanente impone che 1’1,1% della massa salariale sia consacrato alla formazione del personale, altrimenti questa somma deve essere versata al Tesoro. A partire da quest’inizia­ tiva, ispirata dalla volontà del governo Chaban-Delmas 59

di preparare il personale a far fronte ai cambiamenti re­ si necessari dalla riconversione dell’economia, e di cal­ mare i conflitti sociali secondo l’ideologia gaullista della partecipazione, si mettono a proliferare istituti di for­ mazione, e di formazione di formatori. Ci sono aziende che organizzano da sé il riciclaggio del loro personale, in continuità con la vecchia formazione sul campo, e re­ stano per questa ragione spesso molto tradizionali; ma ci sono anche gli organismi pubblici e interprofessionali, la Pubblica istruzione, il Ministero del Lavoro, o quello dell’Agricoltura, l’ASSEDIO,3 il CNPF,4 le Ca­ mere del Commercio e dell’industria, le Camere dei Mestieri, ecc., che si aggiornano (per esempio, le 250 Associazioni di Formazione padronali impiegano at­ tualmente 3.000 formatori); c’è infine un florido settore privato, che va dalle grandi aziende, come la CEGOS o l’istituto francese di Gestione, fino alla miriade di pic­ coli organismi artigianali (la lista della professione con­ ta ben 700 di questi “indipendenti”), che offrono mi­ gliaia di formatori di ogni sorta. Vasto mercato dalle frontiere mobili, poco sicuro della domanda che gli viene rivolta, come di quel che può of­ frire: ma questa è solo una ragione di più per rincarare sulle tecniche psicologiche. Quel programma di riciclag­ gio dei quadri, per esempio, è in grado di garantire loro la sicurezza di conservare il proprio impiego, o di ritro­ varne uno se sono disoccupati? Difficilmente. Invece, è sempre possibile “lavorare sulle relazioni”, “facilitare la comunicazione”, “risolvere le tensioni”, “sbloccare”, ecc.: è la materia prima che un gruppo si dà fin dal pri­ mo momento in cui si riunisce, e si può sempre fare l’i­ potesi, peraltro raramente provata, che questo tipo di esercizi di ammorbidimento potrà essere trasposto nelle 3 ASSEDIO è l’ente statale che gestisce i fondi finanziari destinati ai disoccupa­ ti, e dunque l’attribuzione degli assegni ed il controllo che implica. [N.d. T.] 4 CNPF è la sigla con cui viene indicata l’organizzazione del padronato, l'equi­ valente francese della Confindustria. [N.d.T.]

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condizioni reali di esercizio dell’autorità, per il bene in­ dissociabile dei partecipanti e dell’azienda. La forma­ zione del personale è cosi diventata una consumatrice bulimica dei metodi psicologici più svariati. , Come per il lavoro sociale, anche qui bisogna far atten­ zione a non limitare il ruolo della psicologia nel mondo del lavoro a questo ramo in espansione in cui si sviluppa una nuova cultura della relazione. L’uso dei tests psico­ tecnici per verificare le attitudini dei candidati ad un’ampia gamma di mestieri, la pratica del colloquio psicologico per l’accesso a posti che comportano un mi­ nimo di responsabilità, tutte queste utilizzazioni più tra­ dizionali della psicologia hanno un peso più che mai de­ cisivo, poiché condizionano l’assunzione o la promozio­ ne interna di milioni di persone. In tutti questi casi si tratta di una subordinazione diretta della psicologia agli interessi dell’azienda, poiché le motivazioni o il “profi­ lo” del candidato sono beninteso definiti a partire dalle esigenze del compito da svolgere. Ma queste permanenze non escludono l’emergenza di una nuova funzione psicologica, che non è possibile in­ terpretare come semplice estensione dei ruoli svolti pre­ cedentemente. La legge sulla formazione permanente rappresenta probabilmente la migliore illustrazione di questa trasformazione, benché il fenomeno che essa ri­ vela sia molto più vasto. Proponendosi di “facilitare l’adattamento degli uomini alle mutazioni che toccano oggi la società”, questa legge esemplifica un nuovo mo­ do di gestione del sociale, di cui le tecniche psicologiche sarebbero le operatrici. Apre infatti un quadro di pre­ scrizioni vuote, perché non si può anticipare con esat­ tezza la realtà delle riconversioni economiche che si ri­ veleranno necessarie o delle trasformazioni tecnologiche che interverranno. Essa non impone dunque questa o quella disposizione precisa, ma (il che è paradossale nel caso di una legge) l’esigenza di lavorare l’etos degli indi­ vidui che subiscono o subiranno il cambiamento, d’in­ 61

segnare agli uomini a cambiare: trasformare le mentali­ tà e le abitudini, sviluppare le risorse interne e le capaci­ tà d’innovazione del personale. Il lavoro psicologico su questo personale diventa cosi proprio ciò che dà alla legge il suo contenuto. La psicologia è diventata l’ope­ ratore di un progetto politico di controllo dei rischi so­ ciali. Si tratterebbe, al limite, di fare di tutti i lavoratori una specie di precari permanenti, capaci di adattarsi in ogni momento all’insieme delle situazioni possibili defi­ nite dalle esigenze economiche, grazie alla formazione psicologica ricevuta. Se il suo obiettivo è di adattare al cambiamento senza cercare di cambiare il cambiamento stesso, il che vor­ rebbe dire toccare le sacre leggi del profitto, è chiaro che un progetto del genere serve gli interessi dei gruppi dominanti. Ma non è più essenzialmente una risposta ad una minaccia portata dai gruppi dominati, e la sua logi­ ca, più preventiva che repressiva, differisce dalle strate­ gie classiche di assoggettamento delle classi popolari. Questo salto qualitativo della problematica del control­ lo è reso possibile dal dispiegamento di una batteria di tecnologie psicologiche nel cuore di un programma di azione sociale. Insomma, si tenta qui di cogliere una mutazione che da­ rebbe allo psicologico una sorta di autonomia relativa, non perché rappresenterebbe un settore riservato ed in­ toccabile, ma al contrario perché costituirebbe di per sé un nuovo dispositivo tecnico di trasformazione della problematica sociale. E questo perché ritroviamo la stessa promozione dello psicologico in altri settori della produzione. Per esempio, tutta una nuova politica del­ l’azienda che mette l’accento sulle riorganizzazioni in­ terne, sui riadattamenti nella distribuzione dei compiti, sui miglioramenti nel modo in cui le informazioni circo­ lano, cosi come lo sviluppo di una politica contrattuale, lo stile new look della concertazione fra “partners socia­ li”, la modificazione delle tattiche sindacali, passano 62

anche attraverso l’organizzazione di una nuova econo­ mia delle relazioni. Sottolineare l’importanza di queste trasformazioni, non è dimenticare le necessità economi­ che o gli antagonismi sociali; è cercare di capire il lega­ me che esiste fra i tentativi nuovi di gestire questi pro­ blemi socio-economici e la promozione relazionale. Due statuti dell’elemento psicologico coesistono dunque nella società contemporanea. Se si mette fra parentesi quella psicologia di tipo introspettivo che, come rifles­ sione sul vissuto, ha accompagnato probabilmente da sempre l’avventura dell’uomo alla ricerca di una cono­ scenza di sé, 1’esistenza di una psicologia “scientifica” coincide con la comparsa di un corpo di specialisti, ar­ mati di metodi e di tecniche, che misurano, valutano, organizzano, immagazzinano e ridistribuiscono cono­ scenze prelevate sull’uomo. Che cos’è un esperto di psi­ cologia? Qualcuno che la sa sempre più lunga sul sog­ getto del soggetto stesso. Constatazione banale, ma suf­ ficiente a togliere parecchie illusioni: l’esistenza di una psicologia specializzata significa che il sapere prelevato sull’uomo non è più soltanto una conoscenza di sé de­ stinata a ritornare integralmente al soggetto. Cosi, po­ tremo evitare d’indignarci di una cosiddetta deviazione della psicologia, il cui sapere puro sarebbe stato scon­ volto di senso e messo al servizio di obiettivi istituziona­ li, politici, sociali, estranei ai suoi scopi umanistici. Le “utilizzazioni” della psicologia fanno parte della sua es­ senza: sono esattamente quel che ha stimolato la sua comparsa, non costituiscono spiacevoli incidenti so­ praggiunti a posteriori, ma le sono consustanziali. In che cosa la conoscenza del proprio quoziente intellettivo dovrebbe interessare, di primo acchito, l’individuo? Che beneficio personale può trarre da un test d’attitudi­ ne o da una valutazione delle sue motivazioni? È l’isti­ tuzione che ha invece il massimo interesse all’esistenza di un “sapere” di questo genere sull’uomo: la scuola per misurare le prestazioni degli allievi, l’azienda per sele­ 63

