Uno. Il battito invisibile


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Uno. Il battito invisibile

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Storie dì numeri

Storie

Giulio Busi,

dì numeri

Uno. Il battito invisibile

In preparazione: Marco Antonio Bazzocchi, Elena Loewenthal,

Cento. Un grattacielo di racconti

Sette. Le avventure di un simbolo

Giulio Busi

Uno Il battito invisibile

il Mulino

A Silvana, che sa il battito

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme dd­ le attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it ISBN

978-88-15-29491-3

Copyright© 2022 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tut­ ti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazio­ ne può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - dettronico, mecca­ nico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www .mulino.it/fotocopie Redazione e produzione: Edimill srl - www.edimill.it Finito di stampare nel dicembre 2021, presso la Tipografia Casma, Bologna. Stampato su carta Munken Print Cream di Arctic Paper, prodotta nel pieno rispetto del patrimonio boschivo.

Indice

giocatori di dadi

p.

7

l.

I

Il.

L'Uno che brucia

17

III.

L'Uno dei ribelli

31

IV.

L'Uno e i molti

47

v.

L'Uno smarrito

59

VI.

L'Uno tentatore

75

VII.

L'Uno degli amanti

91

VIII.

L'Uno nel silenzio

113

IX.

L'Uno della morte

125

5

X.

L'Uno non finito

Xl.

Una stella sarebbe meno sola

p.

6

141 149

L

I giocatori di dadi

171 ncora una fermata e poi dovrei J-l esserci . Due aerei , il treno da

Newcastle e un paio di bus , chissà per­ ché ho voluto venirci a tutti i costi, in quest' angolo sperduto della campagna inglese. Non b astava una fotografia, o magari una biografia ragionata del pit­ tore? Da quando ho visto il dipinto, sfogliando distrattamente un catalogo, i volti e i gesti dei giocatori mi assillano . Li guardo e riguardo di giorno e li sogno di notte, o almeno così mi sembra, anche se le immagini si dileguano prima che possa ricordarmele . Della candela s 'in­ travedono solo la sommità e la base. Se posso distinguerle, le figure che escono dal buio, è grazie al riverbero di quest'u7

Georges de La Tour, l giocatori di dadi, 1650-1651, Stockton-Tees, The Preston Hall Museum.

nica fiamma. Georges de La Tour era un maestro della luce, abilissimo nello sfruttare la fioca energia di esili luci­ gnoli. Buio , profili sfuggenti, penom ­ bre sono i suoi strumenti preferiti. Dei cinque personaggi che ha raccolto at­ torno al tavolo notturno, tre giocano e 8

due guardano giocare. Anzi no, l'uomo sulla sinistra non osserva nulla , si tiene in disparte e stringe la sua pipa con una mano . L ' altra, di mano , è stesa verso il basso , con nonchalance. Non starà fru­ gando nella borsa del sempliciotto da­ vanti a lui? Vatti a fidare dei distratti , soprattutto nella penombra di una bisca. La ragazza a destra, lei sì, scruta stupita, tesa, partecipe. I dadi sono stati appena gettati, hanno sfiorato il tavolo , si sono arrestati. Per un lungo attimo , ogni mo­ vimento è sospeso . I protagonisti del quadro contemplano i dadi , mentre io ne seguo gli sguardi. Sono immerso nella loro meraviglia, ne condivido il tempo sgranato. Tutti assieme, loro e io, siamo presi da un profondo stupore. Tre sono i dadi, ma solo due figure hanno le mani stese nel gesto del lancio . Il terzo gioca­ tore, quasi inghiottito dall'oscurità, pog­ gia le dita sul tavolo. Dev'essere stato il primo a lanciare, e il primo ad astrarsi. Il bus è arrivato a destinazione e mi lascia 9

davanti a una vasta, solida dimora otto­ centesca. Preston Hall nasce nel 1825 , per unire svago e affari. Al centro di un esteso latifondo, serve come casa di rap­ presentanza e cuore amministrativo della tenuta. Una sorta di castello fatato, con una grande serra in vetro e ferro, in cui, al posto delle fate e delle principesse , hanno abitato generazioni di solidi gen­ tlemen, bene attenti ai loro interessi. Da una settantina d ' anni, Preston Hall è stata trasformata in museo , e il quadro di La Tour è il pezzo più pregiato delle collezioni. Finalmente li vedo da vicino, i miei giocatori, quasi riesco a sfiorarli. La sala è vuota, nel museo non ci sono altri visi­ tatori. E nel mondo non ci sono altri lan­ ciatori di dadi simili a questi, immobili da secoli , nei loro pigmenti misteriosi, nelle forme allungate che li avvolgono . I dadi si distinguono fin nei minimi det­ tagli. Di colpo comprendo la ragione del mio viaggio , che finora mi era sembrato lO

un capriccio inutile. È stato per i dadi. Sono venuto per quei piccoli cubi get­ tati quattrocento anni fa. Li contemplo ammutolito , mentre rivolgono la loro superficie verso il lucore incerto della candela. I tre lanci hanno dato lo stesso risultato . Uno. Non potevo saperlo , poi­ ché nelle foto che avevo non si scorge­ vano così bene . Ma adesso ne sono si­ curo, e capisco anche perché la ragazza nel quadro sia sorpresa. Pensavo che fos­ sero i personaggi ad assillarmi e invece il magnete che mi ha portato fino nello Yorkshire era questo triplice Uno . Ho agito d ' impulso , seguendo una sensa­ zione confusa. Ma l'Uno, di cui mi sono messo in cerca, non è mai confuso . È lontano, questo sì, può sembrare irrag­ giungibile, eppure pulsa di energia, an­ che quando non riesco ad afferrarlo . I tre dadi immobili sull'Uno me ne danno la prima conferma . Della vita di Geor­ ges de La Tour si sa molto poco. Nasce nel 15 93 da una famiglia modesta, il pa11

dre è fornaio a Vic-sur- Seille, in Lorena. La sua ascesa sociale comincia quando sposa Diane Le Nerf, di famiglia nobile, che lo introduce in ambienti altolocati, fino a fargli ottenere il titolo di «peintre du roi»1• Un colpo di fortuna? Anche i miei tre Uno sono un colpo di fortuna. O meglio , lo saranno, fortunati, se riu­ scirò a scoprirne il segreto. Perché l'Uno moltiplicato per tre ? Perché ora, perché qui, perché stasera? Dopo aver las ciato il museo , h o preso i l pullman p e r Stockton-on-Tees. Dell'Hilton , caro e pretenzioso, neanche parlarne. Ho scelto un alberghetto mo­ desto , con l' aria invecchiata, e le pareti tra stanza e stanza troppo sottili. N ono­ stante la televisione dei vicini, mi sono addormentato subito . E poi è giunto il sogn o . I giocatori di de La Tour sono apparsi verso mattin a , quando le im ­ magini diventano vivide e si lasciano ricordare più facilmente . Sono dis p o ­ sti attorno al tavolo, nello stesso ordine 12

del dipinto . Solo la luce è diversa. An ­ cora più fioca, una notte violetta da cu1 emergono figure umide , vaporose. Mi sembrano di velluto , applicate sopra lo sfondo come una stoffa su una base ri­ gida. Non so come facciano a muoversi. Penso che dovrebbero restare immo ­ bili , e invece gettano i dadi e intanto ridono tra di loro . I lanci si ripetono, e l'atmosfera si fa sempre più eccitata. La ragazza sulla destra è molto bella, più alta di quanto non sia nel quadro , con la pelle scura. Sembra una mulatta, slan­ ciata e attraente. Anche lei scherza. «È creola» , sento dire da qualcuno . Anzi, sono io che lo dico, poiché nella stanza non c'è nessun altro . Mentre mi perdo a contemplare la donna, avverto un colpo secco , e poi un tintinnio, come di per­ line che rimbalzino sul marmo. I gioca­ tori non ridono più. Sono chinati a terra, e perlustrano a tentoni il pavimento di grosse doghe in legno. Non è marmo, os­ servo , e non sono perle. Qualcuno deve 13

aver lanciato i dadi con troppa forza . Sono rimbalzati sul tavolo, e da lì sono caduti. Passano parecchi minuti , forse un ' ora. Dev ' esserci una pendola , da qualche parte nell 'oscurità, poiché sento b attere prima due e poi tre rintocchi . Non è possibile che la ricerca duri tanto . La stanza pare piccol a , ma probabil­ mente si allunga nel buio per una super­ ficie molto più ampia di quanto io im ­ magini. La ragazza creola, che è rimasta in piedi accanto al tavolo , sembra impie­ trita. Vorrei che almeno lei mi parlasse, ma non emette suono, tutta presa nella sua nostalgia. I giocatori finalmente rie­ mergono dalla caccia ai dadi. N e hanno trovati solo due, dicono . Il terzo è per­ duto per sempre, inghiottito dalla tene­ bra. Mi sono addormentato pensando che i dadi fossero tre, e al risveglio mi ri­ trovo con due. Piccoli cubi immaginari, che non si possono prendere in mano , ma che scompaiono e riappaiono a pia­ cimento . A piacimento di chi? I tre dadi 14

che mi hanno stregato li ha dipinti il pit­ tore francese, i due che mi sono rimasti li ho sognati io. Li ho intravisti senza po­ terli stringere, poi sono svaniti alla luce del mattino . Anche i giocatori, assolto il loro compito , si sono dileguati, e così sono scomparsi l'osservatore che non os­ servava e la ragazza sorridente, bianca o mulatta che fosse. La colazione all'inglese è sontuosa e mi fa dimenticare la camera mal tenuta. E mentre mangio quello che non dovrei, cerco il bandolo dei primi giorni di viag­ gio . Ammiro chi si avvicina all'Uno at­ traverso l'immobilità, ma so che questo modo non mi appartiene . Oltre al carat­ tere, e a una certa incontenibile inquie­ tudine, il nomadismo ha probabilmente a che fare con una lunga acculturazione ebraica. O forse dovrei dire semitica, giacché abb raccia anche tutta la rivela­ zione coranica e certe tradizioni dei de­ serti vicino-orientali . Storie vecchie , si dirà , spunti libreschi. Ma anche l ' Uno 15

è vecchio-giovane, appena nato , subito smarrito e da ritrovare. Non è solo nei libri, altrimenti sarebbe una bella idea nostalgica e non il progetto di cui vado in cerca. L'Uno ha però a che fare con la memoria non meno di quanto c'entri con il futuro. Perché il deserto , e come mai il viaggio ? Per capirlo , proviamo a spostarci nello spazio , e scendere nel pozzo del tempo.

Note H . Tribout de Morembert, Georges de La Tour, son mz'lieu, sa famzlle, ses oeuvres, in «Gazette des Beaux-Arts», 83 , 1 974, pp. 2 12 -2 14 . In partico­ lare, su I giocatori di dadi, datato al 1 650- 1 65 1 e da alcuni considerato opera in collaborazione con il fi­ glio Estienne, vedi P. Rosenberg e F. Mace de l'Epi­ nay, Georges de La Tour. Vie et oeuvre, Fribourg, 1 973 , pp. 1 80- 1 8 1 ; G. Feigenbaum, in Georges de La Tour and his World, a cura di P. Conisbee, Washing­ ton-New Haven, 1 996, pp. 1 7 7 - 178; C. Hutchinson, in La Tour. L'Europa della luce, a cura di F. Cappel­ letti e T.C. Salomon, Milano, 2020, pp. 226-22 7 . 1

16

II.

]}Uno che brucia

lA. ron sappiamo se infuriasse impie­ J 'l tosa l 'estate o scorressero miti i

giorni d'inverno . Quello che ci racconta il libro dell'Esodo è un viaggio, anzi un transito di pastori: Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero , sacerdote di Madian . Ora, egli guidò il gregge oltre il deserto e ar­ rivò al monte di Oreh (Es 3, l).

Guidò il gregge oltre il deserto, leg­ giamo in italiano. L'ebraico è più preciso. Abar ha-midbar significa «verso il punto più lontano del deserto» . Mosè s ' inol­ tra lentamente nella steppa, la percorre, la perlustra una tappa dopo l'altra, una notte dopo la successiva . Bivacchi, ap17

provvigionamenti , fatiche , paure, ogni esperienza fa parte di un disegno provvi­ denziale. Ma ancor prima di essere voluto dal Dio d'Israele, questo muoversi con­ tinuo è consuetudine di vita. Il deserto è vasto come l'esistenza, e più di essa mi­ sterios o . Bisogna conoscerlo , per non morirvi, e bisogna saperlo patire. Non si capisce l'unicità divina, professata dall'e­ braismo , senza la marcia ininterrotta, che si espande in uno spazio simbolico vuoto di presenze umane e prodigo di so­ litudine. In cerca di pasture, con i sensi tesi a scoprire l' acqua, con la certezza che l'oasi, pur lontana, potrà essere rag­ giunta, Mosè s'inerpica verso il monte di Dio. Il gregge non è suo ma del suocero Ietro , sacerdote di Madian . Una strana relazione, questa tra il fuggiasco ebreo e il ricco madianita. Mosè scappa dalla ven­ detta egiziana, dopo aver compiuto un omicidio, e incontra al pozzo le sette fi­ glie di Ietro. Le difende dai pastori e, in segno di gratitudine, riceve in moglie Se18

fora, una delle ragazze. Al di là del tono aneddotico, la vicenda ci mostra lo stretto legame tra ebrei e madianiti, uniti dal de­ serto, dai commerci carovanieri, dalle dia­ tribe pastorali. E dalla religione. Cos'ha a che fare l'enigmatico sacerdozio di Ietro col Dio unico d'Israele? Non dimentica­ tevi di ciò che attende Mosè sull'Oreb . O meglio, di chi lo attende: E l'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco, di mezzo a un roveto . Egli guardò ed ecco, il roveto ardeva per il fuoco, ma il roveto non si consumava (Es 3, 2 )1•

Cosa vede , Mosè ? Qual è l' aspetto dell'angelo? Ha un volto, tratti umani, un corpo? O non è forse solo calore e stri­ dore di fiamma? Se il pastore-visionario si avvicina al cespuglio, non è per guar­ dare in viso chi gli appare. Ad attirarlo è il fuoco inestinguibile. Perché l'intrico dei rami brucia senza consumarsi? Voglio av­ vicinarmi, dice Mosè, in un sussurro : 19

E Mosè disse: «Voglio avvicinarmi e ve­ dere questo grande prodigio: per qual ra­ gione il roveto non si consuma» (Es 3, 3).

Non è l'Uno, bensì l'aura che lo pre­ cede e lo avvolge. L'Uno non è il fuoco, anche se sua è l ' energia che b rucia. L'Uno non è nel roveto , poiché nessun luogo lo potrebbe contenere , sebbene sia un luogo , quel luogo , che permette d'incontrarlo . È un paradosso a cui do­ vremo abituarci: il non-luogo può es­ sere trovato , il non-visibile può essere veduto . Uno dei temi di questo libro è la compresenza, il confluire di diversi stati dell 'essere in un bacino comune, come fiumi che scendano verso un lago profondo, nascosto , illibato . L ' ambien ­ tazione, situata nel punto più lontano del deserto, è quanto mai essenziale. Di che deserto si tratta, dove dobbiamo porre il monte Oreb , da che direzione vi è giunto il profeta ? Da più di due mil­ lenni, la tradizione ebraica e , via via , 20

quella cristiana, i teologi musulmani e le­ gioni di storici si sono interrogati sulla geografia del libro dell'Esodo . Le vesti­ gia della devozione , come il monastero del Sinai, sul Gabal Musa, esp rimono il bisogno di fissare le coordinate della rivelazione. Decine di tentativi d'identi­ ficazione, alcuni verosimili , parecchi di pura fantasia, non hanno risolto il pro­ blema del dove, giacché è evidentemente impossibile rinvenire una prova archeo­ logica o documentaria per una narra­ zione così astratta, e intenzionalmente fuorviante. Se uso qui la parola «fuor­ viante» è per significare l'esodo nell'e­ sodo . Mosè esce di via, supera i confini della sua vita di pastore. Si arresta, vede, si avvicina. L'Uno è fuor-viante, porta a interrompere il cammino , a trasgredire il sentiero, ad abbandonarlo, e ad avvici­ narsi. Che ci sia uno sconfinamento spa­ ziale è espresso chiaramente nel prosie­ guo del racconto:

21

Ma il Signore vide ch 'egli si avvicinava per osservare ; allora Dio lo chiamò di mezzo al roveto dicendo: «Mosè, Mosè». Questi rispose: «Eccomi» . Ed egli disse: «Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo dove sei è terra santa» (Es 3, 4-5).

Mosè vuole avvicinarsi . Il Signore glielo proibisce, lo mette in guardia, lo ferma . Sono due forze che si contendono il campo , s ' intreccian o , s ' oppongon o . Azione e reazione, umano e divino , vo­ lontà e inibizione della volontà. Penso ai due dadi che mi sono rimasti nel so­ gno a Stockton-on-Tees. Forse sono due, mi dico, perché l'Uno chiama e, mentre chiama, si nega. Ci attrae e ci respinge. Nella prosa biblica s'insinua una catena di trasformazioni : l'angelo del Signore gli apparve [ . . . ] il Signore vide [ . . . ] Dio lo chiamò [ . . . ] e gli disse. Mosè ha visto l' angelo , ma è il Signore che a sua volta l'osserva, lo chiama, gli dice. Dopo il se­ condo versetto, l' angelo si dissolve e al 22

suo posto troviamo lo sguardo diretto di Dio, il suo ordine, la sua parola. È solo una questione stilistica? Credo che in un passo così importante, vero crocevia dell'identità ebraica, ogni dettaglio , la più piccola asperità semantica abbiano una funzione rivelatrice, contengano un messaggio. L 'angelo appare, Dio vede. E stabilisce il confine invalicabile tra sacro e profano. Il terreno attorno al roveto è consacrato, e il cespuglio assolve la fun­ zione di un altare. Il fuoco che lo brucia equivale a quello che avvolge l'offerta sa­ crificale. Ma qui il sacrificio lambisce il Nome divino, lo arde senza consumarlo . L ' Uno b rucia in sacrificio , nel punto estremo del deserto, e il suo olocausto è il Nome: E Mosè disse a Dio : «Ecco , quando sarò giunto dai figli d ' Is raele e avrò detto loro : È il Dio dei vostri padri che mi ha mandato da voi , se essi mi domande­ ranno : Qual è il suo nome? che rispon­ derò loro ? » . E Dio disse a Mosè : «lo 23

sono colui che sono». Poi disse: «Così di­ rai ai figli d'Israele: l'Io-sono mi ha man­ dato da voi» .

A Mosè non basta che quello sia il Dio tribale, il nume del clan, il protettore dei padri: Poi soggiunse: «lo sono il Dio di tuo pa­ dre, il Dio di Abramo, il Dio di !sacco e il Dio di Giacobbe». Allora Mosè si coprì la faccia, perché aveva paura di guardare Dio (Es 3, 6).

