Uscire dal vago. Analisi linguistica della vaghezza nel linguaggio 8858114426, 9788858114421

Dalla Prefazione di Tullio De Mauro: "In generale, anche nel mondo delle scienze fisiche l’esattezza delle misurazi

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Uscire dal vago. Analisi linguistica della vaghezza nel linguaggio
 8858114426, 9788858114421

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Percorsi 95

© 2006, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2006

Sabrina Machetti

Uscire dal vago Analisi linguistica della vaghezza nel linguaggio Prefazione di Tullio De Mauro

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel maggio 2006 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 88-420-8008-X

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Prefazione di Tullio De Mauro

Sabrina Machetti ha incontrato la questione, o meglio le questioni, della vaghezza muovendosi sul terreno di esperienze assai concrete e determinate. Da molti anni, anzi da alcuni decenni, non senza qualche persistente stupore di noi nativi, la lingua italiana è molto studiata in giro per il mondo e ormai anche in Italia da adulti stranieri. E così anche per l’italiano, come già per il francese, l’inglese, il tedesco, si è posto il problema di elaborare certificazioni dei livelli cui è giunto l’apprendimento da parte di coloro cui un riconoscimento formale serve per il lavoro, la professione, studi ulteriori. In un paese come il nostro che, forse per fortuna, continua a essere policentrico, esistono diversi centri di elaborazione e uso di modelli e di scale più o meno differenti di certificazione. Sabrina Machetti ha lavorato e lavora in uno dei centri più attivi e istituzionalmente più obbligati a lavorare sulla certificazione, l’Università per Stranieri di Siena. Qui, impegnata a misurare nel modo più accurato possibile i livelli di competenza linguistica in italiano, cioè i livelli sia di conoscenza della lingua sia di capacità di utilizzarla in situazioni particolari, la giovane studiosa è stata costretta a confrontarsi nel concreto più serio, drammatico e circostanziato con le questioni della precisione e/o imprecisione dei test e dei loro risultati. Non si tratta di buttarli via, come qualche bello spirito, speV

cie italico, ogni tanto si affaccia a dire, si tratta al contrario di migliorarli e di usarne i risultati appropriatamente per passare dalla misurazione alla valutazione sapendo, come già scriveva Alan Davies una quindicina d’anni fa e ricorda opportunamente Machetti, che il language testing non è una scienza esatta: «It does not pretend to be precise. Indeed, its necessary and admirable attempt to be explicit about language, about measurement and about ability reveals how vague those areas are». Misuriamo, ma poi nel valutare e decidere (che appartengono a un momento ben distinto, come insegnò tanti anni fa Aldo Visalberghi in un libro sempre memorabile) dobbiamo chiamare in causa fattori di sfondo della più varia natura. Getteremo la croce addosso all’aspirante, al «certificando», se ci dà come passato remoto di pervenire la forma pervenì, fuori norma, ma basata su robuste analogie e soprattutto usata almeno una volta dal principe del giornalismo italiano? Metteremo una pesante crocetta negativa sulle risposte di chi incespica nel riconoscere la forma esatta del passato remoto di promettere come è successo di recente a un brillante e, per il resto, ben parlante leader politico? Oppure, una volta accertata qualche incapacità, per valutarla non dobbiamo forse chiamare in causa altri fattori, come ad esempio l’esistenza di oscillazioni standard nello stesso standard italiano? E dove è il confine tra oscillazione riconosciuta appunto come standard sulla base degli usi attuali e oscillazione non riconosciuta? E, per restare in argomento, ma al tempo stesso spostandoci sulle sabbie ancor più mobili del significato, che vuol dire attuale riferito a lingue di antica, stratificata tradizione? «La linguistique n’est pas la mathématique», e proprio per questo per descrivere i fatti linguistici bisogna sapersi muniVI

re di armi se non generalmente matematiche almeno statistiche, ma bisogna anche sapere, come gli statistici sanno, che le misurazioni statistiche non bastano quando dalle medie generali si passi ai casi particolari, di dettaglio. Così Machetti ha incontrato le questioni della vaghezza e, come la mosca di Wittgenstein, ha cercato di uscire dal collo della bottiglia. Cioè si è costruita un orizzonte più generale, metateorico. Insomma, ha fatto della filosofia, della buona, utile filosofia e ce ne offre qui i risultati. Forse, se si comincia a riflettere, come Machetti ha fatto, non poteva accadere diversamente. Le questioni della vaghezza vanno oltre il testing linguistico. È apparso da poco un bel libro di un giovane progettista e architetto, Giovanni Garroni, intitolato provocatoriamente Elogio dell’imprecisione. Garroni così esordisce: «È proprio vero che per capire un’architettura, ma anche un oggetto o una semplice forma, la precisione descrittiva è l’elemento determinante? La risposta più intuitiva è: sì, la precisione è la condizione per capire il senso delle cose. Eppure la sola precisione [corsivo mio] non ci spalanca le porte del significato [...]. Una configurazione evoca sempre qualcosa che materialmente non è presente e che, a sua volta, non è precisamente determinato». Anche il progettista e architetto incontra «l’indeterminatezza semantica, come dicono i linguisti, [...] l’imprecisione dei contorni». In generale, anche nel mondo delle scienze fisiche l’esattezza delle misurazioni è l’arte delle circostanziate, precise approssimazioni: approssimazioni entro limiti ben definiti e possibilmente ben calcolabili. Si capisce dunque che un periplo intorno alla nozione espressa dalle parole vago e vaghezza ci deve portare lontano. Nel mondo antico è Aristotele, fautore dell’acribia, della inVII

controvertibilità degli asserti in tutta quella che era al suo tempo l’enciclopedia delle scienze, a richiamarci ai confini e limiti delle certezze univoche. Quando designiamo le categorie eterne, le archaì che non mutano nel tempo, e quando usiamo una parola in un contesto particolare, allora le parole devono piegarsi all’univocità e, se ambigue, disambiguarsi. Ma tra l’eterno e l’hic et nunc omnimodo determinatum egli vede e ci fa vedere distendersi il vasto mondo delle cose materiali e umane che in sé obbediscono alla pláne, alla mobilità. Rispetto ad esse tò akribès oukh omoíos en ápasi toîs lógois epizetéon, hósper oud’en toîs demiourgoménois, «l’esattezza non va ricercata in misura eguale in ogni lógos [discorso, calcolo, ragionamento, misura...], e così nemmeno nella fabbricazione d’oggetti» (Etica Nicomachea 1094 b 13-14), concetto non isolato, ma che viene richiamato tutte le volte che un discorso verte su ciò che è epì to polù, «per lo più». Anche l’arte del dire è, per Aristotele, soggetta a questi limiti. Che essi ne siano costitutivi, che il non akribès stia di necessità dentro le forme stesse del nostro parlare, è cosa che (a mia conoscenza) viene in chiaro solo molti secoli dopo, quando le maggiori scienze moderne si sono costituite, quando le matematiche hanno intrapreso cammini prima impensati, e Leibniz può mettere a confronto i linguaggi formali e matematici ormai in funzione con il parlare comune, e additare in questo la matrice non evitabile di quelli: in questo e, più esattamente, nella scarsa rigidità delle comuni significationes, cui solo la costruzione di calcoli e regole di ambito limitato può porre riparo. Machetti lascia sullo sfondo queste vicende più lontane e va dritta verso i testi, gli autori, i momenti in cui la vaghezza linguistica e più generalmente semiotica torna al centro VIII

dell’attenzione: Frege, Peirce, Russell, Saussure, Wittgenstein nelle successive fasi del suo pensiero, logici, linguisti, psicologi, semiotici. È, a mia conoscenza, un periplo inedito nella sua complessità e più d’uno specialista avrà di che imparare. Ma il libro non è per gli specialisti di questo o quel campo, Machetti lo sa e propone, con l’autorevolezza delle sue molteplici analisi, di fare chiarezza (per quanto possibile, secondo l’ammonimento che fu anche di Aristotele) e distingue in modo convincente l’ambiguità, che può sciogliersi (e che troviamo anche in segni del linguaggio aritmetico, che il calcolo disambigua), dalla vaghezza, che è insita in ogni parola e segno linguistico: nel significato, finché la parola non venga definita esplicitamente per una parte dei suoi usi specialistici o non venga calata in un contesto particolare che ne restringa la potenziale vaghezza; e, sottolinea opportunamente l’autrice, nella stessa forma significante, anch’essa soggetta, come già Saussure insegnava e oggi possiamo accertare anche strumentalmente, a novations e fluctuations, a novità e spostamenti anch’essi vaghi. Del resto, osserva Machetti, vaga è la stessa parola vaghezza. Effettivamente così ci insegna l’analisi dei sensi di questa parola e dei suoi derivati, vaghezza e vagare, vagheggiare, svagare, vagolare, divagare..., spesso oscillanti tra valori estremi opposti. Lo stesso vale per il vocabolo latino vagus, vago, una parola senza etimo certo, cui risalgono vago e le sue sorelle d’altra lingua europea. E tuttavia ciò non ha impedito a Leopardi di adoperare con potenza evocatrice questa parola che amava: «Vaghe stelle dell’Orsa...»; «...ancor sei vaga di mirar queste valli?»; «...sedevi assai contenta di quel vago avvenir che in mente avevi». Né soprattutto gli ha impedito di dedicare alle parole vaghe e alla vaghezza molte pagine peIX

netranti e precise quanto suggestive dello Zibaldone. Possiamo dunque servirci di tali parole anche noi con efficacia ogni giorno nel parlare comune e, con la messa a punto di Machetti, potremo continuare a servircene nelle sedi più tecniche della semantica e della teoria generale dei linguaggi, se vogliamo parlare di linguaggio e lingue fuori delle ottiche costrittive care a puristi e a taluni poco logici filosofi logicizzanti. Abbiamo bisogno di muoverci, percepire, significare tenendo conto sempre del rapporto tra vago e preciso, e lo capiamo anche osservando la stessa parola vago con i suoi significati in sé sfumati e i suoi possibili usi precisi ed efficaci nella poesia come in semiotica e linguistica.

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Introduzione

Che cos’è la vaghezza? È una proprietà dei concetti di cui ci serviamo per parlare del mondo, dovuta alla loro natura incerta e mai chiaramente determinabile? È una proprietà legata ai limiti della nostra conoscenza, che non ci consente di stabilire quali siano i confini, che sarebbero invece netti e precisi, di tali concetti? È una proprietà che riguarda, all’opposto, gli oggetti e gli eventi di cui parliamo, e dunque solo di conseguenza i concetti e le parole che usiamo per la loro descrizione? O forse è una caratteristica prettamente linguistica, legata cioè in modo strettissimo al linguaggio in quanto facoltà che fa parte del patrimonio genetico di ciascun individuo e alle lingue storico-naturali in quanto formazioni culturali contingenti, forme del più ampio universo della semiosi umana? Sono queste alcune delle domande da cui prende le mosse il volume, che si propone di definire cosa sia la vaghezza, a partire dalla descrizione dei suoi modi e delle sue diverse manifestazioni. E lo fa optando per una collocazione della vaghezza nella lingua, in quel sistema di segni tipicamente umano, in quella forma di vita e di identità, individuale e collettiva, biologica e culturale, senza la quale il nostro pensiero non sarebbe forse tanto diverso da quello di altri mammiferi superiori e probabilmente non vi sarebbero né storia, né scienze, né concetti. XI

Il volume si apre (capitolo 1) ricostruendo della vaghezza la storia linguistica e semiotica, una storia che non vuol seguire un ordine cronologico e che si colloca tutta nell’ambito del pensiero occidentale, tra Otto e Novecento, e tenta di tracciare un percorso fatto di personalità e riflessioni anche, e non solo apparentemente, distanti tra loro, ma tutte in qualche modo legate alle scienze del linguaggio. Si inizia con l’americano Peirce e con quella che in molti riconoscono come la prima definizione esplicita di «proposizione vaga»; si prosegue con Black e con Wittgenstein, per i quali discutere di vaghezza corrisponde, in modo più o meno esplicito, a spostare comunque l’attenzione da un linguaggio logicamente perfetto, di cui è impossibile anche solo ipotizzare una corrispondenza con la realtà, al linguaggio comune e, con esso, agli usi linguistici e alle consuetudini dei parlanti. Si giunge poi a un accostamento almeno all’apparenza curioso tra l’austriaco Bühler e Tullio De Mauro, di cui si mettono in evidenza lo sforzo e il tentativo di travalicare i tradizionali confini della vaghezza semantica; e si arriva a Lewis e Prieto, che legano la vaghezza a problemi di «convenzione» e di «comprensione» tra i parlanti. Si tratta di un percorso necessariamente limitato, che impone scelte e (dolorose) omissioni; ma, al contempo, si tratta di una storia che almeno idealmente vuol mantenersi «al limite», e perseguire un’ottica quanto più possibile interdisciplinare: è per questo che il volume, seppur sinteticamente, getta uno sguardo sulla storia filosofica della vaghezza – in cui, almeno dai paradossi del greco Eubulide in avanti, a farla da padrone sembrerebbe l’approccio logico-formale – e si conclude proiettando la vaghezza oltre i labilissimi confini della semiosi verbale, sottolineandone la pervasività, anche per il suo essere caratteristica del pensiero umano e dell’attività concettuale ad esso legata. La breve ricostruzione della storia delle idee linguistiche e XII

semiotiche sulla vaghezza apre la strada alla definizione del concetto (capitolo 2). Tale definizione lega la vaghezza alla più generale indeterminatezza della semiosi umana e, come conseguenza di ciò, ne giustifica la pervasività e il suo essere proprietà costitutiva delle lingue, legata alla nostra unicità di utenti-locutori, di agenti sociali e, prima ancora, alla ben più radicale unicità del nostro io. La vaghezza viene collocata tra i poli della saussuriana «arbitrarietà radicale» e della demauriana «non non-creatività». Della vaghezza si descrivono dunque i modi e le diverse manifestazioni, evidenti sia a livello segnico, sia a livello semantico, sia a livello pragmatico. Particolare attenzione viene dedicata proprio alla dimensione pragmatica dei codici linguistici verbali e ai modi assunti dalla vaghezza su questa dimensione, ove decisivo appare il ruolo degli utenti. L’attenzione si focalizza sulle cosiddette «vaghezza pragmatica» e «incertezza d’uso», e per esse si forniscono alcuni esempi. L’ultima parte del volume (capitolo 3) è dedicata a una breve chiarificazione, non solo terminologica: il tentativo è quello di distinguere infatti la vaghezza da proprietà consimili – prime tra tutte l’indeterminatezza e l’ambiguità – e da uno dei suoi tradizionali antinomi – la precisione –, con il fine di contribuire all’approfondimento della definizione del concetto al centro delle nostre discussioni. Così si completa il nostro quadro sulla vaghezza, ben lungi dal voler essere anche solo sufficientemente delineato. Di certo speriamo che le osservazioni in esso contenute possano servire almeno a suggerire quanto l’accostarsi alla vaghezza richieda – forse come per ogni altro, ma, crediamo, più che per ogni altro tema – il costante mantenimento di un’ottica interdisciplinare. S.M. XIII

Ringraziamenti

Questo volume riprende parte della ricerca svolta nell’ambito del dottorato in Linguistica e Didattica dell’italiano a stranieri dell’Università per Stranieri di Siena (XVII ciclo). Per questo è dedicato a Massimo Vedovelli, all’epoca coordinatore del dottorato e mio tutor: a lui va un ringraziamento difficile da esprimere, perché sua è stata l’idea di studiare la vaghezza, suo l’incomparabile e costante esempio di passione per lo studio, sua la severa lezione di umiltà. Ho nei suoi confronti un debito scientifico e affettivo che mai riuscirò a colmare. Ringrazio anche Monica Barni, che mi è sempre stata vicina in questi anni di lavoro e che ha avuto la pazienza di sostenermi, di criticarmi affettuosamente e di aiutarmi ad affinare le idee confuse da cui è partita la ricerca. A lei, come a Carla Bagna, mi lega anche un’amicizia che ci ha portate a condividere ricerche e progetti che spero proseguiranno in futuro. Per ultimo, ma di certo non perché sia meno importante, un sincero ringraziamento va a Tullio De Mauro, che ha discusso la mia ricerca di dottorato e ha creduto da subito in questa impresa, fino a renderla possibile. Sono di De Mauro molte delle idee contenute nel volume. Non finirò mai di ringraziarlo per l’incoraggiamento, i suggerimenti, il lavoro di paziente revisione e, non ultima, la sua speciale, rara, sensibile umanità. XV

Uscire dal vago

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La vaghezza tra semiotica e linguistica

Definire cosa la vaghezza sia e quali siano le sue manifestazioni e i suoi effetti è operazione tutt’altro che scontata. Anche l’aver optato per una collocazione del problema nell’ampio universo della semiosi, e con essa del linguaggio e delle lingue, non sembra esserci, almeno per il momento, di grande aiuto. A complicare il tutto si aggiunge il fatto che la tradizione degli studi linguistici e semiotici che percorre gli ultimi anni dell’Ottocento e tutto il Novecento, studi da cui sarebbe legittimo aspettarsi almeno qualche indicazione, appare carente di ricerche in grado di offrire, se non ricostruzioni organiche, almeno brevi ricognizioni del problema1. Per la verità, per simili difficoltà non manca una spiegazione: la maggior parte dei linguisti e dei semiologi si occupa infatti poco o niente di vaghezza e, se lo fa, non rende mai questa proprietà il nucleo centrale della propria riflessione. Tuttavia, l’aver collocato la vaghezza tra i problemi del linguaggio e delle lingue storico-naturali ci obbliga a ripercorrere la strada tracciata dalle relative discipline. Il risultato, lo si è Una rara e felice eccezione è il saggio di Massimo Prampolini (1997), che pur nella sua estrema sinteticità offre un panorama completo di alcune delle tappe che, a partire dal primo Novecento, hanno segnato la storia degli studi linguistici e semiotici sulla vaghezza. Lo consideriamo perciò un punto di riferimento per parte della nostra ricostruzione; ciò non toglie che più di una volta ce ne discosteremo, omettendo ad esempio il riferimento ad autori e a discussioni per i quali l’accostamento alla vaghezza ci sembra un po’ forzato. 1

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già detto, non sarà una ricostruzione organica, e neppure rispettosa di un ordine rigidamente cronologico, ma l’indicazione di un percorso dai labili confini, al contempo preparatorio alla definizione, a cui è dedicato il capitolo 2, del concetto di «vaghezza» e alla descrizione delle sue manifestazioni. In ciò, tenteremo di tenere insieme autori e riflessioni a volte molto diversi tra loro, in apparenza anche distanti dall’oggetto della nostra discussione, nella convinzione che la vaghezza abbia molto da guadagnare se analizzata in un contesto di ravvicinato contatto tra ambiti di ricerca difformi, ma aventi tutti come proprio principale oggetto la lingua. Obbligato, seppur di necessità sintetico, è uno sguardo a quella che potremmo definire la storia logico-filosofica della vaghezza. 1.1. La vaghezza dei logici e dei filosofi: un fastidioso ostacolo Nella storia del pensiero occidentale, i logici e i filosofi sono stati di certo fra i primi a trovarsi a fare i conti con la vaghezza. Per coloro che ne hanno intravisto i legami con il linguaggio, si può dire che la vaghezza abbia sempre e sostanzialmente rappresentato un ostacolo piuttosto fastidioso: le loro discussioni, per la maggior parte legate alle teorie della verità e del riferimento, hanno infatti rischiato di arenarsi di fronte ai problemi creati da questa proprietà non, si badi bene, per il linguaggio generalmente inteso, ma per il solo significato di termini, espressioni, proposizioni, anche all’interno di linguaggi almeno teoricamente perfetti, lontani dalla sregolatezza del linguaggio naturale2. L’obiettivo è dunque Anche la vaghezza si è trovata dunque ad essere analizzata all’interno di quello che Marconi (1999, p. 15) definisce «il paradigma dominante nel2

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stato quasi sempre quello o di eliminare la vaghezza, o di governarla nel migliore dei modi possibili, sempre attraverso un trattamento di tipo logico-formale. Mai o solo raramente ci si è occupati della sua definizione, forse per evitare problemi e controversie di difficile soluzione, o forse perché, direbbe ironicamente Hans Blumenberg (1987), anche la vaghezza fa parte di quelle cose tutte teoriche che non si vedono, difficili da far corrispondere a concetti dai confini chiari e stabili. I primi tentativi di «gestione» della vaghezza risalgono certamente al mondo antico e a una serie di paradossi attribuiti da Diogene Laerzio, nelle Vite dei filosofi, al logico megarico Eubulide, un contemporaneo di Aristotele: primi tra tutti, il paradosso dell’Uomo Calvo, phalakros, e quello del Mucchio, sorites, da soros, «mucchio»3. Per simili puzzle, e per l’idea che ad essi soggiace, e cioè che certe proprietà appartengono a una determinata categoria solo quando certe condizioni hanno superato una determinata soglia, la vaghezza dei termini che inla filosofia del linguaggio del Novecento», derivante dalla congiunzione di tre tesi: 1. il significato di un enunciato dichiarativo, unità linguistica privilegiata, si identifica con le sue condizioni di verità; 2. il valore semantico di un’espressione complessa dipende funzionalmente dai valori semantici dei suoi costituenti; 3. considerazioni di carattere contestuale e psicologico sono irrilevanti per la teoria del significato. Un’articolata sintesi sull’argomento è fornita da Picardi (1999), a cui rimandiamo. 3 Ricordiamo solo brevemente come la struttura dei due paradossi non sia quella di un argomento con premesse e conclusioni, ma corrisponda a una serie di domande: un uomo con un solo capello in testa può dirsi calvo? E un uomo con due capelli in testa? E un uomo con diecimila capelli in testa? Un solo chicco di grano può dirsi un mucchio di grano? E due chicchi di grano possono dirsi forse un mucchio?... E mille chicchi di grano? E un mucchio di grano rimane sempre un mucchio di grano anche quando si toglie da esso un solo chicco? Per quanto riguarda il sorite, resoconti sul ruolo giocato da questo paradosso nel mondo antico sono quelli di Barnes (1982) e Burnyeat (1982); per un’illustrazione ampia e dettagliata dell’intera storia del paradosso, attenta anche alle discussioni recenti sull’argomento, si rimanda a Sainsbury, Williamson (1997).