zionare gli impiegati, l’esercito per distribuire le sue re­ clute in funzione dei propri obiettivi, ecc. Tuttavia, in un momento preciso della nostra contem­ poraneità — vedremo più avanti quale — è stata supe­ rata una soglia, a partire dalla quale le tecniche psicolo­ giche cominciano a trasformare la stessa socialità. Il la­ voro sulle relazioni umane smette allora di essere un mezzo al servizio di obiettivi terapeutici, istituzionali o economici, per porsi come un principio di ricerca auto­ nomo. L’uomo vede aprirsi davanti a sé l’orizzonte nuovo di una sorta di taylorismo generalizzato, per il quale l’ordine del vissuto, della sessualità, del piacere, della spontaneità — e non piiiioltanto quello della pro­ duttività — diventano il punto di applicazione di tecni­ che psicologiche concertate al fine di massimizzare il suo rendimento. Questa problematica nuova apre due questioni. Innan­ zitutto, come ha potuto la psicologia — o più esatta­ mente questa o quella tecnica psicologica — arrivare ad assumere questo ruolo di intensificatore della socialità? E qui la psicoanalisi ha svolto un ruolo storico decisivo, cui sarà possibile rendere giustizia quando si sarà atte­ nuata la pomposità del discorso autocelebrativo degli psicanalisti, In secondo luogo, quali sono nella società francese, e più in generale nella società liberale avanza­ ta, i fattori che suscitano la comparsa e lo sviluppo di questa nuova cultura psicologica? E qui c’è probabil­ mente da prendere in considerazione una sorta di dialet­ tica fra l’investimento dell’elemento relazionale e il di­ sinvestimento di quello economico, sociale, politico, re­ ligioso.

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3. Il dopo-psicoanalisi

Prima proposizione', la psicoanalisi è stata il principale elemento_pprtante_di_,una trasformazione culturale deci­ siva, che consiste nel far si che l’investimento nello psi­ cologico e il lavoro psicologico siano obiettivi dominanti per i cittadini di una società liberale avanzata. In cor­ rispondenza al suo successo, la psicoanalisLha diffuso sull’insieme del corpo sociale delle griglie d’interpreta­ zione e degli schemi d’intervento psicologizzanti, il cui senso è al limite quello di saturare le possibilità di com­ prensione e di azione da parte dei soggetti sociali .Oggi assistiamo a un’accelerazione nello sviluppo di questo processo: scavalcata dal suo stesso uditorio, la psicoa­ nalisi non è più in grado di controllare il movimento che ha innescato. Gli psicanalisti si lamentano spesso e vo­ lentieri delle costrizioni e delle distorsioni imposte dal­ l’istituzionalizzazione necessaria della loro professione nelle società di psicoanalisi. Ma potrebbero anche ram­ maricarsi della relativa impotenza di queste istituzioni: una società di psicoanalisi assicura la polizia interna fra i suoi membri, e li promuove rispetto all’esterno assicu­ rando loro un’etichetta di rispettabilità professionale. Ma, di fronte ai problemi posti dall’espansione espo­ nenziale della psicoanalisi, essa deve contentarsi per lo più di vituperare, stigmatizzare, condannare, escludere, costringere a scissioni, dissolvere e rifondare. Eppure è un canovaccio ben triste e stranamente ripetitivo, mal­ grado la drammaturgia facile, lo scatenarsi delle passio­ ni e degli effetti illusionistici. Perché la fonte essenziale del dinamismo è ormai altrove. La società contempora­ 65

nea rinvia alla psicoanalisi una parte essenziale della sua eredità storica, in una forma che essa assume come una caricatura. Seconda proposizione', è giunto ormai il momento di abbozzare un bilancio e di iniziare una riflessione sul dopo-psicoanalisi, che mettano radicalmente fra paren­ tesi la questione del carattere ortodosso o meno delle pratiche che direttamente o indirettamente le si ricolìegano. Non che questi interrogativi sulla fedeltà all’ere­ dità freudiana, sulla conformità alle esigenze di una esplorazione rigorosa dell’inconscio o sui principi che devono presiedere alla trasmissione della dottrina ed al­ la formazione dei suoi attori, non abbiano tuttora un senso centrale per l’ambiente analitico; ma, per aver monopolizzato l’essenziale del dibattito intorno al signi­ ficato sociale della scoperta freudiana, questa proble­ matica ha evitato la questione centrale del posto della psicoanalisi nella nostra cultura. La storia della psicoa­ nalisi non è soltanto questo spazio tutto interno dove non si producono che deviazioni o ritorni alle fonti; es­ sa non si riduce nemmeno ad un’immensa scena di tribunale in cui si celebri l’eterno processo della purezza perduta (quel che gli psicanalisti non si stancano di de­ nunciare come i “recuperi” della psicoanalisi). La storia della psicoanalisi è lo sviluppo della totalità dei suoi ef­ fetti, attraverso lente strategie di penetrazione nei luo­ ghi istituzionali più disparati. Per ricostruire questa lo­ gica, basta applicare un principio semplice e radicale: prendere in considerazione il continuum delle pratiche che si richiamano alla psicoanalisi, accordando la stessa serietà per esempio sia ad una trasmissione radiofonica di Frangoise Dolto che al testo dell’“Uomo dai Lupi”, e rifiutando la facilità di invalidare certe realizzazioni con il pretesto che sarebbero semplificazioni, volgarizzazio­ ni, banalizzazioni, deviazioni, o tradimenti della psicoa­ nalisi autentica. Molto probabilmente — e l’analisi dei 66

processi di diffusione di una qualsiasi dottrina religiosa o politica ce lo insegna —, man mano che il suo pubbli­ co si estende, un’opera mette a tacere quel che aveva di più sovvèrsTviTed addolcisce il senso del suo messaggio (è per questo che il suo avanzare è segnato da scismi, che sono poi altrettanti ritorni a Gesù Cristo, a Budda, a Marx, a Freud, e ormai già a Lacan). Ma, c’è da chie­ dersi se questo processo di laicizzazione non facesse parte intrinsecamente delia verità stessa della dottrina, come prezzo della sua iscrizione nella storia reale. Inter­ rogativo tanto banale che non ci si può che meravigliare che gli psicanalisti vi “resistano” con tanto accanimen­ to. A voler applicare quest’ipotesi fino in fondo, il mas­ simo rischio che si possa correre è di sentirsi invitare an­ cora una volta a farsi psicanalizzare, come se per fare la sociologia delle religioni fosse necessario credere in Dio. Beati gli uomini di fede! Ma i miscredenti hanno diritto ad un altro discorso.

Terza proposizione', si comincia oggi a parlare di una crisi della psicoanalisi. Questo non implica né una dimi­ nuzione del suo pubblico, né una stanchezza delle ricer­ che, delle speculazioni, delle realizzazioni, delle innova­ zioni teoriche e pratiche interne all’ambiente psicanaliti­ co, attraverso le quali la psicoanalisi persegue la sua traiettoria dopo Freud. Invece, il disagio attuale vuol dire almeno altre due cose. Innanzitutto, che Fortpdossia psicanalitica perde sempre più il controllo su un numero crescente di pratiche che pure ne reclamano una filiazione. La parte delle realizzazioni che possono legit­ timarsi a partire dai principi dello stretto metodo freu­ diano diminuisce continuamente rispetto alle pratiche jstituzìònàli, universitarie^ culturali, mondane, giornali­ stiche che ciò nonostante rivendicano questa legittimazione, Di conseguenza, l’invalidazione ortodossa in ter­ mini di “recupero” o di “tradimento” va perdendo ogni credibilità e appare sempre più fittizia; soprattutto, essa 67