Il profeta desidera conoscere il N ome da cui emana l ' energia della vision e . L'Uno ha u n Nome ? Per tutto questo li­ bro , al posto dei nomi divini ci farà da guida il numero cardinale, più astratto e universale. Ci servirà come icona dell'in­ conos cibile , limite non oltrep assabile , punto d ' avvio e meta. Fossimo anche noi pastori all'estremo della steppa, in ­ contrassimo un roveto inestinguibile , udissimo una voc e , allora potremmo 24

chiedere il Nome. Anzi dovremmo chie­ derlo, se volessimo proseguire il nostro cammino . Questa richiesta del Nome è centrale in molte esperienze mistiche. Ed è anche il legame, occulto, tra Mosè e suo suocero Ietro . Non sapremo forse mai dove situare l'Oreb biblico, ma ci è nota l'area in cui operavano i madianiti. E abbiamo alcune idee sulla loro reli­ gione. Non è solo una questione d'inte­ resse storico . Riflettere sulla religiosità dei nomadi e seminomadi del secondo e del primo millennio a.e.v. ci serve per penetrare, almeno un poco, la cortina che avvolge l'Uno , lo protegge dal no­ stro sguardo, lo rende impenetrabile alle nostre domande. Ai pochi turisti che si spingono nel settentrione dell ' Arabia Sa udit a , vin ­ cendo la paura del terrorismo islamico e quella , più recente, della pandemia, le guide locali mostrano con orgoglio il pozzo di Mosè e la sua tomba. Siamo nei paraggi dell'oasi di al-Bad, a ridosso 25

della riva orientale del golfo di Aqaba, nella regione dell' antica presenza madia­ nita. Più che una sola tribù, confinata in un ' area ristretta, doveva trattarsi di una confederazione di genti attive lungo la via dell'incenso, che dal meridione della penisola arabica risaliva sino al Medi­ terraneo. Carovanieri, pastori, minatori, predoni , i madianiti sono , secondo la Bibbia, vicini e parenti alla lontana de­ gli ebrei. Ancor prima del matrimonio di Mosè con Sefora, Abramo e la sua seconda moglie, Chetura, generano Ma­ dian , eponimo dell'omonima gens ( Gen 25 , 4). In che cosa credono, questi figli del deserto ? I ritrovamenti archeologici ci mostrano steli consacrate, alla cui base veniva versato in libazione il sangue dei sacrifici. Qua e là, s'intuisce il rifiuto di rapp resentazioni antropomorfe del di­ vino. Non doveva trattarsi di un divieto rigido , come verrà formulato dalla teo­ logia biblica del Deuteronomio , ma di un aniconismo pragmatico , di una pre26

ferenza per la rapp resentazione muta, minerale delle forze della vita e della morte. I betili antichissimi, che si ritro­ vano nel deserto, isolati o a coppie, con­ trastano eloquentemente con gli idoli antropomorfi , così diffusi tra le grandi civiltà sedentarie dell'Egitto e della Me­ sopotamia. Esiste una relazione tra in ­ visibilità di Dio e vita nomadica? Pos ­ siamo credere che gli dèi assumano volti e corpi nelle città, tra le folle urbane, e li perdano, questi volti e corpi, una volta esposti all'arida solitudine delle steppe? Si direbbe che le città della carne e del corpo si oppongano al deserto dell 'in­ corporeo , anche se le eccezioni e le com­ mistioni sono molte e significative. Non è un caso se un affascinante parallelo al roveto dell'Oreb ci è regalato da una tra­ dizione metropolitana, quella della feni­ eia Tiro . In un racconto di fondazione della città, conservato da Nonno di Pa­ nopoli, poeta di lingua greca della prima metà del V secolo, si parla di 27

due rocce erranti che la natura ha chiamato Ambrosie: fiorisce su di esse il germoglio di un olivo nato spontaneo con loro, ombelico della roccia immersa nel mare [ ] Dall' albero in fiamme, un fuoco spontaneo sprigiona scintille - stupore a vedersi ! -, e la vampa lambisce il germoglio, senza bruciarlo2• .

.

.

Se in Nonno la narrazione è carica di ulteriori dettagli descrittivi, un serpe che s ' avvinghia in spire e un ' aquila, le mo­ nete di Tiro del IV e V secolo , più com­ pendiarie, ci mostrano che il simbolismo dell'olivo, del fuoco perenne e delle due stele è legato al tempio locale del dio Melqare. Stele senza volto , fuoco senza com ­ bustione, un filo comune sembra legare il deserto nomadico , in cui Mosè s ' af­ fanna al servizio del madianita letro , e 28

il raffinato mondo fenicio. Intuiamo un nesso sacrale tra fuoco ed elemento ve­ getale. Solitamente divisi da un antago­ nismo mortale - la fiamma divora il le­ gno , incenerendolo - i due elementi si fondono armonicamente nella visione del roveto e nella leggenda fenicia. È un messaggio profondo, su cui vale la pena soffermarsi. Solo entro il recinto sacro , che Mosè non può calcare con i pro­ pri calzari , il fuoco divino alimenta sé stesso, si nutre dell'arbusto e, allo stesso tempo , lo tiene in vita. L'Uno che brucia senza consumarsi è una contraddizione, certo, ma proprio lo statuto d 'impossi­ bilità trasforma il fuoco perenne in un segno divino . Anzi, nel divino in sé. Per­ ché allora il Nome, se tutto è implicito nel sinolo di fiamma e rovo ? Perché ciò che non si vede - e Mosè sa di non po­ ter guardare il Dio-fiamma - può solo essere nominato . Nei culti aniconici del Vicino Oriente antico , le tradizioni sul Nome divino compensano l' assenza de29

gli idoli. Quella di Mosè è una sineste­ sia mistica. Iddio viene visto attraverso il suo Nome. «L'Io-sono mi ha mandato a voi», dirà il profeta per giustificare la propria missione. «L ' Uno che b rucia senza consumarsi, l ' Uno che ha Nome ma non immagine, l ' Uno che è all'e­ stremo del deserto , ecco colui che mi manda». Note 1 Questa e tutte le altre citazioni bibliche sono tratte da La Bibbia concordata, Milano, 1 968. 2 Nonno di Panopoli, Le dionisiache, vol . 4 , Canti 37-48, a cura di F . Tissoni, traduzione di M.

Maletta, Milano, 2020, pp. 78-79 (XL, 468-475 ) . 3 E. Will, A u sanctuaire d'Héraclès à Tyr: l'oli­ vier enflammé, !es stèles et les roches ambrosiennes, in «Berytus», 1 0 , 1 950- 1 95 1 , pp. 1 - 1 2 .

30

III.

L'Uno dei ribelli

Cono almeno due millenni e mezzo che J l'Uno filosofico ha trovato una sua

voce. N on che prima non esistesse, anzi. Non che mancassero lo stupore della vita o il pallore della morte, fatti apposta per ricordare, alle donne, agli uomini, alle fiere e persino alle piante vibranti, che dietro all'esperibile c 'è un orizzonte an­ cora più vasto, incontenibile, impercor­ ribile . La scelta dell'Uno è però frutto di una ribellione, della decisione consa­ pevole, e controcorrente, di chi volle la­ sciarsi alle spalle una tradizione religiosa divenuta ormai obsoleta, e scelse la via dell'astrazione, della sobrietà concettuale. Se usiamo to hen , «l'Uno», numero-non numero , intrattabile e austero , per al31

ludere all'inconoscibile che signoreggia sui nostri destini, è merito, non piccolo, d'uno sradicato , d'un apolide dalla vita vagabonda. Chi si ricorda oggi di Seno­ fane di Colofone? È a lui che Aristotele attribuisce l'onore d'essere il più antico filosofo dell'Uno. «Senofane, il primo di coloro che "unizzasse" (npwroç rovrwv év{craç) » , leggiamo nella Metafisica. «Unizzare» , verbo colto , strano e raro , traduce il termine aristotelico enizein , fare «Uno» di molti, ridurre all'unità e portarla, l'unità, innanzi a ogni ragione . Cosa è mai venuto in mente, a Senofane, di uscire dal solco sicuro della religione? Perché non chiamarlo «Zeus», siffatto principio universale, o gratificarlo con qualche altro appellativo del pantheon greco ? Senofane era uno spirito pole­ mico, e gli dèi impudichi e imbroglioni, quelli d'Omero e di Esiodo, non gli anda­ vano a genio. S 'è tramandato un suo giu­ dizio sprezzante, che dev'essergli costato parecchi nemici: 32

Ma i mortali credono che gli dèi nascano e che abbiano vesti, lingua e figura come loro . Ma se i buoi e i cavalli e anche i leoni avessero mani, e con le mani potessero dipingere e com­ piere le opere che compiono gli uomini, i cavalli dipingerebbero immagini di dèi simili a cavalli, e i buoi simili a buoi, e plasmerebbero i corpi degli dèi tali quali essi hanno, ciascuno secondo il loro stesso aspetto1•

·L'Uno nasce insomma come una pa­ nacea contro l'ipertrofia mitologica. To hen è puro segno, senza volto né colore, e per questo capace di contenere qualsiasi sfaccettatura del reale, e di superarla. Se­ nofane si aggira tra le isole e le angustie del Mediterraneo per novant'anni e più, grosso modo dal 580 al 470 a.e.v. Dall'A­ sia Minore, dov'è nato, si spinge in Sicilia, e giunge fino a Elea, la futura Velia dei romani, sulla costa della Campania:

33

Non è vero che fin dal principio gli dèi hanno svelato tutto ai mortali. Ma gli uomini stessi, cercando, col tempo trovano ciò che è meglio2•

Non c'è una rivelazione dell 'Uno, solo affioramenti , ipotesi . «Estendendo la sua considerazione all 'universo , [Seno­ fane] afferma che l'Uno è dio». A rife­ rirlo è ancora Aristotele, che in realtà ha poca simpatia per gli «unizzatori». Certo, l'Uno senofaneo non si nasconde ancora nella totale negazione. Agisce, sebbene non lo faccia alla maniera degli uomini: E Senofane, quasi immune da vanagloria, censore degli inganni di Omero, ecco, ha foggiato Dio diverso dagli uomini, a sé stesso uguale da ogni parte, immobile, impassibile, dell'intelligenza più intelligente3.

Mentre a Senofane spetta la priorità storica tra gli «unizzanti» , con Parme­ nide comincia davvero la carriera gno34

seologica dell'Uno. Nato a Elea e cre­ sciuto , si dice, alla scuola di Senofane, Parmenide riveste i panni dell' aristocra­ tico, fine pensatore e influente politico . L 'essere parmenideo è un tutto unico , senza compromessi e senza alternative . Questa unicità reca un frutto importan­ tissimo, la conoscibilità. Poiché è un «in­ tero continuo» , l 'essere è anche conti­ nuamente e interamente pensabile, men­ tre il non-essere non può essere nem­ meno pensato. Parmenide riesce a espri­ mere l'indagine filosofica in versi arcani, di grande forza espressiva: Perciò è tutto intero continuo: l'essere, infatti, si stringe con l'essere. Ma immobile, nei limiti di grandi legami è senza un principio e senza una fine, poiché nascita e morte sono state cacciate lontane e le respinse una vera certezza. [ . . ] Infatti, nient' altro o è o sarà all'infuori dell'essere, poiché la Sorte lo ha vincolato .

35

a essere un intero e immobile. Per esso saranno nomi tutte quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere: nascere e perire, essere e non-essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore4 •

Dato il prestigio di Parmenide, è comp ren sibile come Platone gl ' inti­ toli il dialogo omonimo, ove lo ritrae , assieme a Zenone , a colloquio col gio­ vane Socrate. Sebbene si tratti di un in­ contro storicamente improbabile, è qui, nel Parmenide, che Platone sviluppa in maniera approfondita la propria conce­ zione dell'Uno . O meglio, il dialogo gli dà modo di trattare il rapporto tra unità e molteplicità da diversi punti di vista, in una prova di virtuosismo dialettico che ha pochi paralleli nella storia della filo­ sofia. Dalla vertiginosa serie di ipotesi e di autoconfutazioni, affidate in gran p arte allo stesso Parmenide , esce un messaggio decisivo per la più tarda car36

riera filosofica dell'Uno . Indispensabile, ovunque presente e pure sempre nasco­ sto , l ' Uno resta inafferrabile alla com ­ prensione umana. La chiusa del dialogo ha accenti programmatici: «Diciamo [ . . . ] che, se l'Uno non è, niente è?». «Del tutto». «Diciamo dunque ciò e inoltre che, a quel che sembra, tanto se l'Uno è quanto se l'Uno non è, sia l'Uno sia gli Altri , da tutti i punti di vista, sono e non sono, appaiono e non appaiOno, e in rapporto a sé medesimi, e nel rapporto reciproco tra loro». «Verissimo»5• .

·

.

Là dove illogos, fatto per distinguere e definire , giunge ai propri limiti ed è costretto a dichiarare la resa, si apre lo sp azio della contemplazione , dell ' ina­ bissarsi oltre la parola. Il più coerente maestro della via p aradossale all ' Uno viene dall'Egitto romano. Plotino, che la tradizione vuole nato a Licopoli, nei pri­ missimi anni del III secolo, impersona le inquietudini, la ricchezza culturale e le 37

ibridazioni dell'età imperiale. Dopo aver frequentato ad Alessan dria d 'Egitto la scuola di Ammonio Sacca, si unisce alla spedizione di Gordiano III, diretta con­ tro i sasanidi di Persia. I primi successi sul campo non giovano all 'imperatore, che muore nel 244, sulle rive dell'Eu­ frate, probabilmente vittima di una con­ giura. Plotino si salva a stento e riesce a guadagnare Roma quando ha ormai qua­ rant ' anni . Più che dalla gloria militare , il suo viaggio in O riente sembra esser stato motivato dal desiderio di avvici­ narsi alla sapienza persiana e alle miste­ riose dottrine dei gimnosofisti indiani6• E in effetti, il bagaglio delle sue specu­ lazioni è venato d'influssi molteplici, in cui nuovo e vecchio , tradizione ellenica e tracce orientaleggianti si mes colano con risultati inattesF. La sua è una via alimentata dagli insegnamenti presocra­ tici e dal magistero platonico8• Ma è an­ che, quella plotiniana, una strada che si spinge verso un cielo ancora inesplorato, 38

nella dimensione dell'Uno inattingibile. Maestro spirituale , guida, asceta, così Plotino è stato visto , e spesso venerato nella cerchia dei suoi allievi. Il segreto del suo ascendente? L'Uno plotiniano è al di là del dicibile, ma non è per questo meno desiderabile . Deve pur esserci un modo , ragiona Plotino, per raggiungere il livello sovrumano e sovrapensabile, in cui il singolo si annulla nel tutto e, vice­ versa, l'influsso del tutto si fonde coll'in­ dividuo . Non si tratta di una via di com­ prensione ma di un salto di qualità onte­ logica, raggiungibile more contemplativo: Nella sfera superiore ogni singola realtà è tutte le realtà, ma non è così quaggiù, dove l'individuo non è tutte le realtà . An­ che l'uomo , in quanto essere parziale , è un individuo e non un tutto. Ma, se in una qualsiasi di quelle realtà parziali si trovasse un principio diverso, che non è a sua volta una parte, allora anche quella realtà, per effetto di questa parte diviene una totalità9•

39

«Se si trovasse un principio diverso». Non è necessaria una porta ampia oppure ornata per avvicinarsi a un simile «tra­ sformatore» di realtà. Basta un ingresso dimesso , l'importante è che, al di là, si apra un paesaggio nuovo, in cui anche il dettaglio più minuto sia grande quanto l'intero, tanto vasto da contenere il tutto. Nel capitolo che conclude questo libro , Una stella sarebbe meno sola, m i soffer­ merò sull'arazzo del divenire, tessuto di fili sottilissimi, quasi impalpabili, in cui ogni filamento è una vita, una tenue linea di giorni . Immaginatevi di osservare la trama attraverso una lente potentissima. Il filo invisibile apparirà come una fune smisurata, così immensa da non permet­ tervi di scorgere nient'altro . Qualcosa di simile avviene nello stadio più intenso della contemplazione plotiniana, quando l'anima è rapita nell'estasi dell'Uno: Ma forse, per uno che contempla nel san­ tuario del tempio, non si ha una vera e 40

propria visione, ma un modo diverso di vedere, un 'estasi, una semplificazione, un potenziamento di sé, un desiderio di con­ tatto e di quiete, un pensiero in cerca di unione. Però , non appena si guardi con altro atteggiamento, tutto ciò svanisce10•

Per uscire da sé, il filosofo deve per­ lustrare il reale in cerca di tracce11, di segni premonitori dell'Uno . Cangiante, variopinto, ingannevole, il divenire è tal­ volta paragonato a una danza o a un ' ar­ cana rappresentazione teatrale12 • C o ­ lui che si assume l ' onore , e l ' onere, di mantenere il coro e il resto della messa in scen a , con la propria liberalità , è detto in greco choregos. Ecco , l'Uno è, per Plotino, il choregos del cosmo , che tutto supporta gratuitamente, senza mai esaurire i propri doni. Intuirne il miste­ rioso influsso è opera d'intelligenza, di emozione e di ascesi. Raggiunto l'Uno, leggiamo nelle Enneadi plotiniane, il sa­ piente non avrà più desiderio né ambi­ zione alcuna: 41

Ma di quale altra bellezza avrebbe biso­ gno chi guarda colui che tutto sostiene (o xopryyEf �Èv &mxo1V) e, pur restando in sé stesso, dà senza ricevere nulla in con­ traccambio , tanto più se egli riuscisse a restare sospeso in questa visione, compia­ cendosi del fatto di potervisi assimilare?13

n teatro del molteplice non è insomma pura apparenza, da rigettare senza nem­ meno considerarlo. L 'impresario del di­ venire rimane occulto, nascosto al centro dell'essere, ma solo facendo tesoro dello spettacolo di cui egli è promotore è pos­ sibile penetrare il suo segreto. Questa via verso l'Uno, che passa per il dominio dei molti, viene battuta dagli allievi e dagli imitatori di Plotino. Anche i grandi esegeti rinascimentali dell'Uno ci parlano di una variegazione dell'essere che deve prima essere appresa e poi superata. «Colui che non può attrarre Pan, invano si avvicina a Proteo e alla natura», leggiamo nelle Con­ clusiones, pubblicate da Giovanni Pico della Mirandola nel 1486. Arrischiata 42

summa del sapere greco, della m1st1ca ebraica e della scolastica medievale, l'o­ pera pichiana mira alla concordia delle tra­ dizioni, da raggiungersi discutendo, com­ parando, intuendo. Perché Pan per primo e poi, in seguito, Proteo? Nella simbolo­ gia fiorentina di derivazione orfica, condi­ visa anche da Ficino e da Poliziano, Pan è il «principio datore di forma e ordine», mentre Proteo rappresenta «la passività materiale, lo stato caotico dei primordi»14• La via verso la sapienza passa dunque, per i brillanti corifei rinascimentali del neopla­ tonismo, attraverso la giostra dell'essere, fatta d'impulso ordinatore e di passività. Solo dopo aver compreso le astuzie di Pan e Proteo, ed essere sfuggito ai loro inganni, l'amante della divina sofia può sperare nel premio a cui ambisce. La meta che gli si schiude è la fonte perfetta, l'Uno che mai si svuota e da cui il tutto prorompe, senza suono e senza movimento. Nell'Uno, que­ sta è la promessa, anche i ribelli filosofici troveranno finalmente pace. 43

Note 1 Clemente Alessandrino, Stromata v. 1 00 [II 400, l St.] , in I presocratici, con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella rac­ colta di H. Diels e W. Kranz, a cura di G. Reale, Mi­ lano, 2 006, pp. 3 04-3 05 , nr. 2 1 . B. 1 4 - 1 5 . 2

I presocratici, cit . , p p . 3 04-305 , n r . 2 1 . B. 1 8 .