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dicano tali proprietà sembrerebbe in grado di condizionare pesantemente la possibilità di determinare con esattezza a cosa la suddetta soglia corrisponda. Ed è evidente come ciò rappresenti un problema di difficile soluzione. Dai paradossi in poi, alla vaghezza si lega comunque in filosofia l’immagine di un continuum di base caratteristico di termini, espressioni, proposizioni, continuum lungo il quale si verificano costantemente impercettibili cambiamenti. Si tratta di un’immagine destinata a sopravvivere per millenni, accolta fino ai giorni nostri da un gran numero di logici e filosofi del linguaggio4. Tra questi non manca chi, cercando ancora una soluzione agli antichi paradossi, spinge le proprie ricerche verso logiche e semantiche alternative, riprendendo ma anche superando ampiamente sia la nota posizione di Gottlob Frege (1848-1925) – che guardava alla vaghezza come a un difetto del linguaggio naturale e per questo teorizzava l’adozione di un linguaggio artificiale in cui ciascun predicato fosse caratterizzato da assoluta precisione – sia quella, altrettanto nota, di Bertrand Russell (1872-1970) – che legava la vaghezza al linguaggio naturale, ma non per questo la considerava un difetto da eliminare5. Solo per fare qualche esempio, all’interno di tali loSull’argomento si vedano le belle sintesi di Williamson (1994) e Keefe (2000). 5 Frege si occupa di vaghezza all’interno di Begriffsschrift (1879), teorema 81, e in una lettera in risposta a Peano datata 1896, a seguito della sua recensione del primo volume dei Grundgesetze der Arithmetik (1893-1903). Qui Frege si era tra l’altro espresso in modo chiaro contro l’esistenza di concetti dai confini indefiniti: «Una definizione di un concetto (cioè di un possibile predicato) [...] deve determinare, in relazione a ciascun oggetto, senza alcuna ambiguità se esso ricade o non ricade sotto di esso (e dunque se quel predicato può venire affermato con verità di tale oggetto). Così non deve accadere che ci si trovi di fronte ad un qualche oggetto la cui definizione mette in dubbio il suo ricadere sotto un determinato concetto [...]. Metaforicamente possiamo esprimere ciò come segue: un concetto deve avere confini definiti» (II.56, nostra traduzione). 4

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giche e semantiche c’è chi ha ipotizzato l’esistenza di veri e propri «buchi» nel valore di verità delle proposizioni vaghe, considerando come proprio le proposizioni contenenti termini vaghi siano tali da non potersi dire in alcun modo né vere né false, visto che il loro valore di verità è in pratica nullo; accanto ad essi, non pochi sono i sostenitori del cosiddetto «terzo valore di verità», appunto attribuibile, perché neutro, indeterminato o indefinito, a espressioni contenenti termini vaghi; oppure coloro che ritengono, come i seguaci della cosiddetta logica fuzzy, che alle espressioni contenenti termini vaghi sia possibile riferirsi attraverso uno spettro di valori di verità intermedi («gradi del valore di verità»), compresi cioè tra 0 e 1, in cui 0 = «completamente falso» e 1 = «completamente vero»6. Va però detto che il ricorso a logiche e a semantiche alternative non rappresenta attualmente l’unica via per trattare la vaghezza. Non manca infatti tra i filosofi chi sostiene, come Timothy Williamson, che la vaghezza risulti paragonabile a una sorta di ignoranza, dovuta ai limiti del nostro conoscere, tali da non consentirci di stabilire quali siano realmenNegli scritti di Russell compresi tra il 1913 e il 1948 il tema della vaghezza ricorre più volte: tra tutti rimandiamo al saggio Vagueness, del 1923, che propone una raffinata discussione di questa proprietà e conclude con una spiegazione che potremmo dire «fisica», trattando la vaghezza come un fenomeno naturale: «Io credo che la vaghezza nella nostra conoscenza sia semplicemente un caso particolare di una legge generale della fisica, legge secondo cui i modi di apparire di una cosa in differenti luoghi sono sempre meno differenziati quanto più noi siamo lontani da essa» (p. 68, nostra traduzione). 6 Ci sia perdonata la sintesi, che certo non rende giustizia dell’ampiezza e della portata di un dibattito che impegna ancor oggi gran parte della logica e della filosofia del linguaggio occidentale. Per un necessario approfondimento, si rimanda ai lavori di Sorensen (1985), Keefe, Smith (1996), Graff, Williamson (2002), Varzi (2002), Wright (non pubblicato). In particolare, per una panoramica sulla logica fuzzy, oltre ai basilari studi del suo inventore, Lofti Zadeh, tra cui Zadeh (1965, 1975), si vedano Baldwin (1978), Dubois, Prade (1980), Klir, Folger (1988), Kosko (1995) e gli italiani Sangalli (2000) e Veronesi, Visioli (2001).

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te i confini dei predicati vaghi, per natura netti e precisi. La vaghezza non è dunque una proprietà che riguarda necessariamente il significato; anzi, a livello di significato, l’esistenza di confini netti per i predicati vaghi è tale da rappresentare un’ottima garanzia per il mantenimento della semantica classica, almeno fino a quando non si riusciranno a trovare buone ragioni per dimostrare il contrario7. Del tutto distante dalle precedenti, e dunque anche lontana dal problema dei paradossi, è infine la posizione di coloro che tentano di trattare la vaghezza classificandola tra i problemi non linguistici: secondo un ristretto numero di filosofi contemporanei, non sarebbe infatti il linguaggio a essere vago, ma, al contrario, sarebbero gli «oggetti» – siano essi condomini, gatti, colline o anche entità della fisica quantistica – a presentare confini spaziali e temporali indefiniti, sfumati, evanescenti. Di conseguenza, il linguaggio di cui ci serviamo per descrivere simili oggetti non è in se stesso vago, ma lo diverrebbe in virtù della vaghezza dell’oggetto descritto8. 1.2. Un concetto propriamente linguistico: Peirce La nostra storia semiotica e linguistica della vaghezza – una storia, lo abbiamo detto, dai confini incerti – inizia da colui che in molti indicano come l’inventore della semiotica, ma, al contempo, come grande logico e più in generale studioso delle scienze del linguaggio: Charles S. Peirce (1839-1914)9. La raSull’argomento si vedano i numerosi lavori dello stesso Williamson, a partire dal già citato Williamson (1994), ben discussi da Moruzzi (2002). 8 Varzi (2001a, 2001b) indica questo modo di guardare alla vaghezza, per il quale rimandiamo a Van Inwagen (1988), Tye (1990), Zemach (1991), Parsons, Woodruff (1995), con i termini «ontologico» o «de re». 9 Lia Formigari (2001, p. 17) ci ricorda a questo proposito come sia proprio Peirce a porre «il problema della collocazione della linguistica nel qua7

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gione di questo inizio non è casuale, perché è proprio a Peirce che si deve non solo quella che è una formulazione esplicita della definizione di «proposizione vaga», che sottintende un legame forte tra la vaghezza e il linguaggio, ma anche quella che al contempo rappresenta una definizione con cui, forse per la prima volta, si tenta di elaborare concettualmente il problema. Va detto che si tratta anche di una risoluzione «matura», piuttosto distante cioè da cenni alla vaghezza presenti in precedenti lavori di Peirce in cui, solo per fare un esempio, la dimensione dell’uso non godeva della forza di cui sembra dotarsi proprio a partire dai primi anni del Novecento. Nella voce redatta per il Dictionary of Philosophy and Psychology di Baldwin (1901, 2.748), la vaghezza è infatti una caratteristica linguistica in virtù della quale la comunicazione tra i parlanti si svolge e funziona con successo anche mediante proposizioni per le quali è impossibile decidere, a causa della loro intrinsic indeterminacy, se i fatti a cui fanno riferimento sono affermati o negati da esse: Una proposizione è vaga quando sono possibili stati di cose per i quali è intrinsecamente incerto stabilire se colui che parla, dopo averli contemplati, li considera affermati o negati dalla proposizione. Con intrinsecamente incerto noi intendiamo non incerto come conseguenza dell’ignoranza di colui che interpreta, ma a causa del fatto che sono indeterminate le abitudini linguistiche del parlante; in modo che un giorno egli ritiene che la proposizione esclude, un altro giorno che ammette quegli stessi stati di cose. E questo deve essere posto in riferimento a ciò che si potrebbe dedurre da una conoscendro della nuova scienza dei segni» e a rintracciare, saussurianamente, la soluzione nell’idea che la linguistica è solo una parte della semiotica, scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale. Compito del linguista è dunque definire ciò che fa della lingua un sistema speciale nell’insieme dei fatti semiologici.

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za perfetta del suo stato mentale: ma proprio perché queste condizioni non si danno, o non si danno frequentemente, le abitudini linguistiche di chi parla restano indeterminate (nostra traduzione).

La definizione prosegue oltre, ma è certo questa prima parte a destare maggiore interesse. Essa ruota attorno ad alcune assunzioni fondamentali: vi sono espressioni che fanno riferimento a fenomeni borderline, a cui Peirce guarda come a stati di cose che l’applicazione di una particolare espressione non può né affermare né negare; queste espressioni equivalgono a proposizioni vaghe e ad esse si associa un carattere di intrinseca incertezza che non può essere fatta risalire a un difetto di conoscenza da parte del parlante, poco o male informato su un particolare stato di cose. Al contrario, al parlante sembrerebbe attribuibile il possesso di una perfetta conoscenza del proprio stato mentale, anche se questa condizione normalmente non si dà o si dà solo raramente. Infatti, del patrimonio linguistico di ciascun parlante fanno parte usi ampiamente incerti, abitudini linguistiche indeterminate e così destinate a rimanere, tali cioè che l’incertezza ad esse intrinseca non potrebbe neppure risolversi attraverso un’operazione di accrescimento delle informazioni provenienti dal mondo esterno. Come si diceva, la definizione va avanti e, sintetizzando molto, vede Peirce impegnato ad esempio nel distinguere la vaghezza da una proprietà consimile, la generalità: se «generali» sono proposizioni del tipo Man is mortal, vaghe possono dirsi, all’opposto, proposizioni quali This month a great event is to happen (ivi, 5.505). Le proposizioni vaghe sono quelle che mancano cioè di specificazione: infatti l’esempio appena citato si limita a dirci che un qualche evento accade in questo mese, ma non specifica di quale evento si tratti; an10

zi, se specificazione ci sarà, essa sarà nelle mani del solo emittente, a differenza di quanto accadrebbe se lo stesso emittente avesse di fronte proposizioni generali, la cui specificazione è normalmente compito del destinatario. Pur se alla definizione di Peirce continuerà a far riferimento gran parte dei linguisti e semiologi contemporanei – sia per aver sottolineato, seppur tra le righe, come la vaghezza sia caratteristica non solo dei segni del linguaggio, ma anche di sensazioni e immagini in quanto segni del pensiero, sia per aver esplicitamente legato la vaghezza non alla sola semantica ma anche a una situazione di incertezza di tipo pragmatico –, ciò non toglie che essa presenti limiti che di certo non ne favoriscono il pieno distacco da posizioni più classiche, quali quelle che abbiamo visto accomunare molti logici e filosofi del linguaggio. Peirce guarda infatti all’esistenza di espressioni vaghe e alla situazione di incertezza pragmatica ad esse legata come a dati di fatto ineliminabili, forse perché costitutivi dell’essere stesso della semiosi verbale; ma ciò non gli impedisce di dare un giudizio decisamente negativo proprio su tali espressioni. Esse popolano il linguaggio, ma ciò non significa che rappresentino anche un vantaggio per i parlanti. 1.3. Un probabile intoppo applicativo: Black Dopo Peirce, il percorso semiotico e linguistico tracciato in queste pagine, forse per non tradire la sua liminarità, ci porta curiosamente a incontrare Max Black (1909-1988), logico e filosofo. Lo inseriamo nella nostra storia della vaghezza e gli attribuiamo subito il merito di essersi adoperato per la costruzione di un vero e proprio quadro di riferimento entro cui descrivere e trattare sistematicamente questa proprietà, come distintiva – si badi bene! – del linguaggio naturale. Black è in11

fatti colui che in ambito logico-filosofico rompe il silenzio sulla vaghezza che accompagna e segue le riflessioni di Russell, facendosi portabandiera di un periodo in cui, anche in filosofia, comincia a crescere l’attenzione per i problemi del linguaggio comune. L’interesse si sposta, testimone John L. Austin, sugli usi linguistici, e con essi sulla descrizione dell’uso del termine «vago», ma, fatto ben più importante, alla vaghezza si lega, forse per la prima volta, un’immagine decisamente positiva10. Black discute a più riprese di vaghezza in stretto legame con questioni di semantica, prime tra tutte quelle relative allo studio della metafora11, anche se il suo contributo al problema può dirsi tutto felicemente riassunto in un saggio pubblicato nel 1937, dal titolo Vagueness: an exercise in logical analysis12. Scritto negli anni successivi al periodo trascorso a Cambridge, il saggio risente indubitabilmente dell’influenza esercitata su Black da questo ambiente: la discussione del problema della vaghezza assume infatti la forza della critica radicale nei confronti di quello che potremmo definire un costume epistemologico consolidato, che esclude una qualsivoglia forma di incertezza, indeterminatezza, vaghezza nel rapporto tra scienza, relative teorie ed esperienza13. Il fine di 10 Ad Austin (1962), tra l’altro, si deve la nota affermazione secondo cui «vague is vague», quasi a sottolineare la difficoltà nel definire un termine che, per antonomasia, una definizione rifugge. 11 Sull’argomento si rimanda a Gola (1994). 12 L’edizione italiana del saggio, pubblicata nel 1953 per le edizioni Fratelli Bocca e tradotta da F. Salvoni, e alla quale qui facciamo riferimento assieme all’originale, presenta purtroppo vistosi problemi di traduzione, già a partire dal titolo. Rilevante è ad esempio il fatto che il termine vagueness sia nella maggior parte dei casi reso con «indeterminatezza». 13 «È un paradosso assai familiare – e per questo ritenuto meno importante di quel che sia – che le più elevate e utili teorie scientifiche sono espresse in termini che non cadono sotto l’esperienza» (1937, trad. it. p. 29). Non è dun-

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Black diviene perciò una difesa delle scienze formali come della vaghezza ad esse connaturata, e viene perseguito, una volta considerata la rilevanza della vaghezza per la logica, attraverso la proposta di un «simbolismo adeguato» (1937, trad. it. p. 32). Black procede distinguendo innanzitutto la vaghezza da due proprietà consimili, quali la genericità e l’ambiguità: La prima è costituita dall’applicazione di un simbolo a molteplici oggetti entro il campo di riferimento; la seconda dall’associazione di significati diversi in una medesima forma fonetica; è invece caratteristica del simbolo vago o indeterminato quella di non presentare nel linguaggio significati diversi e di restringere la sua vaghezza al margine della sua estensione e non entro la sua stessa estensione. La definizione della vaghezza presentata dal Russell [...] come una relazione molteplice tra il sistema simbolico e quello simboleggiato confonde la vaghezza con la genericità (ivi, pp. 34-35; il corsivo indica una nostra traduzione).

Egli accoglie dunque parte della definizione di Peirce (§ 1.2), applicandola all’esempio della parola «sedia». Secondo Black è importante non confondere la vaghezza della sua applicazione a oggetti differenti per grandezza, figura e materiale con la indeterminatezza del vocabolo. [...] quando si parla di indeterminatezza del vocabolo «sedia» si ha speciale riguardo al fatto che possono presentarsi degli oggetti la cui appartenenza alla classe delle sedie è irrimediabilmente «incerta» o «dubbia». È la vaghezza dell’uso, non la sua estensione, che è importante per il nostro argomento (ivi, p. 38). que un caso se tra i temi trattati da Black ci sia anche quello che riguarda l’esattezza della misurazione: «Se ci limitiamo a fatti puramente sperimentali dobbiamo riconoscere che non vi è una misurazione esatta e che, senza di questa, non si può affatto parlare di errore» (ivi, p. 32). La misurazione esatta è dunque un mito, un’utopia molto distante dalla realtà dei fatti.

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Se ne ricava un concetto di vaghezza che potremmo definire applicativo, pragmatico, che concerne il rapporto tra «simboli» e «simbolizzato», e l’applicazione di un simbolo all’interno di un linguaggio governato da leggi per le quali la mancanza di precisione non sembrerebbe costituire problema. Black tenta però di andare al di là della semplice definizione, e per questo escogita un esperimento finalizzato alla misurazione della «consistenza funzionale» di un simbolo vago, il cosiddetto «profilo di consistenza»14. Tale esperimento è basato sul presupposto secondo cui mentre la vaghezza di una parola include variazioni nella sua applicazione da parte di chi usa il linguaggio in cui quella ricorre, perché un simbolo possa venir distinto da un altro, dette variazioni devono essere sistematiche ed obbedire a determinate leggi statistiche (ivi, pp. 53-55).

Nelle operazioni di misurazione messe a punto da Black è coinvolto un gruppo di parlanti, che si presume condivida abitudini linguistiche sufficientemente stabili e ricollegate in modo tale da poter limitare le asserzioni che contengono frequenti deviazioni dal modello (ivi, p. 35). L’esperimento in pratica assume che il comportamento di un siffatto gruppo possa fungere da modello replicabile e generalizzabile a un qualsivoglia altro gruppo in qualsivoglia altre circostanze. Se 14 Il tentativo di Black è di certo pionieristico, se si considera come si dovrà aspettare il 1957 per imbattersi nuovamente in qualcosa di simile: proprio in questo anno, infatti, Osgood, Suci, Tannenbaum tentano di operazionalizzare la vaghezza nell’ambito di una misurazione del significato. Per ricerche più consistenti dovremo comunque aspettare gli anni Sessanta, l’Intelligenza Artificiale e il Natural Language Processing (in proposito si veda la sintesi di Gola 1999). Si ricordano qui anche Klir, Folger (1988) che, seguendo l’approccio fuzzy, giungono a elaborare una vera e propria funzione per la misurazione della vaghezza.

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si ripetesse infatti la stessa domanda ad altri parlanti, con diversa collocazione nello spazio e nel tempo, il risultato che si otterrebbe sarebbe, secondo l’ipotesi di Black, praticamente lo stesso. Al gruppo selezionato viene dunque affidato il compito di esprimere un giudizio circa il possesso, da parte di un dato oggetto x, della proprietà L (e, chiaramente, della proprietà opposta ~L). L’esperimento procede interrogando ciascuno dei parlanti, dividendo le risposte affermative da quelle negative e assegnando a ciascuna risposta un numero. È chiaro che, se tutti rispondono in maniera affermativa, quello che si ottiene è un numero che procede verso l’infinito; se tutti rispondono in maniera negativa, quello che si ottiene è lo zero; se c’è disaccordo tra i parlanti, si ottiene invece un valore intermedio. Traducendo in un grafico le risposte dei parlanti interrogati sulla natura di un simbolo presupposto vago, Black osserva che la linea che si ottiene non è perfettamente verticale, ma ha invece un andamento del tutto particolare. L’esatta forma della curva di consistenza varia naturalmente secondo il simbolo considerato [...] un simbolo assai preciso presenta per curva di consistenza una retta quasi parallela all’asse orizzontale, e molto distante da esso, seguita da una ripida discesa e da un’altra linea quasi parallela all’asse orizzontale, e assai vicina ad esso [...]. Il simbolo assai indeterminato, ma non ambiguo, ha invece un profilo di consistenza che si accosta a una linea retta a inclinazione costantemente negativa (ivi, p. 56).

È proprio questa linea, e dunque il numero in cui essa si traduce, ad essere indicata come «profilo di consistenza per l’applicazione di L alla serie S» (ove S è la serie dei termini di x) e a essere considerata in pratica equivalente alla vaghezza del simbolo. 15

1.4. Un approccio plurivoco: Wittgenstein La nostra storia prosegue e, paradossalmente, culmina nell’incontro con Ludwig Wittgenstein (1889-1951), che mai, non senza una buona dose di snobismo, amò collocarsi tra i filosofi del linguaggio e, tantomeno, tra i linguisti e i semiologi15. Porlo all’interno di questa ricostruzione ci sembra però irrinunciabile, anche se egli non dedicò mai ampio spazio alla vaghezza, né fece della vaghezza uno dei nodi centrali della propria riflessione. La sua attenzione per i problemi del linguaggio, per ciò che nella maturità diverrà un «agire» finalizzato al cambiamento del modo di fare filosofia, e con esso per concetti quali «somiglianze di famiglia», «gioco linguistico», «uso», «significato», ci autorizza però a rintracciare all’interno delle sue opere i segnali di un vivo interesse per il problema qui in discussione. Ciò che ne risulta, e lo vedremo presto, è un’immagine della vaghezza non ancorata agli argini di un’unica disciplina, ma al contrario frutto di un approccio plurivoco, sfaccettato, e al contempo mirabilmente capace di tenere insieme argomentazioni che dal linguaggio spaziano verso altri oggetti e si aprono a nuove discipline. Una precisazione ci sembra doverosa, e cioè che ci occuperemo solo di tutti quei «luoghi» in cui Wittgenstein parla della vaghezza in relazione proprio a problemi di linguaggio, tralasciandone altri in cui egli discute, solo per fare un esempio, di «esperienza percettiva», intendendola anche come percezione di figure «ambigue» o «pluristabili»16. Testimonia di ciò la bella e romanzata biografia di Monk (1990), a cui si rimanda. 16 Tra le tante si ricordano qui le riflessioni proposte da Wittgenstein nelle Bemerkungen über die Farbe, nelle Bemerkungen über die Philosophie der Psychologie, nei Last Writings on the Philosophy of Psychology, ampiamente commentati, solo per ricordare uno fra tanti, da Johnston (1993). 15

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Un interesse, seppur molto velato, per il problema della vaghezza è presente in Wittgenstein sin dai tempi del Tractatus logico-philosophicus (1921), e, ancor prima, nei Notebooks (1914-1916). Qui, e più precisamente negli appunti del 22 giugno 1915, Wittgenstein fa anzi esplicito riferimento alla vaghezza, additandola come ostacolo alla determinatezza delle proposizioni e, di conseguenza, alla completezza della loro analisi. Tuttavia, la posizione sembrerebbe tutt’altro che drastica: in effetti, Wittgenstein non punta a un’indiscriminata eliminazione della vaghezza, anche considerando che essa è parte delle proposizioni «ordinarie»; ma, facendo ciò, la relega in modo chiaro e deciso proprio nel dominio di tali proposizioni. Io voglio solo giustificare la vaghezza delle proposizioni ordinarie, poiché essa può giustificarsi (Notebooks, p. 169).

L’esigenza di definizioni nette per le proposizioni, tipica di questa fase del pensiero di Wittgenstein e funzionale al distinguere in modo altrettanto netto tra la loro verità e la loro falsità, non esclude però un’incompletezza della stessa definizione, tale da lasciare spazio alla vaghezza. Frequenti rimangono anzi le situazioni in cui la dimensione contestuale o l’intenzione del parlante, pur operando al fine di una riduzione della vaghezza, non risultano tuttavia in grado di eliminarla completamente: È chiaro: io so che cosa io intendo con la proposizione vaga. Ma ecco che un altro non la comprende e dice: «Sì, ma se tu intendi ciò avresti dovuto aggiungere questo e quest’altro»; e un altro ancora non comprenderà ciò e vorrà la proposizione sviluppata ancor più per esteso. Io risponderò allora:« Sì, CIO` va pur da sé». Io dico a qualcuno: «L’orologio è posto sul tavolo», e quello dice: «Sì, ma se l’orologio fosse posto in quest’altro modo, diresti an17

cora: ‘Esso è posto sul tavolo’?» Ed io diverrei incerto. Ciò mostra che io non sapevo che cosa intendessi per «essere posto» in generale. Se uno mi mettesse alle strette per mostrarmi che io non so che cosa intendo, io direi: «Io so che cosa intendo; io intendo proprio QUESTO», e indicherei col dito il complesso di cui si tratta. Ed in questo complesso io ho realmente i due oggetti in una relazione. – Ma ciò in realtà vuol dire solo questo: «Il fatto si può raffigurare IN QUALCHE MODO anche mediante questa forma» (ibid.).