non impedisce in nessun modo la proliferazione di que­ ste pratiche “deviate”. In secondo luogo, la “crisi” della psicoanalisi signi fica che l’espansione di una cultura psicologica, fin qui promossa essenzialmente dal movimento psicanalitico, òggi non hà più bisógno deìì’etichetja freudiana per. imporsi, Stiamo entrando, in un certo senso, nell’era del post-psicanaìitico: con questo bisogna Intendere non che la psicoanalisi sarebbe “supe­ rata”, ma che si presentano oggi sul mercato dei beni psicologici dei prodottThuòvi7*chè non~sònci~pi6 obbli­ gati a rendere atto di fedeltà per trasmettere una parte di quello che la psicoanalisi diffondeva e ancora diffonde. Dopo (e con) il tempo dei “traditori” e dei “rinnega­ ti”, è ormai il tempo dei bastardi. Quarta proposizione: questi “bastardi” della psicoanali­ si, la bioenergia, la gestalt-terapia, l’analisi transaziona­ le, il grido primario, e tutte le altre nuove tecniche psi­ cologiche, in genere d’importazione americana, di cui le buone maniere degli ambienti analitici chiedono che si disprezzi il semplicismo, trasmettono in realtà qualcosa di essenziale del messaggio analitico. Queste nuove tee; niche rimproverano alla psicoanalisi di essere troppo lunga, troppo costosa, troppo sofisticata, troppo intel­ lettuale. Loro, scelgono piuttosto le scorciatoie del la­ voro sul corpo, invece dei percorsi più lenti e tortuosi dell’anamnesi, la spontaneità piuttosto che la riflessio­ ne, Vhic et nunc piuttosto che il passato, le manipola­ zioni psicologiche di superficie piuttosto che la ricerca dei meccanismi primari: insomma, abbandonano prati­ camente l’inconscio stesso, il che non è certo cosa da poco. Ma conservano anche una dimensione essenziale della “rivoluzione freudiana”: l’idea cioè che un lavoro sulla normalità sia possibile ^ch£_lc._fr.Qnticre fra il nor­ male ed il patologico siano fragili e reversibili, chg f gquiìibrio psichico non sia uno stato naturale ma una dinamica fragile, una sistemazione instabile degli stessi 68

meccanismi che strutturano anche l’esperienza patologi­ ca. Allora, non solo queste categorie dì “normale” e di “patologico” devono essere relativizzate, ma soprattutto diventa possibile un lavoro analitico sulle situazioni e sugli stati psichici della vita ordinaria di ognuno. Anche seja psicoanalisi come cura ha a che fare per lo più con situazióni che sì possono ancora, se si vuole, qualificare più o meno patologiche, iì lavoro analitico concerne almeno virtualmente tutti. Trasformare o intensificare il funzionàmèiitò delPuómo “normale” è diventato ormai un compito tecnicamente realizzatile e democratica mente accessióilcóITa stragrande maggioranza delle persane. Quinta proposizione: ci possiamo rappresentare il pro­ cesso di diffusione di una cultura psicologica nuova co­ me l’incastrarsi di due serie di cerchi concentrici. La prima, è stata portata essenzialmente dalla psicoanalisi, e si è propagata per onde successive dalla situazione duale del divano fino ad applicazioni della terminologia e della tecnica psicanalitica sempre più lontane da que­ st’epicentro. Ma un secondo epicentro si sta costituen­ do, a partire da queste nuove tecniche che proponiamo di chiamare “post-psicanalitiche”; e questo in un triplice senso: esse presuppongono la psicoanalisi, le succedono (pur coesistendo con lei), e fanno propria una parte del­ la sua efficacia. In questo modo, queste nuove forma­ zioni spingono più lontano l’onda d’urto del lavoro analitico: certo, l’indeboliscono anche, ma che signifi­ ca? Nessuno aveva pensato che se_la psicoanalisijsi_diffondeva afl’ospedale, a scuola, alì’università, nella let­ teratura o nella pubblicità, era la tecnologia della situa­ zione duale che si trasportava intatta in questi luoghi; la prima ondata di propagazione è dunque già un processo di banalizzazione, rispetto alla quale la seconda che di­ mentica, critica o nega il riferimento alla psicoanalisi, si pone in continuità nei fatti. Per cui non si tratta vera­ 69

mente di due epicentri, nel processo di propagazione di una cultura psicologica, quanto piuttosto di due serie di ondate successive, di cui la prima funziona da trampoli­ no, e la seconda da diffusore al fine di democratizzare ulteriormente la tecnologia d’intervento sulla normalità che era già stata inaugurata dalla psicoanalisi. Coloro che resteranno scandalizzati dall’accostamento fra una seduta psicanalitica ortodossa (ma di quanti minuti?) ed una seduta di bioenergia, saranno molto più possibilisti se saranno invitati a paragonare la pratica bioenergetica con quella di uno psicanalista patentato che diffonde sulle onde radiofoniche consigli sessuologici. Che ci si riferisca a Freud, o invece a Reich e Lowen, che si ap­ partenga all’establishment o si sia piuttosto marginali, conta meno in questo caso del fatto che gli uni e gli altri propagano una tecnologia d’intervento sulla sessualità che ne trasforma il divenire, facendone l’oggetto di un lavoro condotto sotto il controllo dell’esperto. In seno a questo continuum di pratiche che diffondono una cultu­ ra psicologica, esistono certo differenze importanti e di­ stanze più o meno forti dall’epicentro di tale processo; ma non c’è mai soluzione di continuità fra le due serie di onde successive.

Sesta proposizione: questa diffusione di cultura psjcolor gica è possibile leggerla, cosi come l’abbiamo delineata, a partire dalle trasformazioni intervenute nell’ambito delle tecnologie psicologiche stesse; si metterà allora in primo piano un’evoluzione delle emergenze, delle rottu­ re, i cui protagonisti principali sono stati i professionisti. Ma la loro inflazione attuale invita ad interrogarsi su una mutazione sociale: l’avvento, dj. una, cultura psi­ cologica s’inscrive in un processo di dissoluzione delle strutture familiari, comunitarie, politiche tradizionali. 41 loro posto, le relazioni create dalie tecniche psicolóàche^MUistanQ^una ccntraljtà reale^che^ripjgaiijzza.in­ torno a sé gli investimenti primordiali. Quest’avvento 70

porta dunque con sé una ridefinizione del sociale e del rapporto che con esso si intrattiene, proiettando sul pri­ mo piano della scena storica un modello di socialità vuota o formale, ma contemporaneamente coltivata di per sé e saturata di affetti. Un’altra mutazione di fronte alla quale questo processo ci mette é la trasformazione della nozione di controllo sociale: più che di imporre delle regole a individui o a gruppi, o più che intervenire dall’esterno su situazioni sociali, si tratta di costruire tecnologicamente delle rela­ zioni fra gli individui o fra i gruppi che obbediscano sin dall’inizio alle regole razionali di una socialità resa asetiica. Psicoanalisi: le vie della diffusione Disegnare la logica della propagazione della psicoanalisi nella società francese non è certo facile. Il compito sa­ rebbe meno complicato, se si prendesse il caso degli Sta­ ti Uniti, dove il processo è molto più avanzato. Ma se si parla in Francia del destino della psicoanalisi america­ na, tutti, o quasi, sono immediatamente disposti a cre­ dere che si stiano descrivendo delle perversioni esotiche, da cui il genio di Lacan e quello della nostra razza ci preserveranno eternamente. E nota la seduzione che la psicoanalisi ha ben presto esercitato sui membri dell’intellighenzia più sofisticata — si pensi, per la Francia, ai surrealisti. Ma, indipen­ dentemente dal giudizio che si può portare sull’opera e sufla. pratica di Jacques Lacan, è proprio a partire dal successo del lacanismo che si può far datare la penetrazione della psicoanalisi francese al di fuori del ghetto degin@Tàtì^~aegirspeciàIÌ^rir^èminano^tacagi jsi sposta, nei 1964, ,an.’ÉGQk_NarmSe Supérieure>..iègno che il suo uditòrio cominciava, da qualche anno ormai, a contare su un nucleo rappresentativo dell’intellighen­ 71