3 Ibidem, p p . 2 88-289, nr. 2 1 . B . 35 (Sesto, P.H. I 224 ) . 4 Ibidem, p p . 490-493 , n r . 2 1 . B . 8 , vv 25-4 1 . Che i vv 22-26 e 3 7 -3 8 contengano la prova parme­ nidea dell'unità dell'essere è sottolineato da G. Vla­ stos, Studies in Greek Philosophy, vol. l: The Preso­ cratics, Princeton, 1 993 , p. 277, nota 3 8 . .

.

' Platone, Parmenide, 166b-c (in I d . , Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, 2000, p. 4 1 6) . 6 Porfirio , Vita di Platino, in Id. Enneadi, a cura di di G. Faggin, Milano, 1 992 , p. 5 : «Da quel giorno frequentò assiduamente Ammonio e giunse a possedere la filosofia così bene che si propose di conoscere direttamente quella che si professa fra i persiani e quella che viene onorata presso gli indiani. E poiché l'imperatore Gordiano [III] si preparava allora a marciare contro i persiani egli si presentò all'accampamento e seguì l'esercito».

44

7 Cfr. J. Lacrosse, Plotinus, Porphyry and India: A Re-Examination, in Late Antique Epistemology: Other Ways to Truth, a cura di P. Vassilopoulou e S.R.L.

Clark, Basingstoke-New York, 2009, pp. 1 03 - 1 1 7 . 8 Per il debito plotiniano nei confronti d i Parme­ nide, naturalmente riletto attraverso l'interpretazione platonica, basti qui ricordare Platino, Enneadi, VI, 6, 1 8 (Id., Enneadi, a cura di G. Reale, traduzione di R. Radice, Milano, 2002 , p. 947 ) : «Parmenide ha giusta­ mente affermato che l'essere è "uno"; e la sua impas­ sibilità non dipende dall'assenza di un altro, ma dal fatto che è essere, e che solo a lui è concesso di essere per sé». 9

Ibidem, III, 2 , 14 (p. 276).

10

Ibidem, VI, 9, 1 1 (p. 1 073 ) .

11

Ibidem, V, 5 , 5 (p. 69 1 : «l'essere è la traccia

dell'Uno

[rò elvcxt ìXvoç év6ç]») .

12

Cfr., per es. , ibidem, III, 2 , 15 (p. 278: «Ora, invece, nell'universo c'è una vitalità esuberante, in grado di generare ogni cosa, sempre diversa nel suo modo di esprimersi, e capace di creare giochi di vita sempre affascinanti e di bell'aspetto. E le armi di quegli esseri mortali che sono gli uomini in guerra fra loro in file ordinate, simili ai giochi delle danze pirri­ che, rivelano che tutte le preoccupazioni umane sono giochi da ragazzi [ . . . ] E infatti, anche nei casi della

45

vita personale non è l'Anima interiore che piange e si lamenta, ma quella esteriore, niente più che l'ombra dell'uomo, la quale ambienta tutte le sue azioni sullo scenario dell'intera terra, dove spesso gli uomini alle­ stiscono i loro spettacoli») . Cfr. C. Maggi, Il conflitto

tra le parti sensibili: la meta/ora teatrale in Platino, Enneadi 3.2, come paradigma del rapporto OLON­ MEPH, in «Athenaeum», 97 , 2009, pp. 527 -542. 13 Ibidem, I, 6, 7 (p. 77, che traduce «il Principio che sostiene tutto il resto») . 14 R . Ebgi, Proteo, camaleonte, Pan, in G . Busi e R. Ebgi, Giovanni Pico della Mirandola. Mito, magia, Qabbalah, Torino, 2 0 1 4 , pp. 284-293 , p. 293 .

46

IV.

L'Uno e i molti

l'A. kn mi ricordo il suo nome, che J V pure deve avermi detto. Mi sono

però rimasti impressi i capelli rossastri, la carnagione chiara e i begli occhi verdi. A Cochin , nel cuore dell'India del sud, dove quasi tutti hanno un colorito scuro, il suo aspetto ashkenazita gli dava un 'a­ ria esotica. Un ragazzone alto e musco­ loso, venuto da Israele, come tanti, per trascorrere qualche mese «su di giri», dopo il servizio militare, e rimasto poi, mi raccontò, per più di due anni. Ave­ vamo scambiato poche frasi nella minu­ scola libreria accanto alla sinagoga, la più vecchia ancora in funzione nell'In­ dia intera1• Semplici convenevoli sull'e­ braismo del Kerala , simpatico lui , di 47

fretta io , oppresso dai mille impegni di un viaggio breve e frenetico. Mi ero già incamminato per la stradina, davanti al Tempio, quando mi sentii chiamare, con un «ehi» non molto cerimonioso. Era venerdì, e per la liturgia dell'entrata del sabato c'era bisogno di qualcuno che si unisse ai fedeli, altrimenti non avrebbero raggiunto il minyan , ovvero il quorum di maschi ebrei adulti necessario perché la preghiera sia ritualmente valida. Po­ tevo per favore rimanere ? Me lo chiese in ebraico , e io , nella stessa lingua, gli risposi che mi spiaceva, ma non ero in grado di aiutarlo . «Non sono ebreo , e anche se restassi, non cambierebbe nulla per il minyan». Il ragazzo mi guardò de­ luso, e probabilmente non mi credette. Pensò che avessi accampato una scusa, pur di svignarmela, e quasi non mi sa­ lutò. Ho ripensato spesso a questo episo­ dio . Confesso che, per un attimo , avevo avuto la tentazione di dire di sì, e di re­ stare; per cortesia e per non deludere il 48

mio interlocutore. Credo , alla fine , di aver preso la decisione migliore. Quella del minyan è una questione che tocca il cuore della prassi religiosa . Secondo la tradizione rabbinica, alla recitazione di alcune preghiere devono prendere parte almeno dieci oranti. Da quando è stata adottata una simile norma? Non lo sap­ piamo esattamente, anche perché la Bib­ bia non ci dice nulla in proposito2 • Ma il meccanismo simbolico è evidente. Con la distruzione del secondo Tempio, una parte fondamentale della ritualità ebraica ha dovuto trasformarsi. Dalla sacralità del Santuario si è passati alla consacra­ zione dei fedeli, riuniti assieme nel nome del Dio d'Israele. È su di loro che scende la protezione divina, o, come si dice in ebraico, «aleggia la Sekinah»3• Non più le mura del Tempio di Gerusalemme ma le persone, ecco il «luogo» della ma­ nifestazione dell'Uno nella diaspora, al­ meno fino alla ricostruzione dell'edificio in età messianica . Iddio accompagna il 49

proprio popolo in esilio , e lo fa in una relazione dinamica, di partecipazione e condivisione delle gioie e delle afflizioni collettive. L'Uno risiede tra i molti e, allo stesso tempo, i molti si/anno Uno, in cir­ costanze particolari, d'intensa devozione. Tutto questo non ce lo siamo detti, io e il ragazzo israeliano, davanti alla sinagoga di Cochin. Non ce n'era bisogno, perché il mz'nyan non è una formula teorica ma una prassi, un segnale identitarie in equi­ vocabile . Per di più, è un segno rivolto verso l'interno del gruppo. Chi non ab­ bia avuto un 'acculturazione ebraica, per quanto superficiale, di solito ignora la norma, ed è per tale motivo che il mio interlocutore probabilmente non mi cre­ dette, quando mostrai di conoscere esat­ tamente questo criterio di condivisione , ma dal dz' /uorz'. «Ciascun profeta, ogni santo ha la propria via, ma tutte condu­ cono all'Uno che essi pregano»4 • G alal al-din Rumi, l ' inarrivabile poeta per­ siano del XIII secolo, ha fissato la pro50

pria attenzione sul nesso che lega i molti all'Uno. Come si passa da quelli a que­ sto ? Non sono solo i mistici come Rumi a porsi la domanda. «Tutta quanta la filosofia non è altro che lo studio delle determinazioni dell' Unità» , scrive Be­ gel nelle Lezioni sulla filosofia della re­ ligion e5. Prodo , il grande maestro neo­ platonico, sostiene che si debba «pensare l'Uno senza pensarlo»6. Far p arte del minyan , sforzarsi di trovare il numero sufficiente di partecipanti, e poi unirsi al rito, non sono «pensieri» sull'Uno. Sono un modo di sentirsi parte di una colletti­ vità in cui gli individui si ri-uniscono, at­ traverso un processo di fusione regolato dalla tradizione. In quel venerdì indiano, la mia non-appartenenza mi avrebbe im­ pedito di entrare nella traslazione dei molti nell 'Uno . Non era il pensiero a farmi difetto. Piuttosto, sarebbe risultata inadatta l'azione, che richiedeva un par­ ticolare requisito. Siamo in un terreno a un tempo nuovo e antico , nel pieno di 51

quella che potremmo chiamare l ' antro ­ pologia dell'Uno. Quando è chiuso in sé stesso , l'Uno rimane inattingibile, non­ relazionale . Se lo cerchiamo invece n ei molti, ci viene chiesto di calarci nella re­ lazione, di allacciarci in vincoli, di strin­ gerei in catene di solidarietà. Pervenire all'Unico attraverso il mosaico dell ' esi­ stente è impresa che può essere tentata per la via della contemplazione. Ma che possiamo anche compiere, o almeno av­ viare , fondendoci in una pluralità . Più il vincolo è intimo, vissuto con tutto l'a­ nimo, più la trasformazione ci «prende». Per un 'ora, per un giorno, fosse anche per un solo minuto, siamo tutt'uno con coloro che fanno parte della nostra co­ munità. Perché il minyan fa riferimento al numero dieci? È una scelta arbitraria o vi si può scorgere un ' antica sapienza numerologica? Nella Scrittura ebraica, la decina più autorevole è senz' altro quella incisa sulle tavole trasmesse da Dio a Mosè sul Sinai . È da lì, dal mistero del 52

decalogo, che il simbolismo del numero si riflette nella tradizione mistica. Già nel Se/er ye$irah , redatto forse nel III-IV se­ colo , l'energia divina s'irraggia per tutto il cosmo attraverso dieci se/irot. Vale la pena di trascrivere la prosa di questo te­ sto arcano, così distante, per mentalità, dal nostro quotidian o . Il meccanismo segreto dei primordi viene espresso con immagini che ruotano attorno al con­ cetto di decina, e al legarne che questa ha con il Dio unico, promotore e animatore del cosmo: Dieci se/irot senza determinazione: dieci e non nove, dieci e non undici. Devi in­ tuire con sapienza, essere sapiente con intuito, esaminarle e indagarle. Devi co­ noscere , calcolare, immaginare, stabilire la cosa sul suo sostegno, porre il Creatore sul suo fondamento . La loro misura è dieci ma sono infinite. Dieci se/irot senza determinazione: frena il tuo cuore sì che non pensi, la tua bocca sì che non parli; e se il tuo cuore corre via, che ritorni là donde era partito. Ricordati che è detto: 53

E le /;Jayyot andavano e ritornavano l,

(Ez

14). Su questa cosa fu sancito il patto.

La loro misura è dieci ma sono infinite, la loro fine è fissata nel loro inizio e il loro inizio nella loro fine, come la fiamma è unita al tizzone. Devi sapere, calcolare, immaginare: il Signore è unico e C o ­ lui c h e forma è u n o e n o n ha secondo. E prima dell'uno, cosa conti ? Dieci sefi­ rot senza determinazione: la loro misura è dieci ma sono infinite . Profondità del principio e profondità del termine, pro­ fondità del bene e profondità del male, profondità dell ' altezza e profondità del sotto , profondità dell 'oriente e profon ­ dità dell 'occidente, p rofondità del set­ tentrione e profondità del meridione. E il Signore, unico Dio, re fidato, domina su tutto dalla sua santa residenza e per l'e­ ternità dell' eternità7•

Non conosciamo l ' ambiente da cm proviene l'opera, che forse è da ascriversi all' area di Tiberiade, nella parte setten­ trionale della terra d'Israele . I maestri che composero queste righe ci hanno na­ scosto la loro identità, e hanno preferito 54

trasmettere i loro insegnamenti in cerchie ristrette, passandoli di generazione in ge­ nerazione, per lo più in via orale. Al di là dei problemi storiografici, forse inso­ lubili, la struttura sefirotica esprime con grande efficacia il passaggio dall 'Uno al molteplice. N o n si tratta solo di uno schema concettuale. L 'energia divina si travasa dinamicamente attraverso dieci «azioni» , in perenne divenire , eppure collegate a un centro immutabile, ovvero al «re fidato [ . . ] per l'eternità dell'e­ ternità». Il dieci serve qui come segnale dell'unità nella molteplicità, e marca la proiezione dell'Uno sul piano dell'es­ sere in /ieri. «La loro misura è dieci ma sono infinite, la loro fine è fissata nel loro inizio e il loro inizio nella loro fine, come la fiamma è unita al tizzone». Tra tutti i modi di comprendere i diversi cammini mistici e di preghiera, come di­ rebbe Rumi, che legano i molti all'Uno, questa sefirotica è senz' altro una via in­ tuitiva, esoterica. Dal «molto» non si ot.

55

tiene l'Uno con una semplice sottrazione. Il «meno» mistico è immateriale, sfug­ gente, eppure ha una sua forza intuitiva. La fine delle se/irot è legata al loro inizio, e l'inizio alla fine, giacché entrambi, ini­ zio e fine, si congiungono, indicibilmente, all'Uno, sono nell'Uno. Per i saggi ebrei, questa unione, connaturata e imperscru­ tabile , è la stessa che lega la comunità d'Israele a Dio nel momento della litur­ gia. I dieci partecipanti al minyan sono, a loro modo, una replica del vincolo se­ firotico che unisce il molteplice a Dio. E lo sono non tanto per il ricorrere dello stesso simbolismo numerico ma per un più profondo parallelismo nel dare e ri­ cevere energia. Secondo il Se/er ye$irah , la decade sefirotica è il tramite con cui l'Uno s'irradia nel cosmo all' atto stesso della creazione, in una cascata d'influssi e di reazioni che giunge sino al livello della preghiera e della vita comunitaria. Lì, nella pratica religiosa, tra le mura della sinagoga, di tutte le sinagoghe della dia56

spora e della terra d'Israele, il minyan ac­ coglie e perpetua il medesimo irradiarsi, e ne infonde l'energia nella vita quotidiana.

Note 1 Dell ' antica sinagoga di Cochin (ora Kochi) , fondata nel 1568, ho scritto nel mio Lontano da Ge­ rusalemme. Cronache ebraiche contemporanee, To­ rino, 2003 , pp. 3 -9. 2 Sull'istituzione del minyan vedi bBerakot 6a: «Da dove si deduce che, se dieci [fedeli] pregano as­ sieme, la Sekinah è con loro? Giacché è detto: Dio si leva nel consesso divino» (Sal 82 , 1 ) . 3 Secondo bBerakot 7 a , Mosè chiese al Si­ gnore «che la Sekinah aleggiasse su Israele {Se-tiSreh Sekinah 'al Yifra'el) [ . . . ] mentre, allo stesso tempo, domandò che essa non si trovasse sopra le genti del mondo e anche questo gli venne accordato». Sul sim­ bolismo della Sekinah vedi G. Busi, Simboli del pen­ siero ebraico. Lessico ragionato in settanta voci, To­ rino, 1 999, pp. 344-352 .

Galal al-din Rumi, Masnavi, I, 3 098-3 099; Id. , The Masnavi: Book One, traduzione, introduzione e note di]. Mojaddedi, Oxford, 2004 , p. 1 89. 4

57

' G.W.F. Hegel, Werke, a cura di E. Molden­ hauer e K.M. Michel, Frankfurt a . M., 1 969, vol. XVI, p. 1 00: «Die ganze Philosophie ist nichts ande­ res als das Studium der Bestimmungen der Einheit» (cfr. , per una prospettiva storica della «metafisica dell'Uno», J. Halfwassen, Der Au/stieg zum Einen. Untersuchungen zu Platon und Plotin, II ed. , Leipzig, 2006 ) . 6 W. Beierwaltes, Pensare l'Uno. Studi sulla /ilo­ sofia neoplatonica e sulla storia dei suoi in/lussi, tra­

duzione di M.L. Gatti, introduzione di G. Reale, Mi­ lano, 1 99 1 , pp. 44 -45 (I ed. tedesca Frankfurt a.M. , 1 985 ) . 7 Sefer yefirah 4-7 , in Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII se­ colo, a cura di G. Busi ed E. Loewenthal, introdu­

zione di G. Busi, Torino, 1 995 , p. 3 8 . Su origine, da­ tazione e simbolismo del Sefer yefirah vedi G. Busi, La Qabbalah, Roma-Bari, 1 998, pp. 46-47 ; Id. , Qab­ balah visiva, Torino, 2 005 , pp. 3 6-44 .

58

v.