Accanto ai Notebooks, il Tractatus (d’ora in poi T), com’è noto, è dominato dall’idea che guarda al linguaggio come a un codice dai confini chiaramente definiti, un sistema, un calcolo, il cui aspetto potrebbe dirsi molto simile a quello di un metro «di cui vengono applicati alla realtà solo gli indici estremi della linea di graduazione» (Gargani 1983, p. XVII), i quali «toccano» l’oggetto da misurare (T 2.1511, 2.1512, 2.15121)17. Del linguaggio i nomi rappresentano i «pezzi» di base: essi possiedono un significato (T 3.203) e sono connessi in una struttura (T 4.22). Questa struttura è la «proposizione», la quale, proprio in virtù di tale connessione, è un’immagine di uno «stato di cose» (T 4.0311): ne è cioè la sua descrizione e fornisce le istruzioni, le cosiddette «forme di raffigurazione», affinché essa possa essere ricostruita a partire dai pezzi che la compongono. L’essenza del linguaggio è dunque tutta contenuta nella logica. Stando così le cose, in quest’opera non sembrerebbe esistere spazio né per la vaghezza né per una più generale e primigenia indeterminatezza; anzi, in T 3.23 Wittgenstein si Altrettanto noto è il fatto che il Tractatus, organizzato almeno in superficie come una sequenza di osservazioni senza alcuna finalità deduttiva, sia nato per controbattere le tesi presentate da Russell, e, seppur non altrettanto esplicitamente, da Frege sul linguaggio. Di Frege, Wittgenstein rifiuta tra l’altro in modo deciso l’idea a cui si accennava poco sopra, e cioè quella che considera necessario sostituire al linguaggio comune, per antonomasia imperfetto, una lingua artificiale perfetta. 17

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esprime chiaramente in tal senso, forse intendendo escludere dal linguaggio qualcosa di più della sola vaghezza: Il requisito della possibilità dei segni semplici è il requisito della determinatezza del senso.

Tuttavia nel Tractatus, e ben al di là delle apparenze, rimane per la vaghezza più di uno spiraglio, sia in tutti quei luoghi in cui Wittgenstein comincia timidamente a introdurre la nozione di «uso», sia nei momenti, per la verità assai rari, in cui egli sposta la propria attenzione sul linguaggio cosiddetto «verbale». Nel primo caso, infatti, pur se la nozione di uso è ancora prevalentemente concepita solo all’interno di una «grammatica», e l’uso stesso è identificato con la «regola» e limitato all’applicazione di un’espressione all’interno di un calcolo, non mancano cenni al ruolo di tale nozione nella determinazione delle relazioni semantiche tra linguaggio e mondo. In esse sono protagonisti la «persona» e l’interagire continuo delle dimensioni ad essa proprie, quella naturale e quella linguistica, interagire che comporta per alcuni codici, quali le lingue storico-naturali, il possesso di «una certa proprietà che ne garantisca categorie di funzionamento ‘creative’ [...], dai confini indeterminati» (Contessi 2003, p. 14)18. 18 La creatività, delle categorie linguistiche come dei saperi scientifici o legati al senso comune, è in effetti, come la vaghezza, solo apparentemente esclusa dal Tractatus e dalle altre opere di Wittgenstein. Se nel Tractatus essa assume le forme dell’arbitrarietà di rappresentazione rispetto alla struttura logica del mondo, ed è dunque creatività di sistema e non individuale, che offre la possibilità di alterare, per così dire, i limiti del mondo, a partire dagli anni Trenta la creatività, legata sia alla creazione che all’applicazione di regole, appare sempre più caratteristica degli atti dinamici, intrinsecamente e costitutivamente creativi, che «danno e ricevono senso dalla varietà non sempre prevedibile di giochi in cui possono entrare» (Prampolini 2001, p. 145). Rimandiamo proprio a Prampolini per un originale excursus sul concetto di «creatività» all’interno dell’opera wittgensteiniana.

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Il richiamo alla vaghezza, seppur implicito, è perciò innegabilmente chiaro. Accanto a ciò, troviamo il caso del linguaggio verbale, le cui immagini, di norma in grado di veicolare in modo autonomo i propri mezzi espressivi, sembrerebbero invece necessitare di un processo di astrazione, in cui, per «convenzione», viene stabilito che certe proprietà e relazioni «reali» sono raffigurate mediante altre proprietà e relazioni di tipo completamente diverso. È l’applicazione, l’uso che chiarisce quanto occultato e inespresso dai segni, e che rende note le regole della raffigurazione, che nel caso del linguaggio verbale non è un processo lineare, che lega cioè tra loro, in modo semplice e chiaro, immagini e stati di cose, ma diviene rielaborazione attiva. Ciò che nei segni non viene espresso lo mostra la loro applicazione. Ciò che i segni occultano lo rivela la loro applicazione (T 3.262). I significati dei segni primitivi si possono spiegare mediante chiarificazioni. Le chiarificazioni sono proposizioni che contengono i segni primitivi. Esse dunque possono essere comprese solo se già siano noti i significati di questi segni (T 3.263).

Ciò implica dunque l’impossibilità di guardare alla sintassi del linguaggio verbale come funzionante attraverso costanti logiche: essa, al contrario, ha la veste di una struttura grammaticale di relazioni interne che disciplinano gli usi, ammettendone alcuni ed escludendone altri. Pur essendo ancora molto lontani dalla nozione di uso caratteristica della fase del pensiero maturo, Wittgenstein, già a quest’epoca, appare fermo nell’attribuire alla competenza linguistica di ciascun parlante la capacità di applicare convenzioni «enormemente complicate», in particolare per la comprensione del linguaggio comune (Marconi 1997, p. 31). Se d’altra parte consideriamo come il problema della vaghezza si legherà, in autori a 20

noi anche vicini, alla discussione del concetto di «convenzione»19, non ci sembra privo di fondamento rintracciare proprio nel Tractatus, che pur relega i meccanismi della comprensione in un dominio inconsapevole funzionante quasi meccanicamente all’interno del nostro sistema linguistico, un implicito segnale di timida attenzione in direzione della vaghezza. L’attenzione dedicata da Wittgenstein al problema della vaghezza continua a non essere particolarmente significativa anche nelle opere che per prime seguono il Tractatus, in una fase unanimemente riconosciuta come di transizione. Tuttavia, è proprio da qui che prendono il via una serie di riflessioni che presentano interessanti e sempre più espliciti legami con l’oggetto della nostra discussione. Wittgenstein infatti, inaugurando, a partire dal Brown Book (1934-1935), la nozione di gioco linguistico e approfondendo e rielaborando quella di uso, non solo si dimostrerà sempre più attento a problemi di ordine pragmatico, come vedremo legati in primo luogo al guardare proprio al gioco linguistico innanzitutto come a una «attività», a una «forma di vita» (Philosophische Untersuchungen, d’ora in poi PU)20, ma opererà sempre più nel senso di una critica radicale all’idea di rappresentazione mentale incarnata dall’aristotelica e tradizionale nozione di «categoria»21. L’impressione che se ne ricava è quella di Ci riferiamo essenzialmente alle riflessioni sviluppate nel corso di tutti gli anni Settanta da D.K. Lewis e L.J. Prieto, di cui si darà brevemente conto al § 1.6. 20 In termini rigorosi, Wittgenstein intenderebbe la «forma di vita» come ciò che esprime la «certezza», nel senso di una modalità di esperienza soggettiva e assoluta, che esclude a priori una qualsivoglia forma di vaghezza: «Con la parola ‘certo’ esprimiamo la convinzione completa, l’assenza d’ogni dubbio, e con essa cerchiamo di convincere il nostro interlocutore. Questa è certezza soggettiva...» (Über Gewissheit 194). 21 Solo brevemente ricordiamo che Aristotele (Top., I.9, 103b, 20 sgg.; Cat., 1b, 25 sgg.) considerava le categorie come i modi in cui l’essere «si pre19

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trovarsi di fronte, oltre che a una svolta epistemologica, capace di rivoluzionare larga parte della speculazione successiva, a una riflessione pressoché esplicita sulla vaghezza, vista come caratteristica, prima ancora che linguistica, pervasiva del pensiero e dell’attività concettuale. Il 1932 è infatti l’anno del Big Typescript, opera in cui, in un capitolo dal titolo «Proposizione» e «linguaggio» concetti evanescenti, sono in molti a rintracciare l’origine della dottrina delle cosiddette Familienähnlichkeiten, le «somiglianze di famiglia», di quelle espressioni che richiamano concetti vaghi, non caratterizzati in modo determinato da un insieme di proprietà ben definite, espressioni che possono dunque funzionare anche con approssimazione e incertezza, entrambe riducibili ma non completamente eliminabili22. È questo il caso di «linguaggio» e «proposizione», termini per i quali non esiste alcun criterio o classi di criteri predeterminati che permettano di regolarne l’applicazione. La dottrina delle sodica» delle cose nelle proposizioni, perciò i predicati fondamentali delle cose. Le categorie sono determinazioni appartenenti all’essere stesso, di cui il pensiero deve servirsi per conoscerlo ed esprimerlo in parole. Altrettanto brevemente segnaliamo come una tale visione sopravviva a lungo nell’ambito della tradizione degli studi occidentali e si unisca ben presto ad altre, quali ad esempio, nella filosofia analitica del Novecento, quella che lega la nozione di significato alla verità e al riferimento. 22 Per la dottrina delle somiglianze di famiglia si veda anche PU 66, 67. Garroni ci ricorda come «‘famiglia’, nel senso di Wittgenstein, si distingue da una ‘classe’ perché non è definita da un criterio di appartenenza. In altre parole, essa contiene membri che non hanno, tutti, almeno una medesima caratteristica pertinente, ma ciascuno dei suoi membri ha caratteristiche pertinenti comuni ad alcuni altri membri e altre comuni con altri ancora, così che ci sarà sempre tra almeno due membri almeno una caratteristica pertinente in comune e tra almeno altri due membri non ci sarà alcuna caratteristica pertinente in comune, con questa precisazione però: che sarà sempre possibile collegare due membri qualsiasi disgiunti, assunti come primo e ultimo, mediante un numero finito di membri, ordinati in modo tale che abbiano, ciascuno, almeno una caratteristica pertinente comune con il precedente» (1997, p. 58).

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miglianze di famiglia non solo apre definitivamente la strada all’idea che vede l’applicazione di un termine «non necessariamente governata da un insieme ben definito di proprietà, comune a tutte le cose a cui il termine si applica e ad esse soltanto» (Marconi 1997, p. 80), ma rappresenta di certo il primo segnale di critica forte alla determinatezza del senso. A una fase di transizione appartiene anche la Philosophische Grammatik (1929-1934), opera che vede Wittgenstein impegnato nel criticare radicalmente l’idea di una semantica ipersemplificata, così come era stata quella del Tractatus, a favore di un’estrema variabilità del piano del significato. Nel fare ciò, Wittgenstein relativizza la tradizionale dicotomia fra «senso» e «non senso», e apre la strada a una pluralità imprecisata di sensi e anche di usi diversi: i segni usati all’interno di un determinato codice non funzionano cioè tutti allo stesso modo, e anzi, l’esistenza di codici, calcoli, giochi linguistici diversi amplifica una tale mancanza di uniformità. È chiaro come un tale cambiamento di rotta apra ampi spazi innanzitutto alla vaghezza semantica: non solo diviene pressoché impossibile stabilire in modo netto il confine tra ciò che può dirsi «senso» e ciò che non può dirsi tale, ma anche stabilire un legame preciso e univoco tra un nome e uno e un solo senso. Accanto a ciò, è poi l’idea di gioco linguistico a richiedere sempre più non solo variabilità, ma anche vaghezza e incertezza negli usi, in grado di giustificare come di generare modalità differenti di significato all’interno di ciascuna lingua. Con il Blue Book (1933-1934, d’ora in poi BB) e, soprattutto, con il Brown Book (1934-1935, d’ora in poi BrB), è proprio il termine «gioco» a sostituire in modo sempre più frequente e almeno per un gran numero di casi quello di «calcolo», e dunque di «linguaggio». Il gioco linguistico diviene anzi una 23

modalità indefinita e alternativa di usare il linguaggio, capace di dar vita allo stesso tempo a modalità differenti di significato23. Il significato di una regola dipende dal modo di usarla, e nel suo uso sono determinanti le circostanze, per così dire, presenti, come quelle che lo precedono e lo seguono. Nessuna regola è in modo definitivo l’ultima regola: «sono allora le pratiche, i comportamenti che entro una forma di vita umana, entro una cultura, vengono riconosciuti dalla comunità degli uomini come conformi alle regole a stabilire il criterio di ciò che significa una regola» (Gargani 1983, p. XLIII)24. Il BB riprende più volte il tema della vaghezza semantica che caratterizza il lessico, tema che si proietta nella direzione dello stabilire un profondo legame tra indeterminatezza del senso e vaghezza dei significati a cui i sensi veicolati da una parola fanno riferimento, e che colloca la vaghezza anche sulla dimensione pragmatica degli usi linguistici: Non dimenticare: le parole hanno i significati che noi abbiamo dato ad esse, e ad esse noi diamo significati mediante spiegazioni. [...] Vi sono parole con più significati chiaramente definiti, che è facile enumerare. E vi sono parole delle quali si potrebbe dire: esse sono usate in mille modi differenti che gradualmente sfumano 23 A voler essere rigorosi, il «gioco linguistico» ha nel pensiero di Wittgenstein portata e funzione ben più radicale: esso è infatti e innanzitutto strumento con cui liberare, terapeuticamente, la filosofia dai falsi problemi che l’hanno tenuta imprigionata per secoli, e con cui inaugurare una nuova pratica del sapere. 24 Questo nuovo modo di guardare alla regola si lega immediatamente, come diverrà ancora più evidente nelle Philosophische Untersuchungen, alla valorizzazione della creatività che caratterizza l’agire di ciascun individuo all’interno di un determinato spazio linguistico. Wittgenstein, come appare evidente esaminando alcuni passaggi del BB – ad esempio il commento di 3739 alla risposta di Agostino alla celebre domanda circa la natura del tempo – sembrerebbe in tal modo riconoscere importanza anche al ruolo del contesto e del co-testo nella determinazione del significato.

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l’uno nell’altro. Va da sé che non si possano enumerare regole rigorose per il loro uso (BB, trad. it. p. 40, corsivo nostro).

Il pensiero di Wittgenstein, ormai aperto al problema dell’unitarietà, della possibilità di stabilire confini netti tra i significati, riprende e approfondisce, lungo questa linea, anche la riflessione sul tema della comprensione. È in questo contesto che emerge un’idea di vaghezza ancor più radicale, che rende del tutto arbitrario nonché fuorviante il tentativo di tracciare un confine netto non solo tra i significati e le idee, ma anche all’interno della dimensione dell’uso: se studiamo la grammatica (poniamo) delle parole «desiderare», «pensare», «comprendere», «intendere», potrà bastare descrivere vari casi di desiderio, di pensiero, etc. Se qualcuno dicesse: «Indubbiamente, questo non è tutto ciò che si chiama: ‘desiderare’, ‘desiderio’», noi gli risponderemmo: «Certamente no, ma se vuoi puoi costruire casi più complicati di questo». E dopo tutto non v’è una determinata classe di tratti caratterizzanti tutti i casi di desiderio (almeno se si sta all’uso corrente di questa parola). Se, invece, tu vuoi dare una definizione del desiderio (ossia tracciare un confine netto) tu sei libero di tracciare il confine come vuoi; e questo confine non coinciderà mai interamente con l’uso effettivo, perché quest’uso non ha un confine netto. L’idea che, per comprendere il significato d’un termine generale, si debba trovare l’elemento comune a tutte le sue applicazioni ha paralizzato la ricerca filosofica [...]. Alla domanda, che cosa abbiano in comune i differenti processi dell’attendere qualcuno per il tè, la risposta è: a tutti quei processi non è comune alcun tratto singolo, quantunque vi siano molti tratti comuni sovrapponentisi. Questi casi d’attesa formano una famiglia; essi hanno somiglianze di famiglia non chiaramente definite (BB, trad. it. pp. 29-31, corsivo nostro).

L’illusorietà di un linguaggio funzionante e utilizzabile come un calcolo viene in tal modo definitivamente sancita: l’in25

capacità umana di circoscrivere in modo netto e chiaro le idee che usiamo non è dovuta al nostro ignorare la loro definizione «reale», ma al fatto che, semplicemente, una tale definizione non esiste (BB, trad. it. p. 37). È dunque la vaghezza a dominare gran parte del nostro agire linguistico, una vaghezza che mette in crisi la stessa «esattezza», una di quelle parole la cui definizione, paradossalmente, sfuma nella «grossolana approssimazione»25: «Che cosa significa la parola ‘esattezza’? È reale esattezza se tu devi prendere il tè alle 4.30 ed arrivi quando un buon orologio batte le 4.30? O esattezza v’è solo se tu cominci ad aprire la porta allorché l’orologio comincia a battere le ore? Ma come definire questo momento e come definire ‘cominciare ad aprire la porta’? Sarebbe corretto dire: ‘È difficile dire che cosa sia l’esattezza reale, perché noi non conosciamo che delle grossolane approssimazioni’» (BrB, trad. it. p. 108).

Nelle Philosophische Untersuchungen la discussione del problema della vaghezza è dichiaratamente legata, sulla scia della dottrina delle Familienähnlichkeiten, a quella dell’esistenza di concetti dai contorni sfumati (PU, 76-77), fatto questo che sembrerebbe autorizzare l’ipotesi di un sempre più marcato legame tra la vaghezza linguistica e la vaghezza del pensiero, della concettualizzazione, senza alcuna possibilità di soluzione se non in relazione all’uso condiviso fra i parlanti. Nelle PU il linguaggio è ormai definitivamente diverso da un calcolo: qui l’attenzione si sposta sul linguaggio ordi25 Le Philosophische Untersuchungen riprendono tale discussione in parallelo a quella sulla semplicità, ancora con la precisa volontà di criticare esplicitamente un ideale di precisione e di definitezza che, in pratica, non esiste. «Semplicità» ed «esattezza», infatti, invece di produrre «acutezza» di parola, generano solo approssimazione e illusione (PU, 88).

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nario, della vita di tutti i giorni, che ci appare come un gioco funzionale a determinati scopi: Non già: «Senza il linguaggio non potremmo comunicare tra noi» – bensì: Senza il linguaggio non possiamo influenzare gli altri uomini così, e così: non possiamo costruire strade e macchine, ecc. E anche: Senza l’uso del discorso e della scrittura gli uomini non potrebbero comunicare (PU, 491).

La sua è una dimensione essenzialmente pratica, che ha come destinazione, prima e ultima, il mondo esterno. Il linguaggio non può essere descritto se non in riferimento all’uso, o meglio agli usi, considerando che esiste una pluralità di usi alternativi e complementari che si modificano e continuamente aumentano di numero, perché è il mutare delle esigenze espressive a determinare l’insorgere di sempre nuovi giochi linguistici. È qui che trova spazio la vaghezza, proprio in relazione alla varietà dei giochi linguistici e al loro fornire un repertorio di possibilità alternative potenzialmente illimitate nell’allargare i confini dei significati a nuovi sensi. La vaghezza non è solo sinonimo di indeterminatezza semantica, ma assume d’ora in avanti anche le forme di disponibilità permanente all’innovazione, alla creatività. Nelle PU la nozione di gioco linguistico mette in luce una volta di più che le regole che «agiscono» su porzioni di linguaggio non sono in molti casi definite in modo rigido, «ma individuano attività e concetti dai contorni sfumati, tra cui sussistono innumerevoli rapporti di analogia e differenza» (Marconi 1997, p. 246). È anzi la stessa nozione di gioco linguistico a presentarsi così: Si può dire che il concetto «giuoco» è un concetto dai contorni sfumati. – «Ma un concetto sfumato è davvero un concetto?» 27

Una fotografia sfocata è davvero il ritratto di una persona? È sempre possibile sostituire vantaggiosamente un’immagine sfocata con una nitida? Spesso non è proprio l’immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno? [...] Immagina che io mi fermi con un’altra persona in un certo posto e lo dica. Dicendolo non traccerò nessun confine, ma forse farò un movimento indicatore con la mano – come per indicargli un punto determinato. E proprio così si può spiegare che cosa sia un giuoco. Si danno esempi e si vuole che vengano compresi in un certo senso (PU, 71).

La polemica, che alcuni vedono diretta ancora contro Frege, rappresenta una volta di più una critica radicale del modo di considerare, aristotelicamente, i concetti come classi di elementi aventi le medesime caratteristiche. È solo l’uso, l’impiego, dovuto all’accordo, alla relazione tra i parlanti che risolve la vaghezza di un concetto, perché i concetti di per sé considerati possiedono confini sfumati, e anzi, si sottraggono per loro propria natura ad ogni qualsivoglia tentativo di tracciare un confine. 1.5. Una caratteristica non solo semantica: Bühler e De Mauro È ancora senza seguire alcun ordine cronologico che il percorso linguistico e semiologico della vaghezza si arricchisce del contributo di due nuove personalità, molto diverse, per tempi, contesti, interessi, tra di loro: Karl Bühler (1879-1963) e Tullio De Mauro (n. 1932). Il motivo di un tale accostamento, all’apparenza quanto mai bizzarro, è subito spiegato: la vaghezza è per entrambi non solo una caratteristica linguistica intrinseca, non separabile cioè dalla lingua, ma rappresenta il presupposto per la sua «creatività», per quella straordinaria proprietà che rende la lingua unica, differenziandola 28

da ogni altro sistema di segni (di essa ci occuperemo ampiamente nel corso del capitolo 2). Entrambi gli autori superano dunque gli angusti confini di una considerazione esclusivamente semantica della vaghezza e, seppur percorrendo strade diverse, divengono gli artefici di una vera e propria svolta nella storia linguistica e semiotica di questa proprietà. Recuperando, con intento critico, parte dell’epistemologismo di Edmund Husserl (1859-1938), il cui errore sarebbe stato quello di ridurre l’essenza del linguaggio alla sola funzione monologica del pensiero, Bühler analizza il linguaggio a partire dalle sue funzioni e, proprio seguendo quest’ottica, affronta il problema della vaghezza in stretto legame con le dinamiche situazionali e dialogiche a cui tali funzioni appaiono riconducibili26. Tre sono secondo Bühler le principali funzioni del linguaggio, che vengono svolte da un segno e dai segnali a esso collegati su ciascuna delle dimensioni di cui si compone una lingua, dimensioni sulle quali, di conseguenza, essa può essere studiata: la funzione «espressiva», la funzione «segnaletica», la funzione «descrittiva». Il legame tra Husserl e Bühler fu in realtà molto più profondo di quanto lo stesso Bühler fosse disposto ad ammettere: Husserl infatti si occupò esplicitamente di vaghezza all’interno della prima delle Logische Untersuchungen, notando come le espressioni «fluttuanti rispetto al significato», e in primo luogo le «espressioni per essenza occasionali e vaghe» (1.83) tendano a confondere la distinzione tra «significato come atto» e «significato stesso». Secondo Husserl sono vaghe «la maggior parte delle espressioni della vita comune, come albero e arbusto, animale e pianta, ecc. [...]. Le espressioni vaghe non posseggono un identico statuto di significato in tutti i casi in cui vengono impiegate; esse orientano il loro significato secondo esempi tipicamente appresi, ma con una determinatezza e una chiarezza soltanto parziale – esempi che di solito variano notevolmente secondo i casi e persino in uno stesso sviluppo di idee. Questi esempi, tratti da una sfera concretamente unitaria (o almeno che appare tale), determinano concetti diversi, ma di regola similari o legati da relazioni, dei quali emerge ora l’uno ora l’altro, secondo le circostanze del discorso e le idee da cui esso viene sollecitato» (1.93). 26

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Nella prima parte della sua Teoria del linguaggio (1934), Bühler affronta il problema di una grammatica legata, più che ai canoni del parlare, a quelli di una logica che poco ha a che fare con essi, anche perché tradizionalmente in relazione con una teoria puramente formale dei significati, visti come qualcosa di assolutamente determinato e determinabile. Al contrario, ogni «atto del parlare» funziona attraverso «rappresentazioni linguistiche» che lasciano ovunque spazio a dei margini di indeterminatezza di significato che non si possono colmare se non in rapporto alle «possibilità obiettive», il che di fatto avviene in ogni discorso umano (1934, trad. it. p. 118).