zia (Althusser e gli althusseriani, qualche artista e qual­ che filosofo aggiornato). A partire da questo momento, è possibile seguire una linea di diffusione intellettuale, e ben presto anche mondana, che impone la griglia d’in­ terpretazione psicanalitica lacaniana come punto di rife­ rimento privilegiato non solo per l’interpretazione dello psichismo, ma anche per quella di produzioni e testi let­ terari, opere d’arte, lavori etnologici, ecc.: LacanAlthusser, Lacan-Lévi Strauss, Lacan-Foucault. La maggior parte di coloro che sposano il nuovo codice sono sedotti senza alcun rapporto diretto con la situa­ zione duale del divano. Si tratta dunque di uno sposta­ mento, rispetto al luogo in cui nasce l’esplorazione rigo­ rosa dell’inconscio, anche se non si può dire che sia propriamente una “volgarizzazione”, non foss’altro che per l’esoterismo dei testi prodotti da questa moda. La volgarizzazione sopraggiungerà, come è logico, solo quando il “volgare” avrà progressivamente accesso a questa cultura distinta. Dall’intellighenzia sofisticata ad un’intellighenzia di massa, e a frange “colte” delle classi medie, infinite “letture” per esempio degli Ecrits di La­ can, vedranno la luce; il che mostra che il vile metallo delle interpretazioni prosaiche può già mescolarsi con l’oro puro della speculazione geniale. Certo, si potrebbe anche dire che si comprano gli Ecrits molto di più di quanto non li si legga effettivamente: ma il codice si diffonde soprattutto attraverso riviste, saggi, corsi e conversazioni, che assicurano la riproduzione allargata del plusvalore psicanalitico. Una seconda linea di diffusione, in parte sovrapponibi­ le, in parte spostata rispetto alla prima, è costituita dal­ la conquista della frangia più marginale e più moderni­ sta al tempo stesso dei professionisti della medicina mentale. La clinica di La Borde a Cour-Cheverny (Oury-Guattari) si è aperta già nel 1953, e comincia a fun­ zionare sulla base della psicoanalisi lacaniana. A partire dall’inizio degli anni Sessanta quest’esperienza, appog­ 72

giandosi inizialmente sul lavoro prodotto intorno al se­ minario di Lacan, attira gli elementi più dinamici di una generazione di giovani psichiatri che si vogliono in rot­ tura con l’establishment psichiatrico. Si sviluppa cosi la “psicoterapia istituzionale analitica”, che prende il posto, almeno in quanto fenomeno di moda, della pri­ ma psichiatria istituzionale di ispirazione sociale nata dopo la seconda guerra mondiale. Questo vivaio di me­ dici interni formati dal seminario di Lacan, a La Borde o nei seminari e nei gruppi di ricerca aperti ben presto dai primi seguaci della nuova tendenza, fornirà alla fine degli anni Sessanta i primi quadri per una riforma del sistema psichiatrico pubblico francese, orientata psica­ naliticamente. Per non esagerare il peso di Lacan e dei lacaniani, biso­ gnerebbe dare uno spazio probabilmente altrettanto im­ portante ad almeno altri due orientamenti. A partire dall’inizio degli anni Cinquanta cominciano a svilup­ parsi, in margine al sistema psichiatrico pubblico tutto centrato sulla patologia adulta, delle istituzioni destina­ te all’infanzia difficile, tipo i Centri medico-psicopedagogici di cui parlavamo nel primo capitolo. Diver­ samente da quel che succede negli ospedali psichiatrici, dove l’essenziale dell’inquadramento è assicurato da po­ chi medici e numerosi infermieri, una parte importante del personale di queste istituzioni è costituito dagli psi­ cologi. Essi trovano nella psicoanalisi un punto di rife­ rimento teorico e pratico diverso dalla medicina, e su­ scettibile di fondare la loro strategia professionale, do­ minata dalla concorrenza con gli psichiatri e con una psichiatria la cui fonte tradizionale di legittimità è medi­ ca. È questa una delle ragioni che può spiegare l’appeti­ to di cui dà prova una larga parte degli psicologi (in maggioranza psicologi clinici) nei confronti della psi­ coanalisi. In compenso, la psicoanalisi ha trovato in questo movimento di appropriazione una delle sue assi­ se professionali più solide, poiché il riferimento a Freud 73

diventa una componente essenziale dell’autonomia del mestiere di psicologo clinico di fronte al rischio dell’e­ gemonia medica. Un altro avvenimento ricco di futuro è la creazione, nel 1954 (dunque contemporanea press’a poco di quella di La Borde), di un’esperienza di psichiatria comunitaria orientata psicanaliticamente nel XIII arrondissement di Parigi. Non conta molto che i suoi promotori siano membri dell’istituto di Psicoanalisi, e dunque nemici giurati dei lacaniani della psicoterapia istituzionale. L’antagonismo interno non esclude una complementari­ tà di funzioni che è di gran lunga più importante: la psi­ coanalisi appare capace di fecondare un lavoro psichia­ trico comunitario nella “linea del Tredicesimo”, e con­ temporaneamente di guidare la trasformazione di istitu­ zioni più strutturate e più classiche, secondo la linea della psicoterapia istituzionale. L’“esperienza del Tredi­ cesimo” diventerà cosi il modello e la vetrina per la dot­ trina del “settore”, che sarà proclamata politica ufficia­ le della psichiatria francese nel 1960, ma comincerà ad essere effettivamente applicata su larga scala soltanto dopo il 1970. In tal modo tutta la psichiatria moderna prende come punto di riferimento una situazione anali­ tica, o per lo meno pensata e organizzata a partire dalla psicoanalisi. Contrariamente ad un’opinione diffusa, l’esplosione so­ ciale della psicoanalisi non è dunque essenzialmente im­ putabile agli “avvenimenti” del Maggio ’68 o alle loro conseguenze. O meglio, è probabile che anche senza questa scossa le linee di propagazione che abbiamo trac­ ciato sarebbero state grosso modo le stesse, in quanto obbediscono ad un insieme di dati sociologici, relativa­ mente indipendenti dal politico: le difficoltà in cui si è venuta a trovare la medicina mentale tradizionale, ed alle quali la psicoanalisi ha offerto una soluzione o una pseudosoluzione, le strategie professionali di certe cate­ gorie di “lavoratori della salute mentale”, l’appetito di 74

novità e lo snobismo dell’intellighenzia, la permeabilità dei mass-media alle ultime mode, l’abbandono dello spirito critico e della critica, che sposa tanto più incon­ dizionatamente un discorso quanto più esso è proferito in una forma arrogante ed esoterica. Ciò nonostante, gli “avvenimenti”, e soprattutto le conseguenze del falli­ mento di una grande speranza, hanno avuto un’influen­ za decisiva, accelerando il movimento di radicamento, che abbiamo descritto, e soprattutto esponendo al fasci­ no della psicoanalisi un pubblico nuovo, caratterizzato da una forte motivazione politica. In effetti, il Maggio ’68, com’è stato spesso notato, ha visto la congiunzione tra una rivolta propriamente so­ ciale contro i conformismi, le costrizioni e le gerarchie rigide, e una rivendicazione dei valori individuali di au­ tenticità, di liberazione e di pienezza soggettiva. Di que­ ste due componenti, la psicoanalisi, soprattutto quella lacaniana, pareva offrire una sintesi tanto più convin­ cente in quanto, passati i primi entusiasmi, sembrò ben presto a molti che era meglio, una volta di più, lavorare a realizzare i propri desideri piuttosto che trasformare il mondo. O meglio — e qui stava probabilmente la misti­ ficazione, ma questa è un’altra storia —, sembrò a mol­ ti che lavorare sui propri desideri rappresentasse la via principale per sovvertire l’ordine del mondo. Il lacanismo si era posto, almeno dopo la critica della psicoana­ lisi americana operata da Jacques Lacan all’inizio degli anni Sessanta, in antagonismo radicale rispetto ai valori di adattamento e di conformismo che sono considerati prevalenti in una società “capitalistica”. La prova, d’al­ tronde, che la psicoanalisi non fosse soltanto di sinistra, ma della buona nuova sinistra gauchiste, erano le perse­ cuzioni staliniste durante la guerra fredda, e la reticenza del Partito comunista nei confronti di una dottrina so­ spettata di voler soppiantare la lotta di classe con una lotta romantica contro una repressione indifferenziata. In questo modo, certe formule d’ispirazione lacaniana 75