I;Uno smarrito



/C' lì per me, L sit à . Con

nel cortile dell' univer­ le sue forme tondeg­ gianti, i sedili di finta pelle, i grandi pa­ raurti cromati , la Hindustan Ambassa­ dor è stata per decenni la regina delle strade indiane. Ormai se ne vedono in circolazione pochissime, perse nel mare di anonime utilitarie giapponesi e co­ reane. Cosa di meglio di una vetusta Amb a s s ador per guadagnare la sede della S ocietà teosofica, sull' altra riva dell' Adyar? È un breve tragitto nostal­ gico . Vecchia la macchin a , e cadente il quartier generale dell' accolita di s a ­ pienti, visionari ed eccentrici , u n tempo così famosa e influente . Il parco è an­ cora splendido , disposto com 'è lungo le 59

rive del fiume, fitto di alberi, di radure e di vasche cariche di ninfee. Gli edifici della Società, con le loro forme ottocen­ tesche e gli intonaci da ridipinger�, stri­ dono con i grattacieli che s 'intravedono in lontananza, tutti vetro, cemento , ot­ timismo. S ceso dalla macchina, mi ac­ coglie un 'oasi di silenzio , incastonata nella metropoli di sette milioni d ' ab i­ tanti. Quando Chennai, la capitale dello stato indiano del Tamil Nadu, si chia­ mava ancora Madras ed era sottomessa al giogo coloniale inglese, questo luogo pulsava d'idee e d'illusioni. «There is no religion higher than truth», leggo su un architrave. «Non c ' è religione più alta della verità». La verità di chi? A guar­ dare i ritratti dei padri e delle madri fondatrici, nei loro austeri abiti di fine Ottocento, s ' intuis ce una verità colta, borghese , misuratamente trasgressiva . All 'India di oggi non sembra impor­ tare granché di queste voci fuori moda. È passato quasi un secolo e mezzo da 60

quando un manipolo di intellettu ali , militari , avventurieri europei e norda­ mericani si raccolse a Madras e in altre città indiane seguendo il richiamo dei Veda, del buddhismo, della tradizione millenaria degli illuminati e dei rinun ­ cianti. Cresciuta attorno al carisma sot­ tilmente equivoco di Helena Blavatsky, nobildonna di origine russa, la Società teosofica si proponeva , nientemeno , di far rivivere un 'autocoscienza sapienziale e magica libera dalle costrizioni delle religioni istituzionali , e in primo luogo dall ' egida cristian a . La giovane ed ele­ gante signora indiana che mi accoglie alla reception mi parla di opere benefi­ che e della scuola per i ragazzi del quar­ tiere , ringrazian domi anticip atamente per un ' eventuale donazione. Lo fa con cortesia, e con un velo di rassegn a ­ zione. Verit à , magia, sapienza univer­ sale, se sono ancora tra gli obiettivi, re­ stano sullo sfondo. Lei non vi accenna, 1 0 nemmeno, e in questo c ' intendiamo 61

al volo . Meglio non toccare argomenti così ambiziosi, non è più il tempo dei proclami mistici e delle liberazioni spi­ rituali a ogni costo . Le chiedo invece dei restauri, se mai siano previsti; e di cosa venga insegnato agli s colari . Quando mi congedo e risalgo sulla mia Ambas­ sador d ' annata, m ' immagino una fuga di porte , che si aprano l'una sull' altra . Qualcuno, parecchio tempo fa, ha pen­ sato che sulle rive dell' Adyar si potesse schiudere una di queste entrate sull'in­ visibile . Un cancello verso un nuovo stadio della coscienza, da attraversare b aldanzosi, di slancio . Se la porta s ' è m a i dischius a, gli anni devono averla ostruita, resa inaccessibile , nascosta alla vista. A noi, abitatori di un dubbioso presente, sono rimaste le ninfee, il silen­ zio, i muri scrostati, qualche busto dila­ vato dalle intemperie. Di ritorno alla foresteria, apro il cas­ setto del comodino, in cerca di un libro . La mia speranza viene ripagata. Non c'è 62

una Bibbia, come è d'uso nei paesi pro­ testanti, ma un esemplare rilegato della Bhagavad Gttii ( Il canto del beato ) . In alto scorre la traduzione inglese, al cen­ tro trova posto il commento e in basso, su una riga continua, fa bella mostra il testo sanscrito, nel ricamo fine dell'alfa­ beto devanagari. L'inizio lo so a memo­ ria, ma dopo qualche frase i miei ricordi si confondono e sono costretto ad affi­ darmi alla carta stampata. Quando l'ho udita per la prima volta, tanti anni fa , la recitazione della Gttii mi ha riempito d'emozione. È la sorpresa che ci prende quando sperimentiamo qualcosa d'inat­ teso, uno stupore che non tornerà mai più, istantaneo , avvolgente. Mi viene allora alla mente la catena interrotta di voci cantilenanti , addestrate nei secoli per far risuonare i versi difficili , a un tempo dolci e terribili, di questo monu­ mento solenne del mistero indian o . La frase che cerco dev'essere nel sesto capi­ tolo : 63

Chi vede me in tutte le cose e tutte le cose in me, per costui io non sono smar­ rito, per me egli non è smarrito1•

Ci sono tanti modi per avvicinarsi alla Gtta, innumerevoli commerrti , glo s s e , parafrasi . La via dello smarrimento m i è sempre sembrata quella p i ù diretta, aperta anche agli ignari come me. Sap­ piamo fin troppo bene cosa significhi smarrirei. Tutta la nostra esistenza ci ap­ pare a volte come un tortuoso labirinto , e l ' Uno, di cui avvertiamo la presenza, è lo smarrito per eccellenza. Sappiamo che esiste, pensiamo di udirne il suono lontano, e poi ci accorgiamo che a ogni passo ce ne allontaniamo, irrimediabil ­ mente. Per chi non sia familiare con l ' o ­ pera , dirò che la Gtta è inclus a nel Mahabharata , stermin ata epica com­ pletata entro il IV secolo, con materiali spesso assai più antichi. Affollato di lotte, b attaglie, intrighi e vendette , il testo 64

si acquieta, per settecento versi, in uno scambio tra Arjuna, eroe dalle molte vit­ torie, e il suo auriga. Kr�IJ.a non è certo un cocchiere qualunque, bensì Vi�IJ.u , il dio supremo, signore dell'essere e del non- essere , che sotto mentite spoglie si manifesta al guerriero che gli sta di fronte, per impartirgli un insegnamento decisivo. È l'ora che precede la battaglia. Il carro con i due protagonisti s ' arresta tra gli schieramenti pronti ad attaccarsi. Tutto è sospeso, per un'istante che dura quanto l'intero dialogo , il più profondo e influente della letteratura sanscrita . Arjuna scruta i volti dei contendenti, ri­ conosce amici , parenti, molti dei suoi cari. Sa che parecchi stanno per morire, e che lui stesso ucciderà e potrà a sua volta essere sconfitto e ucciso. Proprio quando è sul punto di rinunciare allo scontro , Kr�IJ.a interviene con durezza, accusandolo di vigliaccheria. Il dovere di un guerriero è combattere, sottrarsi alla pugna significherebbe coprirsi d'i65

gnominia. La risposta allo smarrimento di Arjuna non è l'inazione, che genera sbigottimento e alimenta il disordine, sociale e cosmico . Da Kna;ta viene una buona novella induista fatta d'impegno, di assolvimento dei propri doveri di ca­ sta e di ruolo . Il messaggio salvifico sta tutto nel modo dell' azione . Agire senza aspettarsi frutto alcuno , staccarsi dall!a­ zione nell'attimo stesso in cui la si com­ pie: questa la dottrina fondamentale della Gtta. Ogni momento della vita va offerto sull ' altare della gratuità. Arj una com­ batterà con tutto sé stesso, con valore e abnegazione, ma dovrà farlo «come se non». Come se non fosse lui il soggetto dell'agire, ma l'oggetto «agito», mosso da un 'azione impersonale, che s 'impossessa del suo corpo e della sua mente. Dovrà entrare in battaglia, offendere ed essere offeso senza aspettarsi alcunché in cam­ bio, senza nemmeno seguire il riverbero dei propri gesti: 66

Occupati solo dell' azione, non occuparti mai dei frutti. Non essere mai spinto ad agire dal frutto delle tue azioni, né, d ' al­ tro lato, abbi attaccamento per l ' in a ­ zione2 .

Imm aginatevi di muovervi al sole meridiano , mentre il vostro corpo non proietta la più piccola ombra. Rinunciate all'ombra durante il movimento, e rifiu­ tate il frutto delle azioni nel pieno del vostro agire . Solo in questo modo non sarete smarriti nella vita, e non smarri­ rete il dio che v'interpella. Kp;; l) a sa e spiega, Arjuna non sa e dubita. Il dia­ logo tra i due esprime la più completa asimmetria tra divino e umano . Ma è anche una professione di fede egualita­ ria. «Chi vede me in tutte le cose e tutte le cose in me», afferma il divino auriga. Inteso in maniera appropriata, si tratta di un perenne scambio di ruoli. Kn>1Ja è Arjuna, e Arjuna è Kr�1Ja, o può diven ­ tarlo, se solo accetta che il principio uni67

versale s'impossessi del suo agire, umano e imperfetto. Quello che ci era apparso come un incontro tra piani incompara­ bili dell 'essere si trasforma in un 'iden ­ tità che si specchia in sé stessa. Ma per poterla raggiungere , la consapevolezza dell 'identico , bisogna salire su una fra­ gile navicella: Anche se sei il più peccatore di tutti i pec­ catori, tuttavia, grazie alla barca della co­ noscenza, trapasserai ogni peccato. A quel modo che un fuoco bruciante ri­ duce in cenere il combustibile, o Arjuna, così il fuoco della conoscenza riduce in ce­ nere tutte le azionP .

Quella della Gzta è un 'utopia di lette­ rati, espressa in versi ben torniti. Kpg1a sfoggia un ' arte retorica raffinata ed è naturale che la comprensione gli serva da antidoto contro lo smarrimento . Di cosa è fatta la «barca della conoscenza» (jiianaplavenaiva) ? È il veicolo che per­ mette di conoscere gli opposti, vola sulle 68

onde del giorno e scivola tra i flutti della notte: Al venir del giorno, tutti gli esseri mani­ festi fuoriescono dall 'immanifesto : e pa­ rimenti al venire della notte si dissolvono quivi stesso, nel cosiddetto immanifesto . Questa moltitudine di esseri viene fuori di continuo e, venuta fuori, si dissolve nella notte, senza che possa nulla, e di nuovo ri­ nasce al venir del giorno4•

Nocchiero dell'imbarcazione è il vero sapiente, che comprende il ciclo cosmico in cui il giorno della creazione si alterna con la notte della dissoluzione. A inter­ valli regolari, gli dèi s ' avvicendano per portare gli esseri alla luce e poi dissol­ verli. Ma sarebbe un errore pensare che da un simile processo nascano creature sempre diverse . Il cosmo è retto dalla legge dell 'eterno ritorno , e l ' imp res ­ sione nel cambiamento è causata dal tempo che, con le sue malie, muta la du­ rata delle cose5 . In realtà, le componenti 69

cosmiche sono sempre le medesime e app aiono e scompaion o , come b o c ­ cioli d'offuscato fulgore. Per sfuggire a questo perenne ciclo di creazione e di­ struzione, che produce un dolore senza fine, il sapiente desidera un 'unica cosa: abbandonare la navigazione, dirigere il timone oltre il nulla, liberarsi dal giogo delle reincarnazioni . Il Dio di Mosè, nella teofania del roveto, promette la li­ berazione del popolo ebraico dalla schia­ vitù e la sua salita in un paese buono e spazioso (Es 3 , 8). Il dio della Gzta fa al saggio una promessa di tutt'altro tenore . Per colui che s i distacchi dai frutti delle proprie azioni, si purifichi e respinga la dualità, è in serbo l'uscita dal dolore , l' affrancamento dalla legge del karman , che costringe gli uomini a trasmigrare di esistenza in esistenza, a seconda dei loro meriti e demeriti . Nel sogno indui­ sta, l'ultima parola non spetta certo alla politica o all' appartenenza comunitaria. Non c'è un «noi» che si distingua da un 70

«loro» e se ne separi. Il distacco finale, annunciato dalla Grta, è individuale e definitivo , un tutto o niente, anzi, tutto e niente, poiché liberarsi dal karman si­ gnifica oltrepassare la soglia delle diffe­ renze, immergersi per sempre nell'indi­ stinto . Lì, oltre la barriera del divenire , nemmeno l'eterno ritorno può incutere sp avento , qualsiasi nodo si s cioglie . Tutto è quiete, indifferenziata, intangi­ bile, inappellabile. C ' è un altro verso che mi preme di trovare prima di riporre la Grta nel cas­ setto del comodino , a disposizione del prossimo ospite della foresteria. Per con­ vincere Arjuna del proprio potere senza confini, il divino auriga gli rivela i mille volti con cui appare nel creato . Potenza, emozion e , terrore , non c'è manifesta­ zione del reale in cui il dio non sia pro­ tagonista. Poco importa se si tratti del buio più profondo o della luce più acce­ cante, dell'empietà più efferata o di una 71

soavissima bontà. Tutto è Vi�IJ.u, e Vi�IJ.u è in tutto. Eccolo, il verso che cercavo : Io sono il gioco dei dadi degli inganna­ tori, dei gloriosi sono la gloria, io sono la vittoria e il fermo proposito, io sono il co­ raggio dei bravi6.

Io sono il gioco dei dadi. Non dadi qualsiasi. Perché il dio della Gtta si mo­ stri , è necessario che il gioco sia equi­ voco, ingannatore . La realtà è un velo che fluttua e si dissolve, una cortina in­ gannevole. Quante cose non sapevo , quando ho veduto per la prima volta il dipinto dei Giocatori di dadi. Pensavo di averne sciolto il mistero nella campa­ gna inglese, tra realtà vissuta e sognata, ed eccoli di nuovo , i dadi, nel raccogli­ mento dell'India del sud. Questi indiani sono dadi ingannevoli , lanciati da un giocatore divino . L ' Uno ha gettato la sua sorte, e mi ha avvisato : «lo inganno, sempre. A te capire perché».

72

Note 1 Bhagavad Gztii VI, 3 1 ; cfr. Il canto del beato (Bhagavadgztii), a cura di R. Gnoli, Torino, 1 976, p . 135, che traduce «perduto» anziché «smarrito». 2

Ibidem, II, 48 (p. 70) .

3

Ibidem, IV, 3 6-37 (p. 1 13 ) .

4

Ibidem, VIII, 1 8 - 1 9 (p. 1 65 ) .

5 Cfr. il commento di Abhinavagupta, a d locum (ibidem) : «Chi ha buona veduta, vede che anche

Brahma ha un giorno e una notte, corrispondenti ai momenti della nascita e della dissoluzione. Tutte queste divinità, infatti, si risvegliano ogni giorno e, svegliatesi, si dànno a eseguire le loro varie attività. Ogni notte, poi, cessano dall ' agire e sussistono in forma di pura potenza. In tal modo, sia nella crea­ zione, sia nella dissoluzione, c'è un eterno ritorno. Gli esseri emessi non sono altri da quelli di prima, ma sempre gli stessi. Il tempo, da parte sua, imparti­ sce una diversità costituita dall ' idea di una maggiore o minore durata. Tali caratteristiche appartengono anche a Prajapati, ecc. Resta dunque stabilito che anch'essi son soggetti a nascita e morte». 6

Ibidem, X, 136 (p. 1 87 ) .

73

VI.

L' Uno tentatore

llJ aolo h a ..l- è molto

girato mezzo mondo , colto e piuttosto snob . Quando gli propongo di andare assieme alla /iesta de San t An toni, mi guarda con un misto di sorpresa e fastidio . Fiuta l'imbroglio, la messa in scena a uso dei turisti, nella peggiore delle ipotesi per­ sino una processione in costume. In un altro contesto, avrebbe sicuramente ra­ gione lui . Ma qui , sulla punta estrema dell'isola, si sbaglia. Questi paesini li co­ nosco a menadito , nella stagione in cui sono affollati sotto la canicola e quando invece app aiono vuoti , spazzati dalla tramontana. Tra luglio e agosto , di turi­ sti ce ne sono tanti, è vero . Eppure, al­ cuni luoghi nmangono impenetrabili 75

persino per le più agguerrite famigliole della Ruhr o per le spudorate torme di ragazzotti britannici . Piazze e strade hanno una geometria variabile, si aprono e si chiudono come fondali di teatro , diventano più grandi o si rimpiccioli­ scono a seconda delle ore del giorno e delle date del calendario . I maiorchini sono maestri nell ' addobbare le vie con grandi festoni di carta, appesi a certi fili oscillanti, fatti apposta per scher­ mare la loro intimità isolan a . Quando si celebra la /iesta bianca, per esempio , la piazza del municipio diventa invisi­ bile dalla via principale, nascosta com'è dalle tende provvisorie, che ondeggiano al vento . Per qualche ragione miste­ riosa, i paramenti attutiscono persino i rumori più assordanti. Alla /iesta bianca si può b allare fino all' alba, mentre il re­ sto del paese è immerso nel suo solito silenzio stregato , e il castello sul colle sogna immobile le antiche carneficine della reconquista . Paolo è pur sempre 76

un architetto , e alla fine si lascia con ­ vincere dalla surreale urbanistica della part /orana, come si chiama in catalano tutto quello , ed è moltissimo , che de­ borda dall'amata-odiata capitale, Palma di Maiorca. La /iesta de Sant Antoni ha davvero poco a che fare con il turismo di massa. È un antico rito popolare, che si celebra il 1 6 e 17 gennaio e mette in scena una sarabanda di demoni, in onore di sant'Antonio abate. Pochi santi hanno sollevato nei secoli altrettanta emozione popolare, da un lato all' altro del Medi­ terraneo cristiano . E dire che Antonio , piissimo anacoreta , aveva fatto di tutto per starsene in pace e solitudine, nella Teb aide del III secolo . Ma come ben sanno gli amanti dell 'Uno , più ci si al­ lontana dal mondo e meno il mondo si allontana da noi . Femmine voluttuose, demoni importuni, desideri senza freni, al povero Antonio ne sono capitate di tutti i colori , una tentazione dopo l ' al ­ tra. La sua vita, redatta in greco nel 357 77

da sant' Anastasio e subito volta in la­ tino, è un vero romanzo di trasgressioni vagheggiate, sfiorate , quasi consumate, Dio ne scampi e liberi. Ma la trovata più geniale, trasmessa dalle leggende medie­ vali e inscenata nelle rappresentazioni di popolo , è la discesa di Antonio agli in­ feri, in cerca del fuoco . Anziché portare con sé una cetra, come Orfeo, l'eremita parte in compagnia di un fido maialino, che con irruenza ben poco pia mette a soqquadro l' aldilà e viene scacciato dai demoni , permettendo al suo padrone di tornarsene con un bastone fiammeg­ giante. Di feste di Sant 'Antonio ce ne sono a bizzeffe anche in Italia, ma que­ sta a cui siamo diretti - lo ripeto al mio scettico accompagnatore - è d ' un tipo particolare. L 'appuntamento è alle 3 del pomeriggio , davanti al grande portone verde di un ' autorimessa, in una strada un po' fuori mano . Luogo e data sono stati trasmessi di bocca in bocca, e di stranieri, con mio sollievo, non c'è om78

bra. Quando si spalancano i battenti del garage, tra spettatori festanti e con il faz­ zoletto rosso al collo , escono due baldi diavoli, con tanto di corna, maschere e parrucconi. Nero l'uno, rosso-arancione l ' altro , essi brandiscono un bastone a testa e se le danno di santa ragione, al ritmo d ' una canzone che, con martel­ lante monotonia, li accompagnerà per tutto il tragitto . Paolo mi ha concesso una tregua, ma capisco che si tratta solo di un breve interludio. Di sicuro non ha intenzione di seguire tutta la rappresen­ tazione. Il tempo di arrivare alla chiesa p arrocchiale di S ant Bartolomeu , ed ecco la cerimonia che volevo mostrare all ' amico . Dopo l' ennesimo scambio di colpi, i due demoni, che sono in realtà giovanotti ben piantati e focosi, si diri­ gono l ' uno verso l ' altro , procedendo da direzioni opposte. Nel punto in cui s ' incontrano, è stesa una grande croce verde, intrecciata di rametti di mirto. I diavoli si piegano verso terra, raccolgono 79