La vaghezza assume così le vesti dell’indeterminatezza semantica, e la sua gestione rientra nell’ambito delle operazioni volte al «conferimento di senso», che in realtà rappresenterebbero la norma e non l’eccezione all’interno delle lingue storico-naturali: Non è certo indifferente se in un testo il termine «cavallo» si riferisce a un individuo oppure alla specie zoologica, né d’altra parte lo si può stabilire su basi morfologiche né nel latino privo di articoli né nelle lingue indoeuropee che posseggono l’articolo. Quale dei due il parlante abbia in mente o voglia intendere lo si può arguire soltanto, con un procedimento da detective, alla luce, insieme, del contesto e delle condizioni in cui avviene l’atto del parlare. Che cosa ne consegue? Che noi, i destinatari del discorso, riusciamo in qualche modo a intuire quale sia l’intendimento dell’emittente; e che il parlante assegna almeno in parte alle monete verbali usate un senso più preciso, più determinato di quello che il miglior conoscitore della lingua è capace di rilevare nel termine isolato «cavallo» (ivi, p. 115).

Il ruolo della situazione contestuale, e, all’interno di essa, dei parlanti nella determinazione del senso, appare perciò 30

inequivocabilmente sancito. Ma, come si diceva poco sopra, Bühler sembrerebbe spingersi oltre, nel legare esplicitamente la vaghezza alla creatività linguistica. Se infatti la lingua, sottolinea Bühler, non funzionasse attraverso rappresentazioni, associazioni tra espressioni e referenti ampiamente caratterizzate da significati indeterminati, essa verrebbe privata di ciò che di più sorprendente e praticamente valido le appartiene. Le verrebbe a mancare la sorprendente capacità di adattamento all’inesauribile ricchezza di ciò che richiede in concreto una formulazione linguistica (ivi, p. 118, corsivo nostro).

La vaghezza è dunque per Bühler una caratteristica positiva, perché condizione di possibilità per la creatività linguistica. Il suo ruolo diviene anche quello di arginare il più possibile il rischio d’incomprensione tra i parlanti, offrendo alla lingua gli strumenti per garantire le proprie formulazioni dall’equivoco: Proprio perché le lingue operano con simboli largamente plurivoci, che comportano di conseguenza la necessità di successivi aggiustamenti dei relativi significati, esse devono munirsi, d’altra parte, di molteplici ausili correttivi: essi rientrano, rispetto al discorso svincolato dalla situazione, in un insieme ricco di svariate componenti (ibid.).

Come si diceva, esiste più di un’analogia tra una simile connotazione della vaghezza e quella elaborata a più riprese e in tempi a noi molto vicini da Tullio De Mauro. Tuttavia, il ragionamento di De Mauro presenta tratti di assoluta originalità, che ne fanno un riferimento obbligato per una storia linguistica e semiotica della vaghezza. L’interesse per questa proprietà, le modalità con cui essa viene discussa nelle sue diverse manifestazioni rappresentano anzi uno dei segnali più tangibili di un procedere epistemologico che persegue i canoni dell’appropriatezza e dell’adeguatezza, e lo fa anche at31

traverso il ricorso all’arbitrarietà, attraverso cioè quell’indefinito, e forse indefinibile, «orizzonte teorico entro cui si rendono possibili costruzioni che valgono (appunto) perché appropriate» (De Mauro 1971, p. 12). Facciamo iniziare la nostra ricognizione da Introduzione alla semantica, una raccolta di saggi datata 1965, la cui idea centrale è, dichiara De Mauro, quella del carattere non calcolabile del significato in sé e per sé, ma al contrario determinabile solo all’interno di un contesto situazionale e in rapporto agli utenti e al loro cooperare. Il significato è infatti risultato e funzione del significare, del comportarsi linguistico dell’uomo nell’ambito delle collettività storiche nelle quali, anzitutto attraverso la solidarietà semantica, egli si inserisce e vive (1965, p. 6),

e ha carattere soggettivo e vago: è anzi un artificio fine a se stesso e altamente improduttivo quello messo in atto da coloro che affrontano la semantica delle lingue storico-naturali senza tener conto di ciò (ivi, p. 14). De Mauro chiarisce a più riprese cosa debba intendersi per carattere soggettivo del significato (ivi, pp. 31-32, 171-187), ma mai nei saggi riuniti in quest’opera discute esplicitamente l’altra caratteristica, chiarendo cosa debba intendersi per «vaghezza del significato». Esistono però nell’Introduzione elementi che si richiamano, seppur indirettamente, alla vaghezza, ad esempio esclusa, almeno a una prima analisi, da Aristotele che, in disputa con i sofisti, considerava l’indeterminatezza di senso sinonimo di assenza di significato (ivi, pp. 45-51)27. 27 Sul complesso e, a dir la verità, ancora troppo poco studiato problema della presunta determinatezza attribuita da Aristotele all’ambito del significare e dello stretto legame tra tale fenomeno e il carattere polisemico di alcune parole si vedano De Mauro (1982) e De Mauro, Fortuna (1995).

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Non di vaghezza, ma di indeterminatezza semantica De Mauro parla esplicitamente in relazione al problema della comunicazione, trattata nell’Introduzione sotto i modi dell’incomunicabilità linguistica (ivi, pp. 158-162), inspiegabile attraverso il semplice ricorso a forme di cui si presume la perfetta corrispondenza con uno e un solo contenuto. In realtà, la lingua vive e si rinnova proprio grazie alla molteplicità e alla diversità dei significati, alla plurivocità di sensi veicolati da una stessa parola, grazie cioè a una serie di elementi che non appartengono alla «patologia», bensì alla «fisiologia» del nostro parlare (ivi, p. 169). L’indeterminatezza semantica è dunque condizione normale della semiosi verbale, e la comunicazione è più o meno precisa a seconda del numero maggiore o minore di alternative di cui disponiamo, e similmente più o meno preciso, rispetto al fine con cui un interlocutore l’ha pronunziata, è il nostro reagire alla frase (ivi, p. 220).

È chiaro come una siffatta condizione non pregiudichi in alcun modo la comprensione tra i parlanti, i quali, «pur non disponendo esattamente dello stesso bagaglio di conoscenze linguistiche» (ibid.), possono tuttavia intendersi; come non esclude che anche un parlante non nativo, «che in qualche modo riesce a realizzare l’associazione tra una frase e una data situazione» (ibid.), possa partecipare attivamente alla vita della lingua, «sistemazione aperta» di forme e significati. Il problema investe perciò il piano semantico, in cui l’indeterminatezza è norma e non eccezione, risorsa e non limite, e il piano pragmatico, quello della dimensione dei parlanti, a cui vengono affidate tutte le eventuali, possibili determinazioni. 33

Il tema delle trasformazioni del significato di una parola e dell’«incalcolabilità logica degli spostamenti» viene ripreso e approfondito da De Mauro in un’altra raccolta di saggi, Senso e significato. Studi di semantica teorica e storica, pubblicata nel 1971. Anche in questo caso il punto di partenza, già specificato nell’Avvertenza (1971, p. 11), è la nozione di significato di una parola, «luogo di tutte le pertinentizzazioni possibili», un’articolazione e determinazione del modo di organizzare in segni le possibili esperienze, dunque come un nucleo di conoscenze che si costituisce e vive in una circoscritta storicità e dimensione sociale, interagendo con tutte le tensioni e le vicende socioculturali della comunità (ivi, p. 10).

Caratteristica di ciascuna delle lingue storico-naturali è la massima potenzialità significativa, che si realizza ed è a sua volta realizzata dal proprio vocabolario, «grezzo informe aperto confuso ridondante» (ivi, p. 8). Il riferimento alla vaghezza non è certo esplicito, ma una simile descrizione non può che richiamarla: ne è ad esempio segnale il mettere sullo stesso piano caratteristiche del vocabolario di natura profondamente diversa, quali, da un lato, la ridondanza e la mancanza di una forma definita, e, dall’altro, l’apertura, a cui spetta un ruolo determinante per la non numerabilità, l’estensibilità, l’indeterminatezza dei significati dei vocaboli di cui le lingue si compongono28. Stando così le cose, la vaghezza si va innanzitutto a legare al significato dell’unità lessicale, di cui – come accade nel 28 Il concetto di ridondanza linguistica viene ampiamente discusso nell’originale lavoro di Chiari (2002), che considera la ridondanza una proprietà fondante delle lingue e guarda ad essa anche come meccanismo atto alla risoluzione dell’ambiguità di un’occorrenza testuale.

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saggio La caratterizzazione della sostanza semantica – vanno chiarite le molteplici variabili che compongono la «sostanza» (ivi, p. 21). Si tratta di variabili dei quattro seguenti valori: referenziale/onimico («la capacità di riferirsi ad un settore dell’esperienza»), pragmatico/valutativo («la capacità di segnalare l’atteggiamento emotivo e valutativo del parlante nei confronti del referente»); stilistico/evocativo/di livello («la capacità di segnalare il livello linguistico cui l’unità lessicale appartiene»); sistematico-strutturale/sintatticodittico («i termini di coppie come ‘cibarsi’ e ‘mangiare’ [...] hanno diverso rapporto con l’organizzazione morfologica del sistema linguistico. In conseguenza di tale diverso rapporto, hanno diversa capacità di combinarsi con altre unità lessicali nella struttura d’una frase e diversa capacità di segnalare alcuni rapporti»). Si badi bene che la vaghezza non solo interessa internamente ciascuno dei quattro valori – la combinazione tra diverse unità lessicali fa infatti sì che la segnalazione di alcuni rapporti non sia così netta e definita come dovrebbe, lasciando aperto un margine di vaghezza che rende necessaria una negoziazione di significato tra gli interlocutori – ma è anche riferibile ad essi nel loro complesso, a partire dal modo con cui sono legati a una determinata unità lessicale. In secondo luogo, la vaghezza si lega all’arbitrarietà, caratteristica che in Modelli semiologici: l’arbitrarietà semantica si dice investa «la sostanza semantico-referenziale della lingua» (ivi, p. 53) come anche gli stessi significanti, dunque il segno nel suo complesso29. Rimandiamo anche in questo caso al capitolo 2 per un’ampia discussione di questa caratteristica, soffermandoci in particolare sui rapporti fra arbitrarietà e indeterminatezza costitutiva della semiosi. 29

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Infine la vaghezza, ancora sotto le vesti della sola indeterminatezza semantica, fa la sua comparsa in Per una teoria formalizzata del noema lessicale: qui la pluralità dei sensi attribuibili a un significato viene esplicitamente messa in relazione con la «creatività espressiva», a sua volta legata a un nuovo tipo di creatività, la cosiddetta «creatività segnica»: in conseguenza del carattere continuo dei sensi e delle fonie [...] ogni significante include un numero di fonie (o grafie) che, anche se finito di fatto, è potenzialmente infinito (nel senso in cui sono infinite le applicazioni di un qualsiasi numero di interi a gruppi di oggetti); similmente è potenzialmente infinito il numero di sensi di un significato; infine, ogni segno può includere un numero infinito di espressioni. Quante sono le espressioni (i diversi sensi e le diverse fonie o grafie ecc.) comprese in un qualsiasi banale segno, ad esempio #prendi questo!#? Esse sono potenzialmente infinite. La possibilità di realizzare un segno in un numero infinito di espressioni può essere detta creatività espressiva. [...] Accanto alla creatività espressiva veniamo così a definire la creatività segnica inerente all’utilizzazione che di una lingua può fare un utente: essa consiste nella capacità di produrre, data una lingua, un numero infinito di segni (ivi, pp. 126; 153).

Per una formulazione esplicita e una discussione estesa del concetto di vaghezza bisognerà comunque attendere Minisemantica (1982), opera in cui De Mauro elegge la dimensione semantica al primo grado dell’agire semiotico, e ne fa un principio-guida nella classificazione dei codici. È infatti qui che per la prima volta viene formulata la definizione di «espressione vaga», che si richiama alla tradizione riflettendo in sostanza quella di Peirce (§ 1.2): In termini di applicazione ad un referente diciamo che un’espressione è vaga quando non possiamo decidere in base a considerazio36

ni formali se, noto il referente e nota l’espressione, essa è applicabile sempre o non è applicabile mai al referente (1982, p. 99).

La definizione compare al termine della discussione di quella che De Mauro definisce la caratteristica decisiva per l’identificazione e la distinzione di un calcolo, ossia la calcolabilità di tutte le sinonimie (ivi, p. 97), caratteristica che non riguarda in alcun modo i codici semiologici verbali, al contrario popolati da sinonimie non predicibili e non calcolabili. In realtà, l’incalcolabilità delle sinonimie, che riguarda il piano della relazione tra i segni di un codice, altro non rappresenta che la proiezione di quella instabilità, di quella creatività («mancanza di non-creatività») la cui origine è da rintracciare proprio nella «metaforicità o vaghezza dei significati dei monemi e dei segni» (ivi, p. 98)30. La vaghezza, secondo De Mauro, è prima di tutto una «condizione» del segno, che cioè investe, quando presente, significante e significato, tale da non comportare necessariamente il loro rilassamento, quanto «la possibilità di oscillazione tra forme più nitide e forme più rilassate» (ivi, p. 103)31. Da condizione del segno, la vaghezza va subito a caratterizzarsi come condizione del significato, che rende indefinitamente estensibili i confini del piano semantico, circoscritti e Quella di metaforicità e vaghezza non rappresenta in realtà una relazione sinonimica, come sarà implicitamente chiarito dalle stesse parole di De Mauro, che farà riferimento alla metaforicità come a una caratteristica prettamente semantica, intesa come «trasferibilità progressiva dei confini del significato fino a includere nuovi sensi in base a contiguità che nascano o si cerchino» (ivi, p. 101). 31 De Mauro è sicuramente il primo e unico autore che nell’ampio panorama degli studi linguistici e semiotici del Novecento fa riferimento alla «segnicità» della vaghezza linguistica. Purtroppo, molti dei commentatori di De Mauro non sembrano cogliere questa novità e rimangono ancorati alla sottolineatura della sola dimensione semantica di questa proprietà. 30

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circoscrivibili più all’interno di un’area che di una classe di innumerevoli sensi. I segni linguistici infatti, ribadirà De Mauro qualche anno più avanti (2004, p. 11), oltre che innumeri, sono anche «plastici», perché semanticamente plurideterminabili: il loro significato, cioè, deve essere tale che un segno linguistico, identificato come lo stesso nella lingua, possa sia aderire sia staccarsi dal presente immediato [...]. Ciò impone come condizione necessaria che il segno linguistico abbia un significato generico come scorse Humboldt e Pagliaro ha insegnato. E deve avere un significato generico perché il significato sia dilatabile fino ad abbracciare, intrecciandoli ai già acquisiti wie Faden an Faden (secondo l’immagine di Wittgenstein), nuovi inediti sensi per garantire quella onniformatività della semiotica lingua [...] che è necessaria a una specie altamente adattiva come l’umana.

La vaghezza è infine condizione del piano pragmatico, ove insufficiente è la semplice intesa, una tantum, tra gli utenti. Questa è infatti condizione necessaria e sufficiente per le altre famiglie di codici, ma dove vale la permanente possibilità dell’innovazione, l’intesa va di continuo riconfermata all’atto della produzione e ricezione di ogni realizzazione segnica, con quell’atteggiamento reciproco di utenti e ricettori che è stato detto opportunamente tolerance upon the field. Nella cornice di tolleranza si colloca e può collocarsi la indeterminatezza dei confini tra i significanti e i significati dei segni linguistici (1982, p. 100).

Ed è quasi un rapporto circolare quello stabilito da De Mauro tra la vaghezza di segni e le innumerevoli possibilità di mutamento dei confini del campo noetico a seguito dell’azione degli utenti: la vaghezza del significato delle parole fa sì che il significato non sia soddisfacentemente descritto nelle sue possibilità di estensione ad 38

altri e nuovi sensi se non in rapporto a utenti dati in un tempo dato (ivi, p. 102).

Sotto le vesti dell’indeterminatezza semantica, la vaghezza fa di nuovo comparsa ne La comprensione del linguaggio come problema, uno dei saggi riuniti in Capire le parole (1994), in cui, più che altrove, stretta è la relazione tra indeterminatezza semantica e problemi della comprensione linguistica. Il ragionamento portato avanti nel saggio ricalca pressappoco, sintetizzandolo, quello proposto in Minisemantica. Nel fornire infatti un elenco delle proprietà dei codici semiologici, De Mauro affronta il problema della non-calcolabilità delle sinonimie e delle riformulazioni, facendola discendere dalla caratteristica che per eccellenza differenzia le lingue dai calcoli e dalle classificatorie: la «non non-creatività». Essa ha indipendentemente attratto l’attenzione sia di W. von Humboldt e Saussure sia di Wittgenstein soprattutto in rapporto all’estensibilità indefinita o indeterminatezza dei significati delle singole parole (morfi) (1994, p. 53),

e, anzi, può configurarsi primariamente, oltre che (a) come variazione upon the field [...] del numero stesso delle n unità del vocabolario (morfi categorematici e sincategorematici) di ciascuna lingua; (b) come variazione upon the field del numero stesso delle regole sia sintagmatiche (composizionali) sia sintattiche (di interrelazione anche a livello delle strutture profonde con altri segni linguistici e, quindi, di equipollenza di parafrasi) che presiedono al costituirsi delle stringhe possibili in una lingua, stringhe potenzialmente infinite (come in molte combinatorie e nei calcoli) ma (diversamente dai calcoli) ammettenti una debole o nulla connessità sintattica (ivi, pp. 53-54), 39

anche (c) come indeterminatezza semantica e fonica delle stringhe e dei morfi che le compongono, ciascuna potenzialmente oscillante (sia sul versante del contenuto sia sul versante dell’espressione) da massimi di esibizione di tratti formali pertinenti o pertinentizzabili a minimi debolmente formali, nei quali casi, tuttavia, la fruibilità comunicativa è garantita dall’alta ridondanza e dal rinvio a co-testi verbali e al contesto situazionale (ibid.).

È ancora di grande interesse l’affermare come l’indeterminatezza semantica sia addirittura concepibile come «forma» della non non-creatività, come sua particolare configurazione, come lo è altrettanto il ruolo giocato dalla ridondanza a garanzia della trasmissione del messaggio, e dunque della comprensione. Ma le parole di De Mauro conducono a riflettere una volta di più sul ruolo e sulle potenzialità della vaghezza dei segni linguistici, che qui diviene anche caratteristica in virtù della quale la lingua può parlare di tutto, che ci permette di usare le parole dilatando il significato di ciascuna e l’insieme dei significati di tutte le disponibili fino a includere nuovi sensi e nuove aree di senso (ivi, p. 54)32. 32 Solo brevemente accenniamo all’attenzione rivolta da De Mauro ai rischi legati alla non non-creatività e alla illimitatezza dei codici semiologici verbali: la potenziale dissociabilità o schizoidicità degli usi linguistici individuali e collettivi, come anche la messa in crisi di ogni garanzia di comunicabilità. Ancora una volta, «è la lingua stessa, una qualunque lingua, che offre, nella sua natura, nel suo essere, i mezzi per fronteggiare la non non-creatività, l’emergenza di oscillazioni e novità d’ogni genere» (De Mauro 2002, p. 83). Tali mezzi o bilanciamenti sono rappresentati dalla «grammaticalità», che permette l’ancoraggio delle frasi e degli enunciati alla situazione in cui si realizzano, dalla «metalinguisticità riflessiva» di parole e frasi, e dalla «possibilità di rideterminare e definire in modo univoco», proprio grazie al metalinguaggio riflessivo, l’area degli usi della parola (De Mauro, Fortuna 1995).

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1.6. La vaghezza tra «convenzione» e «comprensione»: Lewis e Prieto Come già si accennava parlando di Wittgenstein, nell’ambito degli studi di linguistica e di semiotica che percorrono il Novecento non è raro imbattersi in autori che pur non occupandosi mai direttamente di vaghezza si trovano costretti a dover fare i conti con questa proprietà nel momento in cui le loro riflessioni toccano il problema della convenzione e della comprensione tra i parlanti. Tra queste, di particolare interesse ci sembrano quelle sviluppate da David K. Lewis (n. 1941) e da Luis J. Prieto (1926-1996). L’incontro di Lewis con il problema della vaghezza avviene nell’ambito di una vera e propria teoria semantica in cui a farla da padrone è una visione, sicuramente non originale, del linguaggio come attività che si caratterizza a partire dalle intenzioni e dalle credenze dei parlanti di una determinata comunità linguistica33. In ciò non è neppure completamente originale l’affermare che il linguaggio, come molte altre attività umane, sia almeno in apparenza «regolato da convenzioni che non abbiamo stipulato per accordo e che non siamo in grado di descrivere» (1974, p. 13). In entrambi i casi sufficientemente chiaro è infatti il debito di Lewis nei confronti delle dottrine di Wittgenstein. In realtà, a suscitare un certo interesse è il modo in cui l’autore sviluppa le proprie argomentazioni. In Convention, Lewis procede infatti a una messa in discussione del sentire comune e conclude che, a ben guardare, dietro la convenzione tra più individui si cela una consapevolezza generale per l’interesse 33 Una tale visione del linguaggio rappresenta una costante nel pensiero dell’autore, da Convention (1969) a General semantics (1970), e anche oltre. In questa sede faremo riferimento a Convention, che citeremo nell’edizione italiana, uscita per i tipi di Bompiani nel 1974.

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comune, che i membri di una società esprimono l’un l’altro, spinti a organizzare il proprio modo di agire in base a certe regole. Ma esiste un posto per la vaghezza nell’ambito di una riflessione che in ultima istanza è finalizzata a ridimensionare le differenze tra semantica delle lingue «possibili» e semantica delle lingue naturali? La risposta non può che essere affermativa, perché secondo Lewis la vaghezza è proprietà che ha molto a che fare con la convenzione, perché legata sia alle caratteristiche di una determinata lingua sia all’uso che di tale lingua fa una determinata comunità. La vaghezza emerge anzi dalla relazione che unisce la lingua ai propri utenti, ed è caratteristica essenzialmente pragmatica, di quella dimensione in cui si colloca la convenzione linguistica, che si stabilisce appunto in seno a un particolare gruppo di parlanti. Quest’ultima considerazione relega in modo chiaro la vaghezza sul solo piano pragmatico, e dunque segnala altrettanto chiaramente la lontananza di Lewis da una classificazione della vaghezza come caratteristica intrinseca dei codici semiologici verbali. Negli stessi anni di Lewis, è Prieto a dedicare parte della propria riflessione al problema della generale indeterminatezza dei codici semiologici verbali: egli non discute mai esplicitamente di vaghezza, ma l’attenzione prestata al carattere incerto dell’agire semiotico come elemento di disturbo nel processo di comprensione ci sembra presentare ben più di un legame con il concetto qui in discussione. Tralasciando di soffermarci sulla specificità dell’impostazione offerta allo studio dei fenomeni linguistici, focalizzato sulle dinamiche della parole e sostanzialmente incline a considerare i problemi linguistici innanzitutto come problemi di teoria della conoscenza34, va detto che Prieto dedica proprio 34

Per una lettura critica di tale impostazione si rimanda a Petrilli (1997).