si vennero a trovare scritte sui muri come slogans rivo­ luzionari. Molto presto, d’altronde, è stato necessario adattarsi ad una congiuntura più difficile. In tutti i paesi, dall’Euro­ pa all’America latina, è riscontrabile empiricamente una stretta connessione fra il riflusso o la repressione di una speranza politica ed un ripiegamento sulla sfera della soggettività, da cui la fortuna degli “psi”. Ma quel che ha conferito all’ideologia lacaniana un carattere provvi­ denziale è l’aver permesso di pensare questo spostamen­ to non come una rinuncia, ma come un rinnovamento, se non addirittura un’esasperazione dell’investimento politico. La psicoanalisi è stata cosi la struttura che ha accolto una delusione politica che rifiutava di pensarsi come tale, e risorgeva dalle ceneri delle sue illusioni per­ dute. Il desiderio di una formula di questo genere era senza dubbio profondo, ed imperiosa l’attesa, perché è sorprendente che questa pseudosintesi si sia imposta co­ me un’evidenza, senza neanche che i suoi sostenitori si sforzassero di esplicitare il legame che si pretendeva esi­ stesse fra una sovversione psicologica (di cui si può for­ se accordare alla psicoanalisi il merito di aver offerta la possibilità) ed una rivoluzione politica. Venne il mo­ mento in cui lo stesso Partito comunista ebbe vergogna delle posizioni violentemente antipsicanalitiche del suo periodo stalinista, ed accennò, anche qui, una svolta tattica per accogliere la “lezione di Freud”. Per quanto potente fosse l’illusione trasmessa da questi aggiorna­ menti del-vecchio freudo-marxismo, la seduzione ha funzionato, in un modo peraltro ambivalente. Soltanto una minoranza di coloro che avevano sposato questa ideologia ha potuto, per ragioni culturali ed economi­ che, operare una completa conversione alla psicoanalisi, diventando “analizzandi” e successivamente analisti. La maggior parte ha costituito una massa di consumatori di psicoanalisi, al tempo stesso insaziabili ed animati dal segreto risentimento di non poter accedere a pieno titolo 76

al suo prestigio e al suo potere. È stato questo un pub­ blico disponibile a forme più duttili di tecnologie psico­ logiche, che unissero o sembrassero unire una preoccu­ pazione di liberazione personale ed un interesse politico: sovversione psicologica e sovversione sociale. Per tutto un periodo, ha fatto la fortuna di Reich; in una forma in certa misura attenuata, sta attualmente assicurando il successo della bioenergia e delle nuove terapie america­ ne, anch’esse ultime forme prese dal movimento della contro-cultura. L’impatto della psicoanalisi Non ci sono attualmente in Francia, comprendendo tut­ te le scuole (che sono quattro), più di mille psicanalisti regolarmente abilitati. A voler essere larghi, possiamo aggiungere a questa cifra due, tre, forse quattro mila persone che “prendono” pazienti, spesso a mezzo tem­ po, e spesso “al nero”. In tutto, queste pratiche concer­ nono qualche decina di migliaia di clienti che fanno un’analisi classica, o quasi, secondo modalità più o me­ no ortodosse. Ma ci sono qualcosa come due o tre mi­ lioni di persone (anche se il numero non è esattamente calcolabile) più o meno direttamente esposte alla psi­ coanalisi, o per lo meno interpellate tutti i giorni da qualcosa che si riferisce e presuppone 1’esistenza della psicoanalisi. Dagli studenti di scienze umane ai genitori di bambini difficili, dai beneficiari di un aiuto sociale ai candidati a nuovi impieghi, dai clienti di agenzie di pub­ blicità agli habitués delle cene mondane, dai malati psi­ chiatrici agli adolescenti che hanno problemi con la giu­ stizia, da chi è alla ricerca di consigli psicologici ai sem­ plici consumatori di cultura, sono ormai un esercito co­ loro che, in misura diversa, consumano la psicoanalisi o i suoi surrogati di moda. L’essenziale di quel che dobbiamo alla psicoanalisi — e 77

di quel che essa ci costa — va cercato nella diffusione di questa nebulosa culturale che essa ha promosso. Se, in­ fatti, in tutte queste situazioni il riferimento alla psicoa­ nalisi, per quanto vago, non è mai completamente fittizio, è perché manifestano tutte un interesse verso lo psi­ cologico ed il relazionale, e costituiscono tutte un tenta­ tivo di trasformazione della struttura relazionale di una situazione. E tutte, poi, dispiegano schemi psicologici d’interpretazione e d’azione di cui la psicoanalisi ha da­ to per prima la formula più rigorosa, e le cui compo­ nenti fondamentali si raccolgono in due proposizioni. Innanzitutto, la chiave del problema va cercata in uno squilibrio psichico che si esprime attraverso una disfun­ zione relazionale. In secondo luogo, il suo trattamento consiste in un intervento psicologico che deve modifica­ re la struttura relazionale della situazione. Sono questi gli effetti specifici che la psicoanalisi induce, attraverso la sua interpretazione dei fenomeni sociali, politici, cul­ turali, dovunque essa sia presente, del tutto o parzial­ mente, rigorosamente o in modo più vago: sul divano, nell’istituzione psichiatrica, a scuola, nell’azienda. La psicoanalisi è diventata cosi un ingrediente essenziale della nostra cultura. Meglio ancora: nella misura in cui ha successo, costituisce tale cultura come una cultura psicologica, cioè come una cultura nella quale la psico­ logia si trova al posto di comando per interpretare fatti e avvenimenti, per intervenire a modificarli e definire le poste in gioco essenziali attraverso cui l’esistenza cerca e deve trovare le sue giustificazioni ultime.

Le tecniche del dopo-psicoanalisi Ammettiamo dunque che un rapporto di contrapposi­ zione o di filiazione rispetto alla psicoanalisi sia lo spiri­ to comune a queste nuove tecniche: la bioenergia, la te­ rapia della gestalt, l’analisi transazionale, il counseling, 78

il grido primario (con una sola eccezione, anche se im­ portante: la modificazione del comportamento — beha­ viour modification — è stata anch’essa importata dagli Stati Uniti ed è anch’essa destinata ad un florido avve­ nire, ma si iscrive piuttosto in una filiazione dalla psico­ logia di laboratorio). Queste nuove tecniche consistono nell’applicare una tecnologia psicologica semplificata d’intervento sulla psiche o sul corpo, che ha un valore al di qua e al di là della distinzione fra normale e pato­ logico. Oltre ad applicazioni di tipo terapeutico classico (il trattamento degli psicotici attraverso l’analisi transa­ zionale, per esempio), esse mirano in tal modo a pro­ muovere una trasformazione della “normalità” in sé, di­ spiegando una batteria di tecniche apposite. Non ripa­ rano soltanto delle carenze, ma sviluppano anche delle potenzialità; il fine che perseguono è l’intensificazione dei funzionamenti, la massimizzazione dei rendimenti, attraverso l’uso di manipolazioni tecnologiche. Ne con­ segue che tutti i settori del comportamento e tutti gli af­ fetti possono essere l’oggetto di un intervento tecniciz­ zato: non soltanto le sfere dell’affettività e del senti­ mento, dell’intersoggettività e del piacere, ma anche e forse soprattutto il corpo — poiché una concezione del corpo umano come massa energetica, le cui potenzialità possono essere bloccate dai traumi dell’esistenza e dalle esigenze “alienanti” della vita sociale, è alla base della maggior parte di queste tecniche. Un lavoro del genere non contempla dunque limiti definibili a priori, in quanto s’iscrive in un processo dinamico, nel corso del quale è sempre possibile trasformare ancora degli equi­ libri provvisori, e intensificare delle possibilità di vita. Gli effetti di quest’insieme di tecniche possono essere interpretati in due modi opposti, ma non necessaria­ mente contraddittori. Vi si può vedere l’avvento, o al­ meno la minaccia, di una sorta di taylorismo generaliz­ zato, cioè l’applicazione di una razionalità tecnica a tut­ te le dimensioni dell’esistenza: è la tentazione vertigino­ 79

sa di un piacere costruito e di una libertà programmata da una figura nuova: gli ingegneri degli stati d’animo. Ma queste tecniche creano anche un nuovo modo d’esi­ stenza psicologico ed un nuovo tipo di socialità. Cospi­ rano, insomma, a sostituire alla natura o agli equilibri statici, risultato dei compromessi sociali, un dinamismo personale e relazionale costruito; un’intera esistenza può essere consacrata alla sua edificazione, nel tentativo di realizzare la pienezza dei propri investimenti. Si dise­ gna cosi la possibilità di creare degli spazi sociali nuovi, in cui la cultura dello psicologico si istituzionalizza di per sé come un fine. Per esempio, gli encounter groups sono raggruppamenti di individui che non hanno nient’altro in comune se non il fatto di lavorare insieme al loro sviluppo personale: questi gruppi sono nei fatti una sorta di laboratorio di socialità, dove si elabora a vuoto (cioè in assenza di altre poste in gioco) la combinatoria delle transazioni possibili fra individui. Una “socialità asociale”, nel senso che si esaurisce nell’intensificare la trama del legame sociale nella fragile sovranità di un’e­ sistenza che ha messo fra parentesi tutto quello che, nel­ la vita quotidiana, l’alleggerisce del suo peso di realtà. Ma a fianco della forma limite di una tale organizzazio­ ne di vita provvisoria ma completa, tutte queste tecni­ che mirano a promuovere, a partire da un lavoro tecni­ co sull’individuo, una sorta di plusvalore di disponibili­ tà relazionale, che potrebbe costituire una socialità più intensa e più vera di quella istituzionalizzata attraverso l’organizzazione della vita quotidiana. Non è un gran merito, quello di denunciare il carattere artificiale e un po’ derisorio di queste imprese: è fin troppo evidente. La critica dell’ “alienazione sociale” è stata una critica ingenua: in un certo senso ha riprodot­ to un’alienazione, poiché la ricerca ad ogni costo della spontaneità e della genuinità è stata condotta attraverso manipolazioni tecniche, che finiscono per fare del corpo una macchina per fabbricare piacere o desiderio, e della 80