bracciate di mirto e rompono la croce in mille pezzi, gettando i rami all'indie­ tro, sulla folla eccitatissima. «Sa creu de murta», «la croce di mirto» è distrutta, e i distruttori sono trionfanti, felici, ac­ clamati. Anche noi, spettatori semiclan­ destini, ci godiamo questo lungo istante di liberazione, in cui tutti hanno potuto ammirare le forze della trasgressione all'opera. La croce è annientata, viva la croce ! Due demoni hanno avuto ragione di una croce. La scelta di usare come pal­ coscenico il sagrato della chiesa non è certo casuale, ma rafforza il significato dell ' azione simbolica. L ' emblema cri­ stiano smembrato con furia, dai bravi diavoli maiorchini, è un segno di ever­ sione e d 'irriverenza. Gli amici isolani mi dicono che la «rompuda» della croce si tiene solo qui , a Capdepera, sul pro­ montorio che si affaccia sul canale di Menorca . Ancora qualche anno fa , mi assicuran o , la croce non era di mirto 80

ma di pietre aguzze, e i «dimones» non si limitavano a ballare sul sagrato. En ­ travano nel bel mezzo della chiesa, per inscenarvi la loro danza, irrispettosa e sguaiata. Qualcuno, più pudico e pru­ dente degli altri , ha poi pensato bene di smussare un po' le corna al diavolo. N ella sua forma odiern a , la messa in scena appare controllata, attutita . È il meccanismo ben noto della deroga prov­ visoria all' ordine sociale , che serve per confermare e perpetuare i rapporti abi­ tuali di potere . Tutto cambia, per un giorno o per un intero carnevale, affin­ ché nulla cambi. Sfogata l'energia demo­ nica, la religione dominante e la morale consueta torneranno a regolare la vita comunitaria, meglio e più di prima . Ma non sempre la tentazione può essere im­ brigliata così facilmente. C'è un pozzo nero, proprio al centro dell' essere. Un abisso di acque fredde , in cui la nostra povera navicella rischia d ' essere risucchiata, e di perire senza 81

soccorso. Fossimo solo noi, fragili crea­ ture, a dover temere il gorgo della tenta­ zione. Tra i flutti del male, anche un dio può perdersi. E chi ci assicura che l'Uno ne sia indenne ? Una croce di mirto, stesa a terra su una piazza del Mediterraneo , cos 'ha mai a che fare con il mistero della trasgression e ? La risposta è semplice. Nulla, o pochissim o , quando restiamo alla superficie della realtà . Molto , o tutto, se ci avventuriamo verso il fondo delle contraddizioni, se entriamo nello sp azio sacro delle compresen ze. Ab ­ biamo chiamato Uno il luogo in cui es­ sere e non essere si toccan o . La Gtta ci ha insegnato a considerarlo unione d' azione e inazione, d'inganno e virtù. Non meno insondabile è la complessità dell 'Uno nella tradizione ebraica. Ab ­ biamo compreso come il Dio del roveto sia fiamma che brucia, libera e punisce. In un passo biblico sorprendente, e po­ chissimo commentato perché duro, scan­ daloso , leggiamo: Io formo la luce, creo le 82

tenebre, opero il bene, creo il male: sono il Signore che opero tutto questo (Is 45 , 7 ) . Come una spina, che s'incunei nelle nostre coscienze, il Dio che crea il male, e non lo nasconde, contraddice di colpo una lunghissima consuetudine consola­ toria. Nella grande Res publica dell' e ­ sistente, il male è trattato quasi sempre come un apolide senza diritto di cittadi­ nanza. Tutt ' al più , gli si riconosce uno striminzito e sempre revocabile per­ messo d' asilo . «Assenza di bene» , ecco il massimo statuto a cui può aspirare. Pri­ vazione, mancanza, vacuità - del male potete pensare quello che volete, potete toccarlo, patirlo, fuggirlo ma dovrete co­ munque evitare di fissarlo negli occhi. Se il fuoco del roveto brucia e non divora, preferiamo credere che il male divori ma non esista. Brucia, eccome, ma è acceso su braci non sue, o perlomeno così vor­ remmo. Ecco però , nel bel mezzo della S crittura , due versi ebraici che met ­ tono a soqquadro ogni certezza. Mentre 83

la luce viene formata e il bene operato, per l e tenebre e il male Dio riserva l'a­ zione più nobile , quella che pertiene a lui solo . Che lo debba creare, significa che, senza il suo intervento, il male non sarebbe neppure pensabile. Quando ca­ diamo nel gorgo di tenebra , è perché Dio lo vuole. È vero che della tentazione viene solitamente incaricato un demo­ nio, più o meno efficiente. Il Tentatore supremo è però colui che risiede nella notte primordiale, nel luogo che con ­ tiene ciascun luogo . Non solo l'Uno al­ berga in questa tenebra, ma è esso stesso il nero più opaco, è abisso della negati­ vità non meno di quanto sia luminoso fulgore. Le tentazioni di Gesù , narrate dai Vangeli, sono uno degli esempi più influenti dell'irrompere della distruzione nel cuore di questo mondo . Il dialogo evangelico tra il Figlio di Dio e il demo­ nio vale , da quasi due millenni, come modello per una ricchissima letteratura della seduzione: 84

Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo e, dopo avere digiunato quaranta giorni e quaranta notti, infine ebbe fame. Av­ vicinatoglisi il Tentatore, gli disse : «Se sei Figlio di Dio , di' che queste pietre diventino p ani» . Ma egli rispondendo disse: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Allora il diavolo lo con­ dusse nella città santa, lo pose sul pinna­ colo del Tempio e gli disse: «Se sei Figlio di Dio , gettati giù , poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini per te, essi ti por­ teranno sulle mani , affinché il tuo piede non abbia a inciampare in alcuna pietra». Gesù gli rispose: «Sta anche scritto : N o n tenterai il Signore, Dio tuo ! » . Di nuovo il diavolo lo condusse sopra una monta­ gna molto alta, gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria, poi gli disse: «Ti darò tutte queste cose se, prostrandoti, mi adorerai» . Ma Gesù gli disse: «Vat ­ tene, Satana, poiché sta scritto: Adorerai il Signore , Dio tuo , e lui solo servirai» . Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli si accostarono e lo servivano (Mat­ teo 4, 1-11). 85

Se il testo di Luca si avvicina, pur con numerose varianti, a questo di Matteo , il Vangelo di Marco è molto più strin ­ gato . In compenso , il ruolo dello Spirito risulta assai accentuato, espresso com 'è da un perentorio trascinare (ekballei) . Lo Spirito trascina, e Gesù non può far altro che cedere . Con il trascinamento verso il deserto, veniamo anche noi at­ tratti nel dominio della sproporzione e dell 'inganno . Non è Satana a prendere l 'iniziativa di testa propria. Piuttosto , Gesù gli viene gettato tra le braccia per impulso divino . L 'azione, così perento­ ria e, diremmo, irrispettosa, dello Spirito che, quasi fosse un carceriere, strattona il Cristo spingendolo senza riguardi av­ viene subito dopo il b attesimo nelle acque del Giordan o . Lo Spirito cala dall ' alto come una colomba e, appena sceso, s'impossessa del battezzato . Que­ sto il ritmo sincopato dell ' episodio in Marco : 86

E d'un tratto, mentre usciva dall ' acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito s cen­ dere su di lui come una colomba, men­ tre una voce venne dai cieli : «Tu sei il mio Figlio diletto, in te mi sono compia­ ciuto». E tosto lo Spirito lo trascinò nel deserto . E rimase nel deserto per qua­ ranta giorni, tentato da S atana: si tro­ vava tra le fiere e gli angeli lo servivano (Marco l , 10- 13).

E d'un tratto . . . e tosto . Repentina e inattesa è la prima app arizione del pneuma, che reca a Gesù la sanzione ce­ leste, attraverso l' acqua battesimale. Solo un paio di righe più avanti, la medesima irruenza marca la tappa successiva, ben più amara e angosciante, in cui lo Spirito si fa promotore e primo protagonista della tentazione. Nella teofania del b attesim o , la di­ scesa dall ' alto dello Spirito vivifica e conforta . Durante la teofania rovesciata della tentazione , l ' ascesa verso l ' alto è fuorviante, ingannevole. Il diavolo gioca 87

con lo sp azio , lo deform a , usa l ' illu ­ sione ottica per lusingare e gettare Gesù fuori dal cammin o . Prima il pinnacolo del Tempio , poi la montagna molto alta , i luoghi del frastornamento sono eccelsi e irraggiungibili . La simbologia della tentazione evangelica ci fa riflettere . A proposito della misteriosa creazione del male , evocata da Is aia , ho parlato di gorgo , di abis s o , perché il mondo di sotto , l'os curità ctonia sono dimore abituali del male . Le storie di Gesù ci mostrano tuttavia come l ' abisso divino possa benissimo trovarsi in alto , nelle sommità di solito p recluse agli esseri umani. Se l'Uno è spazialità pura, e ne vedremo ancora esempi , la sua esten ­ sione ci avvolge da ogni lato , nel bene e nel male, ci sovrasta e c'inabissa. L 'im­ mensità che inghiotte ogni distinzione atterris ce, e irretis ce. Lassù, sul pinna­ colo , Gesù ci sembra più fragile , e più vulnerabile alla blandizie ci appare sulla montagna . Che nel racconto dei Van 88

geli sinottici la tentazione possa infine essere superata, non deve farci dimen ­ ticare la lezione che si ricava dal volo magico del Cristo . Il gorgo della disgre­ gazione divina vortica verso l ' alto , con la stessa facilità con cui affonda nelle profondità inesplorabili . Che l'Uno sia perversione e defo rmazione dell ' alto , non meno che caduta nel basso , ben si accorda con il predicato fondamentale che contraddistingue l ' unità. Affinché la dualità non sia necessaria né possi­ bile, ogni dimensione deve contraddirsi, capovolgersi , rovesciarsi in sé stessa , e in nient ' altro che in sé. Lo Spirito è una colomba che scende e ristora, ed è un uragano che trascina e schianta. Il di­ vino si slancia dall' alto , e verso l ' alto s 'i­ nerpica il demoniaco . Sono altezze di ­ verse? Per saperlo , bisognerebbe poter salire di nuovo sul pinnacolo del Tem­ pio , e poi resistere alla tentazione. Se il Tempio di Gerusalemme ancora esi­ stess e , se il deserto fosse spazzato dal 89

medesimo Spirito di allora , potremmo forse riconoscere anche noi il vero volto dell'Uno che ci tenta . E che , tentandoci, si rivela.

90

VII.

I:Uno degli amanti

S:

ono sceso verso il mare. Ancor più dell'acqua in lontananza, che contra­ sta così vivida con il verde della collina, è il sentiero tortuoso che mi chiama a sé. Almeno cent ' anni fa, o ancora prima, i contadini h anno eretto terrazzamenti irregolari, ora in parte franati. I muri a secco , gli unici che si usino in campa­ gna da queste parti, emergono per alcuni metri tra rovi e arbusti, per poi sco m­ parire di nuovo, trasformati anch 'essi in materia vegetale , animata. Sembra im ­ possibile, ma talvolta mi perdo durante il cammino. Devo tornare indietro, risa­ lire o scendere un poco, magari sfiorare un gruppo di palme spontanee , che mi accolgono poco benevole con le loro fo91

glie tenaci. Eppure ci vengo quasi ogni giorno, e il dedalo dei muretti dovrebbe ormai essermi familiare. E invece, essi riescono a frastornarmi , con quei loro strani spostamenti lungo il crinale . Ho l'impressione che i muri si muovano, che a tratti persino respirino. Con le loro astuzie, mi costringono ad aggirarli e a costeggiarli, se voglio calarmi da un ter­ razzo a quello successivo. S arà che mi distraggo volentieri , e il vagabondare dei passi concilia quello della mente. La spiaggia dista solo un paio di chilome ­ tri, ma riesco a raggiungerla solo rara ­ mente. A forza di ritornare sul percorso e perder tempo, mi accorgo che si è fatto tardi e riguadagno casa. Riproverò do­ mani , tanto non cambia nulla, l'impor­ tante è scendere lentamente, perlustrare il declivio , ritrovarmi. Oggi , mentre avanzo con la solita indecisione, sono alle prese con un problema nuovo . È una piccola difficoltà, fatta di una sola parola, l 'ideale per tenermi compagma 92

verso il mare. Ho appena riletto un rac­ conto vecchio di cent ' anni . N arra di uno smarrirsi nella natura simile al mio, e diversissimo . Il protagonista è uno dei maggiori poeti del Novecento . Er­ lebnis, «esperienza» , così si chiama la relazione che Rainer Maria Rilke ha la­ sciato di uno dei suoi incontri con l'i­ natte s o. L ' episodio è ambientato nel giardino del Castello di Duino, a picco sull ' estremo lembo dell 'Adriatico . Un giorno della primavera 1 9 12 , dirimpetto al mare, Rilke si accosta distrattamente a un arbusto, ne viene accolto, quasi ab­ bracciato . E avverte una sensazione mai provata prima. Ho ripreso in mano Rilke in cerca dell'Uno, e mi sono scontrato, a tanti anni di distanza dalle mie prime letture giovanili, con il mistero della sua lingua tedesca. Mirabile , morbido , mi­ stico , il tedesco di Rilke sfida anche chi pensi di conoscere bene l'idioma e le sue sfumature. C'è sempre qualcosa che mi sfugge, in Rilke, un aspetto segreto della 93

p arola, segretamente scosso dal vento dell ' emozion e . An che nell 'Esperienza duinese la lingua dell'originale mi attrae e, allo stesso tempo , m ' illude con la sua sottile evanescenza: Poco più di un anno fa, nel giardino che dal castello scende ripido sino al mare, gli accadde qualcosa di straordinario . Camminava avanti e indietro con un li­ bro , com 'era sua abitudine, quando si trovò appoggiato contro il ramo biforcuto di una specie di arbusto che gli arrivava quasi alle spalle e subito si sentì così pia­ cevolmente sostenuto e tran quillo che , senza leggere e del tutto immerso nella natura , indugiò in una contemplazione quasi incosciente . Poco a poco, la sua attenzione fu ridestata da un sentimento che non aveva mai p rovato prima : era come se delle vibrazioni appena percetti­ bili , provenienti dall'interno dell ' albero , penetrassero in lui 1•

L ' avvio del passo , in terza persona , s ' inabissa subito verso una dimensione dell 'essere alien a dal quotidian o , che 94

proprio per tale separatezza ci pare es­ senziale, decisiva. «Come se delle vibra­ zioni appena percettibili [ . . . ] penetras­ sero in lui», scrive Rilke. E, in tedesco : «als oh [ . . . ] fast unmerkliche Schwin ­ gungen in ihn iibergingen » . «S chwin ­ gungen», ecco la parola che mi accom­ pagna verso il mio mare, estivo e sub ­ tropicale. «Vibrazioni», mi dice la bella traduzione italiana di Matilde Manara. È un vocabolo che mi lascia qualche dub­ bio . Mi ricorda le «good vibrations» della beat generation2, di cui Rilke rischia così di diventare, almeno nella mia per­ cezione lessicale, un involontario precor­ ritore . Oltre la forma, c 'è però un pro­ blema di sostanza. Cos'ha davvero pro­ vato Rilke? Che cosa contengono le sue indefinibili «S chwingungen » ? Trovare l'Uno , stringerlo a sé, oppure travisarlo, perderlo per sempre . La distinzione è molto sottile, leggera quanto un soffio. So bene come sia facile banalizzare, ap­ pena si varchi il confine tra vero e po95

sticcio , tra i sentimenti autentici e le for­ zature . «Fremiti», potrebbe forse essere un ' alternativa a «vibrazioni» ? Mentre lascio risuonare la parola dentro di me, mi accorgo di essermi inoltrato lungo l ' ennesimo sentiero interrotto . A sbar­ rarmi la strada è un pino silvestre, con i suoi rami gentili, d'un verde allegro e luminos o . Sta riprendendo forza, gra­ zie alla pulizia del terreno che s 'è fatta l' anno scorso. Dopo decenni d'incuria, tutto l' appezzamento è stato liberato dai rovi che soffocavano le piante di mag­ gior pregio . E anche il pino, dinnanzi a cui mi sono dovuto arrestare , ha l' aria rinfrancata , come se fosse felice di p o ­ ter rimettersi i n sesto , d'immagazzinare luce e linfa, di crescere di nuovo libero. Mi viene un 'idea . E se provassi a ripe­ tere l'esperienza, qui , ora ? Il modo mi­ gliore per tradurla, una sensazione, non è forse riviverla ? Appena l'ho pensato , ho provato imbarazzo , quasi vergogna. È vero che tutt'attorno non c'è anima viva, 96

e nessuno mi vedrebbe, ma abbracciare un albero , così nel mezzo del campo , non è forse u n po' ridicolo ? E presun­ tuoso . Rilke è un grandissimo, la sua via biografica e creativa è impervia, enigma­ tica, e corre molto più in alto della mia. I dubbi durano poco , già mi sono infilato tra i rami, fisso la corteccia, d'un grigio rugoso. Penso alla pelle di un elefante, forse un cucciolo , poiché la pianta è piuttosto mingherlina. Mi appoggio con le due mani, e attendo , mentre cerco di dare un ritmo regolare al mio respiro . Per un intervallo che mi sembra infi ­ nito , non succede nulla, e già penso di metter fine al mio goffo esperimento . Prima un leggero battito , poi un pulsare più forte mi avvertono che qualcosa sta cambiando . L ' albero , con la sua silen ­ ziosa complicità, mi restituisce il battito del mio cuore e il pulsare del sangue. Un battito, questo è ciò che avverto . Il mio battito. Da solo non l' avrei potuto co­ gliere. Ora però lo sento distintamente, 97

poiché io e il pino siamo una cosa sola, uniti. Il mio cuore batte contro il fusto , mi b atte nelle mani, risuona sul legn o , s i propaga nell' albero. Sono indolenzito e la fatica mi spinge a lasciare la presa . M i allontano d i qualche passo, mentre il mio compagno di battiti resta imperter­ rito al proprio posto . «S chwingungen» ha avvertito Rilke , nel suo mondo , a suo modo . «Battiti» ho sentito io . Non è la traduzione di una p arola tedesca. Non l'ho trovata sul vocabolario . L 'ho scoperta appoggiandomi a un tronc o , lungo la mia discesa , i n u n pomeriggio di fine luglio . Eccitato da questa priva­ tissima scoperta , risalgo in fretta verso casa. S. mi ascolta paziente, mi sorride, ed è persino disposta a rifare il cammino a ritroso, per vedere il pino con i suoi occhi. «Appoggiati anche tu , prova», è il mio invito . Gl 'innamorati sanno es­ sere petulanti e hanno una fiducia cieca. Tra amanti sembra tutto possibile , an ­ che scambiarsi i battiti, o le oscillazioni 98

dell'animo, le «Schwingungen», per dirla con Rilke . Mentre percorro il sentiero assieme all ' amata, non resisto a una pic­ cola messa in scena. Mi basta digitare una frase sul cellulare, ed ecco il video dell' Erlebnis rilkiano , recitato in tedesco da un attore dalla voce ben impostata. Il mio idolatrato Rilke avrebbe certamente da ridire sull'intrusione di YouTube nel suo mondo così aristocratico, popolato di castelli esclusivi e di raffinate nobil­ donne. Questa è però anche la mia espe­ rienza, e mi abbandono alle parole anti­ che , sussurrate dolcemente, che rotolano verso il mio mare. O meglio , verso il no­ stro, di mare, giacché ora S. si è appog­ giata all' alberello e cerca di sentire qual­ cosa. Anche lei, dapprima, non percepi­ sce nulla, nemmeno il più piccolo suono . «Prova ancora, per favore, ti sei appog­ giata con troppo poca forza». Dopo una lunga pausa silente, interrotta da rari ri­ chiami d'uccelli, S . si stacca dal tronco. «Sì , qualcosa c'era», e mi guarda attenta. 99