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al tema della comprensione un’attenzione tutta particolare. Ciascun atto semico, atto in cui un ricevente è chiamato a riconoscere come tale un segnale prodotto da un emittente, comporta, secondo Prieto, «incertezza». Al pari dell’interprete di un indizio, il ricevente di un atto semico interpreta il segnale a partire da una certa incertezza in cui si trova quanto al fatto che ha effettivamente luogo nell’universo di discorso indicato. [...] L’incertezza del ricevente consiste dunque, come abbiamo visto per l’indizio in generale, nel non sapere a quale, fra più classi che si trovano fra loro in rapporto logico di esclusione e nelle quali egli distribuisce i membri del campo noetico, appartiene l’influenza che l’emittente cerca di esercitare su di lui (1975, trad. it. p. 41).

L’incertezza è perciò fenomeno caratterizzante della comunicazione, e la comprensione tra i parlanti si realizza quando il ricevente riesce a diminuirla, interpretando il segnale. Ma a dover essere chiarita è proprio la natura del segnale: esso è portatore di significato, ma è «costruito» dall’emittente e necessita di essere interpretato, affinché si abbia comprensione, da colui che lo riceve. Si ha dunque comprensione da parte del ricevente quando grazie all’interpretazione del segnale egli riesce a riconoscere l’appartenenza dell’influenza che l’emittente cerca di esercitare su di lui o a una classe coincidente con una delle classi che determinano la sua incertezza o ad una classe non universale coincidente con la somma logica di due o più di queste classi (ibid.).

Concordiamo con chi ci fa notare come il ricevente tra due interpretazioni possibili sceglierà sempre quella che gli permette di ridurre maggiormente la sua incertezza; e, fra due interpretazioni possibili che gli permettono un’eguale riduzione della 43

sua incertezza, sceglierà sempre la più economica, cioè quella che presuppone la classificazione meno precisa dei fatti in gioco, indizio e indicato. [...] È dunque grazie al ricorso alle circostanze che si riduce progressivamente la situazione di incertezza in cui si trova il ricevente nell’atto comunicativo e si realizza la comprensione del senso [...]. Bisogna intendere con circostanze tutti i fatti che il ricevente riconosce come appartenenti a classi determinate, indipendentemente dall’indicazione che il segnale gli fornisce (Basile 1999, pp. 69-71, corsivo nostro).

L’incertezza scompare comunque del tutto solo quando il significato del segnale coincide «con una delle classi che determinano l’incertezza del ricevente» (Prieto 1975, trad. it. p. 41). La vaghezza è tutta dunque riassunta nelle forme dell’incertezza pragmatica, di una caratteristica che, almeno potenzialmente, ostacola la comprensione tra i parlanti: compito degli utenti sarà quello di amministrarla costantemente, evitando così che venga compromessa proprio la reciproca comprensione. 1.7. La pervasività della vaghezza Più di una volta il percorso sin qui tracciato ci ha portato a incontrare autori e riflessioni che proprio collocando la vaghezza all’interno della dimensione linguistica e semiotica, dimensione di segni, linguaggi, lingue, culture, ce ne hanno fatto in un certo qual modo presagire la pervasività. Wittgenstein, ad esempio, ci ha lasciato intravedere l’esistenza di uno stretto legame tra vaghezza e somiglianze di famiglia, e anche in virtù di ciò ha fatto delle somiglianze un potente strumento di critica verso la tradizionale concezione del categorizzare; Black si è trovato a combattere, attraverso una riflessione sulla vaghez44

za, un costume scientifico diffuso, che escludeva qualsivoglia forma di incertezza e di indeterminatezza dal rapporto tra scienza, teorie ed esperienza; e via dicendo. L’idea che riflettere sulla vaghezza linguistica sia anche riflettere sul suo estendersi oltre i confini della lingua e perciò sulla sua pervasività non è dunque nuova, e ci sembra doveroso almeno richiamarne qui il principale tentativo di sistemazione teorica, per ricavarne anche utili indicazioni proprio nel momento in cui ci dedicheremo a una descrizione della vaghezza linguistica e delle sue manifestazioni: esso è rappresentato dalla cosiddetta «teoria dei prototipi». Nel far ciò è anche nostra intenzione allontanare l’equivoco, purtroppo piuttosto diffuso all’interno degli studi di semantica contemporanei, che guarda alla vaghezza e alla prototipicità come a proprietà in tutto e per tutto coincidenti, confondendo quella che Federica Casadei (2003) definisce la «rappresentatività categoriale» con l’«appartenenza categoriale». La teoria dei prototipi, legata ai nomi di Eleanor Rosch e di George Lakoff35, fa la sua comparsa nei primi anni Sessanta all’interno di un’ampia riflessione sul funzionamento della percezione e della cognizione umana, finalizzata all’elaborazione di un più complesso modello di funzionamento della mente. Tale teoria ruota attorno all’idea secondo cui, appunto, l’umana percezione e cognizione riguardano per la maggior parte classi di oggetti in cui la transizione tra l’appartenenza e la non-appartenenza avviene non in modo brusco, ma graduale, e perciò esordisce con una serrata critica alla nozione aristotelica di categoria. La categorizzazione è al 35 La Rosch comincia a occuparsi di categorizzazione nei primi anni Settanta, con uno studio sui colori. Lakoff (1987) approfondisce questa linea di ricerche, con un’attenzione tutta particolare al contributo di altri autori, primi fra tutti Wittgenstein e Austin.

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contrario organizzata per basic-level categories e per prototipi (Lakoff 1987), che corrispondono ai membri più rappresentativi di una categoria, i suoi migliori esempi possibili. Le categorie non sono gerarchicamente organizzate, ma tenendo conto di criteri psicologici e interazionali, esistono categorie più basiche e categorie meno basiche. Ogni capacità umana, sia essa la percezione, la memoria, la capacità motoria ecc., assume un ruolo nella categorizzazione, che risulta attività motivata anche da esperienze corporee o sociali, e non semplice manipolazione di simboli astratti (ivi, p. 154). I modelli cognitivi sono infatti embodied, legati, sia direttamente che indirettamente attraverso links sistematici, alle esperienze corporee e sociali dell’individuo in quanto membro di una determinata comunità, esperienze che ne motivano il contenuto, come alcune delle loro proprietà. Due sono le principali conseguenze della diversità e della eterogeneità legate alle esperienze: in primo luogo, ciascun membro di una categoria, non possedendo alcunché di metafisico, riflette «insiemi» di proprietà, frutto della relazione tra individui; in secondo luogo, le proprietà che definiscono una categoria non risultano condivise da tutti i membri, ma esistono asimmetrie all’interno di una categoria come tra i membri che ad essa fanno riferimento36. Il funzionamento della categorizzazione, così come stabilito dalla teoria dei prototipi, viene subito esteso al linguaggio verbale, anche in questo caso facendo tesoro di una traLakoff (ivi, p. 56) va oltre e distingue tra categorie che hanno clear boundaries, quali ad esempio la categoria di «uccello», e categorie grades come tall man o red, che presentano cioè gradi di appartenenza, confini sfumati, ma sottolinea come anche il primo tipo di categorie, pur essendo caratterizzato da confini chiari, presenti «graded prototype effects – some category members are better examples of the category than others». 36

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dizione di studi anteriore agli anni Settanta37. Se è vero infatti che il linguaggio è una componente non autonoma della mente, che presenta proprietà legate ad abilità cognitive, allora le categorie linguistiche sono dello stesso tipo delle altre categorie, ossia evidenziano prototipi ed effetti di livelli basici: chiarirne natura e funzionamento dovrebbe dunque contribuire anche a una migliore comprensione delle categorie cognitive generalmente intese. Lakoff (ivi, pp. 58-67) elenca alcuni dei più evidenti effetti prototipici sulle categorie linguistiche, primo tra tutti il fenomeno della «marcatezza», visto come manifestazione delle relazioni asimmetriche all’interno delle categorie. Effetti prototipici si registrano però in ciascuno dei livelli di cui una lingua si compone: nella categorizzazione fonologica, in cui i fonemi altro non rappresentano che categorie di foni a base prototipica, ma anche nella categorizzazione morfologica e sintattica, dove, ad esempio il soggetto, definito come «categoria radiale», viene a caratterizzarsi, prototipicamente, sia come focus che come topic. Formigari (2001, p. 227) ci ricorda infatti come il legame tra concettualizzazione linguistica e categorizzazione percettiva fosse stato già discusso, alla fine dell’Ottocento, da Anton Marty, che aveva criticato l’idea di un rispecchiamento fedele, intravedendo la peculiarità del linguaggio proprio nella vaghezza relativa al suo piano semantico: «proprio perché (il linguaggio) è invece uno strumento finalizzato alla comunicazione, esso sottolinea certe e non altre categorizzazioni percettive e ricalca dunque fedelmente il pensiero soltanto nella misura indispensabile alla comprensione reciproca, facendo della vaghezza semantica un suo punto di forza». 37

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2.

Vaghezza, linguaggio, lingue storico-naturali

La lezione di illustri semiologi, linguisti, filosofi del linguaggio è stata chiara: il nostro pensiero e il nostro linguaggio sono felicemente intrisi di vaghezza; concetti e parole vaghe ci sono utili nella vita di tutti i giorni per poter pensare e comunicare senza sforzo, e anche per poterci tenere alla larga da inutili perdite di tempo. La vaghezza sembra quasi far parte del nostro vivere quotidiano, e visto che la sua eliminazione, in fin dei conti, si rivelerebbe sconveniente, il conviverci appare cosa obbligata. Stando così le cose, e andando anzi a ricadere, la vaghezza, quasi dalla parte delle ovvietà, non si vede perché questa proprietà dovrebbe crearci problemi di definizione né, tanto meno, di gestione. Tuttavia ciò non spiega perché, se da studenti di semiotica, studiosi del linguaggio o semplici curiosi cominciamo a chiederci cosa la vaghezza sia e come essa si manifesti, sia tanto difficile offrire una risposta che possa dirsi almeno un po’ plausibile. Abbiamo infatti la sensazione che la vaghezza possa essere una caratteristica dei nostri concetti e delle nostre parole, ma spesso non riusciamo ad andare oltre. Tuttalpiù, l’abbiamo visto, qualcuno ci consiglia di guardare alla vaghezza come a una specie di indeterminatezza che riguarda solo il significato delle parole, o, e lo vedremo più avanti, come a una sorta di ambiguità del significato, ma non 49

precisamente tale. E allora il rischio non poi tanto remoto diviene quello di far la parte del filosofo sbeffeggiato dalla servetta di Tracia, per occuparci di cose «che non si vedono», di problemi difficili da definire e ancor più difficili da far corrispondere a concetti dai confini chiari. È per non incespicare in tale rischio, o in ostacoli che potrebbero rivelarsi insormontabili, oltre che devianti1, che in questo capitolo proveremo a capire cosa significhi dire che la vaghezza è una proprietà generalmente linguistica. E nel far ciò partiamo dalle lingue e seguiamo chi ci ha insegnato a considerarle, innanzitutto, forme di semiosi, la cui azione si realizza nel creare realtà concettuali che guidano le azioni degli individui e il loro essere all’interno di uno spazio linguistico: non si tratta dunque di semplici strumenti per comunicare, ma di vere e proprie forme di vita e di identità. Da qui procediamo con il prendere in esame la natura e insieme il generale funzionamento dei codici semiologici, anche non verbali, per indagare se e perché essi possano in qualche modo essere interessati, se non da vaghezza, almeno da una qualche sorta di indeterminatezza costitutiva. L’analisi pone in primo piano gli utenti, nel loro ruolo di creatori e fruitori di un qualsivoglia sistema di segni.

1 Un chiaro esempio di simili difficoltà è rappresentato dal modo in cui alcuni dei più recenti manuali in lingua italiana di linguistica generale parlano di vaghezza: oltre a relegare la vaghezza tra i problemi di ordine esclusivamente semantico (Casadei 2001, p. 122), nella maggior parte dei casi in questi testi è del tutto assente un’analisi delle questioni teoriche e applicative connesse a tale proprietà. Simone (1990, pp. 43-44) intende la vaghezza come sinonimia o ambiguità semantica; Graffi, Scalise (2003) omettono addirittura il riferimento alla vaghezza.

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2.1. La generale e costitutiva indeterminatezza dei codici semiologici Ogni sistema di segni, o codice semiologico, nasce nel momento in cui due o più utenti «scoprono il bisogno di individuare un senso e farne viaggiare l’individuazione»2. Gli utenti svolgono dunque un ruolo prioritario nella vita dei codici, e ciò accade non solo perché ad essi è strettamente legato, sul piano semantico di ciascun sistema, quel processo di continua creazione di innumerevoli sensi attraverso cui realizzare il significato dei segni, o perché, sul piano pragmatico, agli utenti compete l’uso dei segni del codice all’interno dei concreti contesti in cui la semiosi si realizza. Il ruolo degli utenti è infatti ben più «radicale»3: essi rappresentano la ragione prima e ultima della stessa vita dei codici, del loro essere intrinsecamente, e indipendentemente dal tipo di utente, sociali, e, secondariamente, anche delle diverse dimensioni – pragmatica, espressiva o segnaletica, sintattica, semantica – di cui i codici, per così dire, si compongono e su cui si organizzano. Senza utenti non sembrerebbe dunque neppure possibile parlare di codici. L’evidente diversità e varietà che si registra tra codice e codice – da codici molto semplici, a due soli segni, a sistemi ben 2 Riprendiamo la definizione da De Mauro (1982, p. 19), che a sua volta riprende Saussure (CLG 33) nel considerare la lingua come il più importante «sistema di segni esprimenti delle idee», confrontabile con la scrittura, l’alfabeto dei sordomuti, i riti simbolici ecc. De Mauro chiama codice «ogni accoppiamento di due sistemi che serva a mettere in rapporto almeno due entità identificate ciascuna secondo uno dei due sistemi. Se e solo se tale messa in rapporto è di tipo semiotico, tale da stabilire [...] un collegamento di una ‘y’ e una [X], sicché i sistemi in questione sono quelli di identificazione di sensi e di segnali, il codice può dirsi ‘codice semiologico’». 3 Ancora De Mauro (1994, pp. 50 sgg.) chiama la necessaria presenza di soggetti della e nella semiosi «pragmaticità radicale» e ne fa una delle caratteristiche costitutive della semiosi, accanto alla «arbitrarietà radicale», alla «arbitrarietà materiale» e alla «dualità tra espressione e contenuto».

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più complessi – è tale da riflettere un’altrettanto evidente diversità e varietà dei potenziali utenti. Se, come qualcuno sostiene, sarebbero addirittura certe forme di virus a condividere un proprio sistema di segni, risalendo nella catena evolutiva, indubbia sembrerebbe la gestione di codici più o meno complessi da parte di quasi tutte le specie animali, fino ad arrivare agli esseri umani4. Con gli esseri umani ci troviamo di fronte a utenti biologicamente, culturalmente e storicamente determinati, che comunicano cioè attraverso la propria attività percettiva, mnemonica e anche emotiva all’interno di un determinato spazio storico-culturale e in relazione ad altri individui; ci troviamo di fronte a utenti per i quali si può propriamente parlare di agire semiotico, di un processo consistente cioè nella condivisione e nella negoziazione di segni e di sensi5. Più che plausibile sembra dunque l’ipotesi che questi stessi utenti, nel loro agire semioticamente, trasmettano ai codici che creano e di cui fanno uso l’indeterminatezza e la variabilità che sembrerebbe caratterizzare il funzionamento delle loro menti e delle facoltà ad esse relative6. Tra queste esem4 Nel sostenere ciò, facciamo nostra l’idea di De Mauro (2002, 2004) circa l’esistenza di un continuum biologico ed evolutivo che lega tra loro i diversi codici, appunto tali in base alla diversità dei propri utenti. Per un panorama più ampio sulle semiotiche relative a specie animali diverse da quella umana si rimanda a Cimatti (1998). 5 Per un approfondimento di tale idea si veda Petrilli (2002). Sul complesso legame tra agire semiotico e attività percettiva si rimanda a Fortuna (2002), che avanza l’ipotesi di uno sviluppo del linguaggio verbale derivante, almeno dal punto di vista genetico, dalla capacità di raddoppiamento simbolico dell’esperienza percettiva. Secondo questa ipotesi, il linguaggio verbale si sarebbe innestato all’interno di un orizzonte protosimbolico comune a una serie di giochi linguistici che condividono la stessa grammatica e agiscono in stretta sinergia. 6 Larga parte delle moderne neuroscienze affida alla componente individuale e alla sua indiscutibile variabilità un ruolo fondamentale nella stessa costituzione dell’io. È Oliverio (2002, p. 109) a ricordarci ad esempio come sia «nell’unicità del cervello, dovuta a un’interazione tra fattori genetici e am-

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plare è il caso della categorizzazione: come la teoria dei prototipi ci ha insegnato (§ 1.7), sembrerebbe infatti che i simboli, attraverso cui la categorizzazione funziona, e i loro referenti abbiano molto a che fare con il modo in cui gli individui si muovono nel mondo, dando ad esso un senso in forza delle stesse strutture corporee e immaginative di questi individui, che, pur legate alla specie, presentano tratti di intrinseca variabilità ed eterogeneità; anzi, sarebbe proprio negli schemi astratti, che consentono di conoscere e trattare le entità concrete tra cui un organismo deve muoversi, che risiederebbe «la traccia del soggetto che percepisce, memorizza ed elabora percezioni» (De Mauro 2002, p. 49). Il modello della categorizzazione, i cui prodotti non sono altro che categorie dai confini incerti e indefiniti, è indubbiamente interessante e a noi appare sufficientemente convincente se assunto a paradigma della più generale attività semiotica, almeno di quella umana, di quella wittgensteiniana «forma di vita» nella quale si riconoscono i soggetti, sia considerati nella loro individualità sia nel loro essere membri di una collettività. Tale modello considera infatti prioritario il ruolo degli utenti, e prioritaria la possibilità di trasmettere, alle categorie come ai codici che questi utenti creano e agiscono, la naturale indeterminatezza e variabilità che caratterizza il funzionamento delle loro menti, e, ancor prima, costituisce il loro stesso essere. La sola presenza degli utenti appare dunque sufficiente ad attribuire, all’attività semiotica come all’ampio raggio delle sue realizzazioni, una naturale indeterminatezza. Ma c’è dell’altro, e per scoprirlo stavolta dobbiamo prestare attenzione alla natura del segno, quasi paradossalmente la prima e di certo più bientali, che affondano le radici dell’io, le differenze di personalità, stili e capacità cognitive evidenti sin dall’infanzia».

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evidente determinazione dell’indeterminato universo della semiosi, segno che nasce proprio nel momento in cui tra due o più utenti si viene a creare un bisogno di comunicazione. Come Saussure ci insegna in riferimento alla semiosi verbale, il segno è per definizione «arbitrario», costituito cioè dall’unione di due classi astratte formate arbitrariamente; e ciò significa – sono in pochi, purtroppo, a ricordarcelo – diverse cose7. Tra queste, due sono per noi particolarmente interessanti: dire che il segno è arbitrario significa infatti dire che alla sua origine risiede «la capacità (insita nel cervello di ogni uomo) di discriminare liberamente e liberamente associare in classi gli atti e i dati della sua esperienza, e di coordinare variamente le classi così formate» (De Mauro 1967, p. XIII), e significa anche dire che il segno altro non è che il frutto della determinazione di una massa ampiamente e originariamente indeterminata8. Per chiarire ulteriormente questo punto, possiamo farci proprio aiutare da codici molto particolari, le lingue storico-naturali, la cui funzione, come vedremo tra breve e come sempre Saussure ci ricorda, non consiste nel dare nomi alle cose, ma nel creare forme articolate a partire da una materia ampiamente informe prima di tale intervento. Le lingue storico-naturali, infatti, si caratterizzano come tali perché frut7 Prampolini (1994, p. 64) è uno di questi. Egli puntualmente sottolinea come il principio di arbitrarietà venga formulato da Saussure in più modi equivalenti: «a. la lingua è arbitraria; b. il segno linguistico è arbitrario; c. ogni lingua costruisce arbitrariamente il proprio sistema di valori; d. nel segno non sussiste alcun rapporto di necessità logica o naturale tra significante e significato; inoltre, e. ogni lingua ritaglia arbitrariamente i significanti e i significati (quindi, i segni) nell’ambito dello spazio fonico e semantico. [...] Arbitrario per Saussure vuol dire immotivato, indipendente, autonomo». 8 È Saussure a ben puntualizzare questo punto nel Cours (CLG 157, corsivo nostro), ancora in relazione ai segni linguistici: «Non soltanto i due domini legati al fatto linguistico sono confusi e amorfi, ma la scelta che elegge questa porzione acustica per questa idea è perfettamente arbitraria».

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to dell’azione degli utenti su una massa di realizzazioni foniche e di sensi rappresentabile attraverso un continuum, una serie indefinita di prodotti fonici molto diversi tra loro, da una parte, e una serie ugualmente indefinita di diversi sensi, dall’altra. Gli utenti perciò, già portatori di una componente estremamente variegata, biologicamente, culturalmente e storicamente determinata, darebbero vita, interagendo, a un processo semiotico che si andrebbe appunto a concretizzare nel discriminare all’interno di un siffatto continuum raggruppamenti diversi: gruppi di fonie anche fonicamente distinte, ma capaci di trasmettere tutte uno stesso senso particolare; gruppi di sensi anche psicologicamente diversi, ma tutti trasmessi da una stessa particolare fonia9. Il richiamo alle lingue storico-naturali ben chiarisce dunque come all’indeterminatezza naturalmente indotta dagli utenti al momento della costituzione di un qualsivoglia codice – quindi anche di codici non verbali – si leghi quella particolare, e di certo ben più radicale, indeterminatezza che di ogni codice rappresenta la base, come anche, non senza esagerazione, la condizione sufficiente e necessaria del suo determinarsi come tale. Ma è ancora sul ruolo degli utenti che ci sembra opportuno soffermarci, sia perché, come si diceva poco sopra, se non 9 In proposito si veda quanto discusso in De Mauro 1967 (pp. XI, 333 sgg., 392). L’idea di continuum viene ben argomentata, seppur solo in relazione all’analisi del parlato, da Albano Leoni, Maturi (2003, pp. 22 sgg.), che qui comunque citiamo in quanto, a nostro avviso, capace di avvalorare – seppur indirettamente, perché orientata sul piano della parole – l’idea di un’indeterminatezza che caratterizza costitutivamente la materia ampiamente informe alla base di ciascuno dei livelli di cui una lingua vive. Albano Leoni e Maturi ci ricordano infatti come ciascun blocco comunicativo parlato sia «un continuum in cui non solo è a volte molto difficile individuare i confini tra i singoli foni e le singole parole, ma in cui si osserva anche come la realizzazione dei foni sia sempre molto variabile e non sempre prevedibile, e come essi si influenzino reciprocamente».