psiche un dispositivo energetico da sviluppare per accre­ scerne il rendimento; quest’ingenuità ha permesso che trionfasse la razionalità produttivistica, attraverso la tecnicizzazione dei valori che pretendevano di opporvisi. Ma: e se fosse proprio questo il problema fondamentalètestimoniato dàKemergcnjza posta in gioco fosse una mutazione della socialità, che la svuota progressivamente .della, sua densità.Sioiica.jjd a cui corrisponde una mutazione della soggettività e dell’intersoggettività, mentre la comunicazione con gli altri si riduce alTmite .adjinojcambiQ fra masse energetiche, edjl mutamento individuale o collettivo consiste nel diventare più “prestante” nella socialità, nel lavoro o nel piacere?""..... “ " ” .. ...... . ’ Prima di ritornare su questi problemi, bisogna cercar di valutare l’ampiezza del movimento sociale, di cui si è tentati di fare qui il vettore essenziale di diffusione di una nuova cultura psicologica. O è invece un artefatto margi­ nale? Bisogna dire innanzitutto che siamo oggi soltanto all’inizio di un processo limitato nella sua espansione, ma le cui realizzazioni non sono già più trascurabili. Queste nuove tecniche, s’installano nelle strutture.e§i§tenti, e contemporaneamente ne sviluppano di proprie. Lo si è visto in importanti settori del lavoro sociale, dell’in­ dustria, del commercio, della formazione del persphale: tutto uh vasto mercato dalle frontiere incerte, ma che ha smesso di essere marginale, e che è ben lungi dall’essere saturo. Lo si vedeln certe istituzioni psichiatriche uffi­ cialissime; se ne può prendere a segnale il fatto che in un certo ospedale di provincia i nomi dei promotori di que­ ste tecniche abbiano sostituito quelli di Pinel, Esquirol, Magnan e altri per battezzare le sale dei reparti. La di­ mensione del fenomeno è difficile da tradurre in cifre, perché una deriva del genere è ancora considerata poco confessabile. Ma non è irragionevole pensare che il mo­ vimento si amplifichi, soprattutto in un momento in cui l’egemonia psicanalitica comincia ad indebolirsi. 81

L’illusione degli ortodossi rischia di essere, anche qui, quella di credere che questi approcci sono incompatibili e contraddittori con altri più canonici. Ma l’esperienza americana avvalora invece la nostra ipotesi: che cioè tutti questi dispositivi possano perfettamente funzionare insieme e dividersi, pacificamente o polemicamente, il lavoro. Anche in Francia si cominciano a vedere perso­ ne che, senza aver abbandonato la psicoanalisi, ritengo­ no che ci siano indicazioni per le quali il ricorso ad un nuovo terapeuta è più pertinente. Incontri di gruppo e week-end di bioenergia sono già frequentati, con un po’ di vergogna probabilmente, da certi professionisti della salute mentale. Si preparano perfino, in questo momen­ to, delle sintesi “teoriche” fra l’apporto della bioenergia e quella di Lacan. Sarebbe possibile dimostrare, anche se non è questo il luogo adatto per farlo, che, cosi come la psicoanalisi è riuscita a penetrare nel campo della medicina mentale in occasione di una crisi delle istituzioni, dei modi di for­ mazione e delle tecniche psichiatriche tradizionali, an­ che questi nuovi approcci arrivano sul mercato nel mo­ mento in cui la dinamica di riorganizzazione moderna della psichiatria, rappresentata dalla politica di settore, si blocca. Grazie alla loro elasticità ed alla loro sempli­ cità, per non dire semplicismo, possono allora integrarsi nel movimento attraverso il quale la medicina mentale cerca d’impiantarsi contemporaneamente nelle istituzio­ ni classiche e al di fuori delle istituzioni, in misura della diversità delle “domande”. Non si vede: perché, infatti, lenuove tecniche della bioe­ nergetica e dell’analisi transazionale,perjesempio,non sarebbero altrettanto, se non addirittura meglio adattabili in ospedale psichiatrico, della lunga, pesante e co­ stosa tecnologia psicanalitica. Ma i benefici appaiono ancora più netti al di fuori delle istituzioni. E molto probabilmente un’utopia psichiatrica irrealizzabile, quella di voler costruire un servizio pubblicp_ompgenep 82

e nello stesso tempo differenziato, capace di rispondere a tutti i bisogni, in termini di cura e di prevenzione, di una popolazione. Un sistema del genere, non solo sa­ rebbe troppo costoso, ma rischierebbe di mostrarsi troppo rigido per accogliere la varietà delle domande, quali emergono dalla vita di tutti i giorni. Invece, le nuove tecniche sono in grado di creare da sé le loro isti­ tuzioni, ed assicurare cosi la propria diffusione in un modo straordinariamente elastico. Attualmente, esisto­ no in Francia qualcosa come ottanta associazioni che si dedicano alla pratica ed all’esercizio della sola bioener­ gia; alcune sono completamente marginali, e conducono un’esistenza effimera (ma appena scompaiono, sono immediatamente rimpiazzate da altre della stessa stof­ fa). Altre sono meglio organizzate, più professionaliz­ zate, e cominciano ad avere una rispettabilità ed un ri­ conoscimento. Ma tutte si installano in quegli interstizi della vita sociale in cui i servizi pubblici hanno difficol­ tà a penetrare, ed hanno in tal modo accesso ad altri settori di popolazione. Si tratta innanzitutto, almeno per quel che permettono di affermare i primi sondaggi, di una parte di quel pub­ blico che è contemporaneamente affascinato dalla psi­ coanalisi ed escluso dalla sua pratica effettiva, per le ragioni sociali ed economiche di cui si è già parlato. Meno costose, meno intimidenti, meno esclusive, queste nuove tecniche hanno per giunta il vantaggio di autorizzare una critica teorica e politica delle condizioni di esercizio della psicoanalisi, critica che comincia a godere dei pre­ stigi della moda. Se la pressione sulla psicoanalisi tende attualmente a diminuire, è fra l’altro perché una parte della domanda sociale che essa non riusciva a colmare si sta spostando verso queste “nuove terapie”, che sono quel che la psicoanalisi stessa era già in parte: una for­ ma di “paraterapia”, o di “terapia per normali”. È que­ sto un pubblico forse “marginale” e limitato, ma che molto verosimilmente aumenterà con le sventure del 83

tempo: giovani un po’ disturbati, membri delle classi medie male integrati, studenti ed ex studenti disoccupa­ ti, ecc., sono tutte categorie che non sembrano in via di sparizione. A questi vanno aggiunti professionisti della medicina mentale che si stanno riconvertendo, educatori ed insegnanti sensibilizzati ai problemi interpersonali, medici generici assaliti da una domanda psicologica cui la loro formazione non permette di rispondere a tutta la massa potenziale delle vittime del “disagio della civiltà”.