«Non un b attito , ma una comunione , u n senso di fraternità, quasi un sussurro continuo , sottilissimo», aggiunge , men ­ tre sfiora con la mano i rami , accarez­ zandoli come farebbe con un amico più giovane e bisognoso d'incoraggiamento . S . e io abbiamo avuto due sensazioni di­ verse , che però s'intrecciano, si sovrap ­ pongono . Un b attito o un sussurro ? Entrambi, separati ma assieme, un sus ­ surro-battito vegetale. Sulla p agina d ' un libro ho trovato lo stupore di Rilke, la sua esperienza di unione con la natura, sbocciata per caso e fissata in una prosa suadente. Davanti al m are , perdendomi in un differente labirinto, ho cercato di capire come po­ tesse risuonare , in me, il fremito di un piccolo albero . Ho scoperto un suono pulsante, l ' eco del mio ritmo vitale , ri­ prodotto dal legno della pianta. Ho poi chiesto complicità alla persona che mi è accanto nella vita, e in lei l'ho trovata . Grazie a S . , i l b attito s i è trasformato 1 00

in un sussurro , è diventato una comu­ nione più tersa, incoraggiante. Quando ho intitolato questo capitolo L ' Uno de­ gli amanti avevo solo una vaga nozione del tema che avrei trattato . Il rapporto amoroso è una via antica, difficile , a tratti frustrante, verso una meta che in ­ tuiamo senza conoscere, e che, proba­ bilmente, non riusciremo mai a raggiun­ gere del tutto. Siamo arsi dal desiderio, vogliamo avere e toccare , aspiriamo a dirci e a sentirei dire. Quando meno ce lo aspetteremmo , ci sentiamo però re­ spinti , infelici , in completi . Anche l ' a ­ more più sereno e l a passione più i ncon­ tenibile sono screziati di ombre lunghe, diffuse, ricorrenti. È forse questa una condizione utile per avvicinarsi all'Uno ? C 'è un vincolo invisibile tra l' ansia degli amanti e il legame che ci stringe all'in­ dicibile ? Se ripenso all ' esperienza che ho appena vissuto, lungo la discesa al mare, mi accorgo che è composta di due parti. Ho voluto sentirmi unito al tutto , 101

imitando l'esempio così intenso di Rilke , ma ho anche provato a comunicare e co­ sentire la mia emozione. Ero in cerca di una vibrazione che mi attraversasse, e ho invece avuto la nozione di me stesso, riflesso nel pino silvestre. La mia compa­ gna ha poi provato a unirsi alla mia co­ munione. L ' evento in sé è sicuramente piccolo, quotidiano. Ma la condivisione, quella, vale molto. È profonda, e foriera di futuro: Ponimi come un sigillo sopra il tuo cuore, come un sigillo sopra il tuo braccio; ché possente come la morte è l'amore, insaziabile come l'abisso la gelosia: le sue saette son saette di fuoco, sono fiamme divine (Cant 8 , 6).

Possente come la morte è l'amore, ci assicura il Cantico, e mette gli amanti a baluardo contro l'ultimo sfaldarsi della vita . Secondo questa visione , l'unione erotica ha, essa sola, valore come l'in ­ tero non-essere. Narra la tradizione che, 1 02

quando i maestri ebrei pensarono d 'in­ cludere il Cantico dei Cantici tra i libri sacri della Bibbia, si levò più di una voce contraria. Fu rabbi 'Aqiva, con il suo prestigio , a mettere a tacere gli opposi­ tori in maniera perentoria: «Il mondo intero - disse - non vale quanto il giorno in cui il Cantico fu dato a Israele. Tutte le Scritture sono sante, ma il Can­ tico è il Santo dei santi»3 • Sebbene venga solitamente interpretato come allego ­ ria del rapporto d' amore tra il Signore e il proprio popolo , il Cantico colpisce per il linguaggio esplicito e per la forte carica di passione fisica che esprime. Il nome di Dio non è mai nominato , anche se quelle fiamme divine - salhevetyah in ebraico - paiono alludere alla scatu­ rigine celeste del vincolo tra amanti. Il desiderio viene dall'Uno ? Se è vero , ciò che è disceso dall ' inconoscibile deve pure poter ris alire verso di esso . Ma come? È il tormento l ' unica via ? Op­ pure gli amplessi, il fondersi dei corpi, 1 03

la carne sola del Genesi (2 , 24) hanno valore di culmine, di rara premonizione dell'assoluto ? «Anche l' amore - scrive Rilke all'a­ m i ca Lotte Hepner , nel novembre 19 15 - non tiene conto delle nostre rip artizioni , ci trascina anzi , tremanti come siamo, dentro un'infinita coscienza del tutto. Gli amanti [. .. ] sono pieni di m orte perché sono pieni di vita»4 • Ques t ' ultima affermazione sembra ri­ pren dere , approfondendol a , la frase del Cantico. Amore e morte non solo si respingono e s ' annullano a vicenda. Piuttosto , si fondon o , sommergono gli amanti e li trascinano nel gorgo indo­ mabile. Forse è per questo , per il suo es­ sere benedizione e maledizione assieme, che l' amore serve da segno dell'Uno. Il Simposio platonico dà una risposta sulla riunione, tanto esemplare quanto enig­ matica:

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Dunque, da così tanto tempo è connatu­ rato negli uomini il reciproco amore de­ gli uni per gli altri che ci riporta all' antica natura e cerca di fare di due uno e di risa­ nare l'umana natura5 •

Solo un'unità primordiale forte, per­ duta può spiegare l'amore tra persona e persona. Per la troppa superbia, i primi esseri umani sono stati tagliati in due da Zeus , così da renderli più deboli e mansueti6• La loro vita successiva, la no­ stra vita, è un viaggio di ritorno all'ori­ gine. Un itinerario confuso, perché sap­ piamo cosa non siamo ma ci ricordiamo a stento cosa dovremmo essere. È il di­ sordine a farla da padrone nel labirinto emotivo evocato da Platone: E quelli che trascorrono insieme tutta la vita [ . . ] non saprebbero neppure dire ciò che vogliono ottenere l'uno dall' altro. Infatti, non sembrerebbe essere il piacere d'amore la causa che fa stare insieme gli amanti l'uno con l'altro con così grande attaccamento . Ma è evidente che l'anima .

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di ciascuno di essi desidera qualche al ­ tra cosa che non sa dire, eppure presa­ gisce ciò che vuole e lo dice in forma di enigmF .

1\ÀÀà }.LCXVrEvErcn a PovÀErcxz, «eppure presagisce ciò che vuole». Ecco perché non c'è premonizione senza desiderio né è possibile amare senza presagire . L ' a­ more è divinazione di morte. E la morte che cosa premonisce? Di questo, della morte divinante, cercherò di p arlare nel capitolo sull ' Uno della morte. Qui , tra gli amanti, meglio restare alle nostre parole in vita, oscure, per allusioni, per singhiozzi , KCXÌ cxiv{rrErcxz «e in forma di enigmi». Ainissomai è il verbo che si usa per gli arcani, le affermazioni velate, i re­ sponsi della mantica, la cifra simbolica dei misteri. Se la passione degli amanti merita d'essere annoverata tra i frainten­ dimenti più tenaci, il buon Efesto, con la sua artigiana concretezza, c1 propone una soluzione da par suo: 1 06

E se a essi, mentre giacciono insieme, si avvicinasse Efesto con i suoi attrezzi e do­ mandasse loro: «Che cos'è o uomini che volete ottener l'uno dall' altro?». E se essi non sapessero rispondere, e quegli doman­ dasse ancora: «Forse è questo che volete: diventare la medesima cosa l'uno con l'al­ tro, in modo che non vi dobbiate lasciare né giorno né notte? Se è questo che desi­ derate, io voglio fondervi e unirvi insieme nella medesima cosa, in modo che diven­ tiate da due che siete uno solo e finché vi­ vrete, in quanto venite a essere in questo modo uno solo, viviate insieme la vita, e quando morirete, anche laggiù nell'Ade, in­ vece di due siate ancora uno, uniti insieme pure nella morte. Guardate se è questo che desiderate e se vi basta ottenere questo»8•

Abbiamo cercato di eluderl a , la m orte che s ' avvinghia all ' amore , ma sembra impossibile riuscirei . Persino il pragmatico Efesto agita davanti a noi le ombre dell'Ade. Sarebbe bello se il fab ­ bro divino venisse veramente , magari cogliendoci nell'intimità senza freni. Fa-

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rebbe rumore, con i suoi attrezzi pesanti, anneriti dall ' u s o . Lui stesso s arebbe sudato per il fuoco , con le mani forti , scure, tenacissime. Ci trasformerebbe in bruciante magma e ci farebbe finalmente uscire di vita, donandoci una metallica, lucida, insensibile durata. Ci voleva tutta l'ironia di Platone per immaginare un simile scherz o , buono per la fonderia dell'Olimpo. Purtroppo, Efesto non è mai giunto , e noi lo aspet­ tiamo ancora, invano. Forse lo ha inner­ vosito il dileggio platonico, o l'errare dei poeti per sentieri franati, tra stupori che svaniscono in un soffio . Lui, che cesella il ferro durissimo, non sa che farsene dell'impermanenza. Gli amanti, se non ci fosse l'altro, che preclude la vista, a quello spazio puro sono vicini e stupiscono . . . come per svista è stato aperto loro dietro l'altro . . . ma oltre l'altro nessuno può andare, ed ecco a tutt'e due tornare mondo9• 1 08

È ancora Rilke , nell ' ottava elegia duinese. Non potrebbe esserci un con ­ trasto più netto con la favola del Simpo­ sio . L 'Uno rilkiano non è vendicativo , non ci ha divisi perché ci teme. Come potrebbe, lo spazio puro , sep arare al­ cunché ? Lo spazio primordiale accoglie­ rebbe ben volentieri gli amanti, se solo essi riuscissero a essere assieme per più d ' un attimo, di un 'ora, di una carezza. Se non ci fosse l'altro, scrive Rilke. Forse abbiamo fraintes o . Non è forse l'altro colui che vogliamo a tutti i costi? E non è forse grazie alla sua alterità che riu­ sciamo a penetrare nel luogo proibito ? È così , ne siamo certi. Ma il poeta ha fatto una scoperta ulteriore , ben meno rassicurante. L ' amante ci trae all ' Uno , e mentre ci trascina, esercita una forza contraria, che ci allontana dalla meta. La porta è stata aperta dall'amore, e noi, in due, varchiamo la soglia. Questa soglia, il mio limite, sei tu. E tu, tu sola, tu solo, sei anche la causa del mio ritorno. «011 09

tre l' altro nessuno può andare». Assieme siamo usciti dal mondo , e assieme nel mondo dobbiamo rientrare . L ' Uno de­ gli amanti è sulla soglia, a precipizio sul vuoto . Fortunato chi supera il confine. E guai a lui, perché subito lo spazio puro gli si dissolve davanti agli occhi. S'è levato il vento dal mare e il pino si scuote lievemente, con un fremito. Sta­ sera, forse, farà burrasca. Note 1 R.M. Rilke, Esperienze, traduzione di M. Ma­ nara, in formavera . com . Sulla datazione dell ' Er­ lebnis alla primavera del 1 9 1 2 vedi A. Lavagetto in R.M. Rilke, Poesie, edizione con testo a fronte a cura di G. Baioni, 2 voll. , Torino, 1 994 - 1 995 , vol. II, p. 545 ; dello stesso episodio dà un resoconto anche M. von Thurn und Taxis, Ricordo di Rainer Maria Rilke, Trieste, 2005 , pp . 55 -56 (I ed. tedesca, Berlin-Miinchen , 1 933 ) . 2 Good Vibrations è , tra l e altre cose, il titolo di un fortunato album del gruppo californiano dei

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Beach Boys, apparso nel 1 967 , e simbolo di un'intera generazione. 3

Misnah, Yadayim III, 5; cfr. bMegillah 7a.

4 R.M. Rilke, Brie/e . Herausgegeben vom Rilke-Archiv in Weim ar, in Verbindung mit R . Sieber-Rilke besorgt durch K. Altheim , 3 voll . , Frankfurt a.M. , 1 987 , vol. I , p . 599; per la tradu­ zione italiana cfr. F. Di Giorgi, Rilke e la musica , in «Nuova Rivista Musicale Italiana», 3 , 2 0 1 0 , pp. 3 2 1 -3 97 , p . 329. 5 Platone, Simposio, 1 90d, in Id., Tutti gli scritti, cit . , p. 50 1 .

«Dopo aver a lungo meditato, Zeus disse : "Mi pare di aver a disposizione un mezzo che per­ metterebbe che gli uomini possano continuare a esistere e, divenuti più deboli, cessino di essere così sfrenati. Infatti ora, continuò, io li taglierò cia­ scuno in due, cosicché, da un canto , essi saranno più deboli, e, d'altro canto, saranno più utili a noi, perché diventeranno maggiori di numero"» (ibi­ dem, 1 90c-d, p. 500) . 6

7

Ibidem, 1 92c-d, p. 502 .

8

Ibidem, 1 92d-e, p . 502 .

9 R.M. Rilke, Elegie duinesi, traduzione di E . e I . D e Portu, Torino, 1 97 8 , pp. 48-49.

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VIII.

I.;Uno nel silenzio

To hn C age viene a Bologn a ! » . ''J La notizia era di per sé entusia­ ././

smante. Che poi Cage arrivasse in città per una performance , rendeva l ' evento ancor più suggestivo , almeno ai miei occhi di diciottenne entusiasta, insoffe­ rente, un po ' , non troppo, trasgressivo . Diciottenne, appunto , con tutte le di­ strazioni e gli affastellamenti dell'età. Se ho perso il treno, è stata colpa di una ragazza. Un happening musicale di tre giorni, con partenza dalla stazione cen­ trale, sotto la guida di uno dei più grandi musicisti contemporanei. Come ho fatto a mancarlo ? La ragazza in questione mi diede un appuntamento , a lungo spe­ rato, proprio per quella sera, e non ci fu 1 13

performance che tenesse. Me ne scordai completamente, del treno, e così Cage , assieme a un nugolo di giovani musici­ sti, d'intellettuali alternativi e di semplici curiosi, partì sferragliando alla volta di Porretta senza di me. Fui costretto a far­ melo raccontare , il viaggio verso l' Ap ­ pennin o , da un ' amica che si era diver­ tita tantissim o , mi disse, per le trovate di quell' americano mattacchione. La de­ finizione, testuale, è sua, e suona come un complimento aggiuntivo , visto il ca­ rattere «serio» dell'iniziativa. Che l 'arte impegnata potesse divertire era allora un mezzo miracolo . Altri tempi, quelli dell' «impegno». E altri treni. Online si trova un filmato in bianco e nero del mitico viaggio , da me miticamente fal­ lito . «Il Treno di John Cage. Alla ricerca del silenzio perduto», recitavano i car­ tellonF . Carrozze , abbigliamento , pet­ tinature, tutto nel video sembra uscito da una rievocazione in costume , seb ­ bene sia passata «solo» una quarantina 1 14

d'anni . Nostalgia a parte, il documenta­ rio è, inspiegabilmente, muto . I parteci­ panti vengono intervistati, Cage dice la sua, improbabili orchestrine salutano il convoglio nelle stazioni, tutto senza che si avverta il minimo suono. Se si vuole sentire cosa successe lungo il percorso, bisogna ricorrere a un file con il solo au­ dio e senza immagini, anch 'esso disponi­ bile in internet. Dev'essere uno scherzo postumo di Cage, burlone come solo i grandi sanno esserlo. Il messaggio dell'i­ niziativa, e dell'intera opera del musi­ cista americano, è che il silenzio , come tale, non esiste. Ciò a cui diamo il nome di silenzio non ha nulla a che vedere con l ' acustica. Piuttosto , è un cambiamento d'animo, un mutare di dimensione2 • Ed ecco che, nel filmato online, il treno, ru­ morosissimo , pieno d'infiniti suoni e di onde acustiche di mille generi, si muove, ovattato , nella più irreale delle dimen­ sioni, grazie al sapiente inganno del cal­ lido John . 1 15

Nel 1 97 8 , all'epoca della performance di J ohn C age , la questione del silenzio era ancora centrale, e dibattuta, tra gli artisti . Ho scritto era , per misurare da subito la distanza dall' oggi . Questo era dipende , credo , da una continuità con le avanguardie storiche, viva mezzo se­ colo fa e ormai in gran p arte scemata. Uno degli scritti più penetranti , sul rapporto tra arte e silenzio , lo dob ­ biamo a Susan Sontag, critica, narra­ trice , maestra di pensiero del secondo Novecento . Ne L 'estetica del silenzio , Sontag descrive il rapporto tormentato , quasi amoroso, tra dicibilità e indicibi­ lità, vuoto e pieno, tra parlare e tacere. «L ' arte non è più - leggiamo - il ten ­ tativo di esprimere la coscienza, pur pro ­ fonda e autentica. Piuttosto, è i l luogo in cui tale coscienza cerca di straniarsi da sé stessa» . Uscire da noi per violare i limiti del quotidiano , esibire il gesto ar­ tistico in tutta la sua problematicità ed estraneità, questo il messaggio. Espressa 1 16

in tal modo , la sfida dell'artista si avvi­ cina molto all' antica via dei mistici. Non nei materiali né nei modi, naturalmente, ma per i suoi passi, intenzion almente falsi. V al e a dire falsi nel quotidiano e veri in modo provocatorio , decostrut­ tivo . L ' arte estrania e si estrania, e lo fa, se possibile, anche con il silenzio . È naturale che , ai lettori di questo libro , il cammino suoni familiare . Ogni volta che il sentiero devia, esce dal tracciato, si rovescia, l'Uno ci pare più vicino. O meglio , meno lontano. «Dobbiamo di­ struggere la continuità - scrive Sontag, parafrasando il mistico indiano Krishna­ murti - con l ' andare fino alla fine di ciascuna emozione o pensiero»3 • E se la distruzione del continuum esistenziale passa per il silenzio , ben venga la s o ­ spensione d i qualsiasi suono. È evidente, e S ontag ne è perfettamente consap e ­ vole, che possiamo incamminarci verso il silenzio , ma non ci è consentito rag­ giungerlo . La meta ci è preclusa, giacché 1 17

ogni vuoto presuppone una pienezza a cui commisurarsi, e le due dimensioni , mancanza e pienezza, sono indissolu­ bilmente legate nella nostra percezione. Detto altrimenti, il silenzio è una gran­ dezza relazionale . Lo cercano i mistici, lo esibiscono gli artisti, e così facendo gli dispongono tutt ' attorno un filo di parole, di suoni, di pause, lunghe sì ma necessariamente finite, provvisorie . «Il silenzio è una profezia», scrive ancora la critica americana, «che l' azione dell' ar­ tista cerca a un tempo di realizzare e di rovesciare» . Se dalle inquietudini delle avanguardie ci volgiamo all ' in dietro , verso le profezie scabre dell'Israele an ­ tico , il silenzio ci appare in tutta la sua forza segnica, di discrimine tra verità e apparenza. Nelle storie di Elia, l ' appa­ rizione del Signore è preceduta da una serie di fenomeni atmosferici, che rap ­ presentano il tradizionale corredo delle divinità vicino-orientali . Sebbene forti , possenti, tali manifestazioni non conten1 18

gono in sé il divino . Vento , terremoto e fuoco sono solo indizi premonitori . L' appressarsi d i Dio è segnalato d a una voce, un sussurro sottile. Non è un vero e proprio silenzio, che come tale non po­ trebbe esprimere la chiamata del profeta. Piuttosto , la voce tenue indica il carat­ tere interiore della comunicazione tra di­ vino e umano, il tono di complicità e la necessità, per Elia, di tendere al massimo i propri sensi per accogliere il messaggio del Dio unico : «Esci e fermati davanti al Signore della montagna: ecco che il Signore sta pas ­ sando» . Un vento impetuoso e forte da fondere le montagne e spezzare le pietre andava davanti al Signore : non era nel vento il Signore. E dopo il vento, un ter­ remoto: non era nel terremoto il Signore. E dopo il terremoto , un fuoco: non era nel fuoco il Signore . E dopo il fuoco, una voce, un sussurro sottile. E avvenne che , appena Elia l ' ebbe inteso , si co­ prì la faccia con il suo mantello , quindi uscì e si fermò all' ingresso della grotta, 1 19

quand' ecco una voce che diceva: «Cosa fai qui Elia ! » ( l Re 19, 11-13).