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esistessero utenti non esisterebbe neppure un codice, e dunque non sarebbe neppure possibile parlare di attività semiotica, sia perché vedremo presto come, nel caso degli esseri umani, il loro peso risulti decisivo nella caratterizzazione delle lingue storico-naturali come codici semiologici, oltre che intrinsecamente indeterminati, anche intrinsecamente vaghi. Il ruolo degli utenti è innanzitutto cruciale nella definizione del segno: l’assumere un’entità alla funzione di segnale o di senso è operazione che risulta infatti dipendere esclusivamente dalla libera scelta degli utenti, condizionata solo dal tipo di struttura meccanica e biologica ad essi propria e dalle modalità di produzione e ricezione, anche storicamente determinate, tipiche dell’interazione semiotica10. Ma esso continua ad essere decisivo anche in quella che potremmo chiamare la vita dei codici, fatti di piani diversi, tutti interagenti fra loro: gli utenti, infatti, agiscono sul piano sintattico del codice in relazione ai segnali che realizzano i significanti dei segni e ai tratti pertinenti che li costituiscono e li differenziano; sul piano semantico, creando sensi che realizzano il significato dei segni; sul piano pragmatico, stabilendo rapporti semiotici e realizzando i segni del codice; e via dicendo. È perciò la stessa fisionomia assunta dai tratti definitori del codice che va a dipendere, almeno in parte, dalla relazione sociale stabilita tra gli utenti già al momento della stessa costituzione del codice, relazione che poi continua a funzionare quasi come dispositivo di controllo per la potenziale e incontrollabile indeterminatezza costitutiva del codice, anche in fasi successive a quelle 10 Sui limiti imposti alla semiosi dalla struttura meccanica e biologica degli utenti come dalle modalità di produzione e ricezione tipiche dell’interazione semiotica, si veda De Mauro (1982, pp. 11-13). Tale posizione ci sembra distante dall’idea di «utente limitato» proposta a più riprese da Simone (1990).

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della sua costituzione. I «confini» di ciascun codice semiologico vanno così a collocarsi su un piano che definiamo relazionale, piano in cui due o più utenti, interagendo, quasi si accordano, a diversi livelli di consapevolezza e di esplicitazione dipendenti dal tipo di codice in questione – diverso è infatti il grado di esplicitazione richiesto, ad esempio, dal codice Morse rispetto a quello richiesto da una qualsivoglia delle lingue storico-naturali – circa il significato di un segnale, circa i segnali con cui realizzare i significanti dei segni ecc. Ecco perché i codici semiologici ci appaiono in sintesi leggibili anche come esiti di una relazione di natura sociale tra almeno due utenti in risposta a determinati bisogni di espressione, relazione per la quale nulla ci assicura lo stesso esito anche solo in riferimento a bisogni comunicativi diversi. Esemplari risultano ancora, seppur come sopra riferite ai soli codici semiologici verbali, le parole di Saussure: A sua volta, l’arbitrarietà del segno ci fa capire meglio perché soltanto il fatto sociale può creare un sistema linguistico. La collettività è necessaria per stabilire dei valori la cui unica ragione d’essere è nell’uso e nel consenso generale; l’individuo da solo è incapace di fissarne alcuno (CLG 157, corsivo nostro).

La «principalità» degli utenti, portatori di naturale indeterminatezza, rispetto ai codici non sembra dunque perdersi una volta che gli stessi codici sono costituiti: se così fosse, e lo vedremo presto, che ne sarebbe delle lingue storico-naturali? 2.2. La vaghezza delle lingue storico-naturali Con i codici semiologici non verbali la lingua condivide il creare e il vivere di segni radicalmente arbitrari, risultato della relazione tra quelle classi astratte o formali che Saussure 57

chiama signifiants e signifiés. La funzione di quel «gioco di segni» che è la lingua (Saussure SLG 6e), si è già detto, non consiste infatti nel dare nomi alle cose, ma nel creare forme articolate a partire da una materia ampiamente informe prima che tale creazione abbia luogo. Anzi, sarebbe proprio così che nascono le lingue storico-naturali, dall’azione di discriminazione operata dai parlanti su una massa indeterminata, resa in tal modo discontinua e, al tempo stesso, determinata; ed è proprio per questo che qualcuno suggerisce di guardare alle lingue come a ciò che funziona come una specie di reticolo che noi gettiamo sulla realtà, «ritagliandola» secondo il punto di vista della comunità parlante, generando dunque non solo le forme foniche, ma anche i significati peculiari di quella comunità (Gensini 2002, p. 70).

Ma se la naturale e originaria indeterminatezza è caratteristica peculiare dell’attività semiotica, per le lingue storiconaturali e per i segni linguistici, tutte realizzazioni particolari di questa complessa attività, sembrerebbe esserci qualcosa di più. Le lingue storico-naturali, codici tipicamente umani, sono infatti in grado di fare della loro naturale e originaria indeterminatezza di codici semiologici la prima e ineliminabile fonte di quella proprietà, lo vedremo, capace di renderli codici assolutamente straordinari: la loro intrinseca vaghezza. A ben guardare, infatti, i segni linguistici, a differenza dei segni delle cifrazioni e dei calcoli, oltre che radicalmente arbitrari appaiono caratterizzati dalla più assoluta imprevedibilità. Sono segnale evidente di ciò, solo per fare alcuni esempi, la possibilità sempre latente di comparsa di parole nuove, la presenza nei segni e tra i segni linguistici di parti non doppiamente articolate, come anche la possibilità di 58

dilatare il significato di una parola dal riferimento a cui si lega quando l’abbiamo dapprima appresa, o dal riferimento più noto e comune per la maggior parte dei parlanti una lingua (ciò che diciamo la sua accezione, statisticamente, socialmente normale o, in altri approcci, prototipica), a nuovi riferimenti (De Mauro, Fortuna 1995, p. 504).

I segni linguistici presentano dunque una sorta di disponibilità permanente all’innovazione, alla manipolazione e alla deformazione, ed è proprio per questo motivo che la lingua, diversamente da altri codici e a tutti i suoi livelli, è descrivibile come una semiotica, per dirla con De Mauro, «non non-creativa». Essa, e lo vedremo meglio più avanti, gode infatti della capacità di combinare unità date e fisse secondo certe regole e in modo sistematico, ma, al contempo, anche di quella di ammettere la manipolazione o l’abbandono delle forme codificate, introducendone spesso di nuove. Arbitrarietà radicale e non non-creatività, l’una caratteristica appartenente anche ai segni di altre semiosi, l’altra tipica del linguaggio verbale, rappresentano dunque i poli attorno a cui una lingua si struttura e si muove. È per questo che da essi procediamo per cercar di spiegare meglio cosa la vaghezza sia, quale sia la sua collocazione e come essa si manifesti. 2.3. Il polo dell’arbitrarietà radicale: la vaghezza come proprietà segnica La radicale arbitrarietà dei codici semiologici verbali, direttamente legata, lo si è appena visto, all’originaria e intrinseca indeterminatezza della semiosi – anche in quanto prodotto dell’agire di due o più utenti – è notoriamente indice di una serie di importanti proprietà linguistiche. Essa possiede infatti «il primato nell’ordo rerum» e rappresenta «il basamento su cui poggia l’edificio della lingua come forma, è la rego59

la fondamentale di ogni possibile gioco linguistico» (De Mauro 1967, p. 387). L’ipotesi che facciamo è che tra queste proprietà si trovi anche la vaghezza. Per spiegare la fondatezza di una simile ipotesi dobbiamo fare un passo indietro e guardare all’arbitrarietà sia come «autonomia delle ripartizioni del contenuto semantico che una lingua realizza rispetto alle ripartizioni extralinguistiche di idee o oggetti» (SLG, nota 128), sia come assoluta autonomia delle ripartizioni del contenuto fonico che la stessa lingua realizza rispetto alle medesime ripartizioni extralinguistiche. All’arbitrarietà si collega dunque una duplicità di piani, fonico e semantico; su di essi, o meglio, sul continuum da essi rappresentato, si verificano una serie di ripartizioni relative ad altrettante ripartizioni, ma di tipo extralinguistico, corrispondenti cioè, ci dice Saussure, a idee e oggetti. Se dunque, come dai prototipi in avanti siamo abituati a pensare, tali ripartizioni extralinguistiche sono di natura sfumata, legate cioè a contenuti – idee e oggetti – per natura indeterminati e vaghi, è chiaro come questa loro natura possa giocare un ruolo non indifferente nel momento in cui esse vanno a riflettersi sul continuum fonico e semantico, base della semiosi verbale. I loro prodotti saranno infatti rappresentati da ripartizioni della sostanza fonica e semantica che, pur presentandosi, una volta tali, come determinazioni, e in più assolutamente immotivate, manterranno al loro interno un carattere di intrinseca indeterminatezza e di intrinseca vaghezza11. Si badi bene come un tale ragionamento preservi e anzi rafforzi la radicale arbitrarietà del segno linguistico, e non contrasti dunque in alcun modo con l’affermare che il ritaglio compiuto dalle lingue su una massa fonica e semantica assolutamente indeterminata ha natura indipendente «dai caratteri prelinguistici della sostanza fonica o dai caratteri del mondo oggettivo o del nostro modo di percepirlo» (De Mauro 1967, pp. XII-XIII). 11

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Una simile spiegazione ci autorizza dunque a rintracciare proprio nell’arbitrarietà radicale la prima, inesauribile fonte di quella che denominiamo «vaghezza segnica». Dire che la vaghezza è innanzitutto una proprietà, una condizione «segnica», equivale a dire che essa investe il segno nel suo complesso, e perciò allo stesso modo significante e significato12. La vaghezza segnica riguarda dunque anche quella parte del segno, il significante, che una certa tradizione di studi linguistici, primi tra tutti quelli che si occupano di fonetica e fonologia, ha visto e continua a veder caratterizzata da discretezza, da confini netti e chiaramente identificabili. Nel migliore dei casi, questi studi ci consigliano anzi, più o meno esplicitamente, di considerare la vaghezza, non senza prima camuffarla sotto gli abiti della variabilità, come un accidente dell’esecuzione13. È forse per questo che difficilmenÈ ancora Saussure a richiamarci più volte a riflettere sulla complessità della dimensione segnica, aprendo con le sue stesse parole la strada a quella che verrà definita «dilatabilità del significato», caratteristica che più avanti vedremo profondamente legata alla «vaghezza semantica». Così egli si esprime ad esempio in SLG 22b: «Nella lingua non ci sono né segni né significazioni, ma DIFFERENZE di segni e DIFFERENZE di significazioni, le quali 1° esistono soltanto le une grazie alle altre (nei due sensi) e sono dunque inseparabili e solidali; ma 2° non arrivano mai a corrispondersi direttamente» (sottolineato nostro); e, più avanti: «non si può mai considerare un’unità linguistica qualsiasi (nella prospettiva di un’epoca) che facendo intervenire, esplicitamente o implicitamente, allo stretto minimo quattro termini: 1° il segno di cui ci si occupa; 2° un altro segno differente; 3° una parte (che sarà sempre molto [più] piccola di quel che si pensi) di ciò che è contenuto; 4° una parte (egualmente assai piccola) [nota 105: degli altri possibili contenuti, delle altre possibili significazioni]» (ivi, 24; sottolineato nostro). 13 Lo Piparo e Albano Leoni (1997, p. 13) ben argomentano proprio questo punto: «nel senso comune di molti linguisti si osserva una sorta di asimmetria, tale per cui alla consapevolezza diffusa, o relativamente diffusa, della indeterminatezza del significato farebbe riscontro una indiscussa determinatezza (nonché discretezza, linearità, segmentabilità) del significante. La riflessione su questa faccia del segno sembra essere rimasta ferma all’assio12

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te si è spinti a riflettere su come sia proprio l’intrinseca vaghezza del significante a costituire la condizione di possibilità per fenomeni appartenenti al piano della parole, quali ad esempio la «fluttuazione fonetica», che Saussure considerava appunto fenomeno meritevole d’essere tratto fuori dalla massa e collocato come fatto unico nel suo genere, e del tutto caratteristico del principio negativo che è al fondo del meccanismo della lingua (SLG 22b).

Se si tende a tacere sulla natura innanzitutto segnica della vaghezza, lasciamo immaginare cosa accade circa i suoi primi e principali effetti. Come già sottolineato nel capitolo 1, nell’ambito degli studi linguistici e di semiotica del Novecento è solo De Mauro a far riferimento alla vaghezza segnica e a puntualizzare come del significante e del significato la vaghezza segnica non comporti un «rilassamento», ma, al contrario, sia proprietà tale da rendere possibile la realizzazione di forme più «precise» come di forme meno «precise». Ciò significa che la vaghezza segnica non è solo condizione di espressioni, e poi di spiegazioni e comprensioni per così dire approssimative, ma è al contempo condizione di espressioni del tutto determinate e a pieno titolo collocabili sul piano della forma14. ma che la scrittura alfabetica ne sia una rappresentazione realistica. Prisciano, e con lui molti altri, definiva la vox literata come quella che literis scribi potest. Da allora è come se le cose non fossero cambiate un gran che: oggi come allora l’assioma della determinatezza è al fondamento di tutte o quasi le pratiche descrittive ed è ritenuto la caratteristica fondamentale del formato nel quale i parlanti (si badi: tutti i parlanti rappresentati dal parlante ideale) conservano nel loro archivio mentale le forme linguistiche». Sull’argomento si veda anche De Mauro (1982, pp. 100-101). 14 Seguendo Vedovelli (2005a), collochiamo il concetto di «forma» nella tradizione di studi che da Saussure, attraverso Louis T. Hjelmslev ed Eugenio Coseriu, arriva sino a De Mauro, tradizione che porta a vedere nella lingua appunto la forma, la norma e l’uso.

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Il ritaglio compiuto dalle lingue su una massa fonica e semantica assolutamente indeterminata rappresenta dunque il primo chiaro indice della vaghezza segnica. Se però dalla struttura si passa a considerare, delle lingue, quello che alla fine del paragrafo precedente dicevamo il movimento, e si guarda ad esempio all’apertura di questi sistemi o alla loro straordinaria capacità nel saldare la potenziale incalcolabilità dei loro sensi e delle loro sinonimie alla loro intrinseca regolarità15, la sensazione è quella che la nostra descrizione della vaghezza non possa fermarsi qui. Irrinunciabile sembra rendersi anzi lo spostamento sull’altro dei poli da noi menzionati, quello della «non non-creatività». 2.4. Il polo della «non non-creatività»: la vaghezza come proprietà semantica e pragmatica Dire che la lingua è una semiotica «non non-creativa» sottintende diverse cose. Innanzitutto con la non non-creatività si fa riferimento alla possibilità che una lingua ha di generare infinite frasi «nuove» partendo da un numero limitato di parole più qualche regola. A questo proposito c’è chi parla di «creatività regolare», perché il processo appena descritto si innesca proprio partendo dall’applicazione dei meccanismi, delle regole del sistema lingua al numero, limitato, dei suoi elementi costitutivi. Ma dire che la lingua è una semiotica non non-creativa equivale anche a dire che al suo interno nuove regole, socialmente riconosciute come utili, possono sostituire le vecchie, fino a modificare la lingua stessa; che per ac15 Maestra, anche in questo caso, ci è la lezione di Saussure: «perché anzitutto il senso può variare in una misura infinita senza che il sentimento dell’unità del segno sia neanche vagamente colpito da questa variazione» (SLG 10a).

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quisire una lingua l’imitazione è pressoché indispensabile; che il nostro cervello è in grado di produrre in modo creativo migliaia di parole e migliaia di lingue16; che non solo nel testo poetico, ma anche negli innumerevoli contesti e situazioni della quotidianità, il senso delle parole può essere creativamente alterato in modo radicale17. Sotto il segno della non non-creatività si colloca anche l’esistenza di sinonimie né predicabili né calcolabili, caratteristica questa in grado, da sola, di distinguere le lingue storico-naturali da tutti gli altri insiemi di segni18. Tutti questi fenomeni sono riuniti sotto il nome di «creatività non regolare» e descritti anche come «possibilità di far funzionare i meccanismi semiotici di costituzione del senso pur violando le regole ‘normali’ del codice o cambiandole nel farsi stesso della comunicazione» (Vedovelli 2003a, p. 513). Si tratta di un tipo di creatività che «permette di far rientrare nella ‘normale’ attività semiotica i processi di scambio comunicativo, di produzione di senso, di comprensione in presenza di violazione delle regole ‘normali’» (ibid.), che fa riferimento a fenomeni che certo suggeri16 Ci sia consentito almeno ricordare come questo fenomeno, noto con il nome di «mutamento lessicale», sia stato interpretato in questo senso già da Benedetto Croce (1866-1952): «Allorché noi produciamo una nuova parola, trasformiamo di solito le antiche variandone o allargandone il significato; ma questo procedere non è associativo sebbene creativo, quantunque la creazione abbia per materiale le impressioni non dell’ipotetico uomo primitivo, ma dell’uomo vivente da secoli in società e che ha immagazzinato nel suo organismo tante cose, e tra queste, tanto linguaggio» (1900, p. 103). Rimandiamo a Giuliani (2002) per un approfondimento del pensiero e dell’opera di Croce, che ne mette in risalto l’ineguagliabile contributo dato alla storia delle idee linguistiche. 17 Prendiamo a prestito l’efficace sintesi da De Mauro (2005). 18 Sul tema della sinonimia, illuminanti risultano nuovamente diversi passaggi dei saussuriani Scritti inediti, in particolare SLG 25, 26 e 27, quest’ultimo inaugurato dall’affermazione-corollario secondo cui la sinonimia di una qualsivoglia parola «è in se stessa infinita, per quanto la parola sia definita in rapporto a un’altra parola».

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scono, a partire dal piano delle relazioni tra i segni, instabilità, perché appunto riflesso della mancanza di non-creatività; fenomeni resi in ultima istanza possibili proprio dal fatto che la lingua è un codice intrinsecamente vago. Il rapporto che lega il polo della non non-creatività alla vaghezza è dunque di ben altra natura rispetto a quello che abbiamo visto unire vaghezza e arbitrarietà radicale. Se quest’ultima rappresentava infatti il presupposto per la vaghezza, quella che potremmo definire la sua condizione di esistenza, con la non non-creatività i ruoli si ribaltano. Segni intrinsecamente vaghi, che circoscrivono sul piano semantico in maniera solo approssimata un insieme non chiuso di segnali atti a indicare in modo altrettanto approssimato una famiglia – più che una classe di sensi –, vanno infatti a costituire la vera e genuina condizione di possibilità per la non noncreatività. La lingua è cioè sistema non non-creativo perché le sue forme sono e saranno sempre potenzialmente manipolabili e deformabili, proprio in virtù del loro essere intrinsecamente, e già a livello segnico, vaghe19. Dalla dimensione propriamente segnica, infatti, la vaghezza si va a riflettere sulla dimensione semantica, dove un ruolo di primo piano continua in ogni caso ad essere ricoperto dalla relazionalità del segno, che è tale da aprire e moltiplicare le possibilità di inMolto rimarrebbe da dire sul legame tra creatività e codici semiologici verbali, in particolare guardando anche a semiotiche per definizione «non creative», quali ad esempio la matematica. Anche queste semiotiche, oltreché dall’indeterminatezza primigenia che contraddistingue ciascun codice all’atto della costituzione, potrebbero essere infatti interessate in qualche modo dalla creatività, perché agite dagli utenti, chiamati continuamente a manipolarne e a interpretarne le forme. Goutier (2004) sostiene ad esempio che la creatività, pur non essendo proprietà delle matematiche, sia caratteristica del linguaggio, altamente metaforico e ambiguo, di cui questi codici si servono per realizzare con la massima precisione i propri messaggi. 19

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tersezione tra significante e significato, producendo come principale effetto la sfumatura dei relativi confini. È un simile «movimento» che rende in ultima istanza possibili, come si diceva all’inizio del nostro ragionamento, l’apertura e la creatività del sistema. La dimensione semantica è certo quella sulla quale, per eccellenza, si vanno a misurare i modi e gli effetti della vaghezza linguistica: essa, lo si è appena visto, è il risultato del proiettarsi, in modo assolutamente arbitrario, della vaghezza propriamente segnica su una massa semantica altrettanto vaga, e i suoi prodotti sono in primo luogo rappresentati da famiglie di sensi, che realizzano, a loro volta in modo vago, il significato dei segni. Del significato, la plasticità rappresenta dunque la caratteristica per eccellenza, ciò che fa sì che il significato dei segni sia manipolabile alla meno peggio, mettendo alla prova la tolleranza degli interlocutori, quanto compattabile in forme rigorosamente delimitate entro le terminologie scientifiche, i linguaggi simbolici, le stilizzazioni iconiche o gestuali dei riti, cioè dovunque si abbia assunzione dei segni vaghi a segni di significato determinato e di significante fortemente formale (De Mauro 1982, p. 104).

D’altronde, ciò trova ancora una volta la sua spiegazione nella stessa natura del segno linguistico, strumento di un’attività allusiva, di un gioco orientato a stabilire un’intesa tra utenti perché con dei segnali tra loro assimilabili ci si rivolga, ci si avvii verso un gruppo di sensi. Più che un rapporto tra classi, viene a stabilirsi su questa via un rapporto tra una zona, un’area del contenuto, e un’area dell’espressione (ivi, p. 100).