La psicologia nella sua società Questi dispositivi non si generano però gli uni dagli al­ tri, in un universo comandato da pure esigenze di coe­ renza interna; si inscrivono nella trama di un’evoluzione che tocca tutte le componenti della vita sociale. Tutta­ via, l’esigenza di uscire da un quadro troppo centrato sulla descrizione dei cambiamenti tecnici, per mostrare di cosa essi sono l’indice, non sarà completamente as­ sunta qui, e per ragioni che non riguardano solo proble­ mi di spazio. Vorremmo soltanto presentare, più nella forma di una specie di fenomenologia sociale che in quella di una vera e propria analisi sociologica, un’illu­ strazione di questa relazione fra la sovradeterminazione di una cultura psicologica e l’impoverimento progressi­ vo di altri interessi nella società moderna. Il paradosso delle trasformazioni in corso è che raffor­ zano legami e strutture che peraltro stanno franando. Prendiamo il caso di quella che si chiama “la crisi della famiglia moderna”: il disagio delle coppie la cui unione non è più fondata su valori permanenti, lo smarrimento dei genitori la cui autorità tradizionale non è più rico­ nosciuta, l’insicurezza dei bambini che non trovano più nell’ambiente familiare le condizioni sufficienti per una socializzazione riuscita. Donde i divorzi, le separazioni, gli abbandoni, le fughe; i comportamenti senza sbocco, 84

le frustrazioni, le incomprensioni, i conflitti di genera­ zione, l’indifferenza o il rifiuto della scolarità, o addi­ rittura la delinquenza e la schizofrenia, insomma tutta una patologia familiare che richiede interventi molte­ plici. Ma, nello stesso tempo, numerosi sociologi hanno sot­ tolineato una sorta di sopravvalutazione della famiglia, di ripiegamento sull’intimità familiare che serve da rifu­ gio e da estremo sistema di protezione in un mondo di­ sumanizzato. Si può dire allora che si sia usciti dal familiarismo? Quando assistiamo a un persistente fascino dei valori familiari, al culto della madre o al nome del padre iscritti nel frontespizio delle varie scuole di psi­ coanalisi, alla nostalgia delle relazioni durature in seno agli amori effimeri, ad una sovradeterminazione del de­ siderio di generare, anche quando si realizza al di fuori del quadro della famiglia classica. La famiglia costitui­ sce una rete di rapporti incerti, temuti per il rischio di chiusura che comportano e contemporaneamente desi­ derati come uno degli ultimi spazi di socialità umana. Il tema della “crisi” della famiglia è sufficiente a render conto di quest’ambivalenza? Si direbbe piuttosto che la famiglia si sia, in un certo senso, devitalizzata: non solo si è trovata ad esser priva­ ta delle prerogative politiche ed economiche che assu­ meva nelle società tradizionali; ma la famiglia ristretta, la famiglia coniugale borghese, è stata anche progressi­ vamente spossessata della maggior parte dei suoi essen­ ziali compiti oggettivi. Non è più il centro del potere so­ ciale effettivo: la trasmissione e le strategie di sviluppo del patrimonio familiare sono ormai diventate seconda­ rie in un’economia in cui l’essenziale delle risorse pro­ viene dal salariato. Voler gestire le alleanze rischia di non esser altro che una finzione, in una situazione in cui gli adolescenti organizzano da soli il loro genere di vita, e godono di ampia autonomia nella scelta dei loro com­ pagni. Assicurare la promozione sociale dei bambini è 85

quasi un mito, quando i diplomi si svalorizzano, regna lo spettro della disoccupazione e la stratificazione socia­ le si irrigidisce, bloccando quel processo di mobilità ascendente che per una cinquantina d’anni ha assicurato la promozione sociale della piccola borghesia. Che resta allora alla famiglia? Nient’altro che essere ormai uno spazio relazionale fine a se stesso. L’essenza della fami­ glia moderna consiste nel gestire la sua rete specifica di socialità. E le tecniche psicologiche sono presenti ap­ punto per aiutare la realizzazione di questo programma, secondo un movimento di cui la psicoanalisi è stata il solco, ma che ha trovato il suo sbocco in tutto un rigo­ glio di terapie familiari ed altri counseling — coniugali, sessuologici, educativi. Bisogna infatti riflettere al paradosso che è proprio la famiglia “normale” la più forte consumatrice di psicolo­ gia. Le famiglie più gravemente destrutturate dipendo­ no dall’assistenza sociale, che gestisce soprattutto ca­ renze economiche. Ma quel che affascina, per esempio, le ascoltatrici delle trasmissioni radiofoniche del tipo di quelle di Ménie Grégoire, è la speranza di trovare delle ricette per realizzare una “vera” famiglia, più che di guarire una patologia manifesta: è l’idea di una famiglia libera, felice, che produce un ambiente intenso e pieno di calore, che assicura, come si dice, il pieno sbocciare di ogni suo membro. Donde certe incitazioni prodigate da questi nuovi specialisti, e di cui bisognerebbe stupirsi di più: per esempio, l’accento messo in modo quasi os­ sessivo sulla necessità di sviluppare una sessualità co­ niugale. Questa valorizzazione della sessualità coniugale è un’idea nuova, che data per l’esattezza dalla promo­ zione della nuova psicologia “umanistica”. Dai romanzi cortesi alla letteratura borghese costruitasi intorno all’adulterio, l’amore e l’erotismo si sono situati al di fuori della cellula familiare, e perfino contro di es­ sa. Per quanto riguarda le preoccupazioni verso i bam­ bini, esse ruotavano soprattutto intorno all’apprendi­ R6

mento sociale, alla possibilità che trovassero un posto onorevole nella società, ed alla loro promozione attra­ verso alleanze fruttuose. Ora, perché è avvenuto un tale rovesciamento, per cui, attraverso il discorso degli ideo­ logi del planning familiare, dei cantori della sessuologia umanistica e degli psicanalisti in posizione di consiglieri, si finisce con il fare della vita della coppia uno strano spazio di sperimentazione sessuale e affettiva, e del rap­ porto con i figli una dotta strategia centrata sulla neces­ sità del loro sviluppo personale? Per il fatto che, nel vuoto lasciato dallo svanire delle funzioni tradizionali che strutturavano la realtà familiare, l’esistenza ed il senso della famiglia si riducono fondamentalmente a questa rete di relazioni, fra uomo e donna, fra genitori e figli. Dalla densità di questa rete dipende la coesione della famiglia, ed al limite la sua stessa realtà. Bisogna dunque conservarla, coltivarla, svilupparla; e per far questo, è necessario ricorrere agli specialisti dello svi­ luppo relazionale. Il loro ruolo consiste nel dispiegare una batteria di tecniche di ginnastica mentale, e talvolta anche fisica, per estrarre e gestire questa sorta di plu­ svalore relazionale. Ci si rende conto cosi di come un avvenimento sovversi­ vo, e che fece scandalo (la scoperta attraverso la psicoa­ nalisi di una sessualità infantile e di una sessualità fami­ liare), possa essere reinterpretato nel quadro di una ge­ stione delle difficoltà di adattamento nella prospettiva di una normalizzazione. In questa strategia, la psicolo­ gia, più che rinforzare un edificio pericolante, finisce per costituire la struttura stessa dell’edificio. Lungi dal contentarsi di riparare delle disfunzioni in unàjDrospettfva medica, Ja psicologia mira ormai a massimizzare il rendimento familiare: in questo modo, essa crea socialità^ intensificando delle relazToniTallQ svilup­ po delle quali si riduce sempre di più la realtà di certe strutture sÓciair. La qualità déi ràppor^ umani, le sod­ disfazioni affettive, sessuali, ecc., cessano di essere un 87

sovrappiù per diventare fini in sé. A non volerci vedere che dell’edonismo o dell’immoralismo, si corre il rischio di non cogliere la mutazione sociale decisiva, per effetto della quale molti s’installano oggi nella psicologia, co­ me si entrava un tempo negli ordini religiosi: per realiz­ zare la pienezza di una vocazione. Si potrebbero condurre analisi dello stesso tipo in altri settori, apparentemente agli antipodi di ogni forma di preoccupazione psicologizzante, come per esempio l’a­ zienda. Che cosa resta in realtà da decidere in un orga­ nismo di produzione, quando la concorrenza interna­ zionale, lé costrizioni del mercato, la politica dellemultinazionalLe..deU£bahGhe^definiscono perTessenziale i costi dei prodotti ed i margini d’aumento “realistico” dèi salari? Nient’altro che delle risistemazioniinterne^ nella distribuzione dei compiti, nei modo in cui circola­ no le informazioni, si trasmettono gli ordini, ed i dipendenO£r£gpis£QPQ~qu^ saranno in ogni caso obbligati ad eseguire. In sostanza, ufi lavoro sulle "reraziòhi ùrnàhè’Tch'è~réstà grosso mò­ do il solo campo in cui possano essere negoziate e adot­ tate delle opzioni (per quanto in parte fittizie). Questo tipo di problematica ha cominciato ad emergere anche nel settore terziario, in cui è comprensibile che il peso dei rapporti umani possa essere determinante nell’orga­ nizzazione del lavoro; ma sembra che prenda ormai uno spazio sempre più rilevante anche nei settori più tradi­ zionali della produzione. Quando l’operaio affrontava in uno sciopero.un singolo padrone, o il padronato delle miniere.o.della..siderurgia, dal.conflittopoteva conse­ guire un successojj uno scacco, determinato fondamen­ talmente dal rapporto di . forza interno. Adesso, un au­ mento eccessivo dei salari comprometterebbe, si dice, la realizzazione del Piano, la politica d’esportazione, l’e­ quilibrio della bilancia commerciale, ed al limite le pos­ sibilità dell’ecpnomianazionale. Che ci sia una parte di ricatto in quest’argomentazióne, non deve impedire di RR