Qol demamah daqqah potrebbe ren ­ dersi, alla lettera, con «voce di silenzio sottile» . In quel «sottile» stanno la mi­ sura e la dismisura del divino , nella sua grana più fine, inimitabile dall ' artificio umano. In un testo mistico del XIII se­ colo , la «voce sottile» viene equiparata al grafismo minimale della lettera yod, tenue come un punto , e per questo adatta ad alludere all 'incommensurabi­ lità della trascendenza. Solo ciò che è minimo può rinviare a quanto non ha misura . Ogni altra dimensione dell ' es ­ sere parrebbe troppo ambiziosa, e ambi­ ziosamente sproporzionata a un compito così elevato : La yod inoltre è come il punto sottile che definisce il silenzio s ottile cui l ' uomo deve pensare nel momento in cui perce­ pisce il Creatore, un silenzio come non si troverà in alcun essere creato , l'ha detto 120

Non era nel vento il Sign ore [ ] n on era nel terrem oto il Sign ore [ ] n on era nel fu oco il Sign ore ( 1Re 1 9 , 1 1 - 12 )4• Elia, di benedetta memoria: .

.

.

.

.

.

Se per il pensiero , e per l' arte nove­ centesca, il silenzio , sempre desiderato , rimane inattingibile, il misticismo, e in specie quello ebraico, convive con natu­ ralezza con una simile imperfezione. Se­ condo il messaggio biblico , nulla, nella nostra creaturalità, può contenere l'Uno . E così, il silenzio divino si piega e si con­ trae , fino alla dimensione dell 'enorme­ mente sottile, con una gioiosa e necessa. . r1a sproporz1one. Ma siamo poi certi che il silenzio non esista «acusticamente» , come c'insegna Cage? Non esiste, è vero, se siamo in re­ lazione, se percepiamo il mondo e con esso interagiamo. Nell' animo però, nella solitudine del nostro sé, non conosciamo forse tutti l'ebrezza suadente del mono­ logo interiore ? La voce mentale che ci

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accompagna quasi di continuo , che s 'in ­ sinua nella veglia e ci visita nel sogn o , n o n è forse inudibile , per tutti tranne che per noi ? Riandate per un attimo ai pensieri degli ultimi minuti , o ai vostri sogni notturni. Con un po' di sforzo, ne potreste ridire il contenuto , riuscireste a trascriverne almeno qualche frammento , o magari interi spezzoni . Certo non li avete letti ma solo uditi, nonostante fos ­ sero assolutamente silenziosi. Chi vi sta accanto non ne ha ricevuto alcuna eco né il più infimo suono . A meno che non abbiate, come si dice, «parlato da soli», bofonchiando ad alta voce ciò che pen ­ savate, tutto quel fluire d i parole , pur avvertibilissimo da voi, è restato chiuso nella mente , ovvero nella più profonda e perfetta camera anecoica di cui dispo­ niamo. È da lì, dai penetrali del cuore, che ci viene la conoscenza di un silenzio perfetto . La parola che non diciamo, ma che ci suona cristallina dentro, ecco il si­ lenzio che ricorda, evoca, chiama l'Uno . 122

Note 1 Oltre al titolo, ai promotori e al nome di Cage, il m anifesto conteneva anche il programma per i giorni 26 giugno (Bologna-Porretta-Bologna) , 27 giu­ gno (Bologna-Ravenna-Bologna) e 2 8 giugno 1 97 8 (Ravenna-Rimini-Ravenna), nonché l'indicazione: «3 escursioni per treno preparate, variazioni su un tema di Tito Gotti, di John Cage con l'assistenza di Juan Hidalgo e Walter Marchetti». Sul «Treno di John Cage» esiste una ricca documentazione. Vedi Alla ri­ cerca del silenzio perduto. Il «Treno» di fohn Cage, a cura di R. Rubini e M. Simonini, Bologna, 2008 (al volume sono acclusi un DVD, questo sì completo di audio, e 3 CD) . 2 J. Cage, An Autobiographical Statement, in «Southwest Review», 76, 1 99 1 , pp. 59-76, p. 64: «Si­ lence is not acoustic. It is a change of mind, a turning around». Il silenzio svolge un ruolo fondamentale nell'opera musicale (per es. nella celebre composi­ zione 4'33 " del 1 95 2 ) e nella riflessione teorica di Cage: cfr. Id. , Silence: Lectures and Writings, Middle­ town , 1 96 1 (trad. parziale italiana in Id. , Silenzio. Antologia da «Silence» e «A Year /rom Monday», a cura di R. Pedio, Milano, 1 97 1 ) ; K. Gann, No Such Thing as Silence: fohn Cage's 4 ' 3 3 " , New Haven , 20 1 0; La ricerca di fohn Cage. Il caso, il silenzio, la natura, a cura di V. Cuomo e L.V. Distaso, premessa

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di G. Moretti, postfazione di F. Lomonaco, Milano­ Udine, 2 0 1 3 . 3 S. Sontag, Stili di volontà radicale, traduzione di G. Strazzeri, Milano, 1 999, p. 37 (I ed. inglese New York, 1 968) .

Avraham ben Alexander Axelrod, Keter Sem Tov, a cura di A. Jellinek, in Auswahl kabbalistischer Mystik, Leipzig, 1 853 , vol. I, p. 35 (Busi, Simboli, cit . , p. 63 3 ) . 4

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IX.

L'Uno della morte

l'A A io padre è venuto a trovarci. Gli J V L mostro la casa e il grande giar­

dino. Lui si ferma ai piedi di un abete che si è ammalato e che dovremo abbat­ tere . «Tutte le morti contano» , mi dice, e fissa gli occhi a terra , sembra imb a­ razzato . Decidiamo di andare a pranzo assieme, e dopo pochi passi siamo in riva al mare. Il ristorante sorge su una rotonda, e per raggiungerlo bisogna per­ correre un breve tratto nell ' acqua. «Tu non puoi venire» , osservo , «non hai le scarpe adatte» . Mio padre mi mostra le calzature che indo s s a , scamos ciate , di un marrone chiaro . Non sembrano af­ fatto impermeabili , ma lui insiste, su­ pera l'ostacolo e raggiungiamo il locale. 125

Ora siamo tutti all' asciutto, e ci sediamo a tavola . M i o p adre è m o rto ven t ' anni fa , senza poter vedere la casa che gli ho mostrato stanotte , in sogn o . Berlino non è sul mare , e dietro la nostra ab i ­ tazione n o n s i stende la spiaggia ma un vasto parco . Al mio risveglio , penso che l ' attraversamento dell ' acqua, con la di­ scussione sulle scarpe, abbia un signifi­ cato che mi sfugge . Mi viene in mente l'Acheronte , il fiume che i morti sono costretti ad attraversare per raggiungere l ' aldil à . Io ho sognato la circostanza contraria. Noi vivi passavamo senza pro­ blemi dall' altra parte mentre il tragitto sembrava impossibile per il defunto . Ho imp arato a non forzare i sogni , a non volerne trarre a tutti costi un in­ segn ament o . Hanno i loro temp i , e penetrano nell ' animo per ingressi n a ­ s c o s t i . Qualche volta le immagini r i ­ mangono p e r sempre , indelebili. I n al­ tri casi, svaporano m un balen o , quasi 126

volessero farsi perdonare l ' intrusione . Il b revis simo dialogo notturno mi ha lasciato amarezza. C ' era proprio biso­ gno di dire a mio padre che non poteva passare il guado ? Dopo tutto, ero così felice di averlo accanto . Se si fosse ba­ gnato un po ' , pazienza, l'importante era trascorrere insieme qualche ora. E in ­ vece, la mia stupida osservazione ha ri­ schiato di farci ricadere nell' abbandono . Meno male che il babbo ha insistito, e si è fatto largo nell ' acqua. La solitudine della morte assomiglia pericolosamente a quella dell ' U n o . L ' isolamento degli uomini è privazione mentre quello del tutto è pienezza? So bene che questo è ciò che dovrei credere . Eppure, le ana­ logie tra morte e perdita di coscienza in­ dividuale sono troppe per ignorarle con una semplice scrollata di spalle . Molte delle pratiche di avvicinamento all'Uno sono in realtà attenuazioni della vita, un assottigliarsi dell ' essere fino al punto di non ritorno. Ascetismo, rinuncia, so127

spensione di ogni aspettativa, al Solo ci si avvicina spogliandosi di sé. La natura fa ogni sforzo per avvolgerci di calore nel grembo materno , e poi ci congeda gelida, !asciandoci sulla soglia del nulla. Al momento della morte, chi ci viene a p rendere , chi allunga la propria m ano verso la nostra ? Qualcosa di simile av­ viene all ' ultimo istante della contem ­ plazione, prima del salto nel vuoto del «non». Un balzo verso la luce, così vo­ gliamo immaginarcelo, questo momento decisivo . Ma perché non un naufragio nell ' o s curit à ? Siamo passati attraverso l ' Un o tentatore, ed è tempo d ' immer­ gerci nell'acqua del non ritorno . L'Uno è vita? Sicuramente. Ma è anche morte , in virtù di una stessa, implacabile legge universale . Se pensiamo di raggiungere un 'isola esotica, popolata di beati, dove è sempre primavera, non siamo p roba­ bilmente sulla rotta giusta. Uno scoglio di tenebra ci viene incontro ? Proviamo a non evitarlo . Chi vi abita? Chi ci acco128

glierebbe, se vi sbarcassimo trepidi, im­ pauriti ? Attraverso finestre spalancate ti vedo, nulla aldilà, nessuno all'interno. Ti togli i sandali, ti scuoti i capelli, dalle tue spalle il sale manda per l' aria scintille, fango sulle caviglie, sabbia sui tuoi piedi. Poco profondo il fiume, un abisso l'oceano, tu sorridi ai tuoi dolori ed è il sollievo più dolce. Perché ci hai lasciato, perché sei andata? Ti togli i sandali, scuoti i capelli , ove tu danzi, è squarciato, squarciato, ovunque' .

Quando h o sentito i primi versi, ho pensato che Leonard Cohen avesse de­ dicato la canzone a un ' amica mort a . Poi h o capito. La donna che s i toglie i calzari , si scuote i capelli e b alla , con scintille di luce sulle spalle e un mesto sorriso, è Malkut, la decima se/irah , la Presenza del Dio d'Israele. It's torn , «È 129

squarciato» è un canto postumo , pub ­ blicato nel 2 0 1 9 d a Adam Cohen , tre anni dopo la morte del padre. Ed è an­ che una delle più belle poesie cabalisti­ che che io conosca. Perché lo squarcio ? È la lacerazione per la perdita del T em ­ pio , dopo le due distruzioni, la prim a nel 5 86 a . e . v . , a opera dei neob abilo ­ nesi, e la seconda, nel 7 0 , per mano dei romani. La Presenza divina si ritira da Gerusalemme in rovin a , si alza verso il cielo . Il velo del Tempio si squarcia, tutto decade , imp allidi s c e , si fa lan ­ guid o . Ogni esilio è una morte e ogni morte un esilio. Dio stesso è in lutto, e il ballo della Sekinah , il nome ebraico della Presen z a , non potrebbe es sere più struggente. Un fremito di rovina si spande per il cosmo. Una dopo l ' altra , le se/irot, i nuclei dell ' energia celeste che nutre il reale, si strappano. L'intero arazzo rischia di dissolversi:

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La destra è squarciata, squarciata la sinistra, il centro è squarciato, e pochi lo soppor­ tano, squarciata è la bellezza, squarciata è la morte, anche la grazia è squarciata, solo un poco meno, squarciato è il sommo, dal regno alla corona.

Per quanto ne so, la danza di Malkut, immaginata da Cohen , non compare in nessun testo mistico ebraico. È un'inno­ vazione del cantautore canadese, che dà una cadenza musicale al crollo dell'essere. «Ora che è finito , compiuto l il Nome non ha più numero, nemmeno l'Uno», re­ cita il prosieguo della canzone. All ' acme del ballo di distruzione, il Nome divino diviene puro silenzio. Dio tace, e lo stesso Uno svanisce nella tenebra del non nume­ rabile. Abbiamo forse raggiunto il fondo della notte? La qabbalah ebraica ci parla di un riscatto. Il ballo della Sekinah, sullo 13 1

squarcio dei mondi, ha uno scopo segreto. La danzatrice divina si deve spingere fino al culmine dell' abisso, per raccogliere le scintille di luce che vi sono cadute. Quando la più piccola goccia di energia celeste sarà libera dall'impurità del male, Israele potrà tornare dall'esilio e, nello stesso istante, il cosmo sarà redento: Vieni, raccogli i frammenti, dispersi, perduti, abbandonati nel divino , lucenti i n ciò che divino non è .

Di tanto in tanto , riascolto la can ­ zone, ma lo spaesamento permane anche alla seconda, e persino alla terza es ecu ­ zione. Forse è la figura di Malkut a met­ termi alla prova. To hen , l'Uno in greco , è un neutro . Nel regno delle omb re , l'Uno ha, quasi sempre, tratti femminili. Incantevoli e perdute , le regine della notte affollano la mitologia. L ' lnanna sumenca non scende forse negl 'inferi 132

facendo tintinnare i propri gioielli? Se poi ne risale, dall' aldilà, è in virtù della sua straordinaria sapienza, e di una ma­ lia crudele. Il sacrificio dell' amante Du­ muzi , ecco cosa le vale la liberazione dalle tenebre. Malkut balla senza calzari, !nanna viene spogliata dei propri abiti e degli ornamenti, la privazione è la legge del femminile che s 'occulta fra le tene­ b re . Cosa dire di Proserpin a , sottratta alla luce e avvolta, per metà della vita, in un soffocante sudario di morte ? In que­ sto magistero mulieb re , impartito con pallida, serica grazia, entra sicuramente l'influsso degli astri, affiora il potere di Venere, della cui luce b rillano le sem­ bianze di !nanna, e s 'intravede il lucore della luna. È il disco lunare a guidarci dal visibile all'indistinto, per poi eclis­ sarsi. È vero che anche al sole tocca, nel ritmico alternarsi dei giorni, un tragitto nell ' o s curità , carico d ' insidie . La luna vive però in una doppia latenza. Spode­ stata dall' astro maggiore durante le ore 133

diurne, s ' inabissa una seconda volta, di mese in mese, proprio quando dovrebbe signoreggiare la notte . Dal suo rifugio nascosto , regge il ciclo femminile e il fluire delle maree, e si rivela così in tutta la sua occulta potenza. Cercarne il na­ scondiglio , ecco un compito riservato a pochi coraggiosi. Il loro cammino passa per il guado della morte, attraversa porte mai dischiuse a vivente. Chi valichi il confine del tempo, e si spinga nel domi­ nio di colei che s 'eclissa, accetta la sfida del non ritorno. O non dovremmo piuttosto dire che è lei, l'Eclissantesi, a custodire intatto il proprio segreto e a farci da maestra? È lei a restare, mentre i suoi amanti, tutti, cercano disperatamente di risalire , di riagguantare la vita . L ' eroina più tra­ gica di una permanenza nell' aldilà è si­ curamente Euridice . La fuga, il morso della serpe, il cordoglio e le grida che echeggiano per le cime dei monti, tutto, nella sua vicenda, parla la lingua di una 134

morte fulminea, inattesa, e della caduta fatale. Orfeo, lo sposo ebbro di dolore, scende nel labirinto antico , tra gli spet­ tri, per riaverla e ricondurla alla luce. A un passo dalla soglia, quando ormai ha raggiunto il riscatto, si volta all'indietro, violando il patto con Proserpina. Subito Euridice ricade, per sempre, nel pozzo del null a . Poche n arrazioni antiche hanno altrettanta forza emotiva. La con­ danna dei due amanti? Il troppo amore, e il dominio del fato , a cui non è dato di resistere . Nella rielaborazione del mito che ci offre Virgilio nelle Georgiche, il pathos dell' abbandono è quasi parossi­ stico: E già ritraendo i passi era sfuggito a tutti i pericoli, e la resa Euridice giungeva alle aure superne, seguendolo alle spalle (Proserpina aveva posto una tale condizione) , quando un 'improvvisa follia colse l'in­ cauto amante, 135

perdonabile invero, se i Mani sapessero perdonare: si fermò, e proprio sulla soglia della luce, ahi immemore, vinto nell' animo, si volse a guardare la sua diletta Euridice. Tutta la fatica dispersa, e infranti i patti del crudele tiranno, tre volte si udì un fragore dagli stagni dell'Averno . Ed ella: «Chi ha perduto me, sventurata, e te, Orfeo ? Quale grande follia? Ecco i crudeli fati mi richiamano indietro e il sonno mi chiude gli occhi vacillanti. Ora addio. Vado circondata da un 'im­ mensa notte , tendendo a te, ahi non più tua, le deboli mam» . Disse e subito sparve, via dagli occhi, come tenue fumo misto ai venti, né più lo vide che invano cercava di afferrare l'ombra e molto voleva dire; né il nocchiero dell'Orco permise che egli attraversasse di nuovo l'ostacolo della palude2 • 136

Euridice sparisce (fugit diversa) , in­ ghiottita dall ' inesorab ile legge della dissoluzione3 • Una volta che Orfeo l'ha abbandonata, diviene essa stessa notte, oscurità che non ha fondo . In lei, per lei, l'Uno compie l 'estrema metamorfosi. Il sedimento del tempo si posa sul fondo dell'essere, il mare di tenebra è immoto, ed Euridice risplende di luce nera, in­ visibile, indicibile. Non danza, come fa Malkut, né dorme, come farebbe una donna di questo mondo . Euridice è senza memona, senza paura, senza tre­ mito . È diventata tutt'Uno. Note 1 Questo il testo originale della canzone, pub ­ blicata in Thanks /or the Dance, 2 0 1 9: «l see you in windows that open so wide l There' s nothing beyond them an d no o ne in si de l You kick off your sandals and shake out your hair l The salt on your shoulders like sparks in the air l There's silt on your ankles and sand on your feet l The river

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too shallow, the ocean too deep l You smile at your suffering, the sweetest reprieve l Why did you leave us? Why did you leave? l You kick off your sandals and shake out your hair l It's torn where you ' re dancing, it's torn everywhere l I t ' s torn on the right and it's torn on the left l It's torn in the center which few can accept l It's torn where there's beauty, it 's torn where there's death l It's torn where there' s mercy but torn somewhat less l It's torn in the highest from kingdom to crown l The messages fly but the network is down l Bruised at the shoulder and cut at the wrist l The sea rushes home to its thimble of mist l The opposites falter, the spirals reverse l And Eve must re-enter the sleep of her birth l And up through the system , the worlds are withdrawn l From every dominion the mind stood upon l And now that it's over and now that it's clone l The name has no number, not even the one l Come gather the pieces all scattered and lostl The lie in what's holy, the light in what's not l The story's been written , the letter's been sealed l You gave me a lily, but now it's a field l You kick off your sandals and shake out your hair l It's torn where you're dancing, it's torn everywhere». 2 Virgilio, Georgiche IV, 485 -5 03 , in Id. , Geor­ giche, introduzione di A. La Penna, traduzione di L.