E ciò spiega anche perché il segno, in quanto agito dagli utenti, conduca alla creazione di una condivisione di sensi in 66

cui la regola non è la determinatezza, ma la continua tensione tra determinatezza e cambiamento. La relazione tra gli utenti determina infatti l’agire semiotico, ma esso necessita sempre, proprio in virtù di tale tensione, di continua negoziazione e di continuo rinnovamento, pena l’interruzione della semiosi. È proprio una tale necessità a rimandarci immediatamente all’utente: non a un utente male informato «del funzionamento di un codice e della consistenza dei sensi del suo campo noetico» (ivi, p. 99), ma a un agente sociale che, proprio in virtù della vaghezza dei segni che assieme ad altri utenti crea ed è chiamato a gestire, si trova quasi obbligato a rinnovare continuamente l’intesa semiotica che lo lega ai suoi simili e a uno spazio linguistico in cui l’apertura e in molti casi l’incertezza della semiosi, sia all’atto della produzione che all’atto della ricezione, costituiscono la regola. I modi della vaghezza segnica e semantica sono dunque tali da riflettersi anche sul piano pragmatico della lingua, quello in cui emittenti e riceventi realizzano i segni del codice. Sul piano pragmatico i modi assunti dalla vaghezza sembrano in sostanza riconducibili a due. La vaghezza si realizza innanzitutto attraverso forme tali da produrre come da indurre indeterminatezza all’interno dello scambio semiotico: è in questo caso che conveniamo di parlare di «vaghezza pragmatica» in senso proprio. È la vaghezza pragmatica a dar luogo a forme la cui concettualizzazione «normale» veicola sensi che, pur previsti dal codice, non sono o non sarebbero in un certo qual modo attesi all’interno di un dato, particolare atto semico, in quanto almeno apparentemente non pertinenti ad esso. Tali forme coincidono così con tutti quei tratti che, indipendentemente dalla loro rispondenza alla norma 67

linguistica, risultano tali da indurre indeterminatezza semantica sul posto sintagmatico, rendendo vago il significato dei tratti, dei termini, delle espressioni che introducono o da cui sono preceduti, come anche la semantica dell’intera sequenza in cui sono contenuti. Per questo tipo di forme spesso diviene fondamentale il riferimento al contesto d’uso, cioè a una serie di elementi co-testuali e contestuali in grado di ripristinare il normale e lineare funzionamento della comunicazione. Va detto però come tale riferimento non debba essere scambiato, come invece in molti vorrebbero, per un’azione di semplice disambiguazione, considerato che lo scambio semiotico in molti casi ha successo anche senza che tale meccanismo entri, per così dire, in funzione. Accanto alla vaghezza pragmatica, l’altro modo assunto dalla vaghezza sul piano pragmatico è quello che conveniamo di indicare con il nome di «incertezza d’uso», o «incertezza pragmatica», che si concretizza nella realizzazione di forme appunto incerte, per le quali non esiste, all’interno di un determinato codice linguistico, di una determinata lingua storico-naturale, una regola che potremmo definire condivisa. Incerto si definisce dunque l’uso di tutti quei tratti che, seppur diversi, possono saturare uno stesso posto sintagmatico, realizzando comunque la stessa funzione o trasmettendo lo stesso valore semantico. Ci troviamo di fronte a tratti, propri di una data lingua storico-naturale, che risultano estremamente variabili anche in relazione alle varietà che di questa lingua costituiscono il repertorio, varietà che in molti casi rappresentano la condizione necessaria ma non sufficiente per stabilirne la grammaticalità. Si tratta perciò di tratti il cui uso pone più che altro problemi di accettabilità, aggravati dal fatto che proprio l’accettabilità, in quanto funzione dell’interazione tra i 68

parlanti, è caratteristica strettamente dipendente dalla sensibilità e dalla percezione linguistica di ciascuno di essi, dalla loro «coscienza linguistica», costantemente sospesa nella scelta tra una presunta norma e un uso ampiamente condiviso20. A ben guardare, l’incertezza pragmatica è un modo della vaghezza reso ad esempio evidente dall’insicurezza linguistica manifestata da una data comunità di parlanti in relazione a forme del repertorio appartenenti a varietà non coincidenti con la (presunta) norma linguistica e dunque con la varietà dello stesso repertorio percepita come «standard»21. L’incertezza pragmatica non va dunque confusa con quella che in molti indicano come «incertezza di applicazione», che ancora i riferimenti al contesto d’uso possono in alcuni casi aiutare a chiarire22. Essa, al contrario, rappresenta una modalità della vaghezza essenziale e connaturata, come la vaghezza segnica e la vaghezza semantica, al funzionamento della semiosi e dunque alla vita stessa di qualsivoglia codice verbale. Non è infine difficile accorgersi come la vaghezza pragmatica e l’incertezza d’uso riguardino entrambi i soggetti della semiosi verbale, il produttore come il ricevente, e appaiano anzi connaturate al processo, all’essere stesso della semiosi, che sembrerebbe tale da contemplare sempre e comunque una zona grigia, in cui intenzioni e intuizioni del produttore e del ricevente sono, semplicemente, vaghe. Concordiamo anzi con chi ritiene importante sottolineare come le lingue storico-naturali si configurino come gli unici sistemi «che consentono a Per il concetto di «coscienza linguistica» il riferimento è ancora rappresentato da Terracini (1963), ingiustamente criticato, se non dimenticato, da tanta linguistica contemporanea. 21 Per un approfondimento della discussione dei problemi legati all’«insicurezza linguistica» rimandiamo a Vedovelli (1999, 2003b). 22 Questa posizione fa riferimento a una lunga tradizione di studi, per una sintesi della quale si rimanda ad Halpern (2003). 20

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chi produce un segno di partire in ogni caso dalla specifica incertezza del ricevente» (Gambarara 1999b, p. 38). 2.4.1. Tra vaghezza e incertezza pragmatica: il caso delle preposizioni italiane Quanto fin qui osservato a proposito della vaghezza pragmatica e dell’incertezza d’uso può forse risultare più chiaro se accompagnato dalla discussione di qualche caso pratico. Ad esempio, la lingua italiana scritta e parlata, alla quale ci riferiamo per ovvi motivi, mostra, e non in modo sporadico, la presenza di tratti il cui uso è tale da produrre esiti diversificati, alcuni dei quali classificabili anche come manifestazioni di vaghezza o incertezza pragmatica. Anzi, e più in generale, possiamo affermare che se è vero che la vaghezza è una proprietà pervasiva del nostro pensiero e intrinseca a ciascuna delle lingue storico-naturali a nostra disposizione, allora anche ogni espressione, ogni elemento che a ciascuna di queste lingue appartiene, seppur apparentemente ben definito, è tale da presentare, almeno potenzialmente, almeno virtualmente, una zona di vaghezza23. Fra i tanti possibili tratti su cui avremmo potuto dunque 23 Va detto come di questo siano ben consapevoli anche coloro che considerano la vaghezza una proprietà esclusivamente semantica, e, partendo da ciò, assumono che questa proprietà possieda una sua struttura logica, ben rappresentabile attraverso il metodo vero-condizionale (capitolo 1); come anche coloro che analizzano la vaghezza connaturata al significato di ciascuno degli elementi che compone una lingua storico-naturale, siano essi un nome, un aggettivo, un avverbio ecc., con il solo fine di diminuirne, o almeno gestirne al meglio, la portata (Channell 1994). È anzi proprio su queste basi che si fondano recenti tentativi di teorizzazione e proposta di vere e proprie grammatiche «alternative», per le quali ciascun piano linguistico, sia esso quello della fonologia, della sintassi, della morfologia e via dicendo, così come ogni elemento che a ciascuno di questi piani appartiene, è interessato da vaghezza e può essere così classificato solo in termini sfumati (Aarts et al. 2004).

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concentrare la nostra attenzione24, diamo qui cenno del caso delle preposizioni dell’italiano, che tra l’altro non interessa solo la nostra lingua, ma presenta elementi in comune con molte altre, tra le quali vogliamo ricordare il francese25; il motivo per il quale ce ne occupiamo è piuttosto semplice: alla disamina di tale caso è stata infatti dedicata parte consistente della ricerca di dottorato da cui questo volume prende spunto (Machetti, non pubblicato). Un recente e originale studio condotto in prospettiva acquisizionale da Carla Bagna sulle preposizioni della lingua italiana e sul loro apprendimento (Bagna 2004) ne mette a più riprese in risalto il carattere vago e sfuggente, sia a livello semantico sia a livello funzionale, e collega tale carattere alla non esistenza di regole in grado di governare proprio l’uso e il valore delle preposizioni all’interno di un testo, anche quando siano chiari il ruolo, la funzione, gli elementi da cui la preposizione dipende26. Ciò sembrerebbe in larga parte dovuto alla storia dell’italiano e allo status dell’italiano contemporaneo, che rimane un sistema con alcune zone più fragili di altre. Il sistema preposizionale rappresenta una di queste aree in cui regna la vaghezza, intesa non tanto come mancanza di regole, ma come applicazione di modelli non rigidi di usi linguistici (ivi, p. 54). 24 Bice Mortara Garavelli (2003, pp. VII, 3), ad esempio, fa riferimento a un altro tratto della lingua italiana, la punteggiatura, e ne parla come «una pratica aperta a incertezze», la cui causa prima andrebbe rintracciata nella sua natura polimorfa «unita alla relativa labilità dei suoi statuti, mutevoli nel tempo e non ben definiti», considerando la presenza di più funzioni in uno stesso segno ortografico come il risultato più vistoso di una tale polimorfia. 25 A questo proposito si vedano gli studi di Anne Marie Berthonneau e Pierre Cadiot (1991, 1993). 26 È solo per ragioni di completezza che ricordiamo come non manchi chi nega in maniera categorica l’esistenza di una semantica per le preposizioni, le quali, semplicemente, esprimerebbero, allo stesso modo degli operatori aritmetici «+» e «–», una categoria funzionale (Crisari 1971).

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Simili osservazioni ci consentono dunque non solo di guardare al sistema delle preposizioni dell’italiano come caratterizzato da una sorta di vaghezza intrinseca, legata a, e dipendente da fattori linguistici strutturali, ma anche di classificare alcuni degli usi di cui questo sistema si compone come incerti o vaghi. Stretta è infatti la loro dipendenza da elementi di natura pragmatica, siano essi la situazione d’uso, la tipologia testuale ecc., la cui portata è anche tale da impedire spesso la «risoluzione» della vaghezza o dell’incertezza ad essi propria in base a considerazioni di tipo esclusivamente formale. Il fenomeno, ancora seguendo Bagna (2004), sembrerebbe anzi manifestarsi in tutta la sua portata non solo nel sistema linguistico dei nativi, ma anche all’interno delle varietà interlinguistiche di apprendimento dell’italiano L2 proprie di apprendenti stranieri27. Ci sembra che quanto segue possa ben supportare una simile affermazione. Bagna classifica ad esempio come vago l’uso della preposizione in all’interno della sequenza 1. essere sommersi in messaggi pubblicitari

e, al contempo, considera tale uso come manifestazione di «produttività» della stessa preposizione, in grado non solo di Bagna si interroga in particolare sul funzionamento delle preposizioni a uno stadio di competenza linguistico-comunicativa «quasi-nativa/quasi-bilingue» (2004, pp. 25-37) e conclude dichiarando la problematicità di questo meccanismo. A tale livello di competenza, infatti, i valori semantici trasmessi dalle preposizioni coprirebbero un ventaglio molto ampio, e la scelta della preposizione da parte dell’apprendente straniero sarebbe ancora soggetta a interferenze della L1 e delle varietà dell’italiano a cui l’apprendente è esposto. L’idea di fondo è che esista una zona di «intercambiabilità» negli usi delle preposizioni dell’apprendente «quasi-bilingue/quasi-nativo» e del nativo: a livelli di competenza avanzata, infatti, sarebbe possibile distinguere in quattro zone, una con problemi di morfologia, una di usi non corretti, una di usi possibili, una di usi corretti, gli usi e le funzioni delle preposizioni. Per la definizione di «varietà interlinguistica di apprendimento» si rimanda a Vedovelli (2002a). 27

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trasmettere, ma addirittura di creare valori semantici ampi e dai confini sfumati28. Lo stesso può dirsi ancora per l’uso della preposizione in – da noi raccolto29 – all’interno della sequenza 2. possiamo offrire corsi in cucina

Si tratta infatti ancora di un uso che è tale da indurre indeterminatezza semantica sull’intera sequenza: da essa non emerge cioè con sufficiente chiarezza se colui che l’ha prodotta abbia voluto riferirsi a corsi che si svolgono all’interno di una cucina o a corsi che hanno come argomento, come oggetto, la cucina. Obbligato, per il passaggio dell’informazione, e dunque perché si abbia comprensione, diviene perciò il ricorso a elementi co-testuali molto distanti nella sequenza, ricorso che può almeno teoricamente contribuire a gestire la situazione di vaghezza prodottasi. Proprio in relazione alle varietà interlinguistiche di apprendimento dell’italiano L2, va detto quanto sia frequente imbattersi in sequenze, scritte e parlate, in cui l’uso vago di una data preposizione si rivela tale da introdurre vere e proprie soluzioni di creatività, presentandosi all’interno di sintagmi non propri né della L1 dell’apprendente né della lingua italiana, ma che, appunto creativamente, saturano il poL’uso di in, sottolinea Bagna, «risulta anomalo non tanto perché non si possa essere sommersi in qualcosa, quanto perché solitamente la concettualizzazione del verbo sommergere (vs immergere) prevede che si venga sommersi da qualcosa che proviene idealmente dall’alto. Allo stesso modo la società attuale è guidata a q.sa inteso come verso qualcosa» (ivi, p. 102). 29 Questo e altri esempi di usi delle preposizioni tratti da produzioni scritte di apprendenti di italiano L2 e classificabili come incerti o vaghi sono raccolti in un corpus che sta alla base della ricerca di dottorato da noi condotta negli anni 2002-2004 (Machetti, non pubblicato). Alcuni dei risultati applicativi della ricerca sono discussi in Machetti (in stampa). 28

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sto sintagmatico e consentono il passaggio dell’informazione e il funzionamento della comunicazione. Un ottimo esempio di ciò è fornito da usi delle preposizioni inseriti all’interno di locuzioni classificabili come polirematiche: qualità di vita, ad esempio, non è polirematica attestata dal GRADIT (De Mauro 1999) – che riporta qualità della vita – ma è comunque locuzione che ancora in una delle sequenze da noi raccolte 3. ciò provoca una riduzione di qualità di vita del cittadino

risulta pienamente accettabile, e anzi è tale da garantire l’efficacia comunicativa dell’enunciato che la contiene. Tra le preposizioni dell’italiano scritto e parlato altrettanto numerosi sono infine gli esempi di usi incerti. Significativo è ancora l’uso della preposizione in all’interno della sequenza 4. vado in posta

In questo caso, ci troviamo di fronte a un uso comunemente accettato in alcune varietà settentrionali dell’italiano, ma che «suona male» e di conseguenza viene in genere giudicato errato nella maggior parte delle varietà del Centro Italia, in cui la preposizione a (nella forma articolata alla) è considerata più corretta o – aggiungiamo noi – maggiormente adeguata a esprimere l’idea di movimento verso un luogo. Lo stesso può dirsi dell’uso della preposizione a nella sequenza 5. abita a via Milano

uso che tra l’altro pone problemi in diamesia, creando più di una perplessità nelle varietà scritte, nelle quali, per indicare collocazione nello spazio, sarebbe di norma previsto l’uso della preposizione in. 74

3.

I confini non-confini della vaghezza semiotica e linguistica

La vaghezza come proprietà linguistica è spesso assimilata e, a dir la verità, confusa con altre proprietà o caratteristiche in qualche modo legate alla lingua e alla sua mobilità e varietà non solo attraverso il tempo, ma anche entro la massa parlante e le sue stratificazioni. Tra esse l’indeterminatezza – sia essa trattata come «indeterminatezza costitutiva», radicale, o come «indeterminatezza semantica» – e l’ambiguità. La vicinanza tra indeterminatezza, ambiguità e vaghezza è infatti tale da generare in molti casi – come del resto risulterebbe immediatamente evidente da un’analisi dettagliata dell’ampia letteratura esistente sull’argomento – dubbie sovrapposizioni se non evidenti fraintendimenti, dovuti anche all’incompletezza di certe definizioni. Si può comunque provare a sintetizzare e concludere che i fraintendimenti e le incompletezze riguardano per la maggior parte proprio la definizione di vaghezza, che è quasi sempre proprietà presa in esame solo secondariamente, in funzione delle altre definizioni1. Al Così accade in Lakoff (1970), Scheffler (1979), Le Goffic (1981), Pinkal (1995), Walton (1996), quest’ultimo impegnato nella discussione delle tre famose fallacie tradizionalmente associate all’ambiguità: l’equivocazione, l’accento, l’anfibologia. Il rapporto tra ambiguità e vaghezza è analizzato anche all’interno di più ampi studi di semantica, tra cui Weinrich (1966), Chierchia, McConnell-Ginet (1990), Chierchia (1997), Hale, Wright (1997), Löbner (2002). 1

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crearsi di una simile situazione contribuisce anche il fatto che l’interesse verso vaghezza, ambiguità e indeterminatezza è ancor oggi di quasi esclusivo dominio dell’approccio logicoformale, e di conseguenza rimane focalizzato solo sul peso che simili proprietà e caratteristiche giocano sul significato di un singolo termine, della proposizione che tale termine contiene e sul suo valore di verità. E ciò, lo abbiamo visto, fa sì che spesso la tendenza sia quella, se non a eliminare vaghezza, ambiguità, indeterminatezza dal nostro linguaggio, almeno di diminuire e amministrare al meglio la loro portata. Pericoli non meno seri la vaghezza li corre ogniqualvolta, e succede spesso, se ne operi una descrizione in termini esclusivamente negativi. Esemplari tutti quei casi in cui la vaghezza linguistica viene accostata alla precisione, all’esattezza: la vaghezza ne risulta proprietà deteriore, una non-precisione da cui rifuggire, «una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza», per dirla con Calvino2. Ci occuperemo dunque anche di queste antinomie, con l’intento di mostrare come di antinomie vere e proprie, di questioni completamente diverse, in realtà non si tratti. 3.1. Vaghezza, indeterminatezza costitutiva, indeterminatezza semantica Più di una volta nel corso dei precedenti capitoli ci siamo imbattuti nella difficoltà legata al distinguere innanzitutto la vaghezza dalla cosiddetta «indeterminatezza». Si è visto anzi come non sia raro imbattersi in studi e autori che trattano va2 L’espressione è tratta da Esattezza, la terza delle Lezioni americane (1993), in cui in realtà Calvino salva e anzi esalta la vaghezza e l’indeterminatezza del linguaggio, perché essenziale alla sua esattezza e all’intrinseca duplicità del suo valore.

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ghezza e indeterminatezza – intendendola nel senso prevalente di «indeterminatezza semantica» – come termini sinonimi, riferibili in tutto e per tutto alla stessa proprietà. Non esistono d’altronde, almeno a nostra conoscenza, ricerche interamente o almeno in parte dedicate a descrivere in parallelo, se non a distinguere, le due proprietà. I pochi linguisti e semiologi che si occupano di indeterminatezza o la assimilano, come si diceva, alla vaghezza, o la descrivono per via negativa, definendola come il contrario di determinatezza e precisione, ma sempre in termini molto generici, mai occupandosi di analizzarne le eventuali manifestazioni. Frequentissimi poi quei casi in cui l’indeterminatezza manca addirittura di definizione. Solo per fare un po’ d’ordine, va innanzitutto precisato come l’indeterminatezza non sia una proprietà informe, e per questo non circoscrivibile entro i confini di una descrizione. L’informe si riferisce casomai a quello che potremmo definire l’oggetto «materiale», tangibile del suo primo manifestarsi: esso, lo si è visto, corrisponde alla massa – nel caso delle lingue storico-naturali di natura fonica e semantica – sulla cui base ciascun sistema di segni si va a definire e a caratterizzare come tale. In questo senso, l’indeterminatezza diviene la condizione di possibilità di ciascun codice, del suo determinarsi come tale. E così accade dunque anche per le semiotiche verbali, per la lingua e per la comprensione del linguaggio in genere, da cui l’indeterminatezza non risulta in alcun modo separabile: è dunque l’indeterminatezza che «prospetta il linguaggio, insieme delle determinazioni di volta in volta effettive, come totalità possibile»3. A questo tipo di indeLa frase è contenuta in un bel saggio di Emilio Garroni (1997, p. 60); la facciamo nostra, per quanto il filosofo assimili l’indeterminatezza alla sola «indeterminatezza semantica». 3

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terminatezza conveniamo di attribuire il nome di «indeterminatezza costitutiva» o «primigenia». Come discutevamo nel capitolo 2, l’indeterminatezza costitutiva o primigenia è una proprietà intrinseca alla lingua ed è unita indissolubilmente a un’altra fondamentale «forma» di indeterminatezza: quella legata agli utenti, in quanto creatori e fruitori del sistema lingua, utenti che con il loro agire semiotico trasmettono alla lingua proprio l’indeterminatezza e la variabilità che si sono dette caratterizzare il funzionamento delle loro menti e delle relative facoltà. L’indeterminatezza costitutiva va dunque distinta dalla cosiddetta «indeterminatezza semantica», che tra l’altro rappresenta la proprietà a cui più di frequente, l’abbiamo più volte notato, viene assimilata la vaghezza, senza considerare che, come l’indeterminatezza, anche la vaghezza non è una proprietà amorfa, ma i suoi effetti sono tali da misurarsi sui diversi, molteplici piani di cui una lingua si compone. La vaghezza dunque non è solo semantica, e per questo non può corrispondere, fino a venir confusa, all’indeterminatezza semantica, se questa è intesa come indeterminatezza del solo significato, come sua permanente manipolabilità e costante predisposizione al cambiamento. Si faccia dunque attenzione, perché rinchiudere la vaghezza entro i confini della semantica e dell’indeterminatezza caratteristica di questo piano potrebbe anzi dar adito alle velleità di una teoria semantica interessata solo alla denotazione e al valore di verità delle entità linguistiche. 3.2. Vaghezza e ambiguità Complice il senso comune, l’ambiguità rappresenta sicuramente la caratteristica con cui più di frequente viene equivo78

cata la vaghezza. Molteplici le ragioni di un tale equivoco, tra cui la principale ci sembra quella a cui accennavamo poco sopra, e cioè il guardare alla vaghezza come a un fenomeno che concerne il solo piano del significato. Non manca chi sostiene che di equivoco non si tratta, poiché distinguere tra vaghezza e ambiguità sarebbe in realtà molto meno agevole e chiaro di quanto ci potremmo aspettare: di ciò è facile rendersi conto solo considerando come il nostro linguaggio sia popolato da un gran numero di parole poco chiare, vaghe e ambigue allo stesso tempo4. Ben più numerosi sono comunque coloro che sono convinti che tra ambiguità e vaghezza vi siano differenze sostanziali, ma, come a volersi tenere lontano da un campo minato, dedicano il loro tempo a indagare i diversi modi in cui l’ambiguità si manifesta, senza occuparsi mai, se non per contrapposizione e quasi sempre, anche in questo caso, in termini negativi, di vaghezza, riproponendo in tal modo gli inciampi di un ragionamento molto influenzato dal senso comune. In generale, l’ambiguità è trattata in linguistica come una caratteristica semantica, di tipo lessicale, se riguarda i termini che possiedono più di un significato e le frasi che tali termini contengono (questo tipo di ambiguità, probabilmente già nota ai tempi di Aristotele, è anche detta «polisemia»); di tipo sintattico, se riguarda la struttura delle frasi che possono essere suddivise in sintagmi diversi e dare di conseguenza luogo a diverse interpretazioni del senso da esse trasmesso; di tipo propriamente semantico, come nel caso di frasi contenenti prono4 Sorensen (1997-2002) porta l’esempio della parola child, «bambino»: «Bambino è termine ambiguo tra ‘prole’ e ‘immaturo’. ‘Immaturo’ è termine vago perché esistono casi borderline di immaturo. Il tutto si complica perché la maggior parte dei vocaboli è anche generale: ‘bambino’ infatti include maschi e femmine».

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mi possessivi che ammettono diversi tipi di antecedenti (Chierchia 1997). Termini e frasi classificabili come ambigue fanno in ogni caso riferimento a situazioni del tutto determinate, definite, alle quali sarebbe al contempo possibile applicare (o non applicare) un determinato termine o una determinata espressione, che potrebbero in tal modo essere sia negati che ammessi. Tra i diversi significati di questi termini e di queste frasi esisterebbero dunque confini precisi, che spetterebbe all’utente identificare attraverso un’operazione di disambiguazione resa possibile da riferimenti contestuali. Come si è detto, chi si occupa di ambiguità spesso giunge a definire la vaghezza per via negativa: se l’ambiguità riguarda infatti termini e frasi che possiedono più di un significato, comunque definito, al contrario la vaghezza concerne termini e frasi il cui significato è definito e definibile solo in maniera approssimata. Da qui l’impossibilità per questo tipo di espressioni di far riferimento a situazioni completamente determinate, come di fornire, a loro volta, determinazioni5. È evidente come anche in questo caso la discriminazione avvenga su un piano esclusivamente semantico, ignorando la dimensione segnica e riducendo quella pragmatica al variare del contesto d’uso e alla diversità delle informazioni provenienti da esso. 3.3. Vaghezza e precisione Se il senso comune legato alla tradizione del pensiero occidentale condiziona in maniera pesante il nostro guardare a 5 Una simile immagine della vaghezza è largamente diffusa anche tra i seguaci dell’approccio logico-formale: Klir e Folger (1988, p. 138), ad esempio, guardano alla vaghezza come associata «alla difficoltà di operare nette o precise distinzioni nel mondo; cioè un certo dominio di interesse è vago se non può essere delimitato da confini netti».