vedere che essa traduce anche un’evoluzione del merca­ to economico. La promozione del “relazionale”..non. è. dunque soltanto un’abile tattica per disinnescare a costi minimi gli antagonismi di classe; essa stessa si sviluppa a sua volta in una sorta di vuoto, quello lasciato in.Que­ sto caso preciso dallo spostamento dei centri reali della decisione fuori dei limiti dell’azienda. Ma nello stesso tempo, essa riempie anche, almeno parzialmente, que­ sto vuoto' edTnàugufa còsi qualcòsa che non si può in­ terpretare semplicemente in termini di deviazione o di manipolazione. Constatare che il campo delle relazioni umane è diventato una dimensione quasi autonomizzabile in seno alla gestione aziendale, non significa dun­ que fare un’enunciazione “idealistica”; significa piutto­ sto sottolineare uno degli effetti essenziali di un proces­ so oggettivo di trasformazione dei mezzi di produzione e dei rapporti di produzione. Più in generale, l’inflazione dello psicologico e del rela­ zionale rimanda ad una mutazione sociale che opera una deflazione delle costrizioni economiche e sociali di un dato settore, magari al prezzo ch’esse si spostino al­ trove e gravino in un qiodo altrettanto se non più im­ pietoso. L’autonomia relativa dello psicologico, quale la si può vivere, non corrisponde dunque alia liberazio­ ne dei determinismi, ma piuttòsto a una situazióne drammatica in cui l’azione sociale e politica è colpita dall’impotenza, in cui l’attore storico è scisso in sogget­ to psicologico e in ricettacolo di pressioni esterne, ed in cui esso non può ormai mobilizzare l’insieme delle sue possibilità pratiche, se non nel quadro di un .lavoro., su se stesso, il che comporta sempre qualcosa di derisorio. Nello stesso modo in cui Marx ha potuto dire che la re­ ligione era il sole di un mondo senza sole, si potrebbe correre il rischio di sostenere che installarsi nella psico­ logia sia lo stabilirsi in una socialità senza sociale. Don­ de l’ambivalenza del proposito, quando si tratti di de­ scrivere le forme di questa cultura e di apprezzare il 89

comportamento dei suoi attori. Vanno invidiati coloro che posseggono delle certezze quadrate, che le traggorio dalla loro conoscenza dell’inconscio,'o’.'.dèEfiffihSÒ’i®® storia, o di entrambi? Verso di loro è possibile avere un facile disprezzo. Ma la cultura dello psicologico . non poggia su una roccia: vivere nel e del relazionale, vuol dire, giocare volta per volta e senza rete di protezione, cioè senza genealogia e senza eredità, hic et nune, \\ successo è precario, ed in ogni modo la partitajiQomincerà domani, e cosi aìPinfinito; né il tempo aggiusta nulla in questo genere di cose. Si può allora ironizzare sulla bulimia dei consumatori di beni psicologici, e denunciare l’ingenuità indaffarata di attivisti, candidi e calcolatori ad un tempo, che lavorano seriamente su se stessi come se costruissero un tempio in cui proteggere una divinità effimera. Eppure, essi sono forse i testimo­ ni dei tempi a venire.

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Indice

Pag.

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Nota introduttiva di Giovanna Procacci

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1. Verso una nuova cultura psicologica La scuola e l’infanzia anormale, 26. - Una nuova cul­ tura psicologica, 37

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2. La società di relazione La psicologia clinica, 45. - Il lavoro sociale, 51. - La psicologia del lavoro, 57

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3. Il dopo-psicoanalisi Psicoanalisi: le vie della diffusione, 71. - L’impatto della psicoanalisi, 77. - Le tecniche del dopo-psicoanalisi, 78. - La psicologia nella sua società, 84

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Nuovi materiali

Opuscoli Johannes Agnoli, Lo stato del capitale Louis Althusser, Elementi di autocritica Elmar Altvater, Freerk Huisken, Lavoro produttivo e im­ produttivo Egle Becchi (a cura di), L'amore dei bambini. Pedofilia e di­ scorsi dell'infanzia Norberto Bobbio, Gramsci e la concezione della società civile (3a ed.) Massimo Cacciari, Hegel e la "crisi" del politico Graziella Cafaro, Marcello Messori, La teoria del valore e l'altro. Con un 'appendice sui nuovi epistemologi L Christé, A. Del Re, E. Forti, Oltre il lavoro domestico (2a ed.) Collettivo di “Primo Maggio”, Moneta, crisi e stato capita­ listico, a cura di Lapo Berti Collettivo di “Primo Maggio”, La tribù delle talpe, a cura di Sergio Bologna Umberto Curi, Sulla “Scientificità” del marxismo (2a ed.) Alessandro Dal Lago, La produzione della devianza. Teoria sociale e meccanismi di controllo Francois Ewald, Anatomia e corpi politici. Su Foucault Luigi Ferrajoli, Danilo Zolo, Democrazia autoritaria e ca­ pitalismo maturo Franco Fistetti, Lenin e il machismo. Da "Materialismo ed empiriocriticismo" ai "Quaderni filosofici” Carlo Formenti, La fine del valore d’uso. Riproduzione, in­ formazione, controllo Maurice Godelier, Rapporti di produzione, miti, società Jùrgen Habermas, Lavoro e interazione. Introduzione di Maria Grazia Meriggi

AndrAs Hegedùs e Maria Markus, Sviluppo sociale e orga­ nizzazione del lavoro in Ungheria G. Lerner, L. Manconi, M. Sinibaldi, Uno strano movi­ mento di strani studenti. Composizione, politica e cultura dei non garantiti Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra Edoarda Masi, Lo stato di tutto il popolo e la democrazia repressiva Luisa Muraro, Maglia o uncinetto. Racconto linguisticopolitico sulla inimicizia tra metafora e metonimia Antonio Negri, Crisi dello Stato-piano, comuniSmo e orga­ nizzazione rivoluzionaria (5a ed.) Antonio Negri, Proletari e Stato. Per una discussione su au­ tonomia operaia e compromesso storico (6a ed.) Antonio Negri, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo mar­ xista della trasformazione sociale (5a ed.) Claus Offe e Gero Lenhardt, Teoria dello stato e politica sociale. Introduzione di Gustavo Gozzi Enzo Paci, Fenomenologia e dialettica Gaio Petrovic, Socialismo e filosofia Nicos Poulantzas, Fernando H. Cardoso, Sul concetto di classe Jacques Rancière, Ideologia e politica in Althusser Franco Rella, Il mito dell’altro. Lacan, Deleuze, Foucault Rossana Rossanda, Charles Bettelheim, Il marxismo di Mao Tse-tung e la dialettica Karl Heinz Roth, Autonomia e classe operaia tedesca. Pre­ messa di Lapo Berti Federico Stame, Società civile e critica delle istituzioni Mario Tronti, Sull’autonomia del politico Mihaly Vajda, Sistemi sociali oltre Marx. Società civile e Sta­ to burocratico all’Est. Introduzione e cura di Laura Boella Gianni Vattimo, Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica (2a ed.)

Scritture Letture Nanni Balestrimi, Blackout Eugenio Barba, La corsa dei contrari

Renato Bacilli, Viaggio al termine della parola Peter Handke, Il mondo interno dell’esterno dell’interno Filiberto Menna, Critica della critica Tommaso Ottonieri, Dalle memorie di un piccolo ipertrofico

Saggi brevi Mariolina Bongiovanni Bertini, Redenzione e metafora. Una lettura di Proust Gianfranco Gabetta, Strategia della ragione. Weber e Freud Aldo Gargani, Stili di analisi G. W. F. Hegel, Aforismi jenensi (Hegels Wastebook 1803-1806). A cura e con un’introduzione di Carlo Vittone. Premessa di Remo Bodei Friedrich Hólderlin, Sul tragico. Con un saggio introdutti­ vo e a cura di Remo Bodei Philippe Lacoue-Labarthe, La melodia ossessiva. Psicanalisi e musica