Canali, note al testo di R. Scarcia, Milano, 1 983 , pp. 346-349.

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3 Maurice Blanchot , che ha scritto pagine as­ sai acute sullo sguardo di Orfeo, è convinto che il divino cantore cerchi in Euridice «l'altra notte» , ovvero il tempo in cui riappare «tutto ciò che è spa­ rito» nella prima notte, quella del riposo e del si­ lenzio. L'altra notte «è ciò che è presentito quando i sogni sostituiscono il sonno, quando i morti pas­ sano nel fondo della notte, quando il fondo della notte appare in coloro che sono scomparsi» : M . Blanchot, L o spazio letterario, con u n saggio d i J. Pfeiffer e una nota di G . Neri, traduzione di G . Ze­ nobetti, Torino, 1 967 , pp. 1 3 9 , 147 - 15 1 (I ed. fran­ cese, Paris, 1 955 ) .

139

x.

L'Uno non finito

l'A A ichelangelo è il sommo tra gl'in­ J Y L completP . Più della metà delle

sue sculture sono incompiute, abbando­ nate, mancanti di poco o d'intere parti. Le lacune di un uomo così grande costi­ tuiscono un capitolo a parte della storia dell ' arte , sono meraviglie in negativo , tanto più memorabili in quanto sopite , latenti. Carattere , bizzarria, perfezioni­ smo, tirannia dei committenti , rovesci politici, questioni di soldi, l'universo del non finito michelangiolesco è più mute­ vole d ' un cielo in tempesta. E proprio per questo , perché non si sa bene come nasca e cosa porti, l'emergere offuscato delle forme dal marmo segna un punto di non ritorno della sensibilità estetica. 14 1

Quei corpi che si rituffano nella pietra, mezzi liberati e pure ancora prigionieri, la sofferenza irredenta della materia sono lì per stupirei, e per ammaestrarci. Per renderei edotti, ma di cosa? Se fosse lo spirito, a renderei certa la forma, e a signoreggiare il reale, anche il marmo si sarebbe piegato al volere dell'intrattabile toscano. Ma è lei, la pietra, la vera dea di difetti, possibilità, impossibilità. Miche­ langelo lo sa bene, e lo ribadisce in un sonetto famoso : Non ha l'ottimo artista alcun concetto ch'un marmo solo in sé non circonscriva col suo soverchio, e solo a quello arriva la man che ubbidisce all'intelletto2 •

Chi è stato «ottimo artista» se non lui? E quale mano ha ubbidito all'intel­ letto meglio della sua? Certo , a tratti si sente incompiuto dentro , nell' anima, e spera nell' aiuto divino per portare a ter­ mine la propria vita. «Onde a me non 1 42

finito verrà meno, l se or non gli dà la fabb rica divina l aiuto a farlo , ch ' al mondo era solo», recita la chiusa di un altro componimento, che forse si riferisce al vuoto lasciato dalla morte dell' amato fratello Buonarroto3 • Straordinario scul­ tore, pittore sconfinato, poeta di molte, varie, forti rime, Michelangelo cerca, spe­ rimenta, riflette, combina e scombina. In una sua recentissima ed epocale messa a punto dell'intera esperienza michelangio­ lesca, Horst Bredekamp vede l'incomple­ tezza come destino e programma di vita. Fra tutte le sculture michelangiolesche, la più polita è la Pietà vaticana, compiuta in ogni dettaglio con sublime precisione. La Pietà è anche l'unica realizzazione mar­ morea in cui Michelangelo abbia posto la propria firma, incisa nella fascia che corre in diagonale sul petto della Ma­ donna: «Michael A [n] gelvs Bonarotvs florent [inus] facieba [t] » , «Miche! An­ gelo Buonarroti fiorentino faceva». «Fa­ ciebat» , e non «fecit» , «fece» , giacché 1 43

l'imperfetto, con la sua apertura tempo­ rale, meglio rende il bisogno impellente d'indeterminatezza. Persino la più finita tra le opere è un processo in /t'eri. N o n può dirsi compiuta una volta per tutte, perché l ' artista sa che ogni suo manu­ fatto resta sospeso sull ' abisso della con­ dizione umana. Michelangelo , esecutore inarrivabile, ha coscienza profonda della sua natura transeunte, caduca e, proprio per questo, sempre perfettibile4• Sarebbe però un errore dare una let­ tura solo biografica al non finito miche­ langiolesco. È innanzitutto la materia, con i suoi pieni prorompenti e i vuoti abissali, a imporre misura e dismisura , completezza e penuria . Prendete, per esempio , i cosiddetti Schiavi, s colpiti per la tomba immane di papa Giulio II e mai portati a termine. Perfetti nella loro imperfezione, i due sono ancora lì, al Louvre, a torcersi, dopo cinque secoli, incerti se salire alla luce o ripiomb are nell'oblio della materia5 • A volte, basta 144

una venatura nera, luciferina, che spor­ chi il volto di una statua, come nel caso del Cristo destinato alla chiesa romana di Santa Maria sopra Minerva, perché il Buonarroti sia costretto a scartare il la­ voro6 . La pietra prende la mano all ' ar­ tista, ma chi guida, veramente, l ' opera e la conduce alla fine , compiuta o in ­ compiuta che sia? Nell ' Uno dei ribelli abbiamo ascoltato Plotino , mentre ci rivelava la sua verità. Il choregos, l ' im ­ presario del coro, è lui, l'Uno. È lui che dà impulso a ogni cosa, dalla danza del cosmo fino alla mano dello scultore. Sua è l'energia che si nasconde dietro la reni­ tenza del marmo , l'incostanza del com­ mittente, il mutare delle sorti. Possiamo pensare che il non finito ci porti verso l'Uno . Che la parte che manca e in cui, sognanti, ci perdiamo c'indichi la strada. Ma se guardiamo con maggiore atten ­ zione , se sfioriamo il marmo appena scalfito dalla sgorbia, abbiamo un ' in ­ tuizione più profonda. La graffiatura 145

della pietra, il fluire delle forme, ciò che manca, è sottratto, perduto, proprio que­ sto è l'Uno. Una parte soltanto o il tutto che presentiamo e vorremmo così tanto raggiungere ? Lo sapremo solo quando avremo cercato e, cercando, trovato . Note Del non finito ho scritto nel mio Michelan­ gelo. Mito e solitudine del Rinascimento, Milano , 2 0 1 7 , p p . 83 -88, 2 1 5 , 294-296. A p . 8 5 h o dato un'i­ dea com plessiva dell'estensione del fenomeno: «S'è calcolato che, delle quarantatré sculture in marmo che gli sono ascritte, ventisei non abbiano avuto l ' ultima mano (e talvolta neppure la penultima ) , un'imperfezione che v a dalle prime prove d'età lau­ renziana (Madonna della Scala e Battaglia dei cen­ tauri) sino alla Pietà Rondanini, a cui ancora lavora quando la morte viene a prenderselo». 1

2 Il sonetto «Non ha l'ottimo artista alcun con­ cetto» è in Michelangelo Buonarroti, Rime e lettere, introduzione , testi e note a cura di A. Corsaro e G. Masi, Milano, 2 0 1 6, pp. 204-206, Rime e liriche amorose, 5 7 ; cfr. Michelangiolo Buonarroti , Rime,

146

a cura di E.N. Girardi, Bari , 1 960, p. 82 , or. 15 1 ; Busi, Michelangelo, cit. , pp. 9 1 , 298. Buonarroti, Rime e lettere, cit . , pp. 152 - 1 5 4 , Rime e liriche amorose, 1 6 , e l' analisi del verso a p. 964 ; cfr. ibidem, pp. 23 -24 , or. 46; Busi, Michelan­ gelo, cit. , p. 23 8 . 3

4 H . Bredekamp , Michelangelo, Berlin , 2 02 1 , pp. 1 5 - 1 6 . L'uso dell'imperfetto «faciebat», anziché del perfetto «fecit», riflette Plinio, Naturalis historia, Praefatio 26. Cfr., anche per i precedenti quattrocen­ teschi, A. Della Latta, Storie di un imperfetto. Miche­

langelo, Plinio, Poliziano e alcune firme di fine Quat­ trocento, in Kunstler-Signaturen von der Antike bis zur Gegenwart, a cura di N. Hegener e F. Horsthemke, Petersberg, 2 0 1 3 , pp. 128- 14 1 ; N. Hegener, «Facie­ bat, non finitm> und andere imperfekte Kunstlersigna­ turen neben Michelangelo, ibidem, pp. 1 88-23 1 . Sugli Schiavi, ora al Louvre, che Michelangelo donò (o forse vendette) a metà degli anni Quaranta del Cinquecento a Roberto Strozzi, cfr. Busi, Miche­ langelo, cit . , pp. 2 1 0, 376 . 5

Sulla sfortunata esecuzione della prima statua michelangiolesca per Santa Maria sopra Minerva, abbandonata a causa del difetto del marmo e recen­ temente rinvenuta nella chiesa del monastero di San Vincenzo Martire a Bassano Romano, cfr. ibidem, pp. 122 , 3 1 3 . 6

147

XI.

Una stella sarebbe meno sola

IJ / na stella s arebbe meno sola e lu­ U. cente, un bacio meno b ruciante e

appassionato. Perfetto di solitudine, caldo di passione, l'Uno si rifugia tra gli amanti, s ' inerpica fino alla sommità del mondo e da lì ci osserva, inosservat o . Lo dicono i poeti , che trattengono il respiro per sen­ tirne i l battito e coi loro sguardi ne acca­ rezzano il fulgore lieve . I vecchi filosofi, che hanno passato la vita a cercarlo e mai l'hanno trovato, scuotono la testa, con un gesto di stizza. No, dell' Uno non v'è trac­ cia, mai, sotto nessun cielo. Da lui tutto dipende, ogni cosa si genera, dal suo seno ciascuna voce si solleva. Ma non v'è seno né bagliore né desiderio . Il suo rumore non si ode né mai s 'avverte il suo silenzio . Date 149

retta a noi, che abbiamo frugato ogni oscu­ rità con le nostre menti acute. L'Uno non si sa. E chi dice di conoscerlo, mente. L ' Uno è stup o re , incompletezza, mi­ stero . A tratti, in una grande sventura o in una gioia profonda, per caso o dopo avere cercato a lungo, ci rendiamo conto d'essere parte di un tutto che ci sovrasta, ci awolge e, allo stesso tempo , si sottrae alla nostra comprensione. Lo sentiamo, il tutto, senza poterlo distinguere con esattezza. Sebbene non ci sia consentito misurarlo con la ra­ gione , ci pare quasi di toccarlo, tanto è vi­ cino, intimo. Ho immaginato questo lib ro come un viaggio alla sorgente nascosta, che presen ­ tiamo confusamente e che vorremmo, un giorno, raggiungere . Non ho certo la pre­ tesa di aver completato un simile tragitto nel giro di poche pagine. Nessun volume lo potrebbe del resto contenere, il misterioso tutto, né basterebbe una vita intera per im ­ possessarsene. Sebbene la meta sia lontana, forse inarrivabile, ho comunque deciso di 150

mettermi per via, e cercare compagni d ' av­ ventura, lettori che condividessero l ' eb ­ brezza , e il timore, che ci chiamano verso l'ignoto. Per guardare in fondo a noi stessi, per riconoscerei, per unirei. L ' esistenza di ciascuno di noi è simile a un filo , anno ­ dato i n una trama sconfinata, estesa per il cosmo intero e per il succedersi delle ge­ nerazioni .

È

un filo sottilissim o , eppure

d alla somma d ' innumerevoli , minus coli filamenti, in tutto simili al nostro , nasce l ' arazzo imperscrutabile del divenire . Se sciogliessimo i nodi, tutti i nodi, anche l' e­ nigmatico arazzo scomparirebbe p er sem ­ pre. Nella consapevolezza d i questa segreta unione, del legame invisibile che ci vincola al tutto, ho scelto l'Uno come inizio e meta ideale della ricerca. Ebad in ebraico, ekam in sanscrito , wiibid in arabo, hen in greco, «uno» è , in lingue tra loro lontane, segno assiduo dell 'Altro che si fonde a noi, del tutto che ci guida e ci chiama a sé. In che modo rispondere a questa chiamata? Con il silenzio , come ci suggeriscono i filosofi, 15 1

o con l ' eloquenza della parola? Con l'im­ mobilità assoluta o attraverso il movimento incessante di chi non ha o non vuole altra patria se non quella dell'Uno? Sono con­ vinto che non esista un metodo migliore degli altri . Ciascuno deve seguire la pro­ p ria via , s cegliendola tra le tante che gli si aprono davanti . La strada adatta a lui , quella che segue le linee, irripetibili, della sua biografia e del suo destino. In nome di questa libertà, ho voluto compiere alcuni esperimenti con l' Un o , in un alternarsi di dicibilità e di silenzi . Forse perché ho fre­ quentato lungamente i racconti hasidici e le leggende cab alistich e , sono convinto del valore euristico del narrare . Raccon ­ tare , raccontarci sono spesso il solo modo di rompere il disagio , di approssimarci al segreto . Alle narrazioni di mie esperienze, personali e sicuramente minori, ma non per questo , spero , insignificanti , si sono affiancate alcune grandi lezioni tratte dal lavorio dei poeti, dalle tradizioni religiose, dalle ind agini fil o s o fich e . 152

H o sem p re

amato le conterie veneziane, le perline di vetro che dalla Laguna si sono sparse, nei secoli, in tutto il mondo. Monili umili, co­ lorati, con una loro gioiosa semplicità. Ho cercato d 'infilare le parole del libro come una collana di perle muranesi, screziate e allegre , anche quando sfioravano la morte e l ' aldilà. I Gioca to ri di da di, un dipinto di Georges de La Tour, pittore francese del Seicento , ci hanno accolto con il loro sor­ prendente mistero . Tre dadi , tre numeri, tre destini, l' Uno si è annunciato laddove mai l' avremmo atteso. Dopo le malie dell ' arte, il vuoto del de­ serto . L ' Uno che brucia parla delle fiamme che appaiono a Mosè, sull ' Oreb . C ' è un rapporto tra l' aridità della steppa e l ' ani­ eonismo dei nomadi ? Come trovarlo , l'Uno delle arsure e delle solitudini, che ha Nome ma non immagine? Nell ' Uno dei ribelli bo seguito il per­ corso del logos greco, nato per dire e chia­ rire e destinato a inabissarsi nell'indicibile . 153

Da S enofan e , passando per Protagora e Platone, e poi scendendo a Plotino e ai pla­ tonici del Rinascimento, sull'Uno si misu­ rano ambizioni e naufragi filosofici. Come si giunge dal mistero dell ' unità all ' intrico del molteplice?

È

una via s o ­

litaria o s i può battere u n sentiero condi­ viso , agire, legarsi ritualmente? Il capitolo L ' Uno

e

i molti prende l' avvio in un pome­

riggio indiano, s 'immerge in una preghiera antica, per poi innalzarsi verso il cielo sefi­ rotico . L ' Uno smarrito si cala invece nella Bha­ gavad Grtii, culmine della via indiana al distacco . Un attimo prima della battaglia,

il dio Vi�IJ.u si rivela ad Arjuna, l'eroe che non vorrebbe più comb attere .

È

un col­

loquio fuori dal tempo , che p repara l ' u ­ scita del guerriero dal ciclo delle rinascite. L ' Uno indiano promette la liberazione, la indica , la precorre. L ' U n o , inattingibile e imp assibile , è capace di trasformarsi nel contrario di sé. Il sommo bene diviene male radicale. Dalla 154

luce discende lo Spirito , e dallo Spirito viene la tentazione . Nell ' Uno tentatore ho evocato il principio sconosciuto , che mette alla prova e, nel male , si rivela. La strada dell'Uno è stretta all'inverosi­ mile . Ma per chi la sappia trovare, s ' amplia fin oltre l' orizzonte. Di sicuro l'amore c' en­ tra, eccome, e l'abbiamo scoperto nell' Uno degli amanti, costruito sulla nostalgia, l' at­ trazione, l'incompletezza. L ' Uno n el silenzio esplora l' assenza di suono, come «luogo» di rarefazione dell'es­

sere. Da J ohn C age alla profezia biblica di Elia, dalla negazione dell ' esperienza acu ­ stica del silenzio alla scoperta della parola interiore, chiarissima e nitidamente afona, i passi dell'Uno si riducono a un fruscio cri­ stallino. Ma anche Uno della morte è diventato p arte del nostro p ercors o , e anzi ne ha segnato un culmine . Due figure femmi­ nili ci hanno accompagnato verso l ' aldilà. Malkut, la decima emanazione della qab­ balah ebraica, ha danzato per noi tra gli 155

squarci del Tempio di Gerusalemme, men­ tre Euridice, eroina della notte, ci ha gui­ dato con la sua luce di tenebra. Il sentiero del lib ro si è arrestato da­ vanti all ' Uno non finito . L ' incompiutezza artistica di Michelangelo , per cui tutto è possibile e nulla concluso , c'indica il per­ corso dopo l ' ultim a svolta, quella che stiamo per attraversare. Se andremo dav­ vero oltre, potremo finalmente percepirlo, il battito invisibile.

Ringraziamenti Grazie ad Alessia, per avermi lanciato questa sfida. A Umberto, che mi ha accolto, ignaro di numeri come sono, nella sua collana. A Emanuela, che ha saputo di­ fendermi dalla dea delle indecisioni. A Raphael, per la sua filosofica alleanza. A Silvana, che ha il dono dell'a­ scolto. E che sa.

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