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caratteristiche consimili alla vaghezza, e ci induce, nel migliore dei casi, a distinzioni fumose e poco convincenti, altrettanto può dirsi per caratteristiche e proprietà almeno in apparenza molto distanti da essa, prima tra tutte la precisione. In questo caso, infatti, il senso comune gioca un ruolo decisivo proprio in riferimento alla lingua, non solo nel porre barriere nette e confini definiti, ma anche nell’attribuire giudizi di valore: l’italiano si trova ad esempio infarcito di espressioni – «Sono rimasti sul vago»; «Non essere vago e dimmi come stanno davvero le cose!»; «Le sue risposte sono sempre vaghe» – che legano alla vaghezza un’immagine negativa, che ne condiziona pesantemente lo stesso significato. Il semplice uso dei termini «vaghezza» e «vago» costituisce infatti un potenziale problema per la comunicazione, e la vaghezza in quanto proprietà linguistica diviene un fenomeno da cui tenersi preventivamente alla larga. La situazione è a dir poco curiosa se solo si pensa a come lo spoglio da noi condotto su una decina di dizionari della lingua italiana – dalla prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612) in avanti – evidenzi come le accezioni dei termini «vaghezza» e «vago» oscillino in realtà tra positivo e negativo. «Vago» e «vaghezza», infatti, sono sì sinonimo di «incertezza», «confusione», «genericità», «indeterminatezza», ma anche di «desiderio», «voglia», «diletto», «bellezza», «leggiadria», e simili. A ciò è da aggiungere come anche il costante interesse di parte della nostra tradizione letteraria verso la vaghezza e il vago non si accompagni certo alle loro accezioni deteriori: per Leopardi, ad esempio, quanto più la parola è vaga, tanto più essa è poetica, capace di evocare cioè «idee vaste, e indefinite» (Zibaldone, 25 settembre 1821). Ed è stata già la lingua latina, sottolinea Leopardi, ap81

parentemente così esatta, regolata e definita, a essere in realtà popolata da parole e frasi che «per la loro stessa natura» sono di significato vago, di una vaghezza che da queste parole e da queste frasi non potrà mai essere separata. Non serve dunque poi tanto per insinuare qualche dubbio sulla presunta negatività della vaghezza. Ma a tal fine, la lezione più importante ci giunge dal nostro vivere quotidiano, da ciò a cui, lo abbiamo sottolineato molte volte nel corso di questo volume, una lingua storico-naturale, «concretizzazione» del linguaggio verbale, dà forma e identità. Qui a dominare è solo apparentemente la dicotomia tra vaghezza e precisione: il rispetto degli orari scandisce le nostre giornate, ma molte sono le volte in cui ci capita di arrivare in ritardo a un appuntamento; le case e i quartieri in cui viviamo non possono essere costruite senza rispettare i vincoli e i limiti architettonici che chi ci amministra ha stabilito per le nostre città, ma è frequente che ci si perda in una periferia sconosciuta anche alla mappa caricata sul navigatore della nostra auto; ed è forse solo un’illusione, e tale rimarrà, quella che ci spinge a progettare, costruire e usare macchine sempre più intelligenti, sistemi adattivi che si regolano da soli, perché far pensare le macchine come gli esseri umani è in realtà cosa molto diversa dal far giocare a calcio i robot. Si tratta dunque di un vivere a cui precisione e vaghezza appaiono pressoché connaturate, non come elementi separati, ma come forze, potenzialità dello stesso sistema. È proprio per questo che ci sentiamo legittimati a risolvere quella che sembrerebbe una dicotomia in una dialettica, e, soprattutto, a collocare tale dialettica nella lingua: è infatti a partire da qui che vaghezza e precisione assumono nuova, reciproca identità, di caratteristiche in continuo, incessante dialogo. 82

Conclusioni (e un’ipotesi applicativa)

Qui si chiudono le nostre osservazioni sulla vaghezza linguistica. E si chiudono senza una reale conclusione se non quella che ci ha portati prima a collocare la vaghezza nella lingua e, con essa, nell’ampio e articolato universo della semiosi umana, e poi a descriverne le manifestazioni e gli effetti sulle diverse dimensioni di cui ciascuna delle lingue storico-naturali si compone. Ne è risultata la fisionomia di una proprietà linguistica intrinseca, pervasiva del nostro linguaggio come del nostro pensiero, molto diversa da quella che una tradizione più o meno recente di studi linguistici e di semiotica ci aveva abituato a considerare semplice caratteristica semantica, del solo significato, difficilmente distinguibile da caratteristiche consimili, in netta contrapposizione con caratteristiche altre, fonte di potenziale pericolo per la stessa comprensione tra i parlanti. In realtà la vaghezza si è rivelata proprietà nettamente distinta da caratteristiche a cui ha rischiato e rischia tuttora di essere assimilata, ben poco in conflitto con determinatezza e precisione, e, soprattutto, proprietà molto utile dal punto di vista comunicativo. È proprio perché la lingua è vaga che siamo in grado di esprimerci in maniera economica e, soprattutto, precisa, senza dover perdere chissà quanto tempo e ricorrere a chissà quale tipo di strategia; e così, se eliminassimo tutti i concetti e tutte le parole in qualche 83

modo vaghe, molto probabilmente ciò che ci ritroveremmo in mano sarebbe una lingua molto povera, così povera da risultare del tutto inutile. Dunque, una volta di più, non si capisce perché in tanti si affannino, se non a eliminare la vaghezza dall’agire semiotico o a negare, addirittura, la sua natura linguistica, a diminuirne la portata, trattandola come una caratteristica scomoda, di cui è meglio non occuparsi. Il nostro auspicio, lo dicevamo all’inizio del volume, è invece del tutto diverso, perché la vaghezza linguistica ha ancora bisogno di essere studiata a fondo, sia nei suoi aspetti teorici sia nelle sue innumerevoli, imprevedibili applicative. Tra queste – visto che non siamo, solo per fare qualche esempio, né ingegneri che hanno bisogno di progettare lavatrici che selezionano il programma da sole o metropolitane che riducono praticamente a zero gli sbalzi di velocità, né sociologi assillati dalla ricerca di un modello con cui descrivere il disordinato sviluppo delle moderne società – ci soffermiamo brevemente su una di quelle che ha più direttamente a che fare con la lingua e con le sue ineludibili implicazioni sociali: la misurazione e la valutazione della competenza linguistico-comunicativa, ossia di quel continuum di saperi e di saper fare non solo linguistici proprio, seppur con differenze quantitative e qualitative, di ciascun parlante, sia esso nativo o nonnativo1. Misurare e valutare la competenza linguistico-comunicativa di un determinato parlante in una determinata lingua equivale infatti ad avere a che fare con un insieme di pratiche costantemente in bilico tra un ideale di precisione, del resto 1 Riprendiamo la definizione dal CEFR (2001), di certo il più noto e recente documento di politica linguistica del Consiglio d’Europa, a cui rimandiamo assieme all’utile commento di Vedovelli (2002b). Per il concetto di parlante «nativo», di cui nota è l’intrinseca criticità, si veda il fondamentale Davies (2003).

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tipico di ogni misurazione e comunque richiesto dalle ragioni del loro utilizzo2, e i modi e le forme della vaghezza, incarnata dall’oggetto della valutazione, l’abilità linguistica, che della lingua rappresenta sicuramente una copia, un modello imperfetto, ma non per questo inadeguato a riprodurne le più intrinseche proprietà3. Della vaghezza di tale oggetto abbiamo parlato diffusamente, e qui aggiungiamo come i suoi effetti vengano inesorabilmente amplificati proprio quando la lingua, «modellizzata» dall’abilità linguistica, si trova a essere misurata e valutata. Alla situazione di generale indeterminatezza legata e prodotta dalla vaghezza dell’oggetto misurato si vanno infatti a sommare l’errore e, più in generale, l’intrinseca incertezza tipica di queste pratiche, per le quali, lo si è appena detto, la precisione rimane dunque solo un ideale. Incerto e soggetto a errore è in primo luogo il test, lo strumento con cui si offre una misura dell’abilità linguistica (Davies 1990, p. 51), perché con esso si mirano a elicitare i comportamenti linguistici di un individuo e, più in generale, la sua capacità di semiosi (Barni 2005a). La sua imprecisione è dunque innanzitutto legata all’impossibilità di definire in modo netto i propri oggetti, e non viene del tutto eliminata neppure quando un test presenta un alto grado di «validità» e di «affiL’impatto sociale e le implicazioni etiche della misurazione e della valutazione della competenza linguistico-comunicativa rappresentano uno dei temi di più scottante dibattito tra quanti a livello internazionale si occupano di educazione linguistica. Un’ottima sintesi sull’argomento è fornita da Barni (2005b), e ad essa rimandiamo. 3 Vedovelli suggerisce di collocare l’oggetto della misurazione e della valutazione addirittura nello iato tra lingua, competenza in sé, sue manifestazioni: si tratta di un’immagine molto efficace, che ben richiama il senso e la portata della vaghezza all’interno delle pratiche di misurazione e di valutazione linguistica (comunicazione personale). 2

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dabilità»4. Un test, per essere valido – per costituire cioè un esempio paradigmatico delle abilità che sono oggetto di misurazione, misurando accuratamente ciò che si era proposto di misurare –, deve esplicitare il più possibile le caratteristiche dell’oggetto misurato. Ma ciò in pratica corrisponde alla messa in evidenza della varietà e della variabilità di tali caratteristiche, come anche dell’incertezza e della vaghezza connaturate all’abilità linguistica a cui esse si riferiscono. Lo stesso può dirsi dell’affidabilità, che di un test rappresenta «la sua consistenza, la sua stabilità: un test è affidabile se è in grado di fornire risultati uguali se somministrato o valutato in tempi differenti e da persone differenti» (ivi, p. 43). L’affidabilità dovrebbe dunque mirare a ridurre al minimo l’errore e perciò l’incertezza del test; ma essa è misurata con strumenti statistici, che, seppur basati nella maggior parte dei casi su un calcolo probabilistico, presentano una serie di caratteristiche, prima tra tutte quella di dover agire su dati omogenei, che entrano in crisi proprio in relazione all’oggetto vago lingua. In secondo luogo, incerti e soggetti a errore sono le scale e i punteggi attraverso cui la misurazione e la valutazione vengono operate ed espresse, e con essi il loro uso, tutto quanto cioè gestito dai soggetti addetti alla valutazione. Solo per accennare alle scale, già la loro natura, indipendentemente dal tipo e dagli scopi per cui vengono utilizzate, rende necessario che si stabiliscano dei tagli, dei limiti lungo il continuum di competenza. Indiscutibile è la loro incertezza, anche solo considerando come nella maggior parte dei casi i tagli rappresentino il risultato di una discutibile miscela tra dati empirici, mai La validità e l’affidabilità rappresentano i due requisiti fondamentali di un test; è anche per questo che la letteratura in materia, da Bachman (1990) a Lynch (2003), può dirsi a pieno titolo sterminata. 4

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neutri5, e procedure statistiche forse poco naturali, lo si è visto, per una disciplina che ha a che fare con oggetti vaghi. Infine, le pratiche di misurazione e valutazione della competenza linguistica vedono il loro ideale di precisione messo fortemente in crisi dalla presenza di soggetti gestori di tali pratiche, soggetti che, seguendo McNamara (2000), consideriamo «mediatori» di comportamenti semiotici e linguistici, come anche della creazione di significati e usi che di tali comportamenti sono propri. Riflettere sulla vaghezza ci ha condotti a osservare come la loro sola presenza sia sufficiente ad attribuire all’attività semiotica, e dunque alla stessa semiosi verbale, una naturale indeterminatezza. Quando poi i soggetti della semiosi, gli utenti di una lingua, divengono anche coloro che di essa sono chiamati a esprimere una misura e poi una valutazione, l’obiettivo della precisione e dell’oggettività si allontana e, seppur nella distanza da una valutazione informale e approssimativa, rivela finalmente la sua chimerica realtà, di ideale forse impossibile da perseguire. Ciò non implica che il destino della misurazione e della valutazione della competenza linguistico-comunicativa sia inesorabilmente segnato ma, come Alan Davies (1990, p. 51) ci raccomanda, prioritaria diviene la necessità di ricordare costantemente a noi stessi che il language testing non è una scienza esatta, e perciò non pretende di essere preciso. Anzi, il suo necessario e ammirevole tentativo di essere esplicito sulla lingua, sulla misura e sull’abilità rivela quanto vaghe siano queste aree.

5 Discutono bene questo aspetto North e Schneider, secondo cui «ogni analisi dei dati è condizionata dalle caratteristiche e dalle esperienze dei valutatori che con i loro giudizi in pratica producono questi stessi dati, come anche dagli apprendenti sottoposti a valutazione» (1998, p. 223).

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Quale diviene allora il senso di una simile applicativa in una discussione molto più generale sulla vaghezza? Il caso della misurazione e della valutazione della competenza, di pratiche a cui incertezza, variabilità e vaghezza appaiono intrinseche, di pratiche che proprio in virtù di questo si allontanano dalla precisione per perseguire i canoni dell’adeguatezza, dell’accettabilità e della negoziazione, può a nostro avviso possedere la forza critica del paradigma. La dialettica tra vaghezza e precisione, indeterminatezza e determinazione pervade le pratiche di misurazione e di valutazione della competenza linguistico-comunicativa, e con esse pervade il suo oggetto, la lingua, ciò che segna il quotidiano di ciascun locutore e, più in generale, la sua stessa vita. A esserne messa felicemente in crisi è la nostra identità di parlanti, di attori sociali: e forse è anche solo per questo che non dovremmo mai stancarci di discutere di vaghezza.

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99

Indici

Indice delle cose notevoli

Ambiguità, XIII, 13, 75 e n, 76, 78-80. Arbitrarietà – del segno, 35, 54 e n; – radicale, XIII, 59-61.

Lingua – come forma di semiosi, 3, 50; – come forma di vita e di identità, XI; – come sistema di segni, XI, 51n, 58, 63; – e lingue storico-naturali, XI, 30, 54, 58.

Categoria, 21 e n, 22n, 53. Competenza linguistico-comunicativa, 72n, 84; – sua misurazione e valutazione, 84-88. Comprensione, XII, 21, 25, 33, 39, 43-44. Concetto, XI, 5, 6n, 28. Continuum – di foni e di sensi, 55 e n, 60; – e vaghezza, 6. Convenzione, XII, 41-42. Creatività linguistica, 19n, 28-29, 31, 36; – come «non non-creatività», XIII, 39, 40 e n, 59, 63-66; – non regolare, 64; – regolare, 63.

Metaforicità, 12, 37n. Precisione, XIII; – e adeguatezza, accettabilità, negoziazione, 88; – esattezza e vaghezza, 26 e n, 80-82. Segno, 54, 57-59; – significante, 61; – significato, 32, 34, 38. Utente – come agente sociale, XIII, 57, 67; – ruolo dell’u. nella definizione della vaghezza delle lingue storiconaturali, 56-57; – ruolo dell’u. nella definizione del segno, 50-54, 56.

Indeterminatezza – costituitiva, naturale, XIII, 53, 55, 58, 75-78; – semantica, 30, 33, 39, 75-78.

Vaghezza – e sua misurazione, 14 e n, 15 sgg.; – pervasività della, XII, 22, 44-47, 49; – pragmatica e incertezza d’uso, XIII, 11, 38, 44, 67-74;

Linguaggio – come calcolo, 18-19; – come facoltà, XI; – diverso da un calcolo, 25-27.

103

– trattamento logico-formale della, XII, 4 e n, 5 e n.

– segnica, 37 e n, 38, 61-63; – semantica, XII, 23-24, 29, 66-67;

104

Indice dei nomi

Diogene Laerzio, 5. Dubois, D., 7n.

Aarts, B., 70n. Agostino, 24n. Albano Leoni, F., 55n, 61n. Aristotele, VII-IX, 5, 21n, 32 e n. Austin, J.L., 12 e n, 45n.

Eubulide, 5. Folger, T.A., 7n, 14n, 80n. Formigari, L., 8n, 47n. Fortuna, S., 32n, 40n, 52n, 59. Frege, G., IX, 6 e n, 18n, 28.

Bachman, L.F., 86n. Bagna, C., XV, 71, 72 e n, 73n. Baldwin, M., 9. Barnes, J., 5n. Barni, M., XV, 85 e n. Basile, G., 44n. Berthonneau, A.M., 71. Black, M., XII, 11-15, 44. Blumenberg, H., 5. Burnyeat, M.F., 5n. Bühler, K., XII, 28-31.

Gambarara, D., 70. Gargani, A., 18, 24. Garroni, E., 22n, 77n. Garroni, G., VII. Gensini, S., 58. Giuliani, F., 64n. Gola, E., 12n, 14n. Goutier, D., 65n. Graff, D., 7n. Graffi, G., 50n.

Cadiot, P., 71. Calvino, I., 76 e n. Casadei, F., 45, 50n. Channell, J., 70n. Chiari, I., 34n. Chierchia, G., 75n, 80. Cimatti, F., 52n. Contessi, R., 19. Coseriu, E., 62n. Crisari, M., 71. Croce, B., 64n.

Hale, B., 75n. Halpern, J.Y., 69n. Hjemslev, L.T., 62n. Humboldt, W. von, 38-39. Husserl, E., 29 e n. Johnston, P., 16n. Keefe, R., 6n, 7n. Klir, G.J., 7n, 14n, 80n. Kosko, B., 7n.

Davies, A., VI, 84n, 85, 87. De Mauro, T., XII, XV, 28, 31-34, 3640, 51n, 52n, 53-54, 55n, 56n, 5960, 62 e n, 64n, 66, 74.

Lakoff, G., 45-47, 75n. Le Goffic, P., 75n.

105

Sainsbury, R.M., 5n. Sangalli, A., 7n. Saussure, F. de, IX, 39, 51n, 54 e n, 57-58, 60, 61n, 62 e n, 63n. Scalise, S., 50n. Scheffler, I., 75n. Schneider, G., 87n. Simone, R., 50n, 56n. Smith, P., 7n. Sorensen, R., 7n, 79n. Suci, G.J., 14n.

Leibniz, G.W., VIII. Leopardi, G., IX, 81. Lewis, D.K., XII, 21n, 41-42. Löbner, S., 75n. Lo Piparo, F., 61n. Lynch, B.K., 86n. Machetti, S., V-X, 71, 73n. Marconi, D., 4n, 20, 23, 27. Marty, A., 47n. Maturi, P., 55n. McConnell-Ginet, S., 75n. McNamara, T., 87. Monk, R., 16n. Mortara Garavelli, B., 71. Moruzzi, S., 8n.

Tannenbaum, P.H., 14n. Terracini, B., 69n. Tye, M., 8n. Van Inwagen, P., 8n. Varzi, C.A., 7n, 8n. Vedovelli, M., XV, 62n, 64, 69n, 72n, 84n, 85n. Veronesi, M., 7n. Visalberghi, A., VI. Visioli, A., 7n.

North, B., 87n. Oliverio, A., 52n. Osgood, C.E., 14n. Pagliaro, A., 38. Parson, T., 8n. Peano, G., 6n. Peirce, C.S., IX, XII, 8 e n, 9-11, 36. Petrilli, R., 42n, 52n. Picardi, E., 5n. Pinkal, M., 75n. Prade, H., 7n. Prampolini, M., 3, 19n, 54n. Prieto, L.J., XII, 21n, 41-44.

Walton, D., 75n. Weinrich, U., 75n. Williamson, T., 5n, 6n, 7 e n, 8n. Wittgenstein, L., VII, IX, XII, 16-21, 22n, 23, 24n, 25, 38-39, 41, 44, 45n. Woodruff, T., 8n. Wright, C., 7n, 75n.

Rosch, E., 45. Russell, B., IX, 6, 7n, 12-13, 18n.

Zadeh, L., 7n. Zemach, E.M., 8n.

106

Indice del volume

Prefazione di Tullio De Mauro

V

Introduzione

XI

Ringraziamenti

XV

1. La vaghezza tra semiotica e linguistica

3

1.1. La vaghezza dei logici e dei filosofi: un fastidioso ostacolo, p. 4 - 1.2. Un concetto propriamente linguistico: Peirce, p. 8 - 1.3. Un probabile intoppo applicativo: Black, p. 11 - 1.4. Un approccio plurivoco: Wittgenstein, p. 16 - 1.5. Una caratteristica non solo semantica: Bühler e De Mauro, p. 28 - 1.6. La vaghezza tra «convenzione» e «comprensione»: Lewis e Prieto, p. 41 - 1.7. La pervasività della vaghezza, p. 44

2. Vaghezza, linguaggio, lingue storico-naturali

49

2.1. La generale e costitutiva indeterminatezza dei codici semiologici, p. 51 - 2.2. La vaghezza delle lingue storico-naturali, p. 57 - 2.3. Il polo dell’arbitrarietà radicale: la vaghezza come proprietà segnica, p. 59 - 2.4. Il polo della «non non-creatività»: la vaghezza come proprietà semantica e pragmatica, p. 63 - 2.4.1 Tra vaghezza e incertezza pragmatica: il caso delle preposizioni italiane, p. 70

3. I confini non-confini della vaghezza semiotica e linguistica 3.1. Vaghezza, indeterminatezza costitutiva, indeterminatezza semantica, p. 76 - 3.2. Vaghezza e ambiguità, p. 78 3.3. Vaghezza e precisione, p. 80

107

75

Conclusioni (e un’ipotesi applicativa)

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Bibliografia

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Indice delle cose notevoli

103

Indice dei nomi

105

Percorsi Laterza

ultimi volumi pubblicati

44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66.

Chiarini, R. (a cura di), Quale Europa dopo l’euro Pazé, V., Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea Maniscalco, M.L., Sociologia del denaro Favole, A., Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte Lo Piparo, F., Aristotele e il linguaggio Cappelli, O. (a cura di), Mezzo mondo in rete Di Giovanni, P., Filosofia e psicologia nel positivismo italiano Pecchinenda, G., Videogiochi e cultura della simulazione Sebesta, L., Alleati competitivi. Origini e sviluppo della cooperazione spaziale fra Europa e Stati Uniti Ruffini, F., Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé Donghi, P. (a cura di), Il governo della scienza Petrilli, R. - Piemontese, M.E. - Vedovelli, M. (a cura di), Tullio De Mauro. Una storia linguistica Cavalluzzi, R. (a cura di), L’anima e le cose. Naturalismo e antinaturalismo tra Otto e Novecento Bazzicalupo, L. - Esposito, R. (a cura di), Politica della vita. Sovranità, biopotere, diritti Baccelli, L., Critica del repubblicanesimo Battimelli, G. - Patera, V. (a cura di), L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. La ricerca italiana in fisica subatomica De Bartolomeis, F., Riflessioni intorno al sistema formativo Gusman, A., Antropologia dell’olfatto Antinucci, F., Comunicare nel museo De Marinis, M., Visioni della scena. Teatro e scrittura Alonge, R., Donne terrifiche e fragili maschi. La linea teatrale D’Annunzio-Pirandello Giusti, M., Pedagogia interculturale. Teorie, metodologia, laboratori Prospero, M., Politica e società globale

67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94.

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