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Italian Pages 144 Year 2023
Civitas 26 Civitas autem non saxa sed habitatores vocantur
Natalia Ginzburg
Una cosa finalmente lieta Scritti civili e discorsi politici
a cura di
Michela Monferrini
EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA
Prima edizione: novembre 2023 ISBN 978-88-9359-812-5 eISBN 978-88-9359-813-2
In copertina: illustrazione di Evaluna Lovera
È vietata la copia, anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuata Ogni riproduzione che eviti l’acquisto di un libro minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza
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Michela Monferrini
Una storia da scrivere Eppure deve esistere la possibilità d’una forza che rifiuta il potere. Deve esistere la possibilità d’una forza che rifiuta i connotati ottimisti della vittoria e conserva, nella vittoria, il pessimismo degli sconfitti1. Natalia Ginzburg
Una splendida inutilità. «Esistono alcune persone che non capiscono nulla di politica. Fra queste sono io»2. Ha sempre sostenuto di non possedere una «testa politica», di non avere specifiche competenze sociali ed economiche, di non riuscire addirittura a formulare pensieri potenzialmente utili alla collettività. «Se un giorno ci fosse una rivoluzione e io dovessi fare una scelta politica, preferirei molto essere ammazzata piuttosto che ammazzare qual1 Natalia Ginzburg, Arabeschi, in Lettere da vicino. Per una possibile reinvenzione della sinistra, a cura di Laura Balbo e Vittorio Foa, Torino, Einaudi, 1986; poi in Ead., Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990, a cura di Domenico Scarpa, Torino, Einaudi, 2001. 2 Natalia Ginzburg, Un governo invisibile, «La Stampa», giugno 1972; poi in Ead., Vita immaginaria, Milano, Mondadori, 1974.
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cuno. E questo è uno dei pochissimi pensieri politici che la mia mente possa mai formulare»3: lo scrive, a conclusione di un articolo, alle soglie degli anni Settanta. Ma si accorge, avendo alle spalle una storia che ha incarnato quel bivio della morale umana, di formulare un pensiero di estrema radicalità politica? Nell’estate della sua elezione, quella del 1983, Natalia Ginzburg sta per compiere sessantasette anni. Nella sua vita è rimasta vedova due volte, ha seppellito il figlioletto Antonio di un anno appena, si occupa di sua figlia Susanna gravemente inferma. È una donna che conosce bene il dolore, che ha frequentato la fatica e gli stenti, tirato su i figli da sola; sa cosa vuol dire lavorare e impegnarsi. Anche politicamente, sebbene non lo ammetta. Ha respirato la politica – l’antifascismo – sin da bambina, in casa; è stata formata alla politica nel gruppo degli amici, poi sposando Leone Ginzburg, scegliendo il confino con lui; nell’immediato dopoguerra ha scritto testi politici. E in anni più recenti: nel 1971 ha sottoscritto un appello contro il commissario Calabresi e un’autodenuncia di solidarietà per alcuni giornalisti di Lotta continua accusati di istigazione alla violen-
Natalia Ginzburg, Due comunisti, «La Stampa», marzo 1970; poi in Ead., Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970. 3
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za; durante le Olimpiadi del 1972 si è dichiarata favorevole all’accoglimento delle richieste dei palestinesi; dalle pagine del «Corriere della Sera» è intervenuta nella polemica sul tema dell’aborto che Pier Paolo Pasolini aveva fatto divampare con l’articolo Io sono contro l’aborto, nonché in quella suscitata da Eugenio Montale sulla diserzione dei processi contro le Brigate Rosse da parte dei giudici popolari; ancora tra 1975 e 1976 ha scritto di movimenti femminili, di Chiesa e Vaticano, di Stati repressivi, di sesso; nello stesso periodo, ha partecipato alla campagna innocentista per due militanti di Potere operaio accusati e poi condannati per l’omicidio di uno studente nazionalista greco; nel 1982 ha firmato con Primo Levi un documento contro l’operazione ‘Pace in Galilea’. E siamo, con questo, proprio alle soglie della sua esperienza parlamentare. Si schermisce però dalle sirene della politica sino all’ultimo momento, quando in cima alle scale che portano alla sede romana dell’Einaudi, in via Gregoriana, appare la figura di Nilde Iotti, arrivata per chiederle di persona di candidarsi nelle liste del Partito comunista4. Per questo, e altri aneddoti legati all’esperienza politica di Natalia Ginzburg, nonché per i ricordi a lei dedicati da altri deputati, si fa riferimento a Ricordo di Natalia Ginzburg. Commemorazione nel quinto anniversario della morte, pubblicato dalla Camera dei deputati nel 1997. 4
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Due volte, nel corso della sua vita, è stata iscritta a un partito: il Partito d’Azione prima, quello Comunista poi; in quest’ultimo era entrata su invito dell’amico Felice Balbo e vi era rimasta dal 1946 al 1952, ma poi aveva rinunciato alla tessera, e anni dopo avrebbe motivato così quella scelta: «Siccome non capisco niente di politica, era stupido che fingessi di capirne qualcosa, che andassi alle riunioni, che avessi in mano la tessera d’un partito. È bene che, finché vivo, io non appartenga mai a nessun partito. Se mi chiedessero come vorrei che fosse governato un paese, in coscienza non saprei rispondere. I miei pensieri politici sono quanto mai rozzi, imbrogliati, elementari, confusi»5. Il Pci sarà tuttavia l’unico partito al quale continuerà a guardare con speranza, spesso frustrata. Due anni dopo l’ingresso in Parlamento, nel volume curato da Laura Balbo e Vittorio Foa dal titolo Lettere da vicino. Per una possibile reinvenzione della sinistra6, accuserà il Partito comunista di essere ancora, soltanto, il partito degli operai e non già di tutti gli emarginati dal sistema. Sarà l’accusa di aver lasciato fuori troppe istanze, di non essere stato al passo con la storia sociale ed economica del paese, di non
Ginzburg, Due comunisti. Lettere da vicino.
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essere stato fedele a sé stesso occhieggiando a un consenso più largo. Ora, in via Gregoriana, Ginzburg appare spaventata, ribadisce di non saper fare la politica, di essere una consulente editoriale; promette che ci penserà, ma chiede cosa potrebbe fare, lei, seduta tra i banchi di Montecitorio. Riflette per ventiquattr’ore. Nella lettera che Leone le mandò prima di morire c’era scritto: «La mia aspirazione è che tu normalizzi, appena ti sia possibile, la tua esistenza; che tu lavori e scriva e sia utile agli altri». E le ultime parole: «Sii coraggiosa». L’indomani, ancora di fronte a Iotti, Natalia Ginzburg accetta la proposta per non venire meno – così spiega – a quella che è stata la sua vita. Sulla decisione forse pesa proprio il suo antico legame con il Pci e la stima che prova per Enrico Berlinguer. Da neoeletta, lo incrocerà nel Transatlantico proprio all’inizio della sua esperienza. «Mi sento inadeguata», gli dirà dopo che lui le avrà chiesto se è contenta di trovarsi lì, e lui le risponderà: «Siamo tutti inadeguati». L’anno seguente, quella stima profonda troverà inoltre espressione nell’articolo L’uomo che conosciamo7, scritto già con i tempi verbali al
Natalia Ginzburg, «l’Unità», 11 giugno 1984; poi con il titolo Berlinguer in Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990. 7
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passato nelle ore in cui il segretario lotta per la vita e apparso sulle pagine dell’«Unità» in quello stesso 11 giugno 1984 in cui infine arriva la notizia della morte. Maestra nell’arte del ritratto, Ginzburg consegna ai lettori un Berlinguer retto, timido e schivo, mite e in un certo qual modo anche triste, ma insieme forte, con una tendenza alla solitudine, alla riflessione e al silenzio. «I tratti del personaggio politico e pubblico, nella sua fisionomia e nella sua persona, erano del tutto assenti», scrive, e questo – non sembrare un politico – è il motivo dell’ammirazione che prova per lui. Nella giornata che passa tra il primo e il secondo incontro con Nilde Iotti, Ginzburg deve aver pensato che si potesse essere anche così, fare politica anche così. In parte, le riflessioni che la attraversano in quelle ore le affida a un dattiloscritto datato primavera 1983 e da lei intitolato Senza una mente politica8. Vi si legge della paura iniziale, accettando la proposta, di compiere un atto di «estrema presunzione», ma vi si traccia anche quella parabola del pensiero che la porta a definire meglio il suo possibile ruolo in relazione ai problemi della società. In una veloce rassegna delle categorie alle quali talvolta viene ascritta, scarta la possibilità di andare in Parlamento In Ginzburg, Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990.
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come «intellettuale», cosa che solo fugacemente e di rado si è sentita di essere, e arriva a preferire la parola «romanziere» a quella di «scrittore», pur dichiarando di non credere «che i romanzieri, e i romanzi che scrivono, possano mai essere utili alla vita pubblica. Credo fermamente nella loro splendida, meravigliosa, libera inutilità». Due primati. Di certo, sa che quella che ha davanti dovrà essere una vita diversa: quando l’8 luglio 1983 viene proclamata deputata ha già lasciato il suo incarico all’Einaudi. Non solo: ha dismesso il cognome che usa da quarantacinque anni, il cognome di Leone, dei suoi primi tre figli, la firma di tutte le sue opere da scrittrice. In Parlamento entra Natalia Levi Baldini9, iscritta nel gruppo parlamentare della Sinistra indipendente, eletta nella IX legislatura e rieletta nella X, il 25 giugno 1987, per un secondo mandato che sarà interrotto soltanto dalla morte, l’8 ottobre 1991. Le scelte che compie all’inizio dell’avventura politica non dovevano soltanto segnalare che quel percorso veniva intrapreso da una persona diversa, e nuova. Dovevano soprattutto significare la rinuncia a ogni forma di riconoscimento Dal nome della famiglia d’origine e del secondo marito, l’anglista Gabriele Baldini (1919-1969). 9
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pregresso: lasciato il ruolo che la società già le attribuiva, l’onorevole Levi Baldini che avrebbe avuto, come recita la formula di rito, «la facoltà di parlare» in aula non doveva essere la scrittrice; non doveva essere l’editrice, la drammaturga, men che meno il Premio Strega, ma la politica, o meglio: l’apprendista politica, l’allieva. Una grande borsa nera piena di libri e giornali, una gonna blu plissettata, un gilet blu, una camicia a quadretti, scarpe robuste: di un’allieva, come ci riportano le cronache, quando entra in aula ha persino l’abbigliamento, anche se è il suo da sempre, se «un golfino bluette e una gonna bluette» sono gli stessi con cui vent’anni prima già la ritraeva Oriana Fallaci. Perché questa del tirocinio non è una posa inedita di fronte a un’avventura nuova. È piuttosto un modo di stare al mondo, l’unico che abbia mai praticato. Una delle prime volte in cui entra a Montecitorio è durante una riunione affollata. Sembra spaesata, ha il passo incerto. Laura Balbo le indica allora un posto in cui sedersi, e lei la elegge a suo «angelo custode»: si fa aiutare a ottenere il tesserino da deputata, a trovare la propria cassetta della posta, a capire quale ascensore prendere nel grande palazzo della sua nuova vita. Ma per comprenderlo davvero, questo suo estremo tirocinio, occorre tenere presenti due 12
primati, che lei stabilisce e che ancora oggi detiene. Il primo: non è mai mancata. È sempre stata presente in aula, partecipando a tutte le votazioni: a quelle considerate meno importanti, alle più veloci, a quelle lunghissime, estenuanti, che duravano giornate intere. E anche dopo quelle maratone – lo ha ricordato Stefano Rodotà che è stato presidente del gruppo – restava a lungo seduta al suo banco, rimaneva tra gli ultimi, bisognava esortarla a tornare a casa. Di più: in occasione della delicata discussione sul decreto Martelli in materia di asilo politico ai rifugiati, il dibattito parlamentare che precedette la votazione durò tutta la notte. Verso le cinque, una deputata ammise di non reggere più e si cercò a casa l’onorevole Levi Baldini, che subito, all’alba, si presentò a prenderne il posto. Del resto, frequenta l’alba con assiduità: è solita chiamare Vittorio Foa proprio alle cinque del mattino per capire che linea sarà seguita nella giornata, così come lo cerca – e cerca Stefano Rodotà e il magistrato scrittore Salvatore Mannuzzu – prima di ogni voto da esprimere. Non che questo farsi consigliare e indirizzare significhi poi non fare, ogni volta, di testa sua. Il secondo primato riguarda la brevità dei suoi discorsi. Il 16 aprile 1986, intervenendo contro le dimissioni del deputato Gianluigi Melega – 13
dimissioni chieste dal Partito radicale per una rotazione dei seggi10 – pronunciò il più breve discorso della storia parlamentare. Trentasette parole. Ed è in quelle trentasette parole, nella brevità degli altri discorsi da parlamentare, nella loro esiguità, che è impossibile non ravvedere quel che Levi Baldini aveva cercato di tenere fuori dall’aula: è impossibile non scorgere Natalia Ginzburg. La concisione l’ha contraddistinta sempre. Lei stessa, in quello straordinario scritto che è Il mio mestiere11, ne dava un’interpretazione: essendo cresciuta in una famiglia numerosa e avendo fratelli più grandi di lei, ogni volta che prendeva la parola subito veniva messa a tacere. Aveva così sviluppato un modo d’intervenire rapido, secco, preciso, paratattico; enunciava parole che erano già state calibrate, «sempre con la paura che gli altri riprendessero a parlare tra loro e smettessero di darmi ascolto». Gianluigi Melega è stato un esponente del Partito radicale, eletto deputato nelle elezioni politiche del 1979 e del 1983. Il Partito radicale, nella convinzione che non si dovesse fare della politica una professione, adottava il criterio della rotazione, a metà legislatura, delle cariche di deputato. Natalia Ginzburg espresse il parere «profondamente contrario» del gruppo di Sinistra indipendente, definendo «assurda» la suddetta rotazione. 11 «Il Ponte», vol. V, nr. 8-9, agosto-settembre 1949; poi in Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Torino, Einaudi, 1962. 10
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La bambina, dunque, sta in quella sala da pranzo piena di fratelli come l’anziana (lei preferiva la parola «vecchia») siederà nell’aula colma di colleghi: in ascolto, riflettendo, aspettando l’occasione giusta per intervenire, e, poiché a questo si è allenata per tutta la vita, avrà finalmente in risposta un silenzio irreale, concentrato e rispettoso, un’attenzione da parte dei deputati tra le più alte mai registrate nella storia del nostro Parlamento. E poi, sempre, un lungo applauso. Le fabbriche di marmellata. Oltre al brevissimo discorso su Melega, interviene soltanto cinque volte. In realtà, le sue parole circolano spesso nell’aula: scrive biglietti che partono nelle diverse direzioni dell’emiciclo riportando commenti, apprezzamenti, opinioni, ma diventa più cauta se si tratta di prendere la parola, e quando lo fa non nasconde le proprie incertezze («competenze precise, io non ne ho nessuna» ammette, o «io personalmente ho cambiato idea cinquecento volte»). Interviene sul disarmo, sul prezzo del pane, il costo delle case, l’intervento italiano nella crisi del Golfo Persico del 1987, il reato di violenza sessuale. In ognuno di questi casi, si tratta di difendere un diritto, un bene collettivo; di respingere il rischio dell’ingiustizia, dello spreco e della violenza. 15
Dopo le elezioni politiche del maggio 1972, le prime anticipate nella storia della Repubblica italiana, era intervenuta sulle pagine della «Stampa»12 ricordando il momento in cui le era stato spiegato cosa fosse il socialismo. Aveva sette anni e le era stato detto che quella parola significava «uguaglianza di beni e uguaglianza di diritti per tutti»: a distanza di decenni, aveva ammesso di rammentare l’ora in cui aveva ascoltato quelle parole, la stanza in cui si trovava, la passione che aveva sentito accendersi alla scoperta di quella possibilità così elementare e così necessariamente perseguibile. Nel tempo, la sua ‘parte politica’ era rimasta quella: e significa quella del pacifismo radicale, degli «antichi contadini» che hanno dovuto abbandonare le campagne, dei lavoratori, degli operai, della «gente della strada». E inoltre dei malati, i carcerati, i deboli, gli emarginati, i vecchi, i bambini. Ciò che i suoi interventi compongono è il ritratto di un’Italia che pur guardando al nuovo, imminente millennio può ancora fare sue – e mantenere, o almeno non disattendere del tutto – le promesse del dopoguerra. Chi pronuncia questi sei discorsi propone – con la sua storia, la sua esperienza, persino con il suo corpo – di farsi ponte; parla come chi non ha Ginzburg, Un governo invisibile.
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voluto dimenticare nulla, testimonia un clima morale da Assemblea Costituente e nello stesso momento anticipa istanze e proposte che trenta o quarant’anni dopo – vale a dire oggi – saranno considerate non solo valide, ma urgenti. Il 7 aprile 1984 pronuncia il più lungo dei suoi interventi, ed è quello in cui chiede che il prezzo del pane resti invariato nel corso dell’anno (in un itinerario di piena coerenza politica un mese dopo chiederà il blocco del meccanismo di aggiornamento dell’equo canone, ed è impossibile non pensare a come il tema della casa sia stato centrale nella sua letteratura). È un lungo discorso perché le è stato chiesto di tenere la parola per almeno quarantacinque minuti, e lei lo fa. La geografia dell’Italia ritratta e auspicata che ci consegna in quell’occasione è una geografia che potremmo definire ‘naturale’, dove i centri abitati non sono sovrappopolati perché il territorio rurale non è distrutto, né abbandonato; dove alla città fa da corollario un insieme di borghi conservati, valorizzati, non svenduti al turismo; dove sono le condizioni ambientali a favorire e influenzare l’agricoltura locale. «Se là dove la frutta marcisce o viene distrutta si facessero delle piccole fabbriche di marmellata, non sarebbe questo un modo di dare lavoro alla gente e di usare quei beni che vanno distrutti o persi?». Nel momento in cui pronuncia queste 17
parole, viene accusata di ingenuità. La nostalgia per il mondo contadino di una volta non è condivisa dal resto del gruppo parlamentare, ed è anzi duramente criticata da Foa. Eppure quella stessa immagine delle piccole fabbriche di marmellata, quegli stessi temi si irradiano oggi ed esplodono nelle nostre menti incrociandosi con teorie e pratiche – e relative espressioni linguistiche – diventate inaggirabili: il chilometro zero, la filiera corta, l’agricoltura sostenibile. E su tutto: la lotta ambientalista e il ritorno alle campagne da parte dei giovani. Lessico politico. Il gruppo della Sinistra indipendente della IX legislatura è un gruppo di intellettuali, e in larghissima parte di giuristi. C’è tra loro una grande attenzione al linguaggio utilizzato, un’attenzione che però non arriva al livello che lei è solita applicare, tanto che quando il gruppo manda a Melega un messaggio di solidarietà esordendo con un «A prescindere dalle differenze di opinioni fra noi», sullo stesso foglio, sopra alla sua firma, lei specifica: «A prescindere, un corno». Se vent’anni prima con Lessico famigliare ha mostrato come si possa tracciare e rintracciare la propria autobiografia tutta nel solco d’un linguaggio casalingo, tribale, tanto più bisogna considerare che nei mesi che precedono l’impe18
gno politico ha vissuto dentro al linguaggio di un altro autore, di un’altra epoca, di un altro luogo: ha tradotto Madame Bovary. L’operazione provocatoria voluta personalmente da Giulio Einaudi, “Scrittori tradotti da scrittori”, era stata inaugurata in quel 1983 da Primo Levi all’opera sul Processo di Kafka, seguito da Fruttero e Lucentini sullo Strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde. La signora Bovary sarebbe uscita per terza, in estate, a traduttrice già eletta deputata. Seppure l’opera di traduzione riguardi quella vita editoriale lasciata in sospeso, aver abitato per mesi, umilmente, nelle parole di un altro ha certamente acuito la sua attenzione al lessico, riaccendendo la battaglia che ha da sempre combattuto come scrittrice e che diventa la sua vera battaglia politica, la base dei suoi discorsi da parlamentare, il punto da cui partire e sul quale non transigere. «Cercando nei vocabolari le parole per tradurre, e cercandole nel rimescolio della propria mente, ne ha smosso dentro di sé uno sciame e ne è tutto invaso», così descrive il lavoro del traduttore nella nota che accompagna La signora Bovary13, e aggiunge: «Tradurre è servire». Per
Gustave Flaubert, La signora Bovary, traduzione di Natalia Ginzburg, Torino, Einaudi, 1983. 13
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servire la società italiana sa che deve partire da lì: la sua è una continua richiesta di onestà e trasparenza al linguaggio della politica. «La limpidezza del suo esprimersi era il perfetto antidoto ai veleni del palazzo», ha scritto, ricordandola dopo la morte, Gina Lagorio, un’altra scrittrice deputata dal 1987 al 1992 nello stesso gruppo, che con lei ha condiviso sigarette e leggeri alcolici «a scopo consolatorio» nella buvette, oltre a un itinerario esistenziale e professionale tra i più affini. In quei sei discorsi, l’onorevole Levi Baldini si prende la facoltà di scagliarsi contro il linguaggio «tortuoso, contorto e sibillino» delle leggi, dei decreti, persino dei giornali; inveisce contro gli azzeccagarbugli della politica che parlano per bizantinismi, contro i leader di partito volutamente oscuri; prende in esame gli emendamenti e indica i punti nei quali va aggiunta, o espunta, una certa espressione; mostra come, se usate in un contesto sbagliato, certe parole risultino vuote, false, o astratte («persino la parola ‘pane’»). Non ama, e ritiene ipocrita, il lessico del politicamente corretto, che usa parole che le persone non parlano realmente e dunque lascia quelle stesse persone indietro, isolate, inascoltate. Si assume lei, e richiama a quest’ordine intellettuali e scrittori, il compito di riportare le parole «nella 20
loro giusta sede»14; la definisce: una «questione morale»15. Lo scrive in un articolo dalla genesi travagliata, elaborato e corretto direttamente sulla carta intestata alla Camera dei deputati, chiede che in tema di terrorismo venga usata la parola «grazia» in luogo di «perdono», che non si usi il termine «pentimento». Forse per questo la sua voce, ogni volta che si alza nitida nell’aula, crea un cono di silenzio inedito attorno a sé: risuona come un segnale di pericolo, come un’antica sirena d’allarme, ammonisce i presenti. È come se la sua voce dicesse attenti, attenti, con le parole che partono da qui possiamo mentirvi, raggirarvi, truffarvi. La sua voce dice: è già accaduto in passato. Quel disarmo totale che chiede alla nazione in materia bellica, lo sta chiedendo anche al linguaggio del potere. Il suo ambientalismo umanistico inizia nella lotta all’inquinamento delle parole. «C’è il pericolo di truffare con parole che non esistono davvero in noi, che abbiamo pescato su a caso fuori di noi e che mettiamo insieme con destrezza perché siamo diventati piuttosto furbi.
14 Natalia Ginzburg, Il pentimento e il perdono, «l’Unità», 30 gennaio 1988; poi in Ead., Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990. 15 Ibidem.
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C’è il pericolo di fare i furbi e truffare. È un mestiere abbastanza difficile, lo vedete, ma il più bello che ci sia al mondo. I giorni e i casi della nostra vita, i giorni e i casi della vita degli altri a cui assistiamo, letture e immagini e pensieri e discorsi, lo saziano e cresce in noi. È un mestiere che si nutre anche di cose orribili, mangia il meglio e il peggio della nostra vita, i nostri sentimenti cattivi come i sentimenti buoni fluiscono nel suo sangue. Si nutre e cresce in noi»16: parlava di scrittori, ma è lo stesso richiamo all’onestà che chiede ai suoi compagni politici. Testamento. Muore nella notte tra il 7 e l’8 ottobre 1991, subito riprendendo il nome di Natalia Ginzburg sulle pagine dei giornali e nella memoria di tutti. Per mesi ha pensato di ritirarsi da parlamentare perché – lo dichiara in un’intervista17 – «spesso, purtroppo, mi sono sentita davvero inutile». È stata anche angosciata dal pensiero di lasciare sola, dopo la propria morte, la figlia Susanna. Ma ufficialmente, non ha mai lasciato il Parlamento.
Ginzburg, Il mio mestiere. Intervista rilasciata a Emilia Costantini sul «Corriere della Sera», maggio 1991. Lo riporta Sandra Petrignani nella sua biografia di Natalia Ginzburg, La corsara, Vicenza, Neri Pozza, 2018. 16 17
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Ed è datato dicembre 1989 l’ultimo suo libro, Serena Cruz o la vera giustizia18. Era entrata in politica dopo aver lavorato a La famiglia Manzoni, traducendo Madame Bovary; ne usciva con un’opera dalla quale è impossibile districare l’impegno politico e civile dei suoi ultimi anni. Trattando il caso di Serena Cruz, nata a Manila nel 1986 e sottratta per errori nella procedura di adozione alla famiglia italiana che la stava crescendo, Ginzburg ritraeva l’Italia della magistratura, delle istituzioni, dell’assistenza sociale, dei giornali, dell’opinione pubblica mettendone in evidenza storture, incongruenze, ingiustizie. Attraverso una ibrida forma di racconto, reportage, inchiesta, j’accuse, una forma che lei definiva «una serie di appunti», dimostrava come l’errata interpretazione e applicazione di una legge – in quel caso la 184 – possa avere effetti assurdi, quando non atroci, sulla vita delle persone; come lo Stato talvolta possa finire per avallare violenze su quegli stessi cittadini che dovrebbe proteggere, che dovrebbe – se si tratta di bambini – far crescere nei loro pieni diritti. Da parlamentare, la sua attenzione al mondo dell’infanzia era stata costante, come è testimoniato soprattutto dal lavoro per l’Associazione
Natalia Ginzburg, Serena Cruz o la vera giustizia, Torino, Einaudi, 1990. 18
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Salaam Ragazzi dell’Ulivo, in aiuto ai bambini palestinesi. Per quell’associazione aveva rivestito anche i ruoli più distanti da sé, gestendo soldi, custodendo bollettini, compilando moduli, come del resto le era già accaduto di fare per l’Associazione Italia/Razzismo che aveva finanziato lei stessa, dal 1988: un osservatorio sui fenomeni dell’immigrazione e sul conseguente rischio di episodi di razzismo. Nel caso di Serena, aveva presentato un’interrogazione parlamentare per andare a visitare la bambina nell’istituto nel quale era stata portata, e le era stato negato. Aveva allora preso un treno per Racconigi per andare a conoscere i suoi genitori, i coniugi Giubergia. Ne era nato un pamphlet pieno di domande: decine, forse centinaia di domande vi si rincorrono. Senza dare risposte, forse talvolta suggerendole, Ginzburg arriva a comporre il senso della parola ‘famiglia’ in due diverse accezioni: la famiglia privata, quella sociale. È un testamento morale di altissimo valore, perché tutto quello in cui l’autrice ha sempre creduto, tutto quello per cui s’è battuta vi cade dentro e vi trova senso. Ma Serena Cruz è soprattutto la storia di una bambina «di cui si conosce la faccia, la persona e il nome». Una bambina soltanto, con la sua giovane vita, le sue esperienze già troppo grandi, l’amore ricevuto e il dolore che non le è stato 24
risparmiato e anzi le è stato provocato. Quando ha compiuto quindici anni, Serena – diventata e cresciuta nel frattempo come Camilla Nigro – è stata contattata da suo fratello Nasario, il primo figlio adottivo dei Giubergia: lui le ha mandato una lettera e una copia di Serena Cruz o la vera giustizia. Lei ha conosciuto così la sua storia. «Cosa potrei fare io, in Parlamento, cosa potrei portare di buono?». Quel giorno di otto anni prima, di fronte a Nilde Iotti, la domanda potrebbe essere stata simile a questa. A quell’altezza, chi la pronunciava non poteva ancora sapere che gli otto anni che aveva davanti – gli ultimi della sua esistenza – sarebbero stati un continuo dare risposta a quell’interrogativo, spingendo la posta in gioco ogni volta un poco più in là. Non conosciamo la risposta di Iotti, ma la nostra – di noi che ancora così spesso ci domandiamo cosa potrebbero fare donne e uomini di cultura, intellettuali, scrittrici, scrittori nella politica – è forse semplice, la via è tracciata: raccontare una storia, anche la storia di uno soltanto, per scrivere la storia di tutti.
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Nota ai testi
Vengono qui pubblicati i discorsi da parlamentare di Natalia Ginzburg, ad eccezione del brevissimo intervento in aula nella discussione sulle dimissioni del deputato Gianluigi Melega (16 aprile 1986) e dell’intervento alla II Commissione Interni sul prolungamento del periodo di tutela delle opere di Italo Svevo (5 dicembre 1984). Ai discorsi è stato scelto di attribuire dei titoli che dunque non sono d’autore. Con Restiamo disarmati (15 novembre 1983) Ginzburg intervenne nel dibattito sugli euromissili che infiammava l’opinione pubblica da quando, nell’agosto 1981, il governo Spadolini aveva designato l’aeroporto di Comiso come base militare della Nato. Nell’ottobre 1983 il Coordinamento nazionale dei Comitati per la pace aveva indetto un referendum popolare autogestito sull’installazione dei missili a testata nucleare a Comiso, ed erano stati registrati oltre 5 milioni di NO. Inoltre era emerso il parere comune di passare attraverso un referendum indetto dal Parlamento, come il 22 ottobre era stato chiesto proprio dal gruppo della Sinistra indipendente. Anche mentre Ginzburg teneva il suo discorso, in diverse città italiane si svolgevano marce della pace e a Montecitorio era in corso un sit-in che sarebbe terminato con cariche della polizia. 27
Distanze incommensurabili (7 aprile 1984) e Le città e le case (10 maggio 1984) sono due lunghi interventi che si collocano nella discussione sulla conversione in legge di decreti-legge concernenti misure urgenti in materia di tariffe, prezzi amministrati e indennità di contingenza. Le crisi petrolifere del 1973 e del 1979 avevano portato a livelli di inflazione troppo elevati, dando avvio nei primi anni Ottanta a una serie di riforme atte a contenere il fenomeno. Nel febbraio 1984 il governo presieduto da Bettino Craxi aveva varato un decreto che sulla carta avrebbe congelato 3 punti della scala mobile introducendo agevolazioni fiscali, bloccando l’aumento dell’equo canone e varando norme di severità contro l’evasione fiscale. Con gli interventi della primavera 1983 Ginzburg, tra le altre cose, accusava il governo di non avere le idee chiare e soprattutto di non aver davvero attuato le misure promesse. Nel frattempo, il gruppo della Democrazia proletaria aveva iniziato a raccogliere le firme per un referendum abrogativo che si sarebbe tenuto soltanto nel giugno 1985. A favore del SÌ, insieme ai proponenti e al Pci, si schierarono il Partito sardo d’Azione e l’Msi. Il 54, 32 % degli elettori scelse tuttavia la strada della fiducia al governo Craxi. Con il discorso Il disarmo e la ragione (12 settembre 1987) Ginzburg intervenne nella discussione sulle comunicazioni del governo relative alla situazione nel Golfo Persico – dove la guerra tra Iran e Iraq in corso dal 1980 aveva iniziato a coinvolgere i traffici commerciali di paesi terzi – e in particolar modo sulla decisione di inviarvi una flotta italiana. Inizialmente e per diverso tempo, l’Italia aveva resistito alle continue richie28
ste degli Stati Uniti di fornire dragamine, ma infine il governo scelse la partecipazione, con la partenza il 15 settembre 1987 dal porto di Taranto di fregate, unità logistiche e cacciamine della Marina Militare. L’operazione sarebbe terminata soltanto nell’agosto 1988, otto anni dopo l’inizio del conflitto, con una risoluzione Onu proponente la cessazione delle ostilità, risoluzione inaspettatamente firmata da Iran e Iraq, privi di quelle forze che sarebbero state necessarie a portare avanti un conflitto esteso a un teatro ormai troppo ampio. Una legge difficile (15 marzo 1989) si colloca all’interno del trentennale dibattito sulla violenza sessuale e sul superamento del Codice Rocco nel quale veniva considerata un delitto contro la morale. Solo nel 1996 si sarebbe arrivati ad avere la legge che riconosce la violenza sessuale come reato contro la persona. Alla sezione dei discorsi parlamentari seguono alcuni articoli e interviste a Natalia Ginzburg, tutti datati al periodo dell’esperienza politica e ripubblicati con il titolo con cui uscirono sulle rispettive testate. Sono articoli e interviste che accompagnano, riprendono o integrano temi e argomenti dei discorsi tenuti in aula, in parte già raccolti in volume e in altri casi apparsi solo sulla testata originaria. Della prima pubblicazione di questi testi si dà di seguito indicazione bibliografica. Articoli. L’onestà, «l’Unità», 20 maggio 1984. L’uomo che conosciamo, «l’Unità», 11 giugno 1984. Venticinque aprile, «l’Unità», 25 aprile 1986. Sul centro di Roma, «l’Unità», 1o maggio 1986. I miei pensieri di donna, «l’Unità», 29 marzo 1987. 29
Interviste. Ottavio Cecchi, Più fiducia, meno spazio alle schede bianche, «l’Unità», 1o giugno 1983. Eugenio Manca, Quando fra le donne la politica si fa lessico familiare, «l’Unità», 25 giugno 1983. Eugenio Manca, È difficile ma possibile raggiungere le strade della gente, «l’Unità», 5 luglio 1983. Gloria De Antoni, Un 8 marzo con Gorbaciov, «Corriere della Sera», 10 marzo 1987. Chiudono il volume la commossa lettera che un lettore spedì dopo aver letto il discorso Distanze incommensurabili e che l’«Unità» pubblicò il 15 maggio 1984, e la commemorazione che Nilde Iotti, presidente della Camera, tenne in aula il 9 ottobre 1991, il giorno dopo la morte di Natalia Ginzburg. Anche questi due testi sono stati titolati in occasione del presente volume. Si ringraziano, per aver permesso la riproduzione dei testi qui pubblicati, Alessandra e Carlo Ginzburg.
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DISCORSI PARLAMENTARI
RESTIAMO DISARMATI (15 novembre 1983)
Signor presidente, onorevoli colleghi, vorrei dire soltanto poche e brevi parole. Riguardo ai missili, mi chiedo se non sarebbe giusto creare le condizioni necessarie per istituire un referendum popolare; capisco che è cosa difficile da attuarsi e tuttavia non è forse questo un fatto su cui dovrebbero essere interrogati e chiamati a decidere tutti gli italiani? Così finalmente conosceremmo la vera volontà del paese, perché non credo che in Parlamento ci sia consentito conoscerla. Giorni fa alla Camera un buon numero di deputati ha votato contro la presenza dei duemila soldati nel Libano; ma si trattava della minoranza, perché la maggioranza ha votato a favore. Se interrogassimo la gente nelle strade a questo proposito quale sarebbe la risposta? Non chiederebbero forse tutti di farli ritornare a casa? Nello stesso modo, riguardo ai missili, un buon numero di deputati alla Camera voterà contro, ma la maggioranza voterà a favore. Tuttavia è impensabile che tutti coloro i quali hanno dato i loro voti ai partiti della maggioranza nelle passate elezioni siano oggi favorevoli alla presenza dei missili sulla nostra terra. 33
Dunque, i partiti della maggioranza non esprimono per nulla il pensiero, il desiderio, lo stato d’animo dei loro elettori, ma unicamente il proprio intendimento personale. Se il referendum popolare rispondesse alla presenza dei missili con un assenso, giusto sarebbe allora sottostare a questa volontà. L’idea che la pace debba essere armata e difesa con le armi è una idea totalmente falsa: la pace vera non può che essere disarmata, la pace vera ha in odio le armi e un simile odio essa lo pone al di sopra di tutto. Quello per cui l’Italia dovrebbe battersi è il disarmo unilaterale. Non importa se altri paesi si armano, non importa se si armano le grandi potenze: noi restiamo disarmati. Noi perciò rifiutiamo di entrare nella sfera delle grandi potenze, di allearci con gli uni o con gli altri. Se altri paesi con noi si battessero per il disarmo unilaterale, e lo avessero dai loro governi, allora finalmente la volontà di pace nel mondo parlerebbe con voce più alta e più chiara.
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DISTANZE INCOMMENSURABILI (7 aprile 1984)
Signor presidente, onorevoli colleghi, all’articolo 1 del decreto-legge nr. 10 vorrei proporre il seguente emendamento: dopo le parole: «per l’intera collettività nazionale» inserire il seguente inciso: «ad eccezione del prezzo del pane, che non potrà subire alcun aumento nel corso dell’anno». Il prezzo del pane deve, nel corso dell’anno, rimanere invariato. Però non soltanto di questo vorrei parlare qui e se mi allontanerò un poco dal tema del decreto-legge, è perché, in verità, questo provvedimento induce a riflettere su un mondo di cose. Qualcuno mi ha raccontato di aver letto sui giornali, tempo fa, attribuita a Gianni Agnelli, la seguente frase: «In Italia, ciò che deve morire, muore molto lentamente». La frase sembra si riferisse alle industrie passive, che non danno nessun reddito, e che lo Stato mantiene in vita. Era giusto, forse, nei riguardi di quelle industrie: non lo so, e non ho alcuna competenza in proposito. È possibile che alcune industrie passive sia opportuno mantenerle in vita, perché domani potrebbero tornare a fiorire, ma non lo so, ed è bene che io non parli di industria perché non 35
ne so proprio nulla. D’altronde, tutto quello che sto per dire non vuole essere un discorso di una persona che in materia sociale ed economica ha delle competenze precise; io non ne ho nessuna in questi settori ed il mio non può essere un discorso molto logico o articolato, allora le mie parole saranno semplicemente frutto di alcune sensazioni ed impressioni, che ho raccolto a poco a poco dentro di me. «In Italia, ciò che deve morire, muore molto lentamente»: su queste parole, attribuite a Gianni Agnelli, ma potrebbero non essere sue, mi sembra proiettarsi un pensiero di molti, secondo il quale in Italia ci sarebbe qualcosa che sarebbe meglio morisse, ma non muore. È una fisionomia dell’Italia antica, quella, che non è stata ancora modernizzata e industrializzata e che tuttavia sopravvive, semimorta, nelle sue ceneri. Chi parlava non diceva questo, ma si riferiva alle industrie passive; ma queste parole hanno evocato in me l’idea che, agli occhi di molti, l’antica Italia appaia come un vecchio corpo destinato alla morte e che troppo lentamente muore. In verità non dovrebbe morire nulla di quella antica Italia ed ogni sforzo comune, privato e pubblico, dovrebbe essere volto al tentativo di conservarne e custodirne intatta l’intima fisionomia. In passato l’Italia era un paese agricolo; i suoi beni erano le bellezze naturali, le rovine di anti36
che civiltà ed i prodotti delle campagne; i suoi beni erano, ancora, la quiete di certi villaggi, di certe piccole città di provincia o di certi angoli di grandi città immersi nel silenzio; di certi vicoli, di certi sentieri ed una intelligenza antica, un’antica umana consapevolezza dei casi della vita, anche se osservati soltanto da una finestra o da un angolo di cortile. Anni fa l’Italia produceva olio, vino e grano; aveva ricchi boschi, vaste spiagge e splendidi campi. Era necessario costruire buoni e comodi alberghi, per ospitare i turisti stranieri, che avrebbero portato denaro, ma soprattutto era necessario costruire, ovunque, grandi aziende agricole. Non voglio dire che essa dovesse restare un paese unicamente agricolo, ma esistono paesi – per esempio, la Francia – che sono in parte agricoli e in parte industriali, ma la fisionomia agricola dell’Italia andava rispettata e conservata e non brutalmente sommersa come è stato fatto. L’hanno sommersa brutalmente e bruscamente, come ne avessero vergogna. Oggi chi dice che una fisionomia agricola dell’Italia dovrebbe essere dissotterrata viene considerato una persona dalle idee antiquate e viene deriso, ma io credo che quella fisionomia agricola dell’Italia andava salvata, anche se si costruivano nuove e numerose fabbriche. Io credo che alcuni mali dell’Italia nascano da 37
quella brutale e rapida soppressione di una sua immagine. Che cosa è accaduto nel dopoguerra? I contadini erano poveri, avevano la vita dura e abbandonarono le campagne. Se ci fossero state le aziende agricole non sarebbero fuggiti, o almeno non sarebbero fuggiti tutti. Se lo Stato li avesse aiutati, molti sarebbero rimasti. Se fossero stati loro offerti i mezzi per avere una vita meno tetra, meno soffocata, meno emarginata e soprattutto meno dura e povera, forse molti sarebbero rimasti. Ma questo non è successo. Le aziende agricole non sono state realizzate o ne sono state fatte poche. Gli alberghi destinati ai turisti sono stati costruiti, ma sono in genere scomodi, mal gestiti e costosi. La speculazione edilizia ha deturpato le spiagge, ha reso orrendi dei luoghi mirabili fino a ieri. Le acque del mare si sono insudiciate ed inquinate. Invece delle aziende agricole, hanno fatto ovunque autostrade e chioschi di benzina. Erano certo autostrade e chioschi comodi per i turisti, però il paesaggio intanto si sciupava e alberi di olivi e vigne andavano persi. Gli antichi contadini si sono ammassati nelle grandi città, sperando in una vita migliore. Per qualche tempo, certo, sentivano di vivere meglio. Dovevano faticare nelle fabbriche, ma non dovevano più lavorare la terra. Le città si sono riempite di automobili. I grandi industriali si sono 38
arricchiti. Gli antichi contadini diventati operai hanno avuto, all’inizio, una vita migliore, ma poi è diventata durissima. Occorreva semplicemente fare in modo che si vivesse meglio nelle campagne. I grandi industriali si sono arricchiti a spese degli operai. In verità, i vari governi in Italia hanno pensato e pensano sempre ai grandi industriali, ai grandi privilegiati, ai padroni. Il potere ama il potere, si rispecchia in sé stesso. Qualche volta i governanti fingono di pensare ai lavoratori e alla gente della strada; qualche volta non si curano nemmeno di fingere nulla. Nel governo attuale non si curano di fingere nulla. Ogni atto compiuto, ogni scelta, ogni decisione presa è palesemente a beneficio dei grandi privilegiati. Ecco la legge finanziaria; ecco il decreto-legge sulla sanità che taglia i servizi di previdenza. Infine il decreto-legge che oggi si discute, che taglia tre punti della scala mobile. In questo modo è sottratto ai lavoratori quel non molto che gli era stato accordato. Il momento è difficile, dice il governo, bisogna sopportare dei sacrifici. Puntualmente però i sacrifici toccano ai più deboli, ai malati, agli emarginati, ed infine ai lavoratori dipendenti, agli operai. Nessun sacrificio tocca ai padroni. Tagliare tre punti nella scala mobile, dice il governo, è indispensabile per mettere un freno all’inflazione. Ma alcuni esperti, intanto, dichiarano che l’infla39
zione salirà ugualmente. Sono solo tre punti della scala mobile, dice il governo, non bisogna drammatizzare. Ma gli operai sanno, l’intero paese sa che dietro quei tre punti c’è un disegno iniquo, il disegno di umiliare chi lavora e soprattutto il disegno di colpire le sinistre alle spalle. Si spezzano i sindacati ed il paese sa che ora esiste una lacerazione profonda, una parte del paese vuole che i più deboli paghino, una parte vuole giustizia. Esce il «libro bianco» del fisco; vi si legge che i grandi privilegiati, gli imprenditori, i professionisti privati pagano tasse miserabili, mentre chi paga di più al fisco sono i lavoratori dipendenti, gli operai. Se ne stupisce perfino il ministro delle Finanze che commenta: «Che schifo». Durante il fascismo si voleva dare all’Italia una fisionomia militaresca e guerriera. Si volevano alterarne i connotati, anche allora. Gli aspetti agricoli dell’Italia il fascismo li metteva in gran risalto, ma in un modo magniloquente, ipocrita e grottesco, del tutto privo di ogni consistenza reale. Le massaie rurali, le spighe, le zolle, popolavano i libri di lettura della nostra fanciullezza. Mussolini era fotografato a torso nudo, con in mano una zappa. Però intanto nessuna specie di sostegno veniva data ai contadini. Elmi di soldati e spighe erano le immagini che il fascismo trionfalmente portava avanti. Tuttavia non era difficile scorgere, al di là di quelle immagini, la miseria e 40
l’emarginazione dei contadini e il destino crudele che attendeva quei soldati. Oggi si vuole che l’Italia appaia come un paese tecnicamente progredito. Ma la sua modernizzazione ed industrializzazione sono state troppo rapide, violente, brutali. Si parla molto del benessere e del progresso. È l’età del benessere questa? Ma dov’è il benessere? La gente è infelice. Non c’è dubbio che è l’età del benessere, dicono, tutti o quasi tutti hanno un’automobile e magari due, il frigorifero, la televisione. Intanto non è vero, perché chi è povero è davvero povero e quando è vecchio non sa dove andare, quando è malato non sa dove andare; gli ospedali sono sovraffollati, non ci sono case di riposo, i pensionati devono vivere con pensioni miserevoli, i giovani non trovano lavoro, case di abitazione non ce ne sono e se ti sfrattano non sai dove andare. La gente è infelice perché, anche quando ha la televisione e l’automobile, sente circolare nell’aria una sensazione costante di instabilità e precarietà. La gente è infelice perché alle donne toccano fatiche immense, dovendo esse congiungere i lavori di casa con il lavoro fuori, fare entrare tutto nelle loro povere giornate, e non avendo in verità aiuti sufficienti, asili nido sufficienti e sicuri dove mettere i bambini piccoli, provvidenze sicure sulle malattie. La gente è infelice, perché sa e non dimentica che gli ospedali sono sovraf41
follati, vecchi e pieni di topi. La gente è infelice, perché sa e non dimentica che le carceri sono sovraffollate, maldifese e chi ci è rinchiuso teme continuamente di essere ammazzato, come già è avvenuto a molti per vendetta, in seguito ad azioni della mafia e della camorra. Chi vi è rinchiuso vive là in una condizione infernale. La gente è infelice perché tra gli uni e gli altri si stende un reticolato sottile, una sorta di strana ragnatela, che lega insieme i diversi destini, cosicché il disagio, le ansie, l’insicurezza di uno passano per contrario agli altri e nessuno trova mai un poco di pace. La gente è infelice, infine, perché teme la guerra nucleare e le immagini di guerra appaiono ogni giorno ovunque nei titoli dei giornali, sui teleschermi, nelle sale cinematografiche e se ne discorre ovunque incessantemente. Tuttavia un buon numero di persone in Italia non condivide e non avverte questi disagi, la loro fantasia non li immagina, essi sono fuori da quella ragnatela e la ignorano. Sono quelli che hanno nelle loro mani la facoltà di scegliere, decidere, programmare. Sono i padroni dell’Italia, quelli che sanno di poter guidare il corso delle cose. Essi non pensano mai né alle carceri, né agli ospedali, né alle stazioni, dove dorme buttato in terra chi non ha casa, né ai villaggi in Sicilia dove si muore di sete. Forse temono anch’essi la guerra nucleare in qualche momento, ma vi pensano in 42
maniera ovattata e vaga e ritengono che per loro ci saranno ricoveri antinucleari o la maniera di raggiungerli in tempo utile. Ritengono che loro, così forti, in qualche modo rimarranno incolumi. Anche loro sono infelici, anzi a volte sono infelicissimi, però, in genere, non sanno perché. Della propria infelicità danno colpa agli altri, ai lavoratori inquieti, agli scioperi, alle varie calamità, che possono insidiare i forti. D’estate prendono un aereo e vanno in vacanza in luoghi ameni, solitari ed incontaminati; all’estero, lontano dall’Italia, dalle affollate e chiassose spiagge italiane, dalle campagne tagliate dalle autostrade e sciupate. Non pensano mai né alla gran miseria né alla vita arida ed affannosa di chi non ha veri problemi di sopravvivenza ma si dibatte fra difficoltà giornaliere in corsa con il tempo, la testa vuota e confusa, le orecchie assordate dai rumori, le ore ingombre e mai un istante per scambiare con il prossimo una parola tranquilla, per oziare su un angolo di strada, per capire il proprio destino e sé stessi. È vero che l’ozio, la tranquillità, la contemplazione, i grandi privilegiati non l’hanno nemmeno loro, essendo sempre assorti in mille traffici e con la mente annodata in complicati calcoli di denaro. Se avessero ozio, contemplazione e tranquillità non saprebbero come adoperarli. Tuttavia tra quelli che entrano dentro la ragnatela e quelli che ne sono fuori, tra quelli che 43
respirano la precarietà e quelli che non la respirano esiste una profonda separazione e si stendono distanze incommensurabili. Molti dicono che, se non ci fossero le fabbriche di automobili, gli operai non avrebbero lavoro. Molti anche dicono che è indispensabile costruire armi, perché, se non ci fossero armi da vendere all’estero, gli operai non avrebbero lavoro e crescerebbero miseria e disoccupazione. Ma questa a me sembra un’affermazione ricattatoria. Non è vero. Invece di produrre tante automobili si potrebbero fare più mezzi pubblici: più autobus, più corriere, più treni. Agnelli e gli altri come lui guadagnerebbero di meno, ma nelle città si starebbe meglio e i viaggi non sarebbero disagiati come sono ora. Invece di produrre armi, si potrebbero fare tante cose di cui ha bisogno la gente: inutile forse numerare tutto quello di cui ha bisogno la gente in Italia. Case a prezzi popolari, asili, scuole, ospedali, case di riposo per i vecchi. Perché produrre armi? Perché produrre tante automobili, quando alla gente manca il necessario? Le vogliono, dice qualcuno. Sì, molti le vogliono, ma occorrerebbe rendere i desideri della gente più nobili, cominciare da quando sono bambini. Alcuni anni fa, ad un certo momento non si faceva che parlare di austerità. I giornali stampavano articoli, in cui si elogiava il piacere di camminare. L’austerità era soprat44
tutto camminare. Sembrava che tutti dovessero reimparare ad andare a piedi. Poi, chissà perché, dell’austerità non si è più parlato. Per le scuole, per gli asili, per le case a prezzi popolari non c’è denaro, dicono i governi; ma noi abbiamo la sensazione precisa che il denaro dello Stato sia speso ben male. Si fanno autostrade, abbattendo boschi, tagliando campagne, sciupando mirabili luoghi per sempre. Avevamo olio, vino, grano, adesso li facciamo venire dall’estero; mangiamo piselli in scatola, venuti dall’estero. Arance, limoni marciscono ai piedi degli alberi, nessuno li raccoglie; raccoglierli costa troppo, la manodopera è cara, dicono; ma è vero? Non si tratta invece di un’assenza di organizzazione? O anche accade che si distruggano limoni e arance, che vi si passi sopra con le ruspe, in modo da farne salire il prezzo. Per tornare alle aziende agricole, alle cooperative agricole, se le facessero, non sarebbe finito, grazie a Dio, questo spreco di limoni e di arance o queste devastazioni, questo triste perire o marcire? Se là dove la frutta marcisce o viene distrutta si facessero delle piccole fabbriche di marmellata, non sarebbe questo un modo di dare lavoro alla gente e di usare quei beni che vanno distrutti o persi? Ma è noto che oggi in Italia chiunque pensi o decida di iniziare un’attività anche modesta e umile subito incontra delle forze oscure che gli chiudono il passo. Là dove nasce un’idea 45
creativa, un progetto utile, mafia e camorra insorgono a chiudere il passo, ed ogni idea, ogni impresa, grande o piccola, ne è subito strangolata. Erano mali antichi, ma adesso sono diventati immensamente più forti e si sono estesi in ogni luogo. Diffondono ovunque un senso costante di insicurezza e paura. Si sa che a pagare saranno sempre i più deboli, i più sprovveduti ed anche i più onesti e limpidi, coloro che vogliono pensare, agire, vivere nella gran luce del giorno. Quando si è saputo della loggia P2 ci si è resi conto che eravamo circondati da forze occulte, le quali si muovevano in ogni punto della vita del nostro paese e che il loro potere occulto mirava a devastarlo nel profondo. Esiste dunque ancora un’altra separazione, in Italia, fra la gente: quelli che agiscono e vogliono agire nella gran luce del giorno e quelli che si muovono nella notte. Molti fra quelli che agiscono e vogliono agire nella gran luce del giorno e molti fra quelli che vogliono veder chiaro nella notte e avventurarvisi con torce e fiaccole e parlare a voce alta e chiamare a voce alta la giustizia, ben sovente, come si sa, vengono trovati morti. Mafia, camorra, terrorismo, sequestri di persona, corruzione pubblica, traffico di droga e di armi: questi sono i mali dell’Italia. Come siano sorti e come siano diventati così rigogliosi, così pericolosi e così diffusi è difficile dirlo. Certo, 46
covavano nel paese da tempo e sono esplosi negli ultimi anni. Secondo quelle parole attribuite ad Agnelli, «tutto ciò che deve morire in Italia, muore molto lentamente». Ma in verità noi abbiamo visto invece in Italia nascere, crescere e proliferare un mondo di cose spaventose, e l’Italia trasformarsi e deturparsi con una rapidità straordinaria, e fulmineamente sparire alcuni suoi connotati che ritenevamo indistruttibili. L’Italia era un paese, in tempi che ci sembrano ormai lontanissimi, fondamentalmente quieto e mite e adesso è diventato teatro di atroci violenze; era un paese che detestava il sangue, e ora è diventato teatro di continui, orrendi delitti. Tuttavia, le radici più vive e vitali del nostro paese, le sue qualità essenziali di equilibrio, di sensatezza e di coscienza civile, sono rimaste indenni. L’abbiamo visto a Roma, nella manifestazione del 24 marzo1; penso che sia stata quella una giornata consolante e corroborante per molti, forse anche per alcuni fra coloro a cui non sembrava che i tagli di tre punti della scala mobile fossero un’iniquità. Penso che anche alcuni fra loro abbiano avvertito una sensazione di pacatezza e serenità, come di chi si trova all’improvviso in presenza d’un avversario
1 Il 24 marzo 1984, in piazza San Giovanni, a Roma, un milione di persone manifestò contro il ‘decreto di San Valentino’ con cui il governo Craxi aveva tagliato la scala mobile.
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che è costretto ad ammirare. È corroborante scoprire che esiste ancora nel nostro paese, fra tante lacerazioni e devastazioni, un numero di persone unite insieme da una volontà unica e concorde, una volontà che è prima di tutto una volontà di pace, una serena determinazione a credere nella forza della giustizia, ad opporsi ai disegni iniqui, a guardare nell’avvenire. Una fisionomia dell’Italia, seria, ironica, limpida, sana e indenne, l’abbiamo riconosciuta in quella manifestazione. L’Italia di fisionomie ne ha molte altre, e alcune sono in armonia perfetta fra loro. Limpide e serie fisionomie dell’Italia, le possiamo scorgere in mille luoghi: in certi vicoli di vecchi villaggi, nel davanzale d’una finestra, nel silenzio di certi vecchi cortili. Quando vi passiamo o vi posiamo gli occhi, abbiamo la sensazione di incontrare un amico, i cui tratti dobbiamo guardare con intensità per poterli ricordare, perché potrebbe da un momento all’altro sparire, perché la sua vita è legata ad un filo e forse è l’ultima volta che noi lo vediamo. Troppi ne abbiamo visti sparire, di vecchi villaggi: si tornava e, al loro posto, c’erano strade o città, un’umanità stralunata, che aveva completamente perduto i rapporti con il proprio passato e non ne aveva nessuno con il futuro. Erano villaggi poveri, dissero, e la gente non aveva più ragione di starci: sì, ma nessuno mi toglie dalla testa che doveva essere possibile 48
lasciarli esistere così come erano, migliorandone l’esistenza per gli abitanti. Altrove, in altri luoghi dell’Europa, i vecchi villaggi e le piccole vecchie città sono stati lasciati come erano, migliorando l’esistenza degli abitanti. In altri luoghi dell’Europa, i rapporti con il passato sono considerati essenziali e ci si prende cura di non distruggerli, sapendo che una volta distrutti sarà impossibile ricomporli e ricostruirli, e sapendo che il distruggerli umilia e fa ammalare il pensiero umano, rende vile e triste la qualità della vita. Una collega, in un suo intervento nei giorni scorsi, ha osservato come sia oscuro, tortuoso e contorto il linguaggio del decreto-legge in esame: è vero, esso è tortuoso, contorto e sibillino, come è sempre oggi il linguaggio del potere. Così si esprime chi non si propone di comunicare col prossimo, ma semplicemente di piegarlo alla propria volontà. Come è lontano il linguaggio di questo decreto dalla gente, che passa per le strade, da tutto ciò che la gente desidera, spera, chiede. Persino la parola «pane», nel contesto di un simile linguaggio, suona come qualcosa di astratto, qualcosa che non ha nulla a spartire con il pane, che noi tutti i giorni comperiamo e mangiamo. Eppure, le leggi dovrebbero essere fatte dello stesso linguaggio che si adopera per parlare dell’acqua e del pane: ma, d’altronde, l’oscurità, la tortuosità del linguaggio l’incontriamo spesso oggi non sol49
tanto nei decreti-legge, ma anche nei romanzi e nei giornali. È sempre un linguaggio ricattatorio, intimidatorio, è il linguaggio che tacitamente dice al prossimo: «se non mi capisci, è perché sei imbecille». E ancora tacitamente aggiunge: «io sono più forte di te, sono in una sfera superiore alla tua, fra me e te corrono distanze incommensurabili. Io ho in mano il tuo destino e la tua vita, io sono tutto e tu non sei nulla». È vero che, per quanto riguarda i romanzi, la poesia, il teatro, è necessario ogni volta distinguere fra la oscurità, che nasce da una ricerca ardua, da una reale complessità di pensiero, e l’oscurità, che nasconde puramente e semplicemente il vuoto; comunque, per quanto riguarda i romanzi o la poesia o il teatro, il discorso è lungo e porterebbe lontano. Ma i giornali, i giornali dovrebbero essere chiari: la gente li compra e legge ogni giorno per sapere e capire che cosa succede, e devono essere chiari. E il linguaggio dei politici dovrebbe essere chiaro, accessibile a tutti, immediatamente intelligibile, limpido come uno specchio perché la gente vi si possa specchiare. I decreti-legge devono essere chiari. Fra le molte battaglie da combattere, una è certamente questa: la battaglia per un linguaggio chiaro, concreto, intelligibile a tutti, in rapporto diretto con le cose. Io credo che la vita del nostro paese diventerebbe migliore e più limpida se ognuno di noi si studiasse di vincere, almeno, intanto, l’oscurità del 50
linguaggio, se si studiasse di indirizzarsi al prossimo con ogni parola, di non perdere mai di vista la realtà del prossimo, di non irriderlo, non truffarlo, non umiliarlo, non calpestarlo mai. Ma in verità agli occhi del governo attuale, sembra che il prossimo non sia presente; sembra che non sia fatto di persone singole, ma sia invece una massa informe senza volontà e senza volto. Ad una simile massa informe non serve indirizzare parole chiare, ma occorre invece avvilupparla in una caligine, in cui non sia più possibile scorgere né strade né direzioni precise. Disorientata, oppressa e stralunata, questa massa informe cadrà inerte, perdendo a poco a poco ogni facoltà di interrogare, di rispondere, di giudicare e di ricordare. Non avrà più né vincoli con il passato, né progetti per l’avvenire. In Italia, qualcosa di simile è già avvenuto in età non lontane e molti di noi ne conservano la memoria. Nella parola ‘socialismo’ molti di noi vedono tutt’altro rispetto a quello che ci sta davanti oggi. Per molti di noi, la parola non può che significare giustizia sociale, onestà e serietà di intenti, moralità pubblica, coraggio civile, difesa dei diritti del più debole contro il più forte. Ma le cose cambiano e a volte cambiano in bene, a volte cambiano in male. Bisogna ora abituarsi a dare alla parola socialismo un nuovo e diverso colore. Ai giovani forse è facile, ma ai vecchi questo sembra dolo51
roso ed appare come un’ingiuria, che colpisca memorie amate e figure lontane nel tempo, come un’usurpazione e un tradimento. «In Italia, tutto ciò che deve morire, muore molto lentamente»: così hanno detto; però non è vero. In Italia tante cose muoiono in fretta, con una rapidità spaventosa, mostruosa, che non lascia nemmeno il tempo di piangere. Il socialismo di ieri, per esempio, è fra le cose che sono morte in fretta. Non ce n’è più traccia in nessun luogo… E in verità, a pensarci bene, in Italia non dovrebbe morire nulla, forse nemmeno le industrie passive; non dovrebbe morire nulla di ciò che le appartiene veramente e dovrebbe morire invece tutto ciò che le è caduto sopra, e le è estraneo, tutto ciò che è cresciuto sopra il suo corpo rendendolo a volte irriconoscibile. Il nuovo dovrebbe nascere dalla sua sostanza più intima, fiorire dalle sue radici più antiche; il nuovo ed il vecchio affiancati ed accoppiati troverebbero spazio e pace. Falsa è l’idea che sia spregevole ciò che è vecchio, ed altrettanto falsa è l’idea che fra il nuovo ed il vecchio debbano fatalmente regnare discordie, conflitti ed avversioni. Il vero conflitto non è tra il vecchio e il nuovo, ma tra il falso e il vero, tra la realtà e l’irrealtà. Per quanto riguarda i missili, che sono stati portati a Comiso, era meglio non portarceli signori del governo, perché una grande parte dell’Italia non li vuole. 52
Sappiamo bene che a voi questo è del tutto indifferente e che voi usate fare come se tale parte dell’Italia non ci fosse o non avesse né occhi né voce, tuttavia ci sembra utile ricordarlo poiché riteniamo che ne abbiate, in qualche attimo, una vaga sensazione e riteniamo possa risvegliarsi in voi qualche perplessità. Una grande parte dell’Italia ha orrore delle armi, di qualunque specie siano, nucleari e non nucleari, costruite qui da noi o in altri luoghi del mondo. Una grande parte dell’Italia non vuole saperne di ricoveri antiatomici, perché si sente agghiacciare all’idea di salvarsi a piccoli gruppi se scoppiasse una guerra nucleare e il giorno dopo affacciarsi su un mondo dove non c’è più anima vivente. Una grande parte dell’Italia si rifiuta di affrontare una idea del genere, ha orrore delle armi anche come mezzo di difesa e preferisce essere ammazzata piuttosto che ammazzare qualcuno. Né ottimista né pessimista riguardo al futuro dell’umanità, questa grande parte dell’Italia pensa che, comunque, bisogna studiarsi di vivere come se si avesse davanti un futuro di secoli. Avversa alla violenza, avversa agli spargimenti di sangue, avversa ad ogni specie di distruzione e devastazione, amante di progetti e di memorie, questa grande parte dell’Italia vuole essere solidale con i propri simili, ferma nella difesa della giustizia, risoluta a non cedere alle imposizioni del potere 53
LE CITTÀ E LE CASE (10 maggio 1984)
Onorevole presidente, onorevoli colleghi, non sarà forse necessario ricordare in quest’aula che il problema della casa è uno tra i più drammatici nella realtà italiana di oggi. È vero che è drammatico anche in altri paesi: costruire case è sempre più costoso e le città, soprattutto le grandi città, sono sovrappopolate ovunque. Tuttavia, penso che in altri paesi si siano trovate alcune soluzioni che consentono di affrontare il problema almeno parzialmente. In Inghilterra e in Svizzera, per esempio, esiste il fitto a termine, per cui tra l’affittuario ed il proprietario si stabilisce un accordo inderogabile: l’affittuario si impegna a restituire la casa dopo un numero di anni prestabilito, ed un simile impegno la legge non consente di trasgredire. In questo modo, una famiglia con molti bambini piccoli potrà avere una casa abbastanza grande per un certo numero di anni e lasciarla quando i figli saranno cresciuti e in età di abitare per conto proprio. Ma occorre che la legge sia ferma nel garantire gli impegni. La nostra legge sulle case, invece, si presta ad un grande numero di trasgressioni e, 55
in definitiva, non protegge, non difende e non garantisce nessuno, né l’inquilino né il proprietario. La legge sull’equo canone era in sé stessa una legge giusta, ma è stata formulata malamente. Così come è stata formulata, non porta alcun vantaggio a nessuno e non protegge nessuno dagli abusi, dai soprusi e dalle trasgressioni. Occorrerebbe formularla meglio, con maggiore fermezza e chiarezza. Sappiamo bene che Roma è piena di case sfitte, avendo i proprietari paura di affittarle, paura di trovarsi legati mani e piedi in una situazione senza vie di uscita. È vero che moltissimi tra i proprietari sono degli speculatori, ma non tutti lo sono. Alcuni hanno dovuto affrontare, per possedere una casa che desse loro qualche piccolo reddito, anni ed anni di lavoro e di sacrifici. Essi non cedono in affitto questa casa perché, se domani ne avranno bisogno per un figlio che si sposa o se si troveranno nella necessità di venderla, non sarà loro possibile liberarla. Così, chi possiede una casa la tiene sfitta. Se possiamo comprendere la situazione di qualche piccolo proprietario e giustificare il suo operato, desta invece la nostra indignazione l’operato dei grandi proprietari, i quali tengono sfitte le case, in serbo per ottenerne in futuro un reddito altissimo. Abitare oggi in una casa propria è un privilegio di valore inestimabile. Diversamente, ci troviamo 56
in balìa della prepotenza dei proprietari o delle necessità personali dei proprietari o del caso. Il problema degli alloggi pesa soprattutto sui giovani e sui vecchi. Pesa sui giovani, perché tanti di loro sono costretti a rinunciare a sposarsi o a rinunciare ad uscire dalla famiglia d’origine, perché non riescono a trovare un appartamento a prezzi possibili. Pesa sui vecchi, perché tanti di loro vengono mandati via da alloggi dove hanno trascorso un’intera esistenza e messi brutalmente dinanzi a questo problema insolubile: trovarsi una casa a prezzi possibili, in una città dove non ce ne sono. Intanto, una delle richieste più elementari e indispensabili per restituire un minimo di coerenza e di equità alla manovra di politica economica prevista dal decreto è quella di procedere al blocco del meccanismo di aggiornamento dell’equo canone che, secondo la legge, dovrebbe scattare nel prossimo agosto, con un aumento rilevante di tutti i canoni di locazione delle abitazioni private. Questa scelta si impone per molte ragioni. Innanzitutto, è evidente l’iniquità di un provvedimento diretto ad impedire l’adeguamento automatico delle retribuzioni al variare del costo della vita, se contemporaneamente non si adopera la medesima energia per bloccare gli altri meccanismi automatici di indicizzazione, che pesano allo stesso titolo sul generale incremento dell’in57
flazione e contribuiscono a ridurre ulteriormente il reddito reale delle famiglie dei lavoratori. Una seconda ragione è di semplice coerenza e lealtà. Nel noto protocollo di intesa del febbraio scorso, che viene di sovente richiamato a fondamento di questo decreto-legge, come nell’altro che lo ha preceduto, uno dei pochi impegni concreti assunti dal governo era proprio quello di bloccare i canoni di locazione. Ebbene, sono passati quasi tre mesi, ed ancora non è stato fatto nulla. La scadenza di agosto si avvicina ed il governo non si decide a prendere questa decisione. Eppure, il nuovo decreto-legge avrebbe potuto costituire un’ottima occasione per affrontare la questione, insieme a tutta la disciplina delle tariffe e dei prezzi amministrati. Perché non lo si è fatto? Non sembra eccessivo il sospetto che, in realtà, il governo non abbia affatto le idee chiare e non abbia deciso ancora se rispettare o meno gli impegni assunti nel febbraio scorso. Queste sono le ragioni per le quali riteniamo che, ora e subito, si debba includere nella sua logica collocazione, insieme al provvedimento di controllo dei prezzi e delle tariffe, il blocco dell’aggiornamento dell’equo canone, all’interno del decreto-legge che stiamo esaminando. Ciò detto, ci sembra doveroso sottolineare la complessità della questione. Se, infatti, sono 58
sacrosante le ragioni per le quali i lavoratori hanno richiesto l’approvazione di un emendamento come quello che noi oggi presentiamo, è pur vero che sono moltissimi i cittadini italiani, anche di reddito medio-basso, che oggi non possono godere di una casa ad equo canone. Vi sono tutti coloro che abitano in una casa di proprietà, magari acquistata attraverso una cooperativa e con un mutuo pluriennale o addirittura autocostruita nelle periferie delle grandi città; vi sono poi coloro – purtroppo non molti – che hanno la possibilità di occupare un alloggio nelle case popolari, al canone sociale previsto; vi sono, infine, coloro che sono costretti a pagare canoni illegali o ad offrire buonuscite o buonentrate, a pagare, insomma, molto di più di quanto preveda la legge. È evidente, dunque, che il blocco dell’equo canone non può risolvere un problema così drammatico. Sarebbero necessari ben altri provvedimenti per aumentare le offerte di abitazioni in affitto, per migliorare l’edilizia pubblica, per superare la vergogna delle migliaia di appartamenti vuoti e sfitti, mentre tante famiglie stentano a trovare casa. Tutto questo è necessario; eppure le leggi in proposito vanno a rilento; è stata dimostrata tanta energia e tempestività per bloccare i salari, ma nessuna per affrontare il problema delle case. Ma allora è forse vero che è facile mostrarsi forti con i deboli e deboli con i forti? 59
IL DISARMO E LA RAGIONE (12 settembre 1987)
Signor presidente, onorevoli colleghi, molti di noi, all’interno del Parlamento, sono recisamente contrari a un’azione armata nel Golfo Persico. Molti di noi trovano tale azione inutile e sommamente insensata. La trovano, inoltre, sommamente pericolosa. Sappiamo troppo bene che una anche modesta azione armata nel cuore di una guerra può far sì che si estendano e dilaghino altri sanguinosi conflitti. Sappiamo troppo bene che nel momento presente ricorrere alle armi può provocare conseguenze spaventose. Sappiamo bene che non esiste nel mondo un luogo dove non possa scatenarsi, per una scintilla, un immenso incendio mettendo in grave pericolo la pace mondiale. Vorremmo che sull’insensatezza prevalessero la ragione ed il buon senso; vorremmo che invece delle armi l’Italia cercasse le strade di una soluzione pacifica. Le otto unità navali militari che il governo vuole inviare nel Golfo avrebbero, secondo il governo stesso, il compito di difendere l’onore e la dignità del paese. 61
Così, per un orgoglio nazionale evocato sui banchi del governo, ma non sentito da nessuno, si è pensato di gettare delle navi e degli uomini in una impresa armata che, a molti nel Parlamento, appare assurda, delirante e – come abbiamo detto – pericolosa. Per quelli della vecchia generazione, quale è la mia, simili imprese e le motivazioni che le muovono hanno un aspetto particolare e le parole «orgoglio nazionale», «dignità» e «onore del paese», hanno alle nostre orecchie un suono funesto perché ci riconducono indietro, al tempo del fascismo e vi riconosciamo lo stile e lo spirito di Mussolini. Anche allora la gente veniva truffata con parole simili e spinta a prendere le armi per un orgoglio nazionale che non provava. La politica del fascismo, tendeva a far sì che la gente vivesse circondata da valori e sentimenti falsi, lontana da valori e sentimenti reali. Abbiamo tutti oggi in Italia ed altrove un bene essenziale da difendere: la pace mondiale. Sappiamo bene che la pace nel mondo è costantemente in pericolo e sappiamo che basta un gesto incauto, una minima azione per fare esplodere un conflitto senza confini. Sono ormai quarant’anni che in Italia è finita la guerra e tuttavia non potremmo dire che questi siano stati quarant’anni di vera pace. In questo periodo non abbiamo mai smesso di pensare 62
alla guerra; abbiamo negli occhi e nello spirito immagini di sangue, di violenza, di repressione e di stragi. Ogni giorno alla televisione vediamo la guerra in paesi che non sono il nostro, ogni giorno i quotidiani ci danno notizia di luoghi dove si vive in guerra da molti anni. I paesi che la guerra ha risparmiato hanno tuttavia visto e subìto violenze, repressioni e stragi, così come violenze, stragi e spargimenti di sangue abbiamo visto e sofferto anche noi sulla nostra terra. Tutto ciò in molti di noi ha generato l’orrore delle armi, l’orrore delle aggressioni armate e ad un’aggressione armata molti di noi sono risoluti a rispondere con il disarmo e con la ragione. Ma il disarmo e la ragione sembrano ad alcuni un segno di viltà; viene allora evocato l’orgoglio nazionale che chiede bandiere ed armi. In verità un futuro di vera pace, forte, stabile e duraturo e totalmente disarmato non c’è mai riuscito di costruirlo nella nostra mente nel corso di questi anni. Tutti a parole vogliono la pace, ma non tutti hanno in cuore la vera pace, quella che si rifiuta sempre e comunque di sparare, anche contro uno solo dei propri simili e di mettere in pericolo anche l’esistenza di un solo essere umano. L’Italia, che era in passato un paese mite, è oggi diventata una stazione per il traffico di armi e droga; era un paese mite anche quando i suoi governanti suonavano tamburi di guerra. Oggi 63
la sua mitezza è scomparsa perché la droga, le armi e i sequestri di persona si sono insediati e diffusi nelle pieghe più segrete e riposte della sua vita sociale. Ci muoviamo quotidianamente in mezzo a strumenti di morte. Se quelle otto unità navali militari partiranno davvero per il Golfo, a quelle navi e a quei marinai potrà succedere di essere colpiti, per l’onore e la dignità del paese, da armi fabbricate in Italia e vendute dall’Italia. Un mondo senza violenza, senza droga, senza traffici di armi, senza mafia, senza camorra, senza sequestri di persona: questo è il futuro che vorremmo destinato all’Italia. È un mondo così diverso dal nostro che ci sembra utopistico immaginarlo. Ma la vera pace stabile, forte e duratura, è possibile costruirla dentro di noi, o almeno gettarne le fondamenta, quando un vero orrore della devastazione e della violenza sia vivo in ognuno. Nel segno della violenza sono il malgoverno e la prepotenza sociale. Nel segno della violenza sono le carceri, così come la nostra società le ha pensate. Le carceri dovrebbero essere semplicemente un mezzo di legittima difesa e di rieducazione; sono, invece, un luogo di pericolo, di violenza pubblica e di repressione. Necessario sarebbe che ciascuno di noi coltivasse dentro di sé l’immagine di un mondo migliore, anche se tutto induce a ritenerlo uto64
pistico e sconfinatamente lontano dalla nostra presente realtà. Ma oggi, più che mai, sentiamo la necessità di coltivare delle utopie; oggi più che mai sentiamo la necessità di credere nei valori veri, nella verità e nell’onestà e nella giustizia, parole così lontane dal nostro mondo che le scriviamo e le pronunciamo con estrema difficoltà. Pensiamo che oggi tutte le forze che hanno in orrore la guerra debbano cercare di opporsi alla partenza di quelle otto unità militari. L’onore e la dignità di un paese non si possono, oggi, difendere con le armi. La violenza genera violenza, e le armi generano armi; e il nostro mondo presente è saturo di violenza e di armi. Cerchiamo, dunque, di ribellarci e di fermare questa delirante e criminosa impresa. Il Partito socialista vuole l’intervento armato. Io non credo che nessuno se ne possa stupire. Nella politica socialista attuale i valori veri sono sempre stati assenti; nella politica socialista attuale mai si è vista ombra né di onestà, né di amore per la verità. Vi abbiamo sempre visto soltanto calcoli e giochi politici, che avevano come fine unico la repressione e il potere. Nella politica socialista attuale al posto dei valori veri vengono puntualmente offerti alla gente dei valori falsi. Stupirsene sarebbe sciocco; ce lo siamo sempre aspettato. E tuttavia non possiamo credere che non ci siano, tra le file del 65
Partito socialista, uomini di pace; non possiamo credere che non ci siano, là, persone a cui l’impresa nel Golfo appaia nello stesso tempo insulsa, grottesca, criminosa e pericolosa. Non possiamo crederlo, e a loro ci appelliamo perché si oppongano anch’essi alla partenza delle navi. Su alcuni giornali, in questi giorni, abbiamo letto frasi che ci sono sembrate sommamente irritanti; e irritante era il tono generale di certi articoli, improntato ad un cinismo altezzoso e beffardo, che abbiamo giudicato di una qualità vile. Ci è sembrata irritante l’espressione «mammismo nazionale» e in genere la parola «mammismo», troppo spesso usata. Nello stesso modo ci è sembrata irritante l’espressione «querimonie cattoliche», riferita a proteste per le decisioni prese dal governo. Ci sembra che in un momento così grave e così drammatico, dove un gruppo di persone viene spinto nel cuore della guerra, i giornali dovrebbero astenersi dal cinismo e dall’irrisione. Qui ci sono delle vere madri che hanno paura di perdere i loro figli in una delirante azione armata. Cattoliche o non cattoliche, le «querimonie» sono generate da un’indignazione che condivide chiunque, oggi, abbia in orrore i calcoli politici, l’indifferenza per la vita del prossimo, la follia politica, l’insensatezza e le armi. Se ad alcuni degli autori di quegli articoli toccasse partire per 66
il Golfo, riteniamo, essi userebbero un linguaggio meno cinico e del tutto diverso. Con vivo piacere, invece, abbiamo letto sui quotidiani in questi giorni la notizia che sono stati arrestati a Milano i Borletti padre e figlio per traffico di armi e di droga. C’era un collegamento tra loro e una cosca mafiosa di Trapani. Ci auguriamo che la giustizia faccia piena luce su questa trama oscura e tortuosa e ne arresti tutti i responsabili. Il giudice Ciaccio Montalto è stato ammazzato perché ne aveva individuato le tracce. Il giudice Carlo Palermo è andato avanti nella medesima indagine ed ha corso il rischio di essere ammazzato a sua volta, in un attentato in cui sono morti una donna e i suoi due bambini. Questi sono fatti che il paese non dovrebbe mai dimenticare; invece, li seppellisce e dimentica1. Noi pensiamo che l’onore e la dignità dell’Italia siano stati difesi dal coraggio esemplare di questi due magistrati. Pensiamo soprattutto che essi si sono battuti con estremo spirito di sacrificio, in nome di valori veri, quei valori veri che oggi vengono derisi, sommersi e sostituiti con Giangiacomo Ciaccio Montalto, magistrato, è stato vittima di un attentato di Cosa Nostra, nella notte del 25 gennaio 1983. Pochi giorni prima, a Trento, aveva incontrato il procuratore Carlo Palermo per un’inchiesta riguardante il traffico di stupefacenti. Lo stesso Palermo subì un attentato, al quale sopravvisse, la mattina del 2 aprile 1985. 1
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valori falsi. Pensiamo che essi si sono battuti per amore della verità e della giustizia e a difesa della gente, contro la devastazione e contro la morte. Infine, ci chiediamo come mai in questi giorni di dibattito sulla questione del Golfo il presidente del Consiglio non sia mai stato presente. In aula ci chiediamo dove fosse e quale impegno politico gli apparisse più importante. Ci chiediamo se non fosse per lui il momento di stare seduto nell’aula, di esaminare le condizioni, le considerazioni e le fisionomie degli uni e degli altri, di osservare e di ascoltare. Forse, con la sua assenza, intendeva minimizzare e sdrammatizzare. Ma sdrammatizzare non ci sembra giusto, quando è in gioco il destino di un gruppo di persone o anche di una persona sola. Quale peso viene dato qui al destino umano? Così, da un lato, il governo sventola le sue bandiere e suona le sue trombe di guerra e, dall’altro lato, sembra voler togliere importanza ai fatti. Questo atteggiamento del governo lo troviamo incoerente, provocatorio, perentorio e colpevole davanti al paese.
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UNA LEGGE DIFFICILE (15 marzo 1989)
Signor presidente, onorevoli colleghi, la legge contro la violenza sessuale è un provvedimento urgente e necessario. Per troppo tempo infatti nel nostro paese ci siamo trovati a dover combattere contro un principio falso, quello che la violenza sessuale fosse un delitto contro la morale e non già contro la persona, come è in realtà. Troppe volte abbiamo letto o udito di donne violentate alle quali non era stata resa giustizia. Troppe volte abbiamo visto i processi per stupro concludersi in maniera infame e troppe volte, in questi processi, è trionfata una idea delittuosa dei rapporti tra donna e uomo. Poiché ora il provvedimento dovrà essere trasmesso al Senato, è indispensabile che il suo percorso sia rapido e che esso vada in porto in un tempo breve. Il gruppo al quale appartengo ha discusso a lungo su tale proposta di legge, in quanto il modo di applicarla suscitava dubbi, incertezze e perplessità. D’altronde, incertezze e perplessità regnano ovunque, perché si tratta di una legge difficile, e il fatto che abbia avuto un lungo travaglio non dovrebbe meravigliare nessuno. 69
Si tratta di una legge difficile perché investe la zona più segreta e più intima dell’esistenza umana. Come applicare e come formulare una legge su una zona della nostra esistenza che richiederebbe e riserbo e silenzio? Meglio applicare la procedura d’ufficio, la querela di parte o il doppio regime? Io personalmente ho cambiato idea cinquecento volte; so che ad altri è successa la stessa cosa. La querela di parte mi sembrava giusta, perché trovavo giusto che la scelta se denunziare o meno uno stupro venisse lasciata alla donna che l’aveva subito. C’era però il rischio che, decidendo una donna di astenersi dalla denunzia, quel delitto rimanesse impunito. Come può rimanere impunito un delitto contro la persona? Come può sottrarsi alle forze dell’ordine chi ha commesso uno stupro semplicemente perché la vittima ha deciso di non denunziarlo? Quanto al doppio regime, i compagni del mio gruppo lo trovavano inaccettabile. Io invece inizialmente non l’ho considerato tale; ci ho pensato un poco. Certo, uno stupro tra estranei è di natura del tutto diversa da uno stupro tra due conviventi. Non è però insensato e folle imporre procedure diverse per un delitto sì di natura diversa ma identico nella sostanza? È mai possibile che una legge operi una discriminazione fra la gente: coniugati o conviventi da 70
un lato, estranei dall’altro? La legge non è forse uguale per tutti? Non è forse scritto così in ogni aula di tribunale? Infine ho deciso per la procedibilità d’ufficio. Mi è sembrata la via più diretta, più coerente e più semplice. Se la violenza sessuale è un delitto contro la persona comunque e sempre, deve intervenire lo Stato. Alcuni compagni del mio gruppo condividevano la mia posizione, altri erano invece per la querela di parte. Tuttavia, quando la procedura d’ufficio ha vinto ci siamo rallegrati tutti, penso quasi nella medesima misura. Molti di noi hanno ritenuto che il risultato di quella votazione rappresentasse un esito felice. Se ripenso alle varie discussioni e ai conflitti che si sono accesi durante l’esame di questa proposta di legge all’interno del mio gruppo e altrove, mi sembra di poter dedurre che tutti chiedevano troppo a questa legge, come se essa avesse la facoltà di rendere migliore e più limpida la società intera. In verità, essa ha unicamente il potere di rendere migliore e più limpido un aspetto del codice; e non è poco. Quando la proposta di legge arriverà in porto sarà pur sempre una felice vittoria. Stefano Rodotà ha detto in un suo intervento che una legge non può migliorare la società, ma può rimuovere gli ostacoli che impediscono 71
di migliorarla. Penso che abbia ragione. A una legge è dato chiedere di fare giustizia, di difendere i più deboli contro i più forti, di stabilire che cos’è un delitto e con quale pena deve essere punito; ma non si può chiedere ad una legge di dominare su ogni forma di comportamento morale e individuale. Ho l’impressione che nel corso dell’esame di questo provvedimento più volte si siano oltrepassati i confini, straripando nella vita privata dell’individuo. Ad esempio, riguardo all’omissione di soccorso dinanzi ad uno stupro, ritengo si siano creati una confusione o uno straripamento di questa specie. In un primo momento, a me come ad altri sembrava sacrosanto che l’omissione di soccorso venisse punita. Ma, in verità, una persona che assiste ad uno stupro può essere vecchia o inferma o semplicemente può essere così fragile e così spaventata che sul momento non trova la forza di intervenire. Come può la legge mandarla in carcere? Inoltre c’è il rischio che venga punito il testimone di quello stupro e non lo stupratore che è fuggito indenne. Una legge non può giudicare ogni singolo comportamento, non può avventurarsi nelle innumerevoli situazioni in cui viene a trovarsi la gente. Essa deve astenersi dal giudicare il comportamento individuale, che può essere o 72
sbagliato o distorto, o codardo o ambiguo, e circoscrivere il crimine vero e reale, quello che colpisce la persona a sangue e per sempre, quello che lascia sugli altri sventure e cicatrici che è impossibile cancellare. Dichiaro che i deputati del gruppo della Sinistra indipendente voteranno a favore di questa proposta di legge anche se la ritengono per molti versi imperfetta.
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ARTICOLI
L’ONESTÀ (20 maggio 1984)
Chiedere onestà a una persona pubblica non vuol dire soltanto chiederle che si astenga dal commettere dei furti, delle truffe o delle frodi, non vuol dire soltanto chiederle che si astenga da ogni specie di azione ideata a danno della società o dei privati. Vuol dire anche chiederle che abbia in odio tortuosità e ambiguità, che in ogni istante si interroghi per capire se l’immagine che ha di sé stessa dentro di sé è limpida o torbida, se la strada sulla quale procede è diritta o tortuosa. Noi da diversi anni avevamo preso l’abitudine di pensare che nella vita pubblica, l’onestà individuale fosse poco, e che occorressero, per giovare alla società, altre qualità più sottili, più complesse, più sofisticate e più astute. Avevamo preso l’abitudine di situare al posto più alto, nella nostra scala dei valori, la destrezza e la perspicacia, quella particolare perspicacia politica che è dotata di mille occhi e di mille antenne, e anche di pungiglioni e di artigli. All’integrità morale, alla rettitudine, all’onestà, avevamo preso l’abitudine di attribuire un’importanza irrilevante. Soprattutto ci sembrava che nella vita pubblica, 77
l’onestà individuale fosse cosa di scarso peso, antiquata, e inadeguata alla crudeltà dei tempi. Poi a un certo punto ci siamo accorti che quello che appare più infrequente, in Italia, nella vita pubblica e politica, è proprio l’onestà. Nello scenario che abbiamo davanti agli occhi, se ne scorgono rari esempi. Essendo questi così rari e insoliti, hanno l’esistenza difficile. Li circuiscono, li assediano e li minacciano da ogni parte i giochi d’astuzia, gli inganni e le frodi. Tuttavia nonostante tutto l’onestà manda una luce allegra, visibile a ognuno. L’onestà non è abile, e non è affatto astuta. Non le importa nulla di essere astuta. Non adopera, nelle sue scelte, l’astuzia, ma ubbidisce unicamente a sé stessa. È intuitiva, ma solo nel discernere ciò che le rassomiglia da ciò che la offende. Non cerca vittorie. È costantemente disposta a perdere. La sola cosa che davvero le sta a cuore è non truffare, non frodare, non tradire né gli altri, né sé stessa. Vuole muoversi, quando è possibile, non al chiuso ma all’aperto, non nella notte ma nel giorno. Ama le vie dirette e detesta le vie traverse. Non si cura di essere derisa, schernita, umiliata, di essere considerata ingenua, di essere sola nelle sue decisioni, e di essere priva di pungiglioni e di artigli, quei pungiglioni e quegli artigli che la società di oggi tanto ammira e ama. L’onestà non vuole essere ammirata, né vuole 78
essere amata. Presta fede unicamente a sé stessa, e va dritta per la sua strada. Quando abbiamo saputo dell’esistenza della P2, o del partito occulto come si usa chiamarlo, prima ancora d’aver capito bene che cosa fosse abbiamo però sentito che nei suoi disegni, è soprattutto presente la determinazione a devastare, nel nostro paesaggio politico, l’idea stessa dell’onestà. I suoi fini, i suoi disegni sono oscuri, sepolti nelle tenebre, ma la determinazione a sopprimere in Italia ogni possibile forma o parvenza di sanità e di integrità morale è certa. E allora, quando abbiamo saputo del partito occulto, abbiamo sentito un profondo ribrezzo per ciò che è occulto, per ciò che non scorre alla luce del giorno, e abbiamo sentito viva l’esigenza di poter leggere nella vita del paese come in un libro aperto, l’esigenza che ogni parola intorno a noi sia detta a voce alta, e sia incontestabilmente veritiera. Allora abbiamo pensato che la rettitudine, la chiarezza morale, l’onestà sono beni di un valore inestimabile, e indispensabili alla vita di un paese come il pane, come l’acqua e come l’aria.
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L’UOMO CHE CONOSCIAMO (11 giugno 1984)
Da giovedì sera, da quando Berlinguer lotta con la morte in una stanza d’ospedale a Padova, milioni di persone in Italia pensano a lui con speranza e lagrime, non come si pensa a un personaggio politico o pubblico ma come si pensa a un essere che fa parte della nostra vita privata, un familiare o un amico la cui perdita sarebbe incolmabile. Milioni di persone oggi si chiedono angosciate se vivrà, se potrà guarire e tornare a casa, quali e quante sono le possibilità che rimanga in vita, e a porsi queste domande incessanti non sono soltanto persone del suo partito, o di idee affini alle sue, ma sono persone varie, le quali hanno buttato via di colpo ogni concezione e idea politica, scoprendo che alla figura di Berlinguer avevano dato da sempre un’ammirazione e un affetto di cui fino ad ora non si erano accorte. Milioni di persone hanno pensato che sul nostro paese si è abbattuta una sventura tremenda, quel giovedì sera a Padova, nella piazza della Frutta, quando Berlinguer si è sentito male mentre parlava, ha voluto concludere il suo comizio, è stato portato via. Ognuno di noi con tutte le sue forze si augura che Berlinguer si possa salvare, che possa presto 81
ritornare a casa alla moglie e ai figli. Tuttavia ognuno di noi sa che non potrà mai più essere ciò che è stato. La verità bisogna dirsela, e Berlinguer stesso ci ha insegnato che non è mai giusto nascondersi la verità, ma occorre affrontarla e se possibile pronunciarla ad ogni istante. La sventura che ci ha colpito è di quelle che non hanno rimedio. Nel paesaggio politico italiano, Berlinguer non rassomiglia a nessuno. I tratti del personaggio politico e pubblico, nella sua fisionomia e nella sua persona, erano del tutto assenti. Ed è anche per questo che gli italiani oggi, al di là di ogni ideologia politica, lo sentono così vicino. Non vedevano in lui nessuno di quegli aspetti che tengono la gente a distanza, sia giusto o no. Era timido, e i personaggi politici o pubblici abitualmente non lo sono. Era mite, e i personaggi politici o pubblici sono abitualmente stizzosi e rissosi. Era schivo. Aveva l’aria di chi non ama sé stesso, non pensa a sé stesso, non contempla mai la propria immagine dentro di sé. Aveva l’aria di conservare, dentro di sé, la propria solitudine. Aveva l’aria di conservare e custodire, dentro di sé, un profondo silenzio. Faceva migliaia di comizi, ha affrontato la fatica sovrumana di comizi continui, si è sentito male durante un comizio, e tuttavia dava sempre la sensazione di custodire un profondo silenzio dentro di sé. Si 82
avvertiva in lui, invisibile all’esterno, una forza ferrea. Benché totalmente invisibile all’esterno, tale forza era impossibile non avvertirla, e questo in ognuno che lo incontrasse generava stupore. «Combattente tenace e triste» l’ha definito Pansa. Difatti era triste, di una tristezza forse nativa, ma cresciuta e maturata nella conoscenza del vero. Era triste, e i personaggi politici abitualmente non sono tristi, perché il vero non lo affrontano, ma lo tengono a un’opportuna distanza. Lui dava l’impressione di vivere in una perenne dimestichezza con il vero, di non separarsene mai un istante. Era tuttavia la sua una tristezza niente affatto amara, era la tristezza dei forti, che prendono coscienza delle infamie a cui gli tocca assistere e le giudicano senza esserne amareggiati. Un mese fa, al congresso socialista dove era stato invitato, i socialisti l’hanno salutato con fischi e parole ingiuriose. Non si è mosso, non ha dato segno di accorgersene, sapendo che la forza vera non risponde alle offese, vi passa in mezzo come fossero sciami di mosche, e non mostra di stupirsene perché sa da gran tempo come un buon numero dell’umanità possa rivelarsi miserabile e indegna. Se ho parlato di lui all’imperfetto, è perché penso che sulla scena politica italiana Berlinguer non potrà più essere presente. Ma dell’impronta che ha lasciato la sua immagine 83
e la sua esistenza, sulla scena politica italiana, è necessario che non vadano perse le tracce e che il paese non le dimentichi. Egli è stato per tutti noi un esempio di coraggio, di rettitudine morale, di coerenza e di sacrificio. Se dovesse morire, la sua sarebbe una bella morte, perché lo ha colto mentre parlava alla gente, così come ha fatto per tutta la vita. Nell’incontrarlo, nell’assistere a un suo comizio, tutti noi ci siamo sentiti ripagati di tante infamie a cui ci è toccato assistere, compensati di tanti scandali e tante umiliazioni, e grazie a lui portati a vivere in una atmosfera improvvisamente limpida. Egli ha dato all’impegno politico quanto di più nobile, di più alto è possibile dare.
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VENTICINQUE APRILE (25 aprile 1986)
Dal 25 aprile del 1945 ci separano quarantun anni, due generazioni. L’Italia conobbe in quel giorno, dopo un tempo che era sembrato interminabile, la felicità collettiva. Una felicità fatta di perdite, di sangue sparso, di ricordi angosciosi e devastazioni ma era la fine di un incubo, l’inizio d’una vita nuova per tutti, il trionfo del coraggio civile, la vittoria del bene contro il male, ed era felicità. Chi non aveva mai usato un’arma era diventato un tiratore esperto, chi non s’era mai mosso dalla quiete di casa aveva imparato a conoscere le lunghe notti sulle montagne, le fatiche, gli appostamenti, il carcere, la tortura. Era quello un tempo in cui tutti erano diventati diversi: diversi e migliori. C’erano stati tanti morti e c’erano ovunque macerie e rovine. Ma i tedeschi avevano perso, aveva vinto la Resistenza; il fascismo non esisteva più. La gente uscì nelle strade, si riempirono le piazze: non ad applaudire Mussolini, come avevano fatto per tanti anni, pur odiandolo e augurandosi che morisse: ma per manifestare tutti insieme la fine di quell’odio – Mussolini era stato ucciso – la fine delle carceri e delle stragi, e la felicità. 85
Oggi, 25 aprile 1986, quarantun anni dopo, ci sentiamo indotti a ripensare a quel giorno in un modo particolare: il momento è buio, la paura di una nuova guerra è nell’animo di ognuno, e ci riuscirebbe difficile evocare quel giorno lontano con parole di festa. In verità è stato sempre più difficile, per noi della vecchia generazione, via via che passavano gli anni, parlare o scrivere del fascismo, della guerra mondiale, della Resistenza e della Liberazione. Ne avevamo parlato e scritto tanto, nell’immediato dopoguerra: e anzi, allora, ci sembrava impossibile scrivere o parlare d’altro. Ma, dopo, ci è diventato difficile. Ne parlavamo o ne scrivevamo soltanto in qualche rara occasione, quando sembrava necessario, negli anniversari: ma sempre avevamo timore di usare delle parole stanche, fruste, logorate, appassite, e di apparire trionfalistici, semplicistici, rozzi e ingenui; e sentivamo nelle nuove generazioni, per quelle nostre memorie, un tedio e un’assenza assoluta di curiosità. Il mondo è diventato rapidamente, sotto i nostri occhi, irriconoscibile. Irriconoscibile non soltanto per il traffico delle città, per i mutamenti nei consumi, per le scoperte scientifiche, per i viaggi stellari, per la libertà sessuale, per i computer: ma irriconoscibile nel profondo: così che a volte, quelli della vecchia generazione si sentono persi in un conti86
nente straniero. Noi avevamo le braccia ingombre di splendenti e dolorose memorie, ma eravamo inetti a farne dono ai giovani, trovandole, in quel mondo irriconoscibile, dolorose e splendenti ai nostri occhi ma forse inservibili; erano per noi care e preziose, ma avevamo paura che apparissero, nella luce del presente, un carico di chincaglieria; e tuttavia sapevamo bene che non erano chincaglieria e che non sarebbero state inutili, se soltanto fossimo riusciti a restituirne e palesarne il significato intiero e reale. Senza dubbio siamo invecchiati male: poiché la nostra giovinezza ci è parsa così drammatica, e fitta di eventi storici, l’abbiamo prolungata nel tempo continuando a ritenerci i giovani e gloriosi protagonisti di un’epoca memorabile: quelli che avevano vissuto il 25 luglio, l’8 settembre, il 25 aprile. Ma un atto in verità così semplice, che è accettare la vecchiaia quando ogni traccia di giovinezza è scomparsa dalla nostra fisionomia, quell’atto non ci è riuscito. Alle nuove generazioni, che ci intimidivano perché ci sembravano più forti di noi e certo più di noi a loro agio nel mondo ai nostri occhi incomprensibile e irriconoscibile, noi siamo stati del tutto inetti a consegnare i beni che avevamo, e ogni specie di consapevolezza o esperienza radunata nel corso della nostra vita; e tutto quello che abbiamo saputo fare con loro è stato 87
elencare il gran numero dei nostri errori e delle nostre colpe, come se ci trovassimo in presenza di psicanalisti o di preti. Ma loro non erano niente affatto vogliosi di farci da psicanalisti o da preti, erano indifferenti alle nostre colpe e distratti o tutt’al più malevoli davanti ai nostri errori, e impazienti alle nostre angosce, perché assorti in sé stessi e nei propri fatti e angosce e pensieri; e noi comunque, enumerando le nostre colpe e le nostre angosce, abbiamo forse taciuto un nostro errore grave, da essi certo giudicato con fredda severità: l’incapacità di entrare tranquillamente e naturalmente nella vecchiaia. Così, tra le vecchie e le nuove generazioni, si sono creati non tanto forse degli aperti conflitti ma delle insofferenze profonde e un’assenza reciproca di curiosità, e né loro erano come noi li avremmo voluti né noi eravamo come essi ci volevano: e fra noi e loro si sono spalancate delle voragini. Per noi della vecchia generazione, il mondo nel lontano 1945 appariva estremamente semplice. «Tutto il male avevamo di fronte – tutto il bene avevamo nel cuore» dice una canzone sulla Resistenza, scritta da Calvino negli anni Sessanta, e messa in musica da Liberovici. «Avevamo vent’anni e oltre il ponte – oltre il ponte ch’è in mano nemica…» dice ancora quella canzone, che io non ricordo ora per intiero. Si rivolge a una ragazza «dalle guance di pesca», 88
una ragazza «color dell’aurora», che al tempo della Resistenza non era ancora venuta al mondo: «O ragazza che ieri non c’eri». Oltre il ponte, che era «in mano nemica», si stendeva una vita bella, giusta, libera, e bisognava conquistare il ponte con le armi per poterla raggiungere. Là ci sarebbe stata finalmente, dopo tante stragi e tanto sangue, la pace. Oggi, nella luce di oggi, le parole di questa canzone suonano lontanissime. Oggi, non abbiamo il male di fronte e nel cuore il bene; il male è dovunque; al bene che possiamo avere nel cuore si sottopongono scelte continue, contrastanti e complesse, così complesse che ci si smarrisce nel posarvi il pensiero; e «in mano nemica» non c’è più soltanto un ponte, cioè una barriera ben ferma, ben visibile e ben definita; il bene e il male sono legati insieme da una rete così sottile che a volerla recidere si rischia continuamente di spandere sangue. I ragazzi oggi sfilano nelle strade dicendo no alla guerra. Li confrontiamo con quello che eravamo noi all’età loro, nel tempo del fascismo, e con quello che eravamo poco più tardi, nel tempo della Resistenza. Per noi tutto era semplice; la nostra felicità di allora fu conquistata a caro prezzo e col sangue; ma era tuttavia semplice. L’idea che avevamo della giustizia sociale, di una vita per tutti migliore, era elementare e semplice. Avevamo imparato, nella Resistenza, la solidarie89
tà con il prossimo, e pensavamo che una simile solidarietà non potesse finire mai. E invece dopo qualche anno era scomparsa senza lasciar traccia, dal nostro spirito, dal mondo, dal nostro paese. Era anche per colpa nostra? forse. Con gli anni ci siamo accorti che la giustizia sociale era ben difficile da attuare. Queste sono state le nostre delusioni, che però non sono riuscite a renderci forti e adulti, ma anzi ci hanno lasciato in fondo allo spirito una confusa tristezza, adolescenziale e crepuscolare. Avevamo la pace, nel senso che nel nostro paese non c’era la guerra, ma la guerra era però sparsa in più punti della sfera terrestre, e l’idea della guerra ha preso nel mondo una dimensione nuova e sterminata, l’eventualità che dopo di essa non resti nulla e nessuno. Oggi, ai ragazzi che sfilano dicendo no alla guerra, e a noi stessi, dovremmo chiarire che «no alla guerra» significa dire no ad ogni forma di prepotenza o violenza, no al sangue, no alla lotta armata. Che il fine giustifichi i mezzi non è vero affatto. Fra il compiere una strage e uccidere una singola persona non esiste, nel campo dello spirito, una differenza rilevante. «No alla guerra» significa dire no a Gheddafi e no a Reagan. No al terrorismo che uccide gli innocenti e i bambini negli aeroporti, e no agli aerei che gettano bombe e uccidono innocenti e bambini nei loro letti. Oggi, dire no alla guerra significa rifiutar90
si di alzare un’arma contro un proprio simile. Non avevamo, nel 1945, orrore delle armi e del sangue: le armi erano state usate per difendere il nostro paese. Sapevamo allora con assoluta certezza che così era giusto agire. Ma oggi il mondo è diverso, il contesto storico è un altro. Oggi, le parole «legittima difesa» vanno adoperate con enorme circospezione perché possono nascondere insidie, perché abbiamo dubbi riguardo alla legittimità o illegittimità di ogni cosa. Oggi occorre rifiutarsi di usare un’arma per qualsiasi ragione al mondo. È vero che il nostro istinto ci spinge a colpire quando ci sentiamo in pericolo. Ma occorre a volte ignorare i moti del nostro spirito. Essi sono a volte ignobili. Perciò tutti i discorsi che si fanno sulla pace, tutte le sfilate che si fanno in nome della pace, non hanno nessun significato se non ci sentiamo disposti a farci ammazzare piuttosto che ammazzare il prossimo, chiunque egli sia.
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SUL CENTRO DI ROMA (1o maggio 1986)
Rispondo ad Arminio Savioli a proposito di un suo articolo sul centro di Roma, uscito su questo giornale domenica 27 di aprile (in cronaca di Roma). Mi trovo nel numero di quelle persone che Arminio Savioli afferma di non capire, quelle che vivamente si augurano che non vengano aperti nuovi fast food nelle strade centrali, e si sdegnano che ne sia stato aperto uno in via Due Macelli. Simili persone sono, secondo Arminio Savioli, solo un gruppo di vecchioni, nemici di ogni forma di parità nelle classi sociali, schifiltosi e snob. Poiché mi trovo nel numero di quei vecchioni, e poiché non credo che tutte le persone che hanno in odio i fast food nel centro siano necessariamente vecchie, o snob, o schifiltose, o avverse alle trasformazioni nelle caste sociali, gli rispondo. Io non sono nata a Roma; vivo a Roma, in una casa del centro, da molti e molti anni. Quella Roma di cui Arminio Savioli parla nel suo articolo, quando il centro storico aveva strade che sembravano provinciali, perché silenziose e tranquille, la ricordo bene. Tuttavia secondo Arminio Savioli, gli operai della Roma di allora non saliva93
no sugli autobus, per non sporcare le pellicce alle signore, dai parrucchieri andavano solo pochissime signore eleganti, e nei licei insegnavano pochi professori «coltissimi» (ma era un male che fossero «coltissimi»? non dovrebbero essere abbastanza colti anche oggi?); una Roma così io non la ricordo, e dubito che, nella forma in cui Savioli la dipinge, sia mai esistita. La ricordo, nel dopoguerra, con strade tranquille, e ne ho una forte nostalgia. Però non è detto che la nostalgia del passato sia, in sé stessa, un sentimento ignobile. Essa può sussistere in mezzo ad accese istanze sociali, e al desiderio che il mondo diventi nuovo e migliore, e a sentimenti contrastanti, della più varia specie e natura. Perché gli esseri umani sono incoerenti e dentro di sé pieni di conflitti. Ma questo è un discorso che porta lontano. Per tornare sul fast food, io vorrei che non se ne aprissero altri nel centro storico. Vorrei che il centro storico di Roma rimanesse così com’è. Vorrei che non vi si aprissero nuovi negozi, o nuovi ristoranti, o nuovi alberghi, al posto di quelli che già ci sono. Vorrei che vi restassero le vecchie insegne. Mi sembra che il centro di Roma, in questi anni, l’abbiamo già sciupato abbastanza. Secondo Arminio Savioli, è già nata «una nuova Roma» e non si può ritenerne responsabile il fast food che è stato aperto in via Due Macelli. Ben vengano, dice Savioli, dei 94
nuovi fast food nel centro storico, «poiché sono pieni di fast food in ogni strada le grandi, belle, orgogliose metropoli dell’America e dell’Europa». Ma qui non si sta parlando di New York o di Londra o di Madrid, si sta parlando di Roma: città particolare, la quale ha un centro dotato di un carattere e di un fascino quanto mai strani e particolari, ed è impossibile avvicinarla a ogni altra. Non so nemmeno se si possa chiamarla una metropoli: non è una metropoli, perché appare impossibile pensarla tutta quanta insieme: e quando la pensiamo, ne pensiamo gli innumerevoli aspetti diversi, con molte strade immerse in un’atmosfera particolare, piena di memorie che un nulla può offendere o dissipare. Il centro di Roma, nessuno si sogna di volerlo chiudere all’invasione delle borgate. Semplicemente chi vi abita vorrebbe che l’atmosfera nel quale è immerso non venisse offesa. Certo, l’hanno offesa e dissipata parzialmente; già il centro di Roma è stato sciupato e deturpato. Ma vorremmo che non si facesse di peggio. Vorremmo intanto che esso venisse difeso dai rumori e dalla sporcizia. Mi sembra ingenuo, Arminio Savioli, quando scrive: «C’è un problema del chiasso? Insegniamo ai ragazzi a parlare sottovoce. C’è un problema di pulizia? Insegniamo ai giovani (e agli adulti) a non buttare tutto per terra». Ma le ha viste mai, le strade del centro, Arminio Savio95
li? Le ha viste mai le immondizie nei vicoli, e non soltanto nei vicoli, ma in piazza San Silvestro, accanto alla Posta Centrale? C’è passato mai per di là? E li ha sentiti mai i rumori assordanti, la notte, rumori assordanti e laceranti in certi vicoli stretti, in certe piccole piazze? Crede davvero che basterebbe sgridare un paio di ragazzi, insegnargli a non buttare tutto per terra e a parlare sottovoce? Mi sembra che egli abbia di Roma un’idea completamente irreale. Tempo fa, si diceva che c’era il rischio che chiudessero il Caffè Greco. Per fortuna non l’hanno chiuso, il Caffè Greco c’è sempre. Si è parlato di chiudere, nel centro, alcune vecchie librerie. Per far posto a cosa? Certo hanno chiuso innumerevoli vecchi negozietti, in via Frattina, in via del Corso, vecchi negozietti che formavano la fisionomia del centro, vecchie piccole cartolerie e orologerie e pescherie, e al loro posto ci sono ora grandi negozi d’abbigliamento, orgogliosi, affollati di gente, che senza dubbio faranno la fortuna dei loro proprietari: ma così viene calpestata la faccia d’una strada. Così viene calpestato il centro di Roma, non certo perché lo invadono le borgate, ma perché a qualcuno preme ingrandire le proprie imprese commerciali, e perché il desiderio del rispetto alle memorie, alle antiche insegne, viene scambiato per un fatuo piangere sulle ceneri di mondi scomparsi. Pure esistono 96
città, come Bologna, dove il centro e le antiche insegne sono stati rispettati. Perché a Roma non è stato possibile rispettarli? Arminio Savioli, parlando dei fast food, dice che essi servono a saziare «la sana fame di hamburger dei tenerissimi adolescenti, [con] piumini multicolori» venuti nel centro dalla periferia, grazie alla «democraticissima» metropolitana, «sciamanti e saltellanti». Ma a me sembra che i fast food si potrebbero aprire in strade che non fossero quelle centrali, e se ne potrebbero forse aprire molti, non all’americana ma all’italiana, piccoli e senza sfoggio né clamore, così da evitare gli assembramenti, che creano disagi e possono anche essere pericolosi; e quella sana fame i tenerissimi adolescenti potrebbero soddisfarla semplicemente camminando un poco, spingendosi un poco al di là del centro, senza danno per anima viva.
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I MIEI PENSIERI DI DONNA (29 marzo 1987)
L’«Unità» mi ha chiesto se facevo una dichiarazione sul fatto che alla Iotti è stato affidato dal presidente Cossiga l’incarico di formare il governo. Ho risposto che, per principio, non facevo dichiarazioni al telefono, e sempre o quasi sempre mi rifiuto di farne. Mi sembra che ben di rado sia possibile esprimere, in pochi secondi, un pensiero reale. Tutti i nostri pensieri chiedono tempo. Come è ovvio, il fatto mi ha rallegrato molto, mi sembra di un’estrema importanza che in un momento così difficile della crisi, così arduo e complicato, il presidente Cossiga abbia chiamato la Iotti, una donna, e una donna comunista, è la prima volta che succede, nella storia della Repubblica. Qui tutto appare nuovo, insolito, imprevisto, e forse si tratta di qualcosa che potrà sciogliere felicemente una situazione per molti aspetti insolubile. Alla televisione, abbiamo visto la Iotti figura delicata e fragile, in mezzo a tutti quegli uomini. Io non sono femminista, o meglio non condivido del femminismo l’idea che le donne siano sempre e comunque superiori agli uomini. Non mi sento di condividere questa idea razzista, con tutte le 99
mie forze la rifiuto. Penso che il razzismo in ogni sua forma sia cosa spregevole e orribile. Penso che ogni persona umana debba essere giudicata in sé stessa nel bene e nel male, indipendentemente dal sesso e dalla specie cui appartiene. Tuttavia una donna in quel momento, su quello schermo dove di solito, quando vengono date notizie politiche, appaiono spettacoli lugubri, mi sembrava una cosa finalmente lieta. Tuttavia mi sono venuti in mente, riflettendo su questo evento felice, alcuni pensieri. Da quando sono diventata parlamentare, senza meriti politici perché personalmente non ne possiedo nessuno, mi è accaduto di accorgermi che ci sono nel Partito comunista molte donne dotate d’intelligenza politica, di chiarezza e di concretezza e soprattutto di una forte energia vitale. E inoltre totalmente prive di cinismo, di quel cinismo che è, nella vita politica italiana, uno degli aspetti più tristi e più sordidi. Queste donne potrebbero rendere migliori le sorti del nostro paese, se avessero più spazio, e invece spazio in verità ne hanno poco. Non voglio nominarle, perché sono molte, e l’elenco sarebbe lungo. Da quando le ho conosciute, ho avuto sempre la sensazione che potrebbero agire, nella vita politica, con maggiore forza e maggiore impegno degli uomini, ma vengono per solito emarginate, e delegate a occuparsi unicamente di problemi femminili. 100
Mi sembra sommamente ingiusto. Dei problemi femminili, dovrebbero invece occuparsi uomini e donne insieme. Alle donne dovrebbero essere aperti senza limiti tutti gli spazi della vita politica e la loro presenza nel centro della vita politica dovrebbe essere da tutti accolta come un fatto ovvio e naturale di cui nessuno avesse a mostrare stupore. Ho parlato qui delle donne comuniste, però ho in mente anche altre donne, che pure mi è accaduto di conoscere negli ultimi anni, e per le quali provo una profonda ammirazione trovandole serie, libere, generose, coraggiose e leali; dirò un nome solo, a me vivamente caro: Tina Anselmi.
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INTERVISTE
PIÙ FIDUCIA, MENO SPAZIO ALLE SCHEDE BIANCHE (1o giugno 1983)
Questa intervista con la scrittrice Natalia Ginzburg comincia inevitabilmente con un perché. Perché ha accettato la candidatura nelle liste del Partito comunista italiano? Ho accettato la candidatura per dare un segno di solidarietà al Partito comunista italiano. Qualcuno mi ha detto: potevi fare semplicemente una dichiarazione di voto. Ma a me sembrava poco. È un momento difficile. Molti dicono di voler votare scheda bianca. Io non so quanti voti prenderò, forse pochi, ma quelli che prenderò saranno sempre consensi tolti al partito delle schede bianche. Io non ho una testa politica. Non sono iscritta al Partito comunista, non sono iscritta a nessun partito. E mi sento del tutto inadeguata a un posto così alto, in Parlamento. Tuttavia ho accettato, e se mi sarà possibile fare qualche cosa di utile ne sarò contenta.
Intervista di Ottavio Cecchi. 105
Le era mai stato chiesto di accettare una candidatura? Sì, anni fa mi fu chiesto di presentarmi nelle liste per la Camera dei deputati. Risposi di no. Ora ho risposto di sì perché mi fanno paura le schede bianche. Questa è la ragione fondamentale della mia risposta all’invito del Partito comunista. Si parla di impegno. Gli scrittori, gli intellettuali hanno già sperimentato l’impegno, il rapporto con la politica, con i partiti. Ma le opinioni non sono concordi. C’è chi dice che lo scrittore, l’intellettuale, sia esso umanista o scienziato, debba farsi di nuovo politico. «Siamo politici anche noi», diceva un tempo Vittorini. E c’è invece chi dice che l’intellettuale debba solo badare a far bene il proprio lavoro. Una cosa sono gli intellettuali e una cosa sono gli scrittori. Gli intellettuali si muovono nella zona del pensiero, gli scrittori, i romanzieri o i poeti si muovono nella zona dell’immaginazione. Io non sono un intellettuale ma un romanziere. Penso che l’impegno di un romanziere sia quello di scrivere i suoi romanzi meglio che può. Lo pensavo una volta e lo penso oggi. Prendere parte alla vita politica, o non prendervi parte, è per un romanziere, o per un poeta, una scelta strettamente personale. Personale e momentanea. Per esempio Sandro Penna non avrebbe mai accettato di presentarsi alle elezioni. Umberto Saba forse invece sì, avrebbe accettato. Ho detto questi due nomi 106
perché sono quelli di due persone che ammiravo e a cui volevo molto bene. Gli scrittori sono molti e le loro fisionomie sono varie e diverse. Concretamente, cosa farà la scrittrice Natalia Ginzburg in Parlamento? Il Parlamento è un luogo dove si parla, io non so parlare. Però può darsi che anche chi non parla riesca a fare qualche piccola cosa. Non lo so. Qualche volta succedono fatti imprevedibili. Bisogna credere nell’imprevedibile. A me piacerebbe poter far qualcosa per i vecchi o qualcosa per gli handicappati. Sono due zone buie. Forse le più buie che si offrano allo sguardo, oggi, in Italia. E come donna? C’è come una potenzialità inespressa, inutilizzata nelle donne. In questi ultimi anni si è assistito a una crescita, tra le donne, della volontà di agire come donne, non più a imitazione dell’uomo. Alle donne non è mai stato dato spazio per esprimersi interamente. Bello sarebbe se uomini e donne lavorassero e pensassero insieme, da eguali. Del resto ognuno di noi è uomo e donna insieme. Non mi sembra giusto il pensiero che separa le donne dagli uomini. Nel nostro discorso sull’impegno è rimasto qualcosa in sospeso. Nella legislatura appena interrotta, 107
vi sono stati degli intellettuali che hanno abbandonato il Parlamento per tornare a fare il loro mestiere, mettiamo, di professori universitari. Se ne sono andati, hanno detto, per poter fare bene il professore. Altri, in questi giorni, hanno rifiutato le candidature perché non intendono dividersi tra Camera dei deputati, o Senato, e cattedra universitaria; insomma, tra impegno strettamente politico e impegno professionale. Io voglio scrivere ancora dei libri. Spero che ne scriverò ancora. Non sono un intellettuale, ripeto, ma un romanziere. Quello che c’è di meglio, in me, non è il pensiero, ma è l’immaginazione. Il fine dell’immaginazione è di cercare di capire il meglio possibile la realtà e di rispecchiarne qualche aspetto. La realtà è infinita e i modi per esprimerla sono infiniti. Quello che penso debba fare un romanziere è di non mettersi mai una maschera, non fingere mai di sapere ciò che non sa, non fingere mai di essere ciò che non è. Perché, se mette una maschera, non vedrà più il vero. E d’altronde è un dovere che hanno tutti gli uomini. Ma forse è possibile fare qualcosa di utile, di pratico, senza lasciare ciò che si è fatto tutta la vita. Lei dice ‘tutti’. Qualcun altro direbbe ‘le masse’. Le grandi masse popolari, la gente che lavora. Io, quando penso a queste masse, a questi ‘tutti’, intel108
lettuali e no, mi ripeto che questa gente, cioè noi ‘tutti’, tiene duro, non cede. La parola ‘masse’ mi è estranea e non vorrei usarla. Nella parola ‘masse’ scompaiono le fisionomie singole. La parola ‘masse’ è astratta, allontanata dalla realtà. Perché la realtà è fatta di fisionomie singole. In verità il numero di quelli che cedono, di quelli che crollano, che smettono di camminare o di pensare è oggi immenso. Però è vero che la gente è più forte di quanto si creda. Le ‘masse’ trovano anche il modo di divertirsi, nonostante tutto. Ha visto cosa è successo a Roma per lo scudetto? Non m’intendo di sport. La mia indifferenza per le competizioni sportive è assoluta e totale. Vedere la gente contenta e in festa fa sempre piacere. Io però non amo il campanilismo. Non amo l’orgoglio collettivo. Spesso l’orgoglio collettivo diventa arrogante e sprezzante e lo trovo allora insopportabile. Inoltre mi chiedo perché la collettività della gente non si sdegni quando c’è ragione di sdegnarsi. Per esempio di fronte alla tragedia dei ‘desaparecidos’. Perché non scendono a gridare tutti nelle strade? Lei ha ragione. Vi sono tragedie nel mondo che non raggiungono ancora la coscienza di tutti. E 109
non parlerei solamente dei ‘desaparecidos’. Siamo in un tempo che forse qualcuno in avvenire definirà ‘belle époque’. Voglio dire un tempo di guerra dentro la pace. Ma gli intellettuali amano spesso prendere la croce su di sé, portarla. E magari allontanarsi, per questa via, dalla realtà. Può essere vero. Anche questo può essere un modo di allontanarsi dalla realtà, dalla vita di tutti e di tutti i giorni. La realtà presente non è allegra, ma ci sono pure nascoste, nell’esistenza dei singoli, straordinarie possibilità di allegria. È d’accordo con coloro che dicono che si è aperto un vuoto fra paese reale e paese ufficiale, fra governati e governanti, fra la vita di tutti e di tutti i giorni e la politica? A me sembra che sia così. Quelli che si propongono di votare scheda bianca, ritengono che una simile frattura sia, al momento presente, insanabile. Io non lo so. Penso che esiste l’imprevedibile. Perché non credere all’imprevedibile? Perché non conservare dentro di sé un frammento di fiducia? Perché non custodire in sé un frammento di utopia? Io non credo che l’utopia porti necessariamente lontano dalla realtà. Penso che possa anche voler dire camminare con i piedi ben fermi sulla terra, stare dentro la realtà mantenendo qualche fiducia nella possibilità di un futuro migliore e meno buio. Non come un’i110
deologia astratta ma come un sogno concreto. L’imprevedibile esiste, nel bene come nel male. Di solito ci tocca il male, ma deve proprio essere così sempre? Perché non sperare che a un certo punto, in un giorno non troppo lontano, questa frattura diventi meno profonda? Lei per questo ha accettato la candidatura? Sì, per unirmi chiaramente al numero di quelli che penso non abbiano perduto questa forse lontana speranza. Non credo che l’avrei mai accettata in un luogo che non fosse l’Italia, cioè in un luogo dove il Partito comunista fosse diverso da come è oggi qui. Non credo che l’avrei accettata in un luogo dove fosse in qualche modo imposto di portare una maschera, di fingersi diversi da ciò che si è. Io penso che l’essenziale sia che nessuno si finga diverso da ciò che è.
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QUANDO FRA LE DONNE LA POLITICA SI FA LESSICO FAMILIARE (25 giugno 1983)
Roma – Qualche minuto ancora, vi dispiace? Spenti i microfoni del «pubblico dibattito», ormai sgombre le sedie dell’improvvisata platea, ristabilita la quiete sonora nello spiazzo e tra le fronde delle secolari magnolie a Villa Torlonia, qualche minuto ancora accettano di restare Natalia Ginzburg, Carla Ravaioli, Anna Maria Ciai. Una scrittrice famosa, una saggista penetrante (entrambe candidate nelle liste del Pci), e una prestigiosa dirigente politica che tanta parte ha avuto nelle lotte dei comunisti romani. Qui, in questo parco, è appena finito un incontro con le elettrici, cui hanno partecipato anche Licia Conte e Flavia Zupo: e in queste settimane sia Natalia che Carla che Anna Maria hanno girato, parlato, ascoltato molto. Voglio dunque chiedere loro, ormai a conclusione della campagna elettorale, quanto ha inciso la presenza delle donne, quanto i temi che le donne più di ogni altro vanno agitando, quanto l’idea stessa di politica che le donne vogliono affermare. Intervista di Eugenio Manca. 113
Impressioni, immagini, sensazioni. Per l’analisi c’è tempo. E allora vediamo prendere corpo un nuovo modo di fare politica? Risponde Carla Ravaioli: «Comincia, comincia a prendere corpo. La gente non accetta più il comizio dall’alto, vuole discutere, interrogare, confrontare. La politica come mediazione, tecnica, manipolazione non interessa più, è respinta. La politica deve essere fatta di cose concrete, che interessano, che toccano, non di codici per iniziati». E le donne? Risponde Anna Maria Ciai: «Le donne, più di chiunque altro, sono insofferenti della vaghezza, forse perché più di chiunque altro sono colpite dalla crisi, la perdita del lavoro, il taglio dei servizi, l’aumento dei prezzi. Non c’è spazio per le chiacchiere. Nella piazzetta di Donna Olimpia, un quartiere popolare di Roma, qualche giorno fa c’è stata un’assemblea con una cinquantina di donne: ciascuna di loro aveva riempito una scheda e si era data da fare per raccogliere altre schede. Sopra ogni scheda c’era scritto: “Io donna chiedo che…”. E seguiva la richiesta che sembrava più importante: il lavoro, l’asilo, il verde, i prezzi, la pensione. Tutte richieste concrete e tutte legate in un modo o nell’altro al bisogno di una migliore qualità della vita…». Bisogno sacrosanto. Ma non c’è il rischio che le parole «migliore qualità della vita» diventino 114
una giaculatoria, una formula di rito che chiunque può pronunciare? Scuote il capo Natalia Ginzburg e aggiunge con voce calda e pacata: «Tutto rischia di diventare formuletta. Ciò non toglie che l’esigenza di una vita migliore esiste, è pressante. La vita è talmente degradata… Una vita migliore sia per il corpo che per lo spirito». Su quali temi c’è stata maggiore sensibilità? Risponde ancora Carla Ravaioli: «La difesa dell’ambiente, l’organizzazione della città, il traffico, e più in generale tutte le questioni connesse all’affanno quotidiano, alla fatica di vivere in una società aggressiva, competitiva, regolata da criteri quantitativi. Anche questa, in qualche modo, è un’idea della guerra ma per fortuna un’idea che le donne rifiutano». «Fortissimo – aggiunge Anna Maria Ciai – è il bisogno di nuovi rapporti umani, più maturi, più liberi, più rispettosi della dignità di ciascuno. E fortissimo è anche il bisogno di nuova socialità. Non si ha idea dei drammi familiari, appena nascosti dalla porta di casa: un marito senza lavoro, un figlio che si droga, un handicappato che non si sa come aiutare, due ragazzi appena sposati che sono costretti a convivere coi genitori. Ecco, su tutto questo discute chi va di casa in casa come abbiamo fatto noi». E tuttavia le donne non hanno parlato soltanto delle donne, o soltanto alle donne… 115
«Nient’affatto – risponde Ravaioli –, anzi le donne hanno saputo parlare di tutto con tutti. Stamattina, per dirne una, io e un’altra compagna siamo andate in un cantiere a parlare con gli edili. Un fatto nuovissimo, mai visto. Abbiamo dedicato una parte dell’incontro ai temi femminili, ed è stato importante. Per il resto abbiamo discusso di contratti, di condizioni di lavoro, di rapporti tra le sinistre. Qui del resto, qualche minuto fa, abbiamo discusso di economia, di pace, del Cile. Insomma, se si può dire, una rottura del ruolo in un quadro dove i ruoli erano già rotti…». Tuttavia una ragazza del pubblico commentava a mezza voce poco fa che aver allestito uno spazio-giochi per i bambini al lato di una manifestazione politica dedicata alle donne significa voler ribadire un ruolo: a meno che dei bambini non ci si preoccupi anche quando la manifestazione ha ‘carattere maschile’. Natalia Ginzburg osserva che non deve destare meraviglia una attenzione congiunta per donne e bambini: le donne sono legate ai piccoli da un rapporto più naturale, e lo sono più di chiunque altro. E tuttavia – nota Carla Ravaioli – se oggi è indubbiamente maggiore la confidenza fra i giovani padri e la corporeità dei loro figli, ciò lo si deve alle donne, così come alle donne si deve il più elevato livello di consapevolezza nel campo della procreazione. 116
I giovani. Ne ha conosciuti anche in questi giorni, di giovani, Natalia Ginzburg. Quali impressioni le hanno suggerito? Risponde: «I giovani sono pieni di energia vitale, ma hanno di fronte un mondo… Sul loro avvenire, sul nostro, incombe l’ombra dei missili, la minaccia della guerra. Io penso che il compito dei giovani e il compito di tutti noi è quello di preparare un futuro senza guerra, di andare verso il disarmo universale. È utopia? E sia, non è una colpa. Bisognerebbe avere il coraggio di dire: ammazzateci, noi ci disarmiamo. Le pene patite non possono giustificare il riarmo, è come dire che gli ebrei fanno bene a riarmarsi perché sono stati perseguitati. Ma dove porta questa logica? Dobbiamo cominciare a pensare a un futuro senza guerra, a un futuro senza armi come ad un fatto naturale, il più semplice che si possa concepire». È la prima volta che Natalia Ginzburg ha accettato di essere candidata. Che effetto le fa? «Sono ancora un po’ smarrita. L’esperienza è bella anche se io mi sento un ‘animale’ non politico. Ho avuto incontri qui a Roma, a Torino, ad Alba dove c’era anche Nuto Revelli. Spesso una grande platea mette in imbarazzo. Mi pare che le donne aiutino a restituire alla politica la sua funzione di strumento per il cambiamento: la casa, il lavoro ai giovani, una società senza droga, un 117
mondo senza guerra; e mi pare che aiutino anche a cambiare il linguaggio. Stasera qui è stato bello: abbiamo parlato semplicemente, sinceramente, per costruire insieme. Dalle donne vengono tanti messaggi». Finiamo qui, mentre un gruppo di ragazzini chiassosi torna nello spiazzo: erano andati ad annegare nel fosso un enorme drago di carta colorata, fabbricato mentre si parlava di guerra, di missili, di bombe. Un piccolo grande segnale anche questo. Natalia ha ragione: non è detto che la pace debba essere utopia.
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È DIFFICILE, MA POSSIBILE, RAGGIUNGERE LE STRADE DELLA GENTE (5 luglio 1983)
Roma – Vado a trovare Natalia Ginzburg in un palazzetto di via Gregoriana, a pochi passi da Trinità dei Monti, dove ha sede Einaudi. Sorride, seduta dietro il suo tavolo da lavoro ingombro di libri, di fascicoli, di riviste. È la sua prima intervista da deputato. Avrà ricevuto molti auguri: di amici, di lettori, di sconosciuti estimatori. Ai tanti unisco quelli dell’«Unità». E domando: quale augurio le è giunto più gradito? L’augurio di lavorare davvero, di poter fare qualcosa di utile. Io spero di riuscirci. Per me è un impegno nuovo, e prima di aver fatto una cosa non sappiamo mai se ci riuscirà o no. Come giudica questo risultato elettorale? Bellissimo. Sono contenta che la Democrazia cristiana sia crollata e la grande tenuta delle forze
Intervista di Eugenio Manca. 119
di sinistra e del Pci mi rassicura; l’unica macchia nera è la crescita del Msi. Ma penso che sia cominciato qualcosa di nuovo e mi pare che lo pensino tutti. In questo mondo dove di solito accadono cose bruttissime, finalmente è successo qualcosa di bello. Di bello e di imprevisto. Bisogna avere fiducia nelle cose imprevedibili. Sembrava che la Dc fosse arroccata per sempre nel nostro destino; e invece è rotolata giù. Fra qualche giorno siederà a Montecitorio. Se dovesse toccare a lei pronunciare il primo discorso, con quali parole esordirebbe? Non lo so. Non mi sarebbe possibile. Non saprei che dire. Le cose da chiedere sono troppe. Il nostro paese ha bisogno di troppe cose. Io non so esprimermi in termini politici; direi solo delle frasi ovvie e quanto mai banali. Quali siano i problemi più gravi però lo sappiamo tutti: la casa, la droga, la disoccupazione, in particolare la disoccupazione giovanile. Lei è stata eletta a Torino, ma è stata candidata anche a Roma. Che cosa ha rappresentato per lei – come donna e come scrittrice – questa esperienza della candidatura? È stata un’esperienza bella. A Torino ho conosciuto altre candidate – come la Gandolfo, la Molinari, la Migliasso, la Birocci – che mi 120
sembrano persone serie e di valore. Mi dispiace moltissimo che non siano state elette. Mi sento solidale con loro. Come scrittrice? Penso che le persone che hanno votato per me, l’hanno fatto perché avevano letto i miei libri. Questo mi fa piacere, naturalmente. Però non credo che il fatto d’essere una scrittrice possa mescolarsi in altre attività diverse. Penso che chi scrive raccoglie qualcosa da tutto quello che vede e da tutto quello che gli capita. Ma non è una legge; qualche volta non raccoglie nulla o quasi nulla. Dall’interno lei non ha potuto ancora vederlo, ma – visto dall’esterno – ritiene che il Parlamento riesca ad essere il centro nervoso e anche emotivo della nostra società? Cioè che riesca a esprimere la complessità ma anche la ricchezza di questo paese? Lei mi sta chiedendo se in Parlamento si rendono conto di ciò che accade fuori. Non lo so. Quasi sempre si tratta di problemi immensi, e comunque di problemi di ben difficile soluzione. Esiste un paese ufficiale e un paese reale, e difficile è sempre raggiungere le strade della gente. Forse vivere in un mondo politico è come stare su un balcone. No, meglio non dire la parola ‘balcone’ perché evoca brutti ricordi. Diciamo in altro modo: è come essere in una stanza in alto, dove le voci della gente, giù, arrivano confuse. Bisognerebbe che non ci fosse più questa lontananza. 121
Anche il linguaggio può essere un ostacolo… Infatti penso che occorrerebbe abbandonare il linguaggio deviante dei politici, dei giornali, e cercarne un altro, più immediato e più chiaro. Se c’è una cosa in cui gli scrittori possono un poco rendersi utili, forse è proprio questa: cercare un altro linguaggio per la politica. Vede dunque che il fatto di essere uno scrittore può mescolarsi all’attività politica. Sì, è vero. A che cosa è dovuto il disimpegno di tanti intellettuali nei confronti della società civile? Non parlo di disimpegno dalla vita politica, ma del rifiuto persino di occuparsi della cosa pubblica. C’era Pasolini, ma pochi altri hanno seguito il suo esempio. Perché tanto scetticismo in quella che dovrebbe essere la parte più vigile del paese? Non è detto che sia scetticismo. Qualcuno può sentirsi inadatto. Non siamo mica tutti uguali. Io non sono un intellettuale, sono un romanziere; non credo che il compito dei romanzieri sia quello di considerarsi coscienza critica della società. È vero però che a volte, come persona, un romanziere o un intellettuale può sentire l’impulso di far qualcosa in un suolo diverso dal proprio. E allora accetta di presentarsi alle elezioni. Ma possono essere tante le forme dell’impegno, tante e diverse. 122
Non credo di sbagliare se dico che cresce l’area del disagio, del malessere diffuso. La gente ha un pessimo rapporto anche con ciò che dovrebbe esserle meno ingrato. L’uomo di oggi ha un rapporto difficile col suo lavoro, con la sua città, col suo tempo, spesso con la sua famiglia, spesso con la sua sessualità, persino con l’idea che ha di sé stesso. Che cos’è questo veleno? È vero. Molte cose avvelenano la vita, ma soprattutto una: la paura della guerra. La paura che il mondo in cui viviamo venga distrutto. Questa paura che è in noi offusca l’immagine di un futuro possibile, e ci impedisce di vivere in un modo migliore. Ma lei ricorda anche altri momenti, quando la guerra divampava, ma la speranza non per questo moriva… Sì, erano anni orrendi. Però, allora, pur pensando sempre alla morte, vedevamo disegnarsi un futuro. Noi forse presto saremmo morti, ma il mondo sarebbe rimasto. Poi è venuta la bomba atomica. L’idea della bomba atomica non consente di avere con la morte, e quindi anche con la vita, un rapporto tranquillo. Ha detto: paura della guerra. Ma non ci sono anche le piccole paure quotidiane? Paura di ammalarsi, paura di restare senza lavoro, paura di invecchiare. È più forte la paura o la speranza? 123
Tutto è malsicuro, e le difese che offre questa società sono inconsistenti. Ciò che importa è la volontà di cambiare, di rinnovare. Che cos’altro, se non una necessità incalzante di rinnovamento, si legge nei risultati delle ultime elezioni? I giovani e le donne vengono spesso indicati come i più convinti portatori di speranza. Le donne che parlano di un nuovo modo di far politica, e i ragazzi – quelli che per strada vediamo coloratissimi e con l’orecchino – che aderiscono al gruppo di tutela ecologica o che vanno in casa dei vecchi a fare le pulizie. Crede che là stia il nuovo? Certo, là sta il nuovo. Nei giovani che spendono le loro energie vitali per il servizio civile, senza essere pagati. Non capisco però perché ci si debba sempre esprimere dividendo l’umanità in sezioni, nettamente discriminate. I giovani da una parte e i vecchi dall’altra, le donne da una parte e gli uomini dall’altra. Ci sono dei problemi che riguardano particolarmente le donne, certo, e dei problemi che riguardano particolarmente i giovani, o la condizione dei vecchi, certo. Ma bisognerebbe cercare di generalizzare il meno possibile. Perché in verità le donne dentro di sé sono anche un po’ uomini e i giovani sono anche un po’ vecchi, e soprattutto invecchiano con una rapidità straordinaria. Perciò le parole ‘i giovani e le donne sono portatori di 124
speranza’ non mi sembra che abbiano un senso. L’unica cosa che è giusto dire è che le donne, mettendo al mondo figli, sperano con tutte le loro forze di vederli crescere, e non possono nemmeno pensare di vederli morire in guerra. E i giovani hanno diritto a crescere e a vedere un tempo migliore, e ne hanno diritto ben più di noi che siamo vecchi, perché noi abbiamo già avuto molto, di cattivo e di buono.
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UN 8 MARZO CON GORBACIOV (10 marzo 1987)
Nel mercatino sotto casa hanno già spazzato le briciole delle mimose dell’otto marzo. Nel salotto di piazza Campo Marzio Natalia Ginzburg, ‘agli arresti domiciliari’ a causa di un’operazione al ginocchio, è infastidita dagli scoop filologici sulla tragedia americana di fine secolo che viene ricordata dalla festa della donna. Ho letto che non sarebbe vera la storia della fabbrica con tutte quelle donne bruciate. Ma il mondo è pieno di donne bruciate, che siano dieci o cento, che cosa importa. Comunque sono contenta che si festeggino le donne, anche se non mi piacciono molto le feste. Ma con chi le sarebbe piaciuto passare l’otto marzo? Con Gorbaciov. Mi piacerebbe tanto conoscerlo. La sola cosa che mi rallegra, in questo mondo in cui tutto va malissimo, è l’idea che esista Gorbaciov.
Intervista di Gloria De Antoni. 127
Che cosa le manca di più a Roma in questo suo periodo di «arresti domiciliari»? Mi manca la libertà. Non mi annoio ma vorrei avere la libertà di uscire, di andare a comprare magari le sigarette. Ho nostalgia di tutto, perfino della Camera. Là incontravo delle persone a cui penso con affetto e che mi piaceva incontrare. Anzitutto i miei amici del gruppo della Sinistra indipendente. Poi altre persone che mi rallegrava di vedere, alcune parlamentari del Partito comunista: Wanda Dignani, Alba Scaramucci. Con loro stavo bene. Quali sono i luoghi di Roma che le ispirano nostalgia? Amo certi luoghi dove ho vissuto momenti molto felici o molto dolorosi. Via Nomentana, dove c’è un convento in cui ero nascosta durante l’occupazione tedesca. Piazza Ungheria, dove abitano delle mie amiche. Le varie sedi della casa editrice Einaudi, dove lavoravo e dove non andrò più, perché mi sono dimessa in questi giorni, per le note vicende. E poi mi piacerebbe andare al cinema. Quale film andrà a vedere appena guarita? Uomini di Doris Dörrie, e La famiglia di Ettore Scola. A teatro invece ci vado poco. Quando 128
daranno Il Misantropo nella regia di Carlo Cecchi e nella traduzione di Cesare Garboli, andrò a vederlo. Le piace scrivere per il teatro? Sì, molto. Però adesso è tanto che non scrivo nulla. Certe volte uno ha voglia di fare dei dialoghi. E scrivere commedie è un po’ come fare poesie con le rime. Voglio dire che ad ogni battuta deve seguire la vera, giusta risposta. È molto divertente. La sola cosa che non mi piace di dover fare sono le didascalie. Una porta a destra, una porta a sinistra. Le didascalie non le faccio mai, perché in verità non so dove siano le porte. Se immagino una stanza, ne vedo l’atmosfera, ma le cose e le persone le vedo come nel ricordo, precise e intense ma anche confuse e lontane. Scrivere racconti la diverte meno? Oh no, mi diverte moltissimo. Scrivere è molto divertente e molto bello. Ma purtroppo uno non può scrivere sempre. Bisogna aspettare che suoni il campanello, cioè che sopraggiunga la voglia di scrivere, non vaga e confusa ma precisa e intensa, un visitatore che ha deciso di venirci a trovare.
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APPENDICE
Antonino Bellino
LUNGA VITA A NATALIA (15 maggio 1984, Villabate, Palermo)
Cara «Unità», ti scrivo per renderti partecipe della mia soddisfazione per il successo parlamentare ottenuto dal nostro partito con la decadenza del decreto-truffa. Lo spunto mi è venuto dalla lettura, lunedì 16 aprile, del testo dell’intervento alla Camera della scrittrice Natalia Ginzburg, eletta come indipendente nelle liste del Pci. Mai prima d’ora avevo letto una lezione di politica, economia e storia come quella, alla faccia di chi dice che i discorsi dei nostri compagni deputati sono discorsi con poca realtà. Il nostro partito nelle persone dei nostri deputati ha invece dimostrato a tutti che cosa vuol dire opposizione democratica: tutti gli interventi sono stati improntati a un’apertura verso quei gruppi sani che possono rispondere alle nostre proposte. Un fatto importante mi preme dirvi: cioè che questi giorni sono stati importanti anche perché hanno avvicinato un giovane come me al dibattito parlamentare (questo sconosciuto) e tutto ciò lo debbo soprattutto al discorso della 133
compagna Natalia Ginzburg. Mi sono commosso alle sue parole: è stata, ripeto, una lezione di vita e di storia. Cari compagni, vi prego di augurare a mio nome lunga vita a Natalia e insieme un grazie di cuore per aver rotto la barriera dell’indifferenza ed aver espresso con parole povere concetti così ricchi: per il contributo dato a tanta gente che lavora, studia e spera nella forza delle idee e delle ragioni della giustizia.
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Nilde Iotti
COMMEMORAZIONE DI NATALIA GINZBURG ALLA CAMERA DEI DEPUTATI (9 gennaio 1991)
Presidente. (Si leva in piedi, e con lei i deputati ed i membri del governo, per commemorare il deputato Natalia Ginzburg, sul cui banco sono stati deposti due mazzi di fiori). Onorevoli colleghi, ieri è venuta a mancare a tutti noi Natalia Ginzburg. Desidero rinnovare ai suoi familiari l’espressione dei profondi sentimenti di cordoglio della Camera dei deputati, insieme al mio personale dolore per la sua scomparsa. Sento in questo momento una difficoltà che viene dal bisogno di conciliare la solennità del ricordo che la straordinaria figura di Natalia Ginzburg esige – la grandezza della scrittrice, l’autorevolezza e il prestigio dell’intellettuale – con la specifica qualità della sua persona, riservata e discreta, che si traduceva in un impegno parlamentare tenace e concreto. In questo intreccio di autorevolezza e semplicità sta il carattere peculiare della sua persona135
lità, un carattere percepito e amato dalla gente, ben al di là della cerchia degli addetti ai lavori. Un carattere che veniva in primo luogo dalla limpidezza di una storia personale che ha attraversato grandi conflitti ed è stata segnata da grandi dolori pubblici e privati. Natalia Levi, nata nel 1916, partecipò sin dalla giovinezza, al fianco del marito, il grande germanista1 Leone Ginzburg, all’attività clandestina dell’antifascismo politico e culturale, visse con lui il confino, la Resistenza, sopportò la tragedia atroce dell’arresto e dell’assassinio di quell’uomo generoso e nobile, eroe della lotta per la libertà. Continuò da sola prima, poi insieme a Gabriele Baldini, il nuovo compagno della sua vita, il suo impegno politico e culturale. Scrittrice, organizzatrice di cultura, consulente editoriale, svolse un ruolo prezioso nei primi decenni del dopoguerra, in un’Italia ancora chiusa ed arretrata, accanto a grandi figure di impegno culturale e civile. Straordinari sono il vigore morale, l’originalità e l’acutezza dell’analisi, il richiamo a fondamentali valori umani che esprimeva in tutti i suoi interventi nelle aule parlamentari o sulla stampa, su temi come la pace, il disarmo, la famiglia, la con-
1 Così nella trascrizione originale del discorso di commemorazione. Leone Ginzburg era in realtà uno studioso di letteratura russa.
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dizione dei minori, la libertà delle donne, di cui comprendeva a fondo le sofferenze e le oppressioni, le ragioni e gli obiettivi di lotta. Con questi suoi caratteri, con questa sua presenza, ella ha saputo rappresentare in modo alto la responsabilità morale e civile dell’intellettuale e il suo ruolo nella vita collettiva per il progresso della società. Queste sue qualità, queste sue virtù rare, la pongono accanto alle grandi figure di intellettuali e di poeti di alto impegno civile del nostro paese, come artista e come grande moralista attenta alle pieghe più riposte dell’animo umano e dei suoi dolori. Con questi sentimenti, onorevoli colleghi, rivolgo di nuovo ai figli Carlo, Andrea e Alessandra Ginzburg e Susanna Baldini, e al gruppo della Sinistra indipendente l’espressione della nostra commozione, del nostro dolore, della nostra solidarietà.
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PROFILI
Natalia Ginzburg, nata Levi (Palermo 1916-Roma 1991), crebbe a Torino in una famiglia e in un ambiente antifascista. Sposò in prime nozze Leone Ginzburg, che seguì al confino in Abruzzo e al quale rimase accanto sino alla morte di lui, avvenuta nel 1944 nel carcere di Regina Coeli. Nel 1950 sposò l’anglista Gabriele Baldini. Esordì nel 1942, pubblicando il romanzo La strada che va in città. Entrata all’Einaudi, casa editrice per la quale lavorò per decenni, si affermò come una tra le scrittrici più significative nel panorama letterario italiano. Nel 1963 vinse il Premio Strega per il romanzo autobiografico Lessico famigliare. Dal 1983 sino alla morte fu deputata della Sinistra indipendente.
~ Michela Monferrini (Roma 1986) ha pubblicato il romanzo Chiamami anche se è notte (2014, finalista Premio Calvino 2012 e Zocca 2015), Muri maestri (2018) e Dalla parte di Alba (2023), romanzo biografico su Alba de Céspedes. È inoltre autrice di una guida letteraria dedicata al Portogallo di Antonio Tabucchi (Cercando Tabucchi, 2016) e del ritratto Grazia Cherchi (2015). Ha pubblicato due libri per ragazzi. Nel 2017 le è stato conferito in Campidoglio il Premio Simpatia per l’impegno nel sociale. 139
INDICE DEL VOLUME
Michela Monferrini, Una storia da scrivere. . . . . 5 Nota ai testi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27
Discorsi parlamentari Restiamo disarmati (15 novembre 1983). . . . . . . . . 33 Distanze incommensurabili (7 aprile 1984) . . . . . . 35 Le città e le case (10 maggio 1984) . . . . . . . . . . . . . 55 Il disarmo e la ragione (12 settembre 1987). . . . . . 61 Una legge difficile (15 marzo 1989). . . . . . . . . . . . . 69 Articoli L’onestà (20 maggio 1984). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 L’uomo che conosciamo (11 giugno 1984) . . . . . . . 81
Venticinque aprile (25 aprile 1986). . . . . . . . . . . . . 85 Sul centro di Roma (1o maggio 1986) . . . . . . . . . . . 93 I miei pensieri di donna (29 marzo 1987). . . . . . . . 99 Interviste Più fiducia, meno spazio alle schede bianche (1o giugno 1983) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105 Quando fra le donne la politica si fa lessico familiare (25 giugno 1983) . . . . . . . . . 113 È difficile, ma possibile, raggiungere le strade della gente (5 luglio 1983). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119 Un 8 marzo con Gorbaciov (10 marzo 1987). . . . . 127 Appendice Antonino Bellino, Lunga vita a Natalia (15 maggio 1984, Villabate, Palermo). . . . . . . . . . . 133 Nilde Iotti, Commemorazione di Natalia Ginzburg alla Camera dei deputati (9 gennaio 1991). . . . . . . . . 135
Profili